Quantcast
Channel: Gambero Rosso
Viewing all 5335 articles
Browse latest View live

Pernigotti in crisi. La proprietà turca annuncia la chiusura dello storico stabilimento italiano di Novi Ligure

$
0
0

Il marchio non smetterà di esistere, ma la prospettiva più plausibile è quella di spostare l'intera produzione in Turchia dove evidentemente la marginalità di guadagno è ben maggiore. Nel 2013 la storica azienda dolciaria fondata in Piemonte nel 1860 da Stefano Pernigotti era passata di mano alla famiglia Toksov, che ora annuncia la drastica chiusura. A rischio i dipendenti. 

 

Dall'Italia alla Turchia. Gli ultimi anni di Pernigotti

L'estate del 2013 sarà ricordata dall'industria dolciaria italiana come la stagione dei grandi cambi al vertice. Allora, nel calderone degli storici marchi del made in Italy alimentare passati in mani straniere, finivano nel giro di poche settimane la Pasticceria Cova di Milano (acquisita da Lvmh) e la Pernigotti Spa, azienda piemontese specializzata in cioccolato e nocciolati, entrata tra le proprietà del gruppo turco Sanset, controllato dalla famiglia Toksoz (che opera pure nei settori farmaceutico ed energetico, ed è il maggior produttore di nocciole al mondo). Finiva così un lungo capitolo della longeva azienda dolciaria di Novi Ligure, 150 anni di storia per raggiungere i 75 milioni di euro di fatturato annuo e 150 dipendenti, all'epoca della cessione stipendiati dalla famiglia Averna, titolare unica di Pernigotti, che nelle dichiarazioni a caldo ad accordo concluso auspicava un futuro di “continuità e sviluppo”. Con la stessa fiducia, la famiglia Toksoz si diceva fiera dell'acquisto, e pronta “a potenziare la struttura, sviluppando collegamenti con nuove e interessanti aree geografiche”. Cinque anni dopo, il quadro è molto cambiato: di fatto molte delle produzioni a marchio Pernigotti sono state trasferite in Turchia, e in occasione dell'ultimo incontro convocato in Confindustria Alessandria i fratelli Toksoz hanno confermato l'intenzione di chiudere definitivamente lo stabilimento di Novi Ligure, lasciando a casa un centinaio dei 200 dipendenti in organico.

 

La storia di Pernigotti

Un taglio drastico con la storia del marchio, nato nel 1860 per iniziativa di Stefano Pernigotti, quando l'impresa nasceva nella piazza del Mercato come drogheria specializzata in droghe e coloniali, da subito produttrice di torrone (ma solo durante la prima guerra mondiale, l'impossibilità di utilizzare lo zucchero porterà a inventare una ricetta unica, con l'aggiunta di miele concentrato). La fondazione vera e propria della società, infatti, risale al 1868, con lo stanziamento di un capitale iniziale di 6mila lire per foraggiare la crescita della Stefano Pernigotti & Figlio, azienda alimentare specializzata in produzione dolciaria. Il figlio, Paolo, subentra a Stefano nel 1919. Seguono le tappe di un'ascesa costante nel mondo dell'industria italiana: nel 1927 la prima produzione industriale del gianduiotto, nel '35 l'acquisto della Enea Sperlari, l'anno seguente l'interesse per i preparati per gelateria, negli anni Sessanta il passaggio alla terza generazione di famiglia. Nel frattempo il quartier generale distrutto da un bombardamento durante la guerra si è trasferito negli ex magazzini militari di viale della Rimembranza, nello stesso stabilimento destinato a chiudere battenti. I momenti di crisi in passato non sono mancati (la cessione temporanea agli americani di Heinz nel 1981, la perdita in un tragico incidente stradale degli eredi che avrebbero dato continuità all'azienda, la fine della dinastia Pernigotti con la cessione ad Averna), mai però, prima d'ora, si era arrivati all'epilogo incontrovertibile che si profila all'orizzonte.

 

La crisi e la chiusura di Novi Ligure

I bilanci della gestione turca fanno registrare perdite per 13 milioni di euro, il mercato di Pernigotti è in flessione, la famiglia Toksoz non sembra disposta a rilanciare (in Italia, dunque, sarà mantenuta solo la rete marketing, con base a Milano, che servirà a supportare le vendite di un marchio che non scompare, ma farà capo solo a produzioni realizzate in Turchia, e fa abbastanza impressione leggere oggi l'intervista che il direttore generale di Pernigotti Massimiliano Bernardini rilasciava solo la primavera scorsa, prefigurando un 2018 all'insegna della crescita). E l'annunciato stop per lo stabilimento di Novi Ligure conferma il precipitare della situazione, mentre i lavoratori si preparano alla mobilitazione, sostenuti da un'intera città che non vuole perdere un pezzo così importante della sua storia. Dalla loro parte anche il sindaco di Novi Ligure, Rocchino Muliere, che chiede l'interesse delle istituzioni nazionali: “Una decisione assurda e inaccettabile. Occorre capire le cause che hanno portato la proprietà a presentare sempre solo perdite, nonostante il settore dolciario tiri. Una proprietà che non ha mai investito un euro sullo stabilimento. Ho già informato il prefetto Antonio Apruzzese e tutti i parlamentari del territorio, perché la questione deve diventare di rilievo generale ed essere trattata a tutti i livelli istituzionali con la massima attenzione”. La speranza? Trovare soluzioni alternative alla cessata attività. Auspicando che anche per Pernigotti possa profilarsi una seconda chance, come avvenuto per Melegatti a Verona, di nuovo in produzione grazie al gruppo vicentino Spezzapria in vista del Natale 2018 dopo oltre un anno passato tra tribunali fallimentari e mobilitazioni di piazza.

 

a cura di Livia Montagnoli


PizzaUp 2018. Il futuro della pizza in 5 punti chiave

$
0
0

Si è conclusa ieri la tredicesima edizione di PizzaUp, il simposio tecnico sulla pizza contemporanea dove ogni anno si cerca di fare il punto sullo stato dell'arte dell'intero settore. Un appuntamento molto sentito tra gli addetti (durante la tre giorni hanno partecipato attivamente più di 100 pizzaioli provenienti da tutta Italia) che quest'anno ha coinvolto anche chef, agronomi e agricoltori.

 

La carne al fuoco era molta, si è parlato di farine, di impasti, di cambiamento climatico, di lievito, e ancora di tecniche nuove e di rapporto con i produttori e il territorio. Si è affrontato il tema del grano evolutivo con l'agronomo di fama internazionale Salvatore Ceccarelli e l'agricoltore siciliano Giuseppe Li Rosi; si è messo le mani in pasta con il supporto dei bravi tecnici Petra Giulia Miatto e Giovanni Marchetto. Non sono poi mancati momenti di approfondimento con gli chef ospiti: Eugenio Boer (Bu:r – Milano), Andrea Mattei (Meo Modo - Palazzetto), Cristian Torsiello (Osteria Arbustico - Capaccio Paestum), Alessandro Dal Degan (La Tana Gourmet - Asiago), Oliver Piras e Alessandra Del Favero (Aga - San Vito di Cadore), Wicky Priyan (Wicky's Wicuisine - Milano), Corrado Assenza (Caffé Sicilia – Noto) e Lionello Cera (Antica Osteria Cera - Lughetto di Campagna Lupia). Insomma le tre giornate organizzate da Chiara Quaglia e Piero Gabrieli a Vighizzolo d'Este sono state dense, importanti, a tratti emozionanti - vedere lavorare dei professionisti spalla spalla non è cosa da tutti i giorni - e noi le abbiamo riassunte in cinque punti chiave.

La pizza come strumento di comunicazione per parlare (anche) di altre tematiche

In quanto prodotto di facile fruibilitàla pizza è lo strumento di comunicazione ideale per far mangiare bene e per parlare di argomenti che prescindono dal prodotto, come l'agricoltura o il cambiamento climatico”. Apre la prima giornata di lavori così Piero Gabrieli, elevando il prodotto dal pop al culturale. E non a caso le tre giornate seguono proprio questo fil rouge, con la platea di pizzaioli attenti a captare ogni singolo stimolo con l'obiettivo di rivendicare un mestiere che per troppi anni è stato relegato all'immaginario collettivo del pizzaiolo infarinato con canotta bianca sporca di pomodoro. Ad inaugurare i talk ci pensa Salvatore Ceccarelli presentando il progetto virtuoso del grano evolutivo, “che mette al riparo da malattie ed erbe infestanti nuove o cambiamenti climatici perché tra gli individui di una popolazione ce ne sarà sempre una parte che riuscirà a cavarsela”.Un progetto, dicevamo, al quale fin dal principio hanno creduto Giuseppe Li Rosi e Piero e Chiara Quaglia. Li Rosi in campo, con l'associazione siciliana Simenza, e i Quaglia nel mulino, investendo in una tecnologia esclusiva di selezione ottica e di controllo avanzato della granulometria, che si traduce nei fatti in una farina sicura, che fa bene (al microbiota) e aromatica; un prodottosingolare che come il vino cambia marcatamente ogni anno. E che durante i laboratori i pizzaioli hanno imparato a maneggiare e impastare.

Margherita della pizzeria Gigi Pipa a EsteMargherita della pizzeria Gigi Pipa a Este

Il lievito madre non può ridursi a semplice moda

Ancora lievito madre? Ebbene sì, perché le mode passano, ma i dati di fatto restano: un prodotto fatto con lievito madre, oltre a sviluppare un ampio ventaglio aromatico, fa bene al microbiota, è più digeribile e più conservabile. Attenzione però – e qui riportiamo uno dei punti del Manifesto della Pizza Italiana Contemporanea - “La dichiarazione d'uso di lievito madre deve essere esclusivamente riferita al risultato di un processo di fermentazioni spontanea di un impasto di acqua e farina acidificato da ceppi di batteri lattici vivi, e non di polveri di lievito madre essiccato”. E, aggiungiamo noi, non è da confondere con i preimpasti tipo la biga o il poolish (che male non fanno, sia chiaro!) dove viene utilizzato il lievito di birra.

Sperimentazione e ricerca prima di tutto

Anche nel settore pizza le possibilità di sperimentare sono infinite. Durante i laboratori tecnici si è visto come creare il disco di pasta con differenti tipi di grano e non, dal grano evolutivo al grano duro, dalla segale al farro monococco. Andando anche oltre ai classici “farina e acqua”, come ha fatto Wicky Priyancon il suo impasto di farina, acqua e sale, ma anche di curcuma, cumino, scalogno e cocco fresco grattugiato. O come la proposta (provocazione?) lanciata da Alessandro Dal Degan di mettere i fermentati a svolgere la funzione di starter. A proposito di fermentati e fermentazioni, la ricerca la si può orientare anche sul topping, usando per esempio il kimchi – da un'idea di Oliver Piras - o un matrimonio riuscitissimo tra il formaggio Asiago e le bacche di ginepro fermentate, preparate da Dal Degan con aceto di mela, zucchero di canna, latticello, ossigeno e tempo. Certo, sono abbinamenti e ingredienti arditi, ma qui si parla di pizza del futuro. E se si è più tradizionalisti - che voi siate pizzaioli o clienti – ci si può sempre orientare sui classici, ma con ingredienti di livello, magari frutto di una ricerca sul territorio. Come insegnano Cristian Torsiello che nonostante possa sfruttare “il marketing” degli ingredienti campani, preferisce di gran lunga usare i pinoli, il ginepro o il pino che raccoglie proprio dietro il suo nuovo locale di Paestum, o Corrado Assenza che ormai da molti anni fa da portavoce mediatico ai produttori locali. E poi ricordiamo la lezione del grande Lionello Cera tutta orientata sulla sostenibilità, che passa anche dallo scegliere prodotti (compreso il pesce) di stagione e locali, e sull'antispreco dimostrando come del pescato si possa utilizzare ogni singola parte, comprese le lische.

Pizza a degustazione della pizzeria Gigi Pizza a EstePizza a degustazione della pizzeria Gigi Pizza a Este

La pizza è un prodotto in continuo divenire

Non ci si può permettere di essere statici”, provoca Chiara Quaglia, ma è una verità a tutti gli effetti,“non in un mondo che gira alla velocità della luce, dove anche un locale rinnovato con tutti i crismi risulta già vecchio dopo soli sei mesi”. Conviene, dunque, puntare sempre sul prodotto e il servizio, su tecniche nuove e ingredienti innovativi (da qui le lezioni degli chef), per non rischiare di regredire al tempo in cui “la pizza era solamente la merenda dei bambini”.

Oggi la pizza è diventata finalmente un piatto destinato a un pubblico adulto, preparato ed esigente, e noi lavoriamo da anni in tal senso sugli ingredienti freschi, sugli impasti, sul lievito madre”. Bene, ma date le premesse, già si stanno chiedendo quale sarà il futuro del prodotto. Quel che è emerso durante la tre giorni di PizzaUp promette bene: biodiversità, stagionalità, filiera controllata e sostenibilità sono stati dei mantra ripetuti e condivisi da tutti i presenti. E che ne sarà del pizzaiolo? Dovrà essere sempre di più un professionista che sperimenta, studia e si informa, che apre la mente e accoglie spunti provenienti da diversi ambiti, che sia la cucina o la pasticceria. In poche parole un artigiano in continuo divenire.

Il giusto valore (prezzo?) da dare alla pizza

All'evoluzione quanto mai provvidenziale del settore, necessariamente deve seguire una valorizzazione del prodotto, anche in termini economici. Con questo non si sta dicendo che la pizza debba avere un prezzo alto, ma quantomeno giusto, ovvero capace di coprire tutti i singoli step della filiera, dal campo al piatto. È un monito e al tempo stesso una speranza.

 

www.pizzaup.it

 

a cura di Annalisa Zordan

 

 

 

 

 

 

La pasta italiana in Friuli Venezia Giulia. 10 formati tipici e la ricetta degli gnocchi di zucca

$
0
0

Paste ripiene, acqua e farina, minestre a base di grumi di pasta: sono i primi piatti del Friuli Venezia Giulia, ricette golose adatte a tutti i gusti. I formati della tradizione e la nostra versione degli gnocchi di zucca. 

 

Il Friuli e il Venezia Giulia. Non divisa, ma rafforzata dal confronto fra la sua doppia anima, anche a tavola la regione sfodera una tradizione complessa e sfaccettata, che beneficia degli influssi culturali che nel tempo sono andati a sovrapporsi nel territorio. Una commistione di spinte mitteleuropee e vocazione marinara, il carattere più cupo dei boschi e della vegetazione più fitta e l'ascendenza slava che ha lasciato un'impronta indelebile nell'arte dolciaria. E la pasta? È un prodotto di origine recente, il cui utilizzo risale solamente al secondo dopoguerra. Difficilmente compare nei testi più antichi e le notizie sulla pastificazione o l'importazione di paste nella regione sono pressoché introvabili. Carni e biade – composto di cereali e legumi – sono stati per molto tempo gli elementi chiave della cucina locale, che oggi invece vanta poche ma golose specialità anche in fatto di primi piatti. Ecco quali sono.

 

blecs

Blecs

Toppa: è questo il significato del nome blecs, riferito all'originaria forma irregolare della pasta a base di farina di grano saraceno, frumento, uova, acqua e sale, oggi tagliata in piccoli triangolini sottili. Conosciuti anche con il nome di bleki o biechi, i blecs sono particolarmente diffusi in Carnia e nelle valli del Natisone, dove vengono conditi con burro e formaggio grattugiato.

 

bigoli

Bigoli

Una sorta di spaghetto (ma molto più spesso) di grano tenero e acqua, presente anche in Veneto e Lombardia, caratterizzato da una consistenza piuttosto ruvida che trattiene bene sughi ricchi e robusti. Ne esistono diverse varianti, da quella scura con farina di grano saraceno a quella all’uovo, ma in qualsiasi caso, la peculiarità resta il diametro ampio, di circa 3-4 millimetri. Per realizzarli, in passato veniva utilizzato il bigolaro, un torchio con trafila in bronzo creato da Bartolomio Veronese, maestro pastaio di Padova noto come “Abbondanza”, che nel 1604 ottenne il brevetto dal Consiglio comunale per questa sua invenzione. Fra i condimenti più popolari, il pocio, termine che fa riferimento al recipiente di coccio nel quale veniva preparato il sugo di pollo, ma anche una salsa a base di cipolla, tonno e acciughe, oppure con il brodo di anatra o con le aole, sardelle di lago. Sulla nascita del nome, due diverse teorie: dal latino bycolus, bacherozzo, per sottolinearne le umili origini, oppure dal dialettale bigat, bruco, per via della forma.

 

canederli

Canederli

Forse non sono proprio un formato di pasta, ma in ogni caso uno dei primi piatti più apprezzati: parliamo dei canederli, i celebri gnocchi di pane raffermo, farina, uova, speck, prezzemolo e parmigiano, conosciuti anche con il nome tedesco knödele presenti in quasi tutto il Nord Italia, dal Trentino alle Alpi lombarde e venete. Ne esistono molte varianti, ognuna con ingredienti e proporzioni diverse, tanto che Felice Libera nel suo “L'arte della cucina: ricette di cibi e dolci, manoscritto trentino di cucina e pasticceria del XVIII secolo” ne elenca più di quindici. Ancor prima, sono citati in un ricettario di fine Settecento, dove vengono descritti come “cuscinetti di nudeln”, gnocchetti di acqua e farina lessati nel latte e utilizzati come farcia di un raviolo quadrato, successivamente passato nell'uovo sbattuto e fritto.

 

cjalsons

Cjalsons

Cialcions, cjarson, cialzons, ciargnei o cjalsons: qualsiasi sia il nome scelto, si tratta di un impasto di farina, patate e uova, farcito con diversi ingredienti a seconda della zona, chiuso a mezzaluna oppure come raviolo rotondo. Una delle preparazioni più storiche, caratterizzata dalla pasta tirata molto sottilmente, tanto che un tempo le donne della Val Degano erano solite dire che più sottile era la sfoglia, più alta sarebbe cresciuta la canapa l'anno successivo. Si consumano solitamente durante la Vigilia di Natale, con burro fuso, ricotta affumicata e formaggio stagionato, anche se in alcune aree – come nel Canale d'Incarojo – vengono serviti anche l'ultimo giovedì di gennaio. Tante le varianti dei ripieni: ricotta ed erbe nella provincia di Udine, cipolla arrostita, polenta e uvetta in Val Degano, erbe, ricotta affumicata, fichi secchi e uvetta in Val Calda, pane duro di segale e mele in Val del But, tanto per citarne alcuni. Fra le prime testimonianze scritte, il “Liber de ferculis” di Giambonino da Cremona, in cui è descritto il calizon panis, termine transitato nell'italiano medioevale come calisone, una sorta di antenato degli attuali cjalsons, ma in versione dolce.

Fusi istriani

Farina, uova e – alle volte – sangue di maiale: i fusi istriani sono dei piccoli triangoli uniti alle estremità e conditi con ragù di gallina o selvaggina, particolarmente diffusi nella provincia di Istria. Un piatto in cui si concentrano tutti i sapori della vasta area montuosa e boscosa che da Trieste va verso il confine. Vengono preparati tradizionalmente in occasione della Pasqua, anche se sono disponibili ormai tutto l'anno.

Gnocchi di zucca

Nonostante siano oggi parte integrante della dieta e della cultura gastronomica nazionale, le patate non sono sempre state presenti sulla tavola italiana: a far conoscere i tuberi, infatti, furono dapprima gli spagnoli (e non Cristoforo Colombo, come spesso – erroneamente – si pensa), che le importarono dalla Cordigliera delle Ande nel Cinquecento sotto la guida di Francisco Pizzarro, e poi i padri Carmelitani scalzi, dell'ordine religioso nato in Spagna, che alla fine del XVI secolo insegnò agli italiani a coltivare e cucinare le patate. Prima dell'avvento del tubero, però, erano le zucche a dominare i ripieni delle paste fresche, perfette per consistenza e capacità di conservazione. In Friuli Venezia Giulia, così come in Piemonte, la zucca divenne parte dell'impasto, insieme a uova e farina, un mix di ingredienti che dà vita a gnocchetti morbidi molto popolari anche in Valle d'Aosta, dove vengono gratinati al forno e ricoperti di fontina.

Gramigna

Diffusa anche nelle Marche e in Emilia Romagna, la gramigna è una pasta di farina di grano duro, farina 00 e uova, talvolta con aggiunta di spinaci o zafferano, nella versione paglia e fieno. L'origine del nome è da rintracciarsi nei semini delle graminacee infestanti: l'impasto, infatti, viene passato su una grattugia a fori molto larghi, in modo da ottenere piccoli pezzetti di impasto, da condire con salsiccia e parmigiano oppure sughi di pomodoro.

Krafi

Detti anche crafi de Albona, i krafi sono dei ravioli a mezzaluna a base di farina, uova e olio, ripieni di formaggio, uova e alle volte un pizzico di zucchero, serviti con sugo di arrosto. Sono un piatto tipico di Istria, dove viene consumato soprattutto durante le occasioni di festa.

Mignaculis

Fra le ricette più popolari della tradizione friulana, fasui e mignaculis, minestra a base di fagioli e patate arricchita da questo formato insolito: un mix di acqua e farina fatto sgocciolare direttamente nella zuppa. Il risultato è una serie di pezzetti di impasto densi dalle forme irregolari, chiamati lis paveis (farfalle) in Carnia.

Offelle

Il termine offa fa riferimento all'antica focaccia tonda di farro romana che veniva offerta sull'altare agli dei. Col tempo, poi, con questa parola si identificavano più in generale le preparazioni a forma di ciambella. Oggi, si tratta di una pasta di farina, patate, uova e lievito, ripiena di carne, salsiccia e spinaci, chiusa a forma di raviolo e condita con burro fuso e formaggio di malga. A Carnevale, se ne prepara anche una versione dolce, condita con ragù di carne e servita come primo piatto.

Slicofi

Dei quadretti di farina, acqua e olio, chiusi a rettangolo e sigillati ai bordi, farciti con patate, pangrattato, formaggio ed erbe aromatiche: sono i slicofi, tipici della zona collinare che sale verso il Carso, chiamati anche gnocchi di Idria, slikrofi o zlikofi. Particolarmente apprezzati nella zona di San Daniele del Carso, vengono generalmente insaporiti con pangrattato soffritto nel burro.

La ricetta: gli gnocchi di zucca

Ingredienti

1,2 kg circa di zucca

200 g circa di farina

1 tuorlo d'uovo

Noce moscata

Sale q.b.

Tagliate la zucca a spicchi e, senza sbucciarla, privatela dei semi e dei filamenti e sistemateli in una teglia con la buccia in basso. Mettetela nel forno già scaldato a 180° C e lasciate cuocere per circa un'ora fino a quando sarà tenera. Quando la zucca è cotta, lasciatela intiepidire, scartate la buccia e passatela al passaverdure con il disco più fine lasciandola cadere in una ciotola (se fosse rimasta troppo acquosa, mettetela in una padella antiaderente senza condimento e fatela asciugare un po'). Unitevi il tuorlo, quasi tutta la farina setacciata, una grattatina di noce moscata e un pizzichino di sale. Mescolate quindi mettete il composto sulla spianatoia infarinata e lavoratelo come si fa comunemente con gli gnocchi. Quando l'impasto sarà diventato liscio, omogeneo ed elastico, staccatene circa un terzo e, rotolandolo con le mani sulla spianatoia infarinata, formate un lungo rotolino del diametro di circa 1 centimetro. Ritagliate dei pezzetti di un paio di centimetri e rotolateli sulla spinatoia infarinata. Formate una piccola scanalatura in ogni gnocco passandolo sui rebbi della forchetta o sul retro di una grattugia. Quando gli gnocchi sono tutti pronti, fate bollire l'acqua in una casseruola ampia e quando l'acqua bolle, salatela e tuffatevi gli gnocchi. Fateli bollire per pochi minuti a fuoco moderato e, quando saranno venuti tutti a galla, tirateli su con la schiumarola, metteteli nel piatto da portata e conditeli a piacere. Noi suggeriamo il classico burro, salvia e parmigiano.

a cura di Michela Becchi

Excellence 2018 a Roma. La crescita del settore enogastronomico passa dalla voglia di cambiare: 3 giorni per scoprirlo

$
0
0

Non mancheranno gli chef, numerosissimi, e le aziende del settore. Ma la tre giorni all’Ex Dogana di San Lorenzo coinvolgerà anche moltissimi ragazzi delle scuole di formazione, enti istituzionali, professionisti chiamati a dialogare tra loro. Perché entrare in connessione è il primo passo verso il cambiamento. Il programma dal 10 al 12 novembre. 

 

Innovazione è cambiamento

Lo dice il titolo della kermesse, tre giorni all’Ex Dogana di San Lorenzo per parlare di “food innovation” sotto l’egida di Excellence, contenitore di eventi rivolti agli operatori del settore enogastronomico (ma aperti pure al grande pubblico, con la voglia di stimolare nuove connessioni e rappresentare un momento formativo per tutti) ideato da Pietro e Claudio Ciccotti, che nel frattempo hanno dato vita anche al progetto Excellence Magazine. Alla sua sesta edizione, in programma dal 10 al 12 novembre a Roma, Excellence si prefigge di snocciolare numeri senza precedenti: oltre 150 chef, 1000 operatori di settore, 1000 allievi di scuole d’accoglienza e cucina, per un centinaio di cooking show, tanti momenti di confronto e moltissime occasioni di degustazione. Dunque innovazione sarà la parola chiave, e così “cambiamento”, un tema che diventa auspicio di crescita per il sistema Italia nel business mondiale del cibo. Intorno al tavolo per discutere di come si può crescere insieme Excellence chiama a raccolta aziende che lavorano sullo sviluppo d’impresa (PwC), enti istituzionali, organizzazioni di categoria come i JRE, scuole di formazione professionale di riconosciuto valore, come Intrecci, che si impegna per il futuro del servizio di sala. E ancora, gli Ambasciatori del Gusto, Federalberghi Roma, Fimar. Nella pratica un salotto che ambisce a trasformarsi in centro d’incubazione d’impresa stimolando connessioni trasversali tra gli operatori del settore, con talk, convegni, momenti di competizione e divertimento che sfrutteranno i 3mila metri quadri dell’Ex Dogana.

 

Scoprire Excellence. Le Aree tematiche

E allora il compito più difficile sarà districarsi nel ricco programma di appuntamenti che affollano il calendario: il biglietto di ingresso al pubblico costa 15 euro, dà diritto a un calice per degustare e apre le porte delle quattro aree tematiche da esplorare nei tre giorni di manifestazione. Innanzitutto la Tasting Area, perché di cibo (e vino) di qualità si sta parlando: qui saranno un centinaio le aziende schierate per far assaggiare i propri prodotti, mentre gli chef coinvolti si cimenteranno sul tema della pasta. L’Area Formazione, nel frattempo, offrirà un programma altrettanto ricco: da un lato i convegni curati da Nerina Di Nunzio, direttore scientifico dell’evento, con i Dialoghi della cucina, le Ricette di donna, i talk show sul ruolo della sala con Dominga Cotarella, il concetto di cultura enogastronomica con Daniele Cernilli, dall’altro gli approfondimenti della sala Intrecci, dedicati ai giovani che vogliono lavorare nel settore. Tre sono invece le ramificazioni della grande Area Cooking Show: Food Innovation sul tema del cambiamento in cucina, con l’avvicendamento di moltissimi cuochi, da Gianfranco Pascucci a Francesco Apreda, da Roy Caceres a Oliver Glowig e Ciro Scamardella, da Michelino Gioia a Angelo Sabatelli e Massimo Viglietti; Food Experience sulla sperimentazioni in cucina attraverso il supporto di nuove tecnologie e design; Next Cooking Lazio, con gli chef e i prodotti regionali. L’ultima area la firmano i Jeunes Restaurateurs d’Europe, con i cooking show degli chef dell’associazione. Tra gli appuntamenti in programma anche il contest (Race to the stars) intitolato alla memoria di Alessandro Narducci, che vuole premiare il talento under 30 con una competizione riservata a 10 giovani chef, in collaborazione con Regione Lazio Arsial.

 

Excellence 2018 – Roma – Ex Dogana di San Lorenzo – dal 10 al 12 novembre – www.excellence-eventi.it

 

a cura di Livia Montagnoli

Pane&Pomodoro tour 2018. A Roma e Milano per scoprire che il pomodoro non si mangia solo d’estate

$
0
0

È un classico dei mesi estivi, declinato in mille varianti regionali tramandate dalla tradizione contadina. Ma l’industria conserviera italiana viene in soccorso a chi al pomodoro non può proprio rinunciare. Per scoprirlo due appuntamenti a Roma e Milano con i prodotti “freschi confezionati” di Così Com’è, dalla Piana del Sele in tour da Panella e Longoni. 

 

Un grande classico. Pane e pomodoro

L’autunno entra nel vivo, e le colorate tavole estive all’aperto sono già un ricordo sfumato nel tempo. Ma se vi dicessimo pane e pomodoro, chi non farebbe carte false per una merenda a base di panzanella o una corroborante pappa al pomodoro della tradizione toscana? Il binomio pane e pomodoro è un simbolo della tradizione contadina, e di più dell’arte di arrangiarsi con quel che si ha, quando soprattutto per le famiglie molto numerose il pane raffermo era un prezioso alleato della cucina popolare. E così l’intera Penisola è un florilegio di ricette regionali che della semplicità – l’abbinamento pane e pomodoro, insegna Aimo Moroni, “è il gesto minimo della cucina italiana” -  hanno fatto una virtù. Specie al Sud, dove il pomodoro tinge di rosso l’estate, apparecchiando la tavola a festa, dal pane cunzato siciliano alle frise pugliesi, all’insalata di pane calabrese, con la cipolla rossa di Tropea, dolce e croccante, a chiudere il cerchio sull’acidità rinfrescante del pomodoro. Tutti piatti che si alimentano di una varietà pressoché sconfinata di pomodori autoctoni – ogni regione ha la/le sue cultivar – che di recente abbiamo passato in rassegna per costruire il ricettario essenziale del pane e pomodoro all’italiana.

 

Il fresco conservato di Così Com’è

Ma nel cuore di novembre, perché ritornare sul tema? Per esempio perché l’industria conserviera italiana del pomodoro offre l’opportunità di portare in tavola tutto l’anno pomodori freschi confezionati (conservati al naturale o in acqua di mare), succhi o passate da utilizzare in numerose preparazioni. Anche sul e con il pane, la pizza e i prodotti da forno. È questo il leit motiv degli appuntamenti con i pomodori Così Com’è in programma a Roma e Milano nelle prossime settimane. Il tema? Proprio Pane&pomodoro. Dell’azienda campana che fa capo a Finagricola abbiamo raccontato in presa diretta dalla Piana del Sele, dove i pomodori (Datterino rosso, Datterino giallo, Pizzutello, Ciliegino e Cordoba) crescono coltivati e raccolti seguendo pratiche completamente naturali, per essere subito trasformati, a pochissime ore dalla raccolta, nell’adiacente stabilimento che vanta tecnologie all’avanguardia (ecco spiegato l’ossimoro “fresco confezionato”).

 

Pane&Pomodoro tour

Lavorare su un prodotto così radicato nella cultura gastronomica italiana significa anche fare appello ai ricordi d’infanzia di ognuno di noi. E quale migliore occasione per tornare indietro con la memoria, se non vivere un’esperienza di degustazione che della qualità faccia un punto fermo? Il progetto si concretizzerà solo per pochi giorni all’interno di due celebri forni: il 22 e 23 novembre a Roma, ospiti di Panella in via Merulana, il 29 e 30 del mese al panificio Davide Longoni, a Milano. In entrambe i casi chi parteciperà agli appuntamenti (gratuiti) sarà guidato all’assaggio di pane e prodotti da forno in abbinamento ai pomodori Così Com’è. E chissà che questo tour non tocchi presto altri forni della Penisola… Pane&Pomodoro per tornare bambini per qualche ora.


 

 

Ribolla di Oslavia, la prima Docg "orange"

$
0
0

Sei produttori goriziani hanno presentato una proposta di disciplinare che potrebbe elevare il vino di Oslavia a Docg. Un riconoscimento alla storia di questo vitigno, ma anche un modo per legare la denominazione al territorio e marcare le differenze con chi produce ribolla fuori regione per la spumantizzazione

 

Il legame tra Oslavia, località lungo la strada per San Floriano del Collio, a un paio di chilometri dal centro di Gorizia, e l'uva ribolla gialla, è molto radicato e va al di là del rapporto, seppur stretto, tra vitigno e territorio. Fa parte della vita delle persone che qui hanno sempre vissuto – alcune famiglie sono le stesse presenti nel catasto asburgico del 1752 - e rappresenta un'orgogliosa rivendicazione identitaria.

La storia

Durante la Grande Guerra (1915-1918), Oslavia, per la sua posizione sul crinale, fu teatro di sanguinosi scontri – ben 16 battaglie - tra truppe italiane e austro ungariche: divenne una "collina morta" dove non rimasero abitanti né case né coltivazioni, nulla, solo una terra massacrata e contesa. Così come racconta Silvan Primosic, storico produttore della zona: "Finita la guerra, le nostre famiglie pensarono, prima di tutto, a ricostituire le aziende e a dissodare i campi. In quella che era diventata una landa desolata di cumuli di detriti, in primavera spuntarono dei tralci di vite. Era la ribolla che nonostante tutto rincominciava a vegetare". Una sorta di messaggio di speranza per le famiglie di contadini che iniziarono a ricostruire i poderi e i vigneti distrutti, proprio a partire dalla Ribolla. "Durante il dominio asburgico noi eravamo il sud dell'impero ed esportavamo frutta, verdura e vino al nord“continua a raccontare Primosic "poi noi siamo diventati il nord dell'Italia e i nostri prodotti non li abbiamo più esportati. Solo negli anni Sessanta dello scorso secolo, il nostro vino ha iniziato a essere nuovamente commercializzato prima in Lombardia e in Veneto, poi anche nelle altre regioni".

 Silvan PrimosicSilvan Primosic

Il vitigno

Qui sulla ponca (il caratteristico suolo poco fertile ma ricco di minerali, di strati di marna e arenaria), la ribolla ha sempre espresso le sue caratteristiche migliori, grazie ad alcune condizioni particolari, quali l'escursione termica e la ventilazione che riduce i ristagni di umidità e i pericoli di marciume, anche in presenza di 1400 millimetri di pioggia all'anno. In questo panorama se le Prealpi Giulie, poste a nord della zona collinare, costituiscono un riparo dai venti freddi di settentrione, la prossimità della costa adriatica – distante circa una ventina di chilometri - ha l'effetto di mitigare le temperature.

"L'uva nasce sulla sommità della colline“ spiega Stefano Bensa (La Castellada) “dove le viti sono meno vigorose, più equilibrate, con grappoli più piccoli e spargoli, ricchi di zuccheri e di sostanze nobili che maturano lentamente e che si raccolgono tra la fine di settembre e i primi di ottobre". Grazie alle condizioni favorevoli e alla capacità dei vignaioli, Oslavia è diventata uno dei luoghi di elezione per la produzione della Ribolla gialla.

La tecnica della macerazione

A suggellare ulteriormente il legame tra Oslavia e la Ribolla, ha contribuito il recupero della pratica della macerazione sulle bucce anche delle uve bianche, un metodo tradizionale utilizzato almeno sino all'avvento della tecnologia del freddo in cantina (impianti per il controllo della temperatura di fermentazione). Nel Triveneto, in particolare, la consuetudine di produrre il Ramato da uve pinot grigio, pur rappresentando una nicchia assai ridotta, ha resistito a lungo, mantenendo un trait d'union tra presente e passato. Oggi Oslavia è una delle capitali mondiali della produzione degli Orange Wines, secondo la definizione anglosassone riferita al colore dei vini macerati che si producono anche in altre parti del mondo (Kakheti, Georgia; Brda, Slovenia; Swartland Region Western Cape, Sudafrica; Long Island, New York, Sierra Foothills e Napa Valley, in Usa; Adelaide e Victoria, in Australia; Strohmeier, Austria) Dario Prinčič, parlando della Ribolla di Oslavia di oggi, l'ha descritta come un "vino con la struttura e i tannini di un rosso dovuta alla macerazione". D'accordo Saša Radikon, che dopo la scomparsa di suo padre Stanko, continua la tradizione di famiglia: "Per una grande Ribolla di Oslavia, le uve devono essere molto mature e magari colpite da un po' di muffa (botritis cinerea) per poi fermentare senza lieviti selezionati e macerare sulle bucce per almeno 15 giorni ma anche sino a 4 mesi".

Due pionieri della macerazione in Italia

Il metodo di produzione degli "orange wines" è molto antico e, nell'area vinicola di Kakheti (Georgia, nel Caucaso), i vini da almeno 5000 anni vengono macerati in grosse anfore interrate dette Qvevri. A ravvivare e reinterpretare la tradizione della macerazione, Josko Gravner e Stanko Radikon (purtroppo prematuramente scomparso), entrambi vignaioli di Oslavia. Dopo essersi imposti come eccellenti produttori di quel vino che oggi si definirebbe "convenzionale", negli anni 1996-1997 iniziarono a cimentarsi – con la ribolla in primis - con questa antica pratica. Di fatto, sono stati i capostipite di una nuova stirpe di vini, gli "orange wines", secondo la definizione anglosassone che fa riferimento al colore ambrato/aranciato che li caratterizza. Un'impresa di cui furono pionieri e che si intersecò all'esaltazione dell'artigianalità, alla rivendicazione della naturalità dei vini, alla (ri)scoperta delle anfore (Gravner acquistò la prima nel 2007), al diffondersi sempre più ampio delle pratiche biologiche, biodinamiche e altro ancora, tuttora temi oggetto di dibattito e discussione.

La proposta della Docg "Collio Ribolla di Oslavia” o “Ribolla di Oslavia"

Nell'ultimo lustro, la ribolla, che viene prodotta anche nel resto della regione, è diventata molto di moda, perché se coltivata con altri criteri, specialmente in pianura, può dare vita a bianchi tranquilli e leggeri, da rese elevate, oppure essere spumantizzata. Questa versatilità ha fatto sì che, specialmente con la vendemmia 2017, l'uva fosse molto ricercata dagli spumantizzatori veneti e piemontesi, favoriti dalla sovrapproduzione e dai prezzi bassi. Lo sfondo della proposta di disciplinare per far diventare la Ribolla di Oslavia Docg – attualmente classificata Igt - da parte dell'Associazione Produttori di Oslavia (APRO, che unisce Dario Prinčič (Prinčič), Franco Sosol (Il Carpino), Saša Radikon (Radikon), Silvan Primosic (Primosic), Nicolò Bensa (La Castellada), Rinaldo Fiegl (Fiegl), è questo. Martin Fiegl dell'omonima azienda ha ribadito che "in questo momento è ancora più necessario fare chiarezza perché la Ribolla solo qui assume queste caratteristiche particolari. Una peculiarità che va difesa con la Docg ma è anche una proposta per il futuro del nostro territorio". La proposta di disciplinare è stata ufficialmente consegnata a Robert Prinčič, presidente del Consorzio di tutela dei vini del Collio e titolare dell'azienda Gradis'ciutta di San Floriano, che conosce bene la realtà dei produttori di Oslavia. Questo il suo commento "La proposta di disciplinare dovrà essere approvata dall'assemblea dei soci del Consorzio: sarebbe il primo passo per avviare l'iter previsto dalla legge. Quanto al merito, abbiamo la necessità di differenziare le nostre produzioni e la denominazione è l'unico modo per difenderle. Sono ottimista". Difendere le peculiarità, significa difendere il territorio e il suo vino. Oslavia ha un diritto che si è conquistata sul campo.

Oslavia

La proposta di disciplinare Docg

Il vino "Collio Ribolla di Oslavia” o “Ribolla di Oslavia" deve essere ottenuto con il 100% dalle uve del vitigno Ribolla gialla coltivate nell'omonima località (circa 300 ettari). La resa è max 9 tonnellate di uva per ettaro. La resa dell'uva in vino 70%. Nei vigneti non è consentito il diserbo chimico e le operazioni di vinificazione e di invecchiamento solo in zona o nei Comuni di Gorizia e San Floriano del Collio. Non è previsto l’utilizzo di lieviti selezionati e 90mg/l di solforosa totale nell’imbottigliato. Consentito il raffreddamento nel caso la temperatura della massa in fermentazione superi i 28°C. La macerazione prevede un minimo di due settimane di contatto con le bucce. L'invecchiamento è di minimo 12 mesi in contenitori di legno superiori ai 5 ettolitri e un minimo di sei mesi in bottiglia. L’uscita in commercio dell’ultima annata è regolamentata dopo 24 mesi dalla vendemmia e avviene nella prima decade di ottobre. È ammessa la colmatura con un massimo del 5% di altri vini, dello stesso colore, aventi diritto alla denominazione di origine controllata “Collio Goriziano” o “Collio” in tutte le sue tipologie.

Ed ecco, infine, le caratteristiche al consumo. Colore: dorato intenso, ambrato fino al pantone 159/C ; odore: caratteristico tipico; sapore: caratteristico tipico; alcol minimo: 12%; acidità totale minima: 4 g/l; estratto non riduttore minimo: 17 g/l.

 

www.ribolladioslavia.it

 

a cura di Andrea Gabbrielli

Gualtiero Marchesi e la grande cucina italiana World Tour. Nel mondo con i piatti più celebri del maestro

$
0
0

Il giro del mondo in 10 tappe per celebrare il primo cuoco a intuire le potenzialità della cucina italiana, nobilitando un mestiere artigiano che deve nutrirsi di tutte le altre arti. E può costituire un traino importante per l’industria del turismo made in Italy. Lui, Gualtiero Marchesi, rivivrà in tavola attraverso i suoi piatti più celebri, realizzati dagli allievi che hanno fatto fortuna. Da Chicago a Parigi, passando per Tokyo. Chiusura a Milano, il 19 marzo. 

 

Un brand del made in Italy

È passato quasi un anno da quel 26 dicembre che ha lasciato il mondo della cucina italiana orfano del suo maestro più stimato, Gualtiero Marchesi. Le occasioni per tesserne le lodi e celebrare il suo costante impegno da padre putativo di molti degli chef italiani che oggi possono dirsi grandi, sono state numerose. L’ultima iniziativa della Fondazione Gualtiero Marchesi, in concomitanza con l’avvio della terza edizione della Settimana della Cucina Italiana nel mondo (dal 12 novembre), sottolinea un altro dei meriti maturati in vita dallo chef lombardo, che del made in Italy è stato uno dei primi a farsi ambasciatore, insistendo per fare dell’alta cucina nazionale un brand da promuovere all’estero, in tempi non sospetti (quando cioè su cuochi e cucine non si erano ancora accesi i riflettori). Ecco perché saranno i suoi piatti più celebri i veri protagonisti di un tour gastronomico internazionale che rende omaggio al maestro e insieme alla storia della cucina italiana, grazie al coinvolgimento dei suoi ex allievi.

 

Il tour nel mondo. In cucina per raccontare il buono dell’Italia

Le tappe? Una marcia tra l’America di Chicago e New York e l’Estremo Oriente, con cene previste a Hong Kong, Pechino e Tokyo; e poi l’Europa, a Parigi, Berlino, Londra e Mosca, prima di concludere proprio a Milano il 19 marzo, in concomitanza con l’anniversario della nascita di Marchesi. A coordinare le operazioni, in tutte le cene del Grand Tour, sarà Antonio Ghilardi, anche lui vanto della scuderia Marchesi, raggiunto di volta in volta da alcuni degli allievi più celebri: Pietro Leemann a New York, Luca Fantin (che gioca in casa) alla Bulgari Ginza Tower di Tokyo, Carlo Cracco, Davide Oldani, Alfio Ghezzi, Enrico Crippa, Andrea Berton variamente coinvolti nelle altre tappe in programma nei prossimi mesi. Di fatto l’iniziativa si propone di celebrare l’Italia delle Arti tout court, facendo leva proprio sulla grandezza di uno chef che ha saputo, e voluto, guardare al di là della cucina, infondendo dignità a un mestiere artigiano come quello del cuoco, che si è riscoperto cassa di risonanza di un sistema culturale in cui tutte le arti dialogano, tra musica, design, arti figurative e moda.

 

I piatti

E il tour servirà a raccontare tutto questo – ogni cena sarà preceduta dalla proiezione del docu-film Gualtiero Marchesi the Great Italian – ma anche a promuovere le produzioni agricole della Penisola, valorizzate in tavola grazie a piatti diventati un cult, dal Dripping di pesce all’Insalata di capesante, zenzero e pepe rosa, all’Omaggio a Fontana in Rosso e Nero e al celeberrimo Riso e Oro del maestro. A supportare il tour anche il Ministero degli Affari Esteri, nella consapevolezza che oggi la ristorazione italiana produce un giro di affari di 90 miliardi di euro, impiega un milione di addetti e può essere un traino per il settore turistico. Si parte da Chicago il 12 novembre, l’Europa arriverà solo nel 2019. Da Milano al mondo, e ritorno. Per custodire un’eredità importante e sostenere un futuro fatto di formazione, ricerca e conoscenza in ambito alimentare.

 

a cura di Livia Montagnoli

Il miglior olio della Toscana. La produzione regionale e le aziende

$
0
0

Una regione che continua a regalare piacevoli sorprese agli amanti dell'olio buono, grazie ai tanti produttori attenti sparsi in tutto il territorio. Ecco quali sono le aziende migliori della Toscana. 

 

Una terra che ha fatto dell'olio uno dei suoi simboli più rappresentativi, un paesaggio unico e famoso in tutto il mondo, delineato dalle colline più dolci punteggiate da vigne e ulivi. La Toscana continua a essere ancora oggi una delle maggiori punte di diamante della scena olivicola nazionale, grazie ai tanti investimenti significativi fatti sugli impianti e una serie di aziende di altissimo livello.

Le aziende

Realtà come Podere Grassi di Greve in Chianti, che durante la scorsa annata si è distinto per il suo monocultivar di frantoio biologico, aggiudicandosi il premio come Miglior Olio Dop nella guida Oli d'Italia 2018. Oppure Terenzi di Scansano, vincitore del titolo Miglior Olio Igp con il suo Madrechiesa - blend di moraiolo e maurino - o ancora Pruneti, che con il monovarietale di leccino biologico ha ottenuto il riconoscimento per il Miglior Monocultivar. Tre colossi dell'olio toscano, attualmente alle prese con la nuova campagna, fra notti trascorse in frantoio, assaggi ed esperimenti. Proprio per via di questo periodo critico, un momento cruciale per la riuscita di un buon prodotto, non tutti gli olivicoltori hanno potuto raccontarsi.

 

Giacomo Grassi, però, è riuscito a ritagliarsi un po' di tempo per fare il punto della situazione e capire cosa aspettarsi da questa campagna. Con lui, abbiamo ripercorso un pezzo di storia di olivicoltura toscana.

L'eleganza del frantoio e la forza del moraiolo

Rossellino, pendolino, leccino. Queste le varietà già raccolte e lavorate da Giacomo e la sua squadra, ma la vera partita la si gioca ora, con il frantoio, una cultivar a cui il produttore è particolarmente legato: “È un'oliva nobile, un gentiluomo di altri tempi, elegante e discreto”. E che non ama essere disturbato: “Si tratta di una varietà delicata, da trattare con cura. Occorre gestire bene la chioma ogni anno con le potature”, che devono essere minime ma frequenti: “Poco ma spesso. È così che si pota il frantoio, solitamente a marzo”. 

 

olive

Non solo frantoio, però. Fra le protagoniste in campo, c'è anche il moraiolo, “più resistente, riesce a crescere in zone più alte e sopporta bene il freddo: un tempo la raccolta iniziava dopo l'8 dicembre e proseguiva fino alla fine di febbraio, fra venti e piogge. Il moraiolo era l'oliva più adatta in passato”.

L'annata in corso

Una varietà che anche quest'anno ha risposto bene, nonostante le tante difficoltà dovute al clima, “a risentirne di più sono stati il frantoio, che ha sofferto un po' l'abbassamento termico dello scorso aprile, ma soprattutto il maurino, che è una cultivar piuttosto sensibile. Credo avremo una perdita di circa l'80%”. Nonostante questo calo, però, la campagna procede bene, “non abbiamo avuto problemi di mosca né di allegagione: siamo pieni di frutti”, la qualità è sempre alta ma la resa non particolarmente entusiasmante: “Le recenti piogge hanno gonfiato molto le drupe, ma comunque non ci lamentiamo. Per ora mi ritengo soddisfatto, sono in trepida attesa del frantoio e del moraiolo: è da queste due che emerge la vera identità toscana”.

Il profilo psicoattitudinale del frantoio

Olive che verranno lavorate in frantoi diversi a seconda della necessità. “Non abbiamo mai voluto un nostro impianto, perché crediamo che ogni cultivar abbia bisogno di una cura a sé”. E quindi, Grassi si affida a ben quattro frantoi, “due Pieralisi e due Mori”, ognuno dei quali verrà settato con parametri diversi a seconda della varietà, del grado di maturazione e così via: “Occorre dare a ogni oliva le attenzioni che merita”. Proprio come fosse una persona: “Ogni frantoio ha un suo profilo psicoattitudinale. Le macchine, ma anche l'ambiente e le persone che vi lavorano all'interno conferiscono a ogni impianto un carattere preciso, che deve sposarsi con le varietà”.

 

Rolando nonno e Rolando nipote

Rolando nonno e Rolando nipote

L'eredità di famiglia

18mila piante, un'altra azienda da seguire, quella che porta il suo nome, “creata nel '99 dopo essermi laureato”, e un nuovo ambizioso progetto: 30 ettari con circa 20mila alberi, tutti di varietà autoctone toscane. Un lavoro che richiede dedizione, passione e anche un talento innato. La predisposizione alla campagna, così come l'amore per la natura, Giacomo li ha ereditati fin da bambino. E nonostante il suo sia un percorso costellato di successi, ancora oggi l'olivicoltore non dimentica mai da dove è partito. “Ho avuto una fortuna sfacciata: quella di avere un babbo top player”. Il dialetto toscano che riemerge orgoglioso e l'inglesismo ormai entrato a far parte del suo linguaggio; Giacomo è questo, una commistione fra ieri e oggi, punto di congiunzione fra passato e presente dell'olivicoltura.

Le origini

Un passato, però, che era già moderno. Avanguardista di nascita, papà Rolando negli anni '80 acquista l'azienda, imprimendo fin da subito quel marchio di innovazione che ancora oggi la caratterizza: “Potava fin dagli anni '50, quando era ancora un mezzadro, e lo faceva bene. Ha potato quasi in tutta Italia, papà”. La terribile gelata dell'85 colpisce anche le tenute Grassi, ma Rolando resiste: “Estirpò gli ulivi, creò nuovi impianti per filari, suddividendo le piante per cultivar, proprio come si fa ancora oggi”.Fra gli ulivi Giacomo ci è cresciuto, osservando i gesti precisi del padre e traendone ispirazione: “I miei amici di infanzia hanno abbandonato la campagna, per cui ho deciso di prendere in gestione i loro appezzamenti per creare la mia azienda, estirpando e ripiantando ogni anno per 7 anni, dal 2000 al 2007”. Su esempio di Rolando, Giacomo è riuscito a creare oggi una realtà tutta sua di 2mila piante, più 6mila in affitto e cogestione. E continua a studiare, ad andare avanti, progettare, ma sempre con uno sguardo indietro, un connubio di nostalgia e rispetto profondo: “Quando è nata l'azienda? Non ne ho idea! Mia sorella è riuscita a ritrovare una testimonianza del 1563, ma probabilmente esisteva già da prima. Siamo sempre vissuti qui, in questo fazzoletto di terra”.

I migliori oli della Toscana

Tre Foglie

Ad Astra Monocultivar Leccino – Casagrande - Figline e Incisa Valdarno (FI) - www.fattoriacasagrande.it

Castello di Fonterutoli Dop Chianti Classico - Castello di Fonterutoli - Castellina in Chianti (SI) - www.mazzei.it

Monocultivar Frantoio Bio - Fattoria Corzano e Paterno - San Casciano in Val di Pesa (FI) - www.corzanoepaterno.com

Olio Extravergine di Oliva Bio Fattoria di Lavacchio - Pontassieve (FI) - www.fattorialavacchio.com

Olio Extravergine di Oliva Bio Denocciolato - Fattoria di Monti - Peccioli (PI) - www.fattoriadimonti.it

Monocultivar Moraiolo Bio - Fattoria Ramerino - Bagno a Ripoli (FI) - www.fattoriaramerino.it

Monocultivar Raggiolo Denocciolato Bio – Fèlsina - Castelnuovo Berardenga (SI) - www.felsina.it

Grand Cru - Fonte di Foiano - Castagneto Carducci (LI) - www.fontedifoiano.com

Rose Monocultivar Olivastra Seggianese - Frantoio Franci - Castel del Piano (GR) - www.frantoiofranci.it

Dop Chianti Classico - Frantoio Pruneti - Greve in Chianti (FI) - www.pruneti.it

Monocultivar Leccio del Corno - Giacomo Grassi - Greve in Chianti (FI) - www.giacomograssi.com

Monocultivar Leccio del Corno - I Greppi di Silli – Miciolo - San Casciano in Val di Pesa (FI) - www.igreppidisilli.com

Monocultivar Maurino Bio - Il Casalone Vignoli - San Casciano in Val di Pesa (FI)

1929 Monocultivar Frantoio - Il Felciaio - Castagneto Carducci (LI) - www.ilfelciaio.it

Monocultivar Pendolino Bio - La Ranocchiaia - San Casciano in Val di Pesa (FI) - www.laranocchiaia.it

Dop Chianti Classico Monocultivar Correggiolo - Losi Querciavalle - Castelnuovo Berardenga (SI) - www.agricolalosi.it

Olio Extravergine di Oliva - Olio di Dievole - Gaiole in Chianti (SI) - www.dievole.it

L'Olinto Dop Chianti Classico Monocultivar Frantoio Bio - Podere Grassi - Greve in Chianti (FI)

Olio Extravergine di Oliva Bio - Poggio di Sotto - Montalcino (SI) - www.collemassari.it

Monocultivar Leccino Bio – Pruneti - Greve in Chianti (FI) - www.pruneti.it

Idillio Bio - Reto di Montisoni - Bagno a Ripoli (FI) - www.retodimontisoni.it

Olio Extravergine di Oliva Bio – Roncigliano - Scandicci (FI) - www.roncigliano.com

Olio Extravergine di Oliva – Sàgona - Loro Ciuffenna (AR) - www.sagona.it

Madrechiesa Igp Toscano – Terenzi - Scansano (GR) - www.terenzi.eu

Due Foglie Rosse

Monocultivar Frantoio Dop Chianti Classico - Barone Ricasoli - Castello di Brolio - Gaiole in Chianti (SI) - www.ricasoli.it

Grifo Monocultivar Frantoio – Belvedere - Capannori (LU)

Castello di Fonterutoli Dop Chianti Classico - Castello di Fonterutoli - Castellina in Chianti (SI) - www.mazzei.it

Privilegio Foglia Bianca Igp Toscano Bio - Consorzio Produttori Olio Colline di Pisa - Palaia (PI) - www.olioprivilegio.com

Monocultivar Pendolino Bio - Fattoria Corzano e Paterno - San Casciano in Val di Pesa (FI) - www.corzanoepaterno.com

Monocultivar Moraiolo Bio Denocciolato - Fattoria di Monti - Peccioli (PI) - www.fattoriadimonti.it

Monocultivar Frantoio Bio - Fattoria Ramerino - Bagno a Ripoli (FI) - www.fattoriaramerino.it

Igp Toscano Colline di Firenze - Fattorie Parri - Montespertoli (FI) - www.fattorieparri.it

Monocultivar Moraiolo Denocciolato Bio – Fèlsina - Castelnuovo Berardenga (SI) - www.felsina.it

1979 - Fonte di Foiano - Castagneto Carducci (LI) - www.fontedifoiano.com

Riflessi Monocultivar Maurino - Fonte di Foiano - Castagneto Carducci (LI) - www.fontedifoiano.com

Villa Magra - Frantoio Franci - Castel del Piano (GR) - www.frantoiofranci.it

Villa Magra Grand Cru Monocultivar Correggiolo - Frantoio Franci - Castel del Piano (GR) - www.frantoiofranci.it

Monocultivar Olivo Bianco - Giacomo Grassi - Greve in Chianti (FI) - www.giacomograssi.com

Olio Extravergine di Oliva Bio – Grattamacco - Castagneto Carducci (LI) - www.collemassari.it

Proxima Saecvla - I Greppi di Silli – Miciolo - San Casciano in Val di Pesa (FI) - www.igreppidisilli.com

Monocultivar Correggiolo Bio - Il Casalone Vignoli - San Casciano in Val di Pesa (FI)

Casetta - Il Felciaio - Castagneto Carducci (LI) - www.ilfelciaio.it

Monocultivar Frantoio - Il Peraccio - Paterno di Pelago - www.ilperaccio.it

Agrifoglio - Il Violone - Figline e Incisa Valdarno (FI)

Podere Curcugnano Monocultivar Frantoio Igp Toscano Colline di Firenze - Italo Chelli - Bagno a Ripoli (FI) - www.agriturismocircugnano.it

Dop Chianti Classico Bio - La Ranocchiaia - San Casciano in Val di Pesa (FI) - www.laranocchiaia.it

Monocultivar Correggiolo Bio - La Ranocchiaia - San Casciano in Val di Pesa (FI) - www.laranocchiaia.it

Olio Extravergine di Oliva – Lanciola - Impruneta (FI) - www.lanciola.it

Orum Igp Toscano Monocultivar Olivastra Seggianese - Le Pusciane - Seggiano (GR) - www.lepusciane.it

Monocultivar Coratina - Olio di Dievole - Gaiole in Chianti (SI) - www.dievole.it

Monocultivar Nocellara - Olio di Dievole - Gaiole in Chianti (SI) - www.dievole.it

L'Olinto Dop Chianti Classico Monocultivar Leccino Bio - Podere Grassi - Greve in Chianti (FI)

Macchia Monocultivar Maurino Bio - Podere Riparbella - Massa Marittima (GR) - www.riparbella.com

Monocultivar Frantoio Bio – Pruneti - Greve in Chianti (FI) - www.pruneti.it

Olio Extravergine d'Oliva Bio - Reto di Montisoni - Bagno a Ripoli (FI) - www.retodimontisoni.it

Purosangue Igp Toscano – Terenzi - Scansano (GR) - www.terenzi.eu

Monocultivar Pendolino Bio - Val di Lama - Pontedera (PI) - www.valdilama.it

Dop Lucca - Villa Santo Stefano – Lucca - www.villa-santostefano.it

a cura di Michela Becchi


La Biennale Enogastronomica a Firenze. Cuochi, pizzaioli, cantine e tante curiosità sul cibo alla Fortezza da Basso

$
0
0

Dal 16 al 19 novembre torna l’appuntamento che invita a curiosare nel mondo del cibo e del vino con la voglia di assaggiare e scoprire nuovi prodotti, e incontrare i protagonisti del settore. Tra verticali di vino toscano, table chef, pizzaioli alle prese con l’ammaccatura. E un’insolita mostra fotografica sulla bistecca fiorentina. 

 

La Biennale Enogastronomica si apre alla città

Quattro giorni belli pieni di gusto e bellezza, da venerdì 16 a lunedì 19 novembre: è quanto promette l’edizione 2018 della Biennale Enogastronomica, l’autunnale appuntamento fiorentino che affollerà gli spazi della Fortezza da Basso. Un’edizione che si annuncia “dinamica e accessibile”, come l’ha definita il direttore artistico Leonardo Romanelli, sicuramente ricca di proposte e veramente pensata, percorsa da un filo logico che intende aprire non solo ai gourmet, agli appassionati e agli operatori del settore, ma anche a un pubblico quanto più vasto possibile le porte del mondo dei viticoltori, dei produttori di olio e delle eccellenze alimentari. Nelle intenzioni degli organizzatori, la manifestazione vuole essere un evento di alto livello, ma pop, in cui cioè i tratti distintivi dell’universo del cibo, del vino e dell’olio diventino un patrimonio di conoscenze di tutti e per tutti. Per questo quindi una nuova e più forte apertura alla città e la scelta di una collocazione quale la Fortezza da Basso, che è tradizionalmente il luogo a Firenze più vocato ad accogliere i visitatori e i produttori. L'ingresso alla biennale è gratuito e gli innumerevoli appuntamenti su prenotazione sono stati volutamente proposti a prezzi popolari, proprio nell'intento di creare una occasione di educazione gastronomica, accessibile e fruibile per tutti, più volte al giorno, per più giorni consecutivi. Anche se non bisogna poi dimenticare che l’intera giornata di lunedì 19 sarà dedicata al B2B tra produttori e operatori del settore enogastronomico.

 

Il programma alla Fortezza da Basso

Tanti gli eventi e gli incontri da non perdere: c’è solo l’imbarazzo della scelta. L’elenco è davvero lungo. Si comincia con le dieci degustazioni di vino, in ognuna delle quali dieci produttori racconteranno le loro storie, per un viaggio attraverso la Toscana enologica più bella e celebrata: degustazioni orizzontali per chi ama cogliere le diverse interpretazioni di un vitigno, degustazioni verticali per gli appassionati di teoria dell’evoluzione, degustazioni con le selezioni operate dai consorzi di tutela. Ed ecco allora il Chianti Classico, gli uvaggi Bordolesi, lo Champagne, la Vernaccia di San Gimignano, i vitigni ritrovati, il Syrah di Cortona, la riserva di Vino Nobile Montepulciano, le riserve 2015 del Chianti Rufina, il Brunello di Montalcino, le riserve del Chianti Colli Fiorentini, la verticale di Caberlot. Poi i workshop “masticabili”, per osservare un prodotto, annusarlo e infine masticarlo. Imperdibili gli appuntamenti con i maestri pizzaioli di Firenze, che impasteranno con il pubblico e sveleranno i trucchi dell’arte di “ammaccare”; tra questi Romualdo Rizzuti, i ragazzi di Ghevido, Giovanni Santarpia, i super pizzaioli di Pizza Men, di Simbiosi, dei Ghibellini.

Chef e degustazioni

Table Chef daranno la possibilità di vivere l’esperienza di un grande ristorante, degustando a tavola due piatti di chef apprezzati, un’esperienza magnifica a un prezzo accessibile; ai fornelli ci saranno di volta in volta gli chef Roy Caceres del Metamorfosi di Roma, Riccardo Monco e Alessandro Della Tommasina dell’Enoteca Pinchiorri, Gaetano Trovato del ristorante Arnolfo di Colle val d’Elsa, Enrico Recanati del ristorante Andreina di Loreto, Stefano Frassineti della Locanda Toscani da Sempre, e la lista è ancora lunga. E poi ancora degustazioni e mini corsi di assaggio di extravergine condotti dal Consorzio di Tutela Olio Toscano IGP; una panoramica sull’affascinante mondo della birra; la degustazione della grappa trentina; il gelato a cura della Bolgheri Gelato Experience con un appuntamento organizzato da Vetulio Bondi, Carlo Martelli e Riccardo Ciarla; un incontro degustativo e conoscitivo con il sake giapponese.  E anche spettacolo: Gianmarco Tognazzi, attore e sempre più produttore di vini, presenterà Eyes Wine Shot. 

Infine all’arcifamosa bistecca alla fiorentina (per cui si sta avviando l’iter per il riconoscimento Unesco) sarà dedicata una mostra fotografica, curata da Marco Gemelli, articolata in due sezioni: una con gli scatti d’autore di cinque professionisti (Paolo Matteoni, Claudio Mollo, Andrea Moretti, Gianni Ugolini Lido Vannucchi), l’altra invece con le migliori immagini inviate da blogger, instagrammers, fotografi dilettanti, semplici appassionati. Insomma districarsi tra le tante proposte del ricchissimo programma non sarà semplice. Due potranno essere i criteri da seguire per apprezzare al meglio la Biennale: la curiosità e il piacere. La curiosità di scoprire e conoscere i prodotti e gli espositori; e il piacere cui ci si deve abbandonare prendendo parte a una serie di eventi unici, assaggiando, gustando, coltivando tutti i sensi. 

 

Biennale Enogastronomica - Firenze - Fortezza da Basso - dal 16 al 19 novembre

Dui Puvrun in Piemonte. La storia del campo sperimentale che difende la biodiversità

$
0
0

Dui Puvrun è l’azienda agricola dove Stefano Scavino coltiva ecotipi locali che rischiavano l’estinzione. Un destino che in realtà ne accomuna molti altri, rimasti in vita grazie alla ricerca, lo scambio di semi e la collaborazione. Ecco il progetto di Stefano e altri begli esempi di salvaguardia del ricco patrimonio piemontese.

 

“Dui puvrun bagnà ‘nt l’oli” è una tipica espressione piemontese che significa “due peperoni bagnati nell’olio”. Una sorta di scioglilingua per i meno avvezzi ai dialetti locali, ma soprattutto un detto che ci avvicina a uno dei fiori all’occhiello della biodiversità di questo territorio. Perché, se del patrimonio enogastronomico del Piemonte si parla già molto (basti pensare che secondo Lonely Planet è la prima regione al mondo da visitare), decisamente meno si parla dei suoi ecotipi e di quanto alcuni abbiano rischiato di scomparire a favore degli ibridi.

Dui Puvrun, ossia due peperoni (il quadrato d’Asti e il Tumaticot)

E proprio dall’intento di mantenere in vita alcune tipologie di peperoni piemontesi è cominciata l’avventura di Dui Puvrun, l’azienda agricola di Stefano Scavino a Costigliole d’Asti. “Ho deciso di avviare il mio progetto nel 2015 con l’obiettivo di recuperare e coltivare il peperone quadrato d’Asti, ci racconta, “ho fatto delle ricerche confrontandomi con altri agricoltori della zona e poi mi sono rivolto alla Banca del Germoplasma di Torino: da lì ho ottenuto i semi di questa e di altre varietà (compreso il peperone Tumaticot, così soprannominato per la sua somiglianza con il pomodoro) e li ho riprodotti”. Andando incontro a non poche difficoltà: “sono semi che hanno 40 anni, raccolti tra il 1979 e il 1981 quando è stata creata la Banca, quindi non più al massimo delle loro potenzialità”, precisa. Ė così che è nata l’idea di un campo sperimentale dove migliorarli geneticamente anziché farlo in laboratorio: il progetto - messo a punto da Stefano assieme al dipartimento di Scienze Agrarie, Forestali e Alimentari dell’Università di Torino, al Cnr e all’ente di ricerca privato Agrion – ha vinto un bando indetto nell’ambito del Programma di Sviluppo Rurale ed è partito ufficialmente ad aprile 2018.

Stefano Scavino. Foto di Franco BelloStefano Scavino. Foto di Franco Bello

Ma anche carciofi, quelli della Valtiglione

E cosa accade nel dettaglio? “Le piante vengono periodicamente catalogate, se ne studiano le malattie e si selezionano quelle che più rappresentano le caratteristiche della varietà in questione”, spiega Stefano. Ma non solo peperoni, la sperimentazione è dedicata anche al carciofo della Valtiglione: “la pianta me l’ha fornita un contadino che mi ha insegnato a coltivarlo: è ribattezzato carciofo del sorì perché i sorì (ossia i versanti collinari esposti al sole, quelli dove di solito si trovano le vigne migliori) sono il suo habitat ideale, anche se comunque non patisce le basse temperature”. Ė privo di spine, meno coriaceo di tanti altri e dunque ideale da mangiare crudo, ma la sua è una storia di abbandono dovuta a un motivo commerciale: “si tratta di un carciofo tardivo rispetto a quelli provenienti da altre regioni e così, quando questi ultimi sono arrivati qui in grandi quantità, quello della Valtiglione compariva sul mercato per ultimo e per venderlo si era costretti ad abbassare il prezzo; ormai in pochi sanno che si tratta di un prodotto fortemente legato al nostro territorio, a cui ci sono riferimenti in antichi ricettari ed è stato persino rappresentato in alcune raffigurazioni ecclesiastiche del ‘700”.

Carciofo

Il ciliegeto aperto e il contatto diretto con i clienti: l’importanza della divulgazione

La divulgazione, infatti, è un passaggio fondamentale e Stefano cerca di portarla avanti con costanza, costruendo un rapporto diretto con i propri clienti. Ha, per esempio, preso in gestione uno storico ciliegeto di Revigliasco d’Asti: lì coltiva una decina di varietà - tra cui la Mora di Revigliasco e la Graffione da spirito - e ogni anno organizza la giornata del “ciliegeto aperto”, che permette alle persone di cimentarsi nella raccolta, mangiare sul posto e poi comprare. E soprattutto permette di riscoprire un frutto che per anni è stato il centro dell’economia di questo paese, “che però ha progressivamente rinunciato alla sua coltivazione a causa dell’impossibilità, in un territorio collinare come questo, di meccanizzarla e modernizzarla”. Ma ancor di più Stefano fa divulgazione attraverso la vendita dei suoi ortaggi: “mi sono ispirato al modello americano della community sustained agriculture, ricorda, “ognuno paga una quota mensile per delle cassette in cui raccolgo dalle 10 alle 15 varietà, dove allego consigli per l’uso o ricette, da ritirare direttamente nell’orto o che consegno a domicilio nelle zone di Asti e Alba tutte le settimane: è un meccanismo che mi aiuta molto a sensibilizzare, perché gli acquirenti (compresi ristoranti, trattorie e pizzerie) conoscono davvero da vicino ciò che mangiano”.

Un pomodoro, una storia familiare: il Cerrato d’Asti

A seconda della stagione nelle cassette ci si può trovare un po’ di tutto e, nel periodo giusto, è il turno pure del pomodoro Cerrato d’Asti. Un altro frutto della terra con una storia da raccontare, che deve il suo nome a quello di una famiglia di ortolani dell’Astigiano. “Quando verso la metà degli anni ’60 sono arrivati gli ibridi, che permettevano di ottenere maggiori quantità a scapito della qualità, i miei genitori che vendevano all’ingrosso si sono adeguati”, ci spiega Attilio Cerrato, 68 anni e una parlantina briosa, “nel frattempo però abbiamo continuato a coltivarlo nonostante non fosse più commercializzato”. Ecco perché il Cerrato è conosciuto come il “pomodoro da mangiare”, quello che non veniva venduto ma impiegato solo per il consumo fresco: “d’altronde è un prodotto che, date le sue caratteristiche, è adatto principalmente all’agricoltura di prossimità: è grande e difficilmente trasportabile perché ha la pelle sottilissima”, specifica. Se negli anni l’interesse attorno a questa varietà è cresciuto, buona parte del merito è proprio di Attilio: è lui che ha conservato i semi e che nel 2007 (stesso anno del riconoscimento della Denominazione Comunale) li ha donati all’orto del carcere di Quarto d’Asti, è lui che poi ha dato le piante a Stefano dal quale a sua volta ha ricevuto quelle del carciofo della Valtiglione.

Collezione di fagioli di Max Nunziata

Collezione di fagioli di Max Nunziata

Passione semi rari: il grande lavoro di Max Nunziata

Ma ce ne sono ben altri di pomodori piemontesi da scoprire, come il Costoluto di Chivasso o l’Insalataro di Cambiano. Senza dimenticare il mais, dal Pignoletto giallo del Torinese all’Ottofile rosso di Alba, o i fagioli come il Borlotto di Saluggia e lo Stregoni di Cuneo. L’elenco in realtà potrebbe allungarsi di molto e il bello è che c’è un 43enne originario di Salerno, ma che vive a Volpiano (nel Torinese), che per passione ne raccoglie, cataloga e salvaguarda i semi, senza mai smettere di ricercarne di nuovi e di avviare collaborazioni con aziende agricole. Ė Massimiliano Nunziata, per tutti Max, che si dedica principalmente ai legumi più rari da ogni parte del mondo (di cui ha all’incirca 5.000 varietà). “Ho iniziato quasi per caso: un’estate ero a casa in Campania e, come tutti gli anni, stavamo preparando la salsa di pomodoro”, ricorda, “a un tratto mia mamma si fece male e, intento a cercare l’occorrente per medicarla, trovai in un armadio una scatola piena di barattoli contenenti vari semi”. Da lì è nata la curiosità: Max ha affinato le sue competenze, diventando un esperto in materia e arricchendo sempre di più la sua “collezione”. Che da luglio 2018 include persino il fagiolo di Crava (in provincia di Cuneo) a rischio estinzione: “quando ho ricevuto i primi semi era già troppo tardi per effettuare la semina, che richiede una temperatura primaverile attorno ai 15°”, ci spiega Max. Nell’attesa del prossimo anno li preserva e ha in cantiere un progetto più ampio con cui andare alla ricerca delle varie tipologie di fagioli italiani: “una volta trovati i semi li scambio e ne tengo una piccola quantità per riprodurli: questo è un sistema che va alimentato perché tutelare la biodiversità vuol dire tutelare il nostro patrimonio di ricette e sapori”.

 

www.facebook.com/duipuvrun

 

a cura di Agnese Fioretti

 

foto di apertura di Valentina Cardile

 

Sangiovese Purosangue 2018. Le verticali più interessanti

$
0
0

Si è chiusa con successo l’ultima edizione di Sangiovese Purosangue, il tradizionale appuntamento dedicato a uno dei vitigni più famosi d’Italia. Ecco come è andata.  

 

Dal 2 al 5 novembre, Siena ha ospitato degustazioni tecniche, verticali, conferenze, seminari e banchi d’assaggio per celebrare le diverse espressioni territoriali e le mille sfaccettature del Sangiovese. Nato otto anni fa grazie all’iniziativa dall’EnoClub di Siena, Sangiovese Purosangue è ormai un appuntamento classico per tutti gli appassionati di vino e per la stampa specializzata. Davide Bonucci, ideatore dell’evento, ne parla con entusiasmo: “È stata una bella edizione, nel cuore della città di Siena, con una nutrita partecipazione di operatori e giornalisti. I produttori sono stati tutti molto soddisfatti della 4 giorni di approfondimenti tecnici. Sangiovese Purosangue rimane l’unica manifestazione monografica su questo vitigno, dove la componente di indagine organica, grazie alle testimonianze di vignaioli e tecnici, sta prendendo sempre più spazio, costituendosi come un vero e proprio laboratorio permanente”.

La manifestazione è una vera e propria non-stop sul Sangiovese, che quest’anno si è svolta proprio nel centro storico di Siena. A fare da cornice all’evento, sono stati gli splendidi spazi architettonici dei Magazzini del Sale all’interno del Palazzo Comunale, in Piazza del Campo. L’ultima edizione ha visto la partecipazione di 70 produttori, che hanno proposto circa 240 vini in degustazione. A farla da padrone ovviamente la Toscana, seguita da una buona rappresentanza dell’Emilia Romagna e da alcune Cantine provenienti dal resto d’Italia. L’unico neo delle degustazioni tecniche è stata la presenza, all’interno delle singole denominazioni, di etichette di troppe annate differenti. Una varietà di vini in stadi evolutivi diversi, che non sempre ha permesso di mettere a confronto le interpretazioni di uno stesso millesimo da parte delle aziende.

Il vitigno sangiovese

Il sangiovese è il vitigno a bacca rossa principe in terra di Toscana, ma è coltivato anche in molte altre regioni, soprattutto del Centro e Sud Italia. Dalle sue uve nascono vini famosi, ricchi di storia e tradizione, come Chianti, Brunello di Montalcino, Nobile di Montepulciano o Morellino di Scansano. Le origini del vitigno sono state a lungo ammantate dal mistero. Spesso si è cercato di fare del sangiovese il simbolo di un’antica tradizione, che potesse affondare le radici in tempi remoti, addirittura fino alla civiltà etrusca. In realtà troviamo le prime testimonianze del sangiovese, o meglio del “sangiogheto” attorno al 1600, nel Trattato della coltivazione delle viti, e del frutto che se ne può cavare di Giovanvettorio Soderini, anche se si presume che il vitigno fosse già presente da tempo in Toscana. Tuttavia, anche se non conosciamo con precisione la sua data di nascita, oggi sappiamo che il sangiovese non è un vitigno autoctono della Toscana. Secondo le più recenti analisi del DNA, che hanno poi condotto il genetista e ricercatore dell’Università di Neuchâtel José Vouillamoz a pubblicare con Jancis Robinson e Julia Harding il famoso libro Wine Grapes (2012), il sangiovese sarebbe figlio di un incrocio spontaneo tra il ciliegiolo e il calabrese di Montenuovo, un’uva oggi quasi estinta, ritrovata in pochi esemplari in Campania, proprio in località Montenuovo nell’area dei Campi Flegrei.

Verticale di sangiovese

Le Verticali

All’interno del programma dell’ultima edizione di Sangiovese Purosangue, oltre a banchi d’assaggio e alle degustazioni libere, hanno trovato spazio alcune interessanti verticali. Protagonisti del programma il Brunello di Montalcino Pietroso, il Sangiovese Poggio ai Chiari della tenuta Colle Santa Mustiola e il Brunello di Montalcino Riserva Poggio al Vento di Col d’Orcia. Abbiamo scelto un’annata per ogni verticale, quella che ci è maggiormente piaciuta e che resterà a lungo tra i migliori ricordi di quest’edizione di Sangiovese Purosangue.

Il Brunello Pietroso nasce dall’assemblaggio delle uve di tre diverse vigne, due coltivate sotto l’antico borgo e l’altra in località Castelnuovo dell’Abate. Gianni Pignattai, titolare della cantina, ha scelto per la verticale le annate: 2005, 2007, 2008, 2009, 2011 e 2013. Tra i vari millesimi ci ha particolarmente colpito il 2009 per il suo profilo elegante, i suoi profumi floreali, le note di erbe officinali, i raffinati tocchi di grafite, su un delicato sottofondo di frutti rossi e spezie. Il sorso armonioso e di bella ricchezza aromatica, conserva energia e tensione, con tannini maturi e un finale piacevolmente fresco.

Fabio Cenni ha portato in degustazione ben dieci annate del Sangiovese Poggio ai Chiari, vino di punta della tenuta di Chiusi Colle Santa Mustiola: 1997, 2001, 2003, 2004, 2005, 2006, 2007, 2008, 2009, 2010. Affascinante per il bouquet di freschezza balsamica e la bocca ancora vibrante il 2007, ma eccezionale per longevità il 1997. Un calice ancora perfettamente integro e vivo, con profumi di grande finezza, un sorso armonioso, delicato e di sorprendente equilibrio gustativo.

Chiudiamo con un classico, il Brunello di Montalcino Riserva Poggio al Vento di Col d’Orcia. Le vigne si trovano sul versante sud-ovest di Montalcino, su terreni con sabbie d’antica origine marina, che donano ai vini particolare finezza. Una versione di Brunello molto classica, affinata per 48 mesi in grandi botti di rovere. Francesco Marone Cinzano ha proposto una batteria di vini che comprendeva alcune delle migliori annate degli ultimi decenni, con una splendida 2006 e una 2010 dal luminoso futuro. Tuttavia, il vino che ci ha conquistato è stato lo strepitoso 1995. Un Brunello che esprime aromi complessi, con note di ribes, ciliegia, ed erbe della macchia mediterranea, impreziositi da eleganti sentori terziari e lievi sfumature di spezie. La tessitura tannica, fine ed evoluta, regala un sorso che si distende profondo verso un finale di grande persistenza e freschezza.

 

a cura di Alessio Turazza

 

 

 

L'ascesa americana dei Time Out Market. Da Lisbona a Miami e New York, con la supervisione di critici e food writer

$
0
0

Non sembra destinata a rallentare la moda delle food hall, che nelle grandi città americane inaugurano senza soluzione di continuità. E scende in campo anche l'editore Time Out, che forte del successo a Lisbona pianifica cinque aperture oltreoceano. A cominciare da Miami e New York.

 

L'editoria che fa impresa

Un mercato che è insieme gastronomico e culturale. È l'idea da cui prende le mosse l'operazione sviluppata negli ultimi anni dall'editore Time Out. Un progetto che vede direttamente coinvolto nel settore della ristorazione un attore insolito, mettendo le competenze maturate nel mondo della comunicazione al servizio di un'impresa coerente con la filosofia del gruppo. Formula che Time Out ha concretizzato già nel 2014 a Lisbona, quando ha preso in carico la ristrutturazione dello storico Mercado da Ribeira, riservando al Time Out Market un ampio spazio articolato in food hall urbana (circa 40 botteghe selezionate dall'editore, ristoranti, enoteche, bar e librerie, aperti fino a sera), accanto al mercato tradizionale, quello dei produttori, operativo solo per mezza giornata. Proprio la primavera scorsa, l'iniziativa ha ottenuto il riconoscimento come progetto gastronomico più innovativo in Europa. E infatti l'esempio di Time Out non è caduto nel vuoto: il prossimo anno (primavera 2019), il colosso editoriale Vice si confronterà per la prima volta con la stessa sfida, giocandosi il brand Muchies per avvalorare l'ingresso nell'imprenditoria della ristorazione. Dove? All'interno del centro commerciale American Dreams che sta nascendo in New Jersey, che ospiterà anche la food hall firmata Munchies. Ma sarà soprattutto l'aggressivo piano di espansione del format Time Out Market a tenere banco nei prossimi mesi: il successo di Lisbona ha incentivato il gruppo a replicare il mercato altrove, con la bussola puntata sull'America, dove entro il 2019 anche Miami, New York, Boston, Chicago e Montreal avranno il proprio Time Out Market di riferimento. Il ciclo ravvicinato di aperture sfrutta il boom delle food hall che tiene “sotto scacco” gli Stati Uniti da qualche anno a questa parte.

Da Lisbona a New York

Specie a New York, dove sempre nella primavera 2019 il mercato di Time Out debutterà al Dumbo Waterfront, chiudendo un anno che ha visto susseguirsi una dopo l'altra le inaugurazioni di nuovi food market in una città già munifica di spazi gastronomici corali. Due piani più terrazza sul tetto con vista sull'East River e i grattacieli di Manhattan per un'offerta che metterà insieme una ventina di insegne già conosciute in città, alle prese con una proposta street food di qualità. Con oltre 500 posti a sedere per consumare sul posto, tre bar e uno spazio riservato a mostre e spettacoli. Per selezionare le realtà coinvolte, l'editore ha scelto di scommettere sulle insegne rappresentative della città, della sua storia gastronomica e della scena ristorativa contemporanea. E le prime conferme sono già arrivate. Tra loro anche Juliana's, l'insegna che ha raccolto l'eredità della mitica Patsy Grimaldi, una vera leggenda della pizza a New York: all'inizio degli anni Novanta Patsy, che oggi ha superato gli 85 anni, ha fondato a Brooklyn la catena Grimaldi's. Il suo legame con la pizza, però, comincia negli anni Quaranta, quando nella pizzeria italiano di Harlem di suo zio Pasquale Lancieri comincia a imparare i primi rudimenti ancora bambina. Dopo la vendita del marchio, nel 2012 Patsy è tornata alla guida di una pizzeria sua, Juliana's, nel locale di Old Fulton street che aveva visto nascere Grimaldi's. Al Time Out Market la pizza di Juliana's affiancherà la cucina messicana di Alta Calidad, quella mediorientale di Miss Ada,  il menu giapponese di Bessou, i plateau di ostriche del Mermaid Oyster Bar, i piatti italiani del Felice Pasta Bar (che già conta diverse sedi in città). Ma ci sarà spazio anche per la tradizione americana, con i pancake della Clinton Street Baking Co, la proposta kosher di Reserve Cut, l'insolito menu del gastropub Jacob's Pickles, che dei cetriolini fa l'ingrediente principe della casa. Si conferma così l'intenzione di rappresentare in un unico spazio numerose cucine del mondo, indagando al contempo nelle radici culturali e gastronomiche di New York. All'appello, per ora, manca la lista degli chef che sicuramente saranno coinvolti nel progetto.

Mentre già scalda i motori la food hall del gruppo che esordirà all'inizio del 2019 a Miami, con 17 differenti proposte e una cucina per spettacoli gastronomici nell'area di Miami Beach.  Anche nella città ad alta dominante latina, l'idea è quella di riunire specialità da tutto il mondo, dal sandwich coreano ripieno di pollo fritto alle crocchette di medianoche della cucina cubana. E ancora specialità peruviane, hamburger, tacos, un Charcuterie Bar e un format dedicato alla brace. 

World Tour 2018/2019 del Gambero. Si riparte dall'Asia

$
0
0

Grande fermento di Oriente. Salgono i consumi, cresce il Made in Italy e l'Europa si appresta a siglare con il Giappone l'accordo che eliminerà i dazi sul vino. In questo contesto, prende il via il tour del Gambero Rosso. Ecco il primo provvisorio bilancio delle tre tappe iniziali:Tokyo, Seoul e Taipei.

 

Prima tappa: Tokyo

Èdecollato con il tre Bicchieri di Tokyo del 30 ottobre il tour asiatico del Gambero Rosso. Nella consueta cornice del Ritz Carlton oltre 100 produttori premiati con i Tre Bicchieri hanno presentato circa 400 etichette di vini italiani di vertice al pubblico nipponico, ormai sempre più attento alle perle del made in Italy enologico. Per sei ore, oltre 1200 operatori della capitale nipponica si sono avvicendati nel salone degli eventi del Ritz alla scoperta di nuove glorie enologiche e delle nuove annate delle etichette più classiche. “È, ormai, un appuntamento classico dell’autunno, questo” ci conferma Keisuke Kuroda, sommelier e patron di due eccellenti ristoranti italiani, i Kurodino di Ginza e Kagurazaka, “un’occasione importantissima per assaggiare novità e salutare i produttori con i quali già si lavora”. Lo scenario per il vino italiano qui in Giappone è roseo: negli ultimi anni siamo cresciuti moltissimo e occupiamo stabilmente il terzo posto dopo Francia (che ha oltre il 50% del mercato), ma molto vicini ad insidiare il secondo posto dei cileni con i nostri 1,43 miliardi di euro di fatturato e un incremento del 4% sull’annata precedente. “Se consideriamo la svalutazione dello yen di questi ultimi due anni”ci fanno notare all’Ice-Ita di Tokyo, la crescita reale è dell’8%”. Ma siamo all’inizio di una stagione ancora più significativa. “L’accordo Giappone-Ue con l’abbattimento delle tariffe doganali apre una stagione di scambi ancora più intensi tra i nostri due Paesi” ha dichiarato l’ambasciatore italiano Giorgio Starace nel suo intervento di apertura “Il vino sarà tra i prodotti che trarranno maggior beneficio dall’accordo: verrà a cadere la barriera del 15% che gravava su questo prodotto simbolo della cultura gastronomica italiana, e prevediamo un salto in avanti del nostro export”.

Ma l’Evento di Tokyo non è stato solo Tre Bicchieri. Nel corso della giornata il sottoscritto, insieme a Isao Miyajima, notissimo wine-expert e gourmet nonché responsabile della traduzione nipponica della guida Vini d’Italia, ha tenuto tre affollatissime masterclass, sul Custoza, sul Prosecco Doc e sui Premi Speciali della Guida 2019. “Gli appassionati Giapponesi hanno una straordinaria curiosità e grandissima passione per il vino italiano, e vogliono continui approfondimenti” ci ha detto Miyajima “La Guida è importante, ma questi eventi e le masterclass sono fondamentali”. “I mercati vanno presidiati, con presenza e promozioni” glifa eco Luca Torri, importatore e distributore di vino italiano in Giappone “e la ristorazione italiana in Giappone è forse la migliore fuori dall’Italia. Va seguita e curata”. Affollatissimo anche il banco d’assaggio del Lugana Doc che sotto l’egida del Consorzio di Tutela ha proposto in assaggio i vini di 21 aziende della denominazione.

Mangiare italiano a Tokyo

La qualità della ristorazione italiana a Tokyo si conferma tra le più alte al mondo per qualità delle materie prime e pulizia di sapori. Durante la cerimonia d’apertura, premiati i migliori indirizzi valutati nella nostra Top Italian Restaurants 2019. Il migliore wine bar di Tokyo Contadi Castaldi è Incanto, ristorante e wine bar con una carta dei vini profonda e ricercata, forte di una mescita spettacolare anche sulle etichette più importante. Tra le pizzerie spicca Napoli sta’ ca’, con Tre Spicchi, e la new entry: Pizza Bar on 38thdi Daniele Cason all’interno del Mandarin Oriental. Tra le cucine tradizionali spicca Icaro,che oltre ai Due Gamberi si aggiudica anche il premio Barilla per l’incredibile qualità delle paste realizzate. Infine le Tre Forchette, confermate quest’anno per Heinz Beck, guidato da Giuseppe Molaro, e il Ristorante Luca Fantin. Quest’ultimo, per la qualità della cura del dettaglio nel piatto e nella sala, le affumicature leggerissime, i sapori delicati e una sala magistrale nel servizio si porta a casa anche il Taste & Design Award.

World tour del Gambero Rosso in Asia

Seconda tappa: Seoul

Un tempo splendido ha accolto i produttori del Top Italian Roadshow - dodicesima edizione - giunti a Seoul l'1 novembre. Bagno di folla anche qui, con oltre 700 persone ad affollare i banchi di degustazione, dove le oltre 50 aziende presenti hanno offerto i loro prodotti in assaggio. “La scena coreana è positiva per il vino italiano”ci ha confermato Roberto Rizzo, Deputy Head of Mission dell’ambasciata italiana “ ma potremmo fare molto di più”. Il mercato, anche qui vede la Francia in testa con un terzo dell’import vinicolo, seguita a distanza ravvicinata dal solito Cile con il 20% del mercato e a poi da Usa e dall’Italia, che segue ad un’incollatura. Ma se nell’ultimo anno siamo cresciuti del 9%, gli americani hanno fatto segnare un +12%, mentre il Cile è in calo. “Si tratta di politiche di promozione“ ci racconta San Joo Choi giornalista e responsabile della didattica della Wine Academy di Seoul, collegata all’inglese Wset di cui fornisce le certificazioni “I produttori californiani sono molto presenti su questo mercato, lo visitano continuamente, e forniscono materiale didattico e vini per i corsi, che sfociano poi in diplomi specialistici e certificazioni. Tutto questo qui da noi ha grandissima importanza. E non c’è - finora – un programma specialistico di approfondimento sul vino italiano. Per gli appassionati coreani è una grave lacuna”. Verissimo, considerato il tutto esaurito alle Masterclass tenute in occasione dell’evento da Sabellico, Ruggeri e Choi ad un parterre di operatori. Tanto più che la ristorazione italiana e i wine bar dedicati al vino italiano sono in crescita rigogliosa nel paese.

Mangiare italiano a Seoul

Sono solo circa 500 gli italiani che abitano in Corea del Sud, ma la ristorazione italiana vanta numerosi esempi virtuosi nella capitale. A Seoul premiati con due spicchi Giulio Lee e la sua Spacca Napoli, tra le migliori pizze napoletane d’Asia; per la cucina tradizionale, si conferma Ciuri Ciuridi Enrico e Fiore Olivieri, il taglio regionale, in questo caso siciliano, si rivela sempre più vincente all’estero. Infine, Due Forchette a Boccalino, ristorante del Four Seasons di Seoul, che strappa anche il Surgiva Taste & Design Award per la sua sala luminosa, fatta di marmi bianchi importati, vetrate sulla skyline e una cucina di qualità ben interpretata dallo chef Ciro Petrone, già da diversi anni in Asia. Il migliore wine bar Contadi Castaldi è, invece, Casa del Vino, locale pioneristico, tra i primi in città a puntare sulla mescita e su etichette selezionate con grande conoscenza della materia tra Italia, Francia e resto del mondo.

World Tour 2018/2019 del Gambero Rosso, il Giappone

Terza tappa: Taipei

Il Top Italian Wines Roadshow ha, poi, fatto rotta su Taipei (5 novembre) per la sua quinta volta. Nei saloni dello Shangri-La Far Eastern Plaza Hotel oltre 700 invitati si sono avvicendati ai banchi di degustazione, dove hanno avuto la possibilità di interloquire con gli oltre sessanta produttori italiani presenti. Anche qui l’import vincolo parla francese. Quello del vino, nell’isola un tempo nota come Formosa è un mercato in veloce espansione. Negli ultimi sei anni ha fatto registrare un tasso di crescita costante di circa l’8% annuo, e si assesta su un fatturato di 867 milioni di dollari nel 2017, un +4% sull’anno precedente. “Stiamo recuperando terreno su competitor come Spagna, Stati Uniti, Australia e Cile, che fino a poco tempo fa ci precedevano per quantità di vino importato” ci racconta Donato Scioscioli, rappresentante del governo italiano nella RDC (l’Italia, come molti altri Paesi, non riconosce ufficialmente Taiwan e non ha ambasciata; ndr), e ci stiamo avviando a diventare la seconda realtà, anche per fatturato, dell’import enologico”. Ma la battaglia non è solo contro i francesi. Cileni, australiani e spagnoli, grazie ai prezzi contenuti, sono molto popolari. “Tuttavia, bisogna tener presenteche l'Italia è la nazione con il tasso di crescita più elevato degli ultimi anni, e quelli con l’offerta più versatile e affascinante” ci dice Alessio Carteri, che qualche anno fa ha intravisto le potenzialità di questo mercato, e ha dato vita con la moglie Charlotte Liu alla MR. 9 Import, specializzata in vini veneti ma non solo. “Qui si cresce del 10% e più l’anno, anche se la parte del leone la fanno i rossi. Valpolicella, Amarone e Recioto sono nel cuore dei taiwanesi, che però pian piano stanno scoprendo anche bianchi e spumanti, grazie ad una ristorazione italiana in grande crescita e di livello eccellente”.

Il pubblico taiwanese ha cultura e capacità di spesa, e soprattutto le giovani generazioni, figlie del boom economico, che spesso si sono formate all’estero, oggi inseguono uno stile di vita sofisticato ispirato all’occidente” ci dice Norbert Chu-chuan Yang, ministro degli Affari Esteri della Repubblica, che è intervenuto all’evento del Gambero Rosso. Taipei con i suoi tre milioni di abitanti (Taiwan ne conta 23 milioni) ha una scena gastronomica vivacissima e un numero incredibile di ristoranti di livello, dove la carta dei vini è d’obbligo. Affollatissime, come sempre le immancabili masterclass.

Mangiare italiano a Taipei

Nell’ultimo anno hanno chiuso migliaia di ristoranti nell’isola di Taiwan, ma la ristorazione italiana va in controtendenza e moltiplica le aperture. A Taipei ben 9 gli indirizzi premiati nella Top Italian Restaurants. Tra le pizzerie, valutati a Uno Spicchio, l’Antico Fornoe la new entry di Solo Pizza Napoletana. Per quanto la cucina tradizionale italiana, la più amata anche da queste parti, valutati con Un Gambero sia Di Vinoche La Mole, mentre Due Gamberi vanno alla Botega del Vine Piccola Enotecaa Zhubey City, dove abbiamo trovato ben 40 vini italiani di nicchia al bicchiere. Miglior Bar Contadi Castaldi in città è Beau Bar, locale ricercato e originale, con cocktail miscelati ad arte e vini di alto profilo. Infine, nella sezione fine dining, a Una Forchetta, fa il suo ingressoJ-Ping Caféa Taichung City e Bencottoall’interno del Mandarin Oriental di Taipei, che si aggiudica il Surgiva Taste & Design Award. Lo chef toscano Iacopo Frassi porta in tavola ricette ben rivisitate in un contesto molto elegante, cucine e cantina a vista, e un servizio a 5 stelle.

Ue e Giappone ad un passo dall'accordo commerciale. Dazi zero per i vini e protezione delle Ig

In linea con l'entusiasmo percepito durante le tre tappe asiatiche, l'accordo commerciale tra Ue e Giappone (Epa) è in dirittura d'arrivo, dopo il via libera, lo scorso 5 novembre, della Commissione “Commercio Internazionale” (Inta) del Parlamento Europeo. Si apre, quindi, l’ultima fase della procedura di approvazione, che dovrebbe concludersi con il voto in seduta plenaria previsto a dicembre.

Considerato cheil Giappone rappresenta il quinto mercato di destinazione per i vini europei, l'accordo è particolarmente sentito dal mondo vitivinicolo. La sua entrata in vigore, infatti, prevede l'abbattimento immediato dei dazi doganali (che oggi sono molto alti: 31% sugli sparkling, 15% sull’imbottigliato e19,3% sullo sfuso > 2 litri), con risparmi – secondo i calcoli dell'Unione Italiana Vino - per oltre 122 milioni di euro annui. Tra gli altri vantaggi, ci sono: l’autorizzazione a pratiche enologiche fino ad oggi non riconosciute dalla normativa giapponese; la salvaguardia delle indicazioni geografiche, con 100 vini a Dop/Igp europei che avranno lo stesso livello di protezione previsto dalla normativa europea; l’eliminazione di tutti i costi associati alla registrazione delle Ig italiane in Giappone.

Per il Ceev (Comité Européen des Entreprises Vins), la chiusura a dicembre dell'accordo è fondamentale. “In un contesto di estrema competizione mondiale” sono le parole del segretario generale Ceev Ignacio Sánchez Recarte “attendiamo con impazienza l'entrata in vigore dell'Epa per riguadagnare quote di mercato perdute”. Considerato, soprattutto, l'agguerritissima concorrenza del Cile che ha già firmato il suo accordo con il Giappone e che dal 2019 vedrà l'abbattimento totale dei dazi sul vino.

 

World Tour - www.gamberorosso.it/it/eventi-internazionali

Top Italian Restaurants - www.gamberorosso.it/restaurants

 

a cura di Marco Sabellico

 

Cantine Pellegrino a Marsala: alla scoperta della pasticceria dei conventi femminili

$
0
0

Torna l'Open Day organizzato da Cantine Pellegrino a Marsala, appuntamento fissato per domenica 11 novembre, che quest'anno ha come protagonista l'arte dolciaria dei conventi femminili siciliani. Una giornata per riscoprire il fascino di una tradizione antica. 

 

L'evento

Marsala e i suoi vigneti, la sua storia antica che si perde nella notte dei tempi. Marsala e il suo vino, quel nettare liquoroso che ha segnato nel tempo la fama del territorio, diventandone il simbolo più rappresentativo e conosciuto al mondo. Che ancora una volta torna a essere protagonista di una festa del gusto in scena il prossimo 11 novembre: è l'Open Day di Cantine Pellegrino, fra i nomi di riferimento per il panorama vitivinicolo locale, con una produzione invidiabile di vini bianchi, rossi, moscato e passito di Pantelleria, zibibbo e marsala. Un'opportunità unica per degustare le migliori etichette dell'azienda ma anche e soprattutto per rievocare l'atmosfera dei conventi di un tempo, grazie alla collaborazione con il Monastero di Santa Caterina di Palermo e l'Antica pasticceria del Convento di Erice.

 

La pasticceria dei monasteri

Tema di quest'anno, infatti, è l'arte dolciaria siciliana, ma non una qualunque: quella dei conventi femminili dell'isola, custodi di ricette storiche, vere fucine di prodotti e sapori nuovi. È proprio all'interno di conventi, infatti, che nascono la maggior parte delle specialità dolci e liquorose italiane, dal celebre centerbe a una serie di biscotti secchi golosi e saporiti. Con l'Open Day di Cantine Pellegrino si potrà consultare i ricettari del passato e ammirare gli strumenti utilizzati per la realizzazione dei pasticcini. “La tradizione dolciaria siciliana rappresenta uno dei vanti della cucina italiana”, ha commentato Maria Chiara Bellina, responsabile enoturismo e sesta generazione della famiglia Pellegrino. “Siamo davvero orgogliosi di essere la prima cantina a dedicare all'argomento un così grande evento mai aperto al pubblico”. E fare luce su quell'arte millenaria tramandata dalle monache di clausura “all'interno delle mura impenetrabili e intrise di preghiera e silenzio dei loro monasteri”.

 

Le fondamenta della pasticceria moderna

Specialità divenute parte integrante della gastronomia siciliana, da abbinare con i vini dolci di Pellegrino. I cannoli, per esempio, la cassata, le minne di Vergine, il trionfo di gola, la frutta martorana, la testa di moro... dolci che senza l'abilità delle suore non sarebbero mai arrivati ai giorni nostri. In principio donati dalle monache ai vescovi e medici per ricambiare favori ricevuti e guadagnarsi simpatie, col tempo i pasticcini iniziarono a rappresentare una fonte di reddito: nacquero così i primi laboratori dell'isola, botteghe specializzate impegnate in una preparazione di qualità sempre più alta. E non solo: è sempre nei conventi che inizia per la prima volta a emergere l'attenzione verso la forma e l'estetica, con una primordiale arte della decorazione. Glassa e frutti canditi erano fra gli ingredienti più comunemente usati per impreziosire le golose ricette, prodotti che ancora oggi rappresentano il simbolo della Sicilia più dolce.

 

Il programma

Un viaggio nel passato, quello messo in scena da Cantine Pellegrino, fra visite guidate alle storiche cantine e l'assaggio dei dolci dei conventi. Ci sarà poi anche il Calendario della Solidarietà 2019, creato dall'azienda e dedicato alla storia del marsala, il cui ricavato sarà devoluto all'Associazione Gruppi di Volontariato Vincenziano, impegnata a combattere la povertà attraverso attività specifiche strutturate presso i diversi centri. Spazio anche ai più piccoli, con le “Favole in Cantina”, scuola di pasticceria organizzata dalla libreria “L'albero delle storie” di Marsala e poi, ancora in ambito dolce, “I segreti del Convento di Santa Caterina”, con i rappresentanti della cooperativa Pulcherrima Res che presenteranno al pubblico l'attività di produzione nelle cucine del Monastero palermitano, iniziativa inserita all'interno del più ampio progetto di recupero della storia e della cultura del complesso barocco avviato nel 2017 da Padre Bucaro. E ancora racconti, assaggi, tour guidati, laboratori e seminari per ritrovare il fascino dimenticato dei sapori di una volta.

 

Open Day Cantine Pellegrino – Marsala - Lungomare Battaglia delle Egadi, 10 - www.carlopellegrino.it/

 

a cura di Michela Becchi 

 

L'IGP al Cioccolato di Modica. Le ragioni del Consorzio di Tutela

$
0
0

La replica del Consorzio di Tutela del Cioccolato di Modica, che avanza le sue ragioni sulla validità del riconoscimento ottenuto dalla specialità siciliana.

 

Ne abbiamo scritto all'indomani del riconoscimento Igp conferito al Cioccolato di Modica, che così è diventato il primo cioccolato a essere tutelato dall'Unione Europea. Era la metà di ottobre, e riprendendo le perplessità sollevate da Elisia Menduni nell'articolo scritto sul mensile di ottobre del Gambero Rosso, cercavamo di fare il punto sulla situazione, dando spazio ai festeggiamenti per il traguardo raggiunto, come ai dubbi sollevati da alcuni dei diretti interessati. Di luci e ombre, quindi,  parlavamo a proposito della vicenda. Il Consorzio di Tutela del Cioccolato di Modica, promotore dell'iter per il riconoscimento Igp, però non ci sta. E scrive per puntualizzare come stanno le cose, articolando la replica in quattro punti che vogliono “fornire una corrente ed esauriente informazione ai lettori”. Così li riportiamo, con la speranza di stimolare il dibattito.

 

1. Aromatizzazione All’art. 5 il disciplinare di produzione dell’IGP Cioccolato di Modica prevede come ingredienti obbligatori la pasta di cacao e lo zucchero anche di canna raffinato o integrale, indicandone le relative percentuali, individuate rispettivamente dal 50% al 99% e dal 50% all’1%. Il medesimo articolo del disciplinare inoltre, prevede ingredienti facoltativi, quali spezie, aromi naturali e frutta anche secca o disidratata, alcuni dei quali vengono menzionati insieme al relativo dosaggio minimo. Il disciplinare permette infine l’uso di spezie, aromi e frutta ulteriori a quelli indicati in via esemplificativa nel disciplinare, specificandone in ogni caso sempre i dosaggi minimi. Il produttore, pertanto, può impiegare liberamente spezie, aromi e frutta, ma solo nei dosaggi minimi di cui al predetto articolo del disciplinare ed in ogni caso a condizione che vengano rispettate tutte le percentuali previste degli ingredienti obbligatori. L’articolo pubblicato sul Gambero Rosso si rivela, dunque, ingannevole, allorché si sostiene che, con riferimento alle spezie “nel disciplinare prima vengono elencate a una a una con dosaggi specifici poi, poche righe oltre, viene concessa la possibilità di usare qualsiasi altra spezia e aroma naturale”. Tale dichiarazione lascia intendere una contraddittorietà interna al disciplinare che, in realtà, per i motivi sovra esposti, non sussiste.

2. Piano di controllo In data 8 settembre 2018 (ci riferiamo alla data in cui il Sig. Pierpaolo Ruta ha rilasciato la dichiarazione citata nell’articolo) il procedimento per l’ottenimento dell’IGP era ancora pendente. L’IGP diviene operativa solo a seguito dell’entrata in vigore del Regolamento 2018/1529, ovverosia dopo 20 giorni dal 15 ottobre 2018, data di pubblicazione del predetto Regolamento nella Gazzetta Europea, ovvero a partire dal 5 novembre 2018. In via anticipata, L’Organismo di Controllo nominato CSQA ha presentato al MIPAAFT il relativo piano di controllo, redatto in base ai requisiti previsti dal predetto disciplinare e nel rispetto delle disposizioni ministeriali in merito. Il MIPAAFT, a seguito di attenta disamina e del parere favorevole espresso dalla Regione Siciliana, ha quindi approvato con DM n. 15861 del 31 ottobre 2018 il piano di controllo ed autorizzato il CSQA ad effettuare i controlli di conformità della IGP Cioccolato di Modica al disciplinare, nonché dell’intera filiera. La dichiarazione del Sig. Pierpaolo Ruta riportata nell’articolo, per cui “A oggi (8 settembre 2018) l’organismo preposto, il CSQA, non ha un piano dei controlli” fornisce pertanto un quadro parziale e tendenzioso, dal momento che, per i motivi appena esposti, non era possibile a quella data avere il piano di controllo, attualmente adottato in forza del DM dello scorso 31 ottobre. Pertanto, grazie all’IGP ed al relativo piano di controllo adottato dal CSQA, come autorizzato, è garantito un controllo oggettivo ed effettivo sul prodotto e sulla filiera, preservando la qualità e la vera identità del Cioccolato di Modica.

3. Origine del cacao Il riferimento, all’interno dell’articolo, a “massa di cacao industriale, scadente, senza alcun controllo di filiera”, senza ulteriori specificazioni è di per sé volutamente screditante nei confronti del CTCM, dal momento che i produttori a livello locale, consorziati e non, si approvvigionano per l’ingrediente principale del cioccolato di Modica, ossia la pasta amara di cacao, da aziende industriali che invece autocertificano la qualità, la tracciabilità e l’eticità della materia prima, ambito cui oramai tutti gli operatori assegnano grande valore. Invero, con l’entrata in vigore dell’IGP e del relativo disciplinare, si ha una regolamentazione scritta del controllo sull’origine delle materie prime, fatta applicare dall’Organismo di Controllo CSQA.

4. Storia Come previsto dal Regolamento UE 1151/2012, la domanda di registrazione IGP deve contenere, oltre a disciplinare di produzione, relazione tecnica, relazione socio-economica e cartografia dell’area interessata alla IGP, anche una relazione storica corredata di riferimenti bibliografici. Nella relazione storica allegata alla domanda di registrazione dell’IGP Cioccolato di Modica, CTCM ha inserito più di 47 articoli di giornale, nazionali e stranieri, che ripercorrono la storia del cioccolato (fra questi: pagine dal Sud Anno V, n.5 – 1988, pagg 19/22 – Articolo di Grazia Dormiente Titolo: “Dolceria: antichi sapori della terra iblea” contenente una esclusiva intervista al proprietario della Dolceria Bonajuto, Carmelo Ruta). Nella predetta relazione, quindi, viene più volte menzionata la Dolceria Bonajuto (che peraltro compare in circa un terzo di tutta la documentazione), a riconoscimento del contributo offerto da quest’ultima a scrivere la storia del cioccolato di Modica, contributo rispettato e opportunamente incluso, dunque, anche nella relazione storica allegata alla domanda. In particolare, viene riportata la storia del Caffe Roma, “all’epoca proprietà della famiglia Bonajuto che ancora oggi a distanza di oltre cento anni, con gli eredi Ruta, tramanda la tradizione dolciaria della Contea” (Relazione storica pag 5/14). Pertanto, non è vero quanto dichiarato nell’articolo, ossia che “nel disciplinare vengono elencati meno di dieci testate, libri e articoli, dimenticando la ricca serie di articoli e volumi che parlano della Dolceria Bonajuto e del suo titolare Franco Ruta”.


Libri. Professione food writer

$
0
0

Come s’impara a scrivere di cibo e di vino? Quali sono le differenze tra scrivere sul proprio blog o per un sito aziendale? Quali sono gli strumenti e quali gli obiettivi? Un libro svela i segreti per essere un perfetto food writer.

 

Chi ama scrivere di cibo, o meglio di enogastronomia, sa bene che non esiste un manuale d’istruzioni in italiano. A colmare questo vuoto ha pensato Mariagrazia Villa, esperta di comunicazione e docente allo IUSVE (Istituto Universitario Salesiano Venezia). Professione food writer – Dario Flaccovio Editore, in libreria dal 15 novembre – è il libro che ancora mancava nel bel paese. L’intento è ancora più chiaro nel sottotitolo, “un ricettario di scrittura con esercizi sodi, strapazzati e à la coque”. Infatti, l’autrice delinea le principali regole di una buona scrittura enogastronomica e propone una quarantina di esercizi, sia creativi che logico-razionali, per imparare a raccontare cibo e vino.

L'indice, come un menu

L’indice è un vero e proprio menu con sei portate, tutte di enorme importanza. Si comincia allora con una “Crema scritta con gallette ai cinque cereali”, dove si pongono le basi e le giuste domande. Quali sono gli intenti e cosa serve a un buon food writer. Come è meglio fare i primi passi. Si passa poi alle sostanziose e saporite “Pagine rigate alla mediterranea”, dove si prendono in esame il rapporto con l’editore e i vari stili di food writing, non tralasciando nulla, nemmeno punteggiatura e ritmo. Un consiglio su tutti: “La scrittura enogastronomica applicata alla sfera editoriale deve presentare, molto più di quando viene associata ad altri ambiti, aspetti di sperimentazione, innovazione e singolarità, per non cadere in facilissimi cliché”.

È con i “Bocconcini di blog con articoli al forno” che il food writer scopre la sua vera natura. Chi è. Per chi potrebbe scrivere. In che modo lo deve fare per essere corretto col suo lettore. “Pratica il fact checking prima di pubblicare il tuo articolo o post, ossia verifica i fatti” e ancora “Racconta la verità, senza omissioni e senza esagerazioni”. Giunta l’ora della “Farinata social con claim trifolati” ci si immerge nella realtà, anche aziendale, del food writer, con consigli pratici e mirati per ottenere e comunicare le giuste informazioni, così da “mettere appetito ai consumatori”.

“Fresca misticanza di destinazioni” ci riporta all’Artusi e all’arte di saper raccontare una bella storia, con un forte legame al territorio. Consigli necessari a qualsiasi narratore di storie enogastronomiche: “condividi un po’ della tua emozione perché il pubblico entri in risonanza emotiva; sequestra i lettori e spediscili in un altro mondo; spingi i lettori a vivere, in prima persona, un’esperienza enogastronomica reale sul territorio”…e tieni sempre un'agenda con te.

Il dolce è un “Tiramisù perbene con peccato di gola”, dove si indaga a fondo il rapporto che ci deve essere fra food writing ed etica: cosa c’è dietro il cibo che mangiamo? Far pensare, o meglio ripensare, i consumatori; invitare alla responsabilità; “trasformare il lettore, che spesso è ancora un eterno e adorabile infante che pratica uno spensierato vagabond eating (mio marito a casa da solo con un frigorifero tentatore), in un individuo consapevole dell’importanza dell’atto alimentare”.

 

Il momento del caffè

Davanti al caffè – “Ti va un caffè” – si tirano le somme: qui l’autrice fa un enorme salto indietro, tornando a quelle che sono le basi della corretta comunicazione: scrivere correttamente. L’ammonimento è d’obbligo: “Come uno chef, prima di avere un taglio di capelli all’ultima moda, dovrebbe imparare a pelare una cipolla, così un food writer, prima di andare in giro a fare il fenomeno da programma televisivo, dovrebbe imparare a scrivere qual è senza l’apostrofo”.

Insomma, un libro piacevole che non impone di essere letto senza soluzione di continuità. Anzi, è bello avanzare e indietreggiare a piacimento in base alla curiosità del momento.

Le molte e divertenti illustrazioni che si trovano nel libro sono state fatte da alcuni studenti del corso di laurea in Scienze e tecniche della comunicazione grafica e multimediale allo IUSVE.

Da segnalare anche la presenza di qualche ricetta di “amici” (all’inizio di ogni capitolo) e una quarantina di divertenti esercizi pratici di scrittura, per mettere in pratica ciò che si è imparato (alla fine di ogni capitolo), che corredano un libro vivace, con uno scopo ultimo: cercare di “trovare la propria voce”.

 

Professione food writer – Mariagrazia Villa - Dario Flaccovio Editore – 312 pp. - 28 € - in libreria dal 15 novembre

 

Marco Cambiaghi

Lambrusco, il futuro è nello stile. Il vino emiliano protagonista a Roma

$
0
0

A Roma la cena-evento dedicata al lambrusco, un “Giro d’Italia” che punta a riportare questo vino nella ristorazione italiana. 

 

È un ritorno, semplicemente, quello che il lambrusco promuove nella ristorazione italiana. Un ritorno in grande stile che riparte a Roma dalla cena organizzata dal Gambero Rosso, celebrata da 5 tra i migliori cuochi italiani: Nino Rossi, Marcello e Mattia Spadone, Cristiano Tomei, Mauro Uliassi e Marianna Vitale. C’è un vento nuovo che soffia in Emilia, un vento che ha risvegliato un territorio straordinario, purtroppo fino a qui poco consapevole della sua forza. C’è stata una energia nuova che ha cominciato a esprimersi grazie ad alcuni personaggi come Massimo Bottura e Massimo Spigaroli e ha poi viaggiato sulla via Emilia per coinvolgere tutti in una stagione felice. “Siamo solo all’inizio di un fenomeno che può esplodere”, a parlare è Lorenzo Tersi, presidente della reggiana Venturini Baldini, “dobbiamo diventare una meta e lasciare il segno di un’esperienza diretta. Qui c’è tutto: paesaggio, tradizione, cucina. E gente straordinaria. Se a questo aggiungiamo  anche una “motor valley” che non ha paragoni al mondo capite che l’Emilia diventa una meta da sogno”. “Dobbiamo portare l’Emilia nel mondo e il mondo in Emilia!”, gli fa eco Alessandro Medici: Il lambrusco, e parlo del reggiano in particolare, è il compagno ideale della tradizione, ma è anche un vino versatile che con il suo equilibrio si abbina bene alla cucina di mondi lontani, penso ad esempio al piccante della cucina orientale e alle dolcezze delle salse che accompagnano il barbecue americano. Noi viaggiamo il mondo da 30 anni, ma un clima così positivo non l’avevamo mai trovato.”. E i numeri, sempre di più, confermano questa visione: crescono le produzioni di qualità e vengono premiati i vini secchi. “Lo stile è centrale, anche per noi crescono i volumi di vini dallo stile classico, ma occorre però fare informazione, ovvero legare la produzione ai contenuti. Lambrusco è un termine generico, occorre parlare dei diversi vitigni e dei territori. Scherzando si può dire che i ristoratori italiani devono diventare degli esperti di lambrusco, solo così potranno proporli ai clienti con soddisfazione.” Ride Carlo Piccinini, vicepresidente della Cantina di Carpi e Sorbara, ma in fondo interpreta un sentimento diffuso con un classico stile emiliano: si lavora sodo, sempre con il sorriso.

 

La nuova frontiera del lambrusco: la ristorazione

La ristorazione è dunque la nuova frontiera della promozione ed è giusto sentire cosa ne pensa uno dei pionieri di questa visione, Fabio Altariva, titolare con il fratello di un’azienda artigiana che lavora 10 ettari di grasparossa sulle colline di Modena, la Fattoria Moretto. “I piccoli hanno fatto da apripista, ora serve un gioco di squadra. Noi abbiamo cominciato del 1991, subito con l’idea che i nostri vini dovessero conquistare i  ristoranti. Abbiamo pagato il prezzo di uno stile lontano da quello delle produzioni “industriali”, tutto territorio e spigoli, originale per i tempi, però oggi c’è un riconoscimento che premia la nostra intransigente qualità. E resto dell’idea che il territorio debba venire sempre prima dei marchi. Un gioco di squadra appunto!”. E a proposito di gioco di squadra è doveroso parlare della cooperazione che qui firma l’80% della produzione e garantisce la filiera con valori di rispetto del territorio e radicamento. “Le cooperative sono delle comunità fortemente radicate sul territorio”, racconta Davide Frascari, presidente di Emilia Wine, cooperativa reggiana che riunisce 700 soci e vinifica l’uva prodotta da 1700 ettari di vigna. “La loro forza, ragionando sul futuro, è la possibilità di una lettura territoriale precisa che valorizzi le diversità. C’è ancora tanto da fare, ma il mercato parla chiaro, lo sfuso vale sempre di meno e aumentano le richieste di prodotti di qualità, identitari e riconoscibili. La cooperazione è chiamata a una sfida nuova, difficile e molto affascinante.

È insomma la voce di una filiera in movimento, attraversata da una voglia di crescere e confrontarsi con un mondo che è sempre più esigente. L’Emilia scalda i motori e accetta la sfida, a cominciare da quella più difficile, la ristorazione italiana.

 

a cura di Giorgio Melandri

Tendenze gastronomiche di Milano. Le più interessanti si trovano a Chinatown

$
0
0

Intorno a via Paolo Sarpi, a Milano, si estende la più importante e operosa Chinatown d’Italia. Superato il periodo della prima immigrazione, ora, a distanza di cent’anni, la comunità cinese è una delle più solide e propone una gastronomia evoluta, difficilmente reperibile altrove. Sul mensile di novembre del Gambero Rosso trovate l'approfondimento completo, qui un assaggio.

 

Via Paolo Sarpi a Milano e il reticolo di vie che la circondano sono la più importante, sorprendente e operosa Chinatown in Italia. Qui negli anni ’20, nel “Borgo degli Ortolani”, in quel che un tempo era un quartiere marginale, s’insediarono le prime comunità di migranti prevenienti da Wenzhou e dalla parte sud-orientale della provincia cinese dello Zhejiang, per aprire i primi laboratori di lavorazione di seta e pellame. A quasi cento anni di distanza tutto è profondamente cambiato: le attività, lo stile e il tenore di vita, la mentalità e le abitudini. Ma soprattutto, si sono accorciate quelle distanze, un tempo davvero immense, che esistevano tra milanesi e cinesi. Con la riqualificazione urbana del quartiere e la pedonalizzazione di via Sarpi iniziata nel 2010, l’area ha mantenuto il suo carattere commerciale ma si è evoluta in un'elegante strada pedonale, ornata di aiuole rigogliose ed alberi. Hanno aperto atelier d’arte contemporanea, studi di design, molti nuovi locali e ristoranti. E il quartiere ha iniziato a essere abitato e frequentato da personalità dello spettacolo, giornalisti e intellettuali.

Fusho: dedicato alla fusion tra sushi e tex mexFusho: dedicato alla fusion tra sushi e tex mex

Grazie alla crisi dell’ingrosso

È grazie alla crisi degli ultimi dieci anni delle attività cinesi all’ingrosso di bigiotteria, tessile, tecnologia e agli input di Expo Milano 2015 se oggi la Chinatown di Milano può essere considerata a livello nazionale la più importante fucina di nuove idee e laboratorio di sperimentazione nell’ambito della ristorazione. Qui si trova un’originalità e una varietà di offerta gastronomica cinese e orientale che non ha eguali. Questa trasformazione è stata possibile grazie ad alcune particolari condizioni economiche e ambientali. Sicuramente per una capacità d’investimento da parte della comunità cinese (grazie ai capitali accumulati negli anni precedenti), ma anche per l’input delle nuove generazioni che spingono per innovare e sperimentare strade inedite e nuovi concept, accantonando l’idea del classico ristorante cinese o sushi bar, oramai inflazionato. Inoltre, si sono moltiplicati gli studenti che dalla “Greater China” hanno scelto Milano come sede per i propri studi e master universitari e la necessità: la necessità di garantire loro un’offerta che li facesse sentire come a Shanghai o Pechino ha accelerato la crescita gastronomica. La maggior facilità di reperire ingredienti e materie prime asiatiche d’importazione (accanto a quelle prodotte con successo nelle campagne di Monza e dell’hinterland milanese) ha reso possibile la realizzazione di menù con piatti assai più vicini alla tipicità delle diverse tradizioni, rispetto a quelli di un tempo.

Ramen a mano: format dedicato al ramen, progettato da Francesco WuRamen a mano: format dedicato al ramen, progettato da Francesco Wu

Mercati e ingredienti

La stessa considerazione di cui sopra vale per i mercati e – dicevamo – i prodotti e gli ingredienti a disposizione per cuochi che nella madre patria sono abituati a mercati alimentare e food store impressionanti per la quantità e varietà di ingredienti e materie prime che offrono per le diverse tipologie di cucina. Se la loro reperibilità in Occidente è stata a lungo impresa assai ardua, oggi per fortuna, grazie alla globalizzazione dei mercati, le cose stanno cambiando. Fino al 2000 l’approvvigionamento di prodotti asiatici e cinesi passava quasi esclusivamente attraverso le centrali d’importazione olandesi, inglesi o francesi ed era gestita da colossi come Tang Frères a Parigi che da sola garantiva un flusso di circa 60mila container l’anno. Ora a questi canali si sono affiancate aziende cinesi di Prato o Milano (come Uniontrade) che importano direttamente dalla greater China molti nuovi prodotti, che vengono poi distribuiti capillarmente da piccoli e grandi asian food stores. Anche il problema del “fresco”, dell’orto frutta è stato risolto brillantemente. Nell’anno di Expo, Coldiretti Lombardia ha presentato una ricerca che dimostrava che oggi in Pianura Padana si coltivano oltre 100 prodotti agricoli sub-tropicali ad uso alimentare, molti dei quali sono già entrati nella grande distribuzione e nei mercati all’ingrosso di Milano e Brescia.

Ravioleria Sarpi: format con cui Agiè ha reinventato l'etnicoRavioleria Sarpi: format con cui Agiè ha reinventato l'etnico

Rivoluzione salata

Ciò che viene testato in zona Sarpi, se funziona, è destinato a diventare un concept innovativo, un nuovo modello di business da esportare su larga scala in altri quartieri e città italiane. E questo è vero soprattutto nel settore della ristorazione. Nel momento in cui la cucina di strada è diventata di moda a Milano, come nelle altre città, anche i cinesi si sono adeguati e pur senza recuperare la denominazione “piccole colazioni” (o xiaochi, o il dai pai dong, termine usato a Hong Kong per descrivere lo street food) hanno cominciato a sfornare ravioli (jiaozi, shuijiao, xialongbao), panini a vapore ripieni (baozi, gua bao), crepes salate (jianbing), spiedini speziati (chuanr), tigelle farcite (roujiamo), financo gli spiedini di biancospino caramellato (tanghulu). A Milano si sperimenta, poi si prova l’espansione a Bologna, a Torino, a Roma, a Firenze. E questo quartiere assume il fascino del luogo di sperimentazione gastronomica d’avanguardia. Nella Chinatown di Zona Sarpi si stanno diffondendo anche nuove gastronomie e piccoli chioschi e ristorantini specializzati in un singolo piatto (o tipologia) così come i ristoranti familiari o aziendali, dove le comunità si ritrovano nei grandi saloni per festeggiare un matrimonio, un compleanno, una nascita o un evento aziendale - anche se in questo caso si prediligono i privé - dal grande tavolo circolare.

Parigi Dolci: pasticceria cinese contemporaneaParigi Dolci: pasticceria cinese contemporanea

Non solo gastronomie e chioschi, ma anche family restaurants, pasticcerie, bubble tea shops e caffetterie, tutte realtà che vengono raccontate nel numero di novembre del Gambero Rosso.

Insomma, un tour gastronomico nella zona di via Sarpi è decisamente propedeutico a un vero e proprio viaggio in Cina e sicuramente dimostra come – quando integrazione e rispetto vengono intelligentemente praticati – l’immigrazione e la vicinanza di culture diverse possa di gran lunga arricchire i rapporti umani e quelli economici e sociali di un paese. Offrendo una incredibile varietà di eccellenti tavole dove sedersi, scoprire, imparare.

 

a cura di Vittorio Castellani (Chef Kumalé)

foto di Irene Fanizza

 

QUESTO È NULLA...

Nel numero di novembre del Gambero Rosso, un'edizione rinnovata in questi giorni in edicola, trovate l'indagine completa con il racconto dei family restaurants, delle pasticcerie cinesi contemporanee, dello strano fenomeno dei bubble tea shops e delle caffetterie orientali. Un servizio di 10 pagine che include anche un focus sull'integrazione a firma di Emilia Antonia De Vivo, i 10 luoghi e le specialità da non perdere, 3 trattorie di street food autentico, un'interessante infografica di Alessandro Naldi che mostra come è cambiato il quartiere in novant'anni e i protagonisti della nuova Chinatown.

Il numero lo potete trovare in edicola o in versione digitale, su App Store Play Store

Abbonamento qui

 

 

 

Tutto sull’aglio nero. Cos’è, storia, proprietà e ricette

$
0
0

FruttaWeb è una piattaforma online che si occupa di rivendere frutta e verdura di qualità di piccoli produttori italiani e stranieri. Nero Fermento, invece, è il nome di riferimento per il Nero di Voghiera, l'aglio di Voghiera Dop nella versione fermentata, un'eccellenza ancora poco conosciuta. Ecco di cosa si tratta. 

 

Fermentare l'aglio nero

Cosa succede se si prende un aglio bianco e lo si fa fermentare? Lo hanno scoperto i ragazzi di Nero Fermento, realtà nata dall'unione della società agricola A.I. Agricoltori in Erba, parte del Consorzio Produttori Aglio di Voghiera, e la Reliable Environmental Solutions di Ravenna, società cooperativa che opera nel campo delle energie alternative. Una startup ideata con lo scopo di promuovere una delle più gustose eccellenze italiane, l'aglio di Voghiera Dop, trasformandolo in un saporito prodotto dal gusto umami e l'odore più delicato attraverso la fermentazione. Un ingrediente certificato, fermentato con tanto di buccia, e per questo in grado di mantenere intatte le proprietà organolettiche e la morbidezza degli spicchi. Una specialità tutta da scoprire, ricca di proprietà nutraceutiche e valida alleata in cucina. Dove trovarla? Su FruttaWeb, per esempio, portale online che si occupa di rivendere ortaggi freschi in tutta Italia.

L'e-commerce della frutta

Una piattaforma nata come startup a Bologna nel 2014 per idea di Marco Biasin, e che oggi conta anche gli uffici marketing a Cesena e un magazzino a Roma. Oltre 1300 varietà di frutta e verdura, frutta esotica compresa, tuberi, radici e germogli, cereali e spezie. “Selezioniamo con cura ogni fornitore, tenendo sempre un occhio di riguardo per le coltivazioni biologiche”, spiega Edoardo Canella, digital marketing manager di FruttaWeb. “Abbiamo un catalogo ampio, controlliamo ogni produttore, che scegliamo in base alla qualità e anche alla sua dimestichezza con l'e-commerce”. Una parte della vendita, infatti, parte direttamente dal magazzino di Roma, mentre circa il 10-15% dei prodotti vengono spediti dai produttori stessi.

L'aglio nero: la fermentazione

Fiore all'occhiello dell'offerta è appunto l'aglio nero di Nero Fermento - attualmente alle prese con la fermentazione di altre liliacee del territorio, presto disponibili - un prodotto dal gusto dolce e l'odore meno pungente rispetto a quello tradizionale, incubo di tanti consumatori che spesso scelgono di rinunciarvi del tutto. Per ottenerlo, occorre fermentare i bulbi interi per 30 giorni in ambiente umido, per poi lasciarli ossidare dai 45 ai 60 giorni. Quello di Nero Fermento è prodotto esclusivamente con aglio di Voghiera Dop, con fermentazione naturale senza aggiunta di additivi, conservanti o lieviti, a temperatura controllata. Un sistema ispirato alla cultura fermentativa dell'Estremo Oriente, tipica del Giappone, della Corea e della Tailandia. Un processo lungo in cui l'aglio di Voghiera matura perdendo il suo gusto acre, risultando più digeribile e leggero: un aglio adatto a tutti, anche ai più piccoli e ai palati più delicati.

Proprietà e utilizzi in cucina

Un concentrato di umami e soprattutto un superfood, prodotto considerato più ricco di nutrienti e benefici per la salute rispetto alla media. Presenta, infatti, una quantità di fosforo doppia rispetto all'aglio bianco, e anche un elevato numero di antiossidanti, proteine e calcio. Risulta inferiore, invece, la quantità di allicina, il composto solforganico che dà vita al classico aroma intenso dell'aglio. Molteplici i suoi utilizzi in cucina: nei paesi orientali viene impiegato spesso per salse e creme di accompagnamento ai piatti di pesce, pestato e mescolato con oli e spezie. In Italia è ancora poco conosciuto al pubblico, ma molto popolare tra gli chef, che lo prediligono nei loro ristoranti e durante le maggiori manifestazioni di settore. Come abbinarlo? “Con cavolo nero, zucchine o cavolfiori”, ma anche carne di manzo oppure all'interno di polpette e hamburger. O ancora – perché no – per un buon pesto fatto in casa, ideale per chi non riesce a digerire bene l'aglio classico, senza dimenticare soffritti per i primi piatti, dalla pasta ai risotti.

Le ricette con l'aglio nero

Per cercare di capire meglio come cucinarlo, abbiamo chiesto a due chef di indicarci delle preparazioni ad hoc con l'aglio nero. Le ricette di Mattia Borroni del ristorante Alexander di Ravenna e Daniele Baruzzi dell'Insolito di Russi.

Cappelletti al baccalà con crema di aglio nero di Voghiera

Ingredienti

400 g di pasta all’uovo (sfoglia tradizionale)

200g di baccalà dissalato

2dl di latte

1dl di acqua

Sale, pepe e olio extravergine di oliva q.b.

Crema di aglio nero di Voghiera

5dl di brodo vegetale

8 spicchi di Nero di Voghiera

Per la crema di aglio nero di Voghiera

6 spicchi di aglio Nero di Voghiera

10dl di brodo vegetale

Olio extravergine d’oliva q.b.

Ammorbidite per 5-10′ gli spicchi di aglio Nero di Voghiera nel brodo vegetale caldo, dentro al bicchiere di un mixer a immersione, quindi frullateli aggiungendo a filo l’olio extra vergine di oliva fino ad ottenere un’emulsione omogenea e liscia.

Per la pasta

Inizia tirando la sfoglia secondo il metodotradizionale, lasciala riposare.
Prepara il brodo vegetale secondo la ricetta che preferisci (noi suggeriamo un brodo limpido e delicato, con carote, zucchine, porro e sedano) e ammollaglispicchidi NerodiVoghiera nel brodo caldo per 3-5’ a seconda delle dimensioni. Trascorso il tempo, togli gli spicchi, inseriscili nel bicchiere di un mixer e frullali aggiungendo a filo il brodo fino a raggiungere la consistenza desiderata, infine condisci con un filo di olio e metti il tutto da parte. Cuoci il baccalà per 20’ con acqua e latte, frullalo con il mixer a immersione aggiungendo a filo l’olio extravergine d’oliva fino a ottenere un impastospumosoe lascialo riposare. Stendi la sfoglia ricavandone i riquadri per i cappelletti, quindi farciscili con l’impasto di baccalà e chiudili. Cuoci i cappelletti in abbondante acqua salata, scolali e guarniscili con la crema di Nero diVoghiera e un ciuffo di prezzemolo.

Tagliatelle con crema di aglio Nero di Voghiera e funghi porcini

Crema di aglio Nero di Voghiera

Tagliatelle all’uovo 400 g

Funghi porcini 500gr

Prezzemolo qb

Olio extravergine d’oliva 35g

Burro 50g

Sale e pepe qb

Iniziate pulendo delicatamente i funghiporcini aiutandovi con uno spazzolino a setole morbideper rimuovere la terra e senza inumidirli troppo. Tagliate i funghi a listarelle e rosolateli in padella a fuoco vivace con olio extravergine d’oliva e un po’ di prezzemolo, quindi aggiustate di sale e pepe.

Cuocete le tagliatelle all’uovo in abbondante acqua salata, scolatele un poco aldente e saltatele in padella insieme ai funghi e il burro, togliete dal fuoco la padella quindi incorporate la cremadiaglioNerodiVoghiera e servite con un filo di olio extravergine a crudo.

www.fruttaweb.com- www.nerofermento.it

a cura di Michela Becchi

Paolo Barrale lascia la guida del Marennà. È la fine del sodalizio con Feudi di San Gregorio. Cosa c'è nel futuro?

$
0
0

Lo chef siciliano ha trovato in Irpinia una seconda casa sin dal 2004, quand'è iniziata la sua collaborazione con la nota azienda di Sorpo Serpico. E per 15 anni ha portato ai vertici la cucina del Marennà, tra le più apprezzate del Sud Italia. Ora lascia, per divergenti vedute. Ci spiega cosa si è rotto, e come vede il suo futuro. 

 

Un percorso in ascesa. I 15 anni del Marennà

15 anni. Tanto (molto) è durata la collaborazione tra Paolo Barrale e l'azienda irpina Feudi di San Gregorio. Un sodalizio lungo e proficuo, che ha avuto il merito di aprire una finestra sul mondo di una delle più celebri realtà dell'agroalimentare italiano passando per la cucina di una tavola d'autore che ha fatto della schiettezza il suo vanto. Il merito è indubbiamente della preparazione e delle capacità umane dello chef siciliano, classe 1974, che nel 2004 – dopo un periodo intenso alla Pergola di Heinz Beck – ha incrociato il suo futuro con le ambizioni dell'azienda campana, e a Sorbo Serpico si è fermato, spingendo l'asticella sempre più in là. Così il Marennà, sotto la sua guida, è diventato uno dei ristoranti più conosciuti a apprezzati del Sud Italia. A poche ore dall'annuncio che sancisce la fine di un percorso comune, Barrale è ben consapevole di quel che è stato, ma pure delle circostanze che hanno portato al suo addio: “Ringrazio l'azienda che per 15 anni mi ha dato l'opportunità di guidare una macchina così bella. Io dal canto mio penso di aver raccolto la sfida al meglio delle mie possibilità, portandola come una sinuosa Lincoln Continental. Ho sposato la causa di una realtà che non ha mai mancato gli appuntamenti importanti, specie in fase iniziale, quando abbiamo raccolto grandi soddisfazioni (la stella è arrivata per la prima volta nel 2009, le Due Forchette nel 2008, quest'anno 84/100 in Guida, ndr). E l'azienda per me è diventata una casa, con l'idea di interpretare la collaborazione ben oltre gli impegni del ristorante, valorizzando in Italia e nel mondo il brand Feudi di San Gregorio”.

L'addio di Paolo Barrale. L'importanza dei rapporti umani

Oggi però le cose sono cambiate: il 23 dicembre il ristorante chiuderà per una ristrutturazione annunciata da tempo ("Proseguiremo nel segno dell'eccellenza, rafforzando ancor di più il focus sulla tipicità e l'eccellenza delle materie prime. Il vino sarà completamente al centro del nuovo progetto al fine di offrire alla clientela un'esperienza immersiva nel nostro mondo", anticipava qualche mese fa Antonio Capaldo, presidente dell'azienda). E infatti la riapertura programmata per l'inizio del 2019 porterà con sé molte novità, non solo strutturali: “Dopo la chiusura l'azienda intende riaprire con un nuovo indirizzo di ristorazione i cui obiettivi non sono in armonia con il mio percorso professionale e non riflettono il progetto gastronomico che ci ha visti in auge per ben tre lustri”, si legge nella nota ufficiale diffusa dallo chef. Cos'è successo, dunque, dopo anni che ora Barrale descrive come “una bellissima esperienza professionale e personale”? “Mi sono reso conto che il vestito non era più adatto a me. E quando si vive da separati in casa è difficile continuare: avrei potuto andare avanti fino a dicembre, ho preferito interrompere qui. Ripeto, gli investimenti e la disponibilità non sono mai mancati, forse però è venuta meno la presenza, una pacca sulla spalla, l'idea di lavorare a un progetto comune. Ed è come se qualcosa si fosse rotto”.

 

Del resto, sui ruoli della ristorazione oggi Barrale mostra di avere le idee ben chiare: “Se dovessi scegliere di lavorare ancora in collaborazione con altri, l'importante è trovare interlocutori entusiasti, che non siano semplicemente imprenditori pronti a investire, ma persone che vogliono lavorare in comunione di intenti. Solo così la ristorazione può rivendicare la sua artigianalità: oggi c'è molto entusiasmo effimero intorno al settore, molti si improvvisano pensando si tratti di un'attività imprenditoriale come un'altra. Invece qui hai a che fare con gli uomini, costruire una squadra è difficile, bisogna avere grandi capacità aggregative. Perché tutto si basa sui rapporti, ci vuole estro, ma anche continuità. E questo è il bello del nostro mestiere”.

 

Progetti per il futuro

E ora cosa c'è nel futuro di Paolo Barrale? “Sicuramente non mi fermo, sono impegnato con corsi e lezioni di cucina, seguo qualche consulenza, ho voglia di lavorare e di seguire progetti che mi divertano. Avevo già in programma di aggiornarmi professionalmente nel periodo di chiusura del Marennà, perché non si finisce mai di imparare; lo farò, e dopo le feste partirò per una serie di stage in giro per l'Europa”. Poi c'è la ricerca, “una parte importante del mio lavoro, perché parliamo di ricerca del gusto e non di esperimenti fini a se stessi”. In particolar modo la passione per i grandi lievitati (in costante dialogo con riconosciuti lievitisti, da Gabriele Bonci a Carlo Di Cristo), che già la settimana prossima lo porterà in produzione per i primi panettoni dell'anno. “Dopo tanti anni felicemente dedicati a una causa voglio essere un po' vagabondo, non ho fretta di tracciare i prossimi obiettivi”. E invece è prontissima la risposta alla domanda più importante: “Che cucina vedi nel tuo futuro”? “Naturalmente buona. E non devo aggiungere altro”.

 

a cura di Livia Montagnoli

Viewing all 5335 articles
Browse latest View live