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Food trend 2017. Dall’America i cibi e la ristorazione di tendenza per l’anno che inizia

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Individuare i trend gastronomici per l’anno entrante può essere semplicemente un gioco, ma anche un mestiere serio. Negli Stati Uniti la National Restaurant Association stila una classifica ragionata da oltre dieci anni. E molte delle tendenze che si profilano oltreoceano, dopo qualche tempo andranno per la maggiore anche da noi. Eccole. 

Indovina cosa c’è in tavola

Un tempo era l’oroscopo. Pronostici, attese e speranze per l’anno nuovo canalizzate nelle previsioni di astrologi e presunti oracoli dei giorni nostri. Oggi quel che vale per le aruspicine su segni zodiacali, fortuna, amore e denaro, è vero pure per i trend gastronomici. Un terreno difficile e complesso, che diverte molti e dà lavoro a tanti altri - consulenti di settore e società di comunicazione in testa – dove la prima vera tendenza da segnalare è proprio la corsa al pronostico: cosa mangeremo nei prossimi 12 mesi? Chi sarà più capace di intercettare i gusti del pubblico? Quali gli alimenti e le formule di ristorazione sulla cresta dell’onda? Con il necessario beneficio del dubbio, come ogni volta all’inizio di un nuovo anno, ci divertiamo a recepire gli stimoli che arrivano dall’altra parte dell’oceano, perché se qualcosa di fondato c’è in questa pretesa caccia ai fenomeni di tendenza, la considerazione oggettiva è che tante abitudini all’ultimo grido ormai diffuse sulle nostre tavole, qualche mese (anno) prima hanno tenuto banco negli States. E proprio dall’America arriva uno degli strumenti più longevi e mirati per intercettare gli ipotetici “saranno famosi” del mercato gastronomico e ristorativo.

L’indagine della National Restaurant Association. Etnico, fast e street

Da oltre 10 anni, infatti, la National Restaurant Association degli Stati Uniti interroga più di un migliaio di chef sulle previsioni per l’anno entrante. Poi, i risultati, suddivisi per categorie tematiche, sono prontamente pubblicati online. La domanda di rito è scontata: cosa dobbiamo aspettarci nel 2017? Si comincia con i prodotti più attraenti: nella top 20 dei cibi di tendenza troviamo conferma di alcuni movimenti già in atto da qualche tempo a questa parte, come l’approfondirsi dell’interesse per la cucina etnica più autentica -  ramen e poke in testa – o l’imperversare dello street food, che non sembra conoscere limiti e definisce nuovi mercati della ristorazione, come testimonia la diffusione di food hall e catene di fast food d’autore (con quanto ne consegue in termini di messa a punto di piatti ispirati al cibo di strada).

I cibi di tendenza del 2017

Ma tra le tendenze da tenere sott’occhio nell’anno che viene si segnalano anche la diversificazione dei tagli di carne richiesti dal consumatore – lingua, coda, zampe di galline, orecchie di maiale - la valorizzazione dei prodotti home-made (insaccati e conserve compresi), l’abbondanza su tanti menu di semi e cereali alternativi (dalla chia alla quinoa, dal kamut al farro, all’amaranto), varietà di frutta e ortaggi rare e dimenticate, pesce da pesca e allevamenti sostenibili, salumi di mare, pietanze affumicate o alla griglia, dolci non dolci che indugiano al salato, caffè cold brew. Tra i sapori esotici il 2017 dovrebbe privilegiare prodotti e tradizioni in arrivo dall’Africa, ma anche l’influenza gastronomica delle Filippine. Previsioni che fanno il paio con i pronostici sui concept che andranno per la maggiore, dalla verità della formula casa e bottega (ristoranti con l’orto, impianti brassicoli con somministrazione, caffetterie con torrefazione, tavole devote ai prodotti home-made) all’irresistibile attrattiva dei side project che coinvolgono gli chef più noti nella definizione di pop up o insegne fast and casual (l’ultimo caso è quello di Mark Ladner, a New York, pronto per conquistare il mercato con il suo Pasta Flyer).

Kit fai da te, sostenibilità, educazione gourmet

Al successo di servizi a domicilio che chiamano in causa lo chef amatoriale in ciascuno di noi, con kit pronti all’uso e ingredienti selezionati per realizzare ricette perfette. Obiettivi primari anche la sostenibilità, la territorialità, il ritorno alla semplicità, la riduzione degli sprechi; ma questi sono temi sempre attuali in agenda ormai da qualche anno. Più interessante (e preoccupante?) riflettere sulla diffusione di menu gourmet dedicati ai più piccoli. A loro si rivolge anche il bilanciamento di valori nutrizionali e l’elaborazione di menu salutari sentiti come priorità da tanti ristoratori. Con la speranza di riuscire a trasformare l’ordinario in straordinario, ridisegnando bisogni e desideri dei consumatori per incentivare il mercato della ristorazione. Ma anche questo è un assioma sempre valido.

 

a cura di Livia Montagnoli


Ricette di Natale dal mondo. L'Albania di Fundim Gjepali

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Il Natale in Albania era una festa proibita negli anni del regime. Per questo è molto difficile trovare delle ricette delle feste. La cucina era un simbolo borghese, e quella del Natale era da cancellare. Così è stato. Ma qualcosa si è salvato. E ce lo racconta lo chef Fundim Gjepali dell'Antico Arco di Roma.

La storia dell'Albania, anche quella culinaria, è la storia dell'eliminazione di una società e della sua memoria. “50 anni di comunismo hanno annullato un popolo” dice Fundim Gjepali chef dell'Antico Arco di Roma. Albanese di Shiak, vicino Durazzo, approdato adolescente a Roma 21 anni fa, oggi è un riferimento per la cultura del suo paese di origine. Nel paese delle aquile ha anche un ristorante, il Padam, in un elegante edificio degli anni '30 di Tirana.

Fundim Gjepali

Durante il comunismo erano vietate le feste religiose”ricorda Fundim “qualcuno le celebrava di nascosto. Il primo vero Natale, da noi, è stato nei primi anni '90, dopo la caduta del regime: ricordo che sono arrivati anche Madre Teresa di Calcutta e Giovanni Paolo Secondo”. Ma nel frattempo le radici erano andate completamente perse. Non si ha più memoria di quel che è stato prima. Soffocato e cancellato da mezzo secolo di regime e invaso, poi, dalla cultura introdotta dalla televisione e dagli altri mezzi di comunicazione di massa, che hanno portato nelle case l'immaginario (fortemente edulcorato) dell'occidente e, soprattutto, della vicina Italia, presto diventata un miraggio, “è il paese che ha accolto di più il mio popolo: ci sono 500mila albanesi regolari”. Così è arrivata la cultura nostrana in quella terra affamata di ritrovare una propria identità. Ma non è andata così: la storia politica dell'Albania è la storia di una società di cui si sono perse le tracce e che, in tempi recenti, ha assorbito una cultura straniera.

 

Dal Natale al Capodanno

Essendo vietate le feste religiose, il Natalecon i suoi riti, anche quelli più domestici come l'albero decorato, era bandito e sostituito in blocco con il Capodanno. “Da noi esisteva l'albero del Nuovo Anno, e il Babbo del Nuovo Anno, tanto che quando sono arrivato in Italia, a 14 anni, avevo un po' di confusione: ogni mio simbolo di Capodanno lo trovavo quasi identico riferito al Natale. Ci è voluto un po' perché capissi cosa era successo davvero”. L'Albania è una nazione dove la religione è molto presente: “un paese a maggioranza musulmana anche se tendenzialmente laica, con cattolici, soprattutto al nord, e molti ortodossi. C'è molto rispetto per le religioni. Ma per 50 anni tutti i culti sono stati vietati”. I credenti praticavano di nascosto, gli altri assistevano inermi all'annullamento delle proprie tradizioni. Il Natale, semplicemente, non esisteva e tutt'ora è una festa poco sentita. “Alcuni vanno nelle chiese antiche fuori dalle città a celebrare il Natale, ma per il resto c'è poco” racconta, e fa l'esempio del suo ristorante di Tirana: “è prenotato già da settimane per il Capodanno, perché è normale per la gente festeggiare, anche al ristorante, pure se ormai i prezzi sono quasi come quelli italiani; per Natale invece si è faticato. Non si usa celebrarlo a tavola”.

 

La cultura dimenticata

Lo sguardo di Fundim coglie facilmente le differenze di due paesi tanto vicini. “In Italia è tutto un raccontare come sono fatti i tortellini o il brodo del 25, o quale è stato il menu della Vigilia. In Albania tutto questo non accade”. Un tempo si mangiavano i cibi più pregiati tenuti da parte per l'occasione, la frutta secca, e altri prodotti custoditi per le feste. Poi più niente. Ma questo non riguarda solo il Natale: la cucina tradizionale albanese è quasi scomparsa, cancellata dal comunismo. Era fortemente influenzata da quella ottomana: in 500 anni di storia albanese, nelle comunità, anche quelle cattoliche, sono entrate suggestioni mediorientali “e non turche, come spesso si dice”. Negli ultimi 20 anni c'è stata l'invasione della tradizione italiana, vuoi per vicinanza geografica, vuoi per vicinanza culturale: ci sono moltissime cose in comune tra i nostri piccoli centri di provincia e l'Albania di un tempo. “Oggi la pasta e altri piatti italiani si trovano ovunque in Albania. Se sono buoni, poi, è un altro discorso. Al Padam, nel menu delle feste, i fuori menu sono quasi tutti italiani, persino lenticchia e cotechino per il veglione. E la gente li conosce e li apprezza. Ma prima non era così”racconta ancora Fundim “vengo da una famiglia importante, di proprietari terrieri, dove un tempo si preparava tutto in casa. Era una cucina di matrice ottomana, che non c'entrava niente con quella di oggi”. Il racconto continua con quel che è accaduto dopo il 1945. “C'è stata una specie di annientamento anche di questo: la cucina era un simbolo borghese, per questo doveva essere cancellata. Con l'introduzione del programma di alimentazione sociale, che veniva insegnato nelle scuole di cucina. Era lo stesso un po' in tutti i paesi ex comunisti. E così è accaduto anche in molti altri ambiti delle arti e della cultura. Con la cucina e il divieto di festeggiare, hanno tolto alle persone anche l'entusiasmo, e cancellato una parte di umanità”.

Il vuoto dura ancora oggi, difficilmente sanabile, perché non esistono testimonianze scritte delle tradizioni di un tempo: “ho parlato con il figlio del re, tornato da poco dopo un lungo esilio, gli ho chiesto le vecchie ricette della sua famiglia: non ha trovato nulla, nulla di scritto”.

Ma nonostante tutto, qualche tradizione, a scavare, c'è, come frittelle, polpette o spiedini (come il shishkebab) legati alla cucina mediorientale. Tra i dolci, immancabile è ilbacklavà e altri con la pasta kataifi, sciroppo di rose, cannella, chiodi di garofano. “C'è un dolce che somiglia moltissimo, nell'impasto ma non nella forma, al babà. E anche questo si bagna con uno sciroppo. Una volta l'ho preparato in Albania con l'impasto del babà, e nessuno si è accorto della differenza”. Ma il piatto delle feste è il tacchino: “preparato in vari modi, per esempio con le erbe aromatiche, oppure farcito con castagne o con mele cotogne. Lo faccio anche io, ma con la conoscenza tecnica di oggi, per esempio nelle cotture”. E questa è la sua ricetta.

 

 

 

Petto d’anatra, mandarino, ginepro e castagne 

 

4 petti d’anatra da circa 200 g. ciascuno 

4 mandarini

500 g. di castagne

2 foglie di alloro 

1 ramo di rosmarino

4 bacche di ginepro

1 scalogno

1 costa di sedano 

1 carota

100 g. di latte

20 ml. di anice liquido 

sale

pepe

olio extravergine  qb

 

 

Cuocere le castagne in forno a 140° per 30 minuti, pelarle e metterle in un pentolino con il latte ed una foglia di alloro. Fare andare a fuoco lento sino a quando le castagne si ridurranno in pezzetti, aggiustando di sale e pepe. Frullare quindi con il mixer sino ad ottenere un composto omogeneo per riempire un sacco a poche tenuto in caldo.

Salare e pepare i petti di anatra per poi farli rosolare in una padella antiaderente ben calda, dalla parte della pelle. Appena ben rosolati, metterli in forno su una teglia per 10 min a 180°.

Togliere intanto dalla padella di cottura dei petti d’anatra il grasso in eccesso, aggiungere lo scalogno, il sedano, la carota, l’alloro, il ginepro e il rosmarino e poi sfumare con il succo del mandarino.

Fare andare sino a ridurre il succo e poi passare al setaccio ottenendo la salsa per condire da tenere in caldo.

Togliere i petti d’anatra dal forno, lasciarli riposare un paio di minuti e poi ridurli in fette.

 

Mettere da un lato la crema di castagne, quindi il petto d’anatra scaloppato ed infine laccare con la salsa al mandarino.

Un filo di olio extra vergine di oliva per guarnire in finale.

 

 

Antico Arco | Roma | piazzale Aurelio, 7 | tel. 06 065815274 | http://www.anticoarco.it/

 

Ricette di Natale dal mondo. La Germania di Oliver Glowig

Ricette di Natale dal mondo. La Russia di Nikita Sergeev

Ricette di Natale dal mondo. L'Uruguay di Matias Perdomo

 

 

 

Premio Laudemio 2017. Il concorso culinario che ha come protagonista l'extravergine

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Un concorso itinerante che toccherà più città della Penisola e che chiama a raccolta alcuni fra i migliori chef nazionali. È il contest indetto da Laudemio, marchio che raduna diversi produttori olivicoli sotto un rigido disciplinare. Obiettivo della gara, che avrà inizio il 25 gennaio, è infatti quello di promuovere l'extravergine di qualità. 

Laudemio

Nel Medioevo era il fiore del raccolto, la parte destinata alla tavola dei nobili. Dagli anni '80 invece, il Laudemio è un marchio dell'olivicoltura italiana che riunisce 21 produttori toscani sotto questo nome, con un disciplinare rigido e attenti controlli di qualità. A creare questa realtà è stato Vittorio Frescobaldi, che insieme alla moglie Bona sceglie di realizzare una bottiglia unica per tutte le aziende coinvolte, dalla forma particolare, simile alle confezioni di profumo. Fra le ferree regole del disciplinare c'è l'obbligo di frangitura entro le 3 ore dalla raccolta, per garantire la migliore riuscita del prodotto e una maggiore quantità e qualità di profumi e aromi, e non finisce qui. Appositi organismi di controllo e due commissioni di degustazione provvedono alla selezione finale: solo l'extravergine migliore infatti potrò fregiarsi del marchio Laudemio.

Il concorso

A capo del Consorzio oggi c'è la figlia Diana, che durante il convivio tenutosi il 1 dicembre scorso da Felix Lo Basso a Milano ha deciso di lanciare un'iniziativa per valorizzare l'olio extravergine di oliva di qualità. Si tratta di una competizione rivolta agli chef italiani, volta a promuovere e diffondere la cultura dell'olio buono. I cuochi sono infatti chiamati a raccolta per proporre piatti gourmet utilizzando al meglio l'extravergine, non solo come grasso o condimento ma come ingrediente della ricetta a tutti gli effetti. A presiedere il concorso, Fausto Arrighi, critico enogastronomico e già direttore della guida Michelin Italia per 35 anni. Saranno 8 in tutto le cene del contest, rivolte a tutti e ospitate in altrettanti 8 ristoranti di livello per una gara itinerante che parte da Roma il 25 gennaio all'Aroma con Giusepe di Iorio, passa per Bologna, Milano, Napoli e si conclude a Venezia. Con una kermesse di professionisti di tutto rispetto che vede coinvolti, oltre a di Iorio, Agostino Iacobucci dei Portici di Bologna, Marco Stabile di Ora d'Aria a Firenze, Marcello Trentini del Magorabin di Torino, Nobuya Niimori di Sushi B, Andrea Aprea del Vun di Milano, Salvatore Bianco de Il Comandante di Napoli e Massimo Livan dell'Antinoo's Lounge & Restaurant di Venezia.

Dopo la prima fase, la giuria dovrà eleggere i tre piatti finalisti – un antipasto, un primo e un secondo – e gli chef vincitori saranno chiamati a preparare un menu per la cena di gala prevista per l'autunno 2017 a Milano.

www.laudemio.it

 

Muore Gianni Carbone. Patron di Manuelina e papà della focaccia di Recco

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Grande personalità della ristorazione ligure, Carbone prese in mano le redini dell’attività di famiglia alla metà del Novecento, portando il ristorante di Recco alla fama nazionale e internazionale. E grande è stato l’impegno per valorizzare le specialità della tradizione ligure, in primis la celebre focaccia al formaggio filante, Igp dal 2012. Scompare a 88 anni. 

Manuelina. Da osteria e tavola ambita

A Recco, diecimila abitanti sulla Riviera ligure di Levante in provincia di Genova e una fama planetaria legata ai piaceri della tavola, Manuelina esiste dal 1885. In origine osteria di ristoro sulla strada per la città, negli anni del boom economico, dopo la metà del Novecento, il ristorante divenne punto di riferimento del panorama gastronomico ligure, grazie alla capacità imprenditoriale del suo patron dell’epoca, Gianni Carbone. Che all’Italia e al mondo ha fatto conoscere la celeberrima focaccia di Recco, quella ripiena di formaggio filante riconosciuta Igp qualche anno fa, proprio grazie all’impegno di Carbone (a lungo sindaco della cittadina). E da ieri Recco piange il suo cittadino più illustre, scomparso a 88 anni dopo una vita lunga e soddisfacente, che nei decenni scorsi l’aveva portato a ricevere il plauso di tanti ospiti illustri, che alla sua tavola – e alle serate gastronomiche inaugurate per valorizzare la tradizione gastronomica locale – non sapevano proprio resistere, da Aldo Fabrizi a Ciriaco De Mita, a Umberto Eco (che pure nel Pendolo di Focault immortalava il ricordo di quella tavola sempre affollata: “Prima di Uscio c’è Manuelina, che ha dodici stelle sulla Michelin, tutto il pesce che vogliamo. Manuelina era pieno, con una fila di clienti che guatavano i tavoli dove stava arrivando il caffè”). E prima di loro erano stati Gabriele D’Annunzio e persino Albert Einstein.

La cucina della tradizione e la focaccia di Recco

Clienti che hanno contribuito a rinsaldare il mito del ristorante oggi in via Roma, senza offuscare però i meriti conquistati sul campo, per una cucina di pesce che presto seppe diversificare l’offerta, in memoria della bisnonna Manuelina e della sua missione di un tempo: sfamare chiunque bussasse alla sua porta, carrettieri, viandanti, pellegrini, giocatori di tresette. Poi, dagli anni Venti, fu la volta di intercettare il turismo più benestante della Riviera, che a Recco si spingeva in cerca di una tavola genuina, una fetta di focaccia filante e un bicchiere di vino. E nel secondo Dopoguerra la palla passa di mano a Carbone, marito di una delle nipoti di Manuelina, Maria Rosa (per una vita al suo fianco, scomparsa solo qualche mese fa): arrivano i primi riconoscimenti della critica, il pubblico premia ancora una volta la semplicità. E sui menu dell’epoca della Costa Crociere la focaccia di Recco – ripiena di crescenza freschissima, da latte ligure -  diventa “Manuelina”. Dagli anni Novanta in poi, col trasferimento di sede, si cambia anche passo: Manuelina è maturata abbastanza per diventare un marchio, hotel, banqueting, store… E Focacceria, dotata di una propria autonomia e pronta per l’esportazione oltre i confini di Recco. Dal 2014 anche alla Rinascente di Milano, in centro città, e più recentemente al Mercato Metropolitano di Londra, in rappresentanza della tradizione della focaccia ligure.

Una storia di famiglia, in cucina

Nel 2011, per celebrare i 125 anni di vita, la famiglia Carbone mise in scena una mostra fotografica che di tanti anni di tavole imbandite ripercorreva la storia; un viaggio tra “le tovaglie con le toppe che usavamo negli anni '60, e i gotti verdi e rossi, le cerate sui tavoli, e i piatti con la palma disegnata, o le stoviglie casuali con cui la bisnonna Manuelina serviva la focaccia al formaggio ai notabili che frequentavano le notti brave”, raccontava allora il patron Gianni, che per l’occasione aveva riunito tanti celebri chef – da Perbellini a Chiappini Dattilo, a Massimo Spigaroli – tutti insieme per celebrare la buona cucina ligure e la focaccia di Recco, la cui invenzione si fa risalire al XIX secolo, anche se fu proprio la bisnonna Manuelina a divulgarne la fama. E ora sarà compito della quinta generazione di famiglia – Cristina, Gloria e Cesare - onorarne la storia, “consapevoli di saper proporre una cucina ricca di sapori antichi e nuovi, che si ispira a questi principi: sapiente elaborazione del patrimonio gastronomico ligure, costante ricerca di ricette che seguono i ritmi naturali delle stagioni e dell'evolversi dei tempi, valorizzazione dei prodotti locali, scrupolosa ed attenta scelta delle materie prime”, come amava ripetere papà Gianni Carbone.

 

a cura di Livia Montagnoli

Almanacco 2016 del vino: 12 notizie per 12 mesi

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Quali sono stati gli eventi che hanno segnato l'anno che ci ha appena lasciato? Ripercorriamo le principali notizie che hanno accompagnato il vino italiano in questi mesi, tra record produttivi, celebrazioni importanti e incubi internazionali. Fino ad arrivare all'approvazione del Testo Unico del Vino

Per cosa sarà ricordato l'anno che si è appena concluso dal punto di vista vitivinicolo? A tenere banco sicuramente la politica estera con la doccia fredda della Brexit, la vittoria inaspettata di Donald Trump alle presidenziali Usa, ma anche il nuovo previsto record dell'export. Il 2016 lascia anche delle scomparse importanti, come quella dell'enologo Giacomo Tachis e del produttore Giacomo Rallo. Ed è l'anno in cui le prime Doc compiono 50 anni. Infine, e proprio alla fine, è anche l'anno dell'arrivo del tanto atteso Testo Unico del Vino. Ecco cosa è successo mese dopo mese.

 

GENNAIO

50 anni di Doc, 30 anni di Gambero Rosso

Inizia un anno di anniversari importanti. Prima tra tutti quello delle prime 10 denominazioni riconosciute come tali nel 1966: Vernaccia Di San Gimignano; Est! Est!! Est!!!; Ischia; Frascati; Bianco Di Pitigliano; Brunello Di Montalcino; Barbaresco; Barolo; Aprilia e Vino Nobile Di Montepulciano. Si celebrano anche i 300 anni di storia del Chianti Classico dal bando del Granduca Cosimo III de’ Medici, che per primo nominava la denominazione e i suoi territori. Infine, è l'anno dei 30 anni dalla fondazione del Gambero Rosso, nato nel 1986 come inserto del Manifesto.

 

 

FEBBRAIO

Addio a Giacomo Tachis

Il 6 febbraio muore Giacomo Tachis, il re degli enologi, anche se lui preferiva descriversi come un semplice “mescolatore di vini”. Nella lista dei vini nati grazie a questo “re Mida dell'enologia” ci sono nomi di peso, quali Sassicaia, Solaia, Tignanello, Turriga. Ma anche progetti legati alla rivalutazione di vitigni come il Nero d'Avola e il Carignano del Sulcis. Tutto il mondo del vino lo ricorda come colui che ha dato vita all'enologia moderna.

 

MARZO

Record export 2015

Arrivano i dati definitivi delle esportazioni del 2015: in valore l'Italia raggiunge i 5,4 miliardi di euro (+5,4%). Nel 2014 erano stati 5,1 miliardi di euro. Gli Usa rappresentano il primo mercato a valore, con oltre 1,28 mld di euro. Per il 2016 si punta a superare i 5,5 miliardi di euro. Scendono, invece, ma di poco i volumi, in calo dell'1,8%, a poco più di 20 milioni di ettolitri.

 

APRILE

Vinitaly, Mattarella, Renzi e Jack Ma

Il 10 aprile apre i cancelli l'edizione numero 50 di Vinitaly, la prima della storia inaugurata da un presidente della Repubblica: Sergio Mattarella nel suo discorso parla di del vino come del “motore di un'agricoltura moderna che rappresenta un settore trainante del benessere italiano”. Seguono anche l'intervento dell'allora premier Matteo Renzi e l'incontro di quest'ultimo con il fondatore del colosso dell'e-commerce cinese Jack Ma, che proprio a Verona annuncerà la prima giornata del vino sul web.

 

MAGGIO

Unione Italiana Vini, da Zonin a Rallo

Antonio Rallo succede a Domenico Zonin e diventa il nuovo presidente del sindacato Uiv (Unione Italiana Vini), proprio a pochi giorni dalla morte del padre Giacomo, fondatore di Donnafugata. L'elezione è anche il primo episodio che porterà, a ottobre, un gruppo di circa 20 cantine di peso, per la maggior parte aderenti a Federvini, a uscire dalla Confederazione per una diversità di vedute sui principali temi vitivinicoli.

 

GIUGNO

Il Regno Unito lascia l'Europa: la Brexit entra nel nostro vocabolario

Il 23 giugno gli inglesi, chiamati a pronunciarsi sull'Europa, scelgono di uscirne. È subito panico, come dimostrano le Borse in caduta libera. A distanza di sei mesi non sono ancora chiari i tempi e le modalità di attuazione (uscire dall'Europa non significa, ad esempio, uscire dall'Unione doganale) di quella che è stata definita Brexit, parola che intanto è entrata di diritto nel vocabolario della lingua inglese. Gli economisti, tuttavia, escludono che questo possa determinare un crollo delle esportazioni di vino italiano, che al momento ha l'Inghilterra come terzo Paese di sbocco, merito soprattutto del Prosecco.

 

LUGLIO

Approvata la graduatoria Ocm Vino

Dopo la pubblicazione – in ritardo – del bando promozione nel mese di aprile, il Mipaaf (Ministero delle Politiche Agricole Alimentari Forestali) pubblica la graduatoria che distribuisce le risorse europee per 100 milioni di euro. Ma inizia il pasticciaccio che, a ottobre, vedrà la ripubblicazione della graduatoria con ben 16 progetti beneficiari, che vengono esclusi. Il rischio è di perdere decine di milioni di euro. Ed è subito pioggia di ricorsi.

 

 

AGOSTO

Inizia l'incubo terremoto

Il 24 agosto un terremoto di magnitudo 6.0 scuote il Centro Italia provocando 299 vittime e distruggendo diversi paesi tra Marche, Umbria e Abruzzo. Sarà solo il primo di una serie. A distanza di due mesi, il 26 ottobre il sisma si ripete con la stessa intensità con epicentro in provincia di Macerata, il 30 ottobre tutta la Penisola viene svegliata da una scossa ancora più forte con epicentro in provincia di Perugia. È in queste ultime due tornate che anche le cantine del Centro Italia subiscono i maggiori danni, ma per fortuna senza intaccare la produzione.In particolare, i disagi più importanti sono rilevati nel maceratese, tra Serrapetrona, San Severino Marche e soprattutto Matelica. Immediate le iniziative dal mondo dell'enogastronomia (ristoratori, cantine e associazioni) per aiutare le popolazioni colpite: tra quelle più d'impatto “Un'Amatriciana per Amatrice”.

 

SETTEMBRE

9/9 il giorno del vino online

Alibaba, il colosso cinese dell'e-commerce, come promesso dal fondatore Jack Ma a Vinitaly, lancia la prima giornata del vino sul web, dove l'Italia è il secondo Paese più rappresentato, dopo la Francia ovviamente. Al di là delle singole cantine presenti sulla piattaforma, sono cinque i gruppi che si presentano alla giornata con un proprio flagship store: Mezzacorona, Giv, Iswa, Le Rovole e Natale Verga. In 24 ore si raggiungono i 100 milioni di acquisti tra vino, birra e spirits.

 

OTTOBRE

Italia primo produttore

Arrivano le prime previsioni della vendemmia 2016, a raccolta ancora in corso. L'Italia guida la classifica, seguita da Francia (che lascia sul campo circa 6 milioni di ettolitri, -10% rispetto all'anno precedente) e Spagna. I dati definitivi parlano di 51,5 milioni di ettolitri. Ma la produzione mondiale è notevolmente in calo con 14,4 milioni di ettolitri (-5% rispetto al 2015).

 

NOVEMBRE

Presidenziali americane, a sorpresa vince Donald Trump

L'8 novembre Donald Trump batte Hillary Clinton nella corsa alla Casa Bianca: il mondo del vino si interroga sulle conseguenze di questa vittoria e soprattutto sulla politica protezionistica che sembrerebbe così avere la meglio. Gli Usa, infatti, rappresentano per l'Italia il primo Paese di sbocco. Tra i primi effetti, l'ormai quasi certo accantonamento del Ttip, il trattato di liberalizzazione commerciale transatlantico che, in campo vitivinicolo, avrebbe potuto portare al riconoscimento delle denominazione italiane anche Oltreoceano.

 

DICEMBRE

Approvazione del Testo Unico del Vino

In Parlamento si brinda all'approvazione del Testo unico del vino che, dopo 977 giorni di lavori, finalmente diventa legge. Il settore ora ha una sola legge di riferimento che riassume tutta la normativa precedente. Tra i maggiori ambitidi intervento, l'introduzione del Ruci-Registro unico dei controlli ispettivi che dovrebbe evitare ai produttori le verifiche fotocopia da parte di più organismi; l'introduzione di sistemi telematici di controllo; dematerializzazione dei registri di cantina. L'ok definitivo del Parlamento arriva alla vigilia del Referendum sulla riforma costituzionale, da cui la vittoria del No e le dimissioni del Premier Renzi. Il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, affida l'incarico a Paolo Gentiloni. Il ministro delle Politiche Agricole, Maurizio Martina, viene confermato alla guida di via XX Settembre.

Aggiungiamo in ultima battuta anche la morte di Livio Felluga, il patriarca del vino friulano.

 

a cura di Loredana Sottile

Nasce Agricommy. Una vetrina virtuale sulla campagna italiana: nella cucina di casa con un click

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L’accordo tra Amazon e Cia ha portato alla costituzione di un Consorzio virtuale che riunisce i prodotti delle piccole e medie imprese agricole italiane sul web. Il portale, ideato per valorizzare la filiera corta e il made in Italy agroalimentare, sfrutterà la logistica del colosso americano per consegnare a casa in poche ore prodotti freschi e certificati. Ecco come funziona. 

La spesa a casa. I vantaggi dell’ecommerce

Fare la spesa sul web, anche quando si tratta di riempire gli scaffali della cucina. Comodità che fino a qualche anno fa non garantiva grandi possibilità in fatto di qualità, varietà, freschezza dei prodotti in vendita, e oggi si rivela invece una strada sempre più battuta da grandi colossi dell’ecommerce, come da piccole realtà che proprio sul business della grocery (possibilmente gourmet) online fanno affidamento per conquistare uno spazio sul mercato alimentare. Così all’aumentare di affidabilità ed efficienza del servizio, cresce il bacino di utenza che si rivolge alla rete per scovare prodotti difficilmente reperibili nei supermercati della propria città, come il numero dei consumatori che sulla praticità di servizi come Amazon Prime (per ora limitato solo ad alcune città) fanno affidamento per ritrovarsi con la spesa fresca a domicilio anche quando di uscire proprio non se ne parla. La frontiera del fresco – escluso fino a qualche tempo fa dalla rete per ovvi problemi di logistica -  è l’ultima conquista del mercato virtuale, che recentemente presta il fianco pure ai prodotti agricoli, offrendo una nuova vetrina all’agricoltura nazionale.

Agricommy. L’accordo tra Amazon e Cia

Con questo scopo Amazon e Cia (Agricoltori Italiani) hanno raggiunto sul finire del 2016 un accordo per la messa online di un consorzio agridigitale, ribattezzato Agricommy, che è già a disposizione dei circa 20 milioni di utenti italiani fruitori del web, ma avrà anche il merito di spalancare al made in Italy agroalimentare le porte di molti mercati esteri. Come? Con un semplice click: e in poche ore dall’acquisto i prodotti selezionati saranno recapitati a casa. Ancora in via di definizione il catalogo (per ora popolato soprattutto di etichette vinicole), che dovrà riunire le proposte di piccole e medie imprese del comparto agricolo suddivise per azienda, con la possibilità di scovare tanti prodotti di nicchia di territori meno conosciuti, ma anche le eccellenze a marchio Dop e Igp, con un occhio di riguardo alla stagionalità e alla certificazione della filiera. L’idea che accompagnerà l’evoluzione di questo Consorzio 2.0, infatti, è di indirizzare l’offerta verso una specificità sempre più mirata alla valorizzazione del prodotto e dei territori di produzione, di cui la vetrina di Amazon racconterà storia e vocazione agricola.

Il personal shopper per la spesa virtuale

E infatti presto gli utenti potranno usufruire di un personal shopper che li guiderà nell’acquisto, nel rispetto dei desideri di ognuno e dei ritmi stagionali della campagna. Il tentativo evidente è quello di avvicinare una nuova fetta di mercato altrimenti poco interessata al prodotto, tenendo conto che le ultime stime dell’Osservatorio sull’e-commerce del Politecnico di Milano raccontano di almeno 5 milioni di consumatori assidui della spesa agroalimentare online (con una crescita potenziale del 23% ogni anno). Soprattutto nella fascia più giovane, tra i 18 e i 35 anni. D’altro canto l’accordo tra Cia e Amazon va incontro alla filosofia della filiera corta, assicurando un filo diretto tra produttore e consumatore, con la mediazione provvidenziale del web. Un’operazione lungimirante che in casa Cia definiscono “un’altra modalità affidabile di distribuzione”. Piacerà agli italiani fare la spesa dal contadino con un click?

Paolo De Castro: “Nel 2016 il vino italiano ha fatto squadra. Adesso avanti tutta”

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Ttip più lontano, Russia più vicina? Il 2017 secondo il coordinatore S&D della Commissione agricoltura e sviluppo rurale del Parlamento Europeo: “Ecco perché l'Europa deve e può essere protagonista del nuovo anno”

Ultimi giorni di un 2016 che ha regalato all'Italia del vino un nuovo record produttivo (51,5 milioni di ettolitri) e la posizione di leadership, almeno per quel che riguarda i volumi. Ma è probabilmente all'estero che si è giocata la partita più importante: non solo per i numeri delle esportazioni - che, se confermati, faranno salire l'asticella dei primati sopra i 5,4 miliardi di euro - ma soprattutto per le diverse battaglie portate avanti in sede comunitaria: dalla difesa dei vitigni identitari a quella delle denominazioni sul web. Con delle sorprese, non troppo positive, arrivate dai grandi mercati di destinazione dei nostri vini: quella più grande si chiama Brexit, quella più immediata Donald Trump. Di tutto questo abbiamo parlato con Paolo De Castro, coordinatore Socialisti e Democratici della Commissione agricoltura e sviluppo rurale del Parlamento Europeo, nominato dallo stesso Parlamento anche relatore per il capitolo agricolo del Regolamento “Omnibus”; quello che introduce modifiche nei quattro regolamenti approvati nel 2013 nell’ambito della riforma della Pac – la politica agricola comunitaria - e che intende semplificare quest'ultima.

 

Partiamo dalla fine: l'anno che si chiude. Pochi giorni fa il presidente di Federdoc, Ricci Curbastro, parla di un 2016 in difesa per tutte le battaglie che l'Italia si è trovata a dover affrontare. È una la lettura corretta o ne vogliamo dare un'altra?

Sicuramente è stato un anno importante e posso dire che siamo stati bravi come sistema Paese a difenderci. Abbiamo fatto un bel gioco di squadra per scongiurare il rischio liberalizzazione dei nomi dei vitigni identitari. Ma non mi fermerei solo a questa parte della medaglia: è stato anche un anno all'attacco, in cui abbiamo ottenuto risultati importanti sia in Europa sia in Italia.

 

Ad esempio il Testo Unico del Vino...

Esatto. Il ministro Martina è stato bravo a portarlo a casa: è un testo di semplificazione che migliorerà la vita dei viticoltori, nonostante - ahimè - il bicameralismo perfetto che non siamo riusciti a eliminare (il risultato del Referendum non è andato molto giù a De Castro che più volte ritorna sul tema nel corso dell'intervista; ndr). Ma ormai il Paese ha fatto questa scelta, quindi si può solo andare avanti con gli strumenti a disposizione.

 

A proposito di Referendum e Governo, cosa ne pensa di questi mille (e più) giorni del ministro Martina?

Difficile dire che abbia lavorato male: dalla riduzione fiscale fino al Testo Unico del vino, mi sembra che di materiale ce ne sia abbastanza.

 

A parte qualche piccolo intoppo sui bandi dell'Ocm Promozione... si poteva fare meglio?

Non entro nel merito, ma sicuramente il pacchetto da 100 milioni di euro di fondi è una risorsa importantissima e sono fiero della battaglia portata avanti per far includere anche il vino tra i beneficiari dei finanziamenti europei. Piuttosto sono preoccupato per il doppio canale Stato-Regioni: conflittualità che sarebbe stata eliminata con il Referendum perché sono del parere che su certe tematiche si debba intervenire a livello nazionale, senza localismi (al momento la gestione è suddivisa tra il 70% delle Regioni e il 30% del sistema nazionale; ndr).Ma detto ciò, le risorse ci sono e bisogna spenderle nel modo migliore.

 

Un passaggio random sui temi al momento in discussione. Biologico, cresce la domanda mondiale. In che direzione si sta muovendo l'Europa?

Si è da poco concluso l'ennesimo trilogo, il negoziato tra Commissione, Parlamento e Consiglio, con un nulla di fatto. Al momento nessuna novità ed è questo non miglioramento che, come Parlamento, ci preoccupa maggiormente.

 

Regolamento Omnibus, proprio quello di cui è stato nominato relatore: quali le novità principali in materia?

Una su tutte: gli strumenti di stabilizzazione del reddito. La proposta è di abbassare la soglia in cui scattano questi aiuti, dal 30 al 20%. Un modo per venire incontro alle esigenze dei nostri agricoltori. Altra modifica riguarda la definizione stessa di agricoltore in attività, in modo da consentire un alleggerimento degli oneri burocratici, importanti soprattutto per i più giovani.

 

Italian sounding, perché è così difficile evitarlo?

Non è così difficile e lo stiamo facendo all'interno dell'Europa, rafforzando la protezione. Il problema è al di fuori dei confini Ue, dove però il reato non esiste proprio perché non valgono le regole europee, né tantomeno sono riconosciute le nostre denominazioni. Per questo c'è la necessità di andare avanti con gli accordi internazionali. Come ad esempio il Ceta, grazie al quale il Canada finalmente riconoscerà le nostre denominazioni. Speravo che la ratifica arrivasse prima di Natale, ma bisogerà aspettare il 24 gennaio.

 

Rimanendo sul terreno degli accordi, e in particolare sul Ttip: prima delle elezioni Usa ci aveva detto che per capire cosa sarebbe successo avremmo dovuto aspettare l'insediamento del nuovo presidente, ricordando che i proclami pre-elettorali e il programma effettivo son cose diverse. Oggi, alla luce delle ultime dichiarazioni di Trump pare che ci sia poco margine per le trattative...

Sì, Trump non ha mai apertamente citato il Ttip, ma se ha bloccato un accordo già chiuso come il Tpp (Trattato Tran-Pacifico; ndr), è probabile che questa sarà la sua linea generale. È chiaro che siamo molto preoccupati, ma il mondo non si fermerà per questo.

 

Dall'altra parte del mondo c'è, invece, la Russia di Putin tra sanzioni ed embarghi. Cambierà qualcosa, anche alla luce del nuovo corso statunitense? È un mercato in cui in questi anni l'agroalimentare italiano, pur mantenendo la prima posizione, ha perso tanto. Troppo.

Al momento sono state prorogate le sanzioni per altri sei mesi a partire dal 31 dicembre, ma l'atteggiamento prudente del premier Gentiloni e tutta una serie di congiunture mondiali, fanno intuire che ci sono i presupposti per interrompere questo deleterio ping pong, nonostante il non rispetto degli accordi internazionali da parte della Russia. In fondo, si è capito che questo embargo ha fatto più male all'Italia che alla Russia: non possono essere gli agricoltori a pagare per tutti.

 

Altro mercato che preoccupa non poco, in questo anno ricco di sorprese, è quello inglese post-Brexit.

La Brexit di cui parliamo oggi è più un vaccino che una malattia, visto che ancora non abbiamo sul tavolo l'articolo 50 e non sappiamo tempi e modi di applicazione. Ma mi preoccuperei più per il Regno Unito che ancora ha assaporato solo una minima parte dei problemi che l'aspetteranno: ci sono, infatti, molti marchi che non potranno più essere made in Europe. Per quanto ci riguarda e per quanto riguarda il commercio di vino, sono certo che una soluzione commerciale si troverà, come è stato con la Svizzera o con la Norvegia.

 

Guardiamo all'anno che verrà: quali sfide per il 2017?

Prima di tutto continuare a crescere, migliorando il rapporto export/prezzo medio. Quest'ultimo senza girarci attorno, purtroppo è ancora la metà di quello francese. L'augurio, quindi, è di superare il record dei 5 miliardi di export, imparando a farci pagare i prodotti per quel che valgono. Poi mi auguro che, in questo contesto mondiale di spazi lasciati vuoti - con gli Usa sempre più chiusi in sé stessi - l'Europa sappia approfittarne per avere un ruolo di maggiore protagonismo. Avanti tutta.

 

a cura di Loredana Sottile

 

 

Mauro Colagreco chef e imprenditore. Dall’hamburger argentino alle Alpi francesi, passando per Pechino

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Saldamente all’apice dell’alta ristorazione internazionale con il Mirazur di Menton, lo chef italo-argentino è impegnato su più fronti per rinsaldare un gruppo gastronomico molto diversificato: in Argentina è un successo il fast food di Carne, a Courchevel ha appena aperto il bistrot gourmet B Fire. Intanto girano bene gli affari del Grand Coeur di Parigi e degli avamposti cinesi; e presto arriverà Nizza. 

Mauro Colagreco chef

Da quando qualche mese fa ha vestito i panni del giudice nella prima edizione italiana del format Top Chef – che a differenza di Masterchef nelle cucine televisive vede sfidarsi i cuochi di professione – Mauro Colagreco in Italia hanno imparato a conoscerlo in tanti. Anche quel pubblico poco avvezzo all’alta ristorazione che lo chef italo-argentino di stanza sulla Costa Azzurra ormai lo associa all’aria scanzonata e a quell’accento latino che fa subito simpatia. Per gli addetti ai lavori, però, lo chef del Mirazur è soprattutto un grande interprete della cucina contemporanea, e proprio quest’anno il suo ristorante di Menton, a pochi chilometri dalla frontiera di Ventimiglia, ha festeggiato i primi dieci anni di attività con un ciclo di cene a quattro mani che hanno coinvolto i più celebri chef del panorama internazionale (Massimo Bottura compreso). Premiato dalla critica e amato dal pubblico gourmet, oggi Colagreco tiene testa a molte celebri personalità della cucina francese, con uno stile gastronomico che deve tanto ai maestri transalpini come all’ispirazione mediterranea, ma non si stanca di trarre spunto dalla contaminazione tra diverse culture. E alle sue origini lo chef è sempre rimasto legato, tanto da scommettere su un ritorno che a distanza di poco meno di un anno sta già regalando i primi risultati.

Il successo di Carne. Hamburger d’autore per la catena di fast food sostenibile

All’inizio del 2016 Colagreco aveva reso nota l’intenzione di dedicarsi a un progetto parallelo di ristorazione: un format popolare, accessibile, e completamente dedicato alla carne. Un’hamburgheseria d’autore, per intenderci, che avrebbe messo alla prova la capacità di servire grandi ingredienti, ben cucinati, a prezzi contenuti. E così è stato: dalla fine di gennaio a oggi, il primo punto vendita di Carne – nella città natale dello chef, a La Plata – ha mantenuto le premesse, e l’espansione del brand è stata la conseguenza più logica. Così da qualche settimana chi è in cerca di un hamburger di qualità può visitare il secondo punto vendita (a Olivos, nell’hinterland di Buenos Aires, cui seguirà la terza apertura a San Telmo) di quella che sin dal principio è destinata a diventare una catena di fast food d’autore, nel rispetto degli ingredienti del territorio e della tradizione gastronomica locale. Con lo chef Colagreco nei panni di mentore e supervisore di un’operazione non solo meramente commerciale, ma pure mirata a costruire una rete di sostegno per i piccoli produttori di carne, verdura e prodotti della terra, che oggi riforniscono Carne, orientata a proporsi come hamburgheseria responsabile, con velleità di crescita internazionale (ma prima si pensa a consolidare il brand in casa).

Un progetto che abbraccia finalità etiche, sull’esempio di altri celebri ambasciatori della ristorazione latina, da Gaston Acurio a Virgilio Martinez, ad Alex Atala – per citare solo i più celebri - impegnati a dar voce a tutti gli attori della filiera alimentare, valorizzando così la cultura gastronomica sudamericana, con modalità, prerogative e ambizioni differenti da paese a paese. In Argentina, pur seguendo il percorso di Carne a migliaia di chilometri di distanza, c’è tutta l’intenzione di fare bene: “Realizziamo l’hamburger di Carne come se fosse un piatto del Mirazur, con la stessa attenzione e materie prime d’eccellenza. Ma con l’idea che possa essere un pasto popolare e rapido”. Che recentemente ha conquistato anche il presidente argentino Mauricio Macri, a cena da Carne con tutta la famiglia. Intanto, alla fine di gennaio, Colagreco sarà ambasciatore della cucina argentina a Madrid Fusion.

Mauro Colagreco imprenditore. Dalla Cina al bistrot parigino

Ma il futuro prossimo lo vedrà impegnato soprattutto sul fronte imprenditoriale. Dalla fine del 2015 (ma prima è venuta la scommessa cinese, con le aperture di Shanghai e Nanjing – Unico e Le Siecle – tra il 2011 e il 2013, e più di recente Azur a Pechino), infatti, lo chef ha cominciato a porre le basi per il configurarsi di un piccolo impero della ristorazione, proponendosi sulla scena francese e internazionale come abile selezionatore e supervisore di risorse fidate. E così prima è stata la volta del bistro Le Grand Coeur (in società con i francesi Julien Fouin e Ludovic Dardenay), nel Marais parigino, brasserie con parentesi gourmet (la saletta con menu degustazione ribattezzata Le Jardin) al 41 di Rue de Temple, che gestisce a distanza tramite lo chef brasiliano Rafael Gomes; poi è arrivato il momento di Carne.

B Fire al Barriere Les Nieges

E più recentemente l’impronta di Colagreco ha conquistato le vette di Courchevel, nota località sciistica della Alpi francesi: all’inizio di dicembre, il gruppo alberghiero Groupe Barriere ha aperto a 1850 metri d’altezza il boutique hotel a 5 stelle Barriere Les Nieges, corredato di due ristoranti gourmet. E Colagreco è stato chiamato a supervisionare il concept di B Fire, ispirato ancora una volta ai sapori della sua Argentina: in menu agnello confit asado e dulce de leche, ma anche suggestioni mediterranee, come le pizza gourmet con aragosta e caviale. Ma è la griglia a giocare un ruolo da protagonista. Il 2017, invece, dovrebbe essere l’anno dell’aeroporto di Nizza, con l’apertura del bistrot by Mauro Colagreco annunciata un paio d’anni fa, nell’ambito dei lavori di ammodernamento di uno dei più frequentati scali aeroportuali di Francia.

 

Mirazur | Menton | avenue Aristide Briand, 31 | www.mirazur.fr

Carne | Argentina | www.carnehamburguesas.com

Le Grand Coeur | Parigi | rue du Temple, 41 | www.grandcoeur.paris

B Fire | Courchevel | Hotel Barriere Les Nieges | www.hotelsbarriere.com/en/courchevel/les-neiges/hotel.html

a cura di Livia Montagnoli

 


A Torino via libera alla Food Commission. Dall’Atlante alle start up Torino Città del Cibo

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Nel capoluogo piemontese non conosce battute d’arresto il percorso intrapreso anni fa per dotare la città di politiche alimentari che assicurino il diritto e l’accessibilità a un cibo sano, di qualità e al giusto prezzo. Ora la giunta Appendino approva la costituzione di una Food Commission, e intanto i ricercatori presentano l’Atlante del Cibo. 

La food policy di Torino

Che a Torino si lavorasse concretamente perché potesse ambire al ruolo di città gastronomica che le spetta per tradizione, era chiaro già da diversi segnali di modernità. In primis per l’incubazione di un bel polo di ricerca facente capo all’università orientato allo sviluppo di food start up e sistemi di politiche urbane del cibo al passo con i tempi. Sul modello di Milano, che la Food policy ratificata in occasione di Expo cerca di onorarla e aggiornarla da oltre un anno a questa parte. Intanto però, nel capoluogo piemontese, anche la giunta Appendino (già firmataria di Feeding your fair, il decalogo della genuinità) intende valorizzare il lavoro di collaborazione svolto negli anni passati dal Comune, l’Università e la Città Metropolitana, che alla fine del 2015 portava a intraprendere il progetto Nutrire Torino Metropolitana, a sua volta articolato in più obiettivi, come la stesura di un atlante del cibo che rappresentasse gli attori, le risorse, gli spazi e le relazioni che compongono il sistema del cibo torinese (frutto di anni di ricerche concertate tra l’Università di Torino, il Politecnico e l’Università di Scienze Gastronomiche di Pollenzo, e oggi in dirittura d’arrivo).

La nuova Food Commission

E allora negli ultimi giorni dell’anno che si è appena concluso, è arrivato il via libera alla costituzione di una Food Commission – già prevista dal sindaco Fassino -  presieduta dall’assessore Stefania Giannuzzi: un organismo di lavoro che si preoccuperà di rispondere al diritto dei cittadini a un cibo sano, di qualità e dai costi contenuti, già riconosciuto nello Statuto vigente della città. Tempi e modalità sono ancora ignoti, ma l’idea vincente sembra essere quella di favorire una rete di alleanze tra spazio urbano e campagne circostanti, per rappresentare in modo equo tutti i soggetti che fanno parte del sistema, dai produttori alla distribuzione, dai ricercatori ai gruppi d’acquisto, alle associazioni, ai singoli consumatori. Aspirando così a entrare nel circolo delle città virtuose che in Italia e nel mondo hanno scelto di dotarsi di organismi deputati a perseguire politiche alimentari locali, che si tratti di tutelare le produzioni di qualità o favorire lo sviluppo agricolo dei territori circostanti. E certo in questo percorso sarà d’aiuto il già citato Atlante del Cibo, che sarà presentato a marzo alla città dal coordinatore del progetto, il professor Egidio Dansero.

L’Atlante del cibo

L’atlante si è nutrito negli ultimi anni dei dati relativi a mercati ed eccellenze gastronomiche, filiere alternative, orti urbani, mense e aziende del settore; e oggi è in grado di restituire mappe interattive che riassumono l’identità gastronomica della città, aiutando i torinesi a riscoprire una consapevolezza nuova e proiettando Torino tra le mete di interesse gastronomico nazionali e internazionali. Con il merito di coinvolgere i torinesi nello sviluppo del tema: tramite crowdmapping ciascuno potrà popolare la mappa di informazioni sul cibo, alimentando così uno strumento di marketing territoriale partecipato dal basso. Del resto il contesto di riferimento descritto sulla piattaforma che accompagna la costituzione di una Torino Città del Cibo parla chiaro: “Il cibo è una delle vocazioni più forti di Torino e del Piemonte. È un settore economico in crescita e innovazione continua, un fattore determinante per migliorare la qualità della vita e il benessere delle persone, uno dei principali elementi di identità territoriale e uno strumento formidabile di inclusione sociale e sostenibilità”. Così all’Atlante dovrebbero seguire un portale in più lingue per comunicare il sistema alimentare locale, un programma mirato di formazione professionale e una serie di azioni che favoriranno lo scambio tra produttori e consumatore. La sfida è appena cominciata.

 

a cura di Livia Montagnoli

Bottega del Ramen e Tokyo Table. Toridoll a Milano con 5 locali. Ramen e cucina orientale alla conquista dell'Italia

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La Bottega del Ramen e Tokio Table sono i due format che il colosso della ristorazione nipponica ha deciso di importare in Italia, a partire da Milano e già dal prossimo febbraio. Ma il piano di espansione prevede ben 15 aperture entro il 2020. E Toridoll non è l’unico gruppo internazionale a cui fa gola l’Italia: da Wagamama a Ryukishin, a Beijing8 i tempi sono maturi. 

Milano (e l’Italia) innamorata del ramen

L’anno nuovo di Milano comincia all’insegna del ramen. Che la città fosse pioniera in tal senso è ben noto agli estimatori del genere, che su indirizzi come Casa Ramen e Zazà Ramen possono fare affidamento da diversi anni. E del resto in più occasioni proprio il capoluogo meneghino si è rivelato precursore di tendenze gastronomiche al vaglio del pubblico italiano, prima che queste attecchissero in molte altre città d’Italia. Il vento del ramen che da un anno a questa parte imperversa sulle principali piazze della Penisola ne è testimonianza ulteriore. Ecco perché negli ultimi mesi ci siamo trovati a raccontare di realtà come Koto Ramen a Firenze, Akira e Mama Ya a Roma (dove si attende la riapertura nella nuova sede di Waraku), per citare solo i casi più eclatanti, senza contare quel fenomeno di interesse per la cucina orientale e giapponese tout court – che rompe con lo stereotipo sushi, sashimi e involtini primavera – che ha determinato, per esempio, l’approdo nella Capitale di un grande colosso internazionale come Zuma, improntato alla divulgazione, seppur non pedissequa, della cucina izakaya.

L’interesse delle grandi realtà nipponiche

Poi c’è l’ultimo caso in ordine di tempo, ancora una volta nel perimetro della Capitale: persino nel nuovissimo terminal E dell’aeroporto Leonardo Da Vinci, tra ristoranti esclusivi, bistrot e pizzerie, Lagardere ha pensato bene di offrire ai viaggiatori internazionali un ramen bar d’importazione, Ajisen Ramen, celebre catena nipponica alla prima esperienza italiana. E questo ci offre l’opportunità per riflettere su un fenomeno che date le premesse potrebbe concretizzarsi nel corso del 2017; che nella Penisola i tempi per ramen bar e fast food all’orientale siano ormai maturi sembrano averlo capito in primis proprio i grandi gruppi internazionali, a lungo indirizzati su altri obiettivi sensibili e oggi pronti a investire nel nostro Paese. I precedenti di successo, peraltro, non mancano: un anno e mezzo fa il ramen bar con cucina Ryukishin– già affermato a Osaka, Kyoto e Londra – sfruttava il traino di Expo per affermarsi a Milano. Oggi sembrerebbe pronto a replicare, entro l’anno, a Roma.

Toridoll a Milano. La Bottega del Ramen e Tokyo Table

E invece per tornare nel capoluogo lombardo – dove si attende l’inaugurazione del primo Wagamama per conto di Percassi – la novità del 2017 la rivela il Sole 24 Ore e si chiama Toridoll, colosso della ristorazione giapponese, con un pacchetto di 1200 ristoranti nel mondo all’attivo (di cui 900 solo in Giappone). Le prerogative del fast food, prezzi abbordabili, ambiente informale, servizio rapido, ci saranno tutte, insieme a un’offerta che si ripromette di conquistare un pubblico eterogeneo: qualche sfizio per cominciare e poi ramen di vario tipo, compreso il ramen asciutto per l’estate (non in zuppa, ma condito con salse), tutto nel rispetto della tradizione nipponica. Le aperture già programmate in città sono ben cinque, la prima a metà febbraio in via Vigevano, con la Bottega del Ramen; ma già all’inizio di marzo si procederà con il concept Tokyo Table, 50 diversi assaggi in stile tapas e piatti cucinati a prezzi contenuti, con ben 100 coperti a disposizione, sempre nella zona di Porta Genova. E le intenzioni di Toridoll si rivelano ben più agguerrite: proprio dall’Italia il gruppo ha scelto di iniziare per procedere alla conquista del mercato europeo, a partire dal raggiungimento di 15 locali nella Penisola, Roma compresa, entro il 2020.  Solo scommettendo sulla capacità attrattiva dei due format informali, pur ritrovandosi in portfolio il fine dining Sakagura, per ora lontano dall’orizzonte italiano.

Beijing8 a Firenze. Cucina cinese dalla Svezia

E intanto a Firenze, dopo il boom di presenze registrato in un anno da Koto Ramen (da iniziativa italiana), da un paio di mesi ha aperto nel centro della città il primo punto vendita italiano di Beijing 8, che a dispetto del nome e dell’offerta gastronomica, incentrata stavolta sulla tradizione cinese, rivela origini scandinave. Nato in Svezia, oggi il gruppo comincia ad aprirsi anche al mercato europeo, e per farlo ha scelto per ora Parigi, Lione e Firenze, dove in via de Neri prova a sfondare con la sua cucina al vapore accompagnata da miscele di tè. Anche in versione take away. L’ennesima riprova che il mercato italiano della ristorazione piace molto all’estero. Chi sarà il prossimo?

 

La Bottega del Ramen | Milano | via Vigevano | dalla metà di febbraio | www.toridoll.com.en

Tokyo Table | Milano | da marzo | www.toridoll.com.en

Ryukishin | Milano | via Ariberto, 1 | www.ryukishin.it

Casa Ramen | Milano | via Porro Lambertenghi, 25 | www.casa-ramen.it

Koto Ramen | Firenze | via Verdi, 42r | www.kotoramen.it

Beijing8 | Firenze | via de Neri, 46r | www.beijing8.com

Waraku | Roma | via Prenestina, 321A | prossima apertura (entro la fine di gennaio) | www.warakuroma.webs.com

Akira | Roma | via Ostiense, 73F | www.ramenbarakira.com

Mama Ya | Roma | via Ostiense, 166° | www.mamayaramen.it

Ajisen Ramen | Fiumicino (RM) | Aeroporto Leonardo Da Vinci, terminal E | www.ajisen.com.sg

Zuma | Roma | via della Fontanella di Borghese, 48 | www.zumarestaurant.com

 

a cura di Livia Montagnoli

 

Mangiare in Montagna: Ovindoli e la Marsica

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Un comune abruzzese circondato dalla natura incontaminata del parco regionale del Sirente-Velino, meta turistica per gli amanti dello sci e degli sport all’aria aperta, ma anche per chi ama una cucina dai sapori decisi. Per la rubrica mangiare in montagna oggi vi raccontiamo Ovindoli, con i migliori indirizzi per mangiare, bere e prendere un buon caffè.

 

Ovindoli e la Marsica

Un paese di 1200 abitanti, a 1400 metri sul livello del mare sulla punta meridionale dell'altopiano delle Rocche, nella catena del Velino-Sirente: è Ovindoli, oggi una località sciistica molto importante per gli appassionati degli sport invernali capitolini e abruzzesi.

La sua storia è antica: i romani ne fecero un centro strategico per la difesa dell’altopiano delle Rocche e per lungo tempo questa zona, chiamata Marsica per la popolazione dei marsi che la abitava, ha rappresentato un punto d’appoggio militare, con scarsa considerazione per le bellezze naturali che circondano Ovindoli. Ma in epoca moderna, dagli anni ‘60 del ‘900, questa località si è via via rinnovata, diventando un punto di riferimento per gli amanti della neve e degli sport all’aria aperta.

 

Archeologia e natura a Ovindoli

Nel centro storico di Ovindoli si gode della tipica atmosfera dei borghi di montagna italiani, con i suoi vicoli ripidi e tortuosi e le case in pietra con i muri color ocra o marrone. È immerso nel parco naturale del Sirente-Velino, un'area naturale protetta che ospita oltre 400 specie di animali, fra cui alcuni rari come il gatto selvatico e l’orso marsicano. A circa 5 chilometri da Ovindoli c’è il canyon più noto dell’Appennino Centrale, le Gole di Celano-Aielli: un ambiente suggestivo fatto di vegetazione fittissima, cascate d’acqua e pareti verticali, che gli amanti delle escursioni non potranno perdersi.

 

OvindoliOvindoli

Poco distante da Ovindoli si possono visitare alcuni siti archeologici di origine romana: tra i più suggestivi la città di AlbaFucens, situata ai piedi del Monte Velino, a quasi 1000 metri di altitudine. Nella zona di Piana dei Santi alcuni scavi iniziati negli anni ‘80 hanno riportato alla luce i resti di una grande villa romana, edificata nel I secolo d.C. e dotata di preziosi pavimenti a mosaico.

Un altro importante sito archeologico, di molto posteriore, è la torre di Santa Jona, costruita tra il XIII e il XIV secolo dai conti Berardi di Celano per rafforzare il sistema difensivo della zona. Una visita la meritano anche i ruderi del castello di Ovindoli, situati nella parte più alta del paese, da cui si può godere di una vista mozzafiato.

Tra i luoghi di culto degni di nota della zona, ci sono la chiesa della Madonna delle Grazie e quella della Madonna della Neve, entrambe con bellissimi affreschi interni risalenti al ‘500. Dal punto di vista dell’arte religiosa l'edificio più importante è la chiesa di San Sebastiano: qui sono conservati una Vergine in terracotta policroma e un San Sebastiano alto più di 2 metri, risalente al XVII secolo.

 

San Potito, OvindoliSan Potito, Ovindoli

Sport e piste da sci

Per gli amanti dello sport all’aperto Ovindoli è una meta ideale: nel paese marsicano si trovano strutture per qualsiasi tipo di attività, e in particolare si praticano molto equitazione, trekking, alpinismo, parapendio, tiro con l'arco, free climbing.

La stazione sciistica Ovindoli-Monte Montagnola si trova a due chilometri dall’abitato e tocca punte di 2200 metri sul livello del mare. Fa parte del comprensorio sciistico delle Tre Nevi e conta circa 30 chilometri di piste - da quelle per principianti a quelle per esperti - adatte allo sci, ma anche a sport come il telemark e lo snowboard. A circa 1.900 metri troviamo lo Stadio del Fondo, un anello di circa 5 chilometri per lo sci di fondo, e l'Alienpark, uno snowpark attrezzato per il freestyle da halfpipe, lo “scivolo” che utilizzano anche gli skaters, lo slopestyle, una disciplina acrobatica che si fa sia con gli sci che con lo snowboard e jibbing, il cosiddetto surf da neve.

 

Ovindoli, piste da sciOvindoli, piste da sci


Cosa mangiare a Ovindoli

La gastronomia marsicana è fortemente influenzata dalla tradizione agro-pastorale: una cucina di terra, dai sapori forti e decisi. Tra i primi piatti spiccano le paste fresche: i maccheroni, una tipica pasta all'uovo dalla forma allungata, solitamente condita con sugo di castrato o salsiccia, oppure con i funghi; gli spaghetti alla chitarra, diffusi un po' in tutta la regione, dalla sezione quadrata e dalla consistenza porosa, in genere conditi con ragù di manzo o maiale, o con sugo di cacciagione, principalmente cinghiale o lepre. Tra i primi piatti troviamo anche la polenta all'abruzzese con pancetta, salsiccia e cipolla, o le minestre di legumi - fagioli o lenticchie - arricchite da cotenna di maiale o guanciale.

 

Spaghetti alla chitarraSpaghetti alla chitarra


I secondi, nella Marsica, sono il regno della carne. Oltre agli arrosticini di pecora, un piatto tipico della zona è la pecora alla cottora, un’antica ricetta legata alla transumanza che prevede una lunghissima cottura della carne in un paiolo. Sempre fra i secondi meritano un assaggio il castrato con le patate, l’agnello con i peperoni o in casseruola e il coniglio con le lumache. Fra i contorni più comuni i carciofi arrostiti o ripieni, le fave con il guanciale, gli sformati di spinaci.

 

Pecora alla cottoraPecora alla cottora

 

Per quanto riguarda i dolci sono tipici della zona la pizza di Pasqua, le frappe (o chiacchiere), la cicerchiata, molto simile agli struffoli napoletani, e le ferratelle, cialde dal sapore quasi neutro, cotte su una doppia piastra arroventata sul fuoco che dà la tipica forma, in genere gustate a coppie farcite con marmellata d'uva o miele.

 

CONSIGLI DALLA GUIDA RISTORANTI D’ITALIA 2017

Da Lincosta (L’Aquila)

Raccontare il proprio territorio attraverso la cucina e l’ospitalità, è questa la mission dei proprietari di questa trattoria aquilana, che con coraggio sono stati fra i primi a riaprire dopo il terremoto del 2009. Il menù si basa sui piatti tradizionali della zona, con una ottima selezione di salumi e formaggi di produttori locali. Buoni i dolci caserecci, che variano spesso. Carta dei vini con etichette abruzzesi e qualche bottiglia proveniente dalla Francia. Un Gambero nella guida Ristoranti d’Italia 2017.

 

Elodia (L’Aquila)

Un locale accogliente dal design moderno a pochi passi dal centro storico dell’Aquila. La cucina è incentrata sui prodotti d’eccellenza del territorio abruzzese, con un menù che varia secondo stagione e disponibilità. Due i menù degustazione, studiati in modo da coprire quasi tutta la proposta gastronomica. Cantina con etichette locali ma anche internazionali. Camino sempre acceso in inverno, grazioso spazio esterno per i mesi più caldi. Due Forchette nella guida Ristoranti d’Italia 2017.

 

La stozza (Ovindoli)

I sapori intensi della montagna sono il punto di partenza del menù di La stozza, trattoria nel centro di Ovindoli. Il menù poggia sulla solida tradizione abruzzese con ingredienti locali, ma anche prodotti che vengono anche da altre regioni a vocazione montanara. Buoni i dessert della casa. Da bere qualche vino di livello e diverse birre artigianali. Il servizio, così come l’ambiente, è informale e cordiale. Un Gambero nella guida Ristoranti d’Italia 2017.

 

Mammaròssa (Avezzano)

Se volete uscire dal seminato della cucina tipica abruzzese vi consigliamo questo ristorante di Avezzano, dove i due proprietari - Franco e Daniela Franciosi - propongono un menù che non ha paura di aprirsi alle sperimentazioni. Tutti i prodotti sono locali (alcuni vengono dall’orto dello chef), la tecnica è impeccabile, l’attenzione al cliente uno dei plus del locale. Un bonus anche per i due menù degustazione dall’ottimo rapporto qualità-prezzo. La carta dei vini non è molto ampia ma è ben studiata. Una Forchetta nella guida Ristoranti d’Italia 2017.

 

Mangione papale (L’Aquila)

Uno splendido relais all’interno di un ex mulino ristrutturato con 17 camere e due ristoranti. Si può scegliere fra Il salotto dei granai, uno spazio dedicato alla cucina della tradizione, e la tavola gourmet guidata dallo chef William Zonfa, che propone un menù creativo, lavorando con grande tecnica le eccellenti materie prime locali. Anche sul fronte dei dessert non mancano fantasia e audacia. Carta dei vini ben strutturata, con proposte per niente banali e servizio molto attento alle richieste del cliente. Due Forchette nella guida Ristoranti d’Italia 2017.

 

CONSIGLI DALLA GUIDA PIZZERIE D’ITALIA 2017

Granocielo (Avezzano)

Pizzeria in posizione centrale, con piccolo ma grazioso spazio esterno. La pizza a taglio è fatta con materie prime di elevata qualità, non solo abruzzesi ma provenienti anche da altre regioni. Lunghe lievitazioni naturali, tecnica impeccabile e forni di nuova generazione regalano alla pizza un’ottima fragranza e digeribilità. Interessante il lavoro di ricerca e recupero dei grani antichi. In menù anche sfizi creativi e da bere una buona selezione di birre artigianali. Due Rotelle nella guida Pizzerie d’Italia 2017.

 

Percorsi di gusto (L’Aquila)

Un menù ben studiato per questa pizzeria vicino le antiche mura della città. Farine selezionata accuratamente, lievito madre, lunghe lievitazioni e spinatura in teglia. Le pizze di Maria Buzzanca sono piatti gourmet, e i topping non sono semplici condimenti con prodotti d’eccellenza ma diventano una vera e propria portata con il disco di pasta a fare da base. In menù anche piatti tradizionali con qualche tocco creativo. Da bere vini locali e selezione di birre artigianali. Tre Spicchi nella guida Pizzerie d’Italia 2017.

 

CONSIGLI DALLA GUIDA STREET FOOD 2017

Ape aperò (L’Aquila)

Da un locale distrutto dal terremoto nasce la riscossa di Paola e Valentina, le chef ora titolari di questa Ape itinerante, che gira per le strade dell’Aquila traboccante di specialità abruzzesi. Da loro si possono comprare salumi e formaggi da gustare a casa, oppure piatti come polenta, lasagne, minestre di vario tipi, parmigiana. Oppure si può optare per un gustoso panino, sulla base di proposte tutt’altro che scontate. Da bere vini biologici e birre, tutte etichette locali. Per sapere dove si trova l’Ape basta seguire la pagina Facebook, dove le due titolari aggiornano costantemente menù e posizione.

 

CONSIGLI DALLA GUIDA BAR D’ITALIA 2016 

Bar del Corso (L’Aquila)

Il locale è riuscito a resistere alle avversità e resta un punto di riferimento per aquilani e operai dei cantieri della città. I caffè sono ottimi, con la collaudata miscela 80% arabica - 20% robusta, i cappuccini risultano cremosi e vellutati, i lievitati, presi da un forno locale, fragranti e gustosi. Eccellente l’aperitivo serale con sfiziosità salate e una lunga lista di cocktail, sia classici che creativi. Una Tazzina e due Chicchi nella guida Bar d’Italia 2017.

 

Conca d’oro (Avezzano)

Insegna a conduzione familiare, attiva fin dal 1964, famosa ad Avezzano per la qualità dei caffè da scegliere tra la miscela della casa, e una 100% arabica estratta a dovere. Il laboratorio interno sforna ogni giorno croissant realizzati con lievito madre e selezione di farine, da farcire al momento con le marmellate della casa.  Gelato artigianale con ingredienti bio. Per pranzo snack salati e piatti della tradizione locale; per l’aperitivo ampia scelta di vini, bollicine e cocktail accompagnati da golosi stuzzichini. Due Chicchi e due Tazzine nella guida Bar d’Italia 2017.

 

Gran caffè dell’Aquila (L’Aquila)

Prima del terremoto questo storico locale si trovava in piazza Duomo e lì ritornerà una volta finiti i lavori. È un punto di riferimento cittadino per il caffè, torrefatto in proprio e disponibile in due varianti: 100% arabica, oppure 80% robusta e 20 % arabica, le stesse che si trovano anche nel locale appena aperto a Philadelphia. Il caffè risulta cremoso e aromatico, gustoso e mai aggressivo. Ottimo anche il cappuccino, da abbinare per la colazione con paste e lievitati da un forno locale. Punto di forza del locale, oltre al caffè, anche il gelato artigianale. Interessante la proposta per il pranzo, con piatti freddi e insalatone creative, ma anche l’aperitivo. Tre Chicchi e una Tazzina nella guida Bar d’Italia 2017.

 

La dolce vita (L’Aquila)

Luogo di ritrovo per giovani e studenti, questo locale sforna ogni giorno ottimi lievitati e pasticceria da colazione. La macchina del caffè è curata con attenzione maniacale, e dà caffè cremosi e intensi, ma anche cappuccini vellutati. Per pranzo tramezzini, panini, piatti freddi e qualche pasta preparata sul momento. Interessante il gelato artigianale. Due Chicchi e una Tazzina nella guida Bar d’Italia 2017.

 

Olimpia (Avezzano)

Un locale storico di Avezzano, con arredamento moderno e ampio dehors esterno. Caffè dal gusto pieno ed equilibrato, cappuccino ben montato con aroma intenso e persistente. Ampia l’offerta sui dolci: pasticceria fresca e secca, sfogliatelle, lievitati per la colazione, dolci della tradizione, tutto proveniente dal laboratorio interno. A pranzo focacce, panini, tramezzini e piatti freddi. Interessante l’aperitivo, con un’ampia scelta fra cocktail e vini locali.

 

indirizzi

Ape aperò | L’Aquila | itinerante |  tel. 340 300 3895 | www.facebook.com/pg/Ape-Aper%C3%B2-1454686271501401/about/?ref=page_internal

 

 

Bar del Corso | L’Aquila | corso Vittorio Emanuele, 69 | tel. 0862 207744 | www.facebook.com/bardelcorsolaquila

 

Conca d’oro | Avezzano (AQ) | via Giuseppe Garibaldi, 112 | tel. 0863 20373 | www.facebook.com/concadoro.avezzano

 

Da Lincosta | L’Aquila | via Antonelli, 6 | tel. 0862 204358 | www.dalincosta.it

 

Elodia | L’Aquila | frazione Camarda | tel. 0862 606830 | www.elodia.it

 

Gran caffè dell’Aquila | L’Aquila | viale Corrado IV, 6 | tel. 0862 413365 | www.facebook.com/Gran-Caff%C3%A8-dellAquila-113528258712591

 

Granocielo | Avezzano (AQ) | via Corradini,78 | tel. 345 949 9735 | www.facebook.com/granocielo

 

La dolce vita | L’Aquila | viale Corrado IV, 3 | tel. 329 160 5001 | www.facebook.com/La-Dolce-Vita-Officialpage-395116747244711

 

La stozza | Ovindoli (AQ) | via del Ceraso, 3 | tel. 0863 705633 | https://www.facebook.com/LA-STOZZA-da-Osvaldo-173477709388985

 

Mammaròssa | Avezzano (AQ) | via Giuseppe Garibaldi, 388 | tel. 0863 182 5002 | www.mammarossa.it

 

Mangione papale | L’Aquila | via Porta Napoli, 67/1 | tel. 0862 414983 | www.magionepapale.it/it/home

 

Olimpia | Avezzano (AQ) | loc. Cappelle dei Marsi | via Tiburtina Valeria, km.111.200 | tel. 08 634521 | www.hotelolimpia.it/dove_siamo.html

 

Percorsi di gusto | L’Aquila | viale della Croce Rossa, 40 | tel. 08 62411429 |  www.percorsidigusto.com 

 

a cura di Francesca Fiore

 

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Addio allo chef Mario Musoni, il re del risotto

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È morto a 68 anni nella sua casa di Stradella, in provincia di Pavia, stroncato da un improvviso malore, lo chef pavese Mario Musoni.  

Mario Musoni

Originario di San Zenone Po, ha mosso i primi passi nel mondo della ristorazione prima come cameriere, poi come maitre e sommelier in giro per l'Europa. Sarà l'incontro con la moglie Patricia a farlo rientrare in Italia per aprire, nel 1982, il suo ristorante Al Pino di Montescano, in Val Versa sulle colline dell'Oltrepò Pavese, a cui nel 1987 viene assegnata la stella Michelin (la prima dell'Oltrepò Pavese). Negli ultimi anni della sua attività si era dedicato anche al ruolo di docente per scuole di cucina internazionale, soprattutto in Asia.

Musoni era noto per i suoi celebri risotti e per la sua grande amicizia con il giornalista sportivo e grande appassionato di cucina Gianni Brera. Noi vogliamo ricordarlo con l'ultima scheda pubblicata nella guida Ristoranti d'Italia del Gambero Rosso: “Riparato dalle colline su una delle più famose strade del vino, è la sosta consigliata per scoprire che anche le più semplici materie prime possono rivelare un gusto inatteso. La casa ti accoglie con un caprino in gelatina di pomodoro su un tappeto di foglie di basilico. Gli irrinunciabili antipasti proseguono con una morbida squisitezza: marmellata di cipolle rosse e spuma di tonno su letto di fagioli. A seguire pasta di salume fresco con funghi chiodini avvolti in una foglia di verza e carciofi fritti su fonduta di taleggio. Famoso per i risotti, abbiamo assaggiato quello con provola purea di piselli e uovo di quaglia adagiato. Allettanti i secondi, galletto nostrano ripieno di tartufo, fritture di verdura con mele e zucca e brasato di spalla con purea di patate. Originali e deliziosi i dolci tra cui spicca il gelato artigianale servito in tre bicchieri distinti: cheesecake, tiramisù e crema di pistacchio servita con una goccia di olio extravergine crudo, un tocco per staccare ed esaltare gli aromi. Ambiente piacevolmente familiare e servizio eccellente, sempre attento all’accoglienza e all’armonia estetica dei piatti”.

Sentite condoglianze alla moglie e ai due figli Ivan, che ora lavora ad Abu Dhabi, e Michael, anch’egli chef, che lavora a Singapore.

 

Ricette di Natale dal mondo. Il Giappone di Yoji Tokuyoshi 

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Abbiamo raggiunto Yoji Tokuyoshi nel suo ristorante di Milano, dove ci ha raccontato in che modo, in Giappone, si vivono i giorni legati alla fine del vecchio anno e all'inizio del nuovo. Nel farlo ci ha regalato anche la ricetta della soba che si mangia, tradizionalmente, proprio per festeggiare l'arrivo dell'anno nuovo.

Il Natale in Giappone non esiste, e non esiste, in teoria, neanche una parola specifica a indicarlo, tanto è vero che le formule di buon auspicio più utilizzate sono quelle inglesi, nipponizzate nella pronuncia. Merry Christmas è l'augurio che più di frequente si sente fare per queste giornate che, in realtà, non sono festive: il 25 dicembre è un giorno come tutti gli altri, in cui gli uffici sono aperti e le attività non si fermano, e la Vigilia non è il momento che riunisce le famiglie. Anche se, nelle città, si vive un'atmosfera speciale anche da questa parte del mondo. Perché se è vero che non c'è il presepe a scaldare le case, è altrettanto vero che le strade sono splendenti per le luminarie, spesso anche con richiami alla nostra tradizione, che le abbelliscono per la fine dell'anno e per il 23 dicembre, quando si celebra il compleanno dell'imperatore Akihito ed è festa nazionale. Non si percepisce, però il passaggio festivo dal Natale all'Epifania anche se le metropoli stanno sempre più assorbendo tradizioni importante dall'Occidente. E non tarderà ad arrivare anche la Befana.

La vera festa, in Giappone, è quella che segna il passaggio tra il vecchio anno e il nuovo. E mentre a Natale si alternano abitudini più o meno originali, la vero momento di rito è l'arrivo del nuovo anno.

Yoji Tokuyoshi

Ci sono diverse usanze legate proprio a questo momento. “Dopo la mezzanotte, si va a pregare nel tempio e si rimane anche fino alle 3 di notte, le celebrazioni del Capodanno hanno il loro culmine con la cerimonia dei 108 rintocchi”, un rito di purificazione che deterge l'anima dai peccati che la affliggono. È un appuntamento molto sentito, che richiama tantissime persone. A raccontarcelo è Yoji Tokuyoshi, chef e patron del ristorante milanese che porta il suo nome. Arrivato in Italia 12 anni fa, è un volto molto familiare agli appassionati di cucina d'autore. Per anni vice di Massimo Bottura, da un paio di stagioni ha intrapreso la sua carriera solista. E lo ha fatto tracciando i contorni di una cucina italiana vista però con gli occhi di un giapponese, con il suo approccio e la sua filosofia. La proposta è una sintesi del percorso umano, culturale e professionale di Yoji, nel locale che era di un altro grande orientale di stanza a Milano, Wicky Pryan. Ma questa è già storia. Oggi la sua cucina è stabilmente assestata su una visione aperta, dove prodotto, tecniche, suggestioni giocano intorno e dentro i piatti fino a reinventarli del tutto, pur rimanendo nel solco di una tradizione di cui non è mai succube.

Le tradizioni nipponiche del nuovo anno

In questo periodo dell'anno, le case giapponesi sono abbellite con il kadomaysu, una decorazione posta all'ingresso delle abitazioni, realizzata con diverse piante che, nella tradizione, accoglie gli spiriti benevoli durante i giorni che segnano il passaggio verso l'anno nuovo. Uno degli appuntamenti di rito, nelle feste, è quello con la tavola: “a Capodanno si mangia la soba, la minestra tipica giapponese. Quella del primo gennaio si chiama toshikoshi soba che vuol dire, più o meno, quando passa l'anno”. Le ricette cambiano, “è un piatto di casa, noi mettiamo verdura e pollo”. Di questo un piatto, che è anche un augurio di prosperità e longevità, Yoji Tokuyoshi ci ha dato la sua ricetta.

Toshikoshi soba (per 4 persone)

Pasta Soba

300 g di farina di grano saraceno (macinato fine)

135 g di farina 00

220 ml di acqua

Mescolare insieme tutti gli ingredienti e stendere con il matterello su un tagliere di legno fino ad arrivare a uno spessore di circa 2 millimetri. Tagliare striscioline sottili per creare gli spaghetti. Cuocere in acqua bollente senza sale per circa 2 minuti.

Zuppa di pollo

40 ml di mirin

40 ml di salsa di soia

200 ml di dashi

240 g di pollo (tagliato a pezzi)

2 cipollotti lunghi

Mettere nella pentola tutti ingredienti e portare a bollore. Quando raggiunge il bollore, spegnere il fuoco e far a raffreddare a temperatura ambiente per circa 1 ora. In una ciotola versare sui soba cotti questa zuppa di pollo.

 

Tokuyoshi | Milano | via San Calocero, 3 |  | tel. 0284254626 | http://www.ristorantetokuyoshi.com

 

a cura di Antonella De Santis

 

Ricette di Natale dal mondo. L'Albania di Fundim Gjepali

Ricette di Natale dal mondo. La Germania di Oliver Glowig

Ricette di Natale dal mondo. La Russia di Nikita Sergeev

Ricette di Natale dal mondo. L'Uruguay di Matias Perdomo

 

 

 

 

 

 

 

Tasta, la gelateria-pasticceria di Modica approda a Milano, Bologna e Hollywood

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È l’unica realtà di Modica a proporre la classica cioccolata in tazza 100% naturale, direttamente dalla barretta. Tasta è una gelateria-pasticceria siciliana che, nel corso del 2016, ha aperto nuovi punti vendita a Milano e Bologna. E uno anche all’estero. Il successo è stato immediato. 

L’attività

È il 1960 quando la famiglia Flamingo inaugura una piccola realtà artigianale specializzata nella produzione di coni e cialde a Modica alta. A gestire l’attività è Don Peppino che, nella seconda metà degli anni ’80, passa il testimone al figlio Rosario, che decide di ampliare il business dell’azienda inserendo anche le materie prime e gli ingredienti per gelaterie. Oggi, è ancora Rosario a occuparsi della produzione di coni. La terza generazione, vede l’ingresso dei figli Giuseppe, detto Peppe, e Alberto, che introducono il nome che ancora oggi contraddistingue il punto vendita. Tasta, dal termine siciliano “tastare” ovvero assaggiare, nasce così come lo conosciamo oggi a Marina di Ragusa e solo successivamente, nel 2014, a Modica e a Marina di Modica nel 2015. Dall’estate 2016, la gelateria-pasticceria approda anche a Bologna, Milano, Marzamemi e in Florida, a Hollywood, a pochi chilometri di distanza da Miami. Lo chef glacier di Tasta è Peppe, ideatore di tutti i gusti e fondatore del brand.

La filosofia

Sono cinque i pilastri fondamentali della produzione di Tasta: la naturalità degli ingredienti, l’utilizzo (quasi esclusivo) delle eccellenze gastronomiche siciliane, l’attenzione alle diverse esigenze alimentari, la solidarietà e il sostegno alle associazioni di beneficenza del territorio e il rispetto per l’ambiente e gli animali. Punti chiave che si traducono in una selezione attenta e scrupolosa delle materie prime, dal pistacchio di Bronte DOP alle fragoline di Sciacca e Ribera, dal mandarino tardivo di Ciaculli al cioccolato di Modica. E in una scelta ampia e variegata, in grado di rispondere alle necessità di tutti i consumatori con gelati e granite gluten free, sorbetti senza lattosio e vegan-friendly e anche prodotti senza saccarosio, come la Nocciola Zero, gusto a base di acqua, Nocciole del Piemonte IGP, fruttosio e fibra vegetale.

La cioccolata in tazza

Ma la specialità della casa, particolarmente indicata per i freddi invernali, è la cioccolata di Modica in tazza, realizzata partendo direttamente dalle barrette, che vengono sciolte di fronte al cliente. Niente surrogati o amidi, dunque, ma solo prodotti 100% naturali e artigianali. Le barrette di cioccolata sono create nel laboratorio artigianale modicano a marchio Tasta, in latte biologico caldo o acqua. Unico addensante utilizzato è la farina di semi di carrube, tipica del territorio. E i clienti possono scegliere una cioccolata personalizzata con granella di pistacchio di Bronte Dop o di nocciole, cannella, peperoncino o panna montata.

Le boutique

L’attività, dunque, vanta più di 50 anni di storia, ma nel corso del 2016 ha intrapreso una crescita notevole. La volontà della famiglia Flamingo è infatti quella di espandersi in Italia e all’estero, a cominciare da Milano e Bologna per proseguire poi anche al Centro e Sud Italia. Attualmente, sia il pubblico milanese che quello bolognese hanno accolto con entusiasmo l’arrivo della gelateria che, in tutti i suoi punti vendita, propone quattro tipologie di cioccolato in tazza tra cui scegliere. Si parte dal classico cioccolato fondente di Modica, una barretta monorigine del Venezuela al 60% di cacao, per passare poi al cioccolato fondente (70% cacao). Per chi ama i gusti più rotondi invece, disponibili anche la tazza al cioccolato al latte e quella al cioccolato bianco belga.

a cura di Michela Becchi

GLI INDIRIZZI

Milano | Corso Garibaldi 111 | 02/91571284

Bologna | Via San Felice 4/E | 051/0954666

Marzamemi | Via Marzamemi 61 | 331/4215200

Marina di Modica | C.so Mediterraneo 11 | 331/4954767

Modica | Corso Umberto I 126 | 0932/752515

Marina di Ragusa | Piazza Malta 11 | 342/8391666

Hollywood (Miami) | Hollywood Blvd 2033 | +1 (305)979-396

Dolci. Il Piemonte in 12 biscotti tradizionali e la ricetta dei baci di dama della pasticceria Gallizioli

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Un viaggio nel mondo dei biscotti, variegato panorama di ricette tradizionali, spesso legate a vicende storiche del nostro paese. Oggi comincia una nuova rubrica per conoscere il ricchissimo patrimonio di dolcetti da forno della nostra Penisola. Iniziamo con il Piemonte e la ricetta dei del maestro Walter Gallizioli.

Ogni regione ha i suoi, mentre alcuni sono diffusi, con le dovute varianti, in tutto il territorio nazionale. Oggi iniziamo una nuova rubrica sui biscotti, e partiamo da quelli piemontesi: 12 varietà tutte da scoprire. E per raccontarli meglio ci siamo fatti dare una ricetta dal maestro Walter Gallizioli della Pasticceria Gallizioli di San Mauro Torinese, Due Torte nell'edizione 2017 della guida Pasticceri&Pasticcerie.

 

Acsenti

I primi biscotti di cui vi parliamo sono tipici di Sandigliano, in provincia di Biella, gli Acsenti. Realizzati con farina di mais a cui si aggiunge un po’ di farina bianca, zucchero e alvà, nome piemontese per il lievito madre. Una volta fatto l’impasto, vengono suddivisi in piccole porzioni a forma di S, oppure rotonde, e cotti nel forno. Originariamente erano legati alla festa della Madonna delle Grazie, che si celebra la seconda settimana di settembre, anche se in questa occasione all’impasto originale viene aggiunto un po’ di burro. Col tempo si sono diffusi anche come biscotti da colazione: sono molti i piemontesi che li mangiano nel caffelatte o nel tè della mattina.

 

Amaretti piemontesi

Si trovano un po’ in tutta Italia, ma sono particolarmente legati all’area che collega il savonese con il basso Piemonte dove si trovano amaretti di tanti tipi differenti, dai più secchi ai più morbidi, da quelli leggeri e friabili ai più compatti. Gli ingredienti fondamentali sono mandorle dolci e/o amare, albume d’uovo e zucchero, a volte con l’aggiunta delle armelline, i noccioli di albicocca che donano una nota di amaro più netta. In Piemonte ce ne sono diverse varietà: fra le più note gli amaretti di Mombaruzzo, quelli di Valenza, quelli di Gavi, quelli di Acqui Terme e di Ovada.

 

Baci di Cherasco

L’abbinamento fra cioccolato fondente e nocciole delle Langhe risale agli inizi dell'‘800 quando un pasticcere, rimasto anonimo, tornò al suo paese natale -  Cherasco in provincia di Cuneo - e mise a punto questi dolci croccanti dalla forma irregolare. Sono preparati con cioccolato fondente, nocciole tostate (di solito la varietà Tonda gentile delle Langhe) e burro di cacao, mescolati insieme per ottenere un impasto morbido. Il composto viene quindi suddiviso in tante porzioni che, una volta cotte, assumeranno la tipica forma. La ricetta originale è segreta, tenuta gelosamente nascosta nei laboratori dei maestri pasticceri di Cherasco.

 

Baci di CherascoBaci di Cherasco

 

Baci di dama

L’origine dei baci di Dama non è certa: alcune fonti li fanno risalire alla città di Tortona, mentre altre a una zona non precisata della Corte dei Savoia, intorno al 1800. Qualunque sia la storia vera, questi dolci dal nome romantico sono una delle eccellenze più note della pasticceria piemontese, preparati con farina, nocciole, zucchero, cioccolato fondente e burro.

Le varianti di questa ricetta sono parecchie: la più nota è quella di Alassio, brevettata nel 1919 da Pasquale Balzola. Agli ingredienti classici, in questa versione si aggiungono cacao e miele.

 

Bicciolani di Vercelli

Il nome di questo dolce dalle origini rinascimentali deriva da una celebre maschera del carnevale di Vercelli. Inventato da Carlo Provinciale, la ricetta originale fu ceduta nella prima metà del ‘900 al pasticcere Vittorio Rosso da Margherita Flecchia, pronipote di Provinciale: ancora oggi i suoi eredi continuano a mantenerla segreta. Il biscotto ebbe grande fortuna, tanto che nel 1903 la venne proclamato da casa Savoia “patrimonio unico e irrinunciabile della tradizione cultural-gastronomica piemontese”. Si preparano con farina bianca, burro, zucchero e uova a cui si aggiunge una miscela di spezie: chiodi di garofano, cannella, cardamomo, coriandolo, pepe bianco e pepe nero. Ogni pasticcere vercellese segue la sua ricetta, variando la proporzione delle spezie.

 

Bicciolani di VercelliBicciolani di Vercelli

 

Krumiri di Casale Monferrato

Un biscotto che nasce subito dopo l’unificazione italiana, per la precisione nel 1870, quando il pasticcere Domenico Rossi decise di sperimentare un prodotto nuovo. Ma la data “ufficiale” della nascita dei krumiri coincide con la morte del primo Re d’Italia, Vittorio Emanuele II, nel 1878: si narra che la forma di questo biscotto derivi proprio da quella dei baffi reali. Il nome invece si rifà alla parola “crumiro”, che indica il lavoratore che non aderisce allo sciopero, parola che a sua volta deriva da quella della tribù tunisina dei Khumir nota per il cosiddetto “lo schiaffo di Tunisi” del 1881. 

La ricetta originale vuole farina di grano tenero 0 oppure 1 (qualche pasticcere aggiunge una parte di farina di mais), burro, zucchero, tuorli d’uovo e vaniglia fresca. La caratteristica zigrinatura della superficie viene ottenuta tramite una speciale sac-à-poche o, nelle produzioni più abbondanti, tramite l’uso dell’estrusore.

 

Krumiri di Casale MonferratoKrumiri di Casale Monferrato

 

Lingue di gatto

Come dice il nome, la forma ricorda la lingua di un gatto. Si tratta di un biscotto diffuso in tutta Italia e in diversi paesi d’Europa, ma che in Piemonte trova una sua ricetta specifica e una città d'adozione. Sono nati in nella Parigi degli anni '20, ad opera di un pasticcere fan di Charles Perrault, il padre del Gatto con gli stivali (cosa che ne spiega il nome). Arrivano in Italia grazie ai legami di Casa Savoia con le famiglie nobiliari francesi. Sono fatti con farina, burro di panna ammorbidito, albumi e zucchero, e a differenza delle lingue di gatto parigine, in quelle piemontesi non si usa il cioccolato.

 

Margheritine di Stresa

Biscotti tipici del piccolo comune di Stresa, in provincia di Verbano-Cusio-Ossola. Creati nel 1857 da Pietro Antonio Bolongaro nella pasticceria di famiglia, diventarono subito molto celebri fra i nobili piemontesi. Il loro nome deriva dalla principessa Margherita - che poi diventerà una delle regine italiane più famose - a cui erano stati offerti in occasione della sua prima comunione. Margherita rimase talmente entusiasta per il sapore delicato dei biscotti che, una volta salita al trono, ordinò che diventassero i dolci ufficiali da offrire al consueto ricevimento di ferragosto della Casa Reale. Si preparano con farina 00, fecola, burro, tuorlo d’uovo sodo setacciato, zucchero, vaniglia e scorza di limone.

 

Nocciolini di Chivasso 

Il nome originale di questi biscotti era noisette, nocciole in francese, oppure noasèt, in piemontese: sono diventati nocciolini in epoca fascista, quando era d'uso italianizzare i nomi. Inventati dal pasticcere di Chivasso Giovanni Podio, devono la loro fortuna al lavoro di Ernesto Nazzaro, genero di Podio, che li portò all’Esposizione Universale del 1900 a Parigi. I biscotti ottennero un tale successo che nel 1904 Nazzaro ottenne il brevetto col marchio di fabbrica dal Ministero del Commercio del Regno d'Italia. La fama dei nocciolini si diffuse in maniera ancora più capillare quando Vittorio Emanuele III di Savoia fece di Nazzaro il fornitore della Real Casa. 

La ricetta è semplicissima: nocciole, albumi d’uovo e zucchero. Le nocciole, della varietà Tonda gentile delle Langhe, vengono sgusciate e tostate, poi mescolate con lo zucchero e l’albume: la pasta ottenuta viene fatta colare goccia a goccia su una placca da forno e qui cotta. I nocciolini tradizionali sono molto piccoli, pressappoco quanto un'unghia, ma di recente è nata una versione più grande, con biscotti che arrivano anche ai 3-4 cm e chiamati appunto “noccioloni”.

 

Lingue di gattoLingue di gatto

 

Paste di Meliga

Secondo la tradizione, le paste di Meliga, paste ‘d melia in piemontese, sarebbero nate in seguito a un cattivo raccolto che avrebbe fatto salire alle stelle il prezzo del frumento. I fornai cominciarono quindi a mescolare la farina 00 con il frumento di mais, una farina ricavata dal mais macinato finissimo, non utilizzabile per la polenta ma solo per i dolci. Oltre alla farina di frumento e alla farina di mais, la ricetta prevede burro, zucchero, miele, uova e scorza di limone. La macinatura molto fine regala a questo prodotto una friabilità intensa e un gusto molto definito. Sono dolci tipici della zona del Cuneese, in particolare del Monregalese, ma sono diffuse anche  in provincia di Biella e in altre zone del torinese come la Val di Susa, la Val Cenischia e la Val Chisone. Da non confondere con la paste di meliga di Sant’Ambrogio, le paste di Pamparato e quelle di Barge e Sanfront.

 

Quaquare di Genola

Le quaquare prendono il nome dal termine dialettale con cui in Piemonte si indicano i maggiolini, coleotteri un tempo molto diffusi nelle campagne di cui i biscotti ricordano la forma. Si fanno con farina di grano tenero, burro, albume d’uovo, zucchero e scorza di limone. Benché siano prodotti anche da alcuni opifici nella zona di Genola, in provincia di Cuneo, la loro peculiarità è quella di essere preparati dalle famiglie del piccolo centro durante le tre settimane della festa di S. Marziano e cotti nel forno comune. Ogni famiglia, ovviamente, ha una sua ricetta segreta. I biscotti fatti per la festa vengono conservati tutto l'anno dentro le burnie, barattoli di vetro con chiusura ermetica, che permettono di mantenerne intatta la fragranza.

 

Margheritine di StresaMargheritine di Stresa

 

Tirulen

Originario di Isola d’Asti, il nome di questo biscotto deriva dal gesto che si fa per prepararli: quando l’impasto dei biscotti è pronto se ne “tirano” delle parti per formare i vari dolcetti. Sono realizzati con farina, zucchero, latte, burro, nocciole, scorza di limone grattugiata e lievito, hanno una consistenza molto friabile e una superficie volutamente rugosa, grandi dimensioni e un gusto dolce con delle note amarognole. I piemontesi li mangiano nel latte ma anche abbinati ai vini dolci.

 

La ricetta del maestro Walter Gallizioli

 

Baci di dama

ingredienti 

200 g di mandorle baresi

300 g di nocciola piemontese (Tonda gentile trilobata)

500 g di zucchero

500 g di farina 00 debole (160w)

200 g di fecola di patate

500 g di burro di latteria

1 bacca di vaniglia

40 g di cacao (22-24%)

zest di limone

 

ingredienti per la ganache al cioccolato:

200 g di panna fresca

400 g di cioccolato fondente (60-62%)

 

Procedimento:

Setacciare insieme la farina e la fecola. Far girare nella planetaria il burro, aggiungendo la mandorle con le nocciole (tritate molto finemente) e lo zucchero. Aggiungere farina e fecola setacciate nella planetaria e farla girare piano per 1 minuto. Potete anche finire la lavorazione a mano per evitare che il composto si surriscaldi.

Dividere l’impasto in due parti: una da 1 kg circa e l’altra da 1,2 kg circa.

Aggiungere il cacao all'impasto da 1 kg, il cacao, impastare bene gli ingredienti, dare la forma di un salame e raffreddare in frigo per 12 ore. 

Formare un salame anche con l’impasto rimasto e metterlo in frigo sempre per 12 ore.

Dopo questo tempo, riprendere la pasta e fare delle cordicelle alte 2 cm. Tagliarle in tante parti uguali e farle ruotare fra le mani in modo da creare delle sfere leggermente schiacciate sulla base. Infornarle per 12 minuti a 170 gradi.

Per preparare la ganache tritare il cioccolato finemente, versare la panna in un pentolino e riscaldarla quasi fino al bollore (evitare di superare gli 85 gradi). Versare nella panna il cioccolato fondente e spegnere il fuoco. Mescolare con una frusta fino a farlo sciogliere completamente. Una volta sfornati i biscotti accoppiare le 2 basi delle semisfere ottenute e saldatele con la ganache di cioccolato fondente.

 

Pasticceria Gallizioli | San Mauro Torinese (TO) | via Martiri della Libertà, 84 | tel. 0118221161 | www.pasticceriagallizioli.it

 

 

a cura di Francesca Fiore

 


Food tech: le innovazioni tecnologiche più promettenti del 2017

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È ancora il food tech al centro degli studi e delle analisi di mercato degli esperti del settore. Le innovazioni tecnologiche, dalle app all’e-commerce, stanno infatti dominando sempre più l’industria alimentare. Quali saranno le migliori del 2017? Nella lista, un nome fra tutti domina la scena, quello di Amazon.  

Food tech nel 2017

Sono i progressi tecnologici a dettare evoluzione e sviluppo dei vari ambiti del settore agroalimentare. Dalle startup innovative a nuove modalità di acquisto e metodi di pagamento, dalle app per smartphone che facilitano la spesa alle varie piattaforme di food delivery: l’universo della gastronomia ha visto una crescita smodata di servizi per consumatori e imprenditori, retailer e ristoratori, basati sulle ultime tendenze tecnologiche. E, come ogni anno, anche per il 2017 gli esperti del settore hanno individuato alcune fra le più promettenti innovazioni food tech con maggiori probabilità di successo. A selezionare le 10 più accattivanti è stata la rivista online americana FoodDive, specializzata nell’analisi dell’industria alimentare. Un elenco che conferma il dominio incontrastato di Amazon, leader del commercio elettronico a livello internazionale. Sono infatti molteplici le innovazioni portate avanti da Amazon e altrettante le misure promosse da altre realtà per far fronte all’ascesa significativa dell'azienda nel settore del food and wine.

Il dominio di Amazon

Una delle sue innovazioni più attese è il supermercato senza cassa, Amazon Go, uno store che rispetta a pieno la formula del “grab and go”, elimina il checkout e permette ai consumatori di acquistare ciò che preferiscono e pagare solo in seguito con addebito online sul proprio account. Una rivoluzione del concetto di spesa che è stata accolta con entusiasmo dal pubblico di Seattle, che presto (il negozio dovrebbe aprire i primi mesi del 2017) potrà usufruire del servizio. E non finisce qui: secondo l’indagine di FoodDive infatti, l’idea di Amazon sarà presto imitata anche da altri servizi di e-commerce. Novità anche per l’Amazon Dash Button, il pulsante che consente, tramite connsessione wi-fi, di acquistare i prodotti con un semplice click. Jeff Bezos, fondatore e CEO di Amazon, sembra intenzionato ad accelerare la diffusione di questo dispositivo e, soprattutto, a coinvolgere sempre più aziende aziende ad adottare il pulsante. Sarà implementata poi anche la funzionalità di speaker di Amazon Echo, un apparecchio dotato di sette microfoni e che risponde ai comandi vocali, in grado di riprodurre musica, fornire le informazioni sul traffico, e che funziona come sveglia. Una sorta di assistente virtuale come quelli presenti nella maggior parte degli smarphone e disponibile anche nella versione più piccola ed economica Echo Dot. Dal canto suo anche Google, con il suo speaker Google Home, è intenzionato a implementare i servizi e le funzionalità del microfono. Ma in che modo questi strumenti possono essere utilizzati per la spesa? Nel caso di Amazon Echo, Alexa – assistente virtuale – può fornire nome e prezzo del prodotto a cui si è interessati, tempi di spedizione stimati e ulteriori dettagli prima di procedere all’acquisto. Ma la vera novità di Amazon è il suo interesse verso il settore dei trasporti: il colosso di Seattle sta infatti sviluppano delle proprie reti logistiche di trasporto.

Le altre aziende

Nonostante Amazon sia il nome più ricorrente dell’elenco, nell’analisi sui servizi food tech dell’anno compaiono anche altre realtà. Come, per esempio, Wallmart, catena di negozi al dettaglio statunitense che ha recentemente ideato L’Ultimo Miglio, servizio di click & collect – lo shopping online che elimina i costi di spedizione e consente al cliente di ritirare personalmente il prodotto. Una tipologia di ecommerce che ha già da qualche anno a questa parte ha spopolato dapprima nel Regno Unito e poi negli Usa e resto d’Europa, e che sembra destinata a una crescita inarrestabile. C’è poi Samsung con The Family Hub, ultimo modello di frigorifero lanciato dall’azienda sudcoreana, che si contraddistingue per il suo display touch screen, attraverso cui effettuare acquisti presso diversi supermercati. Largo poi ai local food, giardini in-store dove si coltivano ortaggi e frutta al chiuso, su cui stanno lavorando con progetti diversi le aziende statunitensi Target e Kroger, catena di negozi al dettaglio nata in Ohio. Ma è previsto anche il miglioramento e lo sviluppo dei sistemi hi-tech per il monitoraggio delle scorte nei supermercati e nei magazzini, delle consegne a domicilio e dei pagamenti da telefono cellulare.

a cura di Michela Becchi

Una giornata con Joško Gravner. Di terra, di luna, di confini e di scalate.

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È da poco uscito il Pinot Grigio 2006 Gravner, ma sarà uno degli ultimi in commercio. Ancora una volta il contadino del vino in anfora sorprende tutti e decide di espiantare il vigneto per dedicarsi solo alla Ribolla. Ecco il suo nuovo inizio

Un uomo di confine

Prima regola. Non chiamatelo produttore o imprenditore. Lui, camicia a quadri e sguardo pulito, è un contadino e la sua è “solo” un'azienda agricola: “Mi fa sorridere quandoi giornalisti la chiamano cantina o azienda vitivinicola, pensando, così, di usare un termine più prestigioso”.

Seconda regola. Non chiedetegli perché non sia certificato biologico o biodinamico: “Non c'è bisogno di un timbro per dire quel che sei. È come andare in giro a dire sono onesto: lo sei e basta, senza proclami”.

Terza regola. Non fate domande sulla qualità dell'annata in corso. “Dal 2001 non mi son più permesso di controllare né un grado zuccherino né l'acidità: tanto non aggiungerei comunque nulla”.

Se non fosse ancora chiaro di chi stiamo parlando, basterà aggiungere una delle frasi che più lo identifica: “Il vino è come un'anfora: amplifica pregi e difetti del vino.

JoškoGravner è un uomo di confine, come i suoi vigneti. Da un lenzuolo all'altro di terra (la cantina si trova in località Lenzuolo Bianco di Oslavia) ci sono poche curve, due Paesi (Italia e Slovenia) e tanta storia. Lui va dall'uno all'altro, ritorna, riparte. Anche cambiando strada a volte o tornando su quella precedente. È un uomo che si pone dubbi e domande e che per rispondere non ha paura di mettersi in discussione ogni volta.

Josko Gravner

foto M.Mocilnik

La certezza del dubbio

È così, con questa capacità di dubitare, che è iniziato il suo percorso in cantina, rinnegando in un primo momento gli insegnamenti del padre e dello zio e introducendo per la prima volta l'acciaio e le barrique francesi. Erano gli anni '80: “Io allora mi sentivo moderno”ci confida Joško“Mio padrequando vide i contenitori di acciaio mi chiese 'che fai con quelle pignate?'. Mi lasciò fare, ma disse che un giorno sarei tornato indietro”. E infatti, così fu. Ma quel che non aveva previsto è che Joško non solo sarebbe tornato indietro, ma sarebbe arrivato fino all'origine. Alla vinificazione in anfore di terracotta provenienti dal Caucaso. “L'acqua pulita si ritrova alla sorgente non alla fonte”, ama ripetere.

Prima, però, un altro viaggio, un'altra strada checapisce non essere la sua: l'incontro con la viticoltura americana, quella che negli anni '90 era considerata l'ultima frontiera del vino. Tante aspettative e un'unica grande e definitiva delusione: “Ho capito che non volevo fare un vino alla coca-cola. Bere vino è un optional: nessuno ti obbliga, quindi o è buono e non fa male o non ne vale la pena”. Le prime prove di macerazione sono del 1996, dopo una disastrosa grandinata; il primo vino in anfora del 2001. La storia di questo cambiamento è raccontata nel documentario uscito da poco Skin Contact: Development of an Orange Taste, in cui, sul filo degli orange wine in Italia, Gravner è protagonista insieme a Angiolino Maule e Daniele Piccinin. Il film, diretto da Mike Hopkins, è disponibile sul sito bottledfilms.com.

Josko Gravner

foto M. Frullani

La scelta controcorrente

Oggi quello di Gravner è un percorso a eliminazione. Ha eliminato l'acciaio (per passare alle anfore), i trattamenti in vigna (per passare al biodinamico), gli additivi (tutti a parte lo zolfo), la pressa automatica, il frigo per raffinare mosti e la diraspatrice. E da ultimo gli stessi vigneti: tutti tranne quelli di Pignoletto e Ribolla.

Ad assaggiare il suo perfetto Pinot Grigio Riserva 2006 edizione limitata, uno degli ultimi (seguiranno solo le annate 2007, 2009 e 2011) piangono cuore e palato. Ma ormai è fatta: il vigneto è già stato espiantato. Il futuro è la Ribolla. E che importa se per ora è proprio il Pinot Grigio ai primi posti tra i vitigni più impiantati in Italia e dei vini più richiesti nel mondo: per Gravner non esistono mode da seguire o mercati da inseguire. Semmai è il contrario: i mercati aspettano, anche sette anni per avere i suoi vini. Sono, infatti, sette gli anni dell'attesa del vino (uno in anfora e sei nel legno) e sette quelli che ci mette un terreno per essere pronto ad accogliere nuovi impianti. Non a caso il sette è il Numero, quello delle religioni e della filosofia.

 

Il ritorno all'agricoltura del contadino

Da quanto detto fino ad ora, sembrerebbe che Gravner sia più che altro un uomo di pensiero, una sorta di eremita o di asceta. In realtà, camminando con lui tra i vigneti, si capisce che è anche un uomo molto concreto. “Il vero problema dei nostri tempi” dice, immerso nelle sfumature giallo-marroni del Collio “è che stiamo vivendo un'agricoltura senza contadini”. E lui, che contadino si sente,non riesce a capacitarsene e ci soffre, conscio com'è che il contadino per la maggior parte del tempo è colui che non agisce, ma questa paradossalmente è una delle azioni più coraggiose che possa fare, come scrive Stefano Caffarri nel libro Gravner, coltivare il vino (testi di Stefano Caffarri, foto di Alvise Barsanti, casa editrice Cucchiaio d'Argento).

Emerge, di tanto in tanto, anche una parte autoironica di questo contadino del vino, ad esempio quando racconta dei controlli in cantina, dove, come se non bastassero le anfore interrate a confondere i burocrati, ci pensano anche le candele utilizzate per misurare la presenza di anidrite carbonica: “Ogni volta che viene il nucleo antisofisticazione mi dice che non ha mai visto una cantina come questa”. Ride.

Se gli chiedi delle quantità di vino prodotte quest'anno risponde che “tanto il vino va a bicchieri, mica ad ettolitri”. Ma quando si parla di sostenibilità e di biodistretti ritorna alle metafore: “Sono iniziative interessanti, ma se vuoi conquistare il monte Everest” dice“non puoi andarci con il pulmino”. Lui preferisce andarci a piedi. Lentamente.

 

a cura di Loredana Sottile

 

 

 

 

Piatti e cocktail d’arte. Gualtiero Marchesi interpreta 5 grandi artisti del Novecento su Sky Arte

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Con lo chef milanese ci saranno anche il bartender Dario Comini e il critico d’arte Francesco Bonami. Obiettivo: far emergere le relazioni tra arte e cucina, con i piatti del maestro e i cocktail di Comini ispirati all’opera di Manzoni, Fontana, Pollock, Malevic e Burri. Bonami fornirà l’interpretazione critica. Da giovedì 19 gennaio su Sky Arte HD.

Arte e cucina in tv

La creazioni degli chef possono ambire allo status di opere d’arte? La questione è annosa, e mai risolta fino in fondo: tra gli addetti ai lavori tanti si prodigano nell’associazione di questo o quel piatto ai lavori dei grandi maestri del pennello, molti altri negano con forza la parentela, riconducendo la maestria di un cuoco all’ambito che gli è più proprio, quello della cucina. Ma certo è indubbio che quando entrano in gioco l’ispirazione e la creatività l’arte sia tra le prime fonti a cui attingere per stimolare i sensi e il palato del commensale. E per dimostrare la vicinanza tra le discipline – ribaltando però il punto di vista, a favore delle opere di cinque maestri dell’arte del Novecento – Sky Arte ha deciso di produrre una nuova produzione in cinque puntate, Piatti e cocktail d’arte, che andrà in onda sul satellite a partire dal prossimo 19 gennaio.

Non è la prima volta che il canale tematico dedicato ad arte, design e cultura attivo in Italia dalla fine del 2012 rivolge le sue attenzioni al mondo della cucina d’autore: in passato proprio il canale 120 del pacchetto Sky Italia aveva trasmesso il format Inspiring Chef: il Gusto dell’arte, divulgando sei video ritratti raccolti a partire dall’esperienza del Calendario Lavazza 2014. Tra loro anche gli italiani Massimo Bottura, Davide Oldani e Carlo Cracco.

Piatti d’arte con Gualtiero Marchesi

Ora invece è Gualtiero Marchesi ad approdare nel palinsesto di Sky Arte HD, per una missione che cerca il dialogo tra arte e cucina. Del maestro della cucina italiana si ricordano molti piatti diventati icona della storia gastronomica nazionale, e a lui spetterà il compito di tradurre l’opera di cinque grandi personalità dell’arte contemporanea, con l’ausilio del bartender Dario Comini – impegnato a trasformare in cocktail, a base di rum Zacapa, le stesse ispirazioni artistiche – e del critico d’arte Francesco Bonami, che intanto si preoccuperà di spiegare l’opera e l’artista al pubblico. Il format nasce da un’idea di Didi Gnocchi per 3d Produzioni, con la regia e la direzione artistica di Michele Mally. Ogni puntata, in onda il giovedì alle 20.15, prenderà in esame l’opera di un artista tra Lucio Fontana, Piero Manzoni, Giacomo Burri, Jackson Pollock e Kasimir Malevic: alla preparazione di piatti e cocktail (le puntate sono state girate a Milano tra l’Accademia Marchesi, il Nottingham Forest di Comini e il Piccolo Teatro), seguirà l’incontro alla tavola del Marchesino, con le tre voci narranti insieme per assaggiare gli abbinamenti e tirare le somme.

Se lo chef si ispira all’arte

Marchesi, dal canto suo, più volte è stato chiamato in ballo per avvalorare il legame tra la cucina e l’arte; e lui, amico e frequentatore di tanti artisti nella Milano degli anni Settanta, non si è mai risparmiato dall’offrire il proprio punto di vista: “La cucina è di per sé scienza, sta al cuoco farla diventare arte”, rivela al Corriere della Sera nell’ultima intervista rilasciata in occasione del lancio del programma. La conferma lampante arriva dal ricordo di un piatto, che il maestro di via Bonvesin de la Riva ideò ispirandosi alle acrome del suo amico Piero Manzoni. “La cucina è arte che si consuma”, gli fa eco Bonami. E allora vedremo se la crema di riso al pesto con vongole e calamari ispirata ai quadri di Pollock o la coda di rospo al nero di seppia dedicata ai tagli di Fontana colpiranno nel segno, conquistando gli spettatori di Sky.

Piatti e cocktail d’arte | Sky Arte HD, canale 120 | dal 19 gennaio, alle 20.15

 

a cura di Livia Montagnoli

Cos’è la cucina note by note di Hervé This e come la interpreta Andrea Camastra

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No, il cibo del futuro non si limiterà agli insetti o a pillole ricche di nutrienti: tra non molto sentiremo parlare sempre più spesso della cucina “note by note”. Di che si tratta? Ve lo spieghiamo con le parole dell'inventore Hervé This e dello chef Andrea Camastra del ristorante Senses di Varsavia, che la mette in pratica. Prima, però, un po' di storia per comprendere al meglio.

Dalla gastronomia molecolare alla note by note

I primi concetti di gastronomia molecolare furono elaborati alla fine degli anni '80 dal Nobel per la Fisica Pierre Gilles de Gennes e dal fisico e gastronomo Hervé This, presso l’INRA (Institut National de la Recherche Agronomique) nel Collège de France di Parigi. Senza dimenticare il grande apporto dato da Nicholas Kurti, fisico presso l'Università di Oxford, che portò la gastronomia molecolare nelle case inglesi grazie alcuni programmi televisivi, applicando le conoscenze scientifiche in cucina. È però in Italia, ad Erice, che viene presentata ufficialmente in occasione dell'Atelier Internazionale di Gastronomia Molecolare. Era il 1990. Questa sotto disciplina della scienza alimentare studia le trasformazioni chimiche e fisiche che avvengono negli alimenti durante la loro preparazione e applica nuove tecniche scientifiche alla cucina, permettendo agli alimenti di presentarsi sotto altre forme e/o consistenze. Sì perché gli alimenti sono composti organici che, quando vengono sottoposti a determinati processi, manifestano le loro proprietà trasformandosi in spume, emulsioni, gelatine e chi più ne ha più ne metta. Una volta passata nelle mani degli chef – i maggiori esponenti sono stati Ferran Adrià, Heston Blumenthal e Pierre Gagnaire - la gastronomia diventa cucina molecolare, anche se non ha nulla a che fare con le molecole ma è solo un'espressione proposta da Kurti al fine di distinguere la cottura dalla scienza. Cucina molecolare, dicevamo, che utilizza strumenti nuovi e stupisce il commensale con forme e consistenze inusuali lasciando però inalterati il gusto e le proprietà nutritive. Così, dopo lo stupore scintillante iniziale, la cucina molecolare pian piano sbiadisce, causa anche l'esser concepita dai più come mero esercizio di stile. Ed è proprio da questo assunto dal quale (ri)parte Hervé This per sviluppare la cucina note by note.

Foto di Alberto Blasetti

La cucina note by note. Obiettivi ed esempi pratici

Dalle ceneri a malapena raffreddate della gastronomia molecolare nasce una nuova era: la note by note, che invece di giocare solo con le consistenze degli alimenti si dedica alla costruzione del piatto in toto, decidendo di volta in volta gusto, forma, proprietà nutritive, colore, sapore, odore, sensazioni trigemidali. Come? Usando dei composti puri, prima estratti da ingredienti naturali e poi clonati in laboratorio. Così, invece di usare carne, pesce, frutta o verdura, si utilizzano questi composti, ottenendo però lo stesso sapore, odore e colore dei tessuti vegetali o animali. Hervé This fa un esempio pratico: “Quando si griglia una bistecca, basta metterla sulla griglia e aspettare. Mentre quando si crea lo stesso piatto con la note by note bisogna costruire da capo tutti gli elementi che caratterizzano la bistecca grigliata: odore, sapore, colore e consistenza. Come? Con sei cucchiai di proteine (una polvere bianca), quattro cucchiai di acqua, coloranti, composti disciolti in olio essenziale che ricreano il gusto e l'odore, poi basta cuocere il tutto come se fosse un'omelette”. Viene da chiedersi i motivi che hanno spinto Hervé a studiare una cucina simile, che necessita per forza di cose di un laboratorio. Gli obiettivi principali sono due: risolvere il problema dell'obesità e garantire la sicurezza alimentare (intesa in termini Fao). “È dimostrato che nel 2050 la popolazione mondiale raggiungerà i 10 miliardi di persone, e il problema principale sarà quello di sfamare tutti. Con questo nuovo approccio si ricreano i cibi senza però utilizzare le fibre animali o vegetali. Ai più scettici, che accusano la note by note di diminuire la qualità del food o di limitare la ricerca di nuovi ingredienti, rispondo che in realtà questo nuovo approccio alla cucina rappresenta una grande opportunità per i cuochi, che hanno la possibilità di comporre i loro piatti con un'infinità di composti puri, piuttosto che con prodotti vegetali e animali. Pensate alla cucina tradizionale come la musica tradizionale, che si avvale di chitarre o violini veri, e alla note by note come la musica elettronica, che attraverso l'utilizzo di sintetizzatori audio può generare imitazioni di strumenti musicali reali o creare suoni ed effetti non esistenti in natura”. Hervé fa poi un altro esempio pratico: “Abbiamo confrontato una salsa tradizionale al vino rosso, che richiede molte ore per raggiungere il sapore ottimale, e la salsa Wöhler, che ho creato mettendoci meno di un minuto. Mi è bastato far bollire l'acqua con polifenoli delle uve del vitigno Syrah, acido tartarico, glucosio, sale, piperina, gelatina e olio emulsionato. A noi è piaciuta di più la seconda! Ecco perché non c'è alcun motivo per reputare la note by note una cucina di bassa qualità”.

Foto di Alberto Blasetti

Una cucina ancora per pochi chef

Nonostante sia una cucina che ha come obiettivo quello di sfamare tutti, non è ancora alla portata di tutti gli chef. Il primo ad appoggiare le sue teorie è ancora una volta Pierre Gagnaire, che il 26 aprile del 2009 serve per la prima volta un piatto “note by note” presso il Mandarin Oriental di Hong Kong. Oggi l'ambasciatore della note by note è un italiano: Andrea Camastra, che una sera durante un normale servizio si è trovato a rispondere alla domanda perentoria del fisico: “Sei pronto a cambiare il mondo culinario per la seconda volta?”. La prima volta l'ha fatto proprio il Ferran Adrià che tutti noi conosciamo. L'annuncio ufficiale di questo nuovo connubio tra fisico e chef è avvenuto a Monaco, il novembre scorso, durante lo Chefs World Summit 2016.

Foto di Alberto Blasetti

L'ambasciatore Andrea Camastra

Nato a Bari nel 1980, vissuto a Monopoli e trapiantato con il suo ristorante Senses nel centro di Varsavia, in uno stabile che prima della distruzione nella Seconda guerra mondiale era la zecca della città, Andrea Camastra ha una formazione decisamente europea: si diploma all’Istituto Commerciale di Castellana Grotte in provincia di Bari, frequenta la Cordon Bleu di Parigi e per tredici anni fa spola tra Parigi e Oxford per imparare tutto sulla scienza culinaria. Fa gavetta nelle cucine dei più illustri ristoranti di Francia, Svizzera, Belgio e approda in Polonia un po' per amore e un po' per l'economia in crescita del ex paese sovietico. E dopo aver lavorato in molti ristoranti polacchi, apre nel 2015 il suo ristorante Senses, insieme ad altri due soci, investendo quasi due milioni di euro. Ristorante che, dopo nemmeno un anno dall'apertura, conquista la prima stella Michelin (occorre considerare che in Polonia c'è solo un altro ristorante stellato: Atelier Amaro, dove peraltro Camastra ha lavorato) ed entra a pieno titolo nella The Diners Club 50 Best Discovery Series. Camastra utilizza ingredienti italiani (salumi, formaggi o tartufi), ma è anche proprietario di due fattorie, che gestisce assieme alla moglie, dove si approvvigiona delle verdure e delle eccellenti carni, dai maiale ai cervi. Mentre lo intervistiamo è in trattativa per aprire una sua peschicoltura nelle Faroe Islands. Ma il suo motivo d'orgoglio è il laboratorio super accessoriato, proprio accanto al ristorante, ancora tenuto top secret perché contenente campioni confidenziali, almeno fino a marzo 2016. Qui Andrea trascorre la maggior parte del suo tempo “libero” tra separatori rotanti in grado di creare sapori concentrati e in mezzo a ogni genere di ammennicoli, quelli capaci di trasformare in polvere gli ingredienti disidratati, come tanti altri sofisticati giocattoli tecnologici. Insieme allo scienziato Wiktor Faliszewski e ai due sous chef Jan Wojtalik e Wojciech Truk mette a punto le ricette del menu che segue un unico fil rouge: il divertimento, sia da parte dell'artefice sia da parte del commensale.

Foto di Alberto Blasetti

La cucina note by note al Senses di Varsavia

Nel suo ristorante Andrea non propone ancora una cucina note by note integrale, “perché il mondo forse non è ancora pronto”, ma usa solo alcuni composti per migliorare i suoi piatti, dove le fibre vegetali e animali sono ancora le protagoniste. Questi composti sono per lo più molecole odorose estratte da ingredienti vari: “Di volta in volta estraiamo, tramite una specie di scanner (VCF), una sola molecola di un ingrediente, proprio quella che è responsabile del gusto e dell'odore che vogliamo. Dopo averla estratta, la cloniamo e la mettiamo sotto forma di olio essenziale e la utilizziamo o in purezza o mettendola in un altro ingrediente per dare un plus al piatto o per fare, magari, un parfait di porri senza porri”. Si può dire che nel suo laboratorio c'è una vera e propria banca dati di sapori sotto forma di boccette contenenti oli essenziali. Noi abbiamo provato alcuni piatti con qualche tocco di note by note (il menu è composto anche da piatti tradizionali) e ci hanno convinto. Pensiamo alla Trota con groviera, cren e salsa di mandorle dove nella salsa non c'è una sola mandorla. In questo caso il composto utilizzato è quello che ricrea il gusto e l'odore della mandorla pura, senza la distrazione delle note, per lo chef disturbanti, della terra o del legno. E senza i grassi contenenti nelle mandorle vere. Al Goulash con granchio reale, yuzu e yogurt, dove Camastra ha aggiunto l'olio essenziale del peperone arrostito, che dà una nota dolce ed elegante. Il risultato è l'unione di un gusto robusto con uno puro, intenso e pulito. Al Pierogi con bottarga, lardo, gambero rosso e salsa affumicata dove l'aroma dell'umami viene estratto senza per forza utilizzare glutammato monosodico, che bene non fa. O al predessert (uno dei pochi piatti quasi interamente note by note) Gelato al cocco, marshmallowalla banana, chantilly al rum bianco e polvere di cacao e nocciola, dove non c'era traccia né di cocco né di rum bianco, tanto meno di cacao, nocciola e banana. Tutti i gusti Andrea li ha ottenuti utilizzando le molecole responsabili del gusto degli ingredienti sopra citati. C'è di più: qui i marshmallow sono stati creati utilizzando per esempio albumina, xantal gum, colorante giallo. Il minimo comun denominatore di tutti i piatti è l'eleganza dei gusti, la loro pulizia e nitidezza che consentono al commensale di distinguerli perfettamente. Speriamo di vederlo presto anche da noi perché “il sogno di avere un ristorante in Italia sarà scontato ma c'è”.

Senses Restaurant | Varsavia | ul.Bielańska 12 - Senator building | tel. + 48 22 331 96 97 | sensesrestaurant.pl/en

a cura di Annalisa Zordan

foto di Alberto Blasetti

 

The Founder al cinema. Il film sulla vera storia di Mc Donald's: l'ascesa del fast food e il fiuto di Ray Kroc

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Quella di McDonald's è la storia del successo planetario del fast food, ma pure un esempio senza pari di fiuto imprenditoriale che si muove sull'orizzonte del boom economico americano per sviluppare un modello di franchising multimilionario. Ora un film racconta le vicende di Ray Kroc e il suo rapporto controverso con i fratelli McDonald.  

Mc Donald's. Dal mito al film

Con 35mila punti vendita nel mondo, Mc Donald's è la catena di fast food più celebre sul globo terrestre. Eppure non molti saprebbero rispondere senza esitazione se interrogati sulla storia di Ray Kroc: all'imprenditore statunitense si deve la fondazione di quello che un giorno sarebbe diventato il regno multimilionario a marchio Mc Donald's. E una storia che prende le mosse dal chiosco di street food di San Bernardino, in California, per incarnare alla perfezione quel concetto di fiuto imprenditoriale che ha plasmato il mito dell'industria statunitense. Tanto da farci un film, devono aver pensato ad Hollywood seppur con un certo ritardo rispetto alle previsioni: insomma, prima di Steve Jobs e Mark Zuckenberg, c'è stato Ray Kroc, l'intraprendente venditore porta a porta di frullatori diventato guru del fast food. E allora dopo The Social Network e Jobs, arriva al cinema The Fouder, pronto a sbancare i botteghini di mezzo mondo. Protagonista indiscusso della pellicola sceneggiata da Robert Siegel, per la regia di John Lee Hancock, sarà Michael Keaton, chiamato a interpretare il geniale imprenditore tra luci e ombre di una storia dove non è tutto oro quel che luccica, al motto di “Corri il rischio, rompi le regole, cambia il mondo”.

Alle origini del fast food. Una storia di capitalismo americano

E poco conta che oggi si moltiplichino i detrattori del brand, accusato trasversalmente di aver sdoganato un modello alimentare scorretto, precursore della società del junk food: quel che il film in uscita anche nelle sale italiane il prossimo 12 gennaio si prefigge di raccontare è l'American Dream di un rappresentante 52enne dell'Illinois durante il boom del Dopoguerra, e del suo incontro con i fratelli Mac e Dick McDonald, che negli anni Cinquanta avevano avviato un'attività di vendita di hamburger nella California del Sud. A lui il merito di aver intuito le potenzialità di crescita di un franchising improntato alla vendita di cibo informale, gustoso e veloce, a partire però dalla catena di montaggio (ribattezzato Speedee System) perfezionata dai fratelli McDonald, ingranaggio collaudato per servire hamburger, patatine, frullati e bibite alla clientela numerosa che affollava ogni giorno il chiosco di San Bernardino. E alla sceneggiatura il compito di tratteggiare alti e bassi di un percorso non sempre in discesa, costellato di figure fondamentali per la riuscita dell'operazione commerciale, a cominciare dal genio della finanza Harry Sonneborn, che per Kroc sviluppa quel sistema di franchising che gli permetterà di strappare il controllo della società ai fratelli McDonald.

Come il fast food ha cambiato il nostro modo di mangiare

La storia inizia nel 1954, nei decenni a seguire gli archi d'oro dell'insegna progettata da Dick McDonald conquisteranno la fama planetaria che oggi ne fa uno dei simboli più celebri del mondo, come all'epoca avevano già intuito i promotori della Pop Art. Nel frattempo, nel 1961, Ray era diventato unico proprietario della società. Ecco perché chi sceglierà di acquistare un biglietto per scoprire le origini del brand deve aspettarsi soprattutto “un film sul capitalismo, e non semplicemente sulla storia dei fast food”, come a più riprese ha ribadito il regista Hancock. E come conferma Robert Siegel: “La genesi di McDonald tocca tutti i grandi temi americani: la cultura dell'auto, gli anni Cinquanta, la crescita delle periferie, i fast food, il capitalismo e l'avidità”. Tenendo conto, però, della portata culturale e sociale dell'avvento del fast food, “che ha influenzato totalmente il modo di mangiare: come, dove e con chi mangiamo”.

Così mentre in Italia sembra essersi esaurita la vena polemica che ha anticipato l'apertura dell'ultimo discusso punto vendita romano a pochi passi dal Cupolone di San Pietro – una polemica conclusasi con un nulla di fatto che è rimbalzata fin sulla colonne del New York Times – i cinema di tutto il mondo si preparano a divulgare una nuova rilettura delle origini di uno dei più longevi miti dell'industria americana. Intanto ecco una breve anticipazione del film.

 

The Founder | Di John Lee Hancock | dal 12 gennaio 2017 al cinema

 

a cura di Livia Montagnoli

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