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L'industria dolciaria made in Italy che piace al mondo. Nutella Cafè e Venchi a New York, ma rischia ancora Pernigotti

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Inaugura a New York tra un paio di giorni il primo Nutella Cafè della città, dopo la scommessa vinta a Chicago. E intanto a Manhattan arriva anche un flagship store – museo firmato Venchi. Ma in Italia c'è apprensione per Pernigotti. 

 

Il Nutella Cafè a New York

In casa Ferrero, prima dell'estate, avevano garantito l'apertura entro la fine del 2018. Promessa mantenuta, considerando che, tra qualche giorno anche New York godrà del suo Nutella Cafè. Le previsioni della vigilia sono quelle delle grandi occasioni. Quando un anno e mezzo fa il format ha esordito a Chicago, la città è letteralmente impazzita, recitando un copione già visto: lunghe file all'entrata, famiglie in pellegrinaggio per curiosare tra gli scenari golosi ideati da chi ha progettato lo spazio di Milliennium Park Plaza, bambini (e non solo) adoranti davanti a un piatto di waffle ricoperti di crema alla nocciola. Dunque, fissati gli standard e l'identità visiva dello store dedicato al prodotto di punta dell'azienda piemontese, ora Ferrero si appresta a replicare sulla piazza gastronomica più in vista degli Stati Uniti, dove in passato – quando ancora Ferrero non aveva iniziato la sua opera di colonizzazione del territorio, fatta eccezione per i corner all'interno di Eataly - non sono mancati i tentativi di imitazione. E invece il restaurant-bar brandizzato Nutella che aprirà il 14 novembre a pochi passi da Union Square, civico 116 di University Place, sarà l'unico, autentico Nutella Cafè in città, fatta salva l'intenzione, più che probabile, di moltiplicarsi nei prossimi anni. Simile l'impatto visivo, con l'entrata che simula l'ingresso in un gigantesco barattolo di Nutella, colori e arredi che richiamano costantemente il brand; simile pure il menu, anche se per New York Ferrero ha studiato anche una proposta esclusiva, compreso un ghiacciolo alla Nutella proposto in anteprima proprio in concomitanza con il debutto newyorkese. E ovviamente ci saranno pane e nutella, waffle e crepes, french toast, tutti personalizzabili con ingredienti e topping a scelta del cliente. Dunque si parte con un'offerta competitiva soprattutto per la colazione, scommettendo su un cavallo di battaglia come pane e Nutella, per farne un'icona universalmente riconosciuta, più di quanto già non sia. Ma lo spazio resterà aperto con orario continuato fino alle 21 (22 nel weekend), 7 giorni su 7. E si proverà a far cassa anche con il merchandise, a partire dai barattoli personalizzati con il nome di chi acquista, che l'efficace strategia pubblicitaria degli ultimi anni ha fatto diventare un oggetto di culto.

 

Venchi a Manhattan

Del resto Ferrero non è l'unica azienda dolciaria italiana che ha scelto di inseguire il sogno americano, e si resta in Piemonte per tracciare le ultime imprese espansionistiche di Venchi: nell'anno del suo 140esimo anniversario (il laboratorio della cioccolata è nato a Torino nel 1878), il gruppo si è prima regalato un nuovo punto vendita nel cuore del capoluogo piemontese, e ora arriva a New York con un flagship store – il primo monomarca in città – che sarà anche museo, per raccontare al mondo la storia del cioccolato italiano. Anche in questo caso ci troviamo a pochi passi da Union Square, al civico 861 sulla Broadway, dove le vetrine mettono in mostra tutta la varietà produttiva, tra tavolette di cioccolato, praline, gelati. E una scenografica cascata di cioccolato, che è la più grande del Nord America, precisano da casa Venchi. Dietro alla scelta di aprire a New York, le stesse motivazioni che spingono Ferrero a puntare sull'America: il mercato del cioccolato americano, dove di recente proprio i grandi gruppi italiani hanno dimostrato di saper chiudere ottimi accordi, rappresenta in valore la metà del mercato globale. E una vetrina a Manhattan può rappresentare un asso importante da mostrare sul tavolo.

 

Tavolo di crisi per Pernigotti

Ambizioni che purtroppo non cancellano l'apprensione per le sorti di un altro pezzo forte dell'industria dolciaria italiana: da questa parte dell'oceano, infatti, si fa più serrata la trattativa per salvare Pernigotti dal rischio di totale delocalizzazione della produzione, dallo storico stabilimento di Novi Ligure alla Turchia, dove ha sede la proprietà. L'ipotesi paventata nelle ultime ore è che la produzione possa restare in Italia, pur restando quasi certa la chiusura dello stabilimento piemontese. Soluzione che non può dare tranquillità, in attesa del tavolo di crisi convocato per il prossimo 15 novembre dal Ministero dello Sviluppo economico.

 

a cura di Livia Montagnoli


Prosecco Doc. E se il futuro fosse rosé?

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Le bollicine venete potrebbero inserire la tipologia rosata dal 2019. Il presidente del Consorzio della Doc, Stefano Zanette, spiega i motivi economici di questa svolta, che rompe il legame con la tradizione. E fa il punto sulle strategie di mercato, dalla sostenibilità alla lotta contro le frodi.

 

Stefano Zanette lo disse qualche mese fa, appena dopo la rielezione alla guida della più grande Doc italiana: "Stiamo ragionando sulla nascita di una versione rosata del Prosecco". Ragionamento, quello del presidente del consorzio di tutela, che è diventato via via sempre più dettagliato diventando una proposta chiara, che potrebbe aprire le porte a una nuova fase d'espansione. Perché questo gigante del mercato delle bollicine, che tra un anno raggiungerà molto probabilmente quota 500 milioni di bottiglie, non sta meramente approfittando di momento positivo che ormai dura da più di otto anni, ma guarda al futuro, ai nuovi trend di consumo per guadagnare ulteriori spazi.

Gli obiettivi sono investire in mercati emergenti, diminuendo il rischio generato da un'eccessiva concentrazione: la Doc veneto-friulana sta modificando le proprie scelte e i primi risultati sono arrivati in questo 2018. La Russia, dopo alcuni anni di flessione, registra un balzo del +28% negli ordini, Taiwan +115%, Polonia +84,1%, Belgio +63,9%. Curioso il trend in Francia, dove il consorzio non ha mai fatto campagne di promozione. Nonostante ciò, è diventato il quarto mercato. E nei primi 9 mesi 2018 registra un ulteriore +26%. Bene Australia (+38,5%) e Svezia (+40,4%), che testimoniano il buon andamento di mercati relativamente nuovi. Tra le destinazioni storiche, oltre al Regno Unito (+4,9% a valore e -2,3% a volume), si segnalano gli Stati Uniti, secondo mercato del Prosecco, con +3,8% e la Germania che, con un +12,5%, si conferma al terzo posto del podio internazionale. Usa, Uk e Germania valgono il 75% dell'export. E Zanette, in questa intervista, riflette sui nuovi piani di espansione della Doc tracciando anche un bilancio sui temi che riguardano le vendite in Italia, il ricambio generazionale, la sostenibilità e i costi della difesa del marchio dalle frodi.

Stefano ZanetteStefano Zanette

Partiamo dalla vendemmia appena conclusa. Quali le stime di produzione in questo 2018?

Dopo un 2017 difficile, in cui l'ingresso in produzione di nuovi vigneti ci ha consentito di limitare le perdite a 3,25 milioni di ettolitri, la stima per quest'anno è di una produzione conforme al disciplinare, ovvero con rese di 180 quintali/ettaro, che dovrebbero consentirci di raggiungere 3,6 milioni di ettolitri di vino e di farci arrivare fino a ottobre 2019. C'è, poi, da aggiungere la riserva vendemmiale, per circa 500 mila ettolitri, che sbloccheremo a seconda delle richieste del mercato.

Tradotto in bottiglie?

Quest'anno certificheremo 460 milioni di pezzi e il prossimo contiamo di raggiungere quota 500 milioni di bottiglie, se il mercato proseguirà il suo trend positivo, come in nei primi nove mesi, in cui registra un +5% globale.

Alla sua riconferma da presidente non ha esitato a parlare di nuove sfide per il Prosecco in versione rosé. Non c'è il rischio di snaturare l'immagine di un vino che si è affermato come bollicina bianca?

Abbiamo fatto un passaggio in assemblea, la base sociale del Prosecco Doc, e siamo convinti di andare in questa direzione. Il tema è spinoso per chi pensa che ci si scontri con la tradizione, ma dobbiamo tenere a mente una cosa: se, negli anni passati, non avessimo seguito il mercato in un certo modo non saremmo arrivati a questo punto. Persino le altre Dop legate al Prosecco non avrebbero registrato questa crescita. Seguire il mercato è anche un dovere. Non dimentichiamoci che la tradizione è un'innovazione ben riuscita.

Come state procedendo?

Stiamo andando avanti con apposite sperimentazioni, in collaborazione con il Cirve e altri enti, sull'uso dei vitigni. Per il Prosecco rosato, vogliamo operare con il pinot nero. Alcuni vorrebbero usare il refosco per l'area friulana, altri il raboso per quella veneta. Abbiamo deciso che il pinot nero è quello che si adatta meglio alle nostre esigenze, ma stiamo sperimentando altre varietà. Allo stesso tempo stiamo studiando norme viticole da inserire nel disciplinare di produzione, comprese le pratiche enologiche per ottenere un vino dello stesso colore.Vogliamo arrivare a un rosato di qualità, di pregio e con un posizionamento più alto.

Quali le forbici di prezzo?

Intorno ai 5,5-6,5 euro a bottiglia rispetto ai 4,5-5,5 euro attuali. Sottolineo che il 50% dei consumatori stranieri, interpellati in alcuni sondaggi a nostra disposizione, ritiene di avere già bevuto il Prosecco rosato, perché già prodotto come rosato spumante fuori dalla Dop, e si dice disposto a spendere di più per questa tipologia.

Quanto rosé potrebbe andare sul mercato?

Pensiamo a dieci milioni di bottiglie, a un mercato ristretto. La volontà è quella di uscire con un prodotto che abbia un certo valore. Abbiamo appena raccolto le uve, faremo le prove di vinificazione e spumantizzazione, con un metodo Charmat lungo.

Tutto pronto tra meno di un anno, quindi?

Se le prove ci daranno risultati soddisfacenti, per la primavera 2019 potremmo discutere l'approvazione del nuovo disciplinare e poi attendere la decisione del Comitato vini Mipaaft entro giugno 2019.

Questo è il futuro, ma adesso torniamo all'attualità. Ci faccia un bilancio delle quotazioni all'origine, che lo scorso anno sono andate alle stelle.

Un anno fa, considerata la paura per la mancanza di prodotto, il consorzio aveva favorito gli accordi di filiera che, in parte, sono poi stati disattesi. La speculazione registrata ha fatto salire anche a 220 euro a quintale le quotazioni. Quest'anno, invece, tutto è tornato alla normalità, a valori vicini al 2016, con quotazioni di 1,1 euro/kg per le uve e di 1,8 euro/litro per il vino.

Come stanno funzionando le politiche di regolazione del mercato?

La decisione di bloccare gli impianti dal 2011 e di inserire la fascetta di Stato sono stati fondamentali per non far andare a rotoli l'intera Doc. Lo stoccaggio arriva in seguito per frenare una crescita tumultuosa. Lo abbiamo fatto dal 2012 al 2014, mentre nel 2015 e 2016 abbiamo optato per la riserva vendemmiale. Entrambi sono stati utili perché oggi la produzione lorda vendibile ha superato i 20 mila euro per ettaro.

Quali gli elementi critici?

La Doc sta crescendo sia nei volumi sia nella plv. Questo è positivo, ma dobbiamo far sì che la distribuzione del reddito avvenga in tutta la filiera. Qualche sofferenza si registra tra gli imbottigliatori, che hanno avuto difficoltà a trasferire gli aumenti della materia prima negli scaffali. Auspichiamo, come consorzio, che il sistema imprenditoriale dimostri di essere maturo. Occorre, in sostanza, lavorare per la qualità e verso un posizionamento di prezzo coerente con i prezzi base, evitando pericolose aste al ribasso del Prosecco, che impoveriscono sia viticoltori sia imbottigliatori. Il Prosecco non ha più bisogno di sfondare il mercato coi numeri, ma deve consolidarlo.

Che succede all'estero? Sembra siate riusciti a contenere l'effetto Brexit in uno dei mercati per voi più importanti, ma sembra il momento di investire anche altrove. Dove?

La parte del leone in tema di vendite la fanno gli Stati Uniti, dove ci sono aree in cui la nostra Doc deve essere ancora scoperta. Il Canada ci sta dando soddisfazioni, così come Norvegia, Russia, Giappone. La Cina cresce ma non esplode mai. Anche l'Australia sta registrando dei numeri interessanti, nonostante esista una produzione locale di vino Prosecco. Il prossimo anno punteremo in modo diverso a promuovere il Prosecco nel Sud Est Asiatico.

Come vanno le vendite in Italia, che per voi vale almeno cento milioni di bottiglie?

L'Italia per noi è importantissima. Dai dati Nomisma, riferiti ai 12 mesi terminanti a giugno 2018, registriamo un incremento a volumi del 2,6% e a valore del 6,6%. Si tratta di un incremento significativo del prezzo medio. Anche se va detto che ci sono volumi di Prosecco che transitano in Gdo a livelli inferiori. Ecco perché il consorzio deve lavorare a salvaguardare la denominazione. La tutela passa anche per la difesa del valore. Non dobbiamo trovare situazioni tali per cui gli spumanti generici fanno concorrenza alla Dop. Il consumatore che vuole bere Prosecco Doc ed è disposto a spendere una certa cifra non deve andare ad acquistarla a prezzi inferiori. Mi auguro che, attraverso il decreto sui consorzi di tutela nell'ambito del Testo unico, si possa lavorare a strutturare degli accordi di filiera.

Parliamo di partecipazione al consorzio dei giovani under 35. Ci faccia un bilancio

Non avendo a disposizione dati precisi sull'età dei circa 12 mila imprenditori della Doc, possiamo notare che all'ultimo bando multiregionale, tra Veneto e Friuli, che assegna 1.200 ettari di nuovi impianti viticoli, su 755 aziende che hanno ottenuto l'autorizzazione quasi il 30% (221) sono condotte da giovani.

A proposito di strategie consortili, a che punto è la vostra svolta sostenibile?

È fuori dubbio che il tema sia imprescindibile. Stiamo aspettando il passaggio in Comitato vini Mipaaft del nostro disciplinare, in cui sconsigliamo l'uso di fitofarmaci contenenti le tre molecole Mancozeb, Folpet e Glifosate. È in corso un progetto che punta alla certificazione territoriale usando i criteri del protocollo Equalitas: sta per partire una sperimentazione assieme ad alcune aziende. La base di Equalitas è il concetto di produzione integrata, assieme a indicatori di sostenibilità ambientale, sociale ed economica. Ma la nostra scelta sostenibile è anche nei bandi per nuovi vigneti: abbiamo dato un punteggio maggiore a chi ha scelto di impiantare o di mantenere una siepe per una superficie pari al 5% di quella richiesta come incremento in ettari. Questo ha consentito di costituire ben 56 ettari di superficie boschiva all'interno della denominazione. Un segnale concreto.

Infine, occupiamoci di tutela del marchio Dop. Quanto spendete ogni anno?

Nel 2017 abbiamo speso 1,4 milioni di euro solo per la difesa del Prosecco da falsi. Nel 2018, abbiamo contrastato 75 marchi lesivi. Siamo riusciti a togliere dal mercato un falso Prosecco in Ucraina. Alcuni risultati importanti sono stati ottenuti in Canada, Russia, India e Ucraina dove la Dop Prosecco è stata riconosciuta. Stiamo ottenendo una buona protezione in Sud America, nell'ambito dei negoziati Ue-Mercosur, in fase di definizione.

E in Australia?

L'Australia è una partita a sé. Qui la strategia dovrà essere un'altra. E credo che dovremmo riconoscere in qualche modo la loro storicità come produttori di Prosecco e, pertanto, accettare la condivisione delle denominazioni sul mercato. Ma dovrà avvenire attraverso etichette chiare e inequivocabili sulla provenienza.

 

a cura di Gianluca Atzeni

Terza edizione per la Settimana della Cucina Italiana nel mondo. Tra omaggi a Rossini, grandi chef e il Pasta Pesto Day per Genova

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Dal 19 al 25 novembre saranno oltre 1000 gli eventi che in tutto il mondo celebrano il made in Italy enogastronomico e la Dieta Mediterranea. Ma la terza edizione anticipa i tempi, e già propone diversi appuntamenti, incrociando le strade dei Centenari Rossiniane e della solidarietà per Genova. 

 

Il Rossini buongustaio

Si avvicina l'appuntamento con la terza edizione della Settimana della Cucina Italiana nel mondo, quest'anno in programma dal 19 al 25 novembre. Il progetto si è concretizzato per la prima volta nel 2016 sull'onda delle premesse delineate da Expo 2015, e punta a fare dell'enogastronomia un asset importante per la promozione del made in Italy, valorizzando il grande patrimonio dell'agroalimentare tricolore (a tal proposito, qualche settimana fa, il Gambero Rosso ha presentato una nuova edizione della guida Top Italian Restaurants). E nel 2018, in concomitanza con l'Anno del Cibo, sono diversi gli obiettivi che l'iniziativa si prefigge di raggiungere, schierandosi in formazione compatta. E facendo dell'approccio interdisciplinare uno strumento utile alla causa. Per esempio tracciando una fitta rete di rimandi con le celebrazioni dei Centenari Rossiniani, in occasione del 150esimo anniversario della morte del compositore (scomparso il 13 novembre 1868), noto pure come appassionato gastronomo e buongustaio: quel filetto alla Rossini che porta il suo nome, in omaggio alla leggenda sui tartufi che arricchiscono un piatto sontuoso – la scaloppa di foie gras, il pane dorato nel burro, la salsa al Madera – è indubbiamente uno dei piatti più celebrati della cucina italiana nel mondo. E proprio a una sua leggendaria bizza si fa risalire il battesimo della ricetta. E Parigi, dove Gioacchino Rossini ha vissuto lungamente, celebrerà la sua conclamata passione per il cibo con il pranzo di gala che apre la Settimana dedicata alla cucina italiana in città, il 19 novembre nei Saloni dell'Ambasciata d'Italia (anticipato dal Rossini Alpine Opera Gala di qualche giorno fa, a Courmayeur, che ha visto cimentarsi con i maccheroni alla Rossini i fratelli Cerea, e Moreno Cedroni lanciarsi in una rivisitazione del celebre filetto, diventato capasanta).

 

Le anticipazioni sul tema

Ma il calendario delle attività prevede oltre un migliaio di appuntamenti che poggiano spesso sulle sedi diplomatiche e sugli Istituti italiani di cultura all'estero, che coordineranno un piano di seminari, conferenze, degustazioni, corsi di cucina e cene d'autore in tutto il mondo, privilegiando soprattutto la divulgazione della Dieta Mediterranea e dei suoi ingredienti. E infatti anticipa i tempi il consolato generale d'Italia a Los Angeles, che dal 12 al 18 novembre promuove una settimana per raccontare le abitudini alimentari del bacino mediterraneo che conquistarono il medico americano Ancel Keys. Sempre in America, apre le danze a Chicago la prima di un ciclo di cene dedicate a Gualtiero Marchesi, nell'ambito di un tour mondiale che vuole raccontare l'eccellenza italiana attraverso i piatti più visionari del maestro. Anticipo d'autore anche a Bangkok, con Diego Rossi (Trippa) protagonista il 13 e 14 novembre ospite del ristorante italiano La Bottega di Luca e i fratelli Costardi il 16 e 17 in cucina agli Amici di Bangkok con i loro risotti. Intanto Moreno Cedroni, già il 15 novembre, curerà la cena di gala al Four Seasons di Canton, nel sud della Cina.

 

Il programma della Settimana

Quando la Settimana si aprirà ufficialmente, gli eventi si moltiplicheranno un po' ovunque nel mondo: il calendario sarà presto disponibile sul sito del Ministero degli Esteri, dopo la conferenza di presentazione che si terrà il 14 novembre presso le Officine Farneto di Roma. Tra gli altri appuntamenti, segnaliamo la presenza a Parigi di 8 ristoranti italiani del circuito del Buon Ricordo (La Manuelina di Recco, Al Cavallino Bianco di Polesine Parmense, I 5 Campanili di Busto Arsizio, Mori Venice Bar di Parigi, La Fefa di Finale Emilia, Masuelli di Milano, Ristorante Jim di Grosio, Lo Stuzzichino di Massa Lubrense), gli Ambasciatori del Gusto protagonisti a Mosca - con Leandro Luppi, Stefano Guizzetti, Paolo Griffa, Italo Bassi e Antonia Klugmann – le degustazioni di vini italiani e panettone a Tokyo, il 21 e 24 novembre. Il 19 novembre, a New York, la serata sarà invece dedicata ai piatti tipici della cucina povera del secondo Dopoguerra, per il tema La Resistenza in cucina.

Nel pacchetto anche l'iniziativa Pasta Pesto Day, indetta per raccogliere fondi per Genova a seguito della tragedia del Ponte Morandi, facendo leva su un'altra ricetta particolarmente amata nei ristoranti italiani di tutto il mondo: il pesto è la seconda salsa più usata in cucina, e per tutta la Settimana, nei ristoranti aderenti, per ogni piatto di pasta al pesto ordinato saranno devoluti 2 euro alla causa (gli interessati possono ancora aderire sul sito dell'iniziativa, che mappa tutte le insegne coinvolte in Italia e all'estero).

 

a cura di Livia Montagnoli

Gli orti verticali nei ristoranti di New York. È la riscossa dell’agricoltura fai-da-te

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Dopo gli orti urbani, la Grande Mela sembra essere stata travolta da una nuova tendenza in ambito agricolo, quella degli orti verticali. Pezzi di terra di proprietà di ristoranti e negozi, pensati per produrre in casa ortaggi e piante aromatiche. 

 

L’agricoltura fai-da-te a New York

Zone completamente spopolate, aree desolate e oasi verdi abbandonate: è il ritratto di una metropoli della fine degli anni ’70, una New York in piena crisi di disoccupazione, dove gruppi di ambientalisti hanno trovato un rimedio alternativo creando orti domestici affidati ai cittadini. Li chiamano community gardens, e sono oggi delle realtà ben consolidate, gestite da associazioni di categoria e gruppi indipendenti. Orti aperti a tutti e curati dagli abitanti dei vari quartieri, dove persone di ogni nazionalità e cultura lavorano insieme per produrre frutta, verdura e altre specialità locali.

Le vertical farms

Progetti innovativi che continuano a moltiplicarsi giorno dopo giorno, e mentre il numero di orti urbani aumenta, nella Grande Mela nasce una nuova moda in campo agroalimentare: la fattoria fai-da-te (nome ufficiale, “vertical farm”, fattoria verticale), un orto da interni che attira gli investimenti di ristoratori, gestori di negozi e proprietari di locali. Come quello di Smallhold, per esempio, tutto dedicato ai funghi e realizzato attraverso la collaborazione di ristoranti e botteghe alimentari. Oppure Bowery Farming, che ha recentemente iniziato a vendere le proprie verdure a Whole Foods, la catena statunitense di supermercati biologici, e che conta fra i suoi maggiori investitori il celebrity chef – e giudice di Top Chef – Tom Colicchio, che ha definito il progetto “il nuovo paradigma dell’agricoltura”. Nel suo ristorante di Downtown NYC, Temple Court, il cuoco utilizza la rucola di Bowery per il suo wasabi. Ancora, Farmshelf, startup newyorkese che si occupa di costruire i piccoli orti verticali all’interno di ristoranti e alberghi, oppure Farm.One, con ben due sedi: una all’interno dell’Institute of Culinary Education e un’altra, la TriBeCa, nel pluripremiato ristorante Atera di Manhattan.

La coltivazione

Il funzionamento, quindi, è semplice: chef e ristoratori scelgono di creare un orto proprio all’interno del locale, si affidano a realtà specializzate, investono e in cambio ottengono prodotti naturali, freschi e a chilometro zero tutto l’anno. Un’opportunità unica per innalzare ancora di più il livello qualitativo dell’offerta e anche per informare e creare maggiore consapevolezza fra i clienti. Naturalmente, si tratta di agricoltura innovativa, idroponica per l’esattezza, una tecnica di coltivazione fuori suolo o senza suolo, dove la terra è sostituita da un substrato inerte, come argilla espansa, fibra di cocco, lana di roccia o zeolite. In grado di produrre fino a 50 chili di funghi a settimana – fra i prodotti attualmente più scelti dagli chef – di tante tipologie diverse, dagli shiitake ai pioppini. Il costo per realizzare un orto verticale? È piuttosto elevato: si parte da una base minima di 3500 dollari per le farms più piccole, ma la soddisfazione per gli chef più appassionati di mettere in tavola le proprie specialità non ha prezzo.

a cura di Michela Becchi

Macellai di ricerca. Tradizione ed evoluzione di un mestiere antico

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Ci si nasce o ci si diventa? A quanto pare spesso ci si nasce: i più sono infatti figli d’arte. Ma ci si diventa anche, bravi, se si vuol prendere in mano il futuro. Nel numero di novembre del Gambero Rosso abbiamo fatto un viaggio nel lavoro del macellaio. Qui un assaggio.

 

La carne? Spesso è un affare di famiglia. Nella maggior parte dei casi, infatti, i macellai sono eredi di attività commerciali e saperi che si tramandano di generazione in generazione. Quella sapienza rubata con gli occhi nei pomeriggi trascorsi in bottega o tra gli animali al pascolo. E la passione che li ha convinti a resistere quando lo stile di vita pareva spingere verso altre direzioni di acquisto e di consumo. Cambiando, sì, ma non troppo. Aggiungendo competenze e conoscenze, servizi e prodotti. Ma rimanendo nel solco familiare. I grandi macellai in Italia sono figli d'arte: lo sono i Damini, i Varvara, Fracassi, Cecchini, Zivieri, Falaschi, Liberati, Motta, Cazzamali... Hanno saputo evolversi, senza mai tradire lo stile del passato: “La mia ricerca è volta a non perdere la tradizione – spiega Roberto Liberati ripropongo nell’attualità la figura del macellaio di un tempo: il macellaio ricercatore, che andava per aziende agricole e portava in macelleria quel che trovava di buono”. Certo, in mezzo ci sono molte cose, quelle date da studi che un tempo non si facevano, dalla consapevolezza e la voglia di fare ricerca, dall'introduzione di innovazioni tecniche o competenze specifiche. E collaborazioni strette tra di loro. Cose che oggi pagano, dopo periodi meno facili.

Macellaio mentre lavora. Foto di Paolo Della Corta

L'avvento della grande distribuzione

All'avvento della grande distribuzione pareva che i piccoli negozi artigiani, così come li conoscevamo, dovessero scomparire: così è stato per molte attività, spazzate via dai prezzi sempre più concorrenziali e dalla comodità di orari prolungati e negozi multiprodotto. “La Gdo ha portato alla morte del mestiere”, dice Sergio Capaldo (veterinario e artefice del progetto de La Granda, esperto e formatore). E non tanto perché ha decimato le botteghe, ma perché ha fatto perdere la cultura del prodotto; facendo scomparire certe figure professionali, formandone altre nell'ottica di una grande specializzazione senza una preparazione completa. Quella che permette di gestire l'intero processo: dalla selezione dell'allevamento e dell'animale, alla macellazione, via via fino alla vendita sul banco. “Vendere carne e fare il macellaio sono due cose diverse”, sintetizza Dario Cecchini.

Pezzi di carne appesa. Foto di Paolo Della Corte

Dalla bottega al supermercato e ritorno

Nella grande distribuzione organizzata (Gdo) si è perso il contatto con il prodotto all'origine, anestetizzando l'aspetto cruento della morte dell'animale – “un atto forte, l'anello più delicato della catena del cibo”, secondo il Cecchini – per consegnarcelo impacchettato, lindo e sterilizzato. Sempre uguale, sempre di un rosso vivo.Così facendo, però, si allontana anche la sacralità di quel sacrificio, il suo profondissimo valore, “la sua poesia”. E il senso di quella carne. Non prendiamo il prodotto all'origine, se lo facessimo ci renderemmo conto che le offerte nascondono qualcosa: “Perché qualcuno che ha lavorato anni per allevare i suoi animali dovrebbe fare degli sconti?”. Basterebbe porsi queste domande, suggerisce Capaldo. La colpa più grave è aver ridotto la carne al rango di merce. E se è vero che negli anni c'è stata una dispersione di clientela verso la Gdo, questa non è più vista dai macellai di rango come un nemico: i più, in realtà, ne rilevano la presenza come un modello diverso, che viaggia su un altro binario. I supermercati portano via clienti già persi, che non sono il target delle macellerie di qualità di oggi. Perché chi ha lavorato bene, in modo etico, facendo un lavoro sulla ricerca del prodotto, sul recupero di razze, saperi e competenze, non temepiù la concorrenza della grande distribuzione: “La massa che cerca costi bassi è un mercato già perso”, spiega Aldo Zivieri, e gli fanno eco in molti. Il mercato si è ristretto ma in quelle nicchie ci sono ampie fasce che riconoscono e premiano la qualità; e per contrasto, l'industrializzazione ha condotto certa macelleria a riappropriarsi della propria identità e cultura. E a renderle riconoscibili e desiderabili agli occhi dei nuovi clienti. Chi non è mai cambiato, ce la fa. “Resistere resistere resistere”è il mantra di Michele Varvara, tra i nomi più interessanti della nouvelle vogue della carne, che negli anni è rimasto – con la sua famiglia – sordo alle lusinghe delle offerte della Gdo. Così come ha fatto Simone Fracassi a chi gli chiedeva forniture di prosciutti o filetti. Ora l'attenzione per la cucina ha dato un po' di luce al settore, portando alle orecchie di molti anche tagli meno noti e cotture che si stavano perdendo, o magari solo una nuova consapevolezza e curiosità. Talvolta celando nuova ignoranza, di chi parla per sentito dire: un esempio? “Chiedono punta di petto, brisket, talvolta pastrami. Ma non sanno che sono la stessa cosa”racconta Franco Cazzamali. È una deriva forse inevitabile. Ma certifica che il settore, se non pronto a decollare, almeno ha ottenuto visibilità e nuova linfa. Non è un caso, infatti, che i supermarket comincino a strizzare l'occhio agli artigianali, di cui spesso assumono pose e modalità. Ma ognuno ha il suo pubblico.

Bistecca sul tagliere. Foto di Paolo Della Corte

I consumi

Se da una parte si consuma più carne per via della passione dei barbecue (vedi nostro grande speciale sul numero di marzo 2018), come rileva Sergio Motta, dall'altra in molti ne acquistano poca, ma ottima. Che poi è un po’ l’atteggiamento da prediligere. “Perché – la voce del ristoratore-macellaio Giuseppe Zen è forte e chiara, e si unisce al coro degli altri – bisogna mangiarne meno, ma che sia di altissima qualità. Per questo si è tornati in macelleria”. E lo si è fatto a ondate, dopo gli scandali alimentari (su tutti la mucca pazza che ha spostato mercati e pubblico) per emulazione dei grandi chef visti in tv o semplicemente per la voglia di provare qualcosa di buono. Arrivando al paradosso che racconta Liberati: “Tra i miei clienti ho anche vegetariani o vegani, quelli che – obbligati dal medico a consumare della carne o a prenderla per i figli – scelgono noi. In cerca di qualità e di un approccio etico che vedono simile al loro”. Sono clienti che cercano qualcosa di particolare, di diverso a ciò che si trova standardizzato nei supermercati. Oggi c'è un pubblico molto recettivo: “Sono conosciuto per la ricerca che faccio, ora mi vengono a cercare per questo, desiderano qualcosa di particolare”. Qualcosa che spesso non ha alcuna costanza. Carni che quando arrivano in bottega sono già vendute, come nel caso del bue grasso di Carrù. Al punto che c'è chi, come il ristorante Aimo e Nadia di Milano, dedica una carta ai piccoli artigiani, tra cui i Varvara. Il Menu dei Territoriè mutevole, perché realizzato per quelle forniture di misura che accolgono prodotti straordinari, ma in quantità esigue e non costanti nel tempo, a volte solo per poche porzioni. “Non posso garantire un'offerta costante come numero e come qualità, che è sempre alta ma è sempre diversa”, spiega Varvara.

Per l'indagine completa sfogliate il numero di novembre del Gambero Rosso.

 

a cura di Antonella De Santis

scatti di Paolo Della Corte

 

QUESTO È NULLA...

Nel numero di novembre del Gambero Rosso, un'edizione rinnovata in questi giorni in edicola, trovate l'indagine completa con approfondimenti sull'allevamento (c'è chi scegli solo grass fed e chi opta anche per fieno e farine buone), la macellazione e le frollature. Un servizio di 10 pagine che include anche un utile glossarietto, la mappa-guida dei macellai di ricerca in Italia, la bio di tutti i protagonisti e un focus sulla Gdo che cerca di intercettare le nuove filiere. Non solo, trovate anche 7 step per valutare la carne e alcuni indirizzi di macellerie con cucina.

Il numero lo potete trovare in edicola o in versione digitale, su App Store o Play Store

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Gioacchino Rossini. Un ritratto del compositore gourmet a 150 anni dalla sua morte

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Il 13 novembre 1868 il compositore marchigiano moriva a Passy, dopo una carriera ricca di successi, che l'ha consacrato tra i talenti più celebri della storia della musica. La sua biografia, però, ci tramanda un'altra grande passione, quella per la cucina. Celebrata al ristorante e davanti ai fornelli, da prolifico ideatore di ricette e fine intenditore. 

 

Musica e cucina

Tra Pesaro, Parigi e Firenze la vita di Gioacchino Rossini ha tracciato un percorso invisibile ai più, che pure torna a farsi evidente in occasione delle celebrazioni per i 150 dalla morte del celebre compositore marchigiano. Pesaro gli ha dato i natali, a Parigi ha vissuto l'ultima metà della sua vita, a Firenze, nella Basilica di Santa Maria della Croce, sono sepolte le sue spoglie. Oggi, un secolo e mezzo dopo la sua scomparsa datata 13 novembre 1868, di lui si ricorda un talento lucidissimo nel rivoluzionare i canoni musicali del tempo, prolifico autore di opere tra le più celebri di tutta la storia della lirica. Ma pure quella particolare passione per la cucina, che ce lo racconta spesso affaccendato tra i fornelli, non solo fine amatore di ingredienti prelibati, e anzi capace di intervenire con competenza nel dibattito con interlocutori preparati come il cuoco parigino Marie - Antonin Careme, conosciuto in visita a casa Rothschildt, in una storia che si dipana tra i salotti più ambiti della Ville Lumiere. Tra loro nacque subito una stima reciproca destinata a protrarsi nel tempo: un'affinità elettiva giocata in punta di forchetta, come quando lo chef invierà al compositore, via corriere diplomatico da Parigi a Bologna, un pasticcio di fagiano ai tartufi, e Rossini ringrazierà con una composizione musicale in omaggio a Careme.

 

Una vita da gourmet

Ricchissima l'aneddotica tramandata dai testi, spesso mista a invenzioni leggendarie che gli attribuiscono la paternità di piatti entrati nei ricettari classici, e rafforzata da brillanti aforismi scritti di suo pugno: “Non conosco un’occupazione migliore del mangiare, cioè, del mangiare veramente. L'appetito è per lo stomaco quello che l'amore è per il cuore. Lo stomaco è il direttore che dirige la grande orchestra delle nostre passioni”. Un legame viscerale, quello con il cibo, fotografato dai suoi biografi – Giuseppe Radiciotti in testa - con dovizia di particolari tale da farne uno dei più noti gourmet di tutti i tempi. Da bambino, per esempio, si racconta facesse il chierichetto per bere il vino della messa; e non passerà molto tempo prima che Rossini diventi assiduo frequentatore di ristoranti e grande conoscitore di vini (a ogni pietanza il suo, il Madera sui salumi, il Bordeaux sul fritto, il Renosul pasticcio freddo, l’Alicante e la Lacrima su frutta e formaggio, lo Champagne sull’arrosto). Di lui sappiamo cosa mangiava a colazione – una tazza di caffelatte e un panino, rimpiazzata negli anni parigini da un più consono abbinamento uova alla coque e calice di Bordeaux – quanto amasse circondarsi di specialità in arrivo dall'Italia, come le promuovesse presso amici e colleghi, diventando di fatto un ambasciatore ante litteram del made in Italy enogastronomico, in casa dei cugini francesi.

 

I ricettari rossiniani

Nella sua casa parigina, frequentata da politici, intellettuali e artisti del tempo, arrivavano mortadelle e zamponi di cui spesso omaggiava gli amici, il panettone da Milano, gli amati tartufi dalla sua terra (spediti per lui da Ascoli, da Giovanni Vitali). E pure quei maccheroni, inviati da Napoli, che gli piaceva preparare da sé, farcendoli uno a uno con un purè di tartufi. La ricetta dei Maccheroni Rossini si è tramandata al pari di altre ugualmente ricche e corroboranti, che raccontano i costumi di un'epoca lontana; ed è in forno, quando la pasta precedentemente lessata viene ricoperta da una salsa sontuosa a base di tartufi, funghi, prosciutto, spezie, panna e champagne, e cosparsa generosamente di burro e parmigiano, che lo spirito gourmand di Rossini sembra rivivere. Altrettanto nota è la leggenda che sancisce l'invenzione dei Tournedos Rossini (banco di prova per molti cuochi, interpretati anche da Gualtiero Marchesi), probabilmente ideati da Careme per omaggiare l'amico sempre prodigo di apprezzamenti, e però variamente ricondotti a vicende “folcloristiche”, tra chi attribuisce il nome al maggiordomo del compositore che terminava il piatto voltando la schiena agli invitati, e chi sostiene che il termine sia nato in occasione di un pranzo al Cafè des Anglais di Parigi, quando Rossini chiese di aggiungere del tartufo al suo filetto, lo chef rifiutò e lui stizzito rispose,et alors, tournez le dos” (“e allora, voltate la schiena”). Quel che resta, è un'altra ricetta che gioca sull'accostamento tra ingredienti prelibati, col filetto adagiato su una fetta di pancarrè dorata nel burro, e scenograficamente sormontato da una scaloppa di foie gras e tartufo, con salsa al Madera a completare il piatto. Quando Rossini si ritirò dalle scene, dopo il successo del Guglielmo Tell rappresentato a Parigi nel 1829, continuò a dedicarsi alla cucina, con rinnovata intensità. Tra i suoi cavalli di battaglia, l'insalata con “olio di Provenza, mostarda inglese, aceto di Francia, un po' di limone, pepe, sale, e qualche tartufo tagliato a fette sottili (“i tartufi danno a questo condimento una sorta dl aureola, fatta apposta per mandare in estasi un ghiottone”), la cui invenzione gli valse “l'apostolica benedizione del cardinale segretario di Stato”, negli anni anni romani delle prime rappresentazioni del Barbiere di Siviglia.

 

Le celebrazioni per l'Anno Rossiniano

In anni recenti i suoi motti sul cibo - Mangiare e amare, cantare e digerire: questi sono in verità i quattro atti di questa opera buffa che si chiama vita e che svanisce come la schiuma d’una bottiglia di champagne. Chi la lascia fuggire senza averne goduto è un pazzo- e le sue ricette sono stati oggetto di numerose pubblicazioni, l'ultima a firma di Ketty Magni (Rossini, la musica del cibo, 2017). E per tutto il 2018 le celebrazioni del Rossini gastronomo si sono moltiplicate in concomitanza dell'Anno del Cibo: in occasione del Festival della Cucina Italiana a giugno scorso, durante la Rossini Alpine Opera Gala organizzata a Courmayeur con la complicità di grandi chef, da Vittorio Cerea a Moreno Cedroni... E il prossimo 19 novembre, a pochi giorni dal ricordo dei 150 anni dalla scomparsa del compositore, a Parigi, con un pranzo di gala all'Ambasciata d'Italia per celebrare i Maccheroni Rossini, con la pasta marchigiana del Pastificio Mancini. Stasera, intanto, le tre città della sua vita saranno unite in gemellaggio musicale, con lo Stabat Materal Teatro Rossini di Pesaro, la Cenerentola rappresentata al Teatro del Maggio fiorentino e le note della Petite Messe Solennelle all'anfiteatro della Sorbona (in programma però per il 14 novembre). 

 

a cura di Livia Montagnoli

Mesa São Paulo. Cosa è emerso nella più grande manifestazione gastronomica sudamericana

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Siamo stati a São Paulo per partecipare alla più grande manifestazione gastronomica sudamericana, che quest'anno compie 15 anni. È Mesa São Paulo.

 

Mesa São Paulo, la più grande manifestazione gastronomica sudamericana, è oggi molto diversa da quella prima edizione del 2004, quando portò tra la gente show cooking e degustazioni, e la realizzazione au vivo(e in sole 72 ore) della rivista Prazeres de Mesa. In questi 15 anni sono cambiate molte cose, ma non lo spirito, e la comunicazione e la condivisone di idee continuano a essere centrali. Anche ora che lezioni di cucina e degustazioni si accompagnano a una grande mostra mercato di prodotti tipici (Farofa do Brasil), all'evento dedicato alla cucina alla brace (Brasa na Mesa, con più di 20 assadoresinsieme), e alle conferenze di Mesa Tendencias, cui partecipano i maggiori chef dell'America Latina chiamati a riflettere su un tema, quest'anno La cucina che emoziona, che innesca un cortocircuito di idee, storie, obiettivi e risonanze.

Impegno in difesa della cultura culinaria del Brasile

L'edizione 2018 (svoltasi dal 9 all'11 novembre) ha tenuto a battesimo un'iniziativa che vede coinvolti - con il sostegno dell'Apex (Brazilian Trade and Investment Promotion Agency) - chef e giornalisti enogastronomici, produttori e persone che a vario titolo si occupano di cibo, chiamati a firmare un documento volto a preservare la natura e l'identità gastronomica brasiliana. Non un manifesto, ma un impegno per il futuro - Pledge in Defense of the Culinary Culture of Brasil si chiama - che tuteli i caratteri unici di questo territorio altrettanto unico: un continente nel continente sudamericano che conta 8,514 milioni di chilometri quadrati, 7,5 mila chilometri di costa, oltre 200 milioni di abitanti e uno straordinario patrimonio di diversità ambientale e culturale. Perché il Brasile, il paese del Carnevale e del Cristo Redentore, è un coacervo di etnie e origini: oltre 200 popolazioni indigene, immigrati provenienti dall'Asia, dall'Europa, dal Medio Oriente che hanno portato cultura anche gastronomica. E sei aree geografiche - Amazzonia, Cerrado, Caatinga, Pantanal, foresta Atlantica, Pampa - identificate nel documento presentato al Mesa come snodi di una biodiversità straordinaria, dato che racchiudono il 20% delle specie sulla terra.

 Alex Atala

Tra gli obiettivi: la candidatura della gastronomia brasiliana come Patrimonio Intangibile dell'Umanità dell'Unesco

Questo gigante dalle molteplici personalità solo oggi comincia a tracciare un profilo identitario della sua cucina. Un passaggio fondamentale è riconoscere territori, prodotti e comunità, a partire da quelle originarie, come già sta facendo Alex Atala, pioniere della riscoperta di prodotti e sapori originari dell'Amazzonia. È lui l'alfiere di questo movimento di orgoglio gastronomico brasiliano, che nel documento appena firmato fissa 12 valori imprescindibili per il futuro: la tutela della gastronomia locale, del bioma, dei territori e dell'ambiente, con la sostenibilità (e la promozione di buone pratiche del no-waste) come perno di una crescita anche economica. Un documento in cui punti come inclusione, creatività, rispetto, tutela della cultura, delle piccole comunità agricole e della salute sono elementi fondamentali. Tra gli obiettivi del collettivo che opera per una cultura alimentare sociale, etica ed ecologicamente sana, c'è anche la candidatura della gastronomia brasiliana come Patrimonio Intangibile dell'Umanità dell'Unesco.

In Brasile ci sono moltissime cucine, ma con un ingrediente in comune: la mandioca

Un patrimonio forte di una varietà incredibile: “ci sono moltissime cucine in Brasile” spiega George Schnyder, tra gli animatori della rivista e della manifestazione, oltre che promotore del Pledge “così diverse che non si parlano tra di loro. C'è però un elemento in comune tra di loro” continua “una delle tre cose, insieme al calcio e alla lingua portoghese, presenti in tutto il Paese”. È la mandioca, la radice che costituisce la base comune dell'alimentazione in questo melting pot di ambienti, culture e comunità. Un alimento povero che solo ancora fatica a trovare spazio nella ristorazione ma è presente praticamente in tutte le case del paese, da Nord a Sud, tanto da essere identificato come il prodotto brasiliano per eccellenza legato al territorio e alle diverse comunità che lo abitano. Quello su cui puntare per rilanciare la cucina locale al grido di “Yes, we are manioc!”. Una cucina che sia, anche in questo caso, portatrice di valori e di emozioni.

La polenta di Fellipe ZanutoLa polenta di Fellipe Zanuto

La cucina delle emozioni è la cucina familiare e dei ricordi

Quando penso alla cucina affettiva ricordo gli gnocchi che mia nonna faceva per me” dice Marcello Milani, del ristorante Piccolo di São Paulo, sotto lo sguardo della nonna che assiste al suo intervento, così come quella di Pier Paolo Picchi (Picchi, São Paulo), Dona Isabella, che lo osserva mentre ne replica il crostino con paté rustico di fegato di gallina, alici e capperi "un piatto semplice, contadino, povero", ricordo delle domeniche in famiglia. La famiglia è un riferimento costante, in questo paese di immigrazione, è il luogo di trasmissione dei valori e della memoria: PauloShin (Komah, São Paulo) arriva con la madre, come pure Flavio Trombino (Xapuri, Belo Horizonte) e Toshi Akuta del Izakaya Matsu sempre a São Paulo, che parla della nonna mentre prepara il suo famoso nasu dengaku, melanzana con miso e zucchero. E ancora Gustavo Rozzino (Tonton e Sandoui, São Paulo), ricorda che ha imparato dal nonno a fare le tagliatelle alla bolognese “preparate con tanta carne e poco pomodoro”; e via così tra ricordi familiari: la polenta di Fellipe Zanuto (A Pizza da Mooca e Cantina, São Paulo), i tortellini in brodo Paolo Lavezzini (Neto del Four Seasons, São Paulo) e i fagiolini con carne secca, formaggio, okra e foglie di cavolo di Katia Barbosa, omaggio alla mamma Sofia: “questa è una ricetta di famiglia”. La cucina delle emozioni è quella che celebra la sua storia familiare, condensato della storia dell'intero paese, dove convivono comunità di origini diverse. Portoghesi, africane, italiane, nipponiche, olandesi.

 

Tradizione e contaminazione

E in un paese dalla forte e innata vocazione all'inclusione, la mescolanza gastronomica evolve in direzioni diverse, acquisendo dignità propria. L'esempio migliore, in Brasile, è la cucina nikkei, nata dall'unione di ricette giapponesi e prodotti peruviani. Nel rapporto dinamico e libero da preconcetti tra luogo di origine e di approdo, si intercetta un'altra cucina delle emozioni, fatta di felici contaminazioni - come nei cappelletti brasilian style di Piero Franchini (OpyCo, São Paulo) con foglia di banano, manioca e tucupi; o nel curry di matrice thailandese che accompagnava l'anatra con bietola cinese, farofa di cocco e ananas grigliato di André Castro (Ristorante Authoral, Brasilia) o ancora nella Feijucassoulet francobrasiliana di Danielle Dahoui, o l'agnello con patate al limone di Mariana Fonseca (Myk e Kouzina, São Paulo) di ispirazione greca – e della ricerca di elementi di contatto, a tessere un filo di congiunzione tra tempi e luoghi diversi (come Luca Gozzani del ristorante Fasano che evidenzia le somiglianze tra i carciofi italiani e il cuore del banano, così comune in Brasile). Del resto la tradizione non è un monumento statico, e lo dimostra anche Mitsuharu Tsumura (Maido, Lima) con la rilettura del classico bolinho de camarão: elementi simili, ma una presentazione completamente diversa.

Cappelletti brasilian style di Piero FranchiniCappelletti brasilian style di Piero Franchini

L'impegno per l'ambiente e per il sociale alla base della nuova cucina brasiliana

Elemento centrale, nella promozione della nuova cucina brasiliana (e, più in generale, della cucina del futuro), è la sostenibilità, concetto ampio che riguarda l'ambiente e il modo di coltivare, ma non solo. Perché la tutela della natura passa anche per la tutela delle piccole comunità di produttori che lavorano in modo tradizionale, come raccontato dall'antropologo Moreno Martins, dell'Istituto Socioambiental, che ha illustrato il modello di produzione di cacao sostenibile della terra indigena, o come testimonia Fabricio Leggiamo, chef dell'Origine di Salvador e portavoce dell'alleanza cuochi-produttori, che ha portato sul palco i lavoratori della Cooperativa Repescar, pescatori e raccoglitori di mangrovie con cui collabora per assicurarne la sopravvivenza e sostenere il loro modello pesca artigianale. Perché attraverso la conoscenza del patrimonio agricolo si possono salvare prodotti e comunità, come fanno dal 2013 Malena Martínez e Pia Leon con Mater iniziativa, progetto di mappatura dell'ecosistema peruviano e di catalogazione di piante native, che influenza il menu del ristorante Central di Lima, di Virgilio Martinez, e del nuovo Kjolle di Pia Leon.

agnello con patate al limone di Mariana Fonseca  Agnello con patate al limone di Mariana Fonseca  

Sostenibilità è anche riduzione dei rifiuti e riscatto sociale

Sostenibilità è anche riduzione dei rifiuti e riciclo, che – spiega Per Paolo Mello, direttore dell'istituto Eco Zinha- deve essere un obiettivo poiché contribuisce all'inclusione sociale e genera occupazione e reddito. Perché sostenibilità è anche promuovere progetti di inserimento lavorativo e riscatto sociale, come quelli di Gastromotiva, illustrati sul palco da David Hertz, che - insieme a Chris Moore (The Clink Charity) e Patrick Honauer (Greenabout) - ha raccontato storie di rinascita sociale attraverso la cucina, sempre la cucina delle emozioni.

Sostenibilità significa anche dare valore a quel che c'è dietro a quel che mangiamo, come ha dimostrato il colombiano Alejandro Cuéllar che ha preparato una tapioca con maiale e banana. Nulla di più consueto, in questa parte del mondo, se non ci fosse stato un intenso racconto per parole e soprattutto immagini dei volti delle persone che hanno prodotto gli ingredienti del suo piatto, che si arricchisce così di un ulteriore ingrediente: l'emozione. Quell'ingrediente capace di dare un significato aggiuntivo a ciò che mangiamo, quello delle persone e delle storie che abitualmente ignoriamo.

 

www.mesasaopaulo.com

 

a cura di Antonella De Santis

Nuove aperture a Milano. Arriva Franco Aliberti ai Tre Cristi, torna Rafael Rodriguez. La pizza di B11, Street Mozzarella in via Sarpi

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Tutte le ultime novità sulla piazza meneghina, che si prepara ad accogliere una new entry di calibro: Franco Aliberti, da Le Presef ai Tre Cristi. Mentre torna il peruviano Rodriguez (The Fisher) e si moltiplicano le opportunità per una pausa pranzo veloce e di gusto. 

 

Cosa succede di nuovo a Milano? La costante della scena gastronomica cittadina è quella di continuare a proporre novità un po' per tutti i gusti, privilegiando filoni che negli ultimi tempi sembrano andare per la maggiore: lo street food, la pizza, la cucina etnica/fusion per tutte le tasche, i temporary shop. Ma c'è spazio anche per la cucina d'autore.

Franco Aliberti ai Tre Cristi

È una new entry fresca di annuncio Franco Aliberti alla guida del ristorante Tre Cristi, nato in zona Porta Nuova Varesine come laboratorio creativo di Paolo Lopriore, e poi condotto sin qui da Dario Pisani. Il cambio della guardia porta a Milano lo chef de Le Presef (Una Forchetta, 79/100 sulla guida del Gambero Rosso), che lascia il ristorante in Valtellina per prendere servizio in città dal 14 novembre (prima ancora, nel suo curriculum, Spigaroli e Alajmo come pasticcere, San Patrignano, l'alunnato da Bottura e il progetto Evviva a Riccione, nonostante i natali campani). Come cambia la proposta? Due menu: In Città con 8 piatti che omaggiano i prodotti e la storia di Milano, e A Due Passi da Milano, 10 portate che valorizzano produzioni di nicchia, segnalando per ogni ingrediente la distanza dalla città. E poi la carta, comunque giocata sul racconto del prodotto, la sostenibilità, la voglia di sperimentare; 35 coperti in tutto.

Rafael Rodriguez per The Fisher

Intanto è tornato in città il peruviano Rafael Rodriguez, che si era fatto conoscere a Milano per la breve, ma intensa esperienza da Quechua, in via Meda, e da un periodo in Sardegna torna per prendere il testimone lasciato da Sergio Mei, alla guida del ristorante The Fisher.

 

Un nuovo Peck a Citylife, la mozzarella a Chinatown

Longeva (e solida) conoscenza dei milanesi gourmet è pure Peck, tempio della gastronomia meneghina che dopo aver consolidato il suo quartier generale in centro città ora inaugura la sua terza sede a Citylife (dove nel frattempo Heinz Beck ha rivelato per intero il progetto Attimi). 300 metri quadri all'ombra delle Tre Torri per uno spazio che sarà negozio, enoteca, cocktail bar e ristorante, in procinto di aprire al piano sopraelevato della food court, con 50 coperti all'interno e 60 all'esterno per la bella stagione, e l'idea di spingere soprattutto sull'offerta del ristorante. Mentre i prodotti di gastronomia arriveranno dal quartier generale di via Spadari. In un'altra zona calda della città, la Chinatown di via Sarpi (leggetevi nel nostro mensile che popo’ di approfondimento c’è a riguardo), si è concretizzato da qualche giorno il raddoppio di Orobianco, bottega specializzata in latticini (con produzione di mozzarella in sede e ristorante annesso) da tempo aperta in zona Porta Venezia. Tra ristoranti e negozi cinesi, invece, i tre soci napoletani dietro all'insegna puntano a diversificare l'attività, con uno Street Mozzarella in cui si produce e si “cucina” la bufala. Il banco si apre direttamente su strada, si sceglie tra mozzarella in carrozza, parmigiana, mozzarelle a portar via, da consumare a casa.

La Scrocchiarella di B11

Ideale per la pausa pranzo pure la proposta di B11, un acronimo che sta per Boutique della Scrocchiarella - e infatti racconta un progetto incentrato sulla pizza alla pala - ma anche per Besozzi 1911, il mulino fondato oltre un secolo fa e titolare del progetto che ha preso forma in viale Pasubio da qualche settimana. Tredici le varianti disponibili, con prodotti selezionati in Italia e all'estero, e un omaggio alla tradizione meneghina, con la Scrocchiarella Milanese ispirata a ossobuco e risotto allo zafferano.

Bakker, Sagami, AMAti

Tra le novità segnaliamo anche Bakker, locale aperto pochi giorni fa in zona Città Studi con l'obiettivo di accontentare un pubblico di carnivori in cerca di cotture insolite. In realtà la fase finale si consuma scenograficamente sulla brace, ma prima la carne viene frollata a secco (dry aged), a temperatura e umidità controllate. Per la categoria grandi investitori internazionali, esordisce a Milano Sagami, prima sede europea di una multinazionale della ristorazione giapponese molto celebre in Estremo Oriente. A Milano aveva debuttato durante Expo 2015, nel padiglione del Giappone, poi come corner ospite di WellKome; ora arriva in piazza Duca d'Aosta con un locale indipendente specializzato in soba e udon.

Chiudiamo in golosità con l'inno alla pasticceria di AMAti, temporary shop a cura di Out of the Box che resterà aperto fino al 31 dicembre. La particolarità? Solo dolci “crudi”, prodotti cioè senza mai superare i 42° (dietro c'è la tecnica di Vito Cortese, fondatore di Grezzo Raw Chocolate). E di più, realizzati senza farina, latte, uova, zucchero e lieviti. Cosa resta? Soprattutto frutta secca e cacao, per cioccolatini, torte e gelato.

 

Tre Cristi – Milano – via Galilei, 5 – www.trecristimilano.com

The Fisher – Milano – viale Bianca Maria, 8 – www.thefisher.it

Orobianco Street Mozzarella – Milano – via Paolo Sarpi, 61 – www.orobianco.com

Scrocchiarella – Milano – viale Pasubio, 6 – www.b11.it

Sagami – Milano – piazza Duca d'Aosta, 10 – pagina fb

Bakker – Milano – viale Romagna, 58 - pagina fb

AMAti Healthy and Raw – Milano – via Malpighi, 7

 

a cura di Livia Montagnoli

 


La produzione mondiale di vino è 282 milioni di ettolitri. Al top dal 2000

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Italia, Spagna e Francia guidano la ripresa. Stabili gli Stati Uniti, bene Cile e Argentina. L'Australia perde terreno mentre lo guadagna la Nuova Zelanda. Prime stime dell'Organizzazione internazionale della vite e del vino dopo la vendemmia 2018.

 

Se l'annata 2017 verrà ricordata, a livello mondiale, come una delle più scarse dell'ultimo ventennio, il 2018 si avvia a essere ricordato come tra i migliori e abbondanti. Il rimbalzo positivo, come già accaduto nel 2004 e nel 2013, arriva dopo raccolti difficili, che hanno determinato un taglio drastico dei volumi di uve raccolte, soprattutto nei tre principali Paesi produttori: Italia, Spagna e Francia. Quest'anno, secondo quanto emerge dalle prime stime contenute nella congiuntura vitivinicola mondiale dell'Oiv, l'Organizzazione internazionale della vigna e del vino, i livelli saranno tra i più alti raggiunti a partire dal 2000. Con 282 milioni di ettolitri (esclusi succhi d'uva e mosti), l'Oiv stima oltre 30 milioni di ettolitri in più rispetto allo scorso anno. Ovvero, un incremento del 12,3 per cento.

Italia, Francia e Spagna al top

Determinante, come sempre nello scenario globale, l'apporto del Vecchio continente. La produzione di vino dovrebbe raggiungere quota 168,4 milioni di ettolitri, con un incremento significativo pari a 27,2 milioni di ettolitri. L'aumento percentuale dell'insieme dei Paesi Ue è del 19% sul 2017. Ben 135,2 milioni di ettolitri arrivano da tre Paesi. In primis, dall'Italia, che si conferma alla guida di questa speciale classifica dei produttori mondiali di vino, con 48,5 milioni di ettolitri e un +14%: si tratta del terzo livello più alto dell'ultimo quinquennio. Dalla Francia, che recupera il 27% sull'anno precedente, facendo registrare il più alto recupero in valori assoluti, con ben 9,8 milioni di ettolitri in più a quota 46,4 mln/hl. Dalla Spagna, che balza in avanti del 26% con 8,4 milioni di ettolitri in più fino a 40,9 mln/hl, il livello più alto del quinquennio per gli iberici.

L'altra Europa

È anche per il contributo degli altri territori viticoli che l'Europa riesce a riprendersi in questo 2018 e trascinare la produzione mondiale di vino. Per la Germania, quarto produttore in Ue, l'Oiv stima 9,8 mln/hl, a livelli che non si vedevano da almeno dieci anni. Bene anche la Romania che, dopo quattro anni stabili, supera i 5 milioni di ettolitri e anche il dato, pur alto, del 2013. Ungheria e Austria incrementano rispettivamente del 32% e del 20% le quantità di vino prodotte, con 3,4 mln/hl e 3 mln/hl. Male, invece, due produttori storici, come Portogallo e Grecia. Per il primo, l'Oiv stima una produzione pari a 5,3 milioni di ettolitri, a causa di condizioni meteo ideali per gli attacchi di peronospora e oidio, che hanno condizionato la raccolta di quest'anno. Il -22% portoghese segna il livello più basso degli ultimi sei anni. Per quanto riguarda, la Grecia, si prevede un calo del 15% con un vinificato pari a 2,2 milioni di ettolitri.

Le Americhe

Anche i livelli di produzione stimati per i territori fuori Europa risultano in crescita e superiori alla media degli ultimi cinque anni. Il -2% degli Stati Uniti segna per il terzo anno consecutivo un livello di produzione molto alto che, con 23,4 milioni di ettolitri, fa di questo Paese il quarto produttore mondiale di vino. Sempre in America, ma nell'emisfero Sud, le stime sono particolarmente positive sia per il Cile sia per l'Argentina. In particolare, per il Cile, la produzione 2018, secondo l'Oiv, registra un balzo in avanti del 36% raggiungendo i 12,9 milioni di ettolitri rispetto all'anno precedente. L'Argentina si riprende dopo due campagne molto complicate e, con 14,5 milioni di ettolitri, fa segnare un +23%. Infine, il Brasile, che viene da un 2017 molto positivo, perde il 17% della produzione ma si mantiene su livelli accettabili, intorno ai 3 milioni di ettolitri di vino.

Africa e Australia

La siccità è la responsabile del cattivo raccolto in Sud Africa. Considerati i livelli del 2017, questo importante produttore mondiale perde il 12% delle quantità, scendendo a 9,5 milioni di ettolitri, secondo le stime della congiuntura Oiv, che sottolineano come si tratti del livello più basso registrato dal 2012. In Oceania il bilancio è in chiaroscuro. L'Australia, che aveva registrato due raccolti molto abbondanti sia nel 2016, con oltre 13 milioni di ettolitri, sia nel 2017, con 13,7 mln/hl, vede una stima al ribasso per 9 punti percentuali. Tuttavia, come sottolineano dall'Oiv, i livelli produttivi restano elevati, intorno ai 12,5 milioni di ettolitri. Infine, la Nuova Zelanda, i cui vini stanno registrando performance molto positive soprattutto nei mercati nordamericani, porta a casa un 2018 con una produzione vinificata al terzo posto tra le serie storiche: tre milioni di ettolitri di vino, grazie a un incremento del 6% rispetto allo scorso anno.

 

a cura di Gianluca Atzeni

foto di Gianluca Atzeni

Il tartufo bianco di Acqualagna. Caratteristiche e curiosità

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Ad Acqualagna il tartufo è dappertutto: sotto la terra, sulle tavole e, addirittura, dentro un museo. Se ne trova in quantità e dura tutto l’anno. Per festeggiarlo si organizza una grande festa che da cinquantatré anni, per tutti i fine settimana di ottobre e fino a metà novembre, celebra uno dei prodotti più generosi di questa terra marchigiana.

 

Si chiama “ruscella” lo strumento più importante che il cercatore di tartufi porta con sé nei lunghi viaggi fra i boschi di Acqualagna. È di ferro e serve per rimuovere delicatamente la terra una volta individuata, grazie al fiuto del cane, la presenza del tartufo. Nella cittadina delle Marche la terra è argillosa e calcarea, poco asciutta e ricca di sali: caratteristiche ideali che fanno del territorio un vero e proprio giacimento tartufigeno. Il tartufo bianco da queste parti si raccoglie da ottobre a dicembre e viene riconosciuto come tartufo bianco di Acqualagna o bianco pregiato oppure tartufo bianco del Piemonte o di Alba. Ha una forma irregolare, bitorzoluta, dovuta alle caratteristiche del terreno in cui lentamente cresce e si fa spazio, e con possibili piccole cavità: il peridio (l’involucro del corpo fruttifero) ha un colore che varia dall’ocra al giallo tenue e può avere macchie brune, mentre la gleba (l’interno) è segnata da venature, sorta di ramificazioni sottilissime dalla colorazione varia: marroncino, rosato, bianco. Il profumo di quello bianco ricorda l’odore di aglio, muschio, terra bagnata e addirittura formaggio stagionato. Piccolo aneddoto: ne era un grande estimatore Gioacchino Rossini, tanto da farseli spedire fino a Parigi.

Il tartufo che dà lavoro

Ad Acqualagna e nei comuni limitrofi il tartufo ha un profumo di svolta occupazionale: in questo territorio è la tartuficoltura e la ricerca del prezioso tubero a risentire meno della crisi economica e a fare registrare il segno più al tasso di crescita delle assunzioni, con un aumento di opportunità occupazionali per i giovani (18- 35 anni) in tutti i settori della filiera legati all’economia del tartufo, ovvero la ricerca del prodotto, la produzione, la lavorazione e trasformazione, la commercializzazione finale sui mercati internazionali e infine la ristorazione. Un trend positivo che si accompagna alla crescita dell'occupazione giovanile e femminile con un aumento rilevante, rispetto al passato, del numero di donne che si dedicano alla coltivazione e alla raccolta del prodotto. Così l’economia del tartufo diventa una grande occasione di lavoro per tutti.

Siamo cresciuti molto negli ultimi anni e stiamo continuando a crescere” dice Lorenza Marchetti della T&C Tartufi di Acqualagna. “Nello scorso anno l’azienda ha lavorato e trasformato oltre 35 quintali di tartufo (tra bianco e nero) e i numeri di quest’anno, non ancora chiuso, sono più che buoni”. Non contenta del successo, l’azienda ha deciso di investire anche in un altro progetto, un “Truck Food” che porta in giro per l’Italia il tartufo di Acqualagna e tutte le sue ricette. Macina chilometri, ne spiega caratteristiche e peculiarità e naturalmente lo fa assaggiare anche a chi, del tartufo, conosce poco o niente.

La produzione annuale del tartufo

La produzione di quest’anno del tartufo è sicuramente migliore di quella dello scorso anno, che è stata tragica, ma ci aspettavamo qualcosa in più”. A dirlo è Thomas Clementi che è il vicepresidente di Tuberass, con sede proprio ad Acqualagna, ed è una delle tre associazioni nazionali che riuniscono i commercianti e i trasformatori di tartufi in Italia. “Il prezzo di un tartufo bianco qui ad Acqualagna - ci spiega - può variare dai 2000 a 3.500 euro al chilo”. Le variabili sono molte e vanno dalla dimensione alla forma, passando, naturalmente, dal profumo. “Quello di queste zone va letteralmente in giro per il mondo, fresco o lavorato, nel giro di poche ore. E la cosa bella è che accade tutto l’anno vista l’alta rendita delle terre marchigiane, che toccando dieci comuni arrivano fino all’alto Montefeltro”.

La Borsa del Tartufo online

È unica in Italia nell’offrire notizie aggiornate sui prezzi. Era il 1890 quando Luigi Mochi, primo cittadino di Acqualagna, decise di acquistare una bilancia per la pesa pubblica dei tartufi dando in consegna tale bilancia a un pubblico pesatore. La grammatura del tartufo diventava un fattore fondamentale per garantire equilibrio all’economia nascente e per evitare dissapori. Oggi Acqualagna è punto di riferimento online delle quotazioni del prezioso tubero a livello nazionale. I dati sono raccolti giornalmente da un Osservatorio Prezzi che stabilisce un valore medio di vendita riferito alla qualità e alla pezzatura dei tartufi che vanno da: 0-15 grammi, 15-50 e superiore a 50 grammi. L’interesse per l’andamento dei prezzi del tartufo è assai diffuso anche tra i piccoli consumatori e risparmiatori e tocca punte elevate soprattutto nei giorni di fiera, quando la voglia di tartufo è ancora più forte e diventa impossibile tornarsene a casa privi.

Igles Corelli ritira il premio alla fiera del tartufo di Acqualagna

La Festa, il museo e il premio “la Ruscella d’oro” 2018

Sono 53 anni che ad Acqualagna e in tutto il territorio marchigiano che attraversa le gole del Furlo si festeggia l’arrivo del tartufo bianco. Lo si fa con una grande fiera autunnale in cui si celebra fra stand, banchetti, ristoranti e pietanze la pregiata pepita odorosa. Piazza Enrico Mattei, nel cuore della cittadina, diventa anima dell’evento. Durante i giorni della festa viene anche conferito un premio molto importante, la “Ruscella d’oro” a chef di indiscusso valore che hanno saputo valorizzare il prodotto del territorio in modo originale. Quella di quest’anno è andata con orgoglio al grande chef Igles Corelli. Novità di questa edizione, poi, è l'apertura del Museo del Tartufo, un nuovo racconto sul mondo del tartufo dedicato al grande pubblico attraverso un approccio pluri-sensoriale, fortemente interattivo grazie alle tecnologie digitali e a realtà virtuali. Una truffle experience tra mappe olfattive, teatro virtuale, libreria digitale e food tasting. E visto che il tartufo bianco va conosciuto fin da piccoli, proprio a loro la fiera di Acqualagna dedica un parco: il “tartufo bambini”. Tutti i giorni i bambini, assieme alle loro famiglie, possono vivere l’emozione della ricerca del tartufo assieme a un esperto tartufino e il suo vivace compagno a quattro zampe. Una magia che ogni giorno si rinnova.

 

acqualagna.com

cittadeltartufo.com

tectrtufi.it

 

a cura di Tommaso Costa

Il Primo di Lanzarote. Il vermut delle isole Canarie prodotto da un italiano: la storia di Davide Musci

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Torinese di nascita, dal mondo della tv alla ristorazione, negli anni romani di Satollo, al rione Testaccio. E poi un nuovo cambio vita, qualche anno fa, che l’ha portato a Lanzarote, nell’arcipelago delle Canarie. Lì Davide Musci ha deciso di produrre il primo vermut dell’isola, a partire dal vino locale, la Malvasia Volcanica. E sta già avendo successo. 

 

Davide Musci. Da Satollo a Lanzarote

A Roma, qualcuno lo ricorderà con nostalgia dai tempi di Satollo, tavola garbata di cucina creativa ma solida, del quartiere Testaccio. Un progetto avviato nel 2008 da Davide Musci, torinese trapiantato in città, che le sue radici ha sempre cercato di portarle con sé. Prima al ristorante, con prodotti e ricette del territorio piemontese, oggi, che tutto è cambiato, sull’isola di Lanzarote, dove si è trasferito con la sua compagna qualche anno fa in cerca del classico cambio vita. Del resto di vite precedenti, nel passato di Davide, se ne contano diverse: dal mondo della televisione, primo amore, alla cucina, prima di optare per una delle isole più incontaminate dell’arcipelago delle Canarie, al largo della penisola iberica, in vista di un tranquillità che il caos cittadino non poteva più assicurare. Perché proprio laggiù? “Un colpo di fulmine, alla prima vacanza, poi 6/7 anni di ferie trascorse sull’isola, prima di decidere che la nostra vita sarebbe stata qui. Nostro figlio era appena nato, volevamo dargli un futuro diverso, in un posto a misura d’uomo. E a distanza di anni sono convinto di aver fatto la scelta giusta, nonostante lo spaesamento iniziale”. A Lanzarote Davide si è reinventato nel settore immobiliare, continuando però a coltivare una passione amatoriale per la produzione di distillati e liquori.

Il vermut di Davide, col vino di Lanzarote

E da circa un anno, insieme a Luca Fissolo Alberto Sanino– anche loro piemontesi sull’isola, che a Lanzarote gestiscono da 10 anni un’attività di profumi e cosmetici naturali – ha avviato un progetto nato quasi per gioco, che alla fine dell’estate ha dato i primi frutti. Il Primo de Lanzarote, lo dice il nome, è il primo vermut prodotto nelle Canarie, aromatizzando il vino più caratteristico dell’isola, la Malvasia Volcanica. L’idea omaggia la tradizione torinese del vermut, e quindi racconta qualcosa della cultura piemontese di Davide e dei suoi soci, ma atterra su un terreno fertile come può essere il mercato spagnolo, perlomeno quello continentale, dove la produzione e il consumo di vermut sono decisamente in voga, “seppur il prodotto sia spesso ottenuto a partire da vino di scarsa qualità, come tra l’altro ci racconta la storia del passato, quando il vermut nacque anche con l’intenzione di migliorare vini non proprio potabili”. E però anche in Spagna, negli ultimi anni, qualche realtà di nicchia ha cominciato a lavorare su vermut realizzati con vini del territorio, valorizzando le specificità locali. Davide ha pensato di farlo con un vino che gli piace molto, particolarmente aromatico, a bassissima acidità: “Ho scelto quello della mia cantina preferita, Bodegas Reymar Los Perdomos, dove ci appoggiamo anche per la produzione. Abbiamo elaborato una ricetta che all’artemisia, alla china e alla cannella unisce molti profumi dell’isola, dalle arance di Lanzarote alla salvia Canaria, al cilantro. E poi santoreggia, sambuco, e il falso zafferano che cresce spontaneamente qui. E il prodotto finale è molto caratterizzato dalla qualità del vino”. Che però limita la produzione, essendo comunque disponibile in quantità limitate dall’estensione dell’isola, che pure è intensamente votata alla viticoltura.

 

Il Primo di Lanzarote

Dunque la prima produzione di vermut di Lanzarote, bianco, conta 3000 bottiglie, presentate sul mercato all’inizio di settembre, in occasione di una fiera locale: “Abbiamo avuto subito grande visibilità, probabilmente sollecitando anche l’orgoglio degli abitanti del luogo e di tutte le Canarie. Anche il nome conta. E infatti le richieste sono arrivate più numerose di quante potessimo accoglierne: per ora distribuiamo a una decina di realtà dell’arcipelago, tra Lanzarote e Tenerife. Ma sono interessati anche distributori importanti e presto qualche bottiglia arriverà a Madrid. Intanto abbiamo avviato la seconda produzione di vermut bianco, e presto saremo pronti con il rosso”. Entrambe le ricette partono dalla Malvasia, per la colorazione del vermut rosso Davide ha scelto ancora una volta di privilegiare ingredienti autoctoni: “Solitamente si usa il caramello, noi utilizziamo una sorta di fico d’India locale e il cosiddetto miele di palma, che si estrae dalle palme e poi viene cotto prima di essere utilizzato. Il prodotto finale è più amaro del bianco, ugualmente buono”. Risultati che incoraggiano a continuare su questa strada, che un giorno non troppo lontano potrebbe diventare una nuova professione: “Per ora resta una passione, ma non escludo nulla. È un modo diverso di approcciarmi di nuovo alla ristorazione: qui la scena gastronomica sta rapidamente evolvendo, sull’isola hanno capito con un po’ di ritardo che l’enogastronomia può essere un traino importante per il turismo. E ora investono in fiere, festival, comunicazione. Però non tornerei mai a fare il ristoratore, quei ritmi non mi appartengono più.” E allora Davide continua a sperimentare in cantina: “Ora sono alle prese con un vino da meditazione, come li chiamiamo noi in Italia. Un vino “chinato”, che però utilizza le carrube molto diffuse sull’isola”.

 

www.primodelanzarote.com

 

a cura di Livia Montagnoli

 

Nuove aperture a Roma novembre 2018. Proloco Dol a Trastevere, la Bonora, Lion, Oche Giulive e altre storie

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La squadra di Proloco, capitanata da Vincenzo Mancino, triplica al quartiere Trastevere. In zona Tuscolana arriva il laboratorio di cibo e miscelazione dell'Oste della Bon'ora, e Cru.dop cambia pelle: al suo posto Le Bollicine di Sara (Blandamura). In pieno centro c'è Lion. 

 

Proloco Trastevere

Non solo esperienze al debutto, ma soprattutto professionisti navigati della ristorazione che ci provano con nuovi esperimenti e raddoppi. Anzi triplette. Si sviluppa così l'autunno 2018 della piazza gastronomica romana, che vede (ri)scendere in campo vecchie conoscenze di peso. E così tra qualche giorno anche Trastevere potrà contare sul suo Proloco Dol di riferimento. Alessandro Salatino, Marco Natoli ed Elisabetta Guaglianone, con la supervisione di Vincenzo Mancino (che il progetto l'ha avviato diversi anni fa a Centocelle, quando Dol nacque come bottega del gusto per proporre eccellenze e rarità gastronomiche selezionate da Vincenzo nel Lazio), triplicano gli sforzi in via Mameli, civico 23, con un nuovo locale che raccoglie l'eredità e la filosofia del quartier generale di via Panaroli (nel frattempo, con Fiorentina Ceres e Gastone Pierini, è nato anche Proloco Pinciano).

L'inaugurazione di rito si è già consumata nel segno di un'altra certezza della ristorazione laziale, Giuseppe Milana, in arrivo da Olevano Romano, dov'è patron del Tre Gamberi Sora Maria e Arcangelo, per battezzare i fornelli di Proloco Trastevere con una cena degustazione dedicata ai sapori antichi del Lazio. E del resto il nuovo spazio sarà un avamposto in più, a pochi passi dalla movida trasteverina, dell'orgoglio laziale a tavola. Bottega e cucina, com'è uso della casa, con i formaggi di Cibo Agricolo Libero, il tagliere di rarità, salumi e formaggi del territorio acquistabili anche al dettaglio. E poi i piatti della tradizione popolare, le polpette, lo stinco di maiale alla birra, le pappardelle al ragù bianco di Mangalitza; ma anche, e questa è una delle novità, specialità in cocotte, cotte nel forno a legna, da dove arriva anche la pizza alla pala (Tre Spicchi) di cui Dol ha fatto un vanto. Si cucinerà anche al josper, specie la carne, e l'ora dell'aperitivo sarà anche miscelazione, con i liquori laziali di Sarandrea. Circa 80 i coperti in sala, e spazio soppalcato per corsi e degustazioni guidate.

La Bonora dell'oste al Tuscolano

Dall'altra parte della città - siamo in piazza Appio Claudio, non distanti da Cinecittà – è appena partito l'esperimento di cucina e miscelazione de La Bonora. L'insegna nasconde un nome noto agli amanti della cucina laziale, che gioca un ruolo da protagonista appena fuori città, quell'Oste della Bon'Ora condotto a Grottaferrata da Massimo Pulicati, l'oste, e sua moglie Maria Luisa, anima della cucina. A Roma, la squadra dell'Oste esordisce con “l'altra faccia della medaglia” negli spazi che furono dell'Altroballerino, ora ripensati come laboratorio di cibi e alcolici. L'atmosfera è informale, la proposta segue quest'attitudine, con sfizi di cucina per l'aperitivo e il light lunch, burger con pane homemade, miscelazione fino al dopocena (si chiude all'una di notte). A guidare il team Flavio Pulicati, figlio minore di Massimo.

 

Da Cru.Dop alle bollicine di Sara Blandamura

Ancora nel quartiere Tuscolano, al posto di Cru.Dop, Sara Blandamura, sommelier d'esperienza, ha ideato un angolo dedicato alle bollicine: Le Bollicine di Sara è insieme enoteca e bistrot. Con lei anche suo marito e socio in affari qualche civico più in là all'Enoteca Bomprezzi, Alessandro Mirizzi (azienda vinicola Monteccapone a Jesi, che quest'anno compie 50 anni di attività), per un'apertura attesa tra pochi giorni.

Oh Dog! Hot dog e Burger Store

E restiamo sulla Tuscolana, civico 59 (non distante da piazza Re di Roma), per hot dog e burger di Oh Dog!: dietro al progetto Giorgio Tedone e Giulia Pate, che del più celebre street food americano hanno fatto la bandiera di una tavola divertente, economica, di qualità. Wurstel Karl Bernardi, hamburger del Gruppo Galli, pane di Prelibato. Ma anche wurstel di farro bio e burger di verdure per offrire alternative gustose per tutti. 

 

Le Oche Giulive in città, restyling per Cibo Limata

Intanto ha debuttato a Roma, dietro piazza Fiume, pure un'altra realtà già nota dei Castelli Romani. Parliamo in questo caso di trasloco, da Grottaferrata a via Velletri, per Le Oche Giulive, wine bar, enoteca e bistrot cresciuto alle porte della città e dalla fine di ottobre ripensato nel nuovo spazio con mattoncini a vista e design moderno che privilegia una bella scaffalatura di vini a tutta parete. Aperto dalle 10 alle 23, al Bistrò si possono anche acquistare vini al dettaglio, mentre il menu spazia dagli spaghettoni cacio e pepe alla tartare di fassona piemontese, al baccalà al vapore. Aperitivo dalle 19 alle 21, serate a tema, degustazioni guidate e corsi sul vino.

Non trasloca, ma si rifà il look l'enobistro Cibo della gastronomia Limata, zona piazza Bologna: nuovo logo, bel dehors, colori caldi e atmosfera accogliente per il nuovo corso che inaugura ufficialmente il 15 novembre in via Catanzaro. Per pranzo, aperitivo, cena.

Lion al Pantheon

Tutta nuova, invece, è l'avventura di Lion, a pochi passi dal The Pantheon Iconic Hotel, di cui sono proprietari gli stessi imprenditori che hanno chiamato all'appello il giovane Luca Ludovici (ex Osteria di Birra del Borgo) per guidare sia il ristorante gourmet al piano terra dell'hotel che la cucina di questo locale più informale, aperto da mattina a sera. Ambiente moderno, cucina agile, qualche strizzata d'occhio alla tradizione romana, prodotti del territorio laziale. Ne riparleremo.

 

Cambia tutto da Marzapane: lascia Alba Esteve Ruiz

In chiusura, torniamo sui nostri passi, nuovamente in direzione via Velletri, per registrare un cambio importante nel team di Marzapane, che negli ultimi anni ha saputo imporsi nel panorama romano come meta gastronomica d'autore improntata alla freschezza e alla creatività. Buona parte del merito è della spagnola Alba Esteve Ruiz, dal 2009 stabilmente a Roma, e sin dall'inizio alla guida della brigata del ristorante, che ora "saluta con affetto e consapevolezza del grande lavoro svolto". Alba lascia in cerca di nuove sfide, dopo uno stage nella cucina catalana di Disfrutar che le ha aperto gli occhi su nuovi orizzonti in cucina. Non sappiamo dove andrà, le auguriamo il meglio. Marzapane, intanto, ha già preso una nuova direzione: menu più agile, prezzi accessibili, cucina semplificata, ma godibile, eseguita dalla brigata che è rimasta al suo posto.

 

Proloco Trastevere – Roma – via Mameli, 23 - www.facebook.com/prolocotrastevere/

La Bonora – Roma – piazza Appio Claudio, 346 - www.facebook.com/labonora/

Le Bollicine di Sara – Roma – via Tuscolana, 898 - prossimamente

Oh Dog! - Roma - via Tuscolana, 59 - www.ohdog.it

Le Oche Giulive Bistrò – Roma – via Velletri, 14 – www.ochegiulivebistro.it

Enobistro Cibo – Roma – via Catanzaro, 4 - https://www.facebook.com/CiboLimataRoma/

Lion – Roma – largo della Sapienza, 1

 

 

 

Pub e birrifici in Campania. I 19 migliori da non perdere

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Viaggio tra i migliori pub della Campania, dalla provincia di Caserta al salernitano, passando per Benevento, Avellino e Napoli.

 

È indubbio che negli ultimi anni, anche con l'affermazione del movimento della birra artigianale, la Campania brassicola sia andata anch’essa modificandosi, tanto ideologicamente quanto fisicamente, con la comparsa di nuove e interessanti leve al fianco degli storici punti di riferimento per il settore.

Come valutare un pub

Nella valutazione di un pub è necessario tenere conto di molteplici fattori, che insieme vanno a definire il giudizio complessivo. Tra essi, figurano anzitutto la proposta birraria e la figura del publican, cioè il titolare del pub, entrambe importantissime e in molti casi – non sempre - strettamente interconnesse l’una all’altra. È da considerare soprattutto l’impegno profuso nel proselitismo brassicolo, portato avanti organizzando ad esempio serate con i birrai, corsi e facendo cultura. In tale novero rientrano, dunque, la qualità della proposta gastronomica (nel caso ci sia), l’ambiente e il servizio, quest’ultimo correlato solo in parte alla figura del publican e maggiormente ai collaboratori e/o camerieri, la cui influenza non è mai trascurabile sul comfort generale.

In provincia di Caserta

Il viaggio comincia dalla provincia di Caserta. Il pub La Quinta Pinta, a Caserta centro, propone birre di ottimo livello accostate a una cucina senza fronzoli, taglieri di formaggi e di salumi selezionati e piatti del giorno spesso interessanti. Il locale è di dimensioni modeste, con una netta prevalenza di luci calde, il servizio attento e accomodante. Elevata la competenza dei due publican, soprattutto nelle materie birraria e casearia. Nel quartiere borbonico della Vaccheria di San Leucio troviamo Malto Reale, altro pub che si sta muovendo bene, pur modificandosi pian piano in cerca della quadra perfetta. La struttura è estesa, con tanti posti a sedere, anche all’esterno quando possibile, e l’arredamento delle sale interne curato, con rimandi allo stile coloniale. Se è vero che soprattutto alla spina figurano birre industriali, l’offerta artigianale è preponderante; la proposta gastronomica è ampia, di alto profilo e contempla panini (nella foto di apertura), carni, pizze, taglieri e dolci.

I club sandwich di Alter Ego Beer&FoodI club sandwich di Alter Ego Beer&Food

Nel beneventano

Trasferendo l’analisi sul fronte beneventano, il primo locale da menzionare è sicuramente l’Historia, probabilmente il pub che più andrebbe preso a modello in regione. Nato nel 2004, esso sorge nell’ala sinistra del castello baronale di Puglianello, comune sannita di circa 1400 abitanti, ed è dotato di ampie sale interne, nonché di uno spazio esterno fruibile quando clima e meteo lo permettono. Il servizio è cordiale ed efficace mentre, passando alla cucina, essa si sostanzia di piatti ben pensati prima ancora che eseguiti: il rimando è bavarese, ma l’ottica italiana è innegabile. Capitolo birre: la carta è sapientemente curata, sia con riguardo alle spine, sia alle bottiglie/lattine. A svariate decine di km di distanza, a San Giorgio del Sannio, si trova un altro totem sannita con alle spalle 10 anni di attività: il Beerbante. Parallelamente alla selezione birraria dall’ottimo tenore, ai distillati e alla discreta cucina, si segnala su tutti gli altri aspetti la professionalità di publican e personale, nonché il suggestivo stile retrò sul quale è imperniata l’estetica del pub. Il centro storico di Benevento ospita, invece, l’AlterEgo Beer&Food, pub anch’esso presente sulla scena campana da un decennio, centrato sui panini per la parte gastronomica e dotato di un buon assortimento per quanto riguarda quella brassicola.

Hamburger e birra dell'OttavonanoHamburger e birra dell'Ottavonano

Nell'avellinese

Nell’avellinese, e più nello specifico ad Atripalda, sorge il tempio della birra vintage per la Campania e l’Italia: l’Ottavonano. Gli spazi interni sono stati rimodernati da poco, perdendo forse parte del fascino âgé (nasce alla fine degli anni ’90), ma guadagnandone in termini di freschezza e luce. La proposta gastronomica è buona e attinge a piene mani, specie dopo l’ultimo cambio di menu, dalle consistenti tradizioni gastronomiche irpine. Il pub si è distinto nel corso degli anni, oltre che per la vasta selezione di birre d’annata – alcune introvabili – e la competenza dei publican, anche per le tante serate di degustazione organizzate con esperti del settore e birrai, italiani ed esteri, oltre che per la valorizzazione dei birrifici campani. Ad Avellino città, poi, c’è il BeerBar, ricavato all’interno di uno storico palazzo del centro: sale accoglienti e moderne, una cucina da pub in chiave moderna e buone birre alla spina e in bottiglia/lattina.

Salsicce e patatine di Murphys LawSalsicce e patatine di Murphys Law

A Napoli

Spostando il discorso a Napoli e focalizzando la disamina sul centro città e sui quartieri metropolitani, negli ultimi anni sono nati e cresciuti locali molto interessanti. Tra esse annoveriamo: Mosto – Birra Artigianale & Distillati, sito in una traversa di via Alabardieri a Chiaia, che ha rivoluzionato la scena di un quartiere dove imperano i così detti “baretti”, proponendo in alternativa buone birre e una nutrita scelta di distillati, specie whisky; Murphy’s Law, nelle due declinazioni vomeresi “Birreria Artigianale” e “Pub” – la terza è a Vico Equense -, dove è possibile bere ottima birra artigianale e mangiare bene, soprattutto panini nel primo e carne e fritti nel secondo; Hoppy Ending, sempre al Vomero, locale minuto con 4 spine e circa numerose etichette tra bottiglie e lattine tra cui scegliere, accompagnando il tutto a taralli o coppiette; il Birraiuolo, sito nei pressi di Piazza Bellini, privo di cucina e costituente una delle pochissime isole felici birrarie nella zona, di fatto sotterrata – anche dal punto di vista ambientale – da un enorme quantitativo di birre di bassa lega vendute per pochi spicci.

Hamburger di SturgisHamburger di Sturgis

In provincia di Napoli

In provincia, tra le varie realtà meritevoli d’attenzione, spicca sicuramente Pub 27 a Pompei, che si sta impegnando a fondo per veicolare il messaggio craft ripudiando l’industriale (spilla e vende solo birra artigianale) e organizzando eventi e corsi. Così come Sturgis a Brusciano, dove la selezione birraria è curata in maniera certosina, accompagnata da sfiziosi stuzzichini e ottimi panini categorizzabili come “da pub”.

Hamburger di Oro, Incenso e BirraHamburger di Oro, Incenso e Birra

A Salerno

Il viaggio nei pub campani termina con quelli del salernitano, terra fiorente per quanto concerne il movimento. Si parte con quelli del centro. Il BAI Birra Artigianale Italiana propone una buona scelta di sole birre artigianali italiane in un locale atto a ospitare poche decine di persone; la proposta food è limitata, ma di discreto livello. Bi&B – Birre e Baguettes, invece, a baguette dal buon rapporto qualità-prezzo abbina un ventaglio birrario che contempla grandi referenze italiane ma anche e soprattutto estere, spesso di nicchia, da spillare o in bottiglia/lattina. Oro, Incenso e Birra è una realtà emergente, presente dal 2016 in città, che coniuga una buone birre (soprattutto sour) a una cucina semplice, con materie prime in larga parte fresche e cucinate al momento.

Anelli di pollo di Beer HuntersAnelli di pollo di Beer Hunters

In provincia di Salerno

Fuori dalla città, merita senza alcun dubbio una menzione il Demetra Pub a Pontecagnano Faiano, caratterizzato da pietanze basic, ma da una più che buona selezione brassicola e soprattutto dalla carismatica figura del publican, anch’egli alfiere della birra in Campania sin dagli albori del movimento. Rilevante e incontestabile, difatti, l’impegno profuso nel corso degli anni per la diffusione dell’erudizione birraria in regione. L’attenzione prestata nella scelta delle materie prime, che vanno a comporre piatti o panini, e soprattutto delle birre, rende il Birstrò 2.0, sito a Baronissi, un altro indirizzo imperdibile. Infine, spostando l’attenzione ancor più a sud, c’è da considerare i giovani ragazzi di Beer Hunters ad Agropoli: carni al BBQ, panini ben pensati ed equilibrati, oltre a una pregevole carta birraria con qualche referenza vintage, fattori che rendono il pub un’oasi per gli appassionati cilentani e non solo.

 

a cura di Andrea Docimo

 

GLI INDIRIZZI

La Quinta Pinta – Caserta - via Ferrarecce, 185 - 329 625 4169 - laquintapinta.com

Malto Reale - Caserta - via dei Cotonieri, 27 - 0823 154 3738 - facebook.com/maltorealeHistoria Birreria

Artigianale - Puglianello (BN) - Largo Castello, 10 - 0824 946072 – historiabirreria.com

Beerbante - San Giorgio del Sannio (BN) - viale Spinelli, 212/214 - 0824 58818 - facebook.com/pages/category/Gastropub/Beerbante

AlterEgo Beer&Food – Benevento - via Giuseppe Manciotti, 16 - 0824 040720 - facebook.com/alterego.beerandfood

Ottavonano - Atripalda (AV) - via Salita Palazzo, 5 - 0825 611368 ottavonano.com

BeerBar – Avellino - Rampa Santo Modestino, 1 - 0825 672176 - facebook.com/BeerBarBmode

Mosto – Birra Artigianale & Distillati – Napoli - vico II Alabardieri, 28 - 081 058 4703 - mosto.beer

Murphy’s Law - Napoli - via Luca Giordano, 156 - facebook.com/murphyslawpubnapoli

Murphy’s Law - Napoli - via Giovanni Merliani, 156

Hoppy Ending – Napoli - via Santa Maria Della Libera, 30 - 081 1877 9206 - facebook.com/hoppyending

Il Birraiuolo – Napoli - via Vincenzo Bellini, 48 - 081 549 2703 – facebook.com/ilbirraiuolo

Pub27 – Pompei (NA) - via Vittorio Emanuele, 9 - 333 708 8702 - facebook.com/VENTISETTEPOMPEI

Sturgis – Brusciano (NA) - via Guglielmo Marconi, 48-50 - 331 231 5354 – facebook.com/sturgisbeerhouse

BAI Birra Artigianale Italiana – Salerno - via Arechi, 150 - 089 483238 - birrabai.it

Bi&B – Birre e Baguettes – Salerno - via Giovanni da Procida, 46 - facebook.com/birreebaguettes

Oro, Incenso e Birra – Salerno - via Masuccio Salernitano, 60 - 328 103 8610 - facebook.com/oibbirreria

Demetra Pub - Pontecagnano Faiano (SA) - Corso Italia, 139 - 089 384747 - facebook.com/pages/category/Pub/Demetra-Pub-Birreria

Birstrò 2.0 – Baronissi (SA) - Corso Giuseppe Garibaldi, 19/25 - 089 954045 - pubbirstro.it

Beer Hunters – Agropoli (SA) - via Flavio Gioia, 16 - 328 866 1047 - beerhunters.it

 

 

Olio. Le annate difficili dell’extravergine italiano tra vuote certezze e speranze future

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Si stima un’altra campagna olearia all’insegna della scarsità di olio italiano. Qui i numeri di quest’anno, le problematiche della filiera e le opinioni di importanti produttori nostrani. 

 

Il punto della situazione. Cosa c'è che non va

Non siamo ai livelli del 2015, ma quella che si sta chiudendo è un’altra campagna olearia difficile per l’extravergine italiano. Le cause come sempre sono tante: dal campo al frantoio, passando per tutte quelle criticità che hanno ridotto il panorama olivicolo italiano a recitare un ruolo secondario sul palcoscenico del Mediterraneo. Inutile puntare il dito verso qualcuno o qualcosa, ma dopo la brutta annata del 2015 è come se qualcuno ci avesse regalato una bella e prestante vanga per scavare ancora una volta raggiunto già il fondo. Ed è quindi un puro caso il fatto che la scorsa annata (la 2017) sia andata abbastanza “bene”. In questo momento di totale confusione, i grandi vuoti da colmare sono sostanzialmente: la mancanza di coordinamento a livello nazionale tra i produttori che fanno dell’oro verde la loro eccellenza; l’assenza di una strategia di lungo periodo che punti sulla valorizzazione del patrimonio varietale (1/3 di quello mondiale) e sulla sua esaltazione, dato che sul piano quantitativo non abbiamo mai potuto competere con attori come la Spagna; un’azione strategica da parte di politica e associazioni che punti a una riforma profonda del settore partendo dalla filiera produttiva. Ed è proprio in questi momenti che i grandi fan delle colture superintensive offrono le loro consulenze e il loro parziale know how per convincere i produttori a convertirsi a questi tipi di impianti (con cultivar internazionali e studiate ad hoc). E questa, sul lungo periodo, è una strategia fallimentare, sia dal punto di vista etico che economico. Ma a quanto pare non basta studiare gli esempi sudamericani dove aziende con centinaia di ettari di superintensivo dopo appena una ventina d’anni sono costrette all’espianto e al cambio di coltura; così come non servono a nulla gli studi sulla spagnola arbequina per impianti superintensivi: a 6 mesi dall’imbottigliamento l’olio presentava un valore di perossidi talmente alto da non poter essere considerato extravergine. E si potrebbe continuare con molti altri esempi.

Le stime di produzione

In Italia, dicevamo, manca una strategia sul lungo periodo e molti investimenti strizzano l’occhio alla tecnologia e all’avanguardismo nell’uliveto piuttosto che alla sostanza: anche per questi motivi, quest’anno ci ritroviamo così. Certo, non vanno sottovalutate le cattive condizioni climatiche che si sono susseguite dall’inverno in poi, con Burian primo antagonista che ha provocato danni da gelo, e in seguito gli attacchi di patogeni. Un’idea più realistica ce la dà l’ISMEA, che come ogni anno ha fornito stime di produzione sulla campagna corrente premettendo che: “Al di là dell’entità finale che assumerà la contrazione produttiva della campagna appena iniziata, si rileva che negli ultimi sei anni, per la terza volta, le tradizionali annate di ‘scarica’ si presentano con flessioni produttive la cui intensità supera l’abituale fisiologica alternanza; ciò è dovuto all’azione di concause che contribuiscono a flessioni produttive estremamente rilevanti... Nella storia produttiva dell’olivicoltura nazionale, queste annate particolarmente negative, nelle quali più elementi contribuiscono a flessioni di grande impatto, generalmente si sono distanziate l’una dall’altra fino a 15 anni. Negli ultimi anni invece, la sempre maggiore frequenza con cui si presentano anomale situazioni climatiche sta rendendo estremamente complessa la gestione di un settore strategico come quello olivicolo-oleario nazionale”.
Secondo le prime indicazioni provenienti dalla rete di monitoraggio ISMEA, si stima un volume produttivo di olio che si potrebbe attestare intorno alle 265 mila tonnellate, che significherebbe una contrazione del 38% rispetto all’anno precedente. A livello territoriale, emerge una divisione netta tra Centro-Nord e Mezzogiorno. Nel dettaglio, nelle regioni settentrionali si prevede un recupero della produzione di oltre il 30% rispetto all’anno precedente grazie alla buona situazione in Liguria, mentre nelle aree del Centro si stima una lieve flessione produttiva legata alle problematiche di alcune aree di Lazio e Abruzzo, non compensata dagli aumenti stimati in Umbria e Toscana. A pesare sul risultato complessivo è, tuttavia, la situazione al Mezzogiorno, da dove peraltro arriva oltre l’80% della produzione totale nazionale, che quest’anno potrebbe vedere praticamente dimezzati i volumi rispetto alla campagna passata. A condizionare pesantemente la produzione sono state le nevicate e le gelate di marzo, che hanno colpito una vasta area olivicola del Nord della Puglia che nel complesso potrebbe arrivare a una produzione al di sotto delle 100 mila tonnellate, un record talmente negativo di cui non si ricorda un precedente.

 

Le voci dei produttori

Come sempre i pensieri migliori sulle problematiche, ma soprattutto sulle opportunità del settore, vengono da chi nel lavoro ci mette conoscenza, esperienza e passione. È il caso di Nicolangelo Marsicani, olivicoltore e frantoiano cilentano protagonista dell’impennata qualitativa della produzione olearia del suo territorio (e non solo) negli ultimi anni. “Questa è una campagna figlia delle politiche degli ultimi 20 anni. Il sistema precedente di premio-produzione costringeva a portare le olive al frantoio con più costanza possibile e quindi a una produzione più o meno sistematica. Oggi con il concetto di disaccoppiamento introdotto nel 2003 dalla PAC ci ritroviamo con il nostro settore olivicolo in coma farmacologico e tenuto in vita solamente dai sussidi. Per questo non ce la possiamo prendere con la Tunisia come fanno i nostri politici, ma dobbiamo solamente lavorare alla ristrutturazione della filiera”.

Tra quelli che in un periodo di crisi colgono l’occasione per fare investimenti, c’è la famiglia Gaudenzi,che vede in Andrea e Stefano i protagonisti di una nuova generazione di produttori e frantoiani. L’azienda umbra ai piedi del Monti Martani infatti ha dato il via a un processo di impianto di 20 ettari di nuovi uliveti che terminerà nell’ottobre del prossimo anno. Questi nuovi impianti presentano soluzioni tecnologiche innovative e del tutto inedite in Italia. Sono stati prima di tutto individuati 9 diversi poderi dove impiantare le diverse cultivar (tutte tipiche della Dop Umbria) e sono stati studiati i venti per poter orientare i filari degli impollinatori nella giusta posizione. I terreni sono stati trattati in modo da garantire un adeguato drenaggio, e si è pensato al recupero delle acque in modo da alimentare un impianto di irrigazione di soccorso. Ma la soluzione tecnologica più innovativa è forse rappresentata dall’impianto ad aria compressa alimentato da energia fotovoltaica che metterà in funzione strumenti come le forbici per la potatura e gli scuotitoi per la raccolta, evitando in tal modo l’ingresso in campo dei trattori.

 

Le caratteristiche dell'annata

Quest’annata, comunque, sarà ricordata per i bassi livelli di amaro e piccante negli extravergine, pur fatti in maniera impeccabile. Per qualcuno questo rappresenta un problema, anche se proprio la variabilità dell’annata dovrebbe essere un concetto ormai da tempo appreso dai colleghi del mondo vitivinicolo. In ogni caso, se qualcuno se ne lamenta, c’è anche chi provocatoriamente gioisce. Uno di questi è Nicola Fazzi, direttore e agronomo di Colli Etruschi di Blera (VT). “Certo che sono contento– sorride provocatorio – Perché ai nostri clienti piace di più. Non ci sarà nessuno che si lamenti di amaro e piccante!”.Ma come, non erano caratteristiche positive per l’olio di oliva? “Certo– fa lui – Ma ricordatevi che l’olio non lo facciamo per i panel di degustazione, né per gli appassionati e neppure soltanto per i ristoratori o chef! L’olio noi vogliamo venderlo alle famiglie: sono queste che lo usano, a tavola e in cucina. Sono i consumatori ‘normali’ e quotidiani a cambiare la percezione dell’extravergine: sono le famiglie che poi chiederanno ai ristoratori e agli chef prodotti migliori. Perché oggi, devo dire, gli chef guardano solo al prezzo. E se uno mi chiede un buon extravergine a 5 euro, io mi rifiuto di darglielo. Sono pochi – certo, ci sono – i ristoranti che usano davvero l’extravergine artigianale per cucinare: basta vedere i numeri delle ordinazioni che fanno. Poi, magari sul tavolo trovi la bottiglietta carina. L’olio è un condimento, è un ingrediente che va usato in cucina, sempre, ogni giorno. E sinceramente preferisco avere meno amari e piccanti, ma vendere più extravergine artigianale, in Italia e nel mondo!”

 

a cura di Indra Galbo

 

 

Michelin Italia 2019, il totostelle. Pronostici e auspici degli addetti ai lavori

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Alla vigilia della presentazione della Rossa a Parma, abbiamo raccolto pronostici e speranze di chi conosce bene la ristorazione italiana. In cerca di nomi, territori e tendenze che la guida Michelin dovrebbe premiare. Ecco cos’è venuto fuori. 

 

Luci e ombre della Rossa

Ancora una volta a Parma - domani, 16 novembre, la presentazione della nuova edizione - la guida Michelin si appresta a sciogliere le riserve sull’ultimo anno di scorribande gastronomiche su e giù per la Penisola, con l’intento di fornire un quadro della moderna ristorazione italiana formato Rossa. Ed è importante l’ultima precisazione, perché i criteri premiali che ogni anno portano alla conferma o all’assegnazione di nuove stelle continuano a destare un’attesa difficilmente espressa per altri avvenimenti di settore, come del resto è vero in tutti i Paesi che gli ispettori della Michelin riescono a censire nel mondo, pur con significative difformità di approccio. Per esempio, sono in molti a rilevare l’incapacità (la non volontà?) di leggere il valore di un’ampia fetta del mercato ristorativo italiano, quelle trattorie spesso relegate a livello di Bib Gourmand (tra le new entry 2019 segnaliamo, tra gli altri, il Di Martino Seafront Pasta Bar a Napoli; il computo totale sale a quota 257, accostando sovente il diavolo con l’acqua santa), che invece meriterebbero una considerazione in più. Come pure le pizzerie, che ogni anno alimentano il totoscommesse degli addetti ai lavori nella vana speranza di veder riconosciuto ai migliori pizzaioli d’Italia – non più semplicemente ambasciatori di una radicata tradizione popolare, ma imprenditori capaci a tutto tondo (al tema il Gambero Rosso dedica da anni una guida che evidenzia l’evoluzione del settore, in parallelo alla guida Ristoranti d’Italia, di cui è recente l’ultima pubblicazione) - gli stessi meriti che altrove, e specie in Asia, vedono primeggiare insegne di street food insignite con la stella.

 

I pronostici della vigilia

Però, dicevamo, quel che è vero da sempre, pur con tutte le parzialità del caso, è l’aspettativa che l’uscita della guida francese riesce a instillare ogni anno, la trepidazione della vigilia in attesa che si alzi il sipario su un cerimoniale consono al prestigio costruito dalla Rossa. E i pronostici infatti impazzano, più simili all’auspicio di veder riconosciuti talenti e situazioni d’eccellenza che certo non mancano, che vere e proprie previsioni destinate a colpire nel segno. È un divertissement - chiaro - e fa parte del gioco. E però non un semplice esercizio di stile, se può offrire una lettura utile a capire dove sta andando la ristorazione italiana, quali siano le realtà emergenti che lavorano bene guardando al futuro, quali le regioni più avvantaggiate, cosa succede nelle grandi città. Abbiamo coinvolto nel gioco gli addetti ai lavori, critici, giornalisti ed esperti lettori del panorama gastronomico nazionale, per un toto-scommesse della vigilia a più voci, che è carico di tante speranze.

Prima di lasciare la parola a ciascuno di loro, evidenziamo qualche dato comune: difficilissimo, se non impossibile, assistere alla consacrazione di un nuovo Tre Stelle dopo l’edizione 2018 che ha visto premiare la lucidità di visione di Norbert Niederkofler. Se la Rossa volesse smentirci, però, il candidato in pectore sarebbe Mauro Uliassi (tra l’altro chiamato assieme a Cannavacciuolo, i Santini e Spigaroli a cucinare all’evento di gala legato alla presentazione della guida: vorrà dire qualcosa?). Alle due stelle, invece, possono ambire in tanti: i pronostici meno azzardati si concentrano su Riccardo Camanini (neo triforchettato). Potrebbe (dovrebbe) essere l’anno dei giovani, quelli che in tutta Italia hanno il coraggio di tracciare un percorso molto personale: Gianluca Gorini a San Piero in Bagno, il team del Giglio a Lucca, Nikita Sergeev a Porto San Giorgio, i Bros di Lecce, Nino Rossi in Calabria. O Matteo Metullio a supervisionare il progetto di rilancio dell’Harry’s di Trieste, con Davide De Pra e Alessio Buffa. Nel confronto Milano – Roma i bookmaker sembrano puntare sulla prima (Taglienti e Perdomo per la seconda? Il ritorno di Cracco tra i bistellati? Ma anche Apreda all’Imago o Pascucci, nel circuito romano). Ma anche Torino potrebbe regalare sorprese, mentre a Bologna molti sperano che la Rossa si accorga finalmente del lavoro di Massimiliano Poggi. Ora sotto coi pronostici.

 

Luca Iaccarino: Parlando di Torino, i bookmaker scommettono su Spazio7 di Alessandro Mecca, Carignano all’hotel Sitea e Cannavacciuolo Bistrot. Forse per Condividere (Federico Zanasi per Ferran Adrià al quartier generale di Lavazza, ndr) è troppo presto, ma è già una stella nel mio cuore.

 

Dominique Antognoni: Due Stelle le prende di sicuro Michelangelo Mammoliti a La Madernassa, forse quest'anno, altrimenti il prossimo: è uno dei più grandi player nazionali, e anche il ristorante in sé è pronto per la seconda. A Milano, Lume (Luigi Taglienti) è nella lista dei papabili per la seconda, prima o poi la prenderà: non escludo possa arrivare quest'anno. Temo invece che Berton resti con una stella soltanto, mentre Cracco non so se riuscirà a conquistarsela: glielo auguro, si dà l'anima e la vita in Galleria, ma penso che per la Michelin sia presto. Tra le new entry in città, stella piena secondo me per Viu di Giancarlo Morelli: vale tutto, dall'atmosfera al servizio, ovviamente i piatti sono meritevoli, perché non dimentichiamolo mai, si premia il piatto e non la bellezza del locale. Poi Acanto: da quando è arrivato, Alessandro Buffolino ha cambiato la vita del ristorante, è riuscito a dare una scossa. E poi va detto che il servizio è straordinario. Un altro che la merita è Andrea Provenzani di Il Liberty, seppur non ambisca per forza di cose ad averla. Ma merita stella piena anche Gong, anche se probabilmente la prenderà il prossimo anno. Mentre i tempi sarebbero maturi per Wicky’s, anche se temo che la guida lo consideri un po’ estremo.

 

Marco Colognese: Comincerei da Trieste, per premiare l’Harry’s del Grand Hotel Duchi d’Aosta dopo il rinnovo con la supervisione di Matteo Metullio e la squadra Davide De Pra e Alessio Buffa. Come credo sia ineluttabile e meritata la stella per Claudio Melis a Bolzano (In Viaggio). A Bologna sarebbe ora per Massimiliano Poggi, ma dico anche Alessandro Panichi a Villa Aretusi; mentre in Veneto punterei sui 12 Apostoli di Mauro Buffo (Verona): il ristorante è stato in passato importante per la guida, e anche Buffo dà molte garanzie. E potrebbe arrivare qualcosa pure per Matteo Grandi (Degusto, San Bonifacio). Restando al Nord, seconda stella quasi certa per Riccardo Camanini (Lido84), io amo anche La Peca di Lonigo (neo triforchettato, ndr), ma che la Michelin gli riconosca il terzo macaron lo trovo improbabile, come pure mi sembra difficile possa arrivare già quest’anno la terza per Uliassi. A Torino vedo bene Condividere, ma potrebbe starci la prima stella anche per i Costardi di Edit; a Milano direi seconda per Contraste di Mathias Perdomo e Lume. Per Stephan Zippl a Bolzano (1908, Renon) forse è presto, ma per l’anno prossimo ci conto. Al Sud, invece, non vedo cose eclatanti, forse il Faro di Capodorso a Maiori, con una cucina francesizzante che dovrebbe piacere alla Rossa. E se dovessi pensare alle pizzerie punterei su Franco Pepe (Pepe in Grani) e Simone Padoan (I Tigli).

 

Lorenza Vitali: Cominciando dalle due stelle, alcune sarebbero proprio opportune, come El Molin del grandissimo Alessandro Gilmozzi. Su Davide Scabin (Combal.0), invece, non mi pronuncio: troppo complicato fare pronostici. Spero che Nikita Sergeev (L’Arcade, Porto San Giorgio) venga premiato per il suo impegno e la sua passione. Mentre ho mangiato benissimo, qualche giorno fa, da Alessandro Bellingeri all'Acquarol: una tavola che vale la stella, ma immagino sia troppo presto, hanno aperto da pochissimo.

 

Leonardo Ciomei: Ho la netta sensazione che i nomi che girano siano un po' gli stessi per ognuno di noi. Riccardo Camanini (Lido84) e Matteo Baronetto (Del Cambio, Torino) per la seconda stella ci conto, poi Luigi Taglienti con Lume a Milano. Mentre non sono sicuro che Cracco la riconquisti subito quest'anno. Per la prima stella ci sono tanti papabili, girano da sempre i nomi del fusion milanese Wicky’s e quello dei Bros a Lecce. Sicuramente ci saranno nuovi stellati nelle cucine d'hotel, nomi anche a sorpresa nella zona del Chianti senese. E poi, ma per scaramanzia non scrivo nemmeno il nome, auspico la terza stella per il mio amico dell'Alto Adriatico...

 

Lido Vannucchi: Punto sulla seconda stella per Riccardo Camanini (Lido84), e potrebbe arrivare anche a Telese Terme per Giuseppe Iannotti al Kresios; e perché no per Andrea Mattei a Borgo Santo Pietro e per Gianfranco Pascucci a Fiumicino. Tra le nuove stelle? Alessandro Mecca a Spazio7 (Torino), Manuel Bouchard con Antinè (Barbaresco), Davide Caranchini per Materia (Cernobbio), Claudio Melis per In Viaggio (Bolzano), Gianluca Gorini con DaGorini (San Piero in Bagno). In Toscana punterei su Stelios Sakalis a Castelmonastero (Castelnuovo Berardenga), Maurizio Bardotti al 43 (San Gimignano), Senio Venturi a L’Asinello (Castelnuovo Berardenga). E poi nel Lazio Materia Prima (Pontinia) e giù al Sud i Bros, a Lecce.

 

Alfonso Isinelli: Terza stella meritata per Mauro Uliassi, ma difficile che la Michelin ci sorprenda per il secondo anno consecutivo. Per il toto-due stelle, Riccardo Camanini (Lido84) è quello che in questo momento cucina meglio in Italia, le merita. Ma c’è margine anche per Luigi Taglienti (Lume, Milano) e Matteo Baronetto (Del Cambio, Torino), mentre Cracco dovrebbe tornare nel gruppo. Per le prime stelle scommetterei sui giovani, mi piacerebbe fossero premiati bei progetti corali come quelli del Giglio (Lucca) e dei Bros (Lecce), e la visione di Gianluca Gorini (DaGorini,San Piero in Bagno): sarebbe un bel segnale di apertura verso un nuovo tipo di cucina, contemporanea nei piatti e nella forma. Tra i desiderata, che finalmente le trattorie – la grande trattoria italiana – siano considerate alla stregua dei ristoranti, direi ancor prima delle pizzerie che molti vorrebbero vedere premiate. Penso per esempio all’Osteria del Mirasole (San Giovanni in Persiceto). Per la pizza, senza eguali, Franco Pepe a Caiazzo. Però in entrambi i casi la Michelin continua a tagliare il prodotto sulla clientela che sa di dover accontentare: alla grandeur europea non si confanno trattorie, pizzerie (e bistrot in Francia), mentre in Asia il cliente tipo della Rossa usufruisce tranquillamente anche dello street food. Tornando al totostelle: a Roma Apreda (Imago) e Pascucci per la seconda, Genovese (Il Pagliaccio) meriterebbe la terza, come Antonio Guida a Milano (Seta). A Bologna merita Massimiliano Poggi. Al Sud non credo si muoverà molto, mi piacerebbe arrivassero altre stelle in Calabria, per esempio a Nino Rossi (Qafiz).

 

Lorenza Fumelli: Oltre ai classici nuovi stellati, la cui lotteria di nomi sarebbe piuttosto lunga, la cosa che più auspichiamo è la presenza di locali diversi, inusuali, che magari non corrispondono ai parametri estetici classici della Michelin Italia ma che, a nostro parere, non possono non essere annoverati tra le migliori tavole della Penisola. Pensiamo a Trippa a Milano, a Mazzo a Roma o anche all'Osteria del Mirasole di San Giovanni in Persiceto, trattoria classica ma d'assoluta eccellenza. E perché no, come da anni qualcuno mormora, l'arrivo della prima stella per le pizzerie. Di Franco Pepe (Pepe in Grani) o Simone Padoan (I Tigli), magari. Obbligatoria la seconda stella a Lido 84 e, perché no, a Lume di Luigi Taglienti, Kresios di Giuseppe Iannotti e al ristorante di Andrea Berton. Tra i desiderata romano-centrici ci sarebbero anche Pascucci al Porticciolo, Imàgo e Metamorfosi. Ma forse è chiedere troppo. Sembra che Uliassi stavolta non mancherà la terza stella, e ne siamo felici. Con lui suggeriremmo per il massimo riconoscimento anche il Pagliaccio di Anthony Genovese e Seta a Milano. 

 

Albert Sapere: Per quest’anno direi nessun nuovo Tre Stelle, purtroppo; mentre azzardo tre nomi per la seconda: Riccardo Camanini con Lido84, Michelangelo Mammoliti a La Madernassa, Angelo Sabatelli in Puglia. Per le papabili prime stelle: I Portici di Bologna (riconferma dopo il cambio chef), George’s Restaurant del Grand hotel Parker a Napoli, José Restaurant a Torre del Greco, Bros a Lecce, il St. George di Heinz Beck in Sicilia.

 

Barbara Guerra: Innanzitutto credo che sarà riconfermata la stella a I Portici di Bologna, anche a seguito del cambio chef (via Agostino Iacobucci, dentro Emanuele Petrosino, ndr). Tra le nuove stelle, invece, la auguro a Gianluca Gorini (DaGorini) e Alessandro Rapisarda (Casa Rapisarda, a Numana). In Campania mi piacerebbe arrivasse al Caracol di Bacoli.

 

 

a cura di Livia Montagnoli


Mangiare in Abruzzo. Guida alle migliori 9 pizzerie

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Niente tappe cittadine, ma una panoramica unica sulla scena dell'arte bianca regionale. Ecco dove trovare una pizza d'autore in Abruzzo, da Teramo a Chieti, passando per L'Aquila. 

 

Ci sono le trattorie tradizionali, tavole che sfoderano il meglio dell'enogastronomia locale, fra prodotti di terra e di mare elaborati con gusto secondo le ricette storiche. E poi i ristoranti più ricercati, quelli di alta cucina e i bistrot più moderni che interpretano i piatti di un tempo in maniera contemporanea. Ma anche tanta buona pizza, classica o a degustazione. Continua a crescere il settore della lievitazione in Abruzzo, con i vecchi forni che tornano ad accendersi nei borghi colpiti dal terremoto dell'Aquila, e le pizzerie che hanno saputo innalzare il loro livello qualitativo grazie a una ricerca minuziosa delle materie prime.

Gli indirizzi d'eccellenza – quelli che hanno ottenuto dagli 85 punti in su nella guida Pizzerie d'Italia – sono ancora pochi, e per questo abbiamo deciso di radunarli tutti in un unico elenco, fornendo un'istantanea dell'arte bianca abruzzese.

 

Giangi's pizza

Giangi's Pizza – Arielli (CH)

Gianluigi Di Vincenzo – Giangi per gli amici – ha le idee ben chiare in fatto di qualità, nonostante la giovane età. Nell'insegna di famiglia, insieme a papà Domenico, cura l'orto e l'uliveto e, soprattutto, seleziona gli ingredienti migliori per il suo impasto ad alta idratazione e i topping originali. Fra le specialità della casa, Ho Fatto Un Cocktail di Gamberi! (miglior pizza all'italiana dell'anno secondo la guida), a base di burrata pugliese, gamberetti marinati al gin – lascito del suo passato da barman – succo d'arancia e Cointreau, asparagi selvatici, pomodorino giallo, fior di fiordaliso e olio extravergine di oliva. Da provare anche la Carpaccio Frizzante al Castel del Monte, con battuto di Fassona e radicchio cotto in osmosi, pestato di olive leccino, crema di Canestrato, timo fresco ed extravergine della casa. Ci si sbizzarrisce anche nella scelta degli impasti: in pala, teglia romana imbottita oppure tonda classica.

Giangi's Pizza – Arielli (CH) – via Valle, 27 - www.facebook.com/giangispizza/

 

sorgente

La Sorgente – Guardiagrele (CH)

Continua a confermarsi una delle migliori insegne del territorio, quella della famiglia Zulli, pizzeria di ricerca dove vengono lavorati ogni giorno cinque tipi di impasto differenti: classico, al farro, focaccia, Riempizza – farcita – e pala romana. Tutti ad alta idratazione, con pasta madre e basso apporto di sale. A realizzarli, Arcangelo Zulli, un vero maestro del settore impegnato da anni a creare, giorno dopo giorno, delle basi friabili e profumate, dal cornicione leggermente rigonfio. Condite con le tante specialità abruzzesi e non solo, prodotti come lo zafferano dell'Aquila e la ventricina vastese, che insieme a rucola, parmigiano e pomodori pachino vanno a impreziosire la farcia della Riempizza. Tra le pizze gourmet, ricordiamo la vegetariana Facciamo il Bis, con stracciata vaccina, funghi cardoncelli e porcini, formaggio gregoriano e ricotta scorza nera di Scanno, melograno ed extravergine monocultivar di intosso. Dulcis in fundo, una linea di dessert d'autore per una degna conclusione del pasto.

La Sorgente – Guardiagrele (CH) – via A. Gramsci, 9 - www.facebook.com/lasorgentepizzeria/

 

percorsi di gusto

Percorsi di Gusto – L'Aquila

La storia di Marzia Buzzanca è unica nel suo genere. Un racconto di passione, tenacia, determinazione, orgoglio. Dopo il terremoto del 2009 – a solo un anno di distanza dall'inaugurazione del suo locale – la pizzaiola è costretta a cambiare sede, ma non demorde. Anche nella nuova pizzeria, la filosofia di base resta la stessa di sempre: una pizza a degustazione, che si ispira al mondo della cucina, un concetto di arte bianca diverso, in cui il disco di pasta diventa la base per accogliere veri piatti cucinati, come il vitel tonné. Nell'ambiente curato e intimo, si possono gustare quindi pizze d'eccellenza divenute nel tempo simbolo della rinascita di una città, oltre che di un progetto imprenditoriale. Proposte come la Margherita, la Jotta con scamorza affumicata, patate, alici, mozzarella e timo, tanto per citarne alcune. Spazio, poi, al vino, il primo amore di Marzia, sommelier preparata che non rinuncia agli abbinamenti più azzardati.

Percorsi di Gusto – L'Aquila – v.le della Croce, 40 – www.percorsidigusto.com

 

spicchi d'autore

Spicchi d'Autore – Giulianova (TE)

Grano Solina e 72 ore di lievitazione, per una pizza croccante fuori e morbida all'interno, farcita con i migliori prodotti del territorio: sono gli ingredienti alla base del lavoro di Nino Carone, giuliese convinto che nelle sue creazioni coniuga tutto il meglio dell'Abruzzo. Ogni pizza, infatti, porta il nome di un borgo abruzzese e rappresenta una zona diversa della regione. Così, troviamo la Pescocostanzo con il suo caciocavallo, la Navelli con crema di zafferano aquilano, la Castel del Monte con il Canestrato oppure la Basciano con il suo eccellente prosciutto crudo. Ottimi anche gli antipasti, dal fritto misto alle verdure in agrodolce accompagnate dalla focaccia fragrante.

Spicchi d'autore – Giulianove (TE) – l.mare Rodi Sud - www.facebook.com/pizzeriaspicchidautore/

 

fràgranze

FràGranze – Orsogna (CH)

Francesco Pace è un tecnologo alimentare e vanta esperienze lavorative in alcuni dei migliori mulini della provincia di Chieti. Ma è anche un pizzaiolo appassionato, che in pieno centro storico a Orsogna stupisce con impasti semplici di sola farina 0 e grano autoctono Solina, acqua ed extravergine, ben alveolati e molto digeribili. Arricchiti con ingredienti saporiti, uniti insieme in maniera armoniosa e originale. Imperdibile un assaggio della F10 con il pomodoro che arriva da una piccola produzione locale, burrata e alici del Cantabrico, e squisita anche la bianca con misticanza, aceto di mele barricato, spalla cotta di San Secondo e melograno. Il tutto accompagnato da una buona carta dei vini, con un occhio di riguardo per le migliori etichette abruzzesi.

FràGranze – Orsogna (CH) – via Trento e Trieste, 15 - www.facebook.com/FragranzePizzeria/

 

Fratelli Valle

Fratelli Valle – Roseto degli Abruzzi (TE)

Si inserisce perfettamente nella bella zona pedonale di Roseto questo locale curato nei minimi dettagli, dall'atmosfera familiare ed elegante. Qui, a farla da padrona è la pizza alla pala cotta sul mattone, leggera e croccante, dall'impasto ad alta idratazione con farine semintegrali macinate a pietra e lievitazioni dalle 24 alle 48 ore. A coadiuvare l'attività, Valerio Valle, con l'aiuto dei due fratelli: Luca in laboratorio e Alessandro in sala. Posto d'onore per la Margherita, rivisitata con pomodorino ciliegino e pesto di basilico home made senza aglio, e molto valide anche le proposte creative invernali, a cominciare dalla vegana rossa con scarola, olive taggiasche, uvetta e pinoli. Non sono da meno le pizze bianche, in particolare quella con carciofini, parmigiano, guanciale tostato.

Fratelli Valle – Roseto degli Abruzzi (TE) – via Latini, 23 - www.facebook.com/fratellivalle/

 

Tropical 2

Tropical 2

Dopo anni di formazione, molti dei quali trascorsi all'Alma, un'esperienza da Mauro Uliassi e poi da Giuliano Pediconi, esperto panificatore, Francesco Pompetti sceglie di tornare al locale di famiglia a Roseto per sperimentare con farine e lievitazioni. Segnando un nuovo corso dello storico Tropical 2, attraverso una ricerca attenta delle materie prime. Fra i vari impasti, spicca quello al plancton con acqua di mare, ma sono i topping a conferire carattere e gusto alle pizze. Da provare l'Anguilla Lounge Bar, con spuma di patate al burro francese e anguilla di Comacchio affumicata al sigaro, oppure la Consistenze di Margherita, con burrata, polvere di pomodoro del Piennolo, scagliette di pomodoro essiccato e olio al basilico. Servizio all'altezza grazie alla preparazione del fratello Samuele, caposala puntuale e attento, e una carta di birre artigianali degna di nota.

Tropical 2 – Roseto degli Abruzzi (TE) – via G. Marconi, 21 – www.tropicaldue.it

 

foconè

Foconè – San Giovanni Teatino (CH)

Niente menu, ma tante proposte creative che cambiano di continuo: è questa la caratteristica principale di Foconè, dove a dettare legge è l'ispirazione del giorno e l'estro del maestro pizzaiolo Luciano Passeri. Le sue pizze nascono di getto, e vengono raccontate a voce dal personale di sala nelle due sedi del locale, da un lato all'altro della Tiburtina. In entrambi gli indirizzi – uno dedicato all'asporto e uno che comprende anche il reparto osteria - alla base di tutto si trovano impasti a lunga lievitazione, fatti di grani antichi italiani macinati a pietra e conditi con prodotti veraci abruzzesi e verdure dell'orto. Per il take-away sono le pizze classiche a farla da padrone, mentre in pizzeria si può scegliere fra pala romana o pizza al tegamino (da non perdere quella cotta a vapore, con alici marinate dell'Adriatico, pecorino di Farindola e marmellata di cotogne fatta in casa).

Foconè – San Giovanni Teatino (CH) – v.le Amendola, 6 – www.foconebraceria.it

a cura di Michela Becchi

Pizzerie d'Italia 2019 – pp. 395 – Euro 8,90 – La guida è acquistabile in edicola, libreria e online

Guida Pizzerie d'Italia 2019 del Gambero Rosso: è arrivato il tempo dei voti

Mangiare a Verona. Guida alle migliori 8 pizzerie

Mangiare a Torino. Guida alle migliori 5 pizzerie

Mangiare a Firenze. Guida alle migliori 9 pizzerie

Mangiare a Bologna. Guida alle migliori 7 pizzerie

Mangiare in Sicilia. Guida alle migliori 6 pizzerie 

 

A Torino il Festival del Grana Padano Dop e Pop. Dalla storia ai giorni nostri

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Quattro giorni da Eataly Torino per scoprire storia, aneddoti, caratteristiche del Grana Padano Dop, formaggio della Pianura che vanta una storia antica e oggi è tutelato da un Consorzio che unisce 32 province in 5 regioni. Il programma del festival, tra cene d'autore e degustazioni guidate. 

 

Il grana nella storia di monasteri e corti

Il nome storico, quando nel Medioevo i monaci cistercensi cominciano a produrlo – c’è pure una data di nascita ufficiale, 1135, nell’Abbazia di Chiaravalle - è “caseus vetus”, formaggio vecchio per via della lunga stagionatura.

Ma la gente delle campagne padane preferisce chiamarlo “grana”, per via della sua pasta compatta punteggiata di granelli bianchi, piccoli cristalli di calcio residui del latte trasformato. A seconda delle province si specifica poi la provenienza. Tra i più citati fin dalle origini si trovano il lodesano, forse il più antico, il milanese, il piacentino e il mantovano. Nella zona padana la produzione si consolida nel tempo e ben presto diventa un formaggio pregiato protagonista dei banchetti rinascimentali di principi e duchi. Una testimonianza? Nel 1504 Isabella d'Este, sposa di Francesco II Gonzaga e marchesa di Mantova, invia il caseusin regalo alla sua famiglia, gli Este, signori del ducato di Ferrara. Ma non è solo un formaggio per i nobili: la sua anima pop comincia presto a far proseliti e il "formai de grana" si conferma un importante alimento della gente di campagna, soprattutto durante le terribili carestie.

Il "grana padano" diventa così un cibo trasversale apprezzato da ricchi e nobili come dalla gente comune, dalle classi popolari. La storia poi racconta la nascita del primo consorzio, nel 1954, e la dop ottenuta nel 1996.

Il Grana Padano DOP comprende 32 province in cinque Regioni: Piemonte, Lombardia, Veneto, Emilia Romagna, Trentino Alto Adige: praticamente trasversale da ovest a est, compreso il Trentingrana, che è sostanzialmente un Grana Padano prodotto nella provincia autonoma di Trento e che si caratterizza per alcune specifiche, sia per quanto riguarda l’alimentazione delle bovine, che per alcuni aspetti della lavorazione.

 

4 giorni dedicati a Torino

Per un formaggio dop e pop, un festival dedicato, in collaborazione con il Consorzio, si svolge a Torino da Eataly Lingotto, da giovedì 15 a domenica 18 novembre.

In programma il Mercato dei produttori del Grana Padano, con degustazione di specialità e apertura in diretta di una forma secondo la tradizione, un rito che ha le sue regole da rispettare.  Menu speciali nei ristorantini del Lingotto, con piatti a base di Grana Padano Dop, e la possibilità di cogliere le sfumature del formaggio con un menu dedicato e un omaggio del Consorzio.

Oppure una cena gourmet al Ristorante, Casa Vicina, con grandi vini in abbinamento. Il menu prevede piatti pensati per l'occasione da Claudio e Anna Vicina per valorizzare al meglio il Grana Padano Dop, ma con un occhio alla tradizione piemontese: il canestrello di Borgofranco d'Ivrea alle erbe fini con Grana Padano, il riso mantecato (un Baldo dell'azienda agricola Giovanni Testa), lo sformato e infine il gelato di crema al Grana Padano e ratafià di ciliegie nere (su prenotazione, prezzo al pubblico € 80, vini compresi). Venerdì 16 novembre, Festa in Cantina con piatti a base di Grana Padano Dop, birre, vini e cocktail. Tra le proposte, quelle del ristorante di Torino Santa Polenta, di Casa Vicina e gli sfizi della Birreria e del wine bar Pane&Vino. A fare da fil rouge, il tango di Marcela Guevara e Stefano Giudice, per un appuntamento decisamente pop (a partire dalle 20, presso la Cantina di Eataly Lingotto, ingresso libero).

Corollario non meno importante sono gli appuntamenti didattici. Si va da "Grana e Bollicine" (ogni giorno  alle 18 presso il bancone dei formaggi) con lo show in diretta dell'apertura di una forma, cui seguirà la degustazione gratuita accompagnata da un calice di bollicine della Cantina. E volendo la sfida "Indovina il peso dello spicchio": chi indovinerà il peso esatto di un pezzo di Grana Padano Dop lo riceverà in omaggio (evento gratuito, da prenotare).

Giovedì 15, alle 19, masterclass "Grana Padano in verticale", un laboratorio di approfondimento sulle fasi di produzione, con degustazione guidata di 3 differenti stagionature (evento gratuito da prenotare).

E domenica 18, alle 15, un incontro riservato ai bambini con gli esperti del Consorzio per scoprire come viene fatto il re dei formaggi, con quiz e giochi sul tema, e immancabile merenda per tutti con il Grana Padano (evento gratuito, da prenotare).

 

Festival del Grana Padano DOP - Torino - Eataly Lingotto - Via Nizza, 230/14 - info 011 19506801 – www.eataly.it

 

a cura di Rosalba Graglia

I migliori provoloni dolci d'Italia. La classifica

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Il famoso formaggio a pasta filata nato nel sud e trasferito al nord nella seconda metà dell’800 per seguire le vie del latte è stato oggetto della classifica nel numero di novembre del Gambero Rosso. Qui i provoloni dolci arrivati sul podio.

 

Provolone. La differenza tra il Valpadana e il del Monaco

Il provolone appartiene alla grande famiglia delle paste filate, come la mozzarella, la scamorza e il caciocavallo. In Italia sono due i provoloni certificati, il nordico Valpadana e quello sudista del Monaco, entrambi Dop e di latte vaccino. Mentre quest’ultimo viene prodotto in alcuni comuni della provincia di Napoli, solo da latte di vacche agerolesi e stagionato almeno sei mesi, il provolone Valpadana è fatto in buona parte della Pianura Padana da latte di bovine senza nessuna distinzione di razza (in genere la frisona, la macchina da latte degli allevamenti italiani) e prevede due tipologie, dolce e piccante. Come da disciplinare della certificazione Dop, ottenuta nel 1996, le zone di provenienza del latte e di produzione del provolone Valpadana sono in Lombardia (province di Cremona e di Brescia, più alcuni comuni del Bergamasco, Mantovano e Lodigiano), in Veneto (province di Verona, Vicenza, Padova e Rovigo), in Emilia Romagna (l’intero Piacentino) e una parte della provincia di Trento. Le particolarità di questo formaggio sono l’uso del siero innesto naturale (proveniente dal siero residuo della lavorazione precedente), l’impiego di diversi cagli a seconda della tipologia, la filatura della cagliata, le forme e i pesi differenti: a salame e a cilindro (in genere per la versione dolce), a melone, a “mandarone”, tronco-conica, a pera e a fiaschetta, in pezzature che vanno dai 6 agli oltre 30 chili.

La classifica

Nella classifica del mensile di novembre prendiamo in esame il provolone dolce, la variante più giovane, amabile e versatile. Sono stati sottoposti al blind test sia il provolone Dop che quello privo di certificazione, comunque prodotto nella stessa area geografica, la Pianura Padana, dalle medesime aziende che fanno parte del consorzio di tutela della denominazione di origine protetta. Del resto, “il provolone non certificato è sicuramente il più diffuso e copre la maggior parte del mercato”, entra nel dettaglio Massimo Forino, direttore di Assolatte. I provoloni, certificati e quelli generici, si trovano sul mercato interno generalmente già porzionati in fette a forma di mezzaluna e spesse un dito, del peso di circa 200 grammi, con il nome del produttore oppure private label, ossia realizzati da aziende specializzate ma commercializzati a marchio delle catene di supermercato e della grande distribuzione organizzata (Auchan, linea Sapori&Dintorni della Conad, Consilia del gruppo Sun-Gros-Dem…).

Al panel di degustazione hanno partecipato: Maria Gabriella Ciofetta (assaggiatrice professionista di olio), Mara Nocilla (giornalista del Gambero Rosso), Chiara Rossi (assaggiatrice di formaggi), Domenico Villani (maestro assaggiatore della delegazione O.N.A.F. di Roma).

1 - Provolone Valpadana Dop dolce Ca’ De’ Stefani

Provolone Valpadana Dop dolce Ca’ De’ Stefani

Un primo posto che stacca gli altri concorrenti di diversi punti. Il provolone dolce Valpadana Dop della cooperativa Ca’ De’ Stefani, fondata nel 1900 da dieci produttori di latte, vince per l’equilibrio e la fedeltà alla classe del formaggio, la complessità, la persistenza e insieme l'immediatezza. Tutto nasce e si chiude nella sede della cooperativa cremonese: dalla raccolta del latte delle aziende consociate alla stagionatura delle forme. Venduto a circa 35 giorni di età, il provolone si presenta compatto e omogeneo di un lucente color avorio tendente all’ambrato. Il naso seduce con il suo concerto di note lattiche e burrose, vegetali e fruttate al centro della fetta, animali e tostate (di frutta a guscio) verso la crosta, pur rimanendo nell’ambito della gioventù e della dolcezza. La bocca è rotonda ed equilibrata con la dolcezza bilanciata da una sapidità controllata e completata da una giusta punta acida. Struttura morbida e umida di buona grassezza e solubilità.

prezzo al kg 8,95/12 euro

Ca’ De’ Stefani - Vescovato (CR) - via Padana Inferiore, 12 – 0372830270 – latteriacadestefani.it

 

2 - Provolone Valpadana Dop dolce Albiero

Provolone Valpadana Dop dolce Albiero

Un onorevole secondo posto per il caseificio veneto Albiero, nato negli anni' 40 a Montorso, un piccolo centro tra Vicenza e Verona, tra le prime industrie italiane a produrre il provolone Valpadana. Il latte proviene direttamente da stalle di fiducia che hanno come obiettivo la qualità e il benessere animale, la produzione si svolge nel proprio stabilimento di Lonigo, sempre nel Vicentino. L’aspetto è quello di un classico provolone Valpadana dolce, di un luminoso color avorio intenso, con la struttura lucida, compatta e morbida leggermente sfogliata. Al naso esprime note dolci lattiche con tenui richiami tostati, di crosta di pane e di vegetali cotti. Al palato prevale la dolcezza, accompagnata da una decisa sapidità e una puntina acida che completa il gusto, e da un leggero piacevolissimo piccante finale; note animali a livello retronasale. Buona grassezza, godibile persistenza, pulizia e rotondità delle sensazioni. Ottima consistenza morbida, elastica e molto scioglievole.

prezzo al kg 10/12 euro3°

Albiero - Montorso Vicentino (VI) - via Ponte Cocco, 18 – 0444685451 – albiero.it

 

3 - Provolone Valpadana Dop dolce Ca.Bre.

Provolone Valpadana Dop dolce Ca.Bre.

Ca.Bre. è l’acronimo di Casearia Bresciana, cooperativa fondata nel 1954 da 18 agricoltori che decisero di creare un caseificio per raccogliere il latte di tanti piccoli allevatori della pianura bresciana e trasformarlo in formaggi. Oggi produce 30mila forme di provolone da latte dei soci e di stalle esterne, ma sempre all’interno delle aree previste dal disciplinare. Sale sul podio con un Valpadana dolce Dop delicato e giovanile particolarmente immediato e amabile, di grande equilibrio e pulizia, coerente alla classe. All’occhio è compatto, morbido e quasi burroso, con la pasta di tonalità avorio dorato. Nel profumo, nel gusto e negli aromi prevale la dolcezza, le note lattiche e mielate con richiami floreali, vegetali e fruttati, con una spinta sapida che arrotonda la bocca, una lieve persistenza e una bella evoluzione; quasi assente il piccante. La texture è morbida, elastica e umida, purtroppo con una lieve adesività che disturba la masticazione.

prezzo al kg 14 euro

Ca.Bre - Verolanuova (BS) - frazione Cadignano località Cabre, 10 – 030936511 – cabre.it

 

a cura di Mara Nocilla

foto di Giacomo Foti

 

QUESTO È NULLA...

Nel numero di novembre del Gambero Rosso, un'edizione rinnovata in questi giorni in edicola, trovate la classifica completa con un approfondimento sulla differenza tra provolone dolce e piccante (a quest'ultimo sarà dedicata una classifica a parte) e 20 modi originali per utilizzare questo fantastico formaggio a pasta filata.

Il numero lo potete trovare in edicola o in versione digitale, su App Store o Play Store

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Prosecco e Custoza. Le masterclass durante il Tre Bicchieri di Tokyo

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Nel corso del tour asiatico del Gambero Rosso, lo scorso 30 ottobre, Marco Sabellico (curatore della Guida Vini d’Italia del Gambero Rosso), insieme a Isao Miyajima (noto giornalista enogastronomico), ha tenuto delle affollatissime masterclass sul Custoza e sul Prosecco Doc. Intanto la Lugana sotto l’egida del Consorzio di Tutela ha proposto in assaggio i vini di 21 aziende della denominazione. Ecco come sono andate le 3 masterclass.

 

Lugana. Armonia senza tempo... a Tokyo

Nel corso del tour asiatico del Gambero Rosso il Consorzio di Tutela del Lugana ha gestito uno spazio nell’evento dei Tre Bicchieri nella Grand Ballroom dell’Hotel Ritz Carlton nella capitale giapponese. Ventisei aziende con i loro rappresentanti, guidate dal direttore del Consorzio, Carlo Veronese, hanno incontrato gli appassionati e gli operatori locali offrendo in assaggio le loro migliori etichette, non lasciandosi sfuggire l’occasione di visitare uno dei mercati più interessanti per il celebre vino bianco gardesano. Il consumatore giapponese è uno dei più appassionati e competenti del mondo, e il paese del Sol Levante importa il meglio dell’enologia mondiale. C’è, qui, un grande spazio per vini bianchi e spumanti – ci ha detto Isao Miyajima, notissimo wine-expert e gourmet nonché responsabile della traduzione nipponica della guida Vini d’Italia - La nostra cucina si completa con i grandi vini, e il Lugana è già conosciuto e apprezzato da noi. Farlo conoscere meglio vuol dire dare una spinta positiva al mercato. È uno dei bianchi ideali per la nostra gastronomia, dove il pesce ha un ruolo fondamentale. Noi amiamo la pulizia stilistica e la complessità in un vino bianco. Due doti che il Lugana possiede da sempre, come la capacità di maturare negli anni”. Sono già molte le aziende di Lugana importate in Giappone, ma le previsioni vedono una crescita costante del mercato per i prossimi anni, con ampi margini di crescita per questo vino. “Nutriamo grandi aspettative sul mercato nipponico – spiega Luca Formentini, presidente del Consorzio di Tutela –I giapponesi hanno tutte le caratteristiche per essere il nostro consumatore ideale”.

Prosecco Doc: il Genio Italiano a Tokyo

Il Giappone riserva un’attenzione crescente al Prosecco Doc: se le stime si riveleranno esatte il 2018 potrebbe vedere una crescita del 20% di questo mercato, che con oltre 3 milioni di bottiglie è al decimo posto nella graduatoria export. Il Consorzio sta investendo risorse importanti nella promozione anche su questo scenario: nell’ambito del World Tour del Gambero Rosso, sempre durante la giornata dei Tre Bicchieri 2019 al Ritz Carlton di Tokyo s’è tenuta una affollatissima masterclass per giornalisti e operatori per approfondire la conoscenza del Prosecco Doc, del suo territorio e della sua storia. Una conferenza a tre voci, gestita da Marco Sabellico, Isao Miyajima e Tanja Barattin, specialista dei mercati asiatici dell’area promozione e valorizzazione della denominazione, che parla un fluente giapponese. “I produttori del Prosecco Doc hanno una straordinaria propensione all’export, e hanno fatto di questo spumante, in pochi anni, il vino a Denominazione d’Origine più bevuto nel mondo – ci ha detto Tanja – un risultato che è stato ottenuto anche con una politica di presenza e investimenti sui più importanti mercati mondiali. Quello di oggi è uno degli ultimi di un anno che ci ha visto organizzare eventi in tutti i continenti. Ma crediamo moltissimo al potenziale di questo mercato, sul quale siamo presenti con numerose iniziative”. Il Prosecco è delicato, fragrante, floreale, si può bere a qualsiasi ora, come aperitivo o abbinato alla cucina giapponese... È perfetto con sushi, sashimi, tempura e tante altre nostre preparazioni – aggiunge Miyajima – e ha anche un prezzo giusto. Potrà solo crescere sul nostro mercato”. E non si può non essere ottimisti, dati gli ottimi risultati delle ultime annate e l’entrata in vigore del nuovo accordo Giappone-UE per l’abbattimento delle barriere doganali. Gli spumanti sono tra i prodotti più penalizzati, con un’accisa del 31% che di fatto triplicava il prezzo della bottiglia all’origine... Si aprono, insomma, scenari nuovi e... un brindisi è d’obbligo!

Custoza: a tasting in White and Gold a Tokyo

Il Custoza è una delle denominazioni più dinamiche sul mercato italiano e su quello internazionale. Il successo crescente di questo bianco nel mondo è sostenuto dalla crescita qualitativa del prodotto, che negli ultimi anni ha ottenuto ovunque importanti riconoscimenti, non ultimi una serie di Tre Bicchieri dalla guida Vini d’Italia 2019 del Gambero Rosso. E sempre a Tokyo, il 30 ottobre nell’ambito della presentazione dei Tre Bicchieri 2019 e delle premiazioni dei ristoranti giapponesi della guida Top Italian Restaurants in the World, c'è stata anche seguitissima masterclass che ha avuto protagonista il grande bianco veneto. Il titolo “White & Gold” descrive bene lo spirito di queste degustazioni. Il Custoza è un bianco dalla personalità poliedrica, che può esprimersi in un bianco fragrante sapido e floreale in gioventù ma che ha in sé gli ingredienti e la struttura per invecchiare con classe acquistando eleganza e complessità ed un bel colore dorato. È quello che Marco Sabellico e Isao Miyajima hanno illustrato – bicchiere alla mano - agli appassionati e agli operatori nipponici, attraverso una studiata sequenza di vini giovani e maturi delle aziende presenti, con apprezzatissimi interventi dei produttori coinvolti. “Pochi sono i vini bianchi che possono superare elegantemente i 10 anni di età – ha notato Miyajima – con questo ventaglio di note aromatiche, questa profondità, questa nitidezza espressiva e allo stesso tempo con una tale piacevole beva. Un vino così affascina il consumatore giapponese. La sequenza di oggi lo dimostra ampiamente, come dimostra la sua grande attitudine ad accompagnare diverse tradizioni gastronomiche, non ultima la nostra cucina tradizionale. E il suo successo su questo mercato lo testimonia anno dopo anno.

 

World Tour - www.gamberorosso.it/it/eventi-internazionali

Top Italian Restaurants - www.gamberorosso.it/restaurants

 

a cura di Marco Sabellico

 

Pasta al dente. Origine e storia del cavallo di battaglia della cucina italiana

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La pasta al dente piace alla maggioranza degli italiani, eppure non è sempre stato così. Andando a spulciare i ricettari dell'Ottocento abbiamo notato come i tempi di cottura siano decisamente cambiati nel corso degli anni.

 

L'origine del bizzarro metodo di saggiare la cottura della pasta

Per capire se gli spaghetti sono cotti, se ne prende una forchettata e la si lancia sul muro: se rimangono appiccicati, allora sono pronti”. Questo consiglio è particolarmente diffuso all’estero e ancora oggi molti stranieri sono convinti che sia il metodo utilizzato dagli italiani per capire quando è il momento di scolare la pasta. Chi lo racconta è pronto a giurare di avere un cugino o un amico (meglio se amico del cugino) di origine italiana che fa proprio in questo modo. Ovviamente nessuno si sognerebbe di fare una cosa del genere nel nostro paese, ma nonostante questo, la storiella ormai è entrata a fare parte dei luoghi comuni sugli italiani e il loro modo di cucinare. Questo “affascinante”, quanto inverosimile metodo di saggiare la cottura della pasta ha probabilmente origine da un ricettario che ebbe discreta fortuna sul continente americano dal significativo titolo You can cook if you can read di Muriel e Cortland Fitzimmons, stampato a New York nel 1946. Come tutte le leggende urbane, anche questa contiene un fondo di verità, altrimenti non si spiegherebbero la sua grande longevità e diffusione.

La pasta al dente è storia recente

Il gusto per la pasta al dente è infatti frutto di una rivoluzione - alcuni direbbero conquista - relativamente recente anche nel nostro paese e se si confrontano i tempi di cottura forniti dai ricettari storici, il panorama che ne esce è piuttosto sconcertante. Già nel quattrocentesco Libro de arte coquinaria di Maestro Martino, si parla di pasta realizzata con farina, albume d’uovo e acqua che poteva essere seccata e conservata per lungo tempo, ma richiedeva tempi di cottura molto elevati. Per i vermicelli, forgiati a mano in piccole stringhe, prescrive un’ora di bollitura, mentre per i maccheroni addirittura due. E nei secoli successivi le cose non cambiano più di tanto, nemmeno con l'avvento dei primi pastifici industriali. Ma quando si è iniziato a cuocere la pasta al dente? Sicuramente non prima dell'Ottocento.

Spaghetti contro al muroSpaghetti lanciati sul muro. Foto dal sito midlifebatmitzvah.wordpress.com

I tempi di cottura nell'Ottocento e Novecento

A partire dagli anni Trenta dell’Ottocento abbiamo contato almeno una quindicina di ricettari che riportano indicazioni sui tempi di cottura. Si parte con il consiglio di cuocere la pasta per un’ora de La cucina Faciledel 1844, ai 45 minuti de Il cuoco sapiente del 1871 per scendere a 15-20 minuti suggeriti da La vera cucina genovese di fine Ottocento e da Il cuciniere militare del 1932. Ancora nel 1913 il ricettario Come posso mangiare bene? di Giulia Ferraris Tamburini indica un’ora di cottura per i maccheroni al sugo e 20 minuti per i “maccheroni all’italiana al burro e formaggio” che però vengono sottoposti a una seconda cottura “risottata” in acqua salata o brodo. Proprio all’interno di quest’ultima ricetta compare una delle rare indicazioni sulla consistenza dei maccheroni, da scolare solo “quando si disfano facilmente sotto la pressione delle dita”, mentre Francesco Chapusot ne La cucina sana, del 1846 lessa i “maccheroni alla piemontese” per 45 minuti fino a farli diventare “molli e pastosi”. A ciò bisogna sommare il fatto che fino alla prima metà del Novecento solo le paste più pregiate erano composte unicamente di grano duro (che notoriamente conferisce maggiore tenacia alla pasta) mentre le più comuni avevano percentuali di grano tenero che poteva superare il 50%, con una evidente ricaduta sulla consistenza della pasta.

Alcune voci fuori dal coro (soprattutto nel Mezzogiorno)

All’interno di questa tendenza generale, esistono alcune voci in controtendenza, come quella di Ippolito Cavalcanti che nel 1837 consiglia di scolare gli spaghetti “vierdi vierdi”, ovvero acerbi, un termine utilizzato quando ancora non si usava chiamarli “al dente”. Non è un caso che il ricettario sia scritto da un napoletano perché è dal Mezzogiorno che ha inizio l'abitudine di scolare la pasta quando mostra ancora una certa tenacia. Con il passare del tempo, questa rivoluzione gastronomica ha risalito lo stivale per affermarsi definitivamente nel Settentrione solo nel secondo dopoguerra, ma all’estero la moda della pasta al dente ha difficoltà ad attecchire ancora oggi. Basti pensare che solo un anno fa ha fatto il giro del mondo la notizia di un cuoco bolognese licenziato da un ristorante francese perché cuoceva gli spaghetti troppo poco.

Perché la pasta al dente non piace all'estero

La spiegazione deve essere ricercata nelle massicce migrazioni di italiani all’estero iniziate nella seconda metà dell’Ottocento. Un esodo imponente che trasferisce fuori dai nostri confini, non solo un’enorme massa di persone, ma l’intera cucina di una nazione, inclusi prodotti, ricette e modi di cucinare. Ovviamente all'estero si radica la gastronomia dei nostri avi e per decenni le loro abitudini gastronomiche rimangono chiuse all’interno delle comunità italiane, perpetuando gli stili di cucina di un tempo. Solo in seguito la cultura culinaria italiana viene contaminata e diffusa nei paesi ospitanti, tanto da avere un esito evolutivo diverso rispetto a quello italiano: può capitare anche di trovare versioni di piatti antichi ormai completamente scomparsi in Italia dovute al fatto che all’estero si sia mantenuto un maggiore spirito di conservazione. E torniamo così agli spaghetti lanciati sul muro: probabilmente questa leggenda trova una spiegazione nell’abitudine degli emigrati italiani di cuocere molto la pasta fino a farla diventare appiccicosa, come voleva la tradizione tra fine dell’Ottocento e inizio del secolo successivo. In buona sostanza, se dovete proprio trovare il colpevole della pasta scotta all'estero, questo è vostro trisnonno che è emigrato in cerca di fortuna. Abbiate clemenza.

 

a cura di Luca Cesari

foto di apertura: Mezzanelli con ragù bianco di agnello di Peppe Guida

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