Immaginate i migliori cuochi del mondo. I più talentuosi, innovativi, i più liberi da regole e preconcetti, metteteli insieme con l'orchestrazione di uno dei God of Food (la definizione è del New York Times) e restate a guardare.
Walk with us
Il prossimo evento firmato Gelinaz, il 28 febbraio a Londra (sold out a poche ore dalla vendita online), è una supercena con 14 cuochi da tutto il mondo. Riuniti in coppie prepareranno dei menu di 4 piatti che interpretino i 2 menu firmati da Isaac McHale del The Clove Club e James Lowe del Lyle’s, i due padroni di casa inglesi. In sintesi: 2 ristoranti, 14 chef, e menu degustazione da 16 portate. I dettagli, anche dove cucinerà ogni coppia di chef, si scopriranno solo la sera stessa, in pieno stile Gelinaz. Gli ospiti hanno acquistato il biglietto al buio, sicuri che le sei ore di questa performance gastronomica saranno memorabili, come lo sono sempre gli eventi pensati da Andrea Petrini insieme ad Alexandra Swenden. La fiducia che si richiede ai clienti fa il paio con quella pretesa (e ottenuta) dagli chef, che in queste occasioni svestono i panni delle rockstar per tornare a essere persone, dotate di talento e intuizione, ma pur sempre semplice materiale umano, intellettuale, creativo. Conta l'effetto sorpresa e la voglia di mettersi in gioco lasciandosi alle spalle l'ordinario e il rassicurante: sono gli elementi comuni di questi eventi che vivono di una quasi clandestinità di risonanza mondiale. Gelinaz è un organismo mutevole che mira a scardinare le abitudini sonnacchiose di un mondo sempre più sotto i riflettori e, proprio per questo, sempre più restio a confrontarsi con il rischio controllato di una creatività fuori dalle regole.
Andrea Petrini
Artefice è Andrea Petrini, tra i 13 Gods of Food per il New York Times. Italiano di stanza a Lione, è scopritore di talenti e starmaker. Uno che le stelle le alimenta a suon di stimoli, con l'incentivo del confronto continuo, della scoperta imprevista, della cultura - cibo per la mente, dell'arte, della connessione di persone, cose e pensieri. Un generatore di idee e di suggestioni culturali. Un creatore di eventi (Care's in Alta Badia o Epicurea a Milano, gli ultimi in ordine di tempo). Uno che apre varchi e svela orizzonti. Uno che ragiona in termini di mondo tutto e che non vede confini se non quelli che impone a ognuno la propria mente. Uno che i limiti sì, ma ci sono per superarli. Uno per cui la cultura (non solo gastronomica) è la griglia attraverso cui avere l'esperienza delle cose. Democratico, intellettuale, esclusivo, unisce riferimenti colti, linguaggio alto e attitudine rock. Lui orchestra quella corrente sotterranea che varca i confini e riunisce le migliori teste pensanti del panorama gastronomico mondiale. Le voci più originali, radicali, libere dell'universo della cucina. Quelle che scoprono e molto spesso riscoprono e aprono nuove frontiere. Con loro parla, mangia, ragiona di cucina, ma ancor di più di cibo e di idee. E coinvolge in eventi da ogni parte del mondo. Lo abbiamo incontrato per farci raccontare del prossimo Gelinaz. No, non quello del 28 febbraio, perché l'immediato futuro è già roba vecchia per lui.
Walk with us di Londra è andato tutto esaurito in pochissime ore. Ci saranno altre opportunità per partecipare a questa cena?
L'appuntamento del 28 febbraio a Londra è la prima tappa di Walk with us: a questa seguiranno altre 3 serate in giro per il mondo, forse una anche in Sudamerica. Dove è da decidere. E sarà l'occasione per annunciare il prossimo Shuffle di fine anno.
Cosa è Shuffle?
È una passerella di tecnica, saperi e rapporti umani: una trentina di chef si scambiano ristorante, casa e vita per 4 giorni e mezzo. Gli scambi sono estratti a sorte, quindi non è detto che un cuoco vada in un locale equivalente al suo. Per tre giorni ognuno aiuta lo staff della cucina che lo ospita, non al pass al posto del padrone di casa, ma in servizio. È un ammutinamento del Bounty: un ribaltamento dei rapporti gerarchici, perché la cucina è in mano alla brigata, quella che lavora quando lo chef va fuori. Con i congressi abbiamo creato anche tanti schiavi sempre in cucina.
Con lo Shuffle cosa cambia?
Con lo Shuffle lo staff prende le redini. Dopo tre giorni passati a studiare i prodotti locali e la cucina in cui è ospitato, e a dare alla brigata più informazioni possibili, il cuoco inventa il suo menu, rileggendo la cucina del ristorante con le sue competenze e senza prodotti o aiuti da casa sua. E deve essere un'interpretazione il più possibile radicale e personale. Nello Shuffle l'accento è sull'autonomia dello staff kitchen.
Gelinaz sembra una impro jazz. È difficile far marciare insieme gli chef?
È l'improvvisazione del dopo free jazz. Siamo in un momento in cui c'è una crisi latente e in cui si cercano le formule per far funzionare i ristoranti, c'è bisogno di scoprire e studiare altre culture, prodotti e nuove vie. Gelinaz è visto dai fondatori e dal gruppo storico come uno spazio di libertà e un luogo dove cucinare, perché i cuochi hanno perso la strada della cucina, sono presentatori, propagatori di idee, vanno nei simposi e nelle conferenze. Gelinaz li riporta in cucina, e dove accettano un certo numero di regole: è una valvola di sfogo e di libertà.
Parola d'ordine: niente ego. Ma come selezioni i partecipanti?
Senza falsa modestia: tanti, forse tutti vorrebbero far parte di Gelinaz, e di cuochi bravi ce ne sono centinaia. Ma se non sei un ottimo cuoco e una brava persona, umanamente interessante, non basta, e se vuoi usare Gelinaz per farti promozione, sei fuori. E infatti qualcuno non è rimasto. Non è un supergruppo di star chef o una boy band...
E allora che cos'è? Definiscilo...
E' una comunità di persone che hanno uguali stimoli intellettuali e culturali, un gruppo di amici anche diversi tra loro che devono condividere idee. Ci sono riferimenti culturali comuni. Con David Chang è bastato sentire la musica che aveva da Momofuku per sapere che c'era sintonia.
Fuori i nomi.
Sono in tanti. Ci sono gli storici: Pierangelini (da cui tutto ha preso il via), Aduriz, Bottura, Nilsson, Scabin, poi ci altri arrivati dopo: Aizpitarte, Redzepi, Virgilio Martinez, Ana Ros. Lavorano sulla stessa scia: l'indipendenza, la cucina naturale atta a improvvisazioni e rinnovamenti, meno classica, meno francese e molto vegetale. È la terza via, la risposta all'impasse arrivata dopo il declino della francese e la risacca della spagnola.
Dici che le guide sono roba superata, ma che ne pensi dei congressi? Hanno ancora un senso?
Ci saranno ancora ma non mi sembrano più così fondamentali. Agli inizi c'era il lavoro di Santos nei Paesi Baschi, ma era 18 anni fa, sembra preistoria: allora i cuochi non si incontravano, non condividevano e c'era ancora il segreto di cucina. E soprattutto praticamente non esisteva internet. Adesso i cuochi sembrano commessi viaggiatori: arrivano, fanno il loro speech, presentano i video e i piatti fatti apposta per l'occasione e portano tutto questo nei vari congressi in tutto il mondo: sono ormai eventi commerciali; ti pare Gesù Cristo e il tempio con i farisei. La verità è che i cuochi non hanno più bisogno di questo per la comunicazione, ormai la sanno fare benissimo. I congressi servono a mettere in contatto le persone offrendo loro i 15 minuti di visibilità. Ma anche questo non serve più.
Okay, ma allora cosa serve?
Serve un ritorno alla cucina e allo scambio culturale senza preoccuparsi degli sbocchi commerciali o a come coinvolgere il pubblico. Serve una formula più intima: 10 persone con qualcosa di importante da dire che non sia un bluff. Il modello che ha senso ora è il Mad di Copenaghen dove si parla, si discute, si presentano riflessioni su un tema definito, con zero sponsor e zero compromessi, e infatti nel 2015 mancavano i soldi e non è stato fatto. Ma lo spirito è quello giusto e si vede: è una festa, un ritrovo fuori dallo sfoggio autopromozionale, senza la competizione che c'è nei congressi, dove si litiga per l'ordine di apparizione, con la standing ovation dei fan per i nomi più importanti. Tra le cose più interessanti poi c'è il Sangue na Guelra di Lisbona, che ha trai riferimenti il Postrivoro italiano. Il nome suona un po' come Sangue nelle vene o se preferisci Sangue e coglioni, lì ci sono i sous chef in prima fila. E poi c'è l'atmosfera che si respira ora in Portogallo che è in un momento di fermento culinario bellissimo.
Quale è il Gelinaz che ha funzionato di più?
Gelinaz vive dell'appropriazione dell'identità di qualcun altro, dell'interpretazione, ed è sempre differente. In Belgio abbiamo preso una ricetta di uno scrittore belga di fine 800, c'erano biglietti con prezzi diversi, anche da dividere tra più partecipanti, mentre quelle di New York abbiamo dirottato una 20ina di chef nel ristorante di Wylie Dufresne di WD-50, per fargli un omaggio e ognuno poteva invitare solo due persone. Dal punto di vista del pubblico e dei media Shuffle ha avuto più successo di tutti: 1300 persone in tutto il mondo hanno cenato quasi in contemporanea nei 37 ristoranti coinvolti. Ogni ristorante manteneva il numero di coperti e il prezzo del menu che ha di solito. Non era mai successo che uno come Ducasse andasse da uno come Camanini, che neanche conosceva. E che una cena di Dominique Crenn costasse quanto quella dello Chateaubriand in cui era finita (in genere a San Francisco costa tre volte tanto).
C'è una sostenibilità economica?
Sfortunatamente no, è totalmente antieconomica e ci ruba tempo che troviamo fuori dai rispettivi lavori. Già solo i costi dei biglietti aerei per far viaggiare 30 chef è altissimo, e anche se in economy. Ma tra loro c'è un militantismo incredibile: accettano viaggi sfiancanti e scomodi, anche 30 ore di volo per arrivare dall'Australia. I cuochi si chiedono per chi cucineranno ma ogni volta c'è un set diverso e la formula cambia e così costi e guadagni. All'evento di New York non c'era pubblico, né giornalisti, avevamo affittato degli appartamenti a Brooklyn dove siamo stati tutti insieme per un po' condividendo stanze e bagni. Una comunità.
Potresti fare lo stesso se non avessi familiarità con gli chef?
Sarebbe più difficile perché falserebbe i rapporti, ci sono rapporti umani, fiducia reciproca, senza sarebbe molto più difficile.
Ti vedi più come un critico o come un organizzatore?
Di base sono un giornalista, scrivo per testate di tutto il mondo e organizzo eventi che non sono certo un modo per guadagnarsi il pane. In certi casi ci può essere una sovrapposizione o addirittura un conflitto di interessi.
E per te le due figure sono sovrapponibili?
Non mi interessa anche perché i confini tra le cose sono sempre più labili, pensiamo alla Michelin che ormai è nelle prenotazioni. Quel che voglio è avere un rapporto umano con i cuochi che mi interessano per quello che fanno o cucinano. C'è complicità ma anche molta onestà nel dirci che non va in quello che facciamo. Per cui non vedo problemi nell'avere confidenza con loro.
Che strada dovrebbe percorrere il giornalismo di settore?
I giornali hanno meno soldi e non investono per cose di qualità, fanno articoli formato francobollo, non danno valore alla scrittura. Ogni volta che leggo il New Yorker penso che ho imparato qualcosa, ma è un'eccezione. Bisogna parlare di cibo in modo diverso, e qualcuno inizia a farlo, fuori dal mercato, dalle grandi tirature, senza interventi pubblicitari dei soliti grandi marchi. Bisogna pensare che c'è chi interessa il Tre Stelle come simbolo e chi cerca il prodotto artigianale, si deve ritrovare la prospettiva della nicchia. In Italia penso a Dispensa e Cook.Inc
Che rimprovera alla stampa italiana?
Si può continuare a scrivere soltanto italiano? Chi ci legge? Pubblicare un cartaceo soltanto in italiano o in tedesco in Germania è una follia.
Quale cucina italiana può rappresentare un modello oggi?
L'Italia ha cuochi straordinari, ed è un'eccezione al mondo, dove i 40enni di 10 anni fa (Cracco, Cedroni, Bottura, Scabin) avevano già preso il potere ed erano già grandi. Ma sono tutti dispersi, i cuochi non sanno neanche parlare un'altra lingua e lo stato italiano se ne fotte della cucina, tutto è scollegato. Però questo, se da una parte è una pecca, dall'altra assicura una autonomia delle persone. In Spagna 15 anni fa in cui tutti cucinavano gli stessi prodotti con lo stesso stile. Ben venga il dispersionismo italiano, ma certo non ci aiuta.
Quale è il futuro della cucina?
La cucina deve cercare nuove vie, può averle a 35 euro o oltre i 350, ma nel piatto ci deve essere per forza qualcosa di personale: quando il modello diventa un idioma unico bisogna trovare altre forme. Penso a una cucina fresca, spontanea, che sappia cambiare con le stagioni, che abbia tecnica, e che non abbia un solo pubblico. Ci metto Mathieu Rostaing del Caffè Sillon di Lione, ci metto Riccardo Camanini del Lido 84, e anche Philip Rachinger del Mühltalhof in Austria. Penso a un Niko Romito che rimpiango di aver conosciuto solo ora: come configurazione umana, morale, geografica, economica potrebbe essere il Michel Bras italiano.
a cura di Antonella De Santis