Quantcast
Channel: Gambero Rosso
Viewing all 5335 articles
Browse latest View live

Libri. Uova di Laurent Vallotton

$
0
0

Il poetico rapimento della forma ancestrale per antonomasia: l'uovo. Un volume fotografico racconta la collezione Werner Haller del Museo di Storia Naturale di Ginevra. Con un lirismo potente coniugato a una spinta erudita che fanno superare, d'un tratto, l'immagine domestica di uno dei cibi più semplici delle nostre tavole.

 

Oltre duecento quadrati neri di ventotto centimetri di lato, altrettante pagine su cui campeggianocentonovantacinque misteriosi oggetti tondeggianti, ellissoidali & dintorni. Nessun altro indizio, parrebbe un portolano siderale che sciorina una carrellata di pianeti immaginari. Punteggiano invece la galassia di Uova, edito dalla meneghina 5 Continents Editions delbelga-armeno Eric Ghysels.

Il libro

Il volume, covato per parecchi mesi e finalmente schiuso al pubblico cisalpino, replica la laconicità del titolo originale francese “Oeufs” coi testi di Laurent Vallotton, biologo. Il fotografo parigino Paul Starosta s'è calato nella costellazione-collezione Werner Haller che il Museo di Storia Naturale di Ginevra custodisce– trentamila esemplari da un migliaio di specie diverse (due estinte) – e ha sfiorato, ritratto e riposto un uovo dopo l’altro. Ne è poi emerso con tonnellate di giga con cui fare i conti, srotolarne la sequenza e riproporla puntigliosa.“È un lavoro che mi ha impegnato parecchio nella prima selezione, la preparazione è stata animata per un verso da fascinazione e incanto dei disegni in superficie, per un altro dalla necessità di un rigore rappresentativo e metodico”, confida. “Difficile fare il conteggio delle ore, la fase vera e propria di ripresa fotografica è durata un paio di settimane. Nessuna attrezzatura particolare, solo lenti macro 100mm e 105mm. E un flash adatto”.

Falco naumanni 

Di pregi l'opera ne ha parecchi, il più notevole è la reazione che combina l'erudizione compilativa – quasi una “vertigine della lista”, rigorosa e necessariamente parziale – con l'omaggio alla tassonomia appassionata. Ma non fine a sé, anzi: questawunderkammer ornitologica evoca tutto quanto il faut: piume, nidi e canti, scogliere e sottoboscoe orizzonti privi di terraferma. Tuorli, guano e cuticole. Senza però mostrarne alcunché: un big bang silenziosoe allitterato di volatili invisibili. Costringe così il lettore (sic), rapendolo e inchiodandolo al fuori-scala dinamico, a concentrarsi su forme e screziature del contenitore ancestraleper antonomasia. La contemplazione tuttavia seduce e inganna, troppo lirismo geometrico confonde (ed è un lusso da godersi, di esemplare in esemplare).

 

Himantopus himantopus

Tra estetica ed erudizione

Lo strano-ma-vero viene quindi imbeccato nella seconda parte del libro con le gustose didascalie in calce, nutronoil noziosimo più sanoe sfrenato: s'impara che i rapaci fanno le uova più vicine alla sfera, che il rapporto tra performance di volo e forma è tanto documentato quanto non univocamente chiarito, che il pinguino è l'unico in grado di spostarsi durantel’ininterrotta cura in piedi mentre i megapodi non le covano affatto. Che il cigno canterino è l'uccello europeo che le fa più grosse di tutti mentre quelle del fenicottero rosa esibisconoun manto gessoso compostodi sfere di carbonato di calcio simile al gore-tex. Le immagini che s’installano, indelebili, sulla retina? Le superfici lucidissime delle uova dei tinami sudamericani, il rosso ineffabile della covate di prinia, le bizzarrìe cromatiche dei cuculi, i filamenti che fasciano le uova del saltatore delle Piccole Antille, degli zigoli e delle gracule. E i capolavori, i preferiti di chi scrive, delle jacane.La linea tra geometria e biologia si scolla, aderisce all’astrazione delle forme. “È uno degli aspetti più sorprendenti di un’operazione come questa. Qualcosa di diverso e speciale anche per uno come me”. La serialità del fantastico ecologico? “Esatto, è mestiere ed è stupore”, Chiosa, ammicca e chiude Starosta. Si torna poi nel mondo reale, in volo. Oppure no, quell’universo resta lì dentro, potente e potenziale.

 

Uova - Laurent Vallotton, foto Paul Starosta - 5 Continents Editions – 240pp. - 49€

 

a cura di Federico Geremei

 

 

 


Il giro d'Italia con il Lambrusco: i ristoranti chiamano! La parola a ristoratori e sommelier

$
0
0

Il lambrusco è un vino contadino, che si alimenta di tradizione e territorio. Non per questo, però, dev'essere penalizzato. Anzi, la sua storia è il suo segreto, e la qualità produttiva in crescita gli apre le porte dei grandi ristoranti. 

 

La rivincita del Lambrusco

La Modena operosa che inventa aziende e realizza sogni, che porta nel mondo successi ad alta tecnologia, che risorge più forte di prima dopo un terremoto devastante, si è accorta in questi anni che ha per le mani una cosa straordinaria, vecchia come le storie dei contadini, arcaica e nuova insieme. È il lambrusco, un vino che non somiglia a nessun altro, e che da qualche anno sta vivendo una rinascita dopo il periodo buio degli anni ’70 e ’80 quando fu interpretato con una “ricetta”, vino industriale senza un racconto di campagna, stretto tra la lattina e un sogno internazionale tirato in milioni di copie. Eppure l’anima contadina di questo vino ha resistito nel tempo e pian piano il lambrusco è ritornato ad essere un vino che si alimenta di tradizione e territorio. Una rinascita travolgente che ha coinvolto tutti, piccoli e grandi, cooperative e privati. In tutto questo il mondo degli imbottigliatori ha perso forza e oggi i prodotti più interessanti arrivano da chi ha in mano completamente la filiera. C’è un ruolo nuovo anche per le cooperative che hanno cominciato a imbottigliare direttamente e sono in grado di competere a livelli alti in un mercato esigente.

 

L'idea di Anselmo Chiarli

Dobbiamo riportare il lambrusco nei ristoranti, deve ritornare ad essere un vino importante come lo era negli anni ‘50.”, a parlare è Anselmo Chiarli, che con il suo progetto delle tenute agricole ha scosso e stimolato questo mondo 10 anni fa, “Noi abbiamo sempre spedito tanto lambrusco, Sorbarese su tutti, prima di tutto in Italia, sui mercati importanti come Roma, Milano, Palermo, Firenze e poi all’estero, ad esempio a New York. Ricordo che mio padre aveva un rappresentante a Roma, un certo Retacchi, che vendeva da solo 70.000 bottiglie alla ristorazione e alle salumerie. Accompagnai mio padre a Roma da bambino e rimasi impressionato: tutte le trattorie avevano una bottiglia di Chiarli in vetrina.”. Sorbarese era il nome usato per il Sorbara prima della Doc, ed era usato anche nelle carte dell’ICE, dove il lambrusco era citato insieme ai pochi vini italiani esportati, come Valpolicella, Barolo, Chianti, Verdicchio, Cirò, Marsala. “È così, il lambrusco era in tutte le trattorie romane. Noi ne consumavamo tanto, era il frizzante popolare insieme alla “Romanella” un bianco dei Castelli, amato da tutti. La storia di certi vini italiani è passata dalle trattorie, non dobbiamo dimenticarlo mai!”, a parlare è Claudio Gargioli di Armando al Pantheon, una delle trattorie di culto di Roma, il re della cucina romanesca più classica.

 

Il salto di qualità

Oggi dunque il lambrusco è pronto per un salto di qualità, finalmente indirizzato su produzioni che qualche anno fa sembravano semplicemente pionieristiche. Scrive Alberto Paltrinieri a proposito della ventesima vendemmia dove produce Sorbara in purezza: “Mio padre mi ha sempre detto che il Sorbara da solo è più buono. Nella vendemmia 1998 mia moglie Barbara ed io abbiamo provato a seguire questa intuizione, iniziando così a vinificare il Sorbara senza lo storico compagno Salamino, il lambrusco scuro che gli serve da impollinatore. Era un azzardo totale perché era un’epoca in cui erano richiesti soprattutto Lambrusco strutturati, corposi, molto carichi di colore e spesso dolci. Andando contro corrente, abbiamo iniziato a produrre un Sorbara in purezza, dal colore rubino chiaro, secco e con una acidità decisa. Nasceva la prima etichetta nel mondo del Lambrusco che riportava la dicitura Sorbara in purezza. Oggi, dopo 20 anni di lavoro e sperimentazione, grazie all’aiuto di tutti i nostri collaboratori, produciamo in questo modo 8 vini diversi, tutti di grande successo nella ristorazione”. Una storia che imbarca ogni anno nuovi protagonisti, spesso piccoli artigiani che stanno alzando l’asticella della qualità di questo vino. Un fenomeno nuovo che ha radici antiche. Ne parliamo con Beppe Palmieri, direttore di sala e sommelier dell’Osteria Francescana di Modena, da sempre impegnato a proporre lambrusco: “Chi si dimentica del proprio passato è destinato al fallimento! È una provocazione, un messaggio chiaro per sottolineare l’importanza dell’appartenenza e dell’identità. Chi come me resta fedele alle sue origini, si innamora di quei tratti che segnano le persone e la vita vissuta. Amo il lambrusco, di ieri e di oggi, che ha bisogno di una voce forte e autorevole, perché nel nostro futuro proietteremo il nostro passato. È un vino che racconta il lusso della semplicità: dinamico, algido e ficcante, unico e irripetibile, versatile e gentile, autentico e godibile, tanto quanto la terra a cui appartiene e la cultura e il territorio che lo identificano. Evviva il lambrusco. Evviva l’Emilia! Evviva l’Italia!”.

 

Un'identità popolare

L’identità e le radici contadine sono infatti al centro di questa rinascita. “L’identità popolare non deve avere complessi di inferiorità. Deve volare alto, certo, ma è un immenso patrimonio, la nostra storia. Che è straordinaria. Il lambrusco in pizzeria è un’opportunità, di racconto e di abbinamento”. A parlare è Franco Pepe che in questi anni ha portato la pizza a un livello assoluto, richiesto in tutto il mondo come una star. E per capire il fenomeno del lambrusco che “ritorna al ristorante” proseguiamo con un altro intervento autorevole, quello di Sokol Ndreko, sommelier di uno dei più prestigiosi ristoranti della Versilia, il Lux Lucis di Forte dei Marmi, che vede protagonista in cucina il modenese Valentino Cassanelli. “Sono abituato ad una clientela internazionale ed esigente, che però non disdegna le scoperte e le storie italiane. Io li prendo per mano e li porto anche in Emilia, dove spesso non sono mai stati. Sono felice di far conoscere un’Italia inedita, ma sempre piena di storia. Per me il lusso è anche scoperta, è uscire dagli stereotipi, è regalare al cliente un’esperienza completamente originale.”

Anche Alberto Bettini, Patron del ristorante Amerigo, e “lambruschista” della prima ora ci racconta: “Lavoro molto con gli stranieri e capisco che il lambrusco è il vino italiano più famoso nel mondo. Oggi però possiamo proporlo con interpreti nuovi e con produzioni sempre più buone. È stato un gioco di squadra di una filiera che ha riscritto un codice contadino e ha portato questo vino nella modernità, esattamente come è stato fatto con la cucina popolare più tradizionale. Io lo propongo da anni, ma oggi con un gradimento sempre maggiore.” È un fenomeno che si alimenta anche di una grande qualità produttiva e di proposte nuove, come il metodo classico. Lo sintetizza bene Sandro Cavicchioli : “Il metodo classico è una opportunità pazzesca, che dilata i tempi del vino e ci consente di entrare anche nelle carte con rotazioni basse”.

 

La parola ai sommelier

E a proposito di carte “importanti” sentiamo Giovanni Sinesi, sommelier del ristorante Reale/Casadonna di Niko Romito: “Troppo spesso noi italiani sottovalutiamo ciò che abbiamo, come se dovessimo sempre cercare la qualità altrove e, nel caso del vino, paragonarci a prodotti-icona come lo Champagne senza valutare in maniera obiettiva le eccellenze nostrane. Il Lambrusco è un vino importantissimo nel patrimonio enologico delle bollicine, ed è giusto considerarlo e raccontarlo per quello che è: un grande vino italiano. Al Reale propongo da anni il lambrusco di Cantina della Volta e quello di Paltrinieri, due grandissimi vini di stile completamente diverso ma entrambi di grande piacevolezza, versatilità e bevibilità. Per me è una sfida continua: cerco sempre di offrire ai nostri ospiti dei prodotti “di frontiera”, che abbattono i luoghi comuni e aprono nuove prospettive di degustazione. Come uomini di sala possiamo e dobbiamo abbandonare le strade già battute in favore di una maggiore sperimentazione, soprattutto quando questo significa attingere alla nostra tradizione enologica più autentica.”. Ed è bello ascoltare i sommelier di ristoranti importanti parlare con entusiasmo del lambrusco. È il caso anche di Matteo Bernardi, sommelier de Le Calandre di Padova, che ci dice: “Il lambrusco è un aperitivo ideale con la sua eleganza e la sua freschezza, deve essere semplicemente proposto con la chiave giusta e valorizzato. Però devo dire che i pregiudizi delle volte sono i nostri: io lo uso senza problemi con gli stranieri, ma con gli italiani lo svelo solo dopo averlo servito e in genere il consenso è generale!”. Insomma, il ristorante chiama. E siamo solo all’inizio di una lunga storia.

 

Il Giro d'Italia con il Lambrusco - Roma - Sheraton Rome Hotel - il 12 novembre 2018 - Partecipa all'evento 

 

a cura di Giorgio Melandri

Libri. Uova di Paul Starosta

$
0
0

Il poetico rapimento della forma ancestrale per antonomasia: l'uovo. Un volume fotografico racconta la collezione Werner Haller del Museo di Storia Naturale di Ginevra. Con un lirismo potente coniugato a una spinta erudita che fanno superare, d'un tratto, l'immagine domestica di uno dei cibi più semplici delle nostre tavole.

 

Oltre duecento quadrati neri di ventotto centimetri di lato, altrettante pagine su cui campeggiano centonovantacinque misteriosi oggetti tondeggianti, ellissoidali & dintorni. Nessun altro indizio, parrebbe un portolano siderale che sciorina una carrellata di pianeti immaginari. Punteggiano invece la galassia di Uova, edito dalla meneghina 5 Continents Editions del belga-armeno Eric Ghysels.

Il libro

Il volume, covato per parecchi mesi e finalmente schiuso al pubblico cisalpino, replica la laconicità del titolo originale francese “Oeufs” coi testi di Laurent Vallotton, biologo. Il fotografo parigino Paul Starosta s'è calato nella costellazione-collezione Werner Haller che il Museo di Storia Naturale di Ginevra custodisce– trentamila esemplari da un migliaio di specie diverse (due estinte) – e ha sfiorato, ritratto e riposto un uovo dopo l’altro. Ne è poi emerso con tonnellate di giga con cui fare i conti, srotolarne la sequenza e riproporla puntigliosa.“È un lavoro che mi ha impegnato parecchio nella prima selezione, la preparazione è stata animata per un verso da fascinazione e incanto dei disegni in superficie, per un altro dalla necessità di un rigore rappresentativo e metodico”, confida. “Difficile fare il conteggio delle ore, la fase vera e propria di ripresa fotografica è durata un paio di settimane. Nessuna attrezzatura particolare, solo lenti macro 100mm e 105mm. E un flash adatto”.

Falco naumanni 

Di pregi l'opera ne ha parecchi, il più notevole è la reazione che combina l'erudizione compilativa – quasi una “vertigine della lista”, rigorosa e necessariamente parziale – con l'omaggio alla tassonomia appassionata. Ma non fine a sé, anzi: questa wunderkammer ornitologica evoca tutto quanto il faut: piume, nidi e canti, scogliere e sottobosco e orizzonti privi di terraferma. Tuorli, guano e cuticole. Senza però mostrarne alcunché: un big bang silenziosoe allitterato di volatili invisibili. Costringe così il lettore (sic), rapendolo e inchiodandolo al fuori-scala dinamico, a concentrarsi su forme e screziature del contenitore ancestraleper antonomasia. La contemplazione tuttavia seduce e inganna, troppo lirismo geometrico confonde (ed è un lusso da godersi, di esemplare in esemplare).

 

Himantopus himantopus

Tra estetica ed erudizione

Lo strano-ma-vero viene quindi imbeccato nella seconda parte del libro con le gustose didascalie in calce, nutronoil noziosimo più sanoe sfrenato: s'impara che i rapaci fanno le uova più vicine alla sfera, che il rapporto tra performance di volo e forma è tanto documentato quanto non univocamente chiarito, che il pinguino è l'unico in grado di spostarsi durantel’ininterrotta cura in piedi mentre i megapodi non le covano affatto. Che il cigno canterino è l'uccello europeo che le fa più grosse di tutti mentre quelle del fenicottero rosa esibisconoun manto gessoso compostodi sfere di carbonato di calcio simile al gore-tex. Le immagini che s’installano, indelebili, sulla retina? Le superfici lucidissime delle uova dei tinami sudamericani, il rosso ineffabile della covate di prinia, le bizzarrìe cromatiche dei cuculi, i filamenti che fasciano le uova del saltatore delle Piccole Antille, degli zigoli e delle gracule. E i capolavori, i preferiti di chi scrive, delle jacane.La linea tra geometria e biologia si scolla, aderisce all’astrazione delle forme. “È uno degli aspetti più sorprendenti di un’operazione come questa. Qualcosa di diverso e speciale anche per uno come me”. La serialità del fantastico ecologico? “Esatto, è mestiere ed è stupore”, Chiosa, ammicca e chiude Starosta. Si torna poi nel mondo reale, in volo. Oppure no, quell’universo resta lì dentro, potente e potenziale.

 

Uova - Laurent Vallotton, foto Paul Starosta - 5 Continents Editions – 240pp. - 49€

 

a cura di Federico Geremei

 

 

 

Caffè fatto in casa. 7 consigli per una moka (e napoletana) perfetta

$
0
0

Il caffè preparato con la moka continua a essere il preferito di molti italiani, che lo prediligono anche all'espresso del bar. Ma per ottenere una bevanda corretta non basta affidarsi alla tradizione: servono conoscenze e tecniche di base. I consigli degli esperti. 

 

Il rituale della moka

Un po' di acqua, caffè macinato, il gesto manuale ripetuto nel tempo, giorno dopo giorno, un gioco di polso in cui gli italiani sono campioni assoluti. Poi si accendono le fiamme. L'attesa trepidante, spesso accompagnata da movimenti lenti, ancora intorpiditi dal sonno, e poi finalmente il risveglio: il borbottio che accomuna tutte le case della Penisola al mattino, quel gorgoglio che evoca ricordi familiari, ambienti domestici, premure e le tante meritate pause dal lavoro o lo studio. Certo, spiegare a un italiano come si prepara una moka ad arte sembra un'impresa inverosimile: ognuno ha la sua ricetta, custodita gelosamente e tramandata di generazione in generazione. E il suo caffè di fiducia, la miscela che più si avvicina al suo gusto, i trucchi e segreti per ottenere la bevanda perfetta. Imprecisa di natura, la moka è uno strumento difficilmente ammaestrabile, eppure qualche regola – se di regola si può parlare – c'è. E, proprio come nel caso dell'espresso, non è sempre così scontata.

 

moka su fuoco

Una storia d'amore lunga 85 anni

Montagnetta di caffè, sì o no? Polvere livellata o pressata? Acqua sotto o sopra la valvola? Fiamma media o bassa? E poi le guarnizioni: ogni quanto vanno cambiate? E la caffettiera, invece? C'è chi afferma, ancora oggi, che la migliore sia quella un po' sporca di caffè vecchio, ricca di sapore e aromi ormai andati. Fare chiarezza sulla preparazione casalinga del caffè, è necessario? Sì, perché la tradizione, antica e affascinante, da preservare e rispettare con cura, non sempre è sufficiente per ottenere bevande di qualità. Emblema dello stile di vita di ogni famiglia italiana che si rispetti, la moka è stata brevettata 85 anni fa, dal famoso omino coi baffi, Alfonso Bialetti, che nel 1933 si ispirò proprio ai baffi del figlio Renato per creare quello che sarebbe diventato di lì a breve uno dei simboli più rappresentativi del made in Italy. Da allora, sono state tante le caffettiere casalinghe sviluppate dall'azienda e altre case di produzione, oggi disponibili in tante varianti: a induzione, colorate, di design. Uno strumento immancabile, che ci auguriamo possa continuare a essere presente in ogni casa, specialmente dopo le recenti notizie circa un eventuale rischio fallimento della Bialetti.

 

moka

Caffè in casa: esistono delle regole?

Il rituale, dalla nascita della macchina, è cambiato ben poco. Anzi, è rimasto ancorato a idee e convinzioni non più applicabili al mondo contemporaneo. È per questo che abbiamo deciso di chiamare a raccolta gli esperti del settore per farci spiegare come preparare in casa un'ottima moka. Che resta un metodo casalingo e impreciso, artigianale nel senso più stretto del termine, ma che può essere comunque preparato con maggiore cura. Per capire l'intero procedimento, abbiamo chiesto aiuto a Lucio Del Piccolo, collezionante di caffettiere da anni impegnato nella promozione dell'utilizzo corretto della moka, attraverso conferenze, eventi e mediante il suo blog Caffettiere e Macchine da Caffè. Per la guida che segue, ci siamo affidati alle sue parole.

I 7 passaggi per una moka a regola d'arte

- L'ACQUA: È opportuno utilizzare acqua filtrata oppure una oligominerale, perché maggiore è la concentrazione di sali disciolti nell'acqua, minore sarà la quantità di sostanze grasse buone che verranno estratte. Sulla temperatura, due scuole di pensiero: a temperatura ambiente, come sostiene Lucio, o calda, come invece affermano altri professionisti del settore, compreso Alberto Polojac, campione italiano di moka e importatore di caffè crudo. A ogni modo, ciò che conta è la “pulizia” dell'acqua, ovvero la minor quantità di cloro possibile.

- Il LIVELLO DELL'ACQUA: Per quanto riguarda la quantità, è bene tenersi al livello della valvola della parte inferiore. Un livello che si può talvolta ridurre, ma mai superare. La valvola serve per sfiatare vapore: se la si copre con l'acqua, verrà otturata e farà fuoriuscire solamente acqua.

- LA MACINATURA: Non ci stancheremo mai di ribadirlo: a prescindere dall'estrazione scelta, che sia una “semplice” moka, una napoletana o un caffè filtro, i chicchi vanno macinati al momento. Dopo circa 15 minuti dalla macinazione, infatti, il prodotto ha già perso circa il 65% degli aromi.

- IL CAFFÈ: La miscela più classica e in voga in Italia, che varia a seconda delle zone, è la 30/70, con un 30% robusta e un 70% arabica. Ma una buona tazzina si può preparare (ed è consigliabile provare) anche con una singola origine o una miscela 100% arabica.

- LA QUANTITÀDI CAFFÈ: Eccoci giunti, dunque, all'annoso quesito: montagnetta sì, montagnetta no? La risposta univoca è: no! Innanzitutto perché, nel momento in cui si avvita la caffetteria, la polvere va a depositarsi sui bordi e finisce sulla guarnizione: senza un'ottima tenuta tra le due parti, il caffè viene estratto male. E poi, per via della brew ratio, ovvero il rapporto tra acqua e caffè, che solitamente – per una moka da tre – è di 1 a 10. Quindi, circa 15 grammi per 150 millilitri di acqua. Se si aumenta la quantità di polvere, alcuni dei composti solubili - quelli più amari e sgradevoli che altrimenti perderemmo - vanno a finire in tazza.

- IL GORGOGLIO: Un po' di pazienza e finalmente inizia a borbottare, avvisandoci che l'estrazione è completa. Già, perché nel momento in cui il gorgoglio comincia, il nostro caffè si sta già rovinando, e quell'intrigante insieme di aromi che comincia a spargersi per casa non è altro che un amalgama di profumi che perderemo nella nostra tazzina. L'ideale, quindi, è interrompere l'estrazione un po' prima del gorgoglio, quando la bevanda arriva a circa tre quarti del bricco, in modo da trattenere la maggior parte degli aromi.

- LA FIAMMA: Per la preparazione della moka è ideale una fiamma media. Una volta spenta la fiamma prima del gorgoglio, si toglie la caffettiera dal piano cottura, per bloccare completamente l'estrazione.

Per capire nel dettaglio i vari passaggi, abbiamo chiesto una dimostrazione pratica a Tarik Chegdane, barista di Faro – Luminari del Caffè, caffetteria romana specializzata negli specialty coffee che da un anno a questa parte ha portato una ventata d'aria nuova nella scena caffeicola romana.

 

E dopo qualche minuto...

 

Moka pronta

Il caffè è pronto per essere servito e gustato. 

La tecnica del “letto bagnato”

Per ottenere una bevanda quanto più precisa possibile, Lucio ha inventato poi una tecnica speciale, quella del “letto bagnato”, pensata per contrastare la temperatura troppo elevata che la bevanda raggiunge al momento del gorgoglio, “circa 100 gradi, mentre quella ideale si aggira attorno ai 92/93°C”. Il procedimento è semplice: basta rimuovere un po' di acqua dalla caldaia e, una volta inserito il caffè nel filtro, versarla sopra la polvere, “in modo che la temperatura si abbassi di almeno 6/7°C”. E poi procedere normalmente con l'estrazione.

 

moka caffè

La manutenzione

Come ogni strumento, la caffettiera va trattata con cura, lavata e tenuta in ottimo stato. A cominciare da un controllo costante della guarnizione, “che deve essere morbida ed elastica”, meglio se in silicone, “più durevole rispetto alla gomma, e anche più facile da avvitare”, e che va sostituita nel momento in cui inizia a seccarsi, “dopo circa 4 anni per quella in silicone, 2 per la gomma”. E la macchinetta, invece? “Quella in acciaio non si cambia mai. In alluminio, raramente. L'importante è trattare bene la macchina, pulirla dopo ogni estrazione”. Nonostante negli anni abbia attecchito sempre di più la teoria della moka “consumata” (e per consumata, in questo caso, si intende sporca), la verità sulla manutenzione è ben diversa: è buona norma, infatti, “lavare la macchinetta con l'acqua (e mai col sapone!) e poi strofinarla con della carta da cucina quando è ancora umida”. Soprattutto il filtro e la cuccuma – la parte superiore – che sono gli elementi in cui si depositano la maggior parte delle sostanze grasse del caffè, “quelle che una volta asciutte, irrancidiranno, andando a rovinare la nostra moka”.

Moka da professionisti

Per chi volesse tentare tecniche più specifiche, infine, i consigli di Alberto Polojac, che per la prima edizione della competizione Professional Moka Challenge, ha utilizzato un monorigine Etiopia Sidamo, “ma si può davvero preparare con qualsiasi tipo di caffè, a patto che sia buono. Non esistono prodotti più o meno adatti, ma solo chicchi di qualità estratti bene”. Per la sua estrazione, ha utilizzato un 10% di acqua – 30 grammi per 300 millilitri – e un bypass di 20 grammi della stessa acqua usata per l'estrazione. Ma cosa si intende con questo termine? “Si inserisce l'acqua nel bricco contenitore, perché la bevanda preparata in questo modo – ovvero bloccando l'estrazione prima del gorgoglio – risulta più densa, e ha quindi bisogno di una componente liquida aggiuntiva”.

 

napoletana

Napoletana, il drip casalingo

Non solo moka, però: sono tanti gli italiani che scelgono di ricorrere alla napoletana, altro strumento domestico che funziona in modo completamente diverso. Si tratta di una caffettiera composta da un serbatoio d'acqua, un contenitore di caffè, un filtro, un serbatoio per la bevanda e il coperchio: quando l'acqua arriva a ebollizione, il vapore fuoriesce dal foro del serbatoio d'acqua e la caffettiera viene capovolta. In questo modo, l'acqua passa attraverso il caffè e viene raccolta nell'apposito contenitore. Proprio nello stesso modo del drip, il caffè filtro, metodo che prevede l'estrazione del caffè attraverso il passaggio dell'acqua calda per la polvere. “La napoletana è il perfetto drip casalingo”, spiega Alberto, “ancora una volta serve acqua calda e una proporzione classica da filtro, di circa 60 grammi di caffè per litro”. E non finisce qui: “La fuoriuscita di vapore dal forellino ci avvisa che siamo arrivati a una temperatura di 100 gradi”, aggiunge Lucio, “in quel momento, basta aspettare un paio di minuti per far abbassare la temperatura e poi girare sottosopra la caffettiera, così che l'acqua possa scendere e attraversare lentamente il caffè macinato”.

a cura di Michela Becchi

Contrastare lo spopolamento dei piccoli centri. Ecco le proposte del mondo del vino

$
0
0

Grandi centri vitivinicoli, ma piccoli centri abitati. Un binomio diffuso che va preservato. Come? Ecco cosa propongono le Città del Vino e come si sono organizzati alcuni comuni italiani. Le case history di Montalcino, Morro d'Alba, Guardia Sanframondi e Chambave

Dall’ultimo censimento Istat a oggi, secondo una ricerca dell'Anci-Associazione nazionale dei comuni italiani, negli ultimi sei anni sono andate via dai piccoli Comuni (al di sotto dei 5mila abitanti) quasi 74mila persone. Lo spopolamento è un fenomeno da cui quasi nessuna area agricola può dirsi immune e anche le più prestigiose e conosciute, come i Comuni della Val d'Orcia patrimonio Unesco, ne soffrono o resistono con fatica. L'invecchiamento della popolazione, il calo demografico e la fuga verso le grandi città, dove ci sono più servizi e maggiori opportunità di lavoro, è difficile da contrastare ma non impossibile. Anche perché l'appetibilità turistica dei borghi, cioè del 69,8% dei Comuni italiani, continua ad aumentare secondo un'indagine del Centro studi turistici di Firenze e della Confesercenti.

Nel 2017, i 22 milioni di arrivi e i 95 milioni di presenze (vale a dire il numero degli arrivi moltiplicati per i giorni di permanenza) segnano rispettivamente +19,5% e +9,6%, rispetto al periodo 2010-2017. Si tratta di una mole imponente, metà italiani e metà stranieri, richiamati da cultura, natura, enogastronomia, varie forme di trekking.

 

Punti critici

Serve uno scatto in avanti nella qualità della relazione tra cittadini-utenti, operatori e servizi sanitari, soprattutto per i più anziani. È questo l'appello-proposta firmato da Anp (Associazioni pensionati) e Cia (Confederazione italiana agricoltori) e illustrata a Roma, nel corso del convegno “Sanità e servizi sociali nelle aree rurali”. "A oggi" ricorda l'Anp "circa sette milioni di italiani si indebitano per pagare cure e servizi sanitari. Nelle zone rurali, poi, bisogna superare una doppia difficoltà che coinvolge, non solo i servizi, ma anche le infrastrutture. Per questo è necessario costruire una rete assistenziale tra Ospedali, servizi distrettuali come Case della Salute e Poliambulatori e medici di famiglia, con il coinvolgimento delle associazioni presenti nella comunità locale”. Sottolinea il presidente nazionale Cia, Dino Scanavino “Serve ridare alle aree interne la dignità che meritano, non solo dal punto di vista dei servizi socio-sanitari, ma anche a livello di opportunità, di accesso alle nuove tecnologie, di mobilità".

 

Esperienze esemplari: i monelli dell’arte e il Museo del vino di Donnas

Dal 2016 il Museo della Vite e della Viticoltura di Donnas è affidato alla gestione dell'associazione "I monelli dell'arte", che ha come missione l'inclusione e l'integrazione nella vita sociale di ragazze e ragazzi diversamente abili. I visitatori hanno l'opportunità di essere accompagnati nel museo da guide ormai esperte che spiegano la storia, gli attrezzi e tutto quanto riguarda la cultura materiale della produzione del vino di Donnas. L'esperienza, grazie alla sensibilità degli amministratori del Comune e delle famiglie, che a turno seguono i propri figli e fratelli, è stata giudicata ampiamente positiva e poi proseguita anche successivamente. Il Museo è ubicato nelle cantine dell'asilo Anna Caterina Selve, fatto erigere in onore della madre dal commendatore Federico Selve a beneficio della popolazione di Donnas. I locali hanno ospitato dal 1971 al 1976 la sede delle Caves Coopératives de Donnas. Ristrutturate nel 2003 dal Comune di Donnas, oggi ospitano il Museo.

Museo del Vino e della Viticoltura - Donnas - via Roma 97 – 0125 807096 | www.donnasvini.it/museo.php

 

La proposta delle Città del Vino

In questo quadro, il ruolo propositivo delle 480 città che fanno parte della Associazione nazionale delle Città del Vino (CdV), è importante e diversificato in base alle specificità dei territori. Nella recente Convention d'autunno, svolta in Sardegna, le CdV hanno ripreso il tema delle detassazione delle pensioni e delle agevolazioni fiscali (riduzioni della tassazione sui rifiuti e delle imposte sugli immobili) per chi decide di trasferirsi nelle aree a rischio spopolamento, soprattutto di Sicilia, Calabria, Molise, Basilicata e Sardegna.

"Noi abbiamo tante case abbandonate in centro storico che potrebbero interessare nuovi residenti italiani e stranieri" ha detto Giovanni Antonio Sechi, vicesindaco di Usini (Sassari) "Il nostro Comune si impegnerebbe con la Regione Sardegna per preparare bandi finalizzati al recupero del centro storico a fini abitativi e per sensibilizzare i proprietari verso un mercato degli affitti equo e calmierato”. Aggiunge il suo collega del Comune di Sorso (SS), Giuseppe Morghen, coordinatore regionale delle Città del Vino della Sardegna: "Pensiamo che le agevolazioni fiscali per gli anziani che decidono di venire a vivere nelle aree interne sia una buona idea e un significativo aiuto per i nostri territori, che oggi soffrono anche a casa dell’abbandono e dell’emigrazione”. Floriano Zambon, nuovamente eletto presidente dell'Associazione nazionale delle Città del Vino, invitando il governo a riflettere sull’idea della defiscalizzazione delle pensioni, segnala anche altre possibilità, quali "l'utilità degli strumenti urbanistici (piani regolatori), la riscoperta e la valorizzazione dei territori con l'enoturismo e il favorire la nuova tendenza del ritorno alla terra dei giovani. Il vino continua a essere un naturale aggregatore che, nonostante tutto, continua a svolgere questa funzione ma è necessario fare alleanze con altri prodotti dell'agroalimentare, con l'obiettivo di mantenere saldo il legame delle persone con i territori".

 

L'esempio di Guardia Sanframondi

Quello degli incentivi è sicuramente una possibilità anche se a decretare il successo del Comune beneventano di Guardia Sanframondi - che insieme ad altri 4 municipi del Sannio (Castelvenere, Sant’Agata dei Goti, Solopaca e Torrecuso) diventerà la “Città del Vino Europea 2019”, dopo Marsala e la zona del Prosecco Superiore – è stato altro. All'inizio solo qualche straniero isolato, che ha scoperto il bel centro storico antico, il panorama sui vigneti, il prezzo conveniente delle case. Poi il passa parola e il tam tam su Internet, ha fatto il resto. Ora in un paese di 5mila abitanti, sono quasi 350 i nuovi arrivati da Scozia, Regno Unito, Germania, Usa, Canada, Nuova Zelanda e altri Paesi, dei quali almeno 200 hanno acquistato casa. Così, nel 2017, la città ha potuto contare su 56 residenti in più, completamente integrati nel contesto locale. Tra di loro, pittori, scultori, grafici, artisti, che qui hanno trovato un posto bello, accogliente e tranquillo.

A tutti i nuovi arrivati" ciracconta il Sindaco di Guardia Floriano Panza "mettiamo a disposizione un ufficio stranieri in lingua inglese per un primo orientamento sul territorio e su ogni aspetto del quotidiano: dal permesso di soggiorno alla richiesta di residenza o cittadinanza". Il risultato? "Grazie agli stranieri venuti a vivere qui" continua il sindaco"il nostro Comune in pochi anni si è rivitalizzato, socialmente ed economicamente. La loro presenza ci ha portato anche a migliorare i servizi di connessione a Internet. Oggi si può navigare liberamente in tutto il Comune ed entro dicembre sarà disponibile una banda ultra larga che consentirà di navigare a 1 Giga in download in 3mila case e in 10 edifici pubblici”.

E ora, le terre del Sannio Falanghina con i Comuni di Guardia Sanframondi, Castelvenere, Sant’Agata dei Goti, Solopaca e Torrecuso sono al lavoro per condividere il regolamento intercomunale di Polizia Rurale, discutere i Piani urbanistici comunali (Puc), interagire con il Sannio Consorzio Tutela Vini e con le scuole (d'arte, alberghiere, agrarie, ecc.) distribuite nel territorio. Obiettivo, migliorare la vivibilità del territorio, contrastare la tendenza all'abbandono, incrementare la capacità di attrazione.

 

Il progetto di Chambave

A una latitudine molto più a nord, il comune di Chambave (Aosta) e altri limitrofi, stanno portando avanti progetti per recuperare sia i vecchi vigneti sia i muretti secco che caratterizzano il paesaggio locale. Stefano Carletto, coordinatore delle Città del Vino valdostane, sostiene che "Il grosso dell'attività è di concerto con i partner, Cervim e Regione Valle d'Aosta, con cui ci muoviamo per incentivare i viticoltori e soprattutto le nuove generazioni, per il mantenimento dei vigneti, con l'obiettivo di rafforzare il legame con il territorio". Non solo. Per farlo il progetto prevede anche la nascita di un Centro per la promozione dei prodotti locali dove, spiega Carletto"si può fare didattica e tramandare ai giovani le attività tradizionali: da quelle casearie alla filiera dei cereali e della segale, alla produzione del pane, mettendone in luce anche le potenzialità economiche. Da qualche anno, poi, abbiamo riportato alla luce la tradizione valligiana dello zafferano e ora siamo una decina di coltivatori sparsi per la Regione. La continuazione di queste forme di agricoltura eroica riaffermano la nostra identità storica e sociale, rinsaldano il rapporto tra il territorio e la comunità".

 

Il rilancio di Morro d'Alba

La storia recente di Morro d'Alba - poco meno di 2.000 abitanti - nasce dal rifiuto, a seguito di un referendum svolto nel 2017, di unificarsi con il Comune di Senigallia. Secondo Alessandra Boldreghini, assessore alle Attività produttive, turismo, cultura e forme associative: "Gli effetti dell'unificazione sui vini Lacrima di Morro d'Alba e Verdicchio, sarebbero stati negativi e avrebbero influito sulla possibilità di rimanere nella zona Classica di produzione". Le azioni attuali sono incentrate sulla affermazione dell'identità locale, dal rilancio del territorio come meta turistica, alla promozione dei vini e delle attività enoturistiche collegate, a partire da un censimento dell'esistente. "Stiamo cercando di creare le condizioni" precisa Boldreghini "per destagionalizzare l'offerta: dall'ingresso nei Borghi più belli d'Italia a una proposta turistica di tipo esperienziale (eventi, trekking, colorare la lana, degustazione nelle aziende, mostre mercato, accoglienza dei camperisti, b&b). Tutte attività per supportare le attività produttive e di accoglienza di Morro". Lo spopolamento si combatte anche così.

 

La case history Montalcino

Storia opposta – rispetto a quella di Morro d'Alba - per Montalcino, patria del Brunello (per un amplissimo servizio trovare in edicola il nostro mensile di novembre, con tanto di copertina dedicata). Qua, infatti, l'unificazione con il Comune di San Giovanni d'Asso, terra del tartufo bianco, è passata a larghissima maggioranza. E il sindaco Silvio Franceschelli ha promosso, insieme agli imprenditori locali, la nascita del Distretto Rurale di Montalcino, il marchio d'eccellenza Montalcino e ora la Scuola laboratorio di arti e mestieri legati all'agroalimentare (norcini, casari, macellai, ecc.), che sorgerà a San Giovanni d'Asso. Il territorio ilcinese, ricco di prodotti di eccellenza, dal Brunello di Montalcino (2100 ettari) ai tartufi, dai salumi ai formaggi pecorini, dall'olio extravergine (sono 995 gli ettari di oliveto) allo zafferano, dal miele (è il primo comune per produzione in Italia) al farro (il 70% della produzione nazionale nasce qui) ai cereali e altro ancora.La particolarità, diversamente da altre località, è che buona parte della produzione, trasformazione e confezionamento, avvengono in loco. Grazie alla scuola sarà possibile tramandare dei mestieri in grado di dare continuità alle attività, altrimenti destinate a scomparire, proprio per mancanza di personale specializzato: un grave danno per la cultura materiale locale e una perdita di valore aggiunto per aziende e comunità. Alle attività, oltre al Comune, al Consorzio di tutela del Brunello, all'Associazione degli apicoltori Asga, all'Associazione tartufai, partecipa anche la Fondazione Territoriale Brunello di Montalcino, l'ente benefico nato con l'idea di promuovere i beni artistici e culturali del territorio, il turismo, il sociale e l’integrazione. "Le nostre eccellenze sono diffuse in un ampio areale e hanno bisogno di essere messe in rete" dice Franceschelli "ma non basta. L'agricoltura può essere redditizia se si creano dei professionisti della qualità che creano valore aggiunto come succede nel caso del vino. È l'unico modo per contrastare lo spopolamento e impedire lo stravolgimento degli equilibri sociali del nostro territorio".

 

 

a cura di Andrea Gabbrielli

 

Questo articolo è uscito sul nostro settimanale Tre Bicchieri del 31 ottobre

Abbonati anche tu se sei interessato ai temi legali, istituzionali, economici attorno al vino. È gratis, basta cliccare qui

La Barbie pizzaiola che si ispira a Sorbillo. Se il mestiere della pizza diventa un sogno da inseguire

$
0
0

Sono diversi i modelli che Mattel si prefigge di raccontare alle bambine di oggi, incoraggiandole a realizzare i propri sogni nel cassetto. Non solo astronaute o artiste, ma anche chef e pizzaiole. E per il lancio di Barbie pizzaiola la casa statunitense si allea con Gino Sorbillo. E sua figlia Ludovica. 

 

Nel 2019 saranno 60 anni. Eppure la Barbie di Mattel non sembra disposta a invecchiare. La bambola più conosciuta nel mondo ha accompagnato generazioni di bambine che ne hanno fatto un alter ego dei propri sogni nel cassetto. E la casa statunitense produttrice di molti giocattoli di successo ha saputo intercettare cambiamenti generazionali e nuove aspirazioni, suggerendo pure modelli positivi attraverso il lancio di nuove linee come quella dedicata alle “ispirational women”, come le chiamano in casa Mattel: donne carismatiche del presente e del passato che hanno cambiato le carte in tavola, esploratrici, reporter, artiste, scienziate, persino una chef (la francese Helene Darroze)... Una serie nutrita di Barbie Shero disponibili sul mercato dalla primavera scorsa. L'11 ottobre, in occasione della Giornata Internazionale delle Bambine e delle Ragazze, è arrivata anche la Barbie ispirata da Samantha Cristoforetti, un'idea in più per sollecitare le bambine a essere consapevoli di poter raggiungere qualunque traguardo desiderino per il loro futuro.

 

La Barbie che fa la pizza

Ma tra gli investimenti di Mattel c'è spazio anche per promuovere Barbie Pizzeria, uno dei set dedicati ai mestieri che scommette sulla popolarità della pizza e fornisce alle bambine tutto il necessario per “impastare”, condire e cuocere una pizza perfetta (in pasta da modellare!). Il prodotto è stato lanciato all'inizio del 2018, in scia al rinnovato interesse per l'arte dei pizzaiuoli napoletani, inclusa nel patrimonio immateriale dell'umanità tutelato dall'Unesco alla fine del 2017. Ora però Mattel arruola un testimonial d'eccezione per mettere a punto un'operazione di marketing ancor più legata al mondo della pizzeria italiana. E bussa alla porta di Gino Sorbillo, ambasciatore della pizza napoletana in Italia e nel mondo – a New York le sue insegne continuano a macinare numeri – che l'8 novembre ospiterà a Milano, negli spazi di Pizza Gourmand, una serata dedicata alla Barbie pizzaiola, coinvolgendo direttamente la giovanissima pizzaiola in erba di casa Sorbillo, sua figlia Ludovica (così la identificano i creativi di Mattel, “futura pizzaiola in erba”). “Perché quando una bambina gioca con Barbie può essere tutto ciò che desidera” recita il claim che promuove l'evento, non andando poi tanto lontano dalla realtà, considerando quante brave pizzaiole donne – da Marzia Buzzanca a Isabella de Cham, alla pizza star Teresa Iorio – siano riuscite a farsi strada in un mestiere considerato appannaggio maschile fino a qualche anno fa.

 

Due le considerazioni da fare. Quanto il mestiere del pizzaiolo stia diventando un modello aspirazionale di ampio respiro (nel grande calderone della cucina che sembra non essere disposta a cedere i riflettori che ormai ne illuminano ogni aspetto) e come la pizza sia ormai un fatto di stile, qualora ci fosse ancora bisogna di sottolinearlo. Basti pensare al successo mediatico del museo della pizza di New York, chiacchieratissimo esperimento americano per raccontare, in modo goliardico, come la pizza sia diventata un fenomeno di costume che travalica campanilismi e storie di genere. Anche Mattel sembra averlo intuito. Quante bambine, d'ora in poi, cresceranno sognando di fare la pizzaiola?

L'Italia che piace alla Gault & Millau. È italiano lo chef dell'anno del Lussemburgo: chi è Roberto Fani

$
0
0

Nel suo ristorante di Roeser, Roberto Fani propone una cucina italiana senza compromessi. Una sfida vinta con i lussemburghesi e le guide gastronomiche, che lo eleggono tra le migliori cucine del Paese. E intanto anche in Francia si fa strada un altro italiano di talento: Marco Viganò. 

 

Da Terni al Lussemburgo

Roberto Fani è nato a Terni, nel 2014 è arrivato in Lussemburgo, dove ha messo radici. E da qualche giorno la gente lo ferma per strada per scattare una foto insieme. Potenza mediatica delle guide gastronomiche in un paese che conta circa 400mila abitanti nella sua città di riferimento, e tanti piccoli agglomerati - “qui le chiamano città, ma sono l'equivalente dei nostri paesi” - tutt'intorno. Roberto è uno chef d'esperienza, il suo bagaglio l'ha costruito in Italia in molti anni d'attività, “a 20 anni mi sono lanciato a capofitto nella prima esperienza seria della mia carriera”, quel Monte del Grano 1696 a Guadamello di Narni che oggi non esiste più, ma all'epoca ottenne anche la stella. Poi tante consulenze per cucine importanti, le prime esperienze all'estero, la costruzione di una squadra fidata capace di perfezionare un format di ristorazione italiana destinato a piacere senza scendere a compromessi. Così, alla fine del 2014, è arrivato per la prima volta in Lussemburgo, per seguire l'apertura di un ristorante italiano. Esperimento riuscito, che insieme ad altre variabili non trascurabili l'ha spinto a tornare in prima linea, con un progetto che portasse il suo nome, sin dall'insegna: “Mi sono subito reso conto che la cucina italiana, in Lussemburgo, è molto apprezzata. E reperire gli ingredienti giusti non era poi così complicato. La squadra già l'avevo, tutti professionisti italiani cresciuti con me, in sala potevo contare sull'esperienza di mia moglie... Soprattutto disporre di persone che conoscessero bene la nostra tradizione gastronomica mi ha convinto a provare. Così, nel 2016, abbiamo aperto Fani, a Roeser, piccolo borgo a una decina di chilometri dalla città”.

Fani a Roeser

Tanta ambizione e voglia di fare, obiettivi ben chiari all'orizzonte - “raggiungere un riconoscimento importante nei primi tre anni di attività” - mai tali da immaginare un futuro prossimo così luminoso. E invece a due anni dall'esordio, conquistata la prima stella nel giro di un anno e appena insignito del titolo di cuoco dell'anno 2019 dalla guida che Gault&Millau dedica al Lussemburgo, Roberto quasi si schernisce davanti all'interesse che la stampa sta dimostrando per lui e il suo progetto, pur consapevole di quanto lavoro ci sia dietro al suo ristorante. In cucina sono in 7, in sala, con sua moglie, lavorano 5 persone per servire 30 coperti. Solo il sommelier è francese, “ma in due anni con noi ha imparato l'italiano e per i vini del nostro Paese ha una grande passione”. Non potrebbe essere altrimenti, considerata la carta che si trova a gestire: circa 500 etichette per la maggior parte italiane, più una decina di proposte francesi e del Lussemburgo, oltre agli champagne di rito: “Ai lussemburghesi piace bere italiano, vengono qui per questo; ma è bene fargli trovare qualche etichetta del posto, li inorgoglisce, anche se poi non la scelgono. Le bollicine francesi sono di rigore, serviamo soprattutto clientela locale, ma anche una buona percentuale di francesi, tedeschi, belgi, e italiani che arrivano qui per lavoro. In Lussemburgo è così, si lavora e si mangia, il ristorante diventa un punto di riferimento in cui si parlano tante lingue insieme”.

Cucina italiana senza compromessi

Quel che resta un punto saldo è l'italianità della cucina, “probabilmente il motivo per cui siamo stati premiati, non ci piace scendere a compromessi, qui la nostra cucina piace quando è adattata al gusto locale, noi invece amiamo raccontare la nostra autenticità”. Che significa, per esempio, fare un lavoro sulla pasta che ha richiesto tempo per essere accettato: “La prima settimana d'apertura abbiamo esordito con paccheri di Gragnano, obbligati a proporre diverse cotture, come per la carne: al dente, media, ben cotta. Ho scelto subito di toglierla dal menu, optando per la pasta fresca, perché quella può avere una sola cottura. Quando finalmente hanno imparato a fidarsi abbiamo rimesso in carta anche la pasta secca”. Il menu prende le mosse dai classici - “carbonara e tiramisù non possono mancare, anche se proposti a modo nostro” - ma l'impostazione è decisamente creativa e moderna. Il 90% dei prodotti arriva dall'Italia, “in 24 ore sono qui, tartufi compresi”. Solo per la carne Roberto sceglie la qualità della Limousine allevata in Lussemburgo, “mentre il maiale, che qui consumano pochissimo, è italiano, specie Mora romagnola”. Qualche difficoltà in più per il pesce, “solo un anno fa ho trovato un fornitore che tratta pescato del Mediterraneo, altrimenti qui arriva solo pesce dall'Atlantico”. Insomma la cura per il dettaglio è spinta al massimo, spesso la cucina propone fuori carta “molto graditi dai clienti locali, che continuano a considerare il piatto del giorno sinonimo di freschezza”. E Roberto, con la sua famiglia, in Lussemburgo ha trovato una seconda casa, soddisfazione professionale e una vita serena. Anche adesso che è diventato una star, con i piedi per terra: “Il clamore delle guide in una Paese come questo è alto. Poco più di una decina di insegne hanno preso la stella, i riconoscimenti conferiti dalla Gault&Millau passano al telegiornale. In Italia sarebbe molto diverso, ma anche questo fa parte del gioco. L'importante è continuare a lavorare bene, siamo molto felici”.

 

Marco Viganò a Roanne

Che l'Italia vada forte nei Paesi francofoni lo conferma pure un altro riconoscimento arrivato dalla guida gialla dell'editore che si spartisce il campo con la Michelin. E stavolta si gioca sul territorio francese: a Marco Viganò, chef patron del ristorante stellato Aux Anges di Roanne, l'edizione 2019 della Gault&Millau Francia attribuisce un posto tra i “grandi di domani”, categoria riservata alle insegne in grande ascesa tra i confini nazionali. Lui, originario di Pontevecchio, piccola frazione dell'hinterland milanese, è stato al fianco di Lopriore negli anni di Erbusco (da Gualtiero Marchesi), e a Roanne è arrivato per approdare nella cucina mitica dei Troisgros. Ma dal 2005 è alla guida del suo ristorante, che dopo oltre 10 anni di attività ora veleggia verso palcoscenici ambiti: dopo la prima stella arrivata nel 2017, il riconoscimento della Gault&Millau sembra confermarne ambizioni e stato di grazia.

 

Fani - Roeser (Lussemburgo)  - Grand rue, 51 - ristorantefani.lu

Aux Anges - Roanne (Francia) - place George Clemenceau, 6 - aux-anges.com

 

a cura di Livia Montagnoli

 

 

In America “inventano” il cotone commestibile. Per combattere la fame

$
0
0

I fiocchi (ancora) non si mangiano, ma i semi sì. Il merito è di un gruppo di ricercatori del Texas, che negli ultimi 20 anni ha studiato una varietà di cotone destinata all'industria alimentare. Iperproteica, facilmente coltivabile, versatile: ecco perché è una bella innovazione tecnologica. 

 

Il gusto del cotone

Che sapore ha il cotone? Che domande, sa di hummus! Difficile confermare l'impressione dei ricercatori che l'hanno assaggiato, nei laboratori dell'Università del Texas. Almeno per il momento. Quindi non resta che fidarsi di loro, aspettando che il cotone entri in produzione come prodotto commestibile, destinato alle nostre tavole. Non è più fantascienza, e il merito spetta agli stessi biologi texani che oggi provano a spiegare che gusto hanno i semi della pianta finora associata principalmente all'industria di filati e tessuti, utilizzata però anche per l'alimentazione degli animali e la produzione di olio. La scoperta passa attraverso lo sviluppo di una nuova varietà di cotone, transgenica, privata in laboratorio del gossipolo, la sostanza tossica che solitamente rende i semi di cotone velenosi per l'uomo. In Texas la squadra guidata da Keerti Rathore ha condotto gli esperimenti con l'obiettivo di identificare un nuovo alimento iperproteico (come sono i semi del cotone) per contrastare la fame nel mondo: Rathore, figlio di un medico, è originario di un piccolo paese di campagna nell'India più disagiata, e gli ultimi 20 anni li ha dedicati a cercare di sconfiggere un problema che conosce da vicino. E il Dipartimento per l'Agricoltura degli Stati Uniti ha autorizzato di recente la semina della nuova varietà, garantendo il primo lasciapassare alla coltivazione di piante di cotone per fini alimentari. Non certo i batuffoli che caratterizzano la specie – sebbene l'idea di mangiare fiocchi di cotone come fossero zucchero filato piacerebbe a molti bambini – ma appunto i semi, destinati a trasformarsi in risorsa d'energia importante per l'alimentazione umana, specie dove il cibo scarseggia e le condizioni climatiche non consentono di impiantare coltivazioni più fragili. Ed estremamente versatili, spiegano i ricercatori, da consumare in polvere, alla griglia o sotto sale, come fossero uno snack spezzafame.

 

I vantaggi dell'agricoltura hi tech

L'apporto nutrizionale, per intenderci, è simile a quello delle mandorle, e l'industria alimentare, stando al reportage pubblicato su Fortune, sarebbe già interessata a trasformare il cotone in ingrediente base di biscotti, gallette, crackers. Dal gusto molto piacevole. Ci vorranno in realtà diversi anni prima che la filiera agricola fornisca all'industria il prodotto destinato alla trasformazione alimentare, ma se la soluzione dovesse rivelarsi vincente anche le piantagioni di cotone “tradizionale” potrebbero essere soppiantate da una varietà che consente di sfruttare a pieno la pianta, dalla fibra al seme, fornendo al contempo l'industria tessile e quella alimentare. Un altro esempio di come il mercato delle proteine alternative sia in espansione e indispensabile per approcciare la produzione di cibo in chiave sostenibile. Il caso più celebre è quello della fake meat, da poco approdata anche sul mercato italiano – a Bologna – con il Beyond Burger di invenzione californiana. E grande attenzione suscitano pure i derivati e le farine ricavate dagli insetti commestibili. Ma che l'agricoltura hi tech rappresenti il futuro dell'alimentazione l'abbiamo sostenuto in più occasioni (qui sfatiamo i pregiudizi sull'idroponica), e il caso del cotone commestibile lo dimostra una volta di più.


Così il pecorino romano è diventato gourmet. E si produce nel Lazio

$
0
0

Il caseificio di Torrita Tiberina, in Sabina, è una delle due realtà che nel Lazio produce Pecorino Romano Dop. La maggior parte del prodotto, invece, arriva dalla Sardegna. Ma la qualità è differente. Ci spiega perché la famiglia Deroma, che segue l'intera filiera. 

 

Il Pecorino Romano Dop... Del Lazio

RM 7. È l’unico casello che nell’agro romano produce Pecorino Romano Dop. E viene venduto al 30% in più di quanto mediamente venga prezzato quello fatto in Sardegna. Nel Lazio, terra d’elezione e patria storica del Pecorino Romano, c’è solo un altro caseificio (in provincia di Viterbo) che lo produce. “Sostanzialmente sottostando ai trend imposti da un mercato che per il 95% è in mano ai sardi– spiega Daniele Deromae che punta più alla quantità che non alla tutela e valorizzazione di un prodotto di qualità”. Siamo nel laboratorio della Casearia Agri In, a Torrita Tiberina in Sabina. Qui viene realizzato il miglior pecorino romano che esista al mondo, tanto da aver conquistato le tavole di Heinz Beck alla Pergola del Rome Cavalieri e di Francesco Apreda all’Imago dell’Hassler, per fare qualche nome. Un prodotto assolutamente differente da quello made in Sardegna: “Non riuscivo a trovarne uno che valesse davvero la pena usare– afferma Marco Milani, executive di Zanzara e Baccano a Roma, posti decisamente più casual degli altri due – Noi lo lavoriamo in purezza: ha la giusta umidità e dolcezza, unite a un carattere da campione”. Ma qual è il segreto di questo pecorino? “La nostra tenacia nel percorrere in modo talebano la strada della qualità– spiega l’avvocato Pino Deroma, titolare dell’azienda ovina che dà il suo latte al caseificio gestito invece da Salvatore, suo fratello, insieme ai figli – A partire dall’alimentazione delle pecore e per tutta la filiera”.

La rete virtuosa del pecorino

Sì, perché questa di cui fanno parte la Casearia Agri In insieme al Caseificio di Seggiano, è una rete virtuosa (Io Latte: la prima nel campo del latte ovino in Italia) guidata dalla Cooperativa Zootecnica Viterbese che fornisce mangimi agli allevatori soci i quali vendono il latte ai due caseifici, i quali lo remunerano in base alla qualità. E riescono a pagarlo ben più di quanto venga pagato in Sardegna: 0,80 centesimi contro oltre l’euro. Il controllo di filiera e la rete d’impresa, del resto, consentono di lavorare tutti insieme e di monitorare tutti i segmenti del processo produttivo. In caseificio, poi, si fa il resto: meno sale nella lavorazione, forme più grandi, stagionature lunghe… “Un esempio? Il disciplinare consente di vendere il pecorino romano dop dopo 5 mesi e 1 giorno per la tavola e 8 mesi e un giorno per la grattugia. Noi vendiamo tutto non prima dei 12 mesi e abbiamo le riserve da 18– spiega Daniele –Abbiamo un contratto con Colla spa che distribuisce anche all’estero il nostro formaggio: lui lo acquista a 5 mesi e lo tiene in cella di stagionamento per il tempo che consigliamo noi”. Un grande lavoro permesso dai vantaggi che comporta la rete: nessuna intermediazione, condivisione del know how e delle strategie di marketing, economie di scala. Una rete che coinvolge oltre 100 aziende e sviluppa un fatturato che tocca i 20 milioni di euro e dà lavoro a una sessantina di dipendenti.

 

La battaglia dei prezzi

Oggi è scandaloso vedere che un sottoprodotto come la ricotta spunti sui banchi un prezzo di 8,50 euro mentre il pecorino romano dop arriva a costare 7,50 euro il chilo– fa Daniele – Come è possibile? Noi il nostro non lo vendiamo a meno di 10-10,50 euro. Certo, facciamo qualità, a partire da un contenuto di sale dimezzato rispetto alla media”. Sta di fatto che, nonostante difficoltà burocratiche sui finanziamenti europei, l’Agri In non solo è sopravvissuta, ma ha raggiunto un fatturato di 5 milioni di euro lavorando 120 quintali di latte al giorno e producendo 3.600 quintali l’anno di pecorino dop e 1.500 di tradizionale. “Il tutto– sorride Claudio Deroma, il giovane casaro – avendo come obiettivo principalmente la qualità a tutti i costi!

 

a cura di Stefano Polacchi

regia di Saverio De Luca, montaggio di Martina Molle

Pizza. Riflessioni sulle ultime tendenze del settore

$
0
0

Per molti è la gallina dalle uova d'oro. Ma quali sono le tendenze del mondo della pizzeria? Cosa va di moda e cosa sembra aver perso terreno? Ecco una nuova analisi su questo argomento che abbiamo affrontato varie volte. 

 

C'è una nuova corsa all'oro. È quella della pizza, che appare come un moderno fiume Yukon da cui attingere pepite a piene mani. Ne abbiamo già parlato in un precedente articolo svelando che, dati alla mano, le cose non sono proprio così semplici; nonostante questo la pizza (forse insieme al sushi), è ancora una delle scelte obbligate per chiunque voglia intraprendere oggi una attività nel mondo della ristorazione. Vediamo quindi quali sono gli orientamenti che si stanno profilando in questo momento.

La pizza in Campania

Negli ultimi due anni circa c’è stata una rivoluzione proprio là dove maggiore era l’integralismo relativo alla pizza, ovvero Napoli e la Campania in generale, con la nascita di pizze dal cornicione estremamente pronunciato e con sofficità e morbidezza ancora maggiori. Anche i condimenti sono andati oltre le classiche Margherita e Marinara, facendo comparire sempre più spesso, nei menu delle pizzerie campane, parole chiave come “territorio” e “ricerca”. A questo si aggiunge un uso sempre più aggressivo dei social da parte dei giovani pizzaioli che ha generato un'accelerazione del fenomeno e una diffusione a catena altrimenti impossibile.

Il resto d'Italia

La diffusione di questi elementi non è stata altrettanto pervasiva nel resto d’Italia, dove l’attenzione del pubblico riguardo alla pizza non è così alta e coinvolge sui social i pizzaioli nazionali meno di quanto avvenga per i colleghi campani, per i quali il disco di impasto è motivo culturale, di orgoglio campanilistico eanche di rivalsa sociale, non ultimo per le affermazioni economiche che sta portando ad alcuni di essi. Il modello esportato da Napoli dai pochissimi nomi che si avventurano al di là del Garigliano, è però ancora quello classico dei loro locali storici, con relative variazioni sui condimenti.

Diversificare per attirare clientela

La cosa che però accomuna quanto fin qui descritto con l’analisi del precedente articolo è quella della “diversificazione” del prodotto come elemento fondamentale per attirare clientela. Insomma: per emergere dalla massa è necessario proporre qualcosa di nuovo, così come lo è nel momento del “following” di una determinata scoperta di successo. Abbiamo, proprio per questo, visto nascere forme di pizza sempre più strane, variate nella rotondità o nelle ripiegature, nell’ampiezza del disco o nella commistione di ingredienti anche, a volte, immiscibili tra di loro per senso logico e gastronomico.

Da pizza gourmet a pizza chef

L'ultima innovazione diffusasi a livello nazionale è stata la cosiddetta pizza gourmet,dopo la quale abbiamo assistito - qui e là sul territorio - alla nascita di pizze che ospitano ingredienti cotti separatamente in cucina, di lingue di pizza chiamate pale, e poi racchette, fiori, di pizze dipinte e chi più ne ha, più ne metta. L’ultima definizione attualmente in voga è quella di pizza chef,per rientrare nella quale il pizzaiolo si completa di competenze proprie della cucina al fine condire in maniera più professionale il disco di pasta che stende. Purtroppo, però, queste figure si fermano troppo spesso solo alle foto da social con sac à poche e pinzette in mano, in pose degne di chef di blasone. Nella deriva peggiore pochi sono coloro che si applicano in studi di cucina e/o si affiancano a validi cuochi per tempi superiori a una esibizione o a una foto. In parole povere: la cucina c'è, ma solo in foto. Sono le conseguenze della diffusione, scriteriata, di un fenomeno che potrebbe avere risvolti positivi, se perseguito con impegno.

Chi sale. La riscossa della ripiena

Da questo indubbio fermento, comunque, pare scorgersi un diffuso interesse verso la riscoperta della pizza ripiena, definita Calzone a Roma o anche Ripieno a Napoli, con una affermazione crescente anche della variante fritta, e non solo come street food, ma anche come pietanza da gustare al tavolo. Contestualmente si riscopre la possibilità di giocare con le farciture, aprendo il tutto a nuove sperimentazioni. Stesso discorso anche per la pizza a taglio, proposta sempre più di frequente tagliata nel suo mezzo e farcita, spesso completata da un condimento anche in superficie, dando così impulsi inaspettati alla fantasia dei pizzaioli.

Chi scende. Il salutismo estremo non è più di moda

Appaiono invece in calo gli impasti realizzati con farine alternative e, in genere, ciò che si rifà a principi salutistici, complici le inchieste giornalistiche che hanno smontato alcune false credenze e, in genere, lo sgonfiarsi della moda “salutistica” nelle sue estremizzazioni, come una insensata lotta al glutine e quella ancora più accanita al lievito di birra, prese di posizione immotivate, come dimostrato da varie fonti scientifiche facilmente reperibili anche sul web.

Il rilancio del fritto sembra poi assecondare il trend mondiale che vede (da sempre) numeri più alti nel cibo non definibile “salutare”. Anche in questo, però, la ricerca di una maggiore qualità trova riscontro in un fritto sempre più asciutto e dal maggiore apporto gustativo. È una ricerca che pare essere solo agli inizi ma promette sviluppi interessanti.

In conclusione. L'impasto al centro

Si può affermare che l’orientamento generale riconduca l’impasto al suo ruolo primario di contenitore. Un piatto millenario che ospita i pasti delle popolazioni di tutto il mondo a questa latitudine, dal Messico all’Estremo Oriente, ognuno con la farina dei cereali locali, con nuove forme a vantaggio della fruibilità e del gusto complessivo, ma che solo il genio italico ha saputo trasformare da piatto a pizza, nobilitandone l’essenza.

a cura di Marco Lungo

La food hall di Harrods a Londra prende vita. La rivoluzione dei grandi magazzini

$
0
0

I grandi magazzini di Londra si rinnovano, dando vita a un polo gastronomico d'eccezione, che comprende caffetteria, torrefazione, wine bar, sala da tè, bakery, un mercato e a breve anche un ristorante. Le prime mosse della rivoluzione di Harrods. 

 

Mangiare a Harrods

Sinonimo di shopping sfrenato e lusso, a Londra Harrods è sempre stato un punto di riferimento per gli acquisti d'elezione, oltre che una delle attrazioni più visitate dai turisti. Un carattere ben diverso da quello immaginato dal suo ideatore Charles Henry Harrod, droghiere dell'Essex che nella prima metà dell'Ottocento scelse di scommettere sul tè di pregio e altri prodotti alimentari ricercati per iniziare un'attività commerciale più ampia. Nel tempo, infatti, il cibo ha perso il suo ruolo centrale: tisane e infusi da tutto il mondo sono ancora presenti fra gli scaffali del magazzino, ma ciò che manca è un'offerta gastronomica di qualità. O meglio, mancava, perché dopo il Gourmet Grocery, lo store dedicato a spezie, condimenti, oli e aceti, nel novembre 2017 il colosso britannico aveva annunciato finalmente una trasformazione radicale dell'intera Food Hall.

The Taste Revolution

Non vediamo l'ora di aprire le porte agli appassionati foodies della città, per mostrare loro la rivoluzione del gusto che cambierà i nostri spazi”. Si chiama, infatti, The Taste Revolution, ed è un progetto ambizioso fortemente voluto dal direttore del reparto Food&Restaurants di Harrods Alex Dower. Il più grande lavoro di ristrutturazione fatto all'interno del magazzino dagli anni '80 a oggi e intrapreso dal David Collins Studio di Londra, maggiore studio di design e architettura di interni di lusso del Regno Unito. Una concezione degli spazi diversa, che si proponeva di aprire i battenti entro il 2019.

La caffetteria e la bakery

Ogni promessa è un debito, e gli inglesi lo sanno bene. A un anno dall'annuncio e dall'inizio dei lavori, Harrods si presenta in una nuova veste, a cominciare dall'angolo caffè, con tanto di torrefazione interna e bar. A coadiuvare i lavori, il torrefattore Bartosz Ciepaj, professionista alle prese con la tostatura di diversi microlotti di caffè, da estrarre in espresso o filtro (oltre ai cocktail al caffè come l'Espresso Martini o il Coffee Negroni). E poi la bakery, che ha finalmente preso forma, uno spazio delineato da scaffali colmi di pagnotte fresche appena sfornate preparate dai panettieri di Harrods con ingredienti di prima scelta, dalle farine biologiche al lievito madre. Per un totale di 30 diverse tipologie di pane, dalle baguette ai panini morbidi, e poi una ghiotta linea di croissant, biscotti da forno, dolci sfogliati e torte.

 

roastery

Il take-away e la sala da tè

Disponibili, insieme al caffè, nel reparto take-away Roast and Bake su Basil Street, un punto che offre la possibilità di acquistare insalate, piatti freddi, club sandwich, hummus di ceci e altre specialità da gustare passeggiando o da portare via. Ma non finisce qui: spazio anche a una sala da tè, già insignita dalla stampa locale come una delle più belle in città (e in un panorama come quello londinese, è un primato difficile da raggiungere): miscele e singole origini da tutto il mondo profumano gli scaffali della sala, un mix di aromi inebrianti in grado di fare gola anche al meno appassionato. Fra i prodotti di punta, l'Earl Grey, il blend Summer Flowers e l'Hot Dinners. Il tutto accompagnato da cioccolatini, praline e un reparto confetteria a prova di buongustaio.

Il vino e i distillati

In una food hall di questo calibro non può mancare, poi, del buon vino. Nelle Fine Wines & Spirits Rooms si possono trovare etichette di territori e annate diverse, con l'Aroma Table per spiegarne le caratteristiche, un tavolo interattivo per guidare i consumatori nell'assaggio di ogni vino. E poi i distillati, con la boutique del cognac Louis XIII, e whisky di Suntory, Glenfiddich, Dalmore, Macallan e Glenmorangie. Ma Harrods è sinonimo di lusso, per cui via libera alla Champagne Room, con le bottiglie di Moet et Chandon, Joseph Perrie e Dom Perignon a dominare la scena. Per i neofiti, poi, c'è anche la possibilità di guardare in streaming video informativi sulle migliori cantine del mondo all'interno dell'Education Room.

 

salumi harrods

Il mercato

E ora, è tempo per il mercato. La Fresh Market Hall, inaugurata da pochi giorni, è un amalgama di profumi, sapori e gusti diversi, un mix variopinto ed eterogeneo di culture e tradizioni, ricette antiche e piatti contemporanei. Ci sono i formaggi, i migliori del Regno Unito, dagli stagionati agli erborinati, quasi tutti a latte crudo, e poi i salumi, le verdure, il pesce fresco, la frutta, ma anche tanti piatti pronti, preparati sotto la supervisione dell'executive chef Andy Cook (ex Savoy Grill). Filetto alla Weelington, salmone encroûte, costolette di manzo a bassa cottura alla maniera asiatica, ma anche rivisitazione dei grandi classici dell'infanzia, come i maccheroni al formaggio arricchiti con il tartufo: queste e molte altre le prelibatezze disponibili nel nuovo mercato, ultimo goal segnato dai proprietari di Harrods. La prossima mossa? La Dining Hall, lo spazio ristorazione con proposte più ricercate e di livello, che aprirà entro la metà del 2019.

Harrods – Londra - Brompton Road, 87/135 - +44 2084795100 - www.harrods.com/en

a cura di Michela Becchi

 

ElBulli, la storia di un sogno. La docu-serie sul mitico ristorante dei fratelli Adrià su Amazon Prime Video

$
0
0

9 episodi girati nell'arco di 13 anni più 3 inediti per guardare al futuro di elBulli anche dopo la chiusura definitiva del ristorante nell'estate 2011. La serie, diretta da David Pujol, è disponibile dall'estate scorsa su Amazon Prime Video. Ecco perché vale la pena guardarla. 

ElBulli prima di Ferran Adrià

La storia di Ferran Adrià incrocia quella di elBulli solo nel 1984. Ma nella baia di Montjoi, a Roses, il ristorante destinato a diventare una leggenda della gastronomia internazionale comincia a prendere forma all'inizio degli anni Sessanta, con l'arrivo a Roses dei coniugi Schilling. Ma cos'è elBulli - dal nome dei bulldog francesi adottati dalla coppia tedesca - prima di Ferran Adrià? Un piccolo bar prima, poi ristorante con griglieria di poche pretese: una cucina semplice che la signora Schilling cura personalmente, con passione, e presto comincia a richiamare avventori da tutta la Catalogna. Così già negli anni Settanta la questione si “complica”: la proposta è quella di ispirazione francese concertata da Jean-Louis Neichel, nel 1976 arriva la prima stella, qualche anno dopo Neichel lascia il posto a Jean Paul Vinay. Sarà lui, nella primavera dell'84, a far posto in brigata al giovane aiuto cuoco Ferran; basteranno pochi mesi perché Adrià, insieme all'amico Christian Lutaud (che lascerà nell'87), si ritrovi alla guida della cucina di elBulli. Inizia così la storia più luminosa del ristorante che dalle sperimentazioni più ardite trae linfa per evolversi di continuo, tenendo il mondo con gli occhi incollati.

 

Un ristorante leggendario

Un percorso di ricerca spinta all'estremo, che impegna una squadra numerosa di cuochi, giovani di belle speranze, allievi che avranno davanti a sé una carriera luminosa, in arrivo da tutto il mondo per respirare l'avanguardia di elBulli. Fino a quando, nell'estate 2011, il ristorante chiude definitivamente i battenti, e gli interessi dei fratelli Adrià – ché, come racconta anche la puntata di Chef's Table dedicata ad Albert, il fratello più piccolo di Ferran sarà l'anima del laboratorio sperimentale di elBulli, prima di diventare l'imprenditore brillante che oggi gestisce un piccolo impero della ristorazione a Barcellona – si riversano nelle attività della Fondazione elBulli, che nel 2019 troverà una nuova casa proprio a Roses, sulle ceneri del mitico ristorante. Proprio di recente, sul numero di agosto del mensile del Gambero Rosso,abbiamo viaggiato tra passato, presente e futuro dello chef catalano con Raffaella Prandi, a partire dalla copertina che nel 1998 Stefano Bonilli dedicava alla rivoluzione del sifone.

 

La docu-serie su Amazon Prime Video

Ma anche Amazon Prime Video arriva in soccorso di chi vuole ripercorrere la storia di elBulli, racchiusa nella serie La storia di un sogno diretta da David Pujol (Visual 13 productions). Dall'estate scorsa i 9 (+3) episodi della serie sono disponibili in streaming per gli abbonati Amazon Prime, sulla piattaforma digitale che il colosso dell'e-commerce ha sviluppato da qualche tempo a questa parte per intercettare un mercato in crescita ad oggi dominato da Netflix. E sulla scia di quanto di buono Netflix ha fatto per la divulgazione di contenuti gastronomici – dal sempreverde Chef's Table a Cooked, passando per Ugly Delicious e l'ultima produzione originale Salt, Fat, Acid, Heat – anche Amazon ha scelto di scommettere su una produzione incredibilmente appetibile, contribuendo pure alla realizzazione di 3 episodi inediti che completano il racconto indagando gli ultimi anni di elBulliFoundation. Dunque la serie, che raccoglie 13 anni di filmati che documentano il dietro le quinte di uno dei ristoranti più famosi del mondo, prende le mosse dagli inizi di Ferran (ma il primo capitolo torna indietro fino al 1963), seguendo gli anni della gavetta e del fermento creativo, fino alla consacrazione di elBulli e alla sua chiusura. Coprotagonisti in scena Albert Adrià Juli Soler, socio dell'impresa; colossale l'impegno per la raccolta dei materiali in fase di produzione, 600 ore di girato, oltre 200 persone coinvolte, 150 interviste a chi nell'esperienza è stato coinvolto. Un monito a non dimenticare gli anni geniali di elBulli. Disponibile in 200 Paesi del mondo, Italia compresa.

Taormina Gourmet 2018 report. I migliori assaggi

$
0
0

Tre giorni per conoscere la migliore produzione agroalimentare italiana (e non solo). Vino, birre artigianali, cene e prodotti agroalimentari hanno trasformato la città siciliana nel centro del buon gusto. 

 

La VI edizione di Taormina Gourmet si è chiusa con un grande successo. La manifestazione ha registrato il tutto esaurito per gli eventi in calendario, il pienone ai banchi d’assaggio dedicati al vino e alla birra artigianale e la presenza di molti rappresentanti della stampa italiana ed estera. Durante le tre giornate del 27, 28 e 29 ottobre, gli appassionati hanno affollato le sale dell’Hotel Villa Diodoro di Taormina per seguire 30 masterclass, 20 showcooking, incontri e conferenze, senza contare le cene d’autore che hanno fatto da cornice serale all’evento, animate dalle creazioni degli chef Roy Caceres, Lorenzo Cogo e Accursio Craparo.

La celebre cittadina siciliana si è trasformata in una vera e propria capitale del gusto, ospitando i migliori prodotti del nostro patrimonio enogastronomico con 30 aziende agroalimentari, oltre 100 cantine e 40 birrifici artigianali.

Le Masterclass: i 10 migliori assaggi

Quest’anno il programma delle masterclass di Taormina Gourmet era di assoluta eccellenza. Le degustazioni dedicate ai grandi vini si sono rivelate particolarmente interessanti per ripercorrere la storia di alcune etichette di grande prestigio. Gli assaggi di vecchie annate e i puntuali approfondimenti tecnici, hanno permesso di conoscere un vino e il suo territorio d’origine abbracciandone anche la dimensione temporale, le evoluzioni e i cambiamenti. Tra i molti vini degustati, abbiamo selezionato i 10 calici che più ci hanno colpito, quelli indimenticabili e imperdibili.

Etna Rosso DOC Arcurìa Sopra il Pozzo 2015 - Graci

Insieme alle quattro annate 2012, 2013, 2014 e 2015, Alberto Aiello Graci ha portato in degustazione una nuova etichetta, che nasce da una selezione della sua storica vigna di Contrada Arcurìa, una frazione di Passopisciaro sul versante nord-est dell’Etna, a oltre 600 metri d’altitudine. Le viti di nerello mascalese sono coltivate ad alberello su suoli vulcanici ricchi di scheletro e di sostanze ferrose. Il vino nasce da una fermentazione con lieviti indigeni in tini di rovere troncoconici e da lunga macerazione a contatto delle bucce. L’affinamento si svolge in botti di rovere per un periodo di 24 mesi e si completa con 6 mesi in bottiglia. È un nerello mascalese quasi in sottrazione, elevato alla sua essenza più raffinata ed elegante. Regala un bouquet sfaccettato e sottile, con aromi di ribes, melograno, arancia sanguinella e pesca gialla. Il sorso è caratterizzato da aromi complessi, tannini lievi e ben integrati e da una piacevole freschezza finale.

Faro DOC Oblì 2009 - Tenuta Enza La Fauci

La tenuta Enza La Fauci si trova nel territorio della piccola Denominazione Faro. Le vigne sono affacciate sul mare, sul versante settentrionale dello stretto di Messina, proprio alle pendici dei Monti Peloritani. Le viti sono coltivate in Contrada Mezzana, a circa 280 metri di altitudine, in una zona dal clima fresco e ventoso, battuta costantemente dallo Scirocco o dal Maestrale. Il Faro DOC Oblì è il vino di punta dell’azienda, prodotto con nerello mascalese (60%), nerello cappuccio (15%), nocera (15%) e nero d’Avola (10%), coltivati su terreni argillosi misti a calcare, con presenza di pietre di mica dorata. La vinificazione si svolge con lieviti indigeni e il vino matura per circa 18 mesi in barrique usate, prima di completare l’affinamento con almeno 6 mesi di bottiglia. Tra le annate presentate nella verticale, molto interessante per finezza e freschezza la 2013 ma insuperabile la 2009. Un vino elegante e armonioso, con aromi di ribes, more, sentori di erbe della macchia mediterranea e grafite. Bocca di grande equilibrio, con tannini fitti, maturi ed evoluti, centro bocca profondo e un finale fresco, connotato da una marcata sapidità

Toscana Rosso IGT I Sodi di S. Niccolò 2013 - Castellare di Castellina

È il vino di punta della Tenuta Castellare di Castellina realizzato con le uve provenienti solo dalla vigna S. Niccolò, una parcella di particolare pregio, che si trova a circa 400 metri d’altitudine su suoli calcarei. Il bouquet è complesso, con note di ribes nero, liquirizia, ciliegia, sentori di sottobosco, sfumature di erbe officinali, spezie e vaniglia. Il sorso è energico e vibrante, con un bel frutto maturo, impreziosito da evoluzioni terziarie e tannini sottili. Il finale è fresco, con ricordi speziati e balsamici.
 

Soave Classico DOC Contrada Salvarenza Vecchie Vigne 2005 - Gini

Etichetta storica dell’azienda Gini, il Contrada Salvarenza è uno dei grandi bianchi prodotti nella nostra penisola. Le vigne si trovano su una collina che raggiunge i 200 metri d’altitudine e ha un microclima particolarmente fresco, caratterizzato da forti escursioni termiche tra il giorno e la notte. Nella parte più alta i suoli sono di basalti neri, nella zona centrale di tufo giallo verde e in basso calcarei. Le viti di garganega hanno circa 150 anni e sono quasi tutte coltivate a piede franco. Un vino elegante e raffinato, che esprime profumi agrumati di cedro, pompelmo, sfumature floreali, sentori balsamici di eucalipto e menta. Il sorso ha conservato un’intatta freschezza, con aromi profondi di frutta gialla, albicocca disidratata e mandorla. Il finale chiude su piacevoli note sapide.

Barbaresco Sorì Tildin DOCG 2015 - Gaja

Uno dei capolavori di Angelo Gaja. Un Barbaresco che coglie l’essenza delle migliori qualità del nebbiolo e di un cru particolarmente vocato, sottolineandone la raffinatezza espressiva. Il profilo olfattivo è di rara finezza, con delicati profumi floreali, aromi di ribes rosso, lampone, sfumature di liquirizia, erbe aromatiche e una leggera speziatura. Il sorso è elegante, con aromi sottili, complessi e sfaccettati, che creano una sensazione di grande un’armonia gustativa. La tessitura tannica è vellutata e il finale persistente e rinfrescante.

Colli di Salerno IGT Montevetrano 2008 - Montevetrano

Il vino è nato dal desiderio di Silvia Imparato di creare un grande rosso nello splendido territorio del Cilento, unendo all’aglianico il cabernet sauvignon e il merlot. Il 2008 è un’annata che oggi esprime una splendida maturità, con aromi di ribes, mora, prugna, sentori di tabacco biondo, cuoio, sfumature di erbe officinali e cenni balsamici. La bocca è intensa e sensuale, energica e vibrante, con aromi complessi e profondi, trama tannica fitta e ben integrata al corpo del vino e un finale di grande persistenza gustativa.

Sicilia Grillo DOC Lalùci 2014 - Baglio del Cristo di Campobello

Un bianco che non finisce mai di sorprendere. È un grillo in purezza prodotto a Campobello di Licata su straordinarie terre di matrice calcarea e gessosa. L’annata 2014 è connotata da profumi agrumati di lime e cedro, aromi di uva spina, mela verde, impreziositi da sfumare iodate e marine. Al palato ha un attacco vibrante, con un sorso di tagliente freschezza, che si apre verso un centro bocca dalle note più mature e morbide, con cenni di frutta tropicale. Il finale è limpido, fresco e teso.

Champagne Blanc de Blancs 1996 - Maison Bruno Paillard

La Maison Bruno Paillard è stata fondata nel 1981, ma nel giro di pochi decenni ha bruciato le tappe, imponendosi all’attenzione della critica e degli appassionati come una delle giovani realtà più in interessanti dell’Appelation. Gli Champagne di Bruno Paillard si distinguono per una raffinata purezza, un’effervescenza cremosa e un equilibrio espressivo elegante e seducente. Il Blanc de Blancs 1996 affascina per i suoi aromi complessi ed evoluti, con note iodate, sentori di nocciole, caramello, pasticceria, frutta gialla, scorza d’agrumi e zenzero. Il sorso è ancora vibrante, accompagnato da un perlage setoso e mai invadente. Gli aromi sono delicati e sfaccettati, con cenni tropicali, ricordi di anice e vaniglia, che accompagnano armoniosamente verso un finale fresco, caratterizzato da sensazioni sapide e gessose.

Gattinara DOCG Tre Vigne 2006 - Travaglini

La Cantina Travaglini produce l’etichetta Tre Vigne solo nelle migliori annate, con una selezione di uve provenienti da tre parcelle storiche della tenuta. Le vigne sono coltive a un’altitudine compresa tra i 320 e i 420 metri con esposizione sud, sud-ovest, su terreni rocciosi d’antichissima origine vulcanica, ricchi di minerali ferrosi. L’annata fresca ha contribuito a dare al vino un profilo particolarmente fine ed elegante, con aromi di fiori secchi, rabarbaro, radice di liquirizia, erbe officinali e sfumature balsamiche. Al palato è intenso e profondo, con una trama tannica fitta e un sorso austero, quasi connotato da sensazioni materiche di pietra e ruggine, che accompagnano verso un finale di viva freschezza.

Bolgheri Superiore DOC 2015 - Tenuta Guado al Tasso

È uno dei grandi vini storici di Bolgheri. Prodotto a partire dall’annata 1990, ancora oggi rappresenta una delle migliori eccellenze di questo splendido territorio della costa toscana. Il 2015 nasce da un blend di cabernet sauvignon, cabernet franc, merlot e petit verdot. La stagione piuttosto calda regala un vino aromaticamente ricco e di buona struttura. All’olfatto esprime un frutto maturo ed esuberante con sfumature d’erbe officinali e legni nobili. Al palato è potente, profondo e complesso, con aromi succosi, note di radice di liquirizia e spezie. La trama tannica è fitta e densa, quasi materica nel suo vigore giovanile. Il finale è di grande persistenza e buona freschezza.

 

a cura di Alessio Turazza

Carta e cartone per il nuovo packaging sostenibile

$
0
0

Dall'imballaggio per il trasporto all'utilizzo del bag in box, il cartone si rivela uno dei materiali più utilizzati (e meno conosciuti) del mondo del vino. Ma anche quello più green. Da Comieco, le ultime novità per tutelare l'ambiente e comunicare meglio il territorio. A partire dalla scatola.

 

È il primo materiale con cui si viene a contatto, ma probabilmente l'ultimo che viene in mente quando si fa riferimento alle diverse componenti del mondo vitivinicolo. Una sorta di biglietto da visita dell'azienda con una tripla funzione: proteggere, trasportare e informare. Parliamo del cartone, il composto che finisce per ricoprire un ruolo di primo piano per ogni spostamento – vicino e lontano – che il vino si trova ad affrontare per arrivare dalla cantina al consumatore finale. Dietro c'è studio e progettazione. Davanti un futuro sempre più sostenibile. Anche perché carta e derivati sono tra i materiali che meglio si prestano ai principi di economia circolare.

Proprio di questi scenari futuri, abbiamo parlato con Comieco, il consorzio nazionale per il recupero e il riciclo degli imballaggi cellulosici, che da 30 anni lavora nel settore e cheè alla costante ricerca delle soluzioni più green. Sette anni fa, al suo interno, è anche nato il Club Carta e Cartoni per interfacciarsi non solo con l'industria cartaria, ma anche con grandi e piccole aziende che di quegli imballi hanno bisogno per poter vendere il proprio prodotto. Con l'obiettivo, finale, di promuovere il buon packaging.

Gli imballaggi cellulosici immessi al consumo in Italia sono 4,7 tonnellate” spiega il presidente di Comieco Amelio Cecchini “di questi, l'88% viene recuperato e l'80% viene riciclato per tornare a nuova vita. Numeri importanti ma su cui si può e si deve continuare a lavorare, proprio 'rompendo le scatole' alle aziende che ogni giorno scelgono migliaia e migliaia di tonnellate di carta e cartone per confezionare e movimentare i loro prodotti”.

Il cartone e il neuromarketing. La ricerca

Dal lato consumatore, il packaging cellulosico è un vero "attrattore", capace di captare l'attenzione, colpire emotivamente e rispondere alle richieste razionali del consumatore, grazie all'associazione che si fa immediatamente tra cartone e approccio eco-friendly. Secondo una ricerca condotta dall'Università Iulm per il Club Carta e Cartoni di Comieco, i pack in carta o cartone ondulato vengono - a livello implicito - graditi decisamente di più rispetto ad altri materiali: il 65% delle preferenze confluisce infatti su questa tipologia di packaging. Solo il 35% del campione predilige pack in plastica o di altri materiali (come ad esempio il vetro).

Inoltre, i partecipanti alla ricerca hanno impiegato 0,9 secondi per associare il concetto di positivo ai pack in carta e cartone, e 1,1 secondi ai pack di altro materiale.

I trend in corso

E veniamo, adesso, a tutte le novità verso cui si muove il mondo del cartone legato al settore vitivinicolo e quali gli scenari che si prospettano. Ne abbiamo parlato con la responsabile Ricerca e Sviluppo di Comieco Eliana Farotto. Si pensi soltanto” ha spiegato“che in passatoil vino viaggiava sempre dentro casse di legno, con impatti altissimi sull'ambiente, ma anche sui trasporti. Nel tempo, le cose sono cambiate, ma al cartone erano – e in alcuni casi, sono - spesso associati polistirolo, plastica e quant'altro per evitare il danneggiamento delle bottiglie. La ricerca degli ultimi anni sta, invece, spingendo sempre più verso soluzioni completamente in cartone, quindi, completamente riciclabili, più leggere e più capienti. Che oltre a permettere il riutilizzo, hanno il pregio di ottimizzare la logistica. Sembrerà banale, ma scatole con strutture imponenti e con più spazi vuoti, costringono i mezzi di trasporto a viaggiare di più, con gli effetti sull'ambiente, che purtroppo conosciamo bene”.

Importantissima è, quindi, la progettazione che può ripensare all'imballo, ottimizzando la pallettizzazione, a partire dal modo in cui le bottiglie vengono disposte. In fase di produzione esistono, poi, dei software che consentono di ottenere più pieghe e più incastri con un solo foglio di cartone.

Un esempio di innovazione viene da un materiale non certamente di recente impiego, come può essere il cartone ondulato (ovvero quello composto da due superfici di carta piana, che racchiudono una carta ondulata), la cui grammatura è scesa nell'ultimo decennio dell'8%. “Negli ultimi anni” spiega Farotto “il potenziamento della raccolta differenziata ha fatto sì che le cartiere sia siano trovate più materiale da riutilizzare. Ciò ha permesso anche di investire di più in ricerca per la progettazione di cartoni ondulati con meno fibre e quindi meno pesanti”. Un circolo virtuoso: meno materiale, meno peso, meno viaggi e meno costi di trasporto.

Nella banca dati Best Pack di Comieco, sono state selezionate alcune best practice, che mettono in evidenza la direzione verso cui si sta muovendo il mercato nazionale e internazionale

ll bag in box nel mondo

Imballaggio a parte, c'è, poi, un ulteriore utilizzo del cartone che è quello di contenitore vero e proprio. L'evoluzione del semplice brick - che ha da sempre identificato vini low cost - ha portato al bag in box, il cui utilizzo è stato introdotto con apposito decreto ministeriale nel 2008. Non tutte le denominazioni possono utilizzarlo (è il disciplinare a stabilirlo) e di certo non è una soluzione a misura di mercato italiano. Ma ci sono Paesi dove non solo ha un'ampia diffusione, ma è anche considerato un requisito fondamentale. Pensiamo, ad esempio, a Scandinavia o Canada. Paesi da sempre molto attenti alla sostenibilità. “Il bag in box” spiega Farotto “è considerata la soluzione più sostenibile, in quanto il cartone è totalmente riciclabile, visto che non entra in contatto diretto con il vino”.

Secondo un recente sondaggio di Sopexa, i consumatori asiatici sono tra quelli ancora più legati alla bottiglia e il 66% degli operatori locali prevede la più alta crescita per la mezza bottiglia e le altre confezioni piccole. Ma le cose cambiano se ci si sposta dall'altra parte dell'Oceano: in Nord America, più del 40% scommette sul bag in box. E, infatti, nella top ten dei mercati dove l'Italia spedisce le maggiori quantità di vino in bag in box (2-10 litri) ci sono in ordine, Svezia, Norvegia, Regno Unito, Germania e Stati Uniti. Nel 2017, secondo le rielaborazioni Nomisma Wine Monitor su dati Istat, il totale export di questa categoria ha registrato 62,6 milioni di euro. Con una crescita del 34,5% nel primo semestre del 2018 rispetto allo stesso periodo dell'anno precedente.

Il bag in box in Italia

La crescita di questa soluzione anche sul mercato italiano è documentata dai dati Iri nella grande distribuzione, dove nel 2017, quello del bag in box è il segmento cresciuto di più: +5,4% a volume e + 7,4% a valore sull'anno precedente, a fronte di un calo del brik (-0,6 % a volume; - 0,7% a valore) e dei grandi formati (-2,5% a volume; -4,6% a valore). Parliamo, certo, di un formato ancora marginale, con 13,65 milioni di litri su un totale di vino confezionato di 648 milioni di litri. E con un prezzo medio che al momento non supera l'1,59 euro al litro (il prezzo medio del vino confezionato in Gdo, considerati tutti i formati, è di 2,2 euro al litro). Ma la tendenza va diffondendosi anche in altri canali, come sottolinea la responsabile di Comieco: “Con la diminuzione dei consumi, sta aumentando il consumo al calice anche nei locali. E, in questi casi, il bag in box si presenta come una soluzione semplice per la spillatura e per la conservazione, grazie alla sacca plastificata interna e al meccanismo di rubinetto termosaldato,che impedisce il contatto diretto del vino con l'aria”.

La funzione comunicativa e il caso studio di Langhe Roero e Monferrato

L'attenzione alla sostenibilità, non deve però far perdere di vista un'altra funzione non secondaria per il packaging: la comunicazione. L'imballo deve, quindi, lasciare spazio per l'informazione. Essere una sorta di veicolo del vino stesso e del territorio che rappresenta. Comieco, a tal proposito, per poter redigere delle linee guida, ha realizzato un caso studio sul territorio Unesco di Langhe Roero e Monferrato, coinvolgendo i relativi consorzi e le cantine, per analizzarele potenzialità comunicative dell'imballaggio e muovere i primi passi verso nuove modalità di gestione del packaging enologico. Partendo dallo studio di altri territori Unesco. Cosa ne viene fuori? Le mappe su scatola o addirittura sull'incartamento che avvolge le singole bottiglie di vino si rivelano particolarmente efficaci per comunicare il luogo di provenienza, così come il riferimento all'arte del territorio. E qui abbiamo un esempio tutto italiano, quale la raffigurazione dei beni culturali della Sicilia riprodotti in versione pop e utilizzati per il bag in box e il brick dei vini regionali (operazione messa a punto, con discreto successo nel 2013, dall'Istituto regionale della Vite e del Vino). Ma lo stesso effetto – tra ludico ed informativo – si può ottenere lavorando sull'imballaggio, con la raffigurazione del profilo delle abitazioni o delle colline del territorio.

Con questo studio” conclude Farotto “il nostro obiettivo è dare uno stimolo, spiegando come si possa utilizzare l'imballaggio esterno per raccontare un territorio e il suo approccio sostenibile. Ci auguriamo, per cui, che i consorzi raccolgano questa sfida per comunicare e comunicarsi al meglio”.

a cura di Loredana Sottile

 

Questo articolo è uscito sul nostro settimanale Tre Bicchieri del 18 ottobre

Abbonati anche tu se sei interessato ai temi legali, istituzionali, economici attorno al vino. È gratis, basta cliccare qui

Michelin New York 2019. Niente sorprese, l’Atelier di Joel Robuchon verso la vetta

$
0
0

Dopo la scomparsa del maestro della cucina francese, la Rossa premia con doppiamente le sue insegne in città, con due stelle per l’Atelier, una per Le Grille. Tiene alta la bandiera della cucina francese anche Le Coucou, grande atteso della vigilia. Tanto Giappone e un noodle bar tra i premiati. Perde la stella April Bloomfield all’Ace Hotel. 

 

Oltre gli scandali. Batali c’è, Bloomfield non più

Mentre l’America attende i risultati delle elezioni midterm, a New York è la guida Michelin a prendersi la scena, nell’anno in cui tanti auspicavano che i nodi del #MeToo venissero al pettine, e invece il neodirettore della Rossa Gwendal Poullennec ribadisce senza timore che il giudizio premia le cucine e non gli chef, concentrandosi unicamente sulle esperienze degli ispettori. Ecco perché, pur registrando il dissenso della stampa locale, le insegne collegate a Mario Batali (comunque costretto da tempo a fare un passo indietro per gli scandali che l’hanno travolto) sono ancora tutte schierate: Babbo, Del Posto e Casa Mono mantengono la stella. Mentre non va così bene ad April Bloomfield: The Breslin all’Ace Hotel non fa più parte della compagine stellata, ma solo per demeriti della cucina, che ora manca “di consistenza e qualità”. Nel giro di pochi anni, dunque, la chef inglese, trascinata nei processi dell’ex socio Ken Friedman, perde ogni riconoscimento: nel 2016 era stata la volta del gastropub Spotted Pig, declassato a Bib Gourmand (oggi, dopo l’addio di Bloomfield, non è più nemmeno su quella lista), ora il passo falso del Breslin segna la fine di un’era iniziata nel 2005, con la prima conquista di una stella che la Michelin ha continuato a confermare un anno dopo l’altro. Ma al di là dei risultati – l’edizione 2019 della Rossa restituisce una fotografia sempre più stellata della ristorazione newyorkese, con 76 insegne che meritano uno o più macaron (erano 72 nel 2018, pesano nel computo finale anche diverse uscite) – sono diversi i motivi per polemizzare sulle scelte della guida a seguito degli avvenimenti dell’ultimo anno. Tra le “mancanze” più contestate, l’incapacità di premiare più insegne guidate da cuoche (due in tutto Emma Bengtsson per Aquavit, Melissa Rodriguez per Del Posto), una su tutte Daniela Soto-Innes per Cosme, l’apprezzatissimo ristorante messicano che fa capo ad Enrique Olvera, ancora a secco di stelle.

 

Le nuove stelle. Le Coucou e i noodle di Jeju

Chi invece si affaccia per la prima volta nell’Olimpo stellato è Le Coucou di Daniel Rose, moderna interpretazione di un bistrot francese, tra i favoriti dei pronostici già un anno fa. Con lui conquistano la prima stella altre 12 insegne, compreso il noodle bar coreano Jeju; e poi 5 nuove tavole giapponesi - NakazawaKosakaNodaOkuda, and Sushi Noz – la cucinapiù informale dell’asiatico Tuome, il progetto ambizioso di David Bouley al Flatiron District – Bouley at home - inaugurato dalla vecchia gloria della ristorazione newyorkese un anno fa. Ancora Atomix, Claro e Oxomoco, e Le Grille di Joel Robuchon.

 

Il trionfo postumo di Robuchon

Il maestro della cucina francese, recentemente scomparso, ottiene bottino pieno: al macaron conquistato per la brasserie, aggiunge le due stelle assegnate pronti e via all’Atelier recentemente riaperto in città, che pure la primavera scorsa aveva raccolto le perplessità del super critico del New York Times Pete Wells. Tra le new entry nel gruppo dei bistellati anche Ichimura at Uchu, Gabriel Kreuther e Tetsu Basement, chiuso definitivamente quando la guida era già in stampa. Nessuna novità tra i tristellati, che continuano a spartirsi un trono per 5: Chef’s Table at Brooklyn Fare, Eleven Madison Park, Le Bernardin, Masa e Per Se. Ne deriva un quadro generale piuttosto conservativo, con la cucina giapponese di alta fascia ampiamente premiata – 6 delle 17 new entry servono sushi – la ristorazione francese ugualmente riconosciuta e due belle sorprese per la cucina messicana in città, entrambe a Brooklyn. 27, invece, sono gli ingressi nella squadra delle tavole Bib Gourmand, ora a quota 129; tra loro Una Pizza Napoletana di Anthony Mangieri, che si aggiunge ad altre storiche pizzerie in lista, come Don Antonio by Starita, San Matteo e Ribalta.

 

Tre stelle

Chef’s Table at Brooklyn Fare

Eleven Madison Park

Le Bernardin

Masa

Per Se

 

Due stelle

Aquavit

Aska

Atera

Blanca

Daniel

Gabriel Kreuther (new)

Ichimura at Uchu (new)

Jean-Georges

Jungsik

Ko

L’Atelier de Joel Robuchon (new)

Marea

The Modern

Sushi Ginza Onodera

Tetsu Basement (new, chiuso definitivamente)

 

Una stella

Agern

Ai Fiori

Aldea

Atomix (new)

Babbo

Bar Uchu

Batard

Blue Hill

Bouley at Home (new)

Cafe Boulud

Cafe China

Carbone

Casa Enrique

Casa Mono

Caviar Russe

Claro (new)

The Clocktower

Contra

Cote

Del Posto

Faro

The Finch

Gotham Bar and Grill

Gramercy Tavern

Gunter Seeger NY

Hirohisa

Jeju Noodle Bar (new)

Jewel Bako

Junoon

Kajitsu

Kanoyama

Kosaka (new)

Kyo Ya

L’Appart

Le Coucou (new)

Le Grill de Joel Robuchon (new)

Meadowsweet

The Musket Room

Nix

Noda (new)

NoMad

Okuda (new)

Oxomoco (new)

Peter Luger

The River Cafe

Satsuki

Sushi Amane

Sushi Inoue

Sushi Nakazawa (new)

Sushi Noz (new)

Sushi Yasuda

Tempura Matsui

Tuome (new)

Uncle Boons

Wallse

ZZ’s Clam Bar

 

a cura di Livia Montagnoli


All That Jazz: Alberto Gipponi & Gianluca Gorini

$
0
0

Due chef, dieci piatti, quattro mani e un ritmo incalzante tra cavalli di battaglia dei due cuochi e piatti nati all'impronta. A condurre il gioco, Alberto Gipponi & Gianluca Gorini. 

 

La jam session come metafora di una performance d’alta cucina a più mani non sarà una novità (vedi Gelinaz), ma resta tra le più azzeccate. Per entrambe bisogna conoscere la tecnica, saper dialogare con gli altri partecipanti, essere in grado di improvvisare con ciò che si ha a disposizione, sia esso un tema musicale o una combinazione di ingredienti. Per cui, è quanto mai azzeccato il titolo che Alberto Gipponi e Gianluca Gorini hanno scelto per la cena a quattro mani che li ha visti per la prima volta insieme, domenica 4 novembre: Tutti quanti vogliono fare il jazz. Ospite del collega a San Piero a Bagno, il trentottenne chef del Dina di Gussago porta in Romagna le sue creazioni dai nomi strambi e un’idea di cucina ludica e anticonvenzionale, che lui ama definire “narrativa”.

Le improvvisazioni

Dieci piatti, equamente divisi tra cavalli di battaglia dei due e con spazio a un paio di improvvisazioni estemporanee, per vedere cosa si può combinare insieme. La prima, già dal titolo, è tutta un programma: Questo lo mettiamo in carta. Come a dire, un punto d’incontro, un piatto che potrebbe appartenere indifferentemente a ciascuno, e in futuro sarà di entrambi: seppia, pane croccante al nero, un’essenza di mandorla alla base e spuma di ginger a dare un brivido alcolico al tutto.

Altra improvvisazione, stavolta a tema: l’autunno e la memoria. Nella Minestrina in brodosenti il tocco di Gorini, con quel brodo di funghi porcini, caldo come un abbraccio materno, ad accompagnare la “minestrina” fatta di croste di parmigiano soffiato e una grattata di tartufo, il tutto millimetricamente bilanciato dalla freschezza di una fogliolina di nepitella; e, nascosto sotto un carpaccio di porcini, quel formaggino fresco (caprema) che ti fa tornare in un attimo bambino donando una piacevolissima nota di acidità finale: un perfetto complemento all’altro piatto della memoria proposto da Gipponi, il Casoncello crudo ma cotto.

 

mandorlato di baccalà

Mandorlato di baccalà

I piatti di Gianluca Gorini

Dalla carta autunnale, Gianluca pesca il Mandorlato di baccalàe la Lepre, ginepro e mandarino. Il primo è una reinvenzione del baccalà al pil pil: dopo una cottura in abbondante olio di oliva che ne estrae il collagene, il baccalà è messo in frigorifero per 24 ore e acquista una consistenza singolare, che ricorda la pasta del torrone: ricoperto di una crosta di mandorle, è accompagnato da resina di rosmarino e da un estratto di limone, un’ondata balsamica che sgrassa e ripulisce il palato. Anche la Lepre, ginepro e mandarinoconferma la maturità di Gorini nel bilanciare le varie note gustative, con particolare felicità nell’elemento vegetale, e la capacità di esaltare la materia prima con una rielaborazione creativa (qui la particolare lavorazione della lepre stessa) di gran tecnica. Segni di una cucina originale, energica e di grande personalità, che ha saputo smorzare gli spigoli e gli eccessi degli esordi per approdare a una sorprendente maturità.

I piatti di Gipponi

In questa partitura, Gipponi è l’elemento disturbatore, l’agente provocatore, fin da quei giochi di parole con cui battezza i piatti, retaggio della vocazione da sociologo. Divinasemina il panico in sala: eppure, all’apparenza, è solo un piatto di spaghetti. Che però, al naso, rivelano un inquietante profumo di incenso, aggiunto in forma di olio essenziale durante la mantecatura: al palato, è una nota balsamico-acida che gioca con la dolcezza apportata da un altro ingrediente chiave, il mosto, accompagnato da pezzetti di mandorle e noci. Blasfemo? Forse, ma se si sta al gioco ci si diverte, eccome.

 

Quaglia

Quaglia

Altro giro, altro regalo. Vi rode il fegato, descritto dall’imperturbabile chef bresciano come “un piatto sull’invidia”: fegato di fassona appena scottato in padella (per evitare che emerga la caratteristica nota ferrosa), cipolle fritte, estrazione di mela, riduzione di mela alla curcuma, noci tostate, salsa bordolese. Un fegato alla veneziana very, very revisited: tornando a un paragone jazzistico, vien da pensare agli assalti terroristici del sassofono di John Zorn che rifà i classici di Morricone. Non per tutti i palati, va da sé.

L'ultimo assolo. La quaglia nel dessert

Infine, l’ultimo assolo. “Ogni volta che faccio un dolce, un pasticciere muore di crepacuoreti dice il Gipponi con quella faccia da poker: e non si fatica a credergli davanti a un dessert come C’è qualcosa che non Quaglia. Sì, proprio quaglia: il piccolo volatile come elemento centrale di un dolce-non-dolce è una trovata che fa alzare un sopracciglio, e paventare la boutade fine a se stessa, pour épater. Eppure, ci crediate o no, funziona, eccome. Quaglia al miele, crumble di cacao e whisky, crema di pinoli, caramello e mou alla salvia, gelée al whisky, il tutto accompagnato da un bicchiere di brodo di quaglia, miele e spezie, da sorbire tra un boccone e l’altro. Potrebbe stare in qualsiasi punto del menu, a fine pasto è il degno coronamento di una cena avventurosa, divertente e mai prevedibile. Come ogni jam session degna di questo nome.

DaGorini – San Piero a Bagno (FC) - Via Giuseppe Verdi, 5- 0543 190 8056- http://www.dagorini.it/

Dina – Gussago (BS) - via S. Croce, 1- 030 252 3051- http://dinaristorante.it/

a cura di Roberto Curti

Mangiare in Sicilia. Guida alle migliori 6 pizzerie

$
0
0

Seppur contenuta, la selezione della guida Pizzerie d'Italia per la regione Sicilia fornisce una serie di consigli validi per assaporare pizze d'autore nell'isola. Ecco quali sono. 

 

Niente guide cittadine, stavolta, ma una panoramica regionale che indaga le più interessanti espressioni dell'arte bianca siciliana. Da Siracusa a Palermo, da Messina a Salina, l'isola sa presentare quanto di meglio riserva un territorio che ha fatto della cucina e del buon cibo uno dei suoi simboli più rappresentativi. La terra siciliana è un paniere di ingredienti prelibati perfetti per condire dischi di pasta dallo stile diverso, declinati nelle tante sfumature che il mondo della lievitazione sa assumere. Per la nostra selezione, ci siamo affidati agli indirizzi inseriti nella guida Pizzerie d'Italia 2019, scegliendo solamente quelli riconosciuti con un punteggio minimo di 85 punti.

L'Orso – Messina

Ginaluca Arcovito e Giusepe Denaro sono gli artefici di questo locale di alto livello basato su farine macinate a pietra, integrali, semintegrali e un impasto ad altissima idratazione, con tempi di maturazione che vanno dalle 48 alle 96 ore. A preparare le pizze è Matteo La Spada, che si destreggia fra diverse farine, semi, grani antichi siciliani, malti e fibre, ingredienti che vanno a comporre e caratterizzare le tante tipologie di impasto. Fra le pizze da non perdere, l'Essenza Marina, con aglio rosso di Nubia, basilico, origano selvatico siciliano, olio extravergine di oliva e pomodori San Marzano. Degne di nota anche il Tronchetto Gourmet con mortadella di Bologna, stracciatella pugliese, granella di pistacchi di Bronte, pesto di pistacchio e basilico, e la Fata Morgana, a base di datterini gialli, stracciatella, gambero rosso di Mazara ed erba cipollina. Immerso in un'atmosfera rustica che ricorda quella dei pub nei mesi più freddi, nella stagione estiva il locale si trasferisce al Blanco Beach Club, con vista impagabile sullo Stretto di Messina.

L'Orso – Messina – via P. Calapso, 12 – www.lorsomessina.com

La Braciera – Palermo

Daniele Vaccarella ama sperimentare con farine integrali e non, abbinare gli ingredienti in modo insolito e provare nuovi accostamenti. Nel locale di via San Lorenzo (che in estate si sposta a villa Lampedusa) è possibile trovare impasti diversi, conditi nei modi più disparati, per un totale di oltre 90 specialità in carta e 13 basi differenti. Qualsiasi sia il mix di farine scelto, a impreziosire il disco ci saranno le migliori materie prime selezionate con cura dal pizzaiolo, dal pomodoro bio alla mozzarella di bufala. Classico intramontabile della casa è la Schiacciata Red Devil, con ricotta fresca, salame piccante, acciughe e caciocavallo, ma vale la pena provare anche la bufala, friarelli saltati con aglio e peperoncino, scamorza affumica e salsiccia tritata. Il tutto accompagnato da vini e birre artigianali di alto livello.

La Braciera – Palermo – via San Lorenzo, 6b – www.labraciera.it

PerciaSacchi - Palermo

Biodiversità e stagionalità sono le parole chiave alla base del lavoro di Miriam Scozzari, pizzaiola esperta e instancabile ricercatrice dei prodotti migliori, specialmente quelli autoctoni. Alla base di tutto, grani ricercati come il Senatore Cappelli, la Tumminia e Perciasacchi, e poi una lenta maturazione che garantisce digeribilità e leggerezza. Tanti i topping fra cui scegliere: da provare la Cavolicelli, una base bianca con mozzarella di bufala affumicata di Paestum e salsiccia, che si arricchisce di tutte le verdure di stagione più saporite. Oltre alle selezioni del menu, è possibile optare per la formula a degustazione, pensata per essere condivisa da almeno quattro persone. Ottimi anche gli antipasti – in particolare il fritto di formaggi tipici siciliani – e molto valida la carta dei vini, con una particolare attenzione alla produzione biologica.

PerciaSacchi – Palermo – via del Monte di Pietà, 5 – www.perciasacchi.it

Tondo – Palermo

Ricavato dagli spazi dei magazzini di un palazzo di inizio Novecento, il locale arredato in stile contemporaneo offre una delle migliori pizze della città, semplice e autentica, senza fronzoli. Un prodotto sincero basato su un solo tipo di impasto, fragrante e scioglievole, fatto per il 30% di grano duro e il 70% tenero, lievitato per 72 ore a temperatura ambiente e idratato al 68%. A realizzarlo, Antonino (Nino per gli amici) Puccio, che nella tradizione napoletana ha trovato la sua fonte di ispirazione. Fra le specialità della casa, infatti, le pizze fritte, ma anche le classiche tonde, Marina e Margherita in primis. Per gli amanti dei sapori intensi e decisi, c'è la Diversamente Parmigiana, con pelati, pomodorini confit, fiordilatte, melanzane al forno e chips di parmigiano, oppure la Regina, con pomodorini, mozzarella di bufala affumicata di Paestum, ricotta di bufala e prosciutto di Parma 18 mesi. Da provare anche i classici della rosticceria siciliana: sfincioni, pitoni messinesi e tabische.

Tondo – Palermo – via M. Amari, 16

Piano B – Siracusa

Dall'Alto Adige alla Sicilia, Friedrich Schmuck ha portato nella perla della Trinacria orientale la sua passione sfrenata per l'arte bianca. Una cura del dettaglio maniacale, frutto di studio intenso e ricerca continua, unita alla voglia costante di sperimentare. Sono quattro gli impasti principali fra cui scegliere: uno sottile e croccante, uno soffice e dal cornicione rigonfio, uno integrale a fermentazione spontanea senza lievito aggiunto e quello alla pala servito sul tagliere, per almeno due persone. Se gli impasti sono impeccabili, non sono da meno i topping, come la crema di patate con carciofi spadellati e baccalà, oppure la crema di zucchine, pomodoro confit, pesto di basilico e scaglie di Parmigiano. Non può mancare un assaggio del calzone, in particolare quello farcito con fiordilatte ragusano, pomodoro San Marzano e prosciutto cotto alla brace.

Piano B – Siracusa – via Cairoli, 18 – www.pianobsiracusa.com

Franco Manca – Santa Marina Salina

All'estero l'insegna Franco Manca rappresenta un vero colosso della ristorazione italiana. Partito da un progetto innovativo nato a Brixton, Londra, per idea di Giuseppe Mascoli e poi diffusosi in breve tempo in altri quartieri e città. Un anno e mezzo fa la creatura di Mascoli è approdata anche in Italia, a Salina, con tavoli sul lungomare e vista su Lipari, un'atmosfera rilassata unica e i colori variopinti dell'isola a fare da sfondo. Sul tavolo arrivano le pizze a lunga fermentazione con lievito madre, cotte in forno a legna e condite con ingredienti freschi di stagione, dal pescato quotidiano alle verdure. E poi suino Nero dei Nebrodi, capperi, acciughe, ricotta, olive e molto altro ancora. Menzione speciale va all'Eoliana, creata in collaborazione con Martina Caruso, chef dell'hotel Signum, con mozzarella, pomodoro del piennolo, patate al forno, cipolla rossa, capperi di Salina, olive nere e menta fresca.

Franco Manca – Santa Marina Salina (ME) – via Marina Garibaldi, 3 – www.francomanca.co.uk

a cura di Michela Becchi

Pizzerie d'Italia 2019 – pp. 395 – Euro 8,90 – La guida è acquistabile in edicola, libreria e online

Guida Pizzerie d'Italia 2019 del Gambero Rosso: è arrivato il tempo dei voti

Mangiare a Verona. Guida alle migliori 8 pizzerie

Mangiare a Torino. Guida alle migliori 5 pizzerie

Mangiare a Firenze. Guida alle migliori 9 pizzerie

Mangiare a Bologna. Guida alle migliori 7 pizzerie

Tutto sulla mela. Origine, presente, futuro e proprietà nutrizionali di questo falso frutto

$
0
0

È un falso frutto, imprevedibile, mutevole, folle, multicolore e multiforme. Riserva di zuccheri per l'inverno (sia per gli orsi che per gli uomini) e simbolo della fantasia della natura e dei breeder. È la mela.

 

L'origine della mela

Per capire di più sulle mele siamo andati nella banca del germoplasma del melo in Alto Adige, nel Centro di Sperimentazione Agraria e Forestale Laimburg. Ad accoglierci, il breeder (colui che si occupa di miglioramento genetico) Walter Guerra. “Creiamo ogni giorno nuove specie con metodi naturali” ci spiega“come fossimo delle api. Essendo il melo una pianta autosterile, ha infatti bisogno di una seconda varietà per l’impollinazione e dell’aiuto di api o altri insetti”. La peculiarità delle mele è proprio quella di essere una pianta non autoimpollinante, per la quale ogni seme dà vita a una nuova varietà di mela, che di norma matura tra fine agosto e metà ottobre, ma poi ha una capacità di conservazione che arriva fino ai quattro mesi. Un inno alla biodiversità di ieri e di oggi, dunque, imprevedibile (gustatevi il video del poeta e narratore Roberto Mercadini) e quasi magica. Ma qual è la madre di tutte le mele, la mela più antica del mondo, progenitrice di tutte le specie attualmente esistenti? “La Malus sieversii, che ha origini lontane, in Kazakistan. Ho avuto la fortuna di visitare i boschi di melo selvatico lì, dove piante assolutamente diverse da quelle a cui siamo abituati danno frutti praticamente immangiabili”.

Mele selvaticheMele selvatiche

I primi selezionatori di mele sono stati gli orsi in Kazakistan

Le mele selvatiche sono infatti molto astringenti, anche se hanno un contenuto polifenolico alto, ed è sorprendente come si sia arrivati da quelle alle mele super gustose e succose di oggi. “Tutto è avvenuto tramite selezione genetica, tra l'altro cominciata dagli orsi! Gli orsi nei boschi del Kazakistan si sceglievano le mele giuste per andare in letargo, quindi quelle con un contenuto di zuccheri maggiore, e nei millenni hanno pian piano selezionato le varietà più dolci trasportandole attraverso le loro feci. Poi l'uomo attraverso la via della seta ha portato la Malus sieversii in tutta Europa e in tutto il mondo, addomesticando il melo e selezionando frutti sempre più grandi, più conservabili, più adatti al consumo fresco”. A Laimberg è però possibile vedere alcune delle varietà più antiche, compresa la Malus sieversii. “Qui si trovano centoventi varietà differenti, alcune recuperate anche in Alto Adige e nel Tirolo. Ma non chiamateci museo”.

La creazione di nuove varietà di mela

Oltre a conservare le antiche varietà, a Laimberg si fa ricerca, magari trovando degli sbocchi commerciali alle mele che sono andate via via scomparendo negli anni. “L'Alto Adige e il Trentino producono soprattutto per il consumo fresco, ma la mela si presta a tante preparazioni, dalle frittelle (Apfelkiachln) agli strudel. Parlando con le persone, con chi vive ancora nei masi, ci siamo resi conto, per esempio, di come la Ruggine del Tirolo sia eccezionale per fare le frittelle, e così abbiamo cercato di reimmetterla in commercio”. Al di là di recuperare e dar nuova vita (commerciale) alle varietà antiche, i breeder utilizzano queste varietà per crearne di nuove. “Abbiamo sì l'impegno amministrativo e politico di conservare le vecchie varietà, però nulla ci vieta di produrre delle mele che magari riprendano sapori perduti, ma in una visione più moderna che richiede, per esempio, anche croccantezza, succosità, lunga conservabilità in vista delle regole della gdo”. Alcuni di questi “esperimenti” si possono consultare nel sito pomosano.laimburg.it.

La PicaLa Pica

Prima di congedarci da Laimburg assaggiamo una mela stupenda e bellissima che combina due origini ancestrali, “una gli ha regalato la resistenza, l'altra la polpa rossa”, ci spiega il breeder, che in un moto di orgoglio ci mostra anche la loro ultima creatura: “Si chiama Pica, è una specie nuova in Europa ancora non immessa nel mercato. È un incrocio tra tre specie diverse, il nashi (pirus), il pero cinese e quello europeo, con l'obiettivo di combinare la croccantezza e la succosità del nashi con l'aroma delle pere europee”. Un frutto che vedremo nei mercati, si spera, tra vent'anni. “Per portare una nuova mela sul mercato ci vogliono parecchi anni, pensate che la Pink Lady è stata incrociata nel 1973 e immessa sul mercato solo negli anni '90, lasciandosi alle spalle 10mila tra sorelle e fratelli tutti scartati in fase di selezione”. Poi non dite che la mela è un frutto banale.

Le proprietà nutritive

Le proantocianidine, monomeri e polimeri dei flavonoidi, la classe principale di polifenoli della mela presenti in quantità variabile a seconda della tipologia e soprattutto nella buccia, contribuiscono in maniera significativa all'azione antiossidante totale delle mele, in grado di proteggere l'organismo dai danni riconducibili ai radicali liberi. Inoltre, la mela, come molti altri frutti, costituisce un'ottima fonte di acqua, fibra e micronutrienti (vitamine e sali minerali). La mela è infatti ricca di minerali (potassio, fosforo, calcio, magnesio, sodio e ferro) e vitamine (C, PP, B1, B2, B6, A, E) e ha un apporto calorico di circa 45 – 55 calorie per 100 grammi. Sia nelle mele fresche che in quelle secche è poi importante il contenuto di fibra, che svolge una serie di azioni benefiche per l'organismo. In particolare, fornisce materiale nutritivo alla flora batterica nell'intestino (effetto prebiotico) e facilita il transito intestinale, riducendo il rischio di comparsa di alcune malattie dell'intestino (come la diverticolosi del colon) e altre patologie degenerative. La fibra solubile invece (ad esempio la pectina) contribuisce al controllo del livello di glucosio del colesterolo nel sangue. Senza contare che questo frutto contribuisce a stimolare il senso di sazietà. Ultima cosa: perché è un falso frutto? Semplicemente perché il vero e proprio frutto è la parte del torsolo che contiene i semi, mentre tutta la parte accresciuta attorno, quella che noi mangiamo, non è originata dalla fecondazione e quindi non è botanicamente definibile come frutto.

 

www.laimburg.it

 

a cura di Annalisa Zordan

 

Dal Bolognese guarda all'estero. La cucina emiliana da Casablanca alla Dolce Vita romana, ora arriva a Miami

$
0
0

La storia del Bolognese a Roma inizia nel 1960, ma i primi passi della famiglia Tomaselli nella ristorazione portano a Casablanca. Il mito della longeva tavola emiliana di piazza del Popolo, però, si consolida negli anni della Dolce Vita romana, ed è sopravvissuto fino a oggi. Così, adesso, si punta in alto: 3 milioni di euro per la scalata all'estero. Prima tappa Miami.

 

Da Casablanca a Roma

Quella del ristorante Dal Bolognese a Roma è una storia di imprenditoria familiare che si tramanda da tre generazioni. Ma la tavola con vista su piazza del Popolo è nota soprattutto come tempio della Dolce Vita, e l'allure di un passato mitico popolato di personalità come Maria Callas, Orson Welles, Marlon Brando, Gianni Agnelli continua a farne una tappa obbligata per il jet set internazionale di passaggio in città. Sebbene i fasti di un tempo siano lontani. E però la famiglia Tomaselli non ha mollato il colpo. Ettore, operaio specializzato nella Ducati del primo Novecento, emigrato a Casablanca negli anni in cui l'Italia faceva fatica a riprendersi dagli sfaceli della guerra, incrocia il suo destino con quello di una donna di casa, la mitica Cesarina (sorella di mamma Elvira) che nel frattempo faceva la storia della cucina emiliana a Roma. E in Marocco sceglie di intraprendere anche lui la strada della ristorazione: Il Chianti e il Don Camillo, tra pasta all'uovo e bolliti, diventano in pochi anni tavole blasonate ed esclusive. Ma l'indipendenza del Marocco interrompe la favola, la famiglia Tomaselli torna in Italia, la scelta cade sui locali in vendita di quello che diventerà il Bolognese. Il contesto, certo, è molto diverso, la Dolce Vita scorre altrove, nelle serate di via Veneto; ma la schiettezza della cucina emiliana conquista tante personalità del tempo, Elsa Morante, Alberto Moravia, Renato Schifano. Presto arrivano i vip internazionali, Alain Delon, Jackie Onassis... Alfredo, il figlio di Ettore, cresce al ristorante, impara a prendere le misure, registra volti e preferenze di ogni cliente, specie quelli che tornano in modo assiduo, politici, attori, registi tutti conquistati dalla storia dell'insegna.

L'ambasciata della cucina emiliana

I piatti sono quelli della tradizione emiliana, una classicità senza tempo (i prezzi sono saliti, però, gonfiati dalla mitologia del luogo) orientata dalle ricette che ininterrottamente si tramandano al ristorante dal 1960 a oggi, mentre a dirigere i giochi si affaccia una nuova generazione, quella di Ettore, che dal nonno ha ereditato anche il nome. Nel frattempo, 13 anni fa, Dal Bolognese è arrivato anche a Milano, ma il desiderio di crescere in nuove direzioni si concretizzerà nel 2019 con il debutto oltreoceano, con l'apertura del primo ristorante di famiglia negli Stati Uniti, a Miami. Il progetto è parte di un'operazione imprenditoriale del valore di 3 milioni di euro, che si concretizzerà nelle prossime settimane con l'emissione di un bond sottoscrivibile da un massimo di trenta investitori (già individuati).

 

Dal Bolognese a Miami

Questo perché l'intenzione della famiglia Tomaselli è di esportare un brand molto riconosciuto in Italia senza che il prestigio del “casato” risenta del viaggio extracontinentale, per posizionarsi con solidità nel mercato della ristorazione americana. La chiamata è stata rivolta quindi a finanziatori professionali e istituzionali che riceveranno fino al 2023 una cedola semestrale al tasso di interesse del 5% su base annua. In parte, però, l'avventura a Miami sarà finanziata direttamente dalla famiglia, che si impegna a restituire l'investimento entro il 2023. La scelta di aprire nella principale destinazione della Florida è frutto di uno studio approfondito, che ha tenuto in considerazione il contesto sociale e fiscale della città, le condizioni climatiche, il posizionamento sul target, stimando di attrarre soprattutto un pubblico di over 35 altospendenti. Dunque il Bolognese aprirà a ottobre 2019 all'interno della Brickell Bay Tower, sulla baia di Key Biscayne, dove da tempo è arrivato anche Cipriani. Ma il ristorante sarà solo la testa di ponte di un percorso di espansione pluriennale fuori dall'Italia; Miami sarà un'opportunità per rodare la formula, atmosfere che evocano la Dolce Vita, cucina che si prefigge di non scendere a compromessi, staff formato sui fondamentali dell'italian style. In sintesi, “un bistrot di lusso” votato a raccontare una storia tutta Italia, come anticipa Alfredo Tomaselli.

 

Dal Bolognese – Roma – piazza del Popolo, 1 – www.dalbolognese.it

 

a cura di Livia Montagnoli

Signorvino e Gambero Rosso insieme per gli enoappassionati. Eventi e consigli per scoprire il vino italiano di qualità

$
0
0

Nuova alleanza all'insegna della promozione delle produzioni enologiche di qualità della Penisola, che vede insieme Gambero Rosso e Signorvino. Ecco come si concretizzerà. 

 

È una collaborazione all'insegna della valorizzazione del vino italiano di qualità quella tra Signorvino e Gambero Rosso, pronti a condividere d'ora in avanti una serie di iniziative a vantaggio degli enoappassionati e dei professionisti del settore. Del resto entrambe le aziende rappresentano un vero riferimento del comparto: Gambero Rosso, leader del settore che da oltre 30 anni informa, recensisce e promuove le eccellenze food&wine, e Signorvino nuovo format di negozi di vino specializzati ormai presente in tutta Italia per rendere alla portata di tutti circa 1500 bottiglie selezionate fra grandi produttori e piccole perle introvabili. Dunque a partire da oggi, gli scaffali degli store Signorvino faranno spazio a una selezione di etichette italiane presenti nelle guide Vini d'Italia e Berebene del Gambero Rosso: uno strumento in più per orientare verso la qualità le scelte dei consumatori, favoriti nella scelta più adatta ai propri gusti e a specifiche esigenze. Insieme, però, l'alleanza porterà alla promozione di numerose attività ideate di comune accordo per raccontare il vino in modo semplice e accessibile. Come? Per esempio con gli incontri in negozio dedicati soprattutto ai giovani e ai neofiti del vino, che potranno attingere da un ricco calendario di proposte, tra lezioni agili e divertenti, focus su tematiche nuove e curiose, cene con degustazione, master class e incontri per promuovere la cultura enoica e la specificità delle numerosissime produzioni enologiche della Penisola.

 

La soddisfazione per l'accordo

Soddisfatto dell'alleanza il presidente di Gambero Rosso, Paolo Cuccia: “La collaborazione tra Gambero Rosso e Signorvino contribuirà sicuramente a rendere note e accessibili le grandi etichette di qualità a tutti i tipi di consumatori. Siamo certi che, grazie al format degli store Signorvino e all’autorevolezza del nostro marchio, si riuscirà ad avvicinare sempre più il vasto pubblico di curiosi e appassionati a questa grande risorsa italiana”. E ugualmente orgoglioso dell'accordo il patron di Signorvino e del Gruppo Calzedonia, Sandro Veronesi: "Siamo fieri di aver stretto questo accordo con Gambero Rosso che definirei di qualità. Con Signorvino abbiamo voluto dar vita a una filosofia di promozione incentrata sul consumatore finale, interagendo con lui nello store, in maniera semplice e informale, con eventi e incontri, consigliando il cliente e avvicinandolo a questo mondo tutto da scoprire. Gambero Rosso non può che essere un sigillo di eccellenza sulla nostra selezione e le nostre attività".

Non resta che consultare il calendario per scegliere l'attività più giusta per i propri gusti.

Gli appuntamenti in programma nei Negozi Signorvino

Viewing all 5335 articles
Browse latest View live