Laura Mantovano ricorda Severino Cesari, giornalista, scrittore, intellettuale e penna raffinata, una delle primissime firme del Gambero Rosso.
I carciofi hanno un cuore: non so perché ma quando l’altro giorno ho letto la notizia della scomparsa di Severino Cesari, la prima cosa che mi è tornata in mente, come un flash, è stato il titolo della prima delle conversazioni attorno a un tavolo che lui firmò sul Gambero Rosso, allora supplemento de il manifesto, nel 1989. Una piccola cosa rispetto alla sterminata produzione di un fine intellettuale, persona garbatissima, attentissimo ascoltatore, quale Severino è stato. Una piccola cosa che però dà la misura dell’intelligenza e della sensibilità dell’uomo che in punta di piedi un giorno nei corridoi di via Tomacelli propose all’amico da sempre (così Severino ricordò Stefano Bonilli il 14 febbraio del 2015 in uno splendido articolo in occasione del primo compleanno che gli amici festeggiarono senza di lui) di pubblicare sul Gambero Rosso degli insoliti racconti attorno a cibo e dintorni siedendo al tavolo diversi mondi. Era lui a scegliere con sensibilità e ironia i protagonisti della cena. A rileggere i nomi che si sono succeduti (Vittorio Foa, Natalia Ginzburg, Elvira Sellerio, Giulio Einaudi, Valentino Parlato, ecc) in alcuni casi vengono i brividi. Altri tempi, altre storie, certo, ma che stile! Ciao Severino.
Laura Mantovano
I carciofi hanno un cuore di Severino Cesari
Personaggi ed interpreti
Natalia Ginzburg, scrittrice
Vittorio Foa, sindacalista, studioso, scrittore, consorte di Sesa Tatò
Sesa Tatò, sindacalista
Renato Nicolini, ex assessore, inventore di un certo tipo d'estate
Enrico Ghezzi, sa tutto sul cinema e lo scegli per voi sulla Rete Tre
Patrizia Sacchi, attrice
Maria Ida Cartoni, cura l'ufficio stampa Einaudi
Stefano Bonilli, dalle barricate alle barrique
Daniele Cernilli, ovvero tutto quello che vorreste sapere sul vino
Severino Cesari, intellettuale e stenografo della serata
Fu da Paris, a Roma, nel cuore di Trastevere, che arrivammo, per così dire, al cuore del carciofo. Poiché anche il carciofo ha un cuore, come tutti, e può darvi molto, se sapete darvi a lui. E noi a lui ci concedemmo in quell'antica osteria dagli alti soffitti a cassettoni, che affaccia su piazza San Calisto. Ma non anticipiamo.
Fu su questo molto transromano convoglio Paris-Rome – diverso accento, non c'entra Parigi – che ci imbarcammo, come si sentì in dovere di precisare Enrico Ghezzi cortocircuitando Paris-Texas di Wim Wenders, prima ancora che la cena avesse inizio, e noi ci vergognammo subito un po': che avrebbe detto Natalia Ginzburg? Ma Natalia arrivò, nel suo cappotto di un caldo marrone, lo sguardo di un'allegria luminosa, e Vittorio Foa anche arrivò, proprio con l'aria di viaggiatore con le falde di un eterno berretto tirate giù, e sembrava gigantesco accanto a Natalia minuta, accanto a Sesa Tatò e Maria Ida Cartoni; Renato Nicolini e Patrizia Sacchi irruppero nella piccola sala come non avessero mai fatto altro nella vita che cene del Gambero, e fosse già d'obbligo ormai prenderle un po' in giro, e Stefano Bonilli capì allora che era giunto il momento. Lui e Daniele Cernilli avevano messo a punto con Dario Cappellanti, il proprietario del locale, un meccanismo delicato, che non poteva fallire, come i botti amorosamente costruiti in Giù la testa. Si trattava di interpretare al meglio la tradizione – una delle tradizioni – della cucina romana: con la sfida ardua di bere solo vini bianchi, e solo eccellenti. Si trattava nientemeno che di vivere bene, o benissimo, la normalità. Nulla di astrale, di prezioso per forza: una cena che io e te, ipocrita lettore, potremmo ripetere, o variare, senza dover vendere gli argenti di famiglia, che non possediamo. Con altri commensali o con gli stessi: scelti comunque per il piacere di vederli e ascoltarli parlare, l'unico vero criterio in casa del Gambero. Stefano diede insomma un'occhiata a Dario Cappellanti, e tutto cominciò davvero.
Stagionata nel vino rosso, senza coloranti né conservanti (“tranne, è inevitabile, un po' di salnitro”, come aveva spiegato), la bresaola di Paris, questo “prosciutto ebraico”, carne secca del cantone dei Grigioni e di Valtellina trasmigrata a Romaper vie che Braudel ahimè non spiegò, e nemmeno Cernilli, aveva in effetti un colore e una consistenza ben auguranti, trasfigurazione del controfiletto di manzo, esaltata da un filo d'olio di prima spremitura. “Ci siamo permessi un'eccezione alla regola del tutto-tradizione”, disse Stefano con un sospiro, mentre si versava con l'antipasto uno champagne “di un piccolo produttore: grande vuol dire milioni di bottiglie”, Barancourt Bouzy, cru 100%: “tutto cioè di un vitigno che dà una resa costante nel tempo”. “Sì, costante nel tempo come Renato quando va a teatro, stasera si è addormentato da Quartucci, all'Ateneo”, suggerisce perfida Patrizia. “Ma se mi è piaciuto il Becket di Quartucci, con Sandro Lombardi, bravissimo!”, si difende Renato, ma vola in suo soccorso alla grande Ghezzi: “appunto, appunto, quante volte quel Ronconi che abbiamo pure amato alla follia, l'abbiamo anche dormito, e al cinema, poi? 'La nave va' l'ho visto tre volte addormentandomi sempre in momenti diversi, ti svegli che hai perso qualcosa, ma con la certezza di ritrovare il film, e il piacere di questo, è solo confidenza maggiore, chissà con tanta nuova televisione “a schegge” non nasca questo...piacere dell'intermittenza: come in un pranzo, ci si concentra prima sul cibo, poi una persona attrae una persona, poi di nuovo...”
Arriva l'arzilla bollita, in filetti, il secondo antipasto: un pesce che una volta fu povero, la razza chiodata, e adesso la fa da padrone, almeno qui, stasera.
“O come i figli degli amici alle riunioni – fa Maria Ida – spesso si addormentano, confidenti, tanto si sentono protetti, è una dimostrazione di benessere”, “è vero, è vero”, rafforza Foa, ma nell'improvviso meditativo silenzio che segue, assorti in una nuova imprevista estetica del sonno, o forse nell'arzilla, è Natalia, imprevedibilmente, a rilanciare. Alza quei suoi occhi magnetici, è incantevole nella camicia bianca sotto il golfino da uomo a girocollo: “io trovo che dormire quando ci sono gli amici è una cosa bella”, dice nel suo parlare sommesso, nitido ed è come sentirsi dire che potrebbe anche addormentarsi lì, in piena confidenza, davanti a noi, anche lei perdere qualcosa per poi ritrovarlo, chissà...
Sarà stato l'elemento d'acqua così trasparente nelle due minestre che seguirono, gustosissima quella di quadrucci nel brodo di arzilla, che permette di non sciupare nulla, e quella di pasta e ceci; o il richiamo d'acqua dell'arzilla stessa, a suggerire a Ghezzi che Le nozze di Cadmo e Armonia di Roberto Calasso è un libro “acquatico”? Comunque sia, grandi lodi a Calasso non solo da Enrico ma anche da Natalia e Sesa Tatò, mentre per il Pendolo di Foucault si sente volare addirittura un ghezziano “fallito complotto”, e neppur tanto ironico“bravo” di Nicolini a chi confessa di averlo letto tutto... Ma il libro meno ovvio è Natalia a segnalarlo, dopo l'ammissione di Foa: “ho visto un documentario terribile in tivu, alcune immagini, dalla Russia sui campi di Stalin; che bravi a far vedere queste cose lì, e pensate che il Kgb addirittura richiedeva quanta forza-lavoro era necessaria qui o là, e si provvedeva, si imprigionava su misura...” Ma Foa è Foa, e dopo la serietà dev'esserci il guizzo beffardo-ma-vero: “vuoi vedere che adesso nell'Urss torneranno di moda gli anni pre-rivoluzionari, arte moda libri tutto ciò che vuoi”. “Vuoi dire gli anni venti, quelli dell'avanguardia”, è perplessa Patrizia. “Ma no, proprio quelli di prima della rivoluzione”...
Il motivo della forza lavoro coatta e di una Russia meno “sovietica” e più “paese dell'anima” trovano sintesi, ancora in Natalia: che ha appena letto Il paese dell'anima appunto, lettere 1909-1925 della poetessa, scrittrice, Marina Ivanovna Cvetaeva, ed è ancora sconvolta da un dettaglio preciso: “ma pensate, non c'era la legna da bruciare e per scaldarsi cominciarono a bruciare le scale, e lei doveva issarsi su al suo piano a forza di braccia... poi una vita così triste, e si ucciderà alla fine, nel 1939”...
Ci era stato servito, con le minestre, un grande vino bianco, un tre bicchieri nella Guida del Gambero, e Cernilli ne narrò la leggenda. “Il Vintage Tunina, creatura di una famiglia contadina, il padre era emigrato, in un certo senso simbolizza il modo corretto di intendere la successione. Gli Jermann, Angelo il padre e Silvio il figlio, si sono divisi i compiti. Al padre la vigna, al figlio la vinificazione...”. “Ma è straordinario”, ribatte Foa:“altro che alla Fiat”. Sarà perché nel pomeriggio ha visto cesare Annibaldi, alla Commissione lavoro della Camera, o perché è una sua precisa teoria, che alla Fiat sia come il regno sabaudo: sa unificare l'Italia solo con la forza delle armi, e della burocrazia, ma cultura egemone niente... “Si è visto infatti – intervenne Stefano – il Pc solleva questo vespaio convinto di fare il Davide con la fonda contro Golia... E si trova dietro invece tutti quanti”. E altro che modernità insiste Foa: le decisioni strategiche prese in funzione della successione imperiale, con Ghidella e la sua opzione autocentrica e di fusione con altri colossi “alla pari” cade anche la successione di umberto, e dunque ecco Romiti e Gabetti a far da allenatori al giovane Giovanni, figlio di Umberto, dato che l'altro rampollo...
“Giovanni Primo Giovanni Secondo Giovanni Terzo...”
“Che tipo però Ghidella...”
“Uno fortunato!”
“La genialità di Gjidella è la banalità del nome, pensa la Tipo che c'è di più banale, un tipo un tipino è proprio un tipo un tipetto...”
Se avete riconosciuto in quest'ultimo un tipico scambio di battute Bonilli-Ghezzi, siete nel giusto. Forse un altro modo di intendere il problema Fiat. Ma Vittorio Foa non si lasciò sopraffare. Incassò il mento tra le spalle, da buon pugile, poi con aria candida disse: “Forse dovremmo proporre al sindacato una diversa linea di comportamento. Ribaltare il problema. Se è vero, come dicono, che la Fiat sono gli operai, dovremmo proporre prima di tutto un diverso rapporto tra Agnelli e la Fiat, e anche tra Romiti e la Fiat”.
Arrivò il grande piatto. Il terreno di fronte a ogni commensale si coprì improvvisamente di fiori di zucca ripieni di provola e alici, filetti di baccalà, mozzarelline, crocchette di patate: al centro, il carciofo. Che forse non era mai stato così tanto alla giudia. Tutto, era fritto: cambiando ogni volta l'olio, “di primissima qualità, perciò del tutto digeribile”. Una foglia croccante dopo l'altra, il carciofo svelò un cuore morbido. “Anche questo è un tipico piatto ebraico”, sostenne Cernillicon disinvoltura. “La cucina romana autentica era povera, come tutte le cucine locali, e per questoinventiva. Gli ebrei a Roma erano i più poveri, dunque, per diffusione, molti piatti della cucina romana sono ebraici”. “Chi sa come è contenta mia figlia, che da domani diventa ebrea”, intervenne Foa. “Sapere che questa cucina è così importante”. “Diventa ebrea nel senso che sceglie ufficialmente di esserlo”, precisò Sesa.
Cernilli non si lascia interrompere. “Con il carciofo che fa diventare tutto dolce perché contiene molto ferro, berremo l'unico bianco che non fa questo scherzo. È un grande vino locale, fatto con la malvasia soprattutto, il Marino Oro di Colle Picchioni”.
“Ma la malvasia è dolce, mentre questo è un vino secco!”
“La malvasia è dolce se l'enotecnico lo dice. È un problema di saccaromiceti”, ribatte Cernilli, imperturbabile.
Forse Daniele non doveva essere così tecnico. Nicolini si lancia in una grande, monellesca Ode del Saccaromiceto, che mangia gli zuccheri, e rende il vino secco. Foa ricordò che un produttore suo amico gli inviava normalmente malvasia secca. Cernilli, al volo, seppe nominarlo: Girolamo Dorigo, di Buttrio. Questo innalzò di molto le quotazioni di Cernilli. Ma anche di Nicolini, che continuando sulla linea delle incomprensioni e difficoltà linguistiche raccontò la storia della Giunta rossa (di Roma) troppo buona col papa: “si incontrano e il papa chiede, per favore siate buoni, il 29 giugno fate una festa. Loro dicono perché no, si danno un gran da fare e preparano la festa. Poi scopre che lui voleva dire “il 29 giugno fate festa”, non lavorate, così come aveva detto, insediandosi, “se sbaglio, mi corigerete”. E quanto invece a cattiva creanza, lo sapevate che il mio destino di assessore fu deciso da uno schiaffo di Paolo Portoghesi? Era il 1976, ero caporedattore della rivista Controspazio, lui era il direttore e voleva pubblicare un suo progetto, dico no, forse non è il caso, schiaffoni reciproci e licenziamento: ma non lo dissi in pubblico, mi spacciai per dimissionato, fui costretto, insomma, a fare l'assessore...”
Fu un grande finale per la sorpresa del dessert: le misteriose, impossibili, gloriose palle di ricotta, prima compatte e fragranti poi destinate a frangersi e afflosciarsi morbidissime appena aperte, che meritano un applauso convinto di Natalia Ginzburg e di tutti alla signora Jole, la cuoca, moglie di Dario Cappellanti, “colei che vi ha coccolato finora” come disse Bonilli; e con le lodi convinte all'ineccepibile Moscato d'Asti Bricco Quaglia di Giuseppe Rivetti, un altro “tre bicchieri” e rivelazione per molti, che accompagnava il miracolo della ricotta. Ci fu anche, perché non dirlo, un brindisi di Nicolini al colesterolo buono, amico dell'uomo, e uno di Foa al socialismo che verrà. Dopo il liberismo. E a quello, ancora migliore, che verrà dopo il socialismo liberalizzato. Il resto è un'idea di Cernilli: come ci sono vini di luce e vini di sole, vini chiari del Nord e del Sud, può esserci una dolcezza del freddo, in una notte d'inverno a Roma?
L'articolo di Severino Cesari è apparso sul Gambero Rosso n. 25 supplemento a Il Manifesto del Febbraio 1989
Foto di apertura: Medusa Film, fotogramma dal film ‘La grande bellezza’ di Paolo Sorrentino