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Mangiare in aereo. Alitalia punta sul made in Italy

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Per migliorare il servizio di ristorazione in volo, Alitalia lancia un nuovo catering (Gate Gourmet) e inaugura una collaborazione con il Gambero Rosso.

 

Buon cibo e ristorazione di bordo ad alta quota, si sa, non vanno sempre d’accordo. Ma le regole del gioco stanno lentamente cambiando: negli ultimi anni non pochi gruppi del settore hanno scelto di puntare su un miglioramento dei servizi al passeggero che passa anche dalla qualità dell’offerta gastronomica. E in questo senso la Compagnia italiana ha rivisitato l’offerta food & beverage con l’obiettivo di migliorare ulteriormente la qualità dei pasti. I dettagli del nuovo progetto, reso possibile grazie a un accordo con la società leader nel settore Gate Gourmet, sono stati presentati oggi alla fiera internazionale del turismo TTG Incontri di Rimini, dal Chief Business Officer di Alitalia Fabio Maria Lazzerini. Ma in che consiste questa novità? “Offriremo ai passeggeri in classe economy un menù totalmente rinnovato, con prodotti preparati in Italia e legati alla tradizione gastronomica del Paese”.

Diverse fasi del progetto

Nel mese di ottobre Gate Gourmet diventa il fornitore unico del catering per tutti gli aerei in partenza dalla Penisola, garantendo benefici in termini di efficienza e di ottimizzazione dei processi logistici per il caricamento dei pasti a bordo. Alla variazione del fornitore segue, nel corso del mese di novembre, il rinnovamento del menù di classe economica nei voli di medio raggio di durata superiore alle 3 ore, durante i quali viene introdotto un servizio con vassoio in sostituzione della attuale offerta di snack. Dopodiché verrà rivisto e migliorato il catering di classe economica per tutti i voli intercontinentali di lungo raggio e, nel corso del 2019, è prevista l'introduzione di nuove tecnologie che permetteranno al passeggero una scelta su misura del pasto a bordo. Insomma grazie alle strumentazioni all’avanguardia che oggi esistono è possibile elevare la qualità finale, fare cose che cinque o dieci anni fa erano impossibili.

La collaborazione con Gambero Rosso

Il progetto riguarda anche i menù della business class: a partire da metà novembre i piatti saranno infatti disegnati in collaborazione con Gambero Rosso, con l'obiettivo di valorizzare le tradizioni e i prodotti del territorio coinvolgendo le cucine delle diverse regioni. “Siamo orgogliosi di questa partnership con Alitalia”, dice Paolo Cuccia, Presidente di Gambero Rosso, “che conferma il grande impegno della nostra azienda per la valorizzazione dei territori e delle eccellenze food & beverage made in Italy. I menu realizzati per la classe Magnifica di Alitalia sono stati pensati e ideati con grande attenzione alle produzioni regionali, uniche nel panorama mondiale grazie alla loro biodiversità. Gambero Rosso, in oltre 30 anni di attività, ha costantemente operato per la promozione del nostro Paese tramite le sue attività editoriali, uniche edite e distribuite nei 5 continenti, e attraverso eventi internazionali B2B che attraggono oltre 50 mila professionisti che rappresentano il meglio della ristorazione e della distribuzione, nonché i maggiori media e influencer di ogni Paese. Questa joint venture avrà quindi ampia risonanza in tutte le mete raggiunte dalla nostra compagnia di bandiera.” Il menu è in via di definizione ma sicuramente punterà tutto sulla ricchezza enogastronomica italiana. Un viaggio (gastronomico) nel viaggio, dunque, che tenterà di far felici i passeggeri.

 

 

 


Nelle pizzerie d'Italia sta cambiando tutto: riflessioni su una rivoluzione

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Preparazione, competenza, servizio, crescita professionale, ambizioni da ristorante, vini e birre nelle loro massime espressioni. La pizzeria sta cambiando, radicalmente, talvolta troppo. Evoluzione, rivoluzione o scene da ordinaria follia? Nel numero di ottobre del mensile del Gambero Rosso abbiamo preso in analisi le pizzerie italiane. Qui un'anticipazione.

 

In occasione della nuova Guida Pizzerie d’Italia del Gambero Rosso abbiamo parlato con i protagonisti di questo settore per comprendere se sia davvero in atto una “rivoluzione pizzeria”.

Presente e futuro delle pizzerie d'Italia

C'è la carta delle Margherite (le potenzialità del pomodoro sono infinite, perché non esplorarle tutte?!) il menu degli impasti... E attenzione a non sbagliare l'abbinamento con la birra più adatta a valorizzare gli ingredienti nel piatto. Scene di ordinaria follia (?) in pizzeria: facciamo tabula rasa di tutti gli stereotipi che l'universo della pizza porta con sé, e cominciamo a ragionare sul presente (e sul futuro) delle pizzerie d'Italia. Perché si fa presto a buttarla sul ridere, ma dietro all'evoluzione quanto mai provvidenziale del settore – quella che oggi ci permette di guardare con fiducia alle prospettive di un mestiere antichissimo che finalmente sta acquistando consapevolezza di sé – c'è il desiderio di giocare al rialzo per rendere l'esperienza del cliente degna di nota. All'altezza di un cibo che nasce povero, ma si riscopre ambizioso, come i protagonisti di questa rivoluzione che parte dal prodotto – le coordinate fondamentali restano qualità della materia prima, sperimentazione su impasto e lievitazione, controllo sulle cotture, territorialità – e si spinge a ripensare completamente quell'immaginario della pizzeria fermo al servizio svogliato in ambiente verace, che quando va bene fa folclore, ma più spesso è indice di sciatteria.

Disegni di Andrea Chronopoulos

In pizzeria come al ristorante?

Per dirla con le parole di uno di loro, “chi l'ha detto che andare in pizzeria significa mangiare qualcosa alla buona ed essere serviti con incompetenza? Chi sceglierebbe consapevolmente di farlo?”. Massimiliano Prete ci scherza su, ma il suo pensiero in merito è rigoroso, come la ricerca sulla struttura della materia da cui tutto è iniziato e oggi orienta il lavoro della squadra di Gusto Madre a Torino (che ha da poco cambiato il nome in “Sesto Gusto” integrando nel team Loretta Fanella): “Partiamo dal focus sugli impasti per migliorare l'esperienza del cliente in termini di digeribilità, e questo significa saper interpretare le abitudini di consumo contemporanee, a partire dalla scelta delle farine e continuando con l'evoluzione delle tecniche. Ma questo ci ha portato anche a nobilitare l'intera esperienza, e il modello da seguire, per me, è indubbiamente quello della ristorazione”. Dunque la prima evidenza è che la tecnica non è fine a se stessa: un menu che propone impasti alternativi - dal Pizz'otto soffice e friabile all'esterno al Fa Croc ispirato alla focaccia romana farcita, al Gusto Autentico fondato su autolisi o idrolisi – non vuole certo confondere le idee: “Anzi, lavorare su diverse tipologie d'offerta, ragionate per evitare di scadere nel lungo elenco di proposte indistinte, non solo è più funzionale ad alzare il livello, ma ci impone anche di saper raccontare il prodotto al tavolo, servirlo con professionalità”. Ecco come la preparazione del pizzaiolo influenza la sua ambizione, stimolando la crescita imprenditoriale dei singoli – non sono pochi i casi di investimenti ingenti per raddoppiare (triplicare) l’attività nella propria o in altre città, meglio ancora all’estero – e incentivando i più giovani ad avvicinarsi al mestiere con prospettive completamente diverse da quelle che un apprendista alle prime armi avrebbe potuto immaginare qualche anno fa.

Disegni di Andrea Chronopoulos

L’offerta seleziona la domanda

Si cresce tutti insieme, quindi, e la qualità dell’offerta seleziona la domanda: “Io e Valeria abbiamo proposto sulla piazza romana la nostra idea di pizzeria fondata su un’esperienza di qualità a tutto tondo, dove l’attenzione e la coccola in più fanno la differenza, come la professionalità di chi si muove in sala, ragazzi giovani e preparati in arrivo dal mondo della ristorazione, motivati a sentirsi parte di un progetto che ci fa crescere insieme come squadra. Questo ha selezionato la nostra clientela”. Racconta così la sua idea di pizzeria contemporanea Pier Daniele Seu, nuovo Tre Spicchi sulla nostra Guida a pochi mesi dall’esordio del suo primo progetto imprenditoriale (Seu Pizza Illuminati, zona Porta Portese a Roma), neppure trentenne: “Sono molti gli elementi da considerare, lo studio sulla pizza resta centrale, ma in pizzeria abbiamo la possibilità di democratizzare un certo tipo di attenzioni solitamente riservate a chi frequenta ristoranti di livello, perché non farlo?”. Quindi spazio a una carta dei vini selezionata, con qualche referenza di champagne, o a una buona lambic tra le birre artigianali che girano alle spine. E ancor prima alla definizione di un ambiente accogliente, “per qualità dell’illuminazione, climatizzazione, comfort delle sedute, originalità nell’allestimento della sala, col bancone per mangiare a tu per tu con il pizzaiolo e l’angolo per l’aperitivo” aggiunge Valeria Zuppardo, compagna di Seu nella vita e sul lavoro. “Quel che tu dai al cliente, lui te lo restituisce in termini di apprezzamento. E questo ci motiva a proseguire sulla nostra strada”, chiosano entrambi.

Ecco perché una guida alle migliori pizzerie d’Italia oggi non può prescindere dal valutare tutte queste sfumature, proprio com’è stato in passato per la ristorazione: da qui la “rivoluzione” dei punteggi che tutti possono apprezzare sull’edizione di Pizzerie d’Italia 2019, presentata alla fine di settembre a Napoli. Con voti che determinano e spiegano il giudizio finale – nella scalata agli Spicchi e alle Rotelle – prendendo in considerazione tre parametri di riferimento: la pizza, chiaramente, ma pure il servizio – con tutti gli addentellati che gli competono, dalla capacità del personale di sala all’offerta del beverage – e l’ambiente. Ed è giusto così, per premiare un impegno che si complica non poco per chi vuole restare al passo con i tempi e fare scuola.

 

a cura di Livia Montagnoli

illustrazioni di Andrea Chronopoulos

 

QUESTO È NULLA...

Disegni di Andrea Chronopoulos

Nel numero di ottobre del Gambero Rosso, un'edizione rinnovata in questi giorni in edicola, trovate l'indagine completa con le testimonianze di Ciro Olivadi Concettina ai Tre Santi a Napoli e Stefano Bonamici di ZenZero Osteria della Pizza a Pisa, entrambi premiati con La migliore carta delle bevande. Un servizio di 9 pagine che include anche un focus sul sistema Franco Pepe e sul panorama pizza a Parigi con il racconto di Gennaro Nasti. Non solo, trovate anche i 5 comandamenti della nuova pizzeria contemporanea, una mappa esemplificativa con i migliori pizzaioli d'Italia secondo la nostra Guida e i 3 stereotipi in pizzeria.

 

Il numero lo potete trovare in edicola o in versione digitale, su App Store o Play Store

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Cena in punta di Tre Forchette 2019. L’appuntamento alle porte, i numeri della nuova edizione di Ristoranti d’Italia

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Aspettando il 29 ottobre, quando sarà l’Hotel Sheraton di Roma a ospitare la presentazione della guida del Gambero Rosso dedicata alla migliore ristorazione nazionale, anticipiamo i numeri dell’edizione 2019. Intanto si scaldano i motori per la grande cena “in punta di forchetta” di lunedì sera. Ecco come partecipare.

 

Ristoranti d'Italia. Edizione 2019

L’appuntamento con la presentazione della guida Ristoranti d’Italia 2019 si avvicina. Lunedì 29 ottobre tutte le ultime novità della ristorazione nazionale saranno protagoniste allo Sheraton Hotel di Roma, dove la cerimonia di premiazione inizierà alle 18, per proseguire, in serata, con una spettacolare cena “in punta di Tre Forchette”, dalle 20.30. La guida presenta una fotografia capillare del panorama gastronomico della Penisola, segnalando gli indirizzi che valgono il viaggio, quelli che raccontano lo stato dell’arte della ristorazione italiana, dalle trattorie storiche alle cucine più moderne, ai guizzi d’autore, alle grandi tavole. Quest'anno sono 38 le Tre Forchette – stesso numero dello scorso anno, con alcune sorprese – e 27 Tre Gamberi (2 in più dello scorso anno), a premiare l’eccellenza della cucina tradizionale italiana. E poi 10 Tre Bottiglie, 4 Tre boccaliTre Mappamondi, riconoscimento assegnato ai migliori ristoranti etnici. Premiati anche i bistrot, e quella cucina informale (ma curata e originale) che si presta a ogni momento della giornata, con un approccio moderno e fresco alla ristorazione di qualità: 6 sono le insegne Tre Cocotte che l’edizione 2019 porta in sorte. 24, invece, sono i Premi Speciali assegnati ai protagonisti del settore. Così la guida, che raccoglie ed elabora, tra gli altri, gli stimoli delle guide cittadine presentate nei mesi scorsi (Milano e Roma, ma presto arriverà anche la prima edizione dedicata a Torino), offre un valido vademecum per orientarsi su un orizzonte gastronomico sempre più affollato e diversificato, anticipando al tempo stesso le tendenze del prossimo anno, grazie al lavoro di moltissimi collaboratori presenti sul territorio.

 

La cena Tre Forchette

Anche la Cena in punta di Tre Forchette (fuori dagli schemi) si conferma un evento da non perdere: 8 grandi cuochi in punta di forchetta, per 8 piatti da scoprire in assoluta libertà, personalizzando il proprio percorso tra le isole allestite da ognuno dei grandi protagonisti della ristorazione italiana chiamato a intervenire: tra loro alcune delle Tre Forchette 2019. In abbinamento 40 grandi etichette della guida Vini d’Italia (protagonista due giorni prima, sabato 27 ottobre, con la premiazione dell’Auditorium Massimo la mattina, e poi con la grande degustazione, sempre allo Sheraton, dalle 16), un percorso che permetterà di toccare le più importanti zone vitivinicole del Paese attraverso una lista di grandi aziende. Bollicine da Franciacorta e da Valdobbiadene, fragranti bianchi dalla Campania, dall'Alto Adige, dalla Liguria, dal Friuli Venezia Giulia, dalla Sicilia, dalla Sardegna; rossi eleganti e austeri da Piemonte, Toscana e Basilicata, e corposi a caratteriali dalle Marche, dal Lazio, dall'Abruzzo, dal Veneto, dal Trentino, dalla Puglia. E per chiudere, per accompagnare il dessert, troverete due vini dolci, uno dal Piemonte, l'altro dall'Umbria. Acquistare il biglietto per partecipare alla serata è semplice, basta accedere allo store online del Gambero Rosso. Per scoprire piatti e protagonisti della cena, invece, non resta che partecipare. Ormai manca poco!


Carta dei vini della Cena Tre Forchette

Acquista la Cena in punta di Tre Forchette

 

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Giorgione Orto e Cucina ad Ancona. Giorgione protagonista da Wine Not? con Umani Ronchi

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Due serate in compagnia di Giorgione, l'oste più amato d'Italia, volto di Gambero Rosso Channel. Appuntamento al Wine Not? di Ancona, il 24 e 25 ottobre. 

 

Ormai è un appuntamento fisso da non perdere. Anche quest'anno, il 24 e 25 ottobre, Giorgio Barchiesi, alias Giorgione, torna ad Ancona per due serate di intrattenimento e buon gusto. A ospitarlo lo spazio dedicato alle eccellenze enogastronomiche del Grand Hotel Palace del capoluogo marchigiano, il Wine Not?. Al pian terreno della struttura, il wine bar dell'hotel propone specialità gastronomiche in abbinamento ai vini del territorio, con particolare riferimento ai prodotti di Umani Ronchi, partner del gruppo impegnato nella valorizzazione della cultura gastronomica marchigiana di qualità.

 

Giorgione Orto e Cucina 3

Tra un paio di settimane, dunque, l'oste più amato della tv e volto di Gambero Rosso Channel, sarà protagonista col suo libro Giorgione Orto e Cucina 3, per raccontare il suo itinerario on the road alla scoperta delle specialità gastronomiche del Centro Italia. Il libro, infatti, raccoglie le ricette che Giorgione ha dedicato ai territori e alle tradizioni culinarie dell'Italia centrale, alla ricerca del buono, del bello e del laido, da Roma antica alle delizie dell'Emilia, dai mercati fiorentini alle montagne abruzzesi, senza saltare i tartufi nelle Marche e le bontà della sua Umbria. Appuntamento alle 19 per due giorni consecutivi: un'occasione per conoscere da vicino il volto televisivo della cucina regionale più golosa e genuina, pronto a confermarsi grande mattatore dello spettacolo. Prima di preparare la cena per gli ospiti della serata.

 

Giorgione Orto e Cucina 3 | Ancona | lungomare Luigi Vanvitelli, 24 | 24 e 25 ottobre, dalle 19 | ingresso libero |  www.winenotancona.it

Cantina Urbana Milano. Le prime foto della cantina che produce vino sui Navigli e invita tutti a scoprirla

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Aprirà al pubblico il prossimo 12 ottobre, ma alla Cantina Urbana di via Ascanio Sforza, fondata da Michele Rimpici, tutto è pronto per far partire produzione e degustazioni guidate. Ecco le prime foto degli spazi. 

 

Apre a Milano la prima cantina urbana d’Italia, stabilimento tech e di design, per sapori genuini e senza fronzoli modaioli. Un posto dove l’uva arriva in diretta dalla vendemmia in camion frigo, viene pigiata e avviata ai processi di lavorazione che ne fanno vino, artigianale, ottimo, di qualità, esattamente come accade nelle Langhe o in Franciacorta, solo che qui siamo in pieno centro a Milano, lungo il Naviglio pavese. Come già ci raccontava qualche settimana fa Michele Rimpici, ideatore del progetto (ma della squadra fanno parte anche Francesco Priore, lo store manager, Denis Monella, il cantiniere, Chiara Bettini, la gastronoma, Martina Venturini, la responsabile eventi, e Valentino Ciarla, l'enologo supervisor), l’uva è selezionata da piccoli vigneti di agricoltura sostenibile, da contadini di fiducia: “che siano uve lombarde o siciliane, devono essere pregiate e dalla personalità forte”. A vinificazione completata il vino è venduto fresco, sfuso o in bottiglia, oppure affinato in vasi vinari in acciaio, legnousato o terracotta. Il principio è no sofisticazioni, né in vigna né in cantina, e livelli bassissimi di solfiti. I primi vini che usciranno saranno quelli della vendemmia 2018, nel frattempo vini selezionati con la filosofia di Cantina Urbana da Michele Rimpici.

Il valore ‘urbano’ della cantina significherà molte cose: accessibile a tutti, vendita diretta, enologia senza retorica e senza improbabili descrizioni figurate alla ciliegia e muschio bianco. Del vino qui c’è il senso di comunità (urbana) e di cultura enologica professionale alla portata di tutti, si può assistere da vicino alla produzione, chiedere, partecipare.

“L’idea è accorciare la distanza tra l’uva e la gente, togliendo il superfluo e ritornando al passato. Una volta il vino si comprava andando in cantina con le bottiglie vuote, facendo due chiacchiere con il produttore e scoprendo il mondo che c’è dietro”.

Un’esperienza sociale, aperta agli appassionati come ai neofiti

In cantina com’è noto si assaggia il vino, possibilmente accompagnandolo con salumi e formaggi, così alla Cantina Urbana, si offrono degustazioni in abbinamento a prodotti speciali dal territorio come i formaggi de Il Boscasso di Ruino e pani della Cascina Sant’Alberto. Cantina Urbana offre consegna a casa e la possibilità di organizzare cene ed eventi negli spazi del vino, ma la novità più nuova è la possibilità di andar lì a farsi il vino personalizzato.

Con l’aiuto dell’enologo è possibile inventarsi un blend su misura, tarato sulle proprie esigenze, gusto e palato, da raccontare all’esperto, come dallo psicologo!

Apertura al pubblico in programma per venerdì 12 ottobre, a partire dalle ore 19, con il “numero zero” del format WTF (Wine Tasting Friends), che punta a diventare un appuntamento settimanale fisso. Intanto ecco in anteprima una photogallery degli spazi.

 

Cantina Urbana /Wine Collective – Milano – via Ascanio Sforza, 87 – dal 12 ottobre

 

a cura di Emilia Antonia De Vivo

 

Michele Massaro. Storia del fabbro coltellinaio degli chef

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È la storia di un hobby trasformatosi in lavoro, di un percorso cominciato in un paese del Friuli e arrivato nelle cucine degli chef. Il protagonista è Michele Massaro, che nel 2015 ha deciso di cambiar vita per aprire l'Antica Forgia Lenarduzzi a Maniago.

 

Michele Massaro e la sua Antica Forgia Lenarduzzi a Maniago

A Maniago il ferro lo forgiano da secoli. Prima era Celeste, poi Giuseppe, che ha trasmesso la sua arte a Marino, che a sua volta ha “forgiato” i figli Ferrando e Romeo da cui il protagonista della nostra storia ha appreso il mestiere del fabbro. Sembra una filastrocca, ma è uno dei tanti alberi genealogici che hanno reso questo pezzo di Friuli interprete di una storia di identità collettiva fatta di fucine, magli, battiferro e nerofumo sulle parenti in pietra. Eppure, oggi, gran parte delle fucine hanno chiuso, colpa della grande industria dicono, e pian piano il temprare l'acciaio è diventato cosa per pochi. Tra i pochi c'è Michele Massaro, quarantenne che nel 2015 ha deciso di cambiar vita aprendo l'Antica Forgia Lenarduzzi, in onore dei fratelli Ferrando e Romeo Lenarduzzi, dai quali ha appreso la tecnica tradizionale di forgia, ma soprattutto per ricordare quegli artigiani che hanno lavorato per le grosse famiglie di fabbri coltellinai rimanendo anonimi, “penso a mio nonno, che si è spaccato la schiena respirando polvere e carbone, senza mai essere stato riconosciuto”. Un tributo che va al paese tutto, ma che non si è fermato alle tecniche tradizionali perché, come in tutti i campi, si può fare tradizione attraverso l'innovazione e la contaminazione.

L'incontro con Pier Giorgio Parini

È partito come un hobby, poi ho forgiato i coltelli per Pier Giorgio Parini e da lì ho rotto il ghiaccio: finalmente sono riuscito ad entrare in cucina, ambiente che da sempre mi piace moltissimo”. Michele è diventato il fabbro degli chef. A oggi collabora con Crippa, Tokuyoshi, Fulvietto Pierangelini, Cuttaia, Klugmann, Scarello, i fratelli Costardi, e ancora Pisani & Allegrini, Baronetto, Boer, Redzepi e Martinez. “Con i cuochi c'è una grande affinità, anche loro sono sensibili all'eccellenza, alla materia prima, al prodotto; è un filo che ci unisce. Io ragiono allo stesso modo e lavorare con loro mi dà una soddisfazione diversa rispetto al collezionista o al cacciatore, con cui peraltro non ho mai voluto collaborare”. E così, se gli chiedi dove ha imparato a forgiare, la risposta istintiva è “dai cuochi”. Già, perché un conto è imparare la tecnica da chi fa i coltelli, un altro apprendere i segreti da chi, questi coltelli, li usa quotidianamente. “Da appassionato di cucina sapevo chi fosse Parini, così gli ho chiesto di collaborare, ed è diventato uno dei miei primi maestri, fonte di ispirazione e di idee. Quando mi chiese di forgiargli 5 coltelli, non uno di meno non uno di più, con i quali sarebbe riuscito a fare tutte le operazioni in cucina, dallo sfilettare un'alicetta al disossare un capretto, ha pensato a tutto lui. Io mi sono limitato ad applicare la tecnica e le tecnologie di cui dispongo per concretizzare le sue idee”. È nata anche un'amicizia con Parini, non solo con lui, ma con tutti gli chef con i quali collabora - “se ho un dubbio su come cucinare un risotto, alzo la cornetta e mi faccio dire la ricetta dagli amici Costardi!” - specie se a legarlo sono anche le passioni e una visione della vita in comune. “Io e Fulvietto Pierangelini siamo veramente simili, abbiamo lo stesso approccio al lavoro e alla vita, anche lui entra dentro la materia che poi andrà ad utilizzare. Esistono vari linguaggi per esprimere il proprio pensiero, c'è chi scrive, chi compone musica, io forgio coltelli e lui cucina. E lo fa per comunicare qualcosa, non certo per dimostrare qualcosa a qualcuno”. La produzione si divide sostanzialmente in due linee: il grosso sono coltelli da cucina, fatti su misura, pensati attorno al cliente. Poi c’è una linea di coltelli da tavola, tutti in metallo sempre con i caratteristici segni della forgia che fanno sembrare vivo il materiale con cui sono fatti.

Un piatto con della carne e un coltello di Massaro

La collaborazione con Enrico Crippa e Yoji Tokuyoshi

Poi c'è la collaborazione con Capovilla e Gravner, per il quale ha fatto il coltello da innesto, e con Enrico Crippa. “Durante il periodo trascorso in Giappone si era comprato un coltello, e mi ha semplicemente chiesto di rifarglielo con la mia tecnica”. Tecnica che prevede l'utilizzo del laser per temprare il coltello con la rimessa in oro precedentemente inciso (procedimento che elimina il rischio di fondere il metallo). “Una commissione difficile: per lui il risultato deve essere uno solo, e vicino alla perfezione. Non a caso da Crippa ho imparato la precisione assoluta nella lavorazione”, il che si avvicina molto alla filosofia del Sol Levante dove le lame sono praticamente una religione legata alla storia della katana, la spada dei samurai.

Una filosofia replicata anche nel progetto “contaminazione” avviato assieme allo chef giapponese Tokuyoshi (gustatevi il video) dove lo chef contamina la cucina con la sua cultura e Michele contamina i coltelli con la tradizione del suo paese. Una tradizione da cui poi ha tutto il diritto di discostarsi grazie alla conoscenza assoluta della tecnica: “Solo chi conosce la tecnica, si può discostare dalla tradizione”, sentenzia Michele. E non ha tutti i torti. Oggi, per avere i suoi prodotti, la lista d’attesa supera un anno.

 

Antica Forgia Lenarduzzi – Maniago (PN) - via Tesana Nord, 95 - 348 9112802 - michelemassaro.com

 

a cura di Annalisa Zordan

foto e video di Massimo Barbot e Roberto Zanzot

Toyosu: il nuovo mercato del pesce di Tokyo. Dopo oltre 80 anni Tsukiji va in pensione

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83 anni fa il mercato ittico all'ingrosso di Tokyo apriva i battenti: in decenni di onorata carriera è diventato celebre in tutto il mondo, con le sue mitiche aste del tonno e oltre 500 specie ittiche vendute tra i banchi. Oggi trasloca nella nuova sede di Toyosu, e non mancano le polemiche. 

Tsukiji. Il tempio del pesce

Segnato da anni di annunci e ritardi, il destino del mercato del pesce di Tokyo – tra i più celebri al mondo proprio per la storia che ha custodito in molti decenni di onorata carriera – ha finalmente trovato una configurazione stabile. Visitato ogni anno da decine di migliaia di turisti (ma solo in determinate fasce orarie, per regolamentare un'affluenza cresciuta in modo esponenziale, specie per partecipare all'asta dei tonni, annunciata dalla celebre campanella alle prime ore dell'alba, che nel nuovo spazio si potrà seguire solo da dietro una vetrata), il mercato ittico di Tsukiji è stato soprattutto una finestra aperta su una sfera importantissima della cultura gastronomica giapponese e dell'economia nazionale, e in città tutti lo consideravano un'istituzione. Per questo le prime voci sul trasloco dalla storica struttura (ormai diversi anni fa, la decisione risale al 2001, quando fu individuato per la prima volta lo spazio di Toyosu) hanno sin dall'inizio sollecitato l'interesse dell'opinione pubblica, che ha seguito fino all'ultimo atto – il trasloco nella nuova sede sull'isola artificiale di Toyosu, a circa 3 chilometri da Tsukiji, ufficialmente inaugurata qualche ora fa – le vicende del frequentatissimo mercato, che con i suoi 671 venditori autorizzati, distribuiti finora su 23 ettari, di capannoni è stato anche il più grande mercato ittico all'ingrosso del mondo (e manterrà il primato).

La storia del mercato ittico più famoso del mondo

Immolato alla causa delle Olimpiadi, che Tokyo ospiterà nel 2020 e stanno incentivando grandi cambiamenti urbanistici nella megalopoli giapponese, il mercato di Tuskiji è da sempre l'emblema del rapporto simbiotico tra la cucina giapponese e il mare: frequentato ogni mattina da cuochi e ristoratori della città, non sono pochi gli chef di fama internazionale rimasti stregati dall'atmosfera che fino a qualche giorno fa si respirava tra i banchi (l'ultimo a parlarcene, Kotaro Noda, a Tokyo da qualche settimana per seguire la nuova avventura di Faro, che proprio vicino al vecchio mercato del pesce ha trovato casa, nel pieno delle attività di trasloco da una struttura all'altra, “con gli storici venditori che hanno scelto di continuare a vendere ogni mattina tutt'intorno a Tsukiji, in strada, accanto ai banchi dei contadini e del cibo di strada tradizionale, in attesa di trasferirsi nel nuovo spazio”). In numeri, la storia di Tsukiji è ugualmente impressionante: oltre 500 le specie ittiche in vendita, tra cui pregiatissimi tagli per sushi, 700mila tonnellate di prodotto venduto ogni anno, più di 12 milioni di euro di fatturato al giorno.

Il trasloco a Toyosu

Dopo oltre 80 anni, però, la storica struttura ha fatto il suo tempo, e il 6 ottobre scorso ha chiuso definitivamente battenti: dietro la decisione anche la volontà di ammodernare gli spazi da un punto di vista architettonico e tecnologico, anche se i più critici stigmatizzano ben altre motivazioni, legate alla necessità di riconquistare spazi molto appetibili, anche per la costruzione dell'autostrada che collegherà il villaggio olimpico con la stadio dei Giochi. Nell'area di Tsukiji, infatti, sorgerà il grande parcheggio destinato a decongestionare il traffico durante le Olimpiadi. Ecco perché, già nel 2012, il cantiere per la costruzione del nuovo mercato si è messo in moto, lamentano i venditori senza grande coinvolgimento di chi nel mercato lavorerà ogni giorno da parte dei progettisti. Del resto il commercio ittico, in Giappone, è una cosa seria: una disciplina rigorosa, regolata da rituali antichi che condensano la cultura materiale di generazioni di pescatori e commercianti di pesce. Così, per esempio, il fatto che il mercato di Toyosu sia stato pensato su due piani ha fatto storcere il naso a chi privilegia la funzionalità, come d'altronde la realizzazione di banchi troppo angusti e l'unico punto di accesso per i camion adibiti al carico e scarico delle merci. Eppure l'investimento è stato ingente, oltre 4 miliardi di euro spesi tra le operazioni di bonifica dell'area e la costruzione di una struttura all'avanguardia e a misura di norme igieniche, seppur con i limiti già citati, che non convince circa la metà dei commercianti storici del mercato. Due gli edifici della nuova cittadella mercatale, uno dedicato al mare - che i visitatori potranno osservare solo dalle balconate del secondo piano – l'altro a frutta e verdura. Intorno sorgeranno ristoranti di pesci e botteghe gastronomiche di vario tipo. E dopo l'ultima asta del tonno battuta il 6 ottobre nella vecchia struttura, sul web già circolano le foto della prima asta della nuova era: visivamente tutto è rimasto com'era, ma in tanti rimpiangono l'anima di Tsukiji.

 

a cura di Livia Montagnoli

Il miglior olio del Lazio. La produzione regionale e le aziende

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Come ogni anno, ottobre porta con sé speranze e aspettative per il nuovo olio. Nel frattempo, la storia di uno dei migliori produttori della scorsa annata: Nicola Fazzi e l'extravergine dell'Alto Lazio. 

 

Aspettando la nuova annata

Ci sono periodi dell'anno che, più di altri, riescono a emozionare con la loro forza rigenerante. Per chi lavora nel mondo dell'agricoltura, non esiste momento più coinvolgente dell'autunno, in cui sensi tornano a svegliarsi dopo il torpore estivo e l'aria profuma di nuove promesse. Di vendemmia e olio nuovo. Di stagioni da ricominciare da capo, da affrontare come fosse la prima volta, ma con il bagaglio di esperienze sempre più grande costruito nel tempo. La campagna olearia inizia a ingranare e, nell'attesa di degustare i primi oli, continuiamo a indagare la situazione delle varie regioni produttive con i protagonisti della scorsa annata. A distinguersi nel Lazio, nella stagione 2017/2018, due nomi ormai noti da tempo. Americo Quattrociocchi, re della cultivar itrana fuori dai confini della Dop Colline Pontine, maestro olivicolo che nel cuore del Frusinate ha creato un'azienda d'avanguardia biologica che ogni anno si dimostra sempre più capace di realizzare oli d'eccellenza, come l'Olivastro Monocultivar Itrana Bio, un monovarietale che si è aggiudicato il premio come miglior fruttato intenso nella guida Oli d'Italia 2018, grazie alla sua trama aromatica complessa ed elegante. E poi Nicola Fazzi, direttore e agronomo della cooperativa di riferimento della Tuscia Colli Etruschi, che si è distinta per la miglior performance territoriale.

L'olio del Lazio

Sono due i grandi segmenti da tenere a mente quando si parla di olio laziale: Nord e Sud di Roma. A Sud, c'è la Dop Colline Pontine, nella provincia di Latina, dove la cultivar protagonista è l'itrana, caratterizzata dal sentore netto e deciso di pomodoro con la sua foglia, erbe aromatiche e una sferzante nota di mela verde. Nella parte settentrionale, invece, culla dell'olivicoltura della Roma Antica e fra le prime are dell'Italia centrale a conoscere l'ulivo, due denominazioni: Dop Sabina e Dop Tuscia. Nel rietino, sono la carboncella dalle nuance di erbe aromatiche, mandorla e carciofo, il balsamico frantoio e la raja, tutta erba tagliata e mandorla amara, a farle da padrone. Nel viterbese, regina indiscussa è la caninese, con sentori vegetali, amara e piccante, insieme alla rosciola. Varietà a parte, il Lazio continua a confermarsi una regione sempre più interessante, anche se la produttività dell'ultimo anno si è rivelata piuttosto varia e scostante: inarrestabile la crescita delle Colline Pontine, superiori anche per l'ottimo rapporto qualità/prezzo, non sono da meno le eccellenze nelle altre due zone, dove però si è registrato un incremento qualitativo meno marcato.

A trainare la produzione locale, nella rigogliosa Tuscia è da tempo Nicola con la sua squadra. Sono stati propri gli olivicoltori della cooperativa Colli Etruschi a contribuire alla costruzione di un'identità territoriale per l'extravergine del viterbese. Insieme al direttore, ne abbiamo ripercorso la storia.

 

olive Colli Etruschi

La caninese, simbolo della Tuscia

Anche il leccino e il frantoio sono presenti fra le circa 40mila piante di ulivo distribuite sugli 800 ettari di terreno dei soci, ma è la caninese l'oliva che più di tutte caratterizza i prodotti della cooperativa, la stessa che compone al 100% l'Evo Dop Tuscia dell'azienda. “È una pianta rustica, resiste bene alla siccità e alla malattie parassitarie. È difficile da raccogliere e la produzione è alternata: ci sono anni di carica e scarica, che possiamo contenere attraverso potature e concimazioni rigorose”. In qualsiasi caso, “è parte della nostra tradizione olivicola, per cui va compresa e accettata con tutte le difficoltà del caso”. Potature annuali, quindi, “per mantenere stabile la produzione della pianta”, e concimazione azotata, “per stimolare l'accrescimento degli alberi”. In frantoio, invece, si lavora bene, “la resa non è eccessivamente alta, ma non ci possiamo lamentare. È un drupa resistente e facile da trattare”. L'impianto è un Pieralisi a tecnologia DMF (Decanter Multi Fase), “lavoriamo a due fasi senza aggiunta di acqua e stocchiamo in cisterne di acciaio inox in ambienti climatizzati, sempre a temperature controllate”.

La Dop Tuscia e la ricerca di un'identità

Da oltre 10 anni, Nicola ha deciso di fregiare una selezione con il marchio Dop Tuscia, “siamo stati fra i primi ad aderire”, con l'obiettivo di valorizzare il territorio e far conoscere il carattere della caninese al di fuori dei confini regionali. “Ci troviamo tra Toscana e Umbria, due realtà produttive arcinote e fondamentali per l'extravergine. L'obiettivo mio e dei miei soci era quello di dare un'identità all'olio della Tuscia”. La ricerca di un marchio proprio e di un mercato di riferimento, avvenuta grazie al lavoro sempre più compatto e solido della squadra. “La cooperativa è nata nel '65 grazie alla volontà di 9 olivicoltori, che fino agli anni '80 offrivano solo un servizio di molitura. Dal '90, si è cominciato a fare un po' di confezionamento di olio sfuso, che veniva venduto all'ingrosso”. È allora che Nicola entra in società, “fin da subito mi sono impegnato insieme al consiglio di amministrazione per una produzione di qualità”. A confermare il grande sviluppo della realtà, ben tre investimenti di rilievo nel frantoio, oggi un modello ad alta tecnologia, “abbiamo cambiato il modo di lavorare: i soci sono obbligati a consegnare le olive in giornata, che vengono lavorate entro massimo 8 ore”.

 

Colli Etruschi, raccolta

La Tuscia oggi e il ritorno dei giovani

La zona oggi presenta un panorama olivicolo molto migliore rispetto a una decina di anni fa. “Gli impianti si sono modernizzati, i produttori sono più attenti, soprattutto per quel che riguarda i tempi di raccolta e molitura. Prima di entrare in cooperativa, assaggiavo già oli, e circa 90 su 100 erano difettati. Oggi, su un centinaio di oli in assaggio, se ne trovano al massimo una ventina non buoni”. Erano gli anni '90 e la comunicazione del prodotto era ancora pressoché inesistente. “La nascita della Dop ha aiutato molto il settore, così come le guide degli oli e la stampa specializzata, senza dimenticare i primi concorsi”. E anche i giovani, gradualmente, iniziano a (ri)avvicinarsi a questo mondo. Un consiglio per i neofiti? “Difficilmente ci si arricchisce con l'olio, il lavoro è duro e comporta molti sacrifici: che ci sia una gelata o un caldo torrido, si scende in campo ogni giorno. A trarne vantaggio, però, è la qualità della vita, che migliora per il ritrovato contatto con la natura”.

Il valore dell'agricoltura e il prezzo dell'olio

Quattrocento gli agricoltori che giorno dopo giorno si prendono cura delle piante alla cooperativa Colli Etruschi. Quattrocento anime che potano, raccolgono, monitorano con attenzione, si confrontano e faticano per uno stesso obiettivo. “Quando si produce olio, o qualsiasi altro prodotto, occorre ricordarsi sempre che il nostro scopo ultimo è quello di restituire dignità a chi lavora la terra, pagando loro il giusto stipendio”. Senza dover ricorrere a prezzi di vendita elevati: “Per la linea base, una latta da cinque litri costa cinquantacinque euro. Undici euro a litro”. Che per tante famiglie possono risultare eccessivi. O no? “Il consumo medio di una famiglia richiede una spesa di circa 35 euro al mese. Un caffè espresso al giorno, con la differenza che l'olio ha un valore fondamentale per la nostra salute”. Certo, ognuno è libero di spendere i propri guadagni in ciò che ritiene più opportuno, ma forse è tempo di ripensare, o quantomeno mettere in discussione, la nostra scala delle priorità. “Per l'olio della nostra automobile spendiamo spesso cifre ben più alte. E per il nostro motore quanto siamo disposti a spendere?”.

I migliori oli del Lazio

Tre Foglie

Dop Colline Pontine Monocultivar Itrana - Alfredo Cetrone - Sonnino (LT) - www.cetrone.it

Olivastro Monocultivar Itrana Bio - Americo Quattrociocchi - Alatri (FR) - www.olioquattrociocchi.it

Olio Extravergine di Oliva - Antiche Terre Pacella - Sgurgola (FR) - www.oliomontilepini.it

Athos - Boni Francesca - Vetralla (VT) - www.oliotraldi.com

Evo Dop Tuscia Monocultivar Caninese - Colli Etruschi - Blera (VT) - www.collietruschi.it

Cajeta Monocultivar Itrana - Cosmo Di Russo - Gaeta (LT) - www.olivadigaeta.it

Dop Sabina – DueNoveSei - Moricone (RM) - www.duenovesei.com

Colle del Polverino Monocultivar Itrana Bio - Francesco Saverio Biancheri - Priverno (LT) - www.colledelpolverino.it

Monocultivar Itrana Bio - I Lori - Cori (LT)

Grand Cru Gioacchina Pen Monocultivar Pendolino - Ione Zobbi - Canino (VT) - www.iandp.it

Le Ciaie Monocultivar Itrana – Mandrarita - Itri (LT) - www.mandrarita.it

Dop Colline Pontine Monocultivar Itrana - Oleum Summum - Sonnino (LT) - www.oleumsummum.it

Carventum Dop Colline Pontine Monocultivar Itrana – Oscar - Rocca Massima (LT) - www.oscarfrantoio.it

Monocultivar Itrana Bio - Paola Orsini - Priverno (LT) - www.olioorsini.it

Monocultivar Caninese Bio - Sergio Delle Monache – Tamia - Vetralla (VT) - www.oliotamia.com

Formica Alta - Tenuta di Carma - Bagnoregio (VT) - www.concarma.com

Dop Colline Pontine Monocultivar Itrana Bio - Villa Pontina - Sonnino (LT) - www.olio.villapontina.it

Due Foglie Rosse

In Monocultivar Itrana - Alfredo Cetrone - Sonnino (LT) - www.cetrone.it

Superbo Monocultivar Moraiolo Bio - Americo Quattrociocchi - Alatri (FR) - www.olioquattrociocchi.it

Eximius Monocultivar Caninese - Boni Francesca - Vetralla (VT) - www.oliotraldi.com

Io Bio - Colli Etruschi - Blera (VT) - www.collietruschi.it

Cavarossa - Cosmo Di Russo - Gaeta (LT) - www.olivadigaeta.it

Don Pasquale Dop Colline Pontine Monocultivar Itrana - Cosmo Di Russo - Gaeta (LT) - www.olivadigaeta.it

Monocultivar Leccio del Corno – DueNoveSei - Moricone (RM) - www.duenovesei.com

Monocultivar Itrana - Filomena Coletta - Casino Re - Sonnino (LT) - www.casinore.it

Colle del Polverino Bio - Francesco Saverio Biancheri - Priverno (LT) - www.colledelpolverino.it

Colle del Polverino Dop Colline Pontine Monocultivar Itrana Bio - Francesco Saverio Biancheri - Priverno (LT) - www.colledelpolverino.it

Etichetta Oliva Verde Dop Sabina - Frantoio Oleario F.lli Narducci - Moricone (RM) - www.frantoionarducci.it

Antinoo Bio - Gianluca Maria Lauri - Tivoli (RM)

Olitrana Monocultivar Itrana - Gregorio De Gregoris - Sonnino (LT) - www.olitrana.it

Monocultivar Coratina - Il Simposio - Nettuno (RM) - www.aziendailsimposio.com

La Cesa Monocultivar Itrana Bio - La Tenuta dei Ricordi - Lenola (LT) - www.latenutadeiricordi.net

Monocultivar Maurino - Laura De Parri - Cerrosughero - Canino (VT) - www.oliocerrosughero.it

Monocultivar Caninese - Luca Di Piero - Civita Castellana (VT) - www.aziendaagricolalucadipiero.it

Monocultivar Itrana - Luca Rossi – Sangregorio - Santi Cosma e Damiano (LT) - www.oliosangregorio.it

Olio La Macéra Dop Colline Pontine Monocultivar Itrana - Michele Costantini - Sezze (LT) - www.lamacera.it

Dop Colline Pontine Monocultivar Itrana Bio - Paola Orsini - Priverno (LT) - www.olioorsini.it

Monocultivar Maurino Bio - Sergio Delle Monache – Tamia - Vetralla (VT) - www.oliotamia.com

Cocceio Bio - Tenuta Colfiorito - Castel Madama (RM) - www.colfio.it

100% Carma - Tenuta di Carma - Bagnoregio (VT) - www.concarma.com

San Sebastiano - Tenuta Di Ponio - Castelforte (LT) - www.tenutadiponio.it

a cura di Michela Becchi

 

Tre Bicchieri. Parla Gerardo Vernazzaro di Cantine Astroni

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Cantine Astroni è una piccola realtà in un territorio unico e raro, un paesaggio forte, severo, parte del campo vulcanico flegreo, disegnato da vigne terrazzate aggrappate alle pendici esterne del cratere Astroni. Abbiamo intervistato Gerardo Vernazzaro.

 

Cantine Astroni vede alla regia, da quasi vent'anni, i coniugi Gerardo Vernazzaro ed Emanuela Russo. Da questa oasi di biodiversità, che poggia su strati di lapilli e cenere, arrivano nel bicchiere vini autentici e d’ispirata naturalezza espressiva, peculiarità che troviamo fedelmente nei cru Vigna Astroni e Vigna Imperatrice e da quelle parcelle come Vigna Camaldoli e Vigna Iossa. Ma la vera novità è il primo Tre Bicchieri dell’azienda con il Campi Flegrei Falanghina Vigna Astroni ’15, un bianco non replicabile in altre zone e che Gerardo ci racconta.

Quando nasce la cantina?

Era il 1892 quando Vincenzo Varchetta decise di rafforzare la propria attività, convinto che i tempi fossero maturi per trasformare il piacere di produrre vini in un’attività commerciale, ma erano solo gli albori di un’idea imprenditoriale. Il contributo decisivo fu dato da mio nonno Giovanni che, appena rientrato dalla Seconda Guerra Mondiale, riuscì a trasformare in realtà i sogni del padre. E a trasmettere ai figli e a noi nipoti tutta la passione e le competenze acquisite negli anni.

Ancora non era l'attuale Cantine Astroni.

No, la famiglia fonda l’attuale Cantine Astroni nel 1999, impegnandosi in un progetto di tutela e valorizzazione dell’ampelografia Flegrea, offrendo un’enologia di forti tradizioni, arricchita dalle moderne tecniche di coltivazione e vinificazione.

Quali sono le peculiarità del paesaggio flegreo?

A ovest di Napoli decine e decine di bassi edifici vulcanici compongono l’area dei Campi Flegrei, i “Campi ardenti” (dall‟aggettivo flegràios, “ardente”, in greco) degli antichi Greci. Da Posillipo a Cuma, sino alla propaggine periferica del lago Patria, si stendono ondulati rilievi, isolette, promontori e crateri nati in tempi diversi, in uno spazio di appena 65 km quadrati, voci diverse che raccontano una stessa nascita sotterranea.

Il terreno com'è?

Ovunque ci sono rocce, pozzolane e lapilli nati dal fuoco, e poi fumarole, esalazioni gassose, sorgenti termominerali e altre peculiari testimonianze di una terra spesso inquieta, segnata dal bradisismo, dalle scosse telluriche e dal Monte Nuovo, il più giovane vulcano europeo. I suoli Flegrei sono prevalentemente costituiti da rocce piroclastichescarsamente coese: ceneri, lapilli, sabbie vulcaniche, frammenti lavici, pomici a reazione acida, ricchi di potassio e poveri di magnesio.

Vesuvio

Rispetto alla ricchezza vinicola di un tempo, come si presenta oggi il paesaggio viticolo?

Resta poco di tutte le uve che si producevano nei Campi Flegrei fino agli anni ‘60/’70. Di seguito al terremoto e alla speculazione edilizia, la cementificazione selvaggia ha fagocitato tanta terra e tante vigne; oggi noi come le altre aziende ci sentiamo un po’ sentinelle del territorio, in quanto ogni vigna ha un valore non solo produttivo e colturale, ma anche sociale, culturale e soprattutto a difesa della memoria. Basta pensare che nella Doc Campi Flegrei, nata poco più di 20 anni fa (per l’esattezza il 3 Ottobre del 1994), sono stati rivendicati poco più di 100 ettari di vigne tra falanghina “verace” e piedirosso o per’ e palumm, per una produzione complessiva di circa 1milione di bottiglie, una vera e propria nicchia produttiva.

Quanto i vini del Campi Flegrei sono conosciuti all’estero?

I vini campani in generale sono poco conosciuti all’estero, quelli flegrei ancor meno. Ritengo importanti i mercati internazionali, ma considerando l’esiguo numero di bottiglie prodotte (che potrebbero essere al massimo raddoppiate, recuperando tutto il potenziale viticolo fino a 220-225 ettari) potrebbero essere vendute quasi esclusivamente in regione, al massimo in Italia. Quello che ritengo invece necessario è aumentare il valore, in quanto l’intera filiera produttiva comporta costi altissimi.

Come?

È fondamentale sforzarsi per tutelare le poche vigne come dei giardini ben curati, migliorare sempre la qualità e per qualità intendo soprattutto l’identità, il carattere, la riconoscibilità dei nostri vini al fine di stupire il consumatore finale, che dovrebbe essere disposto a investire qualche euro in più per un Campi Flegrei piuttosto che per una Falanghina. Questo è un altro aspetto fondamentale per spingere sempre di più sulla denominazione che sul vitigno, in quanto in modo particolare per la falanghina c’è una grande confusione, quindi sarebbe auspicabile proporre e vendere Campi Flegrei: il vitigno è esportabile e replicabile, il territorio no!

Vigne di Cantine Astroni

Due grandi vitigni: piedirosso e falanghina. Qual è la loro potenzialità di invecchiamento?

Per mia esperienza il bianco resiste di più al tempo rispetto al Piedirosso, con delle evoluzioni molto interessanti. Personalmente ritengo che la falanghina coltivata nei Campi Flegrei, se ben vinificata, inizi a esprimere il suo carattere e la sua personalità dopo un anno dalla vendemmia ed evolve molto bene dai 24 ai 48 mesi successivi, anche se non è difficile bere un gran bianco con qualche anno in più sulle spalle.

Il Piedirosso invece?

È il vino dell’allegria e della piacevolezza, semplice, ma non banale e di solito è bene berlo giovane in quanto si esprime sin da subito per le sue caratteristiche. Un Piedirosso, affinato in acciaio, prodotto da quattro mesi dalla vendemmia si beve benissimo, può affrontare senza timore qualche anno in più, forse un po’ di legno utilizzato come armonizzare e non per aromatizzare è auspicabile.

Come avete accolto la notizia del vostro primo Tre Bicchieri?

Una grandissima gioia! Alcuni sostengono che le guide e i premi contino poco, per noi no! Sono importantissimi, gratificano e ripagano il nostro impegno; ci danno energia positiva per provare ad alzare l’asticella. È la prima volta che riceviamo i Tre Bicchieri e ci ha veramente fatto molto piacere, poi con il Vigna Astroni, un cru che porta il nome della vigna e del cratere da dove provengono le uve, che per noi è l’emblema aziendale, è molto identificativo.

La gamma di etichette proposte è ampia e interessante, a partire dai vini fermi a quelli spumantizzati. Avete altre novità da proporre in futuro?

Stiamo lavorando a un nuovo progetto di una nuova vigna di 3 ettari piantata nel 2012 metà a bianco, metà a rosso: Vigna Jossa, questo il nome. Tra qualche anno imbottiglieremo il primo vino bianco e ad almeno 10 anni il primo rosso. In vigna ci vuole pazienza e tempo.

 

Cantine Astroni - Napoli - via Sartania, 48 - 081 5884182 - cantineastroni.com

 

a cura di Stefania Annese

 

Chi sono i Millennials Farmers e perché stanno rivoluzionando l'agricoltura

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È l'Italia a detenere il primato europeo dei giovani under 35 impiegati in agricoltura. Spesso i cosiddetti Millennials Farmers sono laureati, dispongono di grandi competenze in materia tecnologica, sono in grado di proporsi in modo convincente sui mercati esteri. E così il comparto agricolo italiano ne beneficia. 

 

Chi sono i Millennials Farmers

Li chiamano Millennials Farmers, e sono i giovani under 35 che scelgono di lavorare nell’agricoltura. Una categoria in crescita che nell'ultimo anno ha fatto registrare il primato europeo per l'Italia, dove le imprese gestite da giovani imprenditori agricoli sono quasi 60mila, con un incremento potenziale del 6% annuo. Il dato era emerso già prima dell'estate come risultato di un'indagine Coldiretti, che fotografava un'immagine dell'Italia del lavoro agricolo a forte tendenza innovativa (“un ritorno epocale, che non avveniva dalla rivoluzione industriale” specifica un passaggio piuttosto enfatico dello studio Ritorno alla terra): il vento di novità era rappresentato, per esempio, dai 30mila under 35 che negli ultimi due anni hanno presentato domanda per l'insediamento in agricoltura dei Piani di sviluppo rurale dell'Unione Europea, ma pure da tutti quei ragazzi che, lo scorso anno scolastico hanno intrapreso un percorso di studi legati alle scienze agrarie (oltre 45mila, per un incremento complessivo del 36% negli ultimi 5 anni, e il record annuale è detenuto dal ciclo 2017/2018). E poi ci sono tutti quei giovani laureati in altre discipline che scelgono di ripensarci per tornare alla terra, investendo i propri risparmi e le proprie energie nell'acquisto di un lotto da coltivare. E questo è vero soprattutto nel Sud Italia, con la Sicilia in testa alla carica degli under 35 che si riscoprono contadini. Mentre sempre a Mezzogiorno, tra la Puglia e la Campania, ci porta la classifica per province di questo speciale campionato dei Millennials Farmers, particolarmente numerosi nelle campagne di Bari, Salerno, Foggia.

 

Gli ultimi dati del comparto. Come evolve l'agricoltura

Proprio all'Università di Foggia, qualche giorno fa, è andato in scena un convegno che ha fatto il punto della situazione, sottolineando come proprio un settore tradizionale per vocazione, quello dell'agricoltura, sia in realtà il comparto occupazionale che più ha saputo reagire alla crisi economica, alimentando nuove forme di business e giovani speranze. Non a caso deiragazzi che hanno scelto di lavorare nel mondo agricolo uno su quattro è laureato, otto su dieci viaggiano all'estero ed esplorano nuovi mercati (mentre su 4 agricoltori under 35, una è donna).E proprio i fondi stanziati dall'Unione Europea per avviare l'attività garantiscono uno stimolo in più per intraprendere l'impresa: delle 30mila domande pervenute nel biennio 2016/17 il 61% è arrivato da Sud e isole, il 19% dal Centro, il 20% dal Nord. Pesa, d'altro canto, la necessità per il farmer del futuro di padroneggiare la tecnologia, che del settore alimentare (e non solo in relazione al lavoro nei campi) sarà sempre di più una validissima alleata, come ha evidenziato l'ultima edizione di Seeds&Chips, lo scorso maggio, riflettendo sul futuro del cibo . Ed emergono con successo nuove opportunità di lavoro sul territorio rurale, dagli orti e le fattorie didattiche ai percorsi enoturistici, alle attività di educazione ambientale rivolte alle scuole. Sul versante prettamente tecnico, la trasformazione del metodo di lavoro apportata dai Millennials Farmers è evidente: agricoltura di precisione e ricorso ai big data per prevenire lo sviluppo di malattie, pacakging intelligenti, colture alternative, circuiti produttivi che sfruttano le potenzialità dei social network.

Il cioccolato. La rivoluzione dell'oro nero

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Fino ad una quindicina di anni fa i poli del cioccolato in Italia erano Piemonte, Toscana e Modica. Le varietà di cacao erano tre: forastero, criollo e trinitario. E se ne sapeva molto poco. Nel giro di poco molte cose sono cambiate. Nel numero di ottobre del mensile del Gambero Rosso trovate uno speciale di 12 pagine sul cioccolato. Qui un'anticipazione.

 

Una nuova classificazione delle varietà basata sulla genetica. Sempre più artigiani “bean to bar”. Piccole produzioni “tree to bar” o a chilometro zero, progetti etici, filiere “direct & ecotrade” dal campo al cioccolatiere. E lavorazioni che vanno dal pane alla pizza, dal gelato alla birra…

Venti di cambiamento soffiano nel mondo del cacao

Era ora. Se fino a 15 anni fa erano mosche bianche gli artigiani che producevano cioccolato partendo dalla fava di cacao e le zone italiane dell’oro nero erano Piemonte, Toscana e Modica, oggi il quadro è molto più articolato. La rivoluzione, avviata vent’anni fa da Amedei (oggi proprietà Ferrarelle) e Domori (oggi nel gruppo Illy), ha ridisegnato la geografia dell’oro nero italiano e ha fatto sbocciare aziende “from bean to bar”: Gobino, Bonajuto, Castagna, Vestri, Bessone, Jacopey Peyrano, tanto per citare alcuni nomi noti. Ai quali vanno aggiunti storici marchi da poco nell'avventura del bean to bar (Majani, Bodrato, Maglio) e interessanti nuove realtà: Colzani, Piccola Pasticceria, Matù, La Via del Cioccolato, Alessio Tessieri con Noalya (vedi box), Alessandro Palozzo, Dolci Fonderie Ciomod (per la linea “fatta a mano”), Aruntam (per la selezione I Volti del Mondo). E anche l'antica fabbrica di cioccolato Viganotti di Genova sta rimettendo in piedi i macchinari per tornare a produrre partendo direttamente dalle fave.

Spatola con cioccolatini al latte

Novità sul fronte dei macchinari

“La miniaturizzazione dei macchinari ha permesso l'ingresso nel mercato di piccoli produttori talentuosi, li ha sdoganati dalle grandi aziende dei semilavorati e resi liberi di scegliere il cacao a loro misura”, spiega Gianluca Franzoni, fondatore di Domori e oggi presidente della maison di None (TO), il “grande cacciatore” di cacao criollo, colui che ha rifondato il concetto di cioccolato, fatto solo con cacao e zucchero, senza vaniglia, burro di cacao e lecitina di soia.

Ma vediamo qualche cifra. Il mercato dell’oro nero vale a livello mondiale intorno ai 110 miliardi di dollari, secondo Euromonitor International, peroltre 4 milioni di tonnellate di cacao prodotto – in base alle stime ICCO (International Cocoa Organization) ed EMI – ed è concentrato nelle mani di una decina di grandi aziende che trasformano le fave in cioccolato. Il grosso del raccolto, circa il 68%, viene dall’Africa: al primo posto la Costa d’Avorio (il 44% della produzione mondiale), seguita dal Ghana (intorno al 20%), poi Nigeria, Camerun, Uganda, Togo. Peccato che il cacao proveniente da questi Paesi (tranne il Madagascar, che è un caso a parte e produce un cacao fine, con le amabili note acide e aromatiche di frutti rossi, tra i quali spicca il Sambirano) sia di scarsa qualità. Perché? Per genetica, in quanto viene coltivato un cacao basic, il forastero (la varietà sud-amazzonica Amelonado); per tipo di coltivazione, intensiva e forzata; per i processi di lavorazione non curati. Peccato soprattutto che questa grossa fetta della torta mondiale sia a esclusivo guadagno non di chi il cacao lo coltiva ma di poche multinazionali.

Spatola con cioccolatini bianchi

Progetti e produzioni solidali e di qualità

In Africa il cacao è una commodity, come lo zucchero e il petrolio. Ma il prezzo lo fa chi compra, è il commento secco di Gilberto Mora, presidente della Compagnia del Cioccolato, associazione che promuove la cultura del cioccolato attraverso corsi di degustazione e un premio nazionale (Tavoletta d’Oro), e fondatore di Cacao Mar, azienda di selezione e produzione di cacao venezuelano, impiegato da alcuni dei migliori cioccolatieri italiani. I paesi africani cacaoteri (definizione dallo spagnolo per produttore di cacao) sono delle “miniere” a cielo aperto, eppure la popolazione vive sotto la soglia di povertà. Nelle piantagioni i lavoratori vengono sfruttati, vivono in condizioni estreme e sono impiegati centinaia di migliaia di bambini tra i 6 e i 15 anni. La situazione è particolarmente critica in Costa d’Avorio, dove minori provenienti da Mali, Burkina Faso, Nigeria, Niger, Togo e Benin vengono fatti passare clandestinamente, comprati (o rapiti) dai trafficanti di esseri umani per poche centinaia di euro, infine venduti ai proprietari delle piantagioni di cacao. The dark side of chocolate, un video documentario del giornalista Miki Mistrati, realizzato nel 2012, mostra la situazione nello stato ivoriano, nonostante nel 2001 le otto maggiori compagnie del cioccolato abbiano sottoscritto il Protocollo Harkin-Engel (noto anche come Protocollo sul cacao), che vieta il traffico di bambini, il lavoro minorile e quello forzato degli adulti.

Ciotola con il cioccolato

I progetti di sostenibilità etica in nome di un cacao più sostenibile

Qualcosa sta comunque cambiando. In Costa d’Avorio e nel resto del mondo fioriscono progetti di sostenibilità etica in nome di un cacao più sostenibile proveniente da un’agricoltura rispettosa dell’ambiente e dei contadini, lavorato in modo attento e di qualità migliore. In alcuni casi i progetti sono nati in terre strappate ai narcotrafficanti e si sostituisce la coca col cacao (alcuni esempi? In Colombia Chocolate Santander e il cacao Presidio della Sierra Nevada de Santa Marta, in Perù la cooperativa Acopagro). Tra i progetti sociali saliti agli onori delle cronache spiccano Kakao e Cacao de Origen, entrambi creati dalla chef venezuelana Maria Fernanda Di Giacobbe, vincitrice nel 2016 del Basque Culinary Prize per il suo impegno nella valorizzazione della filiera del cacao venezuelano, con attenzione all'imprenditoria femminile, nonostante la crisi economica che sta attraversando il suo Paese. Domori, ad esempio, collabora in Costa d’Avorio con la cooperativa Scay Scoops diretta da Estelle Conan: un centinaio di piccoli agricoltori che nel triangolo compreso tra le città di Tiassalè, Divo e Dabou coltivano in biologico cacao forastino. Sempre in Costa d’Avorio, nel laboratorio della Comunità Abel a Grand Bassam, fondata da Don Ciotti, Choco+ produce il primo cioccolato Igp africano fatto con cacao della regione Comoé. La cooperativa togolese Choco Togo è nata dal programma Youth in Action finanziata dall’Unione Europea. Anche i presidi Slow Food del cacao sono iniziative che tutelano da una parte la qualità della materia prima, dall’altra sostengono chi ci lavora dietro, come quello della Chontalpa, regione dello stato messicano di Tabasco, nato per sostenere i produttori dopo le inondazioni del 2007: con questo cacao Guido Gobino produce una delle sue migliori selezioni.Molte filiere etiche ed equosolidali sono state attivate da Andrea Mecozzi, insieme a Marco Colzani e ad altri artigiani fondatore di Fermento Cacao, movimento nato tre anni fa con l’obiettivo di promuovere il Rinascimento del cioccolato all’italianae valorizzare tutti i protagonisti della cultura del cacao: chi lo produce, lo seleziona e lo trasforma.Mecozzi si definisce un ChocoFair, neologismo che sintetizza il senso del suo lavoro. “Seleziono le fave di cacao e soprattutto costruisco filiere coinvolgendo le aziende che trasformano per ridurre il gap storico tra cioccolatiere e piantagione.

Il fenomeno è all’inizio e rappresenta una minuscola fetta della torta della produzione mondiale, ma in costante crescita. L'indagine completa la trovate nel numerodi ottobre del mensile del Gambero Rosso.

 

a cura di Mara Nocilla

foto di Lido Vannucchi

 

QUESTO È NULLA...

Nel numero di ottobre del Gambero Rosso, un'edizione rinnovata in questi giorni in edicola, trovate l'indagine completa con un focus sui nuovi metodi di coltivazione e di produzione, che vanno di pari passo con l'evoluzione del gusto e la sensibilità dei consumatori. Un servizio di 12 pagine che parla anche di raw chocolate (esiste davvero?), di collaborazioni con produttori di birra, fornai, pizzaioli, chef, gelatieri, bartender e ovviamente di cioccolato di Modica (ce ne parla Elisia Menduni). Non solo, trovate anche due mappe con i cioccolatieri di ricerca in Italia e nel mondo e un utilissimo glossarietto.

 

Il numero lo potete trovare in edicola o in versione digitale, su App Store o Play Store

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Anteprima Tre Bicchieri 2019. Friuli Venezia Giulia

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Le anticipazioni dei premiati dalla Guida Vini d'Italia 2019 del Gambero Rosso ci portano in Friuli Venezia Giulia.

 

Anche quest’anno in questa regione ben 26 vini hanno superato la soglia dell’eccellenza e si sono aggiudicati i Tre Bicchieri. Sono tutti vini bianchi ottenuti sia da vitigni autoctoni sia internazionali a conferma, semmai ce ne fosse stato bisogno, della vocazione del Friuli Venezia Giulia per questa tipologia.

È luogo comune pensare che i vini bianchi siano pronti già in primavera, non abbiano grandi potenzialità d’invecchiamento e quindi vengano generalmente consumati in annata, ma da una rapida consultazione dell’elenco dei premiati si evince che meno della metà sono frutto della vendemmia 2017. È un dato significativo, che evidenzia la sensibilità dei produttori che, consci delle potenzialità del territorio per la produzione di vitigni a bacca bianca, rinunciano a immediati guadagni a favore di un ulteriore affinamento in bottiglia.

In questo contesto spiccano il Sauvignon Ris. ’13 di Russiz Superiore, lo Chardonnay Grafin del la Tour ’14 di Villa Russiz e lo Chardonnay Gmajne ’15 di Primosic. Sono tre dei dodici Tre Bicchieri attribuiti a vini del Collio goriziano che si presenta anche con il Collio Bianco Ris. ’16 di Angoris, il Fosarin ’16 di Ronco dei Tassi, il Broy ’17 di Collavini ed il Solarco ’17 di Livon. Completano la lista il mitico Friulano ’17 di Schiopetto, il Pinot Grigio Mongris Ris. ’16 di Marco Felluga, il Sauvignon di Tiare e i due fantastici Pinot Bianco di Doro Princic e Toros.

Quest’anno il Pinot Bianco è proprio il vino che ha ottenuto il maggior numero di riconoscimenti. A quelli del Collio si aggiungono due conferme: il Pinot Bianco Myò ’17 di Zorzettig e il Pinot Bianco ’17 di Torre Rosazza e, come new entry, il Pinot Bianco ’16 di Masut da Rive della denominazione Friuli Isonzo, dove brillano sempre le stelle di Vie di Romans con il Sauvignon Piere ’16 e della Tenuta Luisa con il Desiderium i Ferretti ’16. La Tunella si vede premiato il BiancoSesto ’16, mix di vitigni autoctoni. Volpe Pasini si riconferma con il Sauvignon Zuc di Volpe ’17, La Viarte con il Friulano Liende ’17 e Livio Felluga con il Rosazzo Bianco Terre Alte ’16. Jermann con un sontuoso Capo Martino ’16 l’ha spuntata addirittura sul Vintage Tunina. Nelle Grave ecco Le Monde con lo Chardonnay ’17. Onore anche ai bianchi macerati, che trovano la massima espressione nell’Ograde di Skerk ’16, nella Malvasia ’15 de Il Carpino e nel Nekaj di Podversic.

 

Capo Martino  ’16  -  Jermann  

Collio Bianco Broy  ’17 -  Eugenio Collavini  

Collio Bianco Fosarin  ’16 -  Ronco dei Tassi      

Collio Bianco Giulio Locatelli Ris. ’16  - Tenuta di  Angoris  

Collio Bianco Solarco ‘17 - Livon  

Collio Chardonnay Gmajne ’15  -  Primosic     

Collio Chardonnay Gräfin de La Tour  ‘14 - Villa Russiz   

Collio Friulano ’17 - Schiopetto   

Collio Pinot Bianco ’17 - Doro Princic    

Collio Pinot Bianco ’17 - Franco Toros     

Collio Pinot Grigio Mongris Ris. ’16 - Marco Felluga    

Collio Sauvignon Tiare ’17  -  Roberto Snidarcig     

Collio Sauvignon Ris.  ‘13 - Russiz Superiore    

Desiderium I Ferretti  ‘16 - Tenuta Luisa     

FCO BiancoSesto ‘16  - La Tunella  

FCO Friulano Liende  ‘17 - La Viarte     

FCO Pinot Bianco ‘17 - Torre Rosazza     

FCO Pinot Bianco Myò  ‘17 - Zorzettig     

FCO Sauvignon Zuc di Volpe  '17 - Volpe Pasini  

Friuli Chardonnay  ‘17 - Le Monde     

Friuli Isonzo Pinot Bianco '16 - Masùt da Rive 

Friuli Isonzo Sauvignon Piere ‘16 - Vie di Romans   

Malvasia ‘15 - Il Carpino    

Nekaj  ’14  -  Damijan Podversic

Ograde ‘16  - Skerk   

Rosazzo Terre Alte ’16  – Livio  Felluga  

Meet in Cucina Puglia. La ristorazione pugliese in scena a Bari coi cuochi del territorio

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Prima edizione per Meet in Cucina Puglia, il congresso gastronomico già collaudato in Abruzzo e nelle Marche e focalizzato sulla cucina regionale. Ecco cosa è emerso dal racconto degli chef e dei protagonisti del panorama agroalimentare pugliese. 

 

Il congresso

Valorizzare prodotti e piatti tipici di un territorio, ricette antiche, storie di borghi e popolazioni tramandate nel tempo. È l'obiettivo a cui sempre di più si tende nel mondo gastronomico, una missione che Massimo Di Cintio e la sua squadra hanno fatto propria a partire dal 2014, con la prima edizione del congresso Meet in Cucina, una kermesse di cuochi e artigiani uniti per promuovere il made in Abruzzo. Un evento giunto poi nelle Marche, a Senigallia (dove si ripeterà per il secondo anno il prossimo 22 ottobre) e ora anche in Puglia, dove è andato in scena lo scorso lunedì 8 ottobre alla Fiera del Levante di Bari. Una giornata dedicata ai migliori chef della regione e rivolta a tutti gli addetti ai lavori e agli studenti degli istituti alberghieri, che hanno partecipato numerosi per apprendere tecniche e segreti del mestiere.

 

meet in cucina

I banchi d'assaggio

Diversi i cuochi che si sono dati il cambio sul palco, con la partecipazione speciale di Felix Lo Basso, che ha concluso la manifestazione, e Rocco Pozzulo, Presidente nazionale della Federazione Italiana Cuochi. Tutti uniti per parlare della loro terra, emozionati di questa opportunità che per la prima volta ha coinvolto anche la Puglia.

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Un entusiasmo che, purtroppo, non abbiamo invece riscontrato fra i produttori: ancora poche, infatti, le realtà che hanno deciso di aderire all'evento, ma confidiamo in una seconda edizione più ricca di banchi d'assaggio. Hanno risposto positivamente, però, due marchi d'eccellenza: Felicia, la pasta gluten free che ha presentato la sua nuova linea fatta con farina di fagioli verdi Mung Bio, legume originario dell'India chiamato anche Azuki Verde, e Spirito Contadino, main sponsor del congresso, un gruppo di agricoltori impegnati a mantenere in vita le antiche colture della Puglia.

 

Franco Ricatti

I pionieri della ristorazione di qualità

Ma torniamo agli chef. Il primo a prendere la parola è Franco Ricatti del ristorante Bacco di Barletta, fra i primissimi a portare in città un nuovo concetto di cucina, più evoluto e ricercato. È stato lui ad anticipare le tendenze in un luogo che, nonostante la forte tradizione gastronomica – o forse proprio per questo motivo – nel tempo è rimasto molto ancorato un modello di ristorazione passato, faticando ad adeguarsi alle nuove formule contemporanee. Non presenta nessun piatto, Franco, ma si racconta, offrendo ai tanti aspiranti cuochi seduti in sala una vera lezione di ristorazione: “Parola d'ordine è mediare. Trovare il giusto equilibrio fra le richieste del cliente e le nostre esigenze creative”. Negli anni '80, a Barletta, c'era solo lui. Dopo un successo straordinario, lascia tutto e parte alla volta dell'America, “un'esperienza che consiglio a chiunque, una vera purga per il cervello, in grado di aprire la mente e ampliare le prospettive”. Ma il legame con la Puglia è forte e dopo un po' di anni Franco ritorna e ricomincia a cucinare nella sua città. Nonostante l'esperienza decennale, lo chef si commuove ancora ricevendo il premio di Rivera, storica azienda vitivinicola della famiglia de Corato, sponsor dell'evento: “Non è il riconoscimento a farmi piangere, ma il fatto che a consegnarlo sia uno dei pilastri dell'enogastronomia di qualità pugliese. All'inizio, eravamo solo noi due a crederci”.

 

Zaccardi

Dall'Abruzzo alla Puglia, passando per il Piemonte

È poi il turno di Antonio Zaccardi, per tempo alla corte di Enrico Crippa al ristorante Piazza Duomo di Alba, dallo scorso maggio alla guida del Pashà di Conversano. Dell'esperienza piemontese, lo chef conserva il rispetto per i frutti della terra, rielaborati in una serie di ricette originali, come la Lattuga e Caprino, “una lattuga sottovuoto con zucchero, acqua e vino bianco, condita con riduzione di olive nere, riduzione di peperoni e una spremuta di limone a arancia, e accompagnata dal formaggio”. C'è anche tanto foraging, “una pratica ora di tendenza un po' ovunque, ma da sempre diffusa in Puglia, dove in molti ancora oggi raccolgono erbe spontanee e fiori eduli per la propria tavola”. Altro ingrediente fondamentale, il tuorlo d'uovo marinato, eredità degli anni passati al fianco di Carlo Cracco, elemento che lo chef completa con una cialda di brodo di pollo e olio al prezzemolo. L'ostacolo più grande riscontrato al ritorno in Puglia? “La mancanza di acidità, che invece in Piazza Duomo era molto presente. Ma continuo a cercarla”.

 

friggitelli

Gli influssi orientali

I sapori più robusti e decisi della cucina pugliese, che oggi inizia gradualmente a svilupparsi, trasformandosi in una tavola più sofisticata e moderna, incontrano sempre di più anche influenze straniere. È il caso di Teresa Galeone di Già Sotto l'Arco, chef dalla mano sicura che nell'essenzialità dei suoi piatti ha trovato la chiave di volta privilegiata per conquistare i clienti. Lo dimostrano i suoi Friggitelli in tempura di nero di seppia, “verdure comuni a tutto il Meridione, che si distinguono per la tecnica di frittura orientale a me molto cara”. Ancora Giappone anche nel secondo piatto presentato, una rivisitazione del classico patate, riso e cozze alla barese, con crema di patate, zucchine cotte nell'acqua delle cozze, riso, polvere di alghe, gelatina di acqua di cozze e zafferano,e l'uovo cotto a bassa temperatura, “che in Giappone chiamano 'uovo alle terme', perché anticamente veniva messo dalle donne nelle conche che cuocevano alla stessa temperatura dell'acqua delle terme, e poi consumato dopo il bagno”.

 

Antonio Bufi

Il ruolo delle fermentazioni e la lotta allo spreco

E a proposito di influssi stranieri: fra gli interventi più apprezzati della giornata, un fuori programma d'eccezione, Antonio Bufi. L'istrionico chef del ristorante Le Giare di Bari, affiancato dalla responsabile di sala e compagna di vita Lucia della Guardia, che insieme a lui studia ricette nuove e sperimenta con tecniche innovative. “Le verdure sono protagoniste assolute della cucina pugliese: noi cerchiamo di interpretarle attraverso le fermentazioni”. Come quella del cavolo viola, delle barbabietole, “un prodotto spesso trascurato ma che invece sa regalare sapori di grande intensità”, o il kefir di latte di capra garganica. La sua è una cucina variopinta, ricca di profumi, fatta di germinazioni, macerazioni e tanto foraging, basata su uno spirito creativo e un estro fuori dagli schemi, una tavola libera dalle briglie della tradizione che però omaggia ogni singola specialità locale. “Ci tengo a sottolineare che siamo molto attenti agli sprechi. Attraverso le fermentazioni, riusciamo a utilizzare circa il 95% di ogni prodotto: recuperiamo bucce, semi, noccioli, tutto quello che possiamo evitare di gettare via”.

 

Angelo Sabatelli

I pilastri della ristorazione pugliese

Continuano a sfilare sul palco del padiglione i rappresentati della cucina pugliese in Italia e nel mondo, uomini e donne che si sono fatti portavoce di una memoria culinaria solida e antichissima, e che – nel pieno rispetto di questa storia – sono riusciti a valicare i confini della ristorazione convenzionale, portando una ventata d'innovazione nelle varie località della regione. Immancabile, quindi, l'appuntamento con Angelo Sabatelli dell'omonimo ristorante di Putignano, un punto di riferimento per tutti gli amanti del gusto, che per i suoi 9 anni di attività ha deciso di presentare 9 ricette diverse, preparate nel tempo record di 40 minuti. Ognuna racconta un pezzo diverso della sua storia, la tappa di un percorso costellato di successi ma ancora oggi in continua evoluzione. Una strada che lo chef continua ad attraversare con un piede ben saldo nella tradizione del passato ma con lo sguardo rivolto al futuro. Così, racconta dei primi passi mossi e di quelli ancora da compiere, “il mestiere dello chef richiede studio e applicazione costante”, mentre intanto si dedica alla preparazione dei tortelli ripieni di peperoni arrosti, conditi con brodo di olive di varietà leccino e cenere di peperoni, oppure il carré d'agnello ricoperto di cenere di carbone vegetale, “l'affumicato è un gusto familiare che tutti noi pugliesi abbiamo nel Dna, e che non dobbiamo dimenticare”, e crema di carote con fava tonka. Continua a destreggiarsi fra i fornelli rispondendo alle domande del pubblico, con la naturalezza di chi in cucina è abituato a muoversi ma l'emozione di chi ancora si innamora, giorno dopo giorno, del proprio lavoro. Conclude con un dessert inaspettato, un bon bon al cioccolato panato e fritto, cosparso di zucchero a velo e adagiato su una salsa di lampascioni aromatizzati con liquore al carciofo e scorza d'arancia: “Inizialmente era molto dubbioso circa questo accostamento. Ma in cucina non bisogna mai fermarsi”.

www.meetincucina.it/

a cura di Michela Becchi

 

Diageo Reserve World Class 2018. L'italiano Orlando Marzo è il miglior bartender del mondo

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Chiusa la gara di bartending internazionale più famosa al mondo: a vincere è Orlando Marzo del ristorante Lûmé di Melbourne. 

 

La competizione

Erano più di 10mila, tutti schierati in nome della mixology di qualità, l'arte di creare drink d'eccellenza mescolando fra loro distillati di pregio e ingredienti di ogni tipo. Più di 10mila professionisti provenienti da ogni angolo del mondo, uniti nella valorizzazione del bartending attraverso la competizione internazionale più seguita del settore, il Diageo Reserve World Class. Una gara di alto livello che quest'anno, in occasione del suo decimo anniversario, ha alzato ancora di più l'asticella, aumentando le difficoltà delle varie competizioni. Sei mesi di sfide, centinaia di contest alla fine dei quali solo 56 addetti ai lavori ce l'hanno fatta e hanno preso parte ad altri quattro giorni di gara a Berlino. A vincere, però, è uno solo. Un italiano, un salentino doc da tempo in forze al ristorante Lûmé di Melbourne, in Australia. Con una serie di cocktail d'autore originali, equilibrati e ricercati, Orlando Marzo ha trionfato nella capitale tedesca, portando l'Australia, ma anche l'Italia, sul gradino più alto del podio.

Il vincitore

Originario di Castiglione d'Otranto, Orlando ha faticato molto per conquistare l'oro, e soprattutto il palato della giuria di esperti, che hanno trovato i suoi drink eccezionali, “fra i migliori mai assaggiati”, come ha affermato la giudice Lauren Mote, Diageo Global Cocktailian. Che ha aggiunto: “Tutti i finalisti hanno dato il massimo, ma Orlando ha raggiunto un livello superiore. E il modo in cui ha mantenuto i nervi saldi nella sfida finale 'Cocktail Clash' a mio avviso è la cifra di un vero bartender World Class”. Perché, per vincere il titolo di miglior bartender del mondo, occorre buona tecnica e una conoscenza profonda delle materie prime, ma anche uno stile creativo identificativo e un carattere deciso in grado di mantenere la concentrazione fino alla fine.

Il ruolo del team

La reazione a caldo di Orlando, naturalmente, è quella di un professionista emozionato, felice del riconoscimento ottenuto dopo tanti sacrifici: “Non riesco a crederci! Già solo il fatto di trovarsi qui a competere con i miglior bartender al mondo, sotto lo sguardo di una giuria composta dai nomi più iconici del settore è un'opportunità che capita una sola volta nella vita”. E per il bartender salentino, quell'unica volta è stata fortuita: “Arrivare persino a conquistare la vittoria? Sono ancora sotto shock!”, ha dichiarato non appena ha ricevuto il premio. Per poi aggiungere la dovuta riconoscenza alla sua squadra: “Non avrei mai raggiunto questo traguardo senza il sostegno del mio fantastico team. Mi hanno sostenuto in ogni singola fase!”.

Il premio

E ora? A Orlando Marzo aspetta un anno ricco di avventure ed esperienze significative. A cominciare dal viaggio per il mondo in qualità di rappresentante Diageo, con la possibilità di preparare i suoi cocktail nelle località più prestigiose, e vestire il ruolo di giudice nelle varie competizioni di settore. Ma non finisce qui: il bartender fa ufficialmente il suo ingresso nell'olimpo dei maestri di mixology, diventando il decimo membro della Hall of Fame di Diageo Reserve World Class.

www.theworldclassclub.com/

a cura di Michela Becchi

La carica dei giovani chef. A Roma nuovi progetti ambiziosi: Olmo e Moi

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L'ultimo anno della Capitale ha visto debuttare sulla scena gastronomica che conta diversi giovani progetti da seguire, da Zia ad Acciuga, al San Giorgio. Ma non finisce qui: arrivano Olmo e Moi. Talento under 30, esperienze solide e idee chiare. 

 

Giovani di talento

Una fiorente compagine di giovani chef che puntano tutto su un concetto di ristorazione classica, impegnati (anche economicamente) in prima persona per far sì che le proprie ambizioni, gastronomiche e imprenditoriali, si concretizzino. In una città come Roma che può essere molto difficile da espugnare. Eppure la tendenza che già si manifestava nei mesi scorsi – quando abbiamo a più riprese salutato con interesse l'avvio di esperienze come quella di Federico Del Monte (Acciuga), Antonio Ziantoni (Zia), Andrea Viola (che all'inizio di settembre ha ripreso le redini del San Giorgio, da Maccarese al Flaminio per far crescere con la benedizione della città un progetto interrotto troppo presto) – è matura per collezionare nuovi protagonisti. A pochi metri dalle incredibili invenzioni urbanistiche del quartiere Coppedè, all'inizio di novembre inizierà l'avventura di Olmo, radici forti e rami che puntano in alto.

 

Olmo a Coppedè

Non è casuale il nome scelto per sancire l'incontro di una squadra di giovanissimi protagonisti con esperienza da vendere, che per la prima volta si ritrovano insieme motivati (ed emozionati) a fare bene: a guidarli c'è Mario Di Vito, che a 34 anni è il più “vecchio” del gruppo, per il resto ampiamente sotto la quota dei 30. Lo chef di Cassino - cresciuto nel ristorante di famiglia e poi variamente impegnato con la consulenza al Borghetto di Roma, la partecipazione a eventi importanti come Festa a Vico, l'apertura di Petra Gourmet a Sant'Elia Fiumerapido – si definisce un autodidatta. Eppure nell'ultimo anno è stato capace di farsi notare con il suo ultimo progetto, Juerì, nato e cresciuto proprio a Cassino. La scelta di trasferire l'attività a Roma è arrivata per il desiderio di crescere ancora, avallata dall'individuazione di uno spazio unico nel suo genere, nascosto nella quiete di un elegante cortile del quartiere Coppedè, in via Garigliano 19. Grandi metrature, soffitti importanti e dinamica degli ambienti denunciano la precedente vocazione del locale, ex ebanisteria con corte esterna di pertinenza, che nelle prossime settimane si trasformerà in un ristorante di impostazione classica, alla luce però della freschezza di chi lo anima. Al fianco di Mario c'è Aurora Storari, classe 1992, dall'Alma a esperienze internazionali prima di approdare a Milano come talentuosa pastry chef di Trussardi alla Scala e Ratanà. Da Olmo, avventura sposata dopo un breve passaggio da Retrobottega che nei mesi scorsi l'ha riportata nella sua città, sarà sous chef. Ma la brigata potrà contare anche sulla pastry chef Federica Valleriani (classe 1990, ex Cafè les Paillotes e Red Fish di Ostia), Riccardo Bernabei, Rocco Bonaventura, Andrea Santaniello, tutti con esperienze italiane e internazionali di livello alle spalle – dal Capofaro Malvasia Resort di Salina al San Domenico di Imola, passando per il Boscolo Exedra di Milano o il Waldorf Astoria di Amsterdam – nonostante la giovane età. 50 coperti in sala, più una saletta conviviale con tavolo da 12 posti, tovagliato in lino o legno a vista, ferro, legno, sedie in stile Chester e cascate luminose per scaldare lo spazio, animato pure da piante (all'esterno, nel giardino ricreato ad hoc anche due olmi che incorniciano l'ingresso) e opere d'arte.

La cucina di Olmo

Dietro una grande vetrata c'è la cucina, disegnata su misura: “Vogliamo proporre una ristorazione fatta bene, cominciando dall'impegnarci a cucinare al meglio. Sarà una proposta di larghe vedute, con solide radici italiane, semplice e ben eseguita” spiega Mario “Sì alla tecnologia, ma senza usarla come paravento”. Gli fa eco Aurora, che insieme a lui ha studiato il menu: “Abbiamo voluto il green egg, il roner, le basse temperature per il forno, ma siamo un po' puristi, il cuoco deve saper cucinare, specie quando tratta una materia prima eccellente. La differenza la fa la sensibilità del cuoco: il servizio è più complicato, ma il risultato è migliore”. Stesso discorso in merito alla riconoscibilità dei piatti: “Roma ha bisogno di essere confortata, i romani hanno bisogno di punti di riferimento, quindi per esempio avremo una chitarrina con la coda. Ma anche piatti più estremi, seppur comprensibili e sempre affrontati con freschezza”. E si lavora su tutto, dal quinto quarto alla cacciagione, dai piatti vegetali alla pasta secca e fresca. Tra i fornitori Roberto Liberati, Pastificio dei Campi, Riserva San Massimo (per panna e burro), Gentile, Orme.

Foto di Alberto Blasetti

Menu e prezzi

Due i menu degustazione: 5 portate a scelta a 60 euro, percorso a mano libera da 9 portate a 100 euro. Più un menu pranzo da 2 portate a 30 euro. Dalla prima carta, baccalà con granita al finocchietto e gel di aceto (20 euro), lingua con rafano e salsa bbq (20, trattata come un pastrami e affumicata al green egg), cappelletti ripieni di funghi e castagne in brodo di parmigiano e tartufo (28), riso Carnaroli con erborinato, battuto di cervo e jus al Porto (28), maiale con ceci fermentati e cavoli (30), piccione, carote e indivia belga (38). E dalla pasticceria dessert che giocano con il vegetale, le spezie e le strutture, non stucchevoli, ma comunque golosi, come mela verde, sedano, yogurt e uva o nocciola, crema di whisky e caffè servito in cloche e affumicato al tavolo (tutti a 15 euro). Carta dei vini in fieri, ma già importante, con 200 bianchi, 100 rossi, una ventina di Champagne, e referenze anche dalla Francia e dall'Austria. Dietro c'è l'investimento importante di 3 soci (oltre a Mario) nuovi del settore, ma grandi appassionati di ristorazione.

Foto di Massimo Scognamiglio

Moi a Corso Francia

In dimensioni molto più contenute, ma con la stessa ambizione, in zona Corso Francia (Fleming) ha inaugurato da un paio di settimane Moi, progetto di ristorazione di una giovane coppia sul lavoro e nella vita, Thomas Moi e Michela Ulpiani. Lui, 28 anni, è uno chef d'esperienza: “Dopo gli inizi con Antonio Chiappini, che è stato il mio primo maestro e con lui mi sono innamorato della cucina, sono passato all'Osteria dell'Orologio con Marco Claroni, prima di arrivare a Londra per Heinz Beck, all'Apsleys. Lì ho capito cosa significhi lavorare in una grande brigata, per il servizio del pranzo e della cena in un grande hotel”. A Roma, invece, per il suo primo locale di proprietà, punta a realizzare il sogno di proporre “una cucina felice, che mi diverta e faccia stare bene i clienti”. Dunque si parte dal prodotto, con una attenzione alla stagionalità che è quasi maniacale, “per questo parliamo di cucina dinamica, abbiamo aperto da un paio di settimane e già ci prepariamo al cambio di menu, senza contare i piatti fuori carta che inseriamo secondo disponibilità del mercato”. La carta è agile (4+4+4) e parte dalla collaborazione con fornitori selezionati, come l'azienda agricola Poggi di Ciciliano.

Foto di Massimo Scognamiglio

Menu e prezzi

Si lavora su basi solide e proposte rassicuranti, come i tortelli al parmigiano 18 mesi con zucca butternut e radicchio al vino rosso, le pappardelle con sugo di totani e puttanesca, la tartare di fassona con giardiniera di verdure e gelato alla salsa verde, “ma anche un classico spaghettone ajo, ojo e peperoncino ben fatto, non vogliamo essere pretenziosi, anche se abbiamo voglia di divertirci”. Il consiglio dello chef, quindi, è quello di affidarsi al menu degustazione, 45 euro per 7 portate, “un prezzo sicuramente molto accessibile, perché vogliamo farci conoscere” (alla carta, invece, la spesa media si aggira sui 45 euro). Carta dei vini ugualmente ristretta, ma molto attenta a proporre etichette non convenzionali, con il supporto di Les Caves de Pyrene. In sala, invece, c'è Alessandro Grillo (ex Osteria dell'Orologio), che insieme a Michela conduce un servizio attento e fresco, come del resto vuole essere l'ambiente, solo 26 coperti (con tavoli progettati da Thomas), volumi puri, legno, ferro e laterizio, su progettazione dello studio Ocra. Per ora aperto solo a cena.

 

La chiusura di Cambiamenti, la pizza di Fornace Stella

Segnaliamo a margine, tra i movimenti di giovani chef, il percorso all'inverso che ha portato alla chiusura di Cambiamenti, piccolo locale in zona Appio-Tuscolano ugualmente fondato sulla valorizzazione di materie prime selezionate e lavorazioni artigianali. Dopo la recente chiusura, Federico Silvi e Federico Cucchiarelli sono entrati nella squadra del MoMa. E sul versante pizzerie, la novità si concretizzerà tra una ventina di giorni in piazza Lecce, con Fornace Stella: spazio suggestivo (a firma Dario Laurenzi Consulting), giovani imprenditori e altrettanto giovane staff, con la consulenza di Giancarlo Casa della Gatta Mangiona. Una garanzia.

 

Olmo - Roma  - via Garigliano. 19 - pranzo e cena - dalla prima settimana di novembre 2018 - www.facebook.com/olmoristoranteroma/

Moi - Roma - via Antonio Serra, 15 - solo la sera, chiuso la domenica - 0687600399 - ristorantemoi.com

 

a cura di Livia Montagnoli

foto di apertura di Alberto Blasetti

 


Morto Lorenzo Bottoni. Addio all'esperto di birra artigianale e caffè specialty

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Ci ha lasciati uno dei maggiori esponenti del caffè di qualità in Italia. Prima esperto di birra, poi sostenitore convinto degli specialty coffee, con la torrefazione a Gallarate. Il nostro ricordo di Lorenzo Bottoni. 

 

I primi passi nella birra

Storie liquide”. Racconti di luoghi, persone, aneddoti in grado di “intrigare, affascinare”. Era così che amava definire i suoi caffè Lorenzo Bottoni, torrefattore di Micro Torrefazione di Gallarate con le idee ben chiare in fatto di qualità. Un passato nel mondo della birra artigianale, prima con l'avventura al Piccolo Birrificio Apricalea Savona, poi con Bad Attitude, dove iniziò a confezionare birra in lattina in tempi non sospetti, per poi passare in forze all'Open Baladin durante il lancio della Pop. Un pioniere che, come molti grandi anticipatori di tendenze, una volta tracciata la strada, aveva deciso di ritirarsi, continuando ad assaggiare e studiare, ma osservando il settore da un'altra angolazione. Senza però mai abbandonare il campo della qualità.

Il caffè

Dopo la birra, infatti, arrivava il caffè: un'intuizione fulminea durante un viaggio a Bruxelles, a seguito di una degustazione in una caffetteria del luogo. “Da lì è nata l'idea e ho trovato delle persone che hanno creduto insieme a me nel progetto”. Un piccolo laboratorio di torrefazione specializzato nei chicchi di alta qualità, miscele e monorigini di pregio, creato con la tenacia e il piglio deciso che lo hanno caratterizzato fino all'ultimo, anche durante la malattia che lo ha da poco portato via ai familiari e gli amici.

Il carattere

Schietto e sincero come pochi, a tratti burbero ma sempre deciso, consapevole: apparentemente arrogante ma con una capacità di ascolto rara. La sua voce si era fatta sentire fra gli appassionati di birra, ma soprattutto fra i professionisti del caffè. Il suo nome era presente in molte delle discussioni pubbliche più accese di questo microcosmo profumato che raggruppa torrefattori, baristi, giornalisti, assaggiatori. Lorenzo interveniva spesso, criticava molto ma sempre con cognizione di causa, e soprattutto con una preparazione rigorosa, fonte di uno studio meticoloso portato avanti negli anni con il puntiglio di chi non si accontenta. Pungente e dissacrante, nascondeva in realtà una sensibilità spiccata, un'intelligenza emotiva sviluppata e una grande profondità: “Il torrefattore bravo è quello che sa consigliare il cliente, capire i suoi gusti e ciò di cui ha bisogno, proprio come un libraio riesce a consigliare il giusto racconto ai lettori”. Si raccontava così durante la nostra intervista di tre anni fa, nell'ottobre 2015, a meno di un anno dall'apertura della sua torrefazione.

I valori

E continuava, portando avanti i suoi princìpi solidi e inscalfibili, le sue convinzioni granitiche e il suo entusiasmo travolgente: “Se si lavora un prodotto senza passione e interesse, il risultato sarà sempre scadente. Il lavoro porta via tanto tempo e non voglio perderne altro solo per motivi commerciali”, ci spiegava mentre parlava di decaffeinato. Che si rifiutava di vendere “perché non mi piace”. Lorenzo era così, diretto e senza filtri. “In Italia la situazione non è delle più rosee. Purtroppo il lavoro del barista è cambiato profondamente negli anni: molti hanno aperto locali per fare fortuna senza delle vere conoscenze”. Una visione precisa che Lorenzo sfoderava con decisione, senza però tralasciare il lato più romantico di questo mestiere: “Il barista in passato era un confessore laica, parte integrante del tessuto sociale di una comunità... al barista si raccontavano le proprie pene e quello del caffè diventava un vero e proprio rito sociale”. Oggi, invece, “i locali sono molto mediocri oppure di lusso, in cui si paga tanto ma la qualità è nella media. Questo accade perché cerchiamo di imitare (male) il modello estero”. E a proposito di caffè all'estero: “Le caffetterie sono molto più curate, accoglienti e il prodotto è buono”.

Il rapporto con i colleghi

Nonostante l'interpretazione lucida del panorama caffeicolo nazionale, Lorenzo non aveva mai perso la speranza. E anzi, continuava con i suoi progetti. La miscela cold brew estratta a freddo, i distillati, il caffè barricato... tante novità annunciate e realizzate, altre rimaste segrete, “lo annuncerò poi”. Era il 2015, il mondo dello specialty in Italia aveva appena iniziato a far parlare di sé nella stampa specializzata e fra i maggiori eventi del settore. E Lorenzo, con la sua personalità complessa, si era fatto portavoce di questo universo. Intavolando discussioni e accendendo gli animi di molti dei suoi colleghi, in uno scontro continuo sempre nel pieno rispetto. Perché, nonostante i tanti dibattiti, era impossibile non stimare un professionista come lui.

a cura di Michela Becchi

Vini d'Italia 2019 del Gambero Rosso e grande degustazione Tre Bicchieri. A Roma il 27 ottobre

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L'attesa è quasi finita. Tra qualche giorno a Roma si ritrovano i produttori d'Italia premiati con i Tre Bicchieri 2019. La mattina cerimonia di premiazione all'Auditorium del Massimo, poi grande degustazione aperta al pubblico, allo Sheraton Hotel. Come partecipare.

 

Vini d'Italia 2019. 32 anni di guida

Vini d’Italia è giunta alla trentaduesima edizione. E da quella prima edizione datata 1988, in un momento molto difficile della storia recente del vino italiano, molto è cambiato. A cominciare dai numeri: oggi sono oltre 2500 produttori censiti (tra loro 129 new entry per l'edizione 2019) e quasi 23mila vini. La squadra di appassionati è diventata un favoloso team di 70 e oltre degustatori, motivati e competenti, chiamati a valutare oltre 40mila vini in ogni regione italiana e persino nel Canton Ticino. Ecco come si disegna la mappa di un panorama sempre più ricco, fatto di mille terroir diversi, di mille e più uve della tradizione e internazionali. Quello che non è cambiato è il desiderio di raccontare a chi legge la guida il piacere di bere un buon vino, ricercando le molteplici (infinite) storie della viticoltura nazionale. La guida, tradotta ogni anno in inglese, tedesco, cinese e giapponese, è diventata un riferimento internazionale per addetti ai lavori e appassionati del settore, e quest'anno si presenta ufficialmente al pubblico sabato 27 ottobre, con la cerimonia di premiazione dei Tre Bicchieri in programma all'Auditorium del Massimo di Roma, dalle 10 alle 13. Quest'anno sono 54 i produttori che debuttano con i Tre Bicchieri (in totale 447 le etichette che ottengono il massimo riconoscimento), ma la guida segnala anche i Tre Bicchieri Verdi, quelli prodotti da aziende biologiche o biodinamiche certificate, che quest’anno sono ben 102. E i vini premiati reperibili in enoteca entro la fascia dei 15 euro, che sono ben 92, oltre il 20% di quelli premiati.

 

La grande degustazione Tre Bicchieri a Roma

Seguirà, nel pomeriggio, un altro importante appuntamento per gli enoappassionati, ormai diventato consuetudine: va in scena allo Sheraton Rome Hotel la Grande Degustazione Tre Bicchieri (sabato 27 ottobre, dalle 16 alle 20), con i banchi d'assaggio suddivisi per regioni dedicati ai premiati dell'edizione 2019. Protagoniste le oltre 400 etichette premiate con i Tre Bicchieri dalla guida Vini d'Italia 2019. Solo la prima, la più emozionante, di una serie di degustazioni itineranti che toccheranno nei prossimi mesi altre città d'Italia e del mondo (a partire da Torino, martedì 30 ottobre, dove la degustazione si terrà alla Città del gusto di palazzo Copernico Garibaldi, con 60 vini Tre Bicchieri in assaggio). Biglietto d'ingresso, acquistabile online, 60 euro. E chi vorrà (solo su prenotazione) potrà partecipare al seminario guidato dal curatore della guida Vini d'Italia Marco Sabellico, che dalle 18 alle 19 racconterà l'ultimo anno del vino italiano (il costo del biglietto sale così a 70 euro).

 

Grande degustazione Tre Bicchieri a Roma (27 ottobre) e Torino (30 ottobre)

 

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Scale del Gusto. A Ragusa Ibla alla scoperta dei sapori della Sicilia orientale

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Edizione numero quattro per Scale del Gusto, il festival gastronomico incentrato sulla tradizione siciliana, in scena a Ragusa Ibla dal 19 al 21 ottobre. Ecco il programma. 

 

L’evento

Perla della Sicilia orientale, a tavola Ragusa sa presentare quanto di buono offre un territorio foriero di specialità gastronomiche uniche. Sarà proprio l’antica tradizione ragusana – e più in generale la cucina della Sicilia orientale - la protagonista della manifestazione Scale del Gusto, evento ideato dall’associazione di promozione turistica Sud Tourism, impegnata a valorizzare risorse paesaggistiche, ambientali, gastronomiche, storiche e culturali della Sicilia sud orientale. L’obiettivo? Promuovere e riscoprire il mondo rurale e le sue tradizioni, attraverso un percorso sensoriale, in scena dal 19 al 21 ottobre, che alla ricca gastronomia del territorio abbina tutte le bellezze artistiche che negli anni hanno segnato la fama di questa zona. Un festival giunto ormai alla quarta edizione, che ancora una volta prende vita a Ragusa Ibla, dove banchi d’assaggio, laboratori, degustazioni guidate e cooking show presenteranno i sapori tipici locali.

Il programma

Oltre 30 i produttori che hanno deciso di aderire all’evento, per rappresentare il meglio della tavola siciliana, dal vino all’olio extravergine di oliva. E poi gli chef del territorio, i cuochi che negli anni si sono fatti portavoce dei sapori e profumi dell’isola. Via libera, quindi, a caciocavallo ragusano Dop, olio Dop Monti Iblei, la carota novella di Ispica Igt, il vino Cerasuolo di Vittoria Docg, la cioccolata di Modica, il miele dei Monti iBlei, la fava Cottoia, e ancora i grani antichi, le conserve, le confetture: questi e molti altri i prodotti in assaggio durante la festa lungo la scalinata che unisce Ragusa superiore a Ibla, avvolta dalla tipica vegetazione mediterranea e circondata da canestri, carretti, luci e tutti i colori più accesi della tradizione. Ci sarà poi il Concorso Nazionale di Enogastronomia, novità assoluta di questa edizione, un contest nato in collaborazione con l’Istituto di Istruzione Superiore Galileo Ferraris di Ragusa. Un’occasione unica di crescita per i 20 istituti alberghieri provenienti da 8 regioni diverse che si confronteranno nella preparazione delle prelibatezze del luogo.

I percorsi

Degustazioni, masterclass, dimostrazioni delle pratiche agricole e artigianali del passato, laboratori per grandi e piccini, cene all’aperto ed esibizioni artistiche mostreranno al pubblico tutto il buono e il bello della Sicilia orientale. Ma non finisce qui: cuore pulsante della manifestazione sono le visite guidate, un percorso che si snoda fra palazzi, chiese, torri e piazze, e che si fa sempre più affascinante con nuove location imperdibili: il Sagrato di S. Maria delle Scale, Largo Santa Maria, Sagrato della Chiesa Santa Lucia, Palazzo Sortino Trono. Ognuna di queste, ospiterà alcuni dei migliori chef locali per dimostrazioni di cucina, sottolineando ancora una volta l’indissolubile legame fra arte e cibo.

Scale del Gusto – Ragusa – dal 12 al 14 ottobre 2018- www.scaledelgusto.it/

a cura di Michela Becchi

Tre Bicchieri. Parla Fabrizio Gallo dell'Azienda Agricola Masùt da Rive

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In occasione del premio Tre Bicchieri per il loro elegante Pinot Bianco '17, abbiamo scambiato quattro chiacchiere con Fabrizio Gallo dell'Azienda Agricola friulana Masùt da Rive.

 

La famiglia Gallo si occupa di vitivinicoltura da generazioni, prima grazie al nonno Ermenegildo, poi con il padre Silvano e oggi con i due fratelli Fabrizio e Marco, da sempre, tutti concentrati sulla riva destra dell'Isonzo. Una tradizione, quella dei Gallo, che ha visto passare generazioni, tecniche di coltivazione sempre più innovative e differenti nomi per indicare l'azienda. Ci siamo fatti raccontare la loro storia da Fabrizio Gallo.

Masùt da Rive: questo nome ha qualche particolare significato?

Inizialmente l'azienda si chiamava Gallo Silvano, ma da quando ci siamo aperti al mercato americano ci siamo resi conto che “Gallo” lì è un nome importante nel settore del vino ed è anche un marchio depositato. Non ci rimaneva altro che cambiar nome, così siamo andati a ripescare il soprannome della nostra famiglia: a Mariano del Friuli ci sono parecchie famiglie che fanno Gallo di cognome e venivano chiamate Masut, pare derivi da un certo Tommaso Gallo.

E da Rive, che significa?

Noi siamo i Galli che abitano sulla salita della riva (del fiume Isonzo).

Qual è la storia dell'azienda?

Comincia nel 1979 quando nostro padre Silvano prende le redini di quella che all'epoca non era nemmeno un'azienda, semplicemente mio nonno Ermenegildo aveva delle vigne e vendeva il vino sfuso.

Con l'entrata di vostro padre che cosa è successo?

È iniziato il percorso di imbottigliamento.

Poi nel 1992 sei entrato in società.

Esatto, quando ho finito gli studi io e mio padre abbiamo fondato la società Masùt da Rive, iniziando una vera rivoluzione. Abbiamo rinnovato i vigneti e reimpiantato quelli malandati, abbiamo investito in macchinari innovativi e attrezzature. Poi nel 2002, anche lui dopo gli studi da perito agrario enotecnico, è entrato in società pure mio fratello Marco.

Dal 1992 a oggi che cos'è cambiato?

La rivoluzione è continuata, abbiamo continuato a rimodernare l'azienda acquistando sempre nuove attrezzature e diminuendo di conseguenza l'utilizzo della chimica.

Puoi farci qualche esempio concreto?

Grazie ad una defogliatrice pneumatica riusciamo a ripulire attraverso un getto d'aria i grappoli a fine fioritura, liberandoli dalle foglie in eccesso e favorendo così areazione e insolazione del grappolo. Con questa accortezza riusciamo a prevenire la botrite: noi dal 2007 (da quando abbiamo acquistato la defogliatrice) non utilizziamo più antibotritici con un notevole risparmio economico e una salvaguardia dell'ambiente. Stesso discorso per il sistema di subirrigazione grazie al quale andiamo ad irrigare solo lì dove è necessario. In questo caso le ali gocciolanti sono sotto terra permettendo, sì, alla pianta di usufruire dell'acqua, ma senza andare a nutrire l'erba, così si evita di dover falciarla con un trattore. E anche in questo caso c'è un risparmio di tempo e di gasolio. In ogni caso l'obiettivo è produrre uva bella, sana e perfettamente matura, che arrivi in cantina nei migliori dei modi.

Siete molto attenti alla sostenibilità in viticoltura. Perché non fare agricoltura biologica?

Io sono il primo consumatore dei miei vini quindi cerco di utilizzare poca chimica e assolutamente ho bandito l'utilizzo del rame (che si accumula sia nel terreno che nel nostro fegato), ma non abbiamo mai sentito l'esigenza di sottostare ad un disciplinare biologico.

Oggi l'azienda è nelle mani tue e di tuo fratello. Come vi dividete i ruoli?

Io seguo la parte amministrativa e commerciale, Marco la parte agronomica e di gestione dei vigneti.

Le vigne di Masut da Rive

Parliamo della zona in cui è situata la vostra azienda: quali sono le principali caratteristiche?

Mariano del Friuli è proprio nella Doc Isonzo del Friuli, nella zona delle rive alte, ovvero nella parte destra del fiume Isonzo. Qui la conformazione del suolo vede una composizione di terreni argillosi, arenali, scesi dalle colline, mescolati a tutti i terreni portati dal fiume. Ne risulta uno substrato argilloso dalla tipica colorazione rossastra.

Tutto questo si riflette anche nella qualità del vino

Questo terreno dà origine a bianchi e rossi strutturati e complessi, ma allo stesso tempo eleganti. Non sono mai troppo pesanti o impegnativi, e sono sempre ben equilibrati tra alcolicità e freschezza.

Nei vostri vigneti sono molte le varietà d'uva coltivate: su quale puntate di più?

Principalmente su tutti i pinot (bianco, grigio e nero), sullo chardonnay e sul sauvignon.

Torna un Tre Bicchieri dopo quello della Guida vini d'Italia 2006: ve lo aspettavate?

Questi premi sono sempre ambiti, poi il Tre Bicchieri è il riconoscimento nazionale più grande. Detto questo, ogni anno lavoriamo per dare il massimo e per raggiungere questo obiettivo, ma ritornando alla domanda: ce lo aspettavamo? Probabilmente sì!

 

Azienda Agricola Masùt da Rive - Mariano del Friuli (GO) - via A. Manzoni, 82 - 0481 69200 - masutdarive.com

 

a cura di Annalisa Zordan

Libri. Mangiare è un atto civico di Alain Ducasse

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Non un ricettario, ma una lunga riflessione sul nostro modo di alimentarci. È il libro “Mangiare è un atto civico” di Alain Ducasse e Christian Regouby, dove la gastronomia assume un ruolo educativo e inclusivo.

 

Assaporare il mondo

Comincia con il racconto dell'incidente aereo in cui fu coinvolto nel 1984 (e di cui fu l'unico sopravvissuto), Alain Ducasse. Un incidente che lo ha segnato profondamente nella vita, nei rapporti umani e in cucina: “Dal momento che sono ancora in questo mondo”, scrive lo chef francese, “il minimo che possa fare è impiegare in qualche modo il tempo supplementare che mi è stato concesso. È l’orgoglio tipico dei sopravvissuti? Sento dire a volte che sono un megalomane divorato dall’ambizione. Preferisco pensare di essere intransigente. Ma lo sono tanto con gli altri quanto con me stesso. Detesto l’approssimazione, in cucina come nei rapporti umani. La vita è troppo breve per accontentarsi del tiepido e dell’insipido. Voglio assaporare l’esistenza con tutto il mio essere, così come voglio far assaporare il mondo agli altri, fino magari a scuotere le loro certezze e a spalancare le loro percezioni sensoriali”. Parte così il primo capitolo intitolato, non a caso, “Assaporare il mondo”, dove Ducasse prende in esame la rivoluzione del gusto e l'importanza vitale del mangiare bene e sano, a prescindere dalle disponibilità economiche (si può mangiare bene senza spendere necessariamente tanto). Una riflessione che continua ed evolve lungo i sette densi capitoli.

Copertina del libro di Ducasse

 

I capitoli successivi e la gastronomia umanista

Nei capitoli successivi – dove non mancano le note autobiografiche, come quando comunicò alla mamma di voler diventare chef, e il doveroso focus sulla cucina francese, di cui Ducasse è uno dei massimi esponenti - il fil rouge è ben chiaro: dimostrare al lettore quanto la gastronomia sia anche un’arma politica e civica importante. Attraverso la gastronomia, infatti, si possono valorizzare le identità culinarie locali in tutto il mondo - “Almeno una volta l’anno faccio un giro del mondo alla scoperta di sapori nuovi da coniugare per creare nuove condivisioni” - si possono tessere legami tra culture differenti e si possono educare le persone, anche responsabilizzandole: “Mangiare è sì un’attività quotidiana per vivere e sopravvivere”, scrive nel secondo capitolo, “ma è anche un atto sociale e un comportamento civico, di cui abbiamo sempre più smarrito il senso, le sensazioni e le implicazioni. Riprendere il controllo della propria vita e condividere la consapevolezza delle funzioni sanitarie, culturali, economiche, ambientali e sociali è una necessità e una responsabilità vitale per ogni individuo”. Parole provocatorie che fanno il paio con la polemica contro la società dei consumi che “ci trascina a un’accumulazione quantitativa” e che (di)mostrano come il nuovo obiettivo, a questo punto, sia mangiare meno e meglio. È il diktat di quella che nel libro viene chiamata gastronomia umanista, capace di contrapporre ai nuovi volti assunti dalla violenza, dall’inciviltà e dalla barbarie, la prospettiva di una civiltà dell’empatia: “La tavola è grande abbastanza per farvi partecipare al banchetto. Venite”.

 

Mangiare è un atto civico - Alain Ducasse e Christian Regouby – Passaggi Einaudi – pp. 152 – 16,00 €

 

a cura di Annalisa Zordan

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