Il 9 luglio sarà presentata la Guida di Roma 2016 del Gambero Rosso. Un’occasione per fare il punto su un panorama gastronomico che nell’ultimo anno ha visto tanti cambiamenti. Ne abbiamo parlato con tre giovani personalità che vantano curriculum importanti, ma non hanno avuto paura di portare sulla scena capitolina progetti alternativi. E rimettersi in gioco da zero.
Luca Mattana e i suoi maestri
Faccia pulita e spirito da eterno ragazzino nonostante gli anni siano 39, gli ultimi dieci segnati da un’intensa gavetta in cucina. Una folgorazione che arriva sulla soglia dei trent’anni e da Cagliari lo porta a Roma, dove la scuola professionale del Gambero Rosso lo avvicina a quello che sarà il suo padre putativo, Igles Corelli una guida che continuerà a seguirlo nel tempo. È la Locanda della Tamerice il primo banco di prova importante per Luca Mattana. Con Corelli resterà 4 anni che lasciano un imprinting indelebile: “Igles mi ha dato le basi della cucina e la capacità di improvvisare. Mi ha insegnato cosa potevo e cosa non potevo fare, come e dove collocare i sapori. Questo tipo di creatività mi serve ancora moltissimo quando immagino o improvviso un piatto.”
Poi la voglia di nuove sfide lo porta a Roma, tre mesi intensi sotto lo sguardo vigile di Anthony Genovese. Cambio di brigata, giorni di lavoro duro e tanti stimoli, che instillano in Luca un entusiasmo nuovo: “Di Anthony ricordo il modo in cui riusciva a seguire tutta la cucina, la sua tensione e i suoi modi pacati, severi e precisi. Saltellava con la mente e con gli occhi su tutte le preparazioni. Lì ho capito cosa significa stare in una cucina con partite ben distinte, ruoli precisi: devi far bene il tuo per non compromettere il lavoro di tutta la brigata. Poi mi ha trasmesso la grande passione per il sapore: ci faceva assaggiare tutti i piatti prima di inserirli in menu, era un momento molto formativo… Tante spezie e sapori che non conoscevo. Mi ha dato grande apertura mentale, quello che cercavo dopo Igles”. Anche l’incontro con Piergiorgio Parini è una tappa fondamentale per le sua crescita: “Con Piergiorgio ho approfondito il mio lavoro sulle erbe, la frutta, la verdura, che rileggeva in modo fusion con contaminazioni dal Giappone, dal Nord Europa, pur restando molto italiano. Una cucina che mi è piaciuta moltissimo”.
Una ristorazione per tutti. Creatività e misura
Insegnamenti che oggi Mattana tiene ben a mente quando racconta la sua voglia di semplicità, la possibilità di coinvolgere il commensale con pochi ingredienti (di grande qualità), una buona preparazione, creatività e misura (tanto nella preparazione di un panino, quanto nell’ideazione di un menu d’autore): “Molte volte le grandi cucine si chiudono un po’, ma anche Igles lo diceva: la gente ha bisogno di un approccio differente con la ristorazione. È giusto che si trovi una formula ideale: non formalità, ma prodotti buoni, trattati bene e con rispetto, proposti al commensale per farglieli comprendere e fargli venire la curiosità di provare cose nuove. Il commensale deve essere introdotto a questo mondo, portato per mano. Mangiare deve essere una gioia.”
Come è importante il passaggio da Romeo, come sous chef di Cristina Bowerman, l’ultima grande personalità a cui ha prestato il fianco prima di cimentarsi con una cucina tutta sua, quella di Tiberino. Che non può fare a meno di trarre spunto dal modello di ristorazione che la chef pugliese ha saputo imporre sulla piazza romana con il locale di via Silla, modulato su un’offerta gourmet che sappia raggiungere un pubblico diversificato.
Luca Mattana e Tiberino. La sfida del gastrobistrot nel cuore di Roma
Dopo un anno da sous chef Luca non nega di aver pensato all’America – tra le ipotesi Daniel Humm e Daniel Burns a New York – ma alla fine ha scelto di accettare la sfida di Tiberino, con quanto ne consegue. Dopo pochi giorni la risposta del pubblico – straniero ma anche romano doc - è già buona, l’obiettivo è di migliorarsi strada facendo, l’ambizione di assurgere a gastrobistrot in stile parigino sulla scena capitolina: “Questo posto l’ho scelto perché vede la ristorazione a 360 gradi: ristorazione, gelateria, bar, cocktail… Devi saper proporre un panino diverso, non puoi non avere la carbonara in carta, puoi lavorare bene sulle materie prime e presentare accostamenti nuovi. Cerco di capire cosa può legare i prodotti tra loro: sapori che stanno bene insieme, ma che diano una diversa prospettiva. Poi comunque dobbiamo giocare sui sapori tradizionali. Lo faccio con un’insalata, dove introduco erbe aromatiche e sapori inconsueti - semi, geranio, menta irachena, nasturzio e un filo di olio al basilico - o con il benvenuto dello chef. La misura sta nel ponderare il livello di rischio. Cristina mi frenava sempre quando mi spingevo troppo oltre… si deve trovare un equilibrio. Ma vorrei trasmettere una nostra identità precisa, spingere il cliente a tornare e diventare un punto di riferimento sulla piazza romana. Ho iniziato a fare questo mestiere perché mi piaceva stare seduto a mangiare, chiacchierare e scoprire cose nuove, e questo voglio fare: chiacchierare di cibo con il cliente, confrontarmi con lui. Ci sto lavorando, io – isolano – su un’isola nel cuore della città.”
Pietro Platania. Dal Cordon Bleu al fast good di Banco
Nel quadrilatero animato del Porto Fluviale Pietro Platania – classe 1989 – va dritto al punto: “Banco come lo vedete oggi è solo un punto di partenza, piattaforma per un discorso più ampio di educazione e informazione sulla nutrizione e sull’impatto ambientale”. Non a caso il giovanissimo chef, che da poco più di un mese guida il successo del primo fast good della Capitale, tra trent’anni – smessi gli abiti di cucina – si vede a lavorare nel settore dell’ambiente. Per ora ha preso le redini di un progetto sviluppato con il fratello (mente dell'agenzia di comunicazione Superegg) e un terzo socio.
Il suo curriculum è quello di un ragazzo che ha scoperto la passione per la cucina a 19 anni, lasciato l’università per un apprendistato all’Antica Pesa e poi volato a Parigi, per frequentare la scuola del Cordon Bleu. Poi una carriera brillante, prima nella brigata del tristellato Le Bristol, poi a Milano nella cucina di Aimo e Nadia: “Lavorare accanto ad Alessandro Pisani e Fabio Negrini è stata una grande fortuna perché il livello della cucina e della materia prima trattata è altissimo, sono molto legato a quell’esperienza”. E ancora al fianco di Pietro Leemann che ne rinsalda l’idea di una cucina sostenibile e vincolata a una precisa filosofia. Con Andrea Aprea, che lo accoglie al Vun, accetta la sfida di inseguire la stella, e la ottiene. Poi torna a Roma, dove si appassiona al Rome Sustainable Food Project di Alice Waters, che lo spinge a partire alla volta dell’America, per due intensi mesi a contatto con il lavoro gastronomico e didattico di Chez Panisse.
Banco. Progetto sociale e sostenibilità ambientale
Tornato a Roma, l’idea per concretizzare gli anni di formazione: “Volevo cercare di traslare tutto quello che avevo imparato e la mia visione sulla cucina naturale, ma a differenza di un ristorante di alto livello che veicola il messaggio solo a un’elite economica, per arrivare a tutti. E con mio fratello ci siamo detti: qual è la grammatica da mutuare, la cosa più pop da utilizzare come strumento per comunicare questi contenuti? Ridendo abbiamo pensato al McDonald’s: il fast food che sposa una causa apparentemente in contrasto.”
Nove mesi per sviluppare il concept, mentre si batteva il territorio laziale alla ricerca dei produttori da coinvolgere, perché la materia prima è essenziale: farina di farro integrale per i roll, pollo (unica concessione ai carnivori) e uova di San Bartolomeo, formaggi di capra di Monte Jugo, ricotta di pecora di Ecofattorie Sabine, patate da agricoltura biologica nel viterbese, tonnetti del Tirreno, olio evo laziale come le verdure scrupolosamente selezionate (con una ricerca particolare sulle erbe di campo che danno sprint alla sezione Insalate), zucchero non raffinato e cioccolato equo e solidale.
Novità per il futuro. Banco Caffetteria e nuove aperture in Europa
La risposta del pubblico è stata buona. “Abbiamo fatto un lavoro importante sulla gestione della cucina e degli spazi ridotti. Qui tutto è a vista, dobbiamo essere in grado di coordinarci.” D’altronde in brigata c’è chi proviene da un passato con Oliver Glowing, chi da importanti ristoranti londinesi al fianco di chef asiatici, chi è stato direttore di sala e ora gestisce il desk delle ordinazioni.
Ed è solo l’inizio. Presto comincerà il delivery in bicicletta, poi Banco conquisterà l’intero isolato tra via Ostiense e via delle Conce: il magazzino si trasformerà in laboratorio e l’angolo opposto dell’edificio in Banco Caffetteria (forse già entro Natale): “Sarà un modo per sopperire alla mancanza del servizio di mattina, faremo un bel lavoro sul caffè con la caffetteria sociale, nonostante si tratti di un luogo minuscolo. La colazione sarà sempre molto nutriente, da bere estratti imbottigliati con il tappo sigillato, la sera piccoli aperitivi semplici, qualche alcolico di qualità, buon vino, buona birra.”
Nessuna mancanza dell’alta ristorazione? “Ho dato da mangiare a russi, giapponesi, una platea internazionale, ma non è quello che voglio fare…Se alzi i prezzi inevitabilmente non puoi arrivare alla gente. Voglio fare una cosa che abbia un impatto diverso, lavorare con i bambini. La ristorazione stellata mi è servita per imparare, ma non mi interessa come tipo di fruizione, anche se rispetto il lavoro di ricerca dell’eccellenza. Però sono convinto sulla mia direzione.” Facendo ben attenzione al food cost, altissimo, che rischia di essere un ostacolo sul cammino di una ristorazione democratica di alta qualità: “Per ora ci stiamo lanciando, l’obiettivo è la standardizzazione di un marchio, la fidelizzazione e l’abbinamento di un’immagine forte. Per puntare alla replicabilità: o apriamo altri posti o falliamo.” Possibilmente nelle grandi città europee, avendo cura di individuare realtà gastronomiche locali che possano supportare lo spirito di Banco con prodotti del territorio e una salda identità gastronomica. Mantenendo ovviamente l’imprinting italiano.
Giuseppe Solfrizzi. I primi mesi di Le Levain: un bilancio
Per due realtà che muovono i primi passi in città, c’è un altro modello “alternativo” che – a distanza di sette mesi dall’apertura - sembra aver funzionato. Questo è quello che ci racconta un soddisfatto Giuseppe Solfrizzi, mente e anima della boulangerie trasteverina Le Levain: “Conquistare un quartiere con un’identità così marcata è stato difficile, ne vado molto fiero. Dopo una piazza come questa ti resta da conquistare Parigi e Tokyo. Qui la gente sa cosa vuole, cosa mangia. Siamo riusciti ad attecchire su un tessuto sociale molto difficile: se porti la pasticceria francese a Trastevere, abituata alla sue tradizioni, l’offerta deve essere eccellente. E proprio il confronto con la clientela mi rende più esigente ogni giorno che passa”. Anche se all’inizio, per un maestro pasticcere di grande formazione come Solfrizzi (in primis la sua esperienza con Ducasse) non è stato semplice confrontarsi con la nuova dimensione: “La difficoltà più grande è stato il passaggio dal lavorare in laboratorio all’assumere il ruolo di regia, gestire il personale e il rapporto con il pubblico. Io sono molto rigoroso e pretendo altrettanto rigore da tutto il mio team, ma il cliente per fortuna sa riconoscere gli sforzi.”
Rigore e versatilità. Gli strumenti per crescere
Ora l’obiettivo è formare un gruppo che garantisca una qualità costante, nonostante la carenza di formazione che un pasticcere come lui, abituato all’ambiente francese, riscontra sulla scena italiana e romana: “In Francia dopo 4 anni di panificazione i ragazzini escono a 20 anni che sono più bravi di me. È tutto prestabilito: tre anni di apprendistato, poi il posto da commis o demi chef…un iter che ti porta diretto all’obiettivo. In laboratorio lo chef non deve dire niente, qui devi ancora spiegare le basi, molto spesso cominci da zero. Io però sono curioso di vedere se riesco a creare una brigata mia e per questo lavoro molto su di me. Devi essere una guida decisa, sicura, e devi stare dietro a tutto.”
Intanto l’offerta ha trovato un suo punto di forza nella proposta salata: a pranzo Le Levain porta a casa oltre il 50% del suo fatturato. E il banco ne è la conferma: mini baguette, panini gourmet, croissant imbottiti e focacce, insalate e gazpacho, panzanella e quiche. Per quanto riguarda la pasticceria si lavora sempre su una linea essenziale, elegante e sobria: “Le cose che piacciono di più e ci identificano sono la Django e la Moana. E questo è importante: trovare una propria identità. Ci sono posti dove è tutto di altissimo livello, ma non riesci a trovare l’anima. Anche i croissant piacciono molto, i francesi ci fanno i complimenti.”
Alta pasticceria per tutti. La gestione del food cost
Certo, anche qui, il food cost rappresenta un problema da gestire: i prezzi sono ancora competitivi, Solfrizzi si scaglia contro una certa “criminalità” che governa le leggi della pasticceria romana, per cui “una tartelletta arriva a costare 8 euro!”. Però è pur vero che i prezzi dovranno essere ritoccati al rialzo, soprattutto per la qualità della materia prima utilizzata. Ma il compromesso è possibile: “L’alta pasticceria deve essere accessibile, da Pierre Hermé, in centro a Parigi, con 5 euro mangi una monoporzione stupenda! Ducasse nei suoi ristoranti ti dà la possibilità di fare un pasto a prezzi accessibili. Questo è il mio obiettivo.” E il viavai di clienti golosi - nella Roma deserta di un sabato assolato di luglio – ringrazia.
Tiberino | Roma | Isola Tiberina, via Ponte Quattro Capi 18 | tel. 06.6877662 | www.tiberino.eu
Banco | Roma | via Ostiense 40/a | tel. 06.57300959 | www.bancofastfood.com
Le Levain | Roma | via Luigi Santini 22 | tel. 06.64562880 | www.facebook.com/LeLevainRoma
a cura di Livia Montagnoli