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Beck's at Brown a Londra. L'intervista a Heinz Beck e Heros De Agostinis

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A Londra, all'interno dello storico Brown's Hotel, il gruppo di ristorazione di Heinz Beck è arrivato lo scorso aprile. Dopo sei mesi facciamo un bilancio con lo chef tedesco e Heros De Agostinis, executive chef di Beck's at Brown. 

 

Sono passati sei mesi, ma Heinz Beck Heros De Agostinis non hanno dubbi: “Il Beck's at Brown è ancora una startup, nonostante l'accoglienza calorosa del pubblico. Abbiamo già clienti che tornano abitualmente, e diversi italiani che vengono a trovarci in cerca di una cucina riconoscibile a Londra”. Parlano all'unisono il maestro tedesco e uno dei suoi allievi prediletti - “Heros è con me dal 1994, sapevo sarebbe stata la persona più giusta per questo progetto ambizioso” - al termine del servizio serale in uno degli alberghi più charmant della capitale inglese, lo storico Brown's Hotel di Mayfair, dove il gruppo di ristorazione di Heinz Beck ha messo radici la primavera scorsa per conto del gruppo Roccoforte. Prima (alla fine del 2017) c'era stato il pop up necessario a sondare il terreno, poi la decisione di lanciarsi nella sfida a 360 gradi: non solo il ristorante, ma anche la banchettistica, l'afternoon tea, il room service, la gestione dell'offerta gastronomica del bar dell'hotel, di stampo anglosassone.

Al ristorante, invece, Heros dirige una brigata che conta molti ragazzi italiani per portare in tavola una cucina di impostazione mediterranea, con tanti riferimenti alla tradizione italiana e ai classici dello chef della Pergola di Roma. “Il Beck's at Brown è un casual fine dining di stile italiano, che vuole invogliare a tornare spesso; non abbiamo menu degustazione, ma solo proposte stagionali alla carta. Con l'inizio di novembre proporremo anche un menu dedicato al tartufo, mentre ora andiamo incontro a piatti di cacciagione, funghi, molto ricchi, che fanno sognare”, racconta Beck. L'inizio, insomma, sul palcoscenico prestigioso del Brown's Hotel, è più che incoraggiante, e il merito è anche di una grande conoscenza del mercato inglese (ricordiamo l'esperienza pregressa con l'Apsleys, di cui Heros è stato executive chef), per quanto riguarda gusti del pubblico e logistica degli approvvigionamenti. Ci raccontano meglio Heinz e Heros in questa video intervista.

 

video di Massimiliano Tonelli


A Slice Odissey. A Milano una mostra per celebrare i 120 anni dell'affettatrice Berkel

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In passato macchina innovativa, oggi un pezzo di design vintage e da collezione, la mitica Volano rossa, l'affettatrice simbolo dell'azienda Berkel, sarà protagonista assoluta di una mostra al Museo Nazionale della Scienza e della Tecnologia di Milano. Tutti i dettagli.  

 

L'invenzione

Vent'anni o poco più, una grande passione per la meccanica, la necessità di tagliare la carne in maniera più veloce e pratica, senza ricorrere al coltello. Sono queste le basi che hanno portato il macellaio olandese WilhelmusAndrianusVanBerkela creare una lama concava in grado di ruotare perpendicolarmente contro un piatto mobile che scorreva avanti e indietro: l'affettatrice meccanica. Sono trascorsi esattamente 120 anni dall'intuizione che facilitò il lavoro di molte persone impiegate nel settore, un'idea nata dallo studio del movimento della mano sul coltello e che ha portato alla creazione di un'azienda oggi sinonimo di garanzia e affidabilità.

 

La crisi e l'acquisizione

Simbolo di qualità, ricercatezza e genuinità dei prodotti, la Berkel negli anni incontra le difficoltà della crisi economica, fino a essere acquisita nel 2014 da Rovagnati. Con due stabilimenti produttivi di affettatrici, uno in Italia (Oggiona S. Stefano) e uno in India (Chennai), una fonderia di alluminio a Besnate e il centro di produzione di coltelleria a Maniago, la VanBerkelInternationalS.r.l.è oggi una realtà da più di 18 milioni di euro, e che conta oltre 150 dipendenti.

 

La mostra

Per celebrare il 120esimo anniversario dell'azienda, a Milano arriva la mostra “Berkel 1898-2018. A Slice Odissey” per festeggiare la “Volano rossa”, che sarà raccontata in un'epopea unica che ripercorre la storia di questo strumento divenuto un vero oggetto dei desideri, capolavoro di precisione e design. L'affettatrice, infatti, vanta centinaia di estimatori e collezionisti in tutto il mondo, che ora potranno finalmente ammirare l'opera in una mostra aperta al pubblico che segue, passo passo, tutti i cambiamenti dell'azienda nel tempo. Un tempo avanguardistica, oggi vintage, in qualsiasi caso la Volano si distingue da tutte le altre macchine per i suoi tratti unici, un mito senza tempo dal fascino intramontabile.

Pezzi decorati a mano, immagini iconiche, motivi grafici, pubblicità e molto altro ancora saranno protagonisti al Museo Nazionale della Scienza e della Tecnologia dal 19 al 21 ottobre. Per un viaggio nel tempo lungo 120 anni, fra disegni, foto, modelli e testimonianze della genesi, lo studio e l'artigianalità che si cela dietro questo prodotto.

 

Berkel 1898-2018. A Slice Odissey – Milano – dal 19 al 21 ottobre 2018 - www.theberkelworld.com/it/

 

a cura di Michela Becchi

 

 

 

Bee the Future. Nel futuro dell’agricoltura italiana ci sono le api: il progetto di Eataly con Arcoiris

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100 ettari di terreno in 4 zone agricole altamente produttive d’Italia, dove l’agricoltura intensiva minaccia la biodiversità. E un gruppo di contadini resistenti disposti a credere nella natura. A loro si rivolge il progetto che vuole riportare le api nelle nostre campagne, a tutela della biodiversità alimentare. Ecco perché. 

 

#iostoconleapi è l’hashtag dell’iniziativa, ma perché? Che le api siano una risorsa importante per la salvaguardia della biodiversità abbiamo avuto più volte occasione di ribadirlo. Come pure di quanto l’inquinamento ambientale e i trattamenti fitosanitari abusati dall’agricoltura intensiva ne mettano a rischio l’incolumità: il fenomeno della moria delle api è affare iniziato già una cinquantina d’anni fa, ma particolarmente evidente nell’ultimo decennio, che in Europa ha significato una diminuzione del 20% delle colonie di api, che operando l’impollinazione di centinaia di specie di piante sono le principali alleate della riproduzione nel mondo vegetale. Si calcola infatti che in Europa l’84% delle 264 specie coltivate dipendano dall’impollinazione degli insetti, e ben 4000 specie sopravvivano proprio grazie agli impollinatori come api, bombi e farfalle. Ma l’abuso di monocolture ed erbicidi per eliminare quelle piante infestanti che invece sono fondamentali per il “lavoro” delle api (come del resto il trifoglio e l’erba medica un tempo piantati come colture di copertura per nutrire il terreno) ha notevolmente ridimensionato il loro ruolo e la loro presenza nel nostro ecosistema (già due anni fa parlavamo di progetti di apicoltura urbana necessari a compensare la fuga delle api dalle campagne: l’inquinamento urbano è meno nocivo per le api degli agenti chimici spruzzati sulle coltivazioni).

 

Bee the Future. Il progetto

Da qui la necessità di lanciare la campagna Bee the Future, al motto di “per fare un seme, ci vuole un’ape”, progetto presentato a Torino in occasione dell’ultimo Salone del Gusto, nato dalla collaborazione tra Eataly, Slow Food, Francesco Sottile (docente di Agraria all’Università di Palermo) e Arcoiris, l’azienda sementiera italiana guidata da Antonio Lo Fiego, che è l’unica nel nostro Paese a lavorare esclusivamente in biologico. Un impegno corale pronto a coinvolgere più testimonial possibili – molti i volti noti che hanno aderito, da Teo Musso a Davide Scabin, Antonia Klugmann, Massimo Bottura e Vittorio Sgarbi, chiamati a condividere l’ashtag in difesa delle api e a sostegno della campagna – che dovrà svilupparsi nell’arco dei prossimi tre anni con un obiettivo ben preciso: riforestare 100 ettari di terreni vocati all’agricoltura con fiori amati dalle api, per “riportare la biodiversità delle piante infestanti in quelle zone dove, a causa di metodi agricoli basati sull’alto rendimento dei terreni, sta scomparendo”.

 

Le api e la tutela della biodiversità

La ricerca recentemente condotta dalla Fao, infatti, ha dimostrato che senza le api sparirebbero dalle nostre tavole almeno 70 delle 100 principali colture del mondo, tra cui albicocche, fragole, ciliegie, mele, pere, agrumi, pesche, kiwi, castagne, susine, mandorle, meloni, aglio, pomodori, cetrioli, cavoli, ravanelli, asparagi, zucchine, carote, cipolle. E allora da dove si parte? Proprio dalle zone più soggette all’agricoltura intensiva: il Piemonte della monocoltura di mais, la zona del Prosecco in Veneto, i terreni coltivati a nocciole nel Lazio, ma pure quelli destinati all’allevamento intensivo di bovini in Pianura Padana. Qui è stata avviata la selezione di contadini cosiddetti “resistenti”, agricoltori che si impegnano a portare avanti un’agricoltura virtuosa pur circondati da aziende che hanno scelto la strada più semplice. A loro Arcoiris ha consegnato un miscuglio di semi italiani, biologici, composto da 10 piante (grano saraceno, trifoglio alessandrino, coriandolo, facelia, lino, senape, sulla, rucola, girasole, trifoglio incarnato), utile sia per la bottinatura, sia per il sovescio. La prima semina è stata avviata la scorsa primavera, mentre per sollecitare la sensibilità dei non addetti ai lavori è stato perfezionato anche un miscuglio per “amatori”, semi di girasole, malva, calendula, millefiori venduti in busta nei punti vendita Eataly e perfetti per vasi, terrazzi e piccoli giardini di campagna e città.

 

I contadini resistenti

Intanto le 4 aree pilota identificate sono costantemente monitorate dal professor Sottile, così da calcolare i benefici dell’iniziativa sul medio e lungo periodo, e alcuni di questi agricoltori resistenti hanno trovato un volto e un nome nelle campagne promosse sui canali dell’iniziativa per richiamare l’attenzione di tutti. Tra loro c’è la Fattoria Accanto di Modena, dove Cecilia Vergante produce ortaggi bio, canapa alimentare e bamboo e gestisce una fattoria didattica, e l’agriturismo IOB di Vetralla, in provincia di Viterbo, una piccola azienda biodinamica che produce nocciole, semi per ortaggi e miele. E come loro molte altre piccole e medie realtà agricole, convinte a partecipare non solo per salvaguardare le api, ma pure per i benefici che il miscuglio di semi apporta ai terreni in termini di fertilità. Ecco perché la speranza è che nei prossimi anni il progetto possa coinvolgere un numero di aziende sempre maggiore.

 

a cura di Livia Montagnoli

Anteprima Tre Bicchieri 2019. Veneto

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Le anticipazioni dei premiati dalla Guida Vini d'Italia 2019 del Gambero Rosso ci portano in Veneto.

 

Il Veneto è una regione ricca di terroir molto differenti tra loro, ma dove la viticoltura è stata sempre una delle attività agricole preminenti. Ad eccezione della zona meridionale della regione, è un susseguirsi di denominazioni che spaziano dalla pianura alle colline, dai suoli ghiaiosi a quelli ricchi di argilla o vulcanici, dando spazio tanto ai vitigni internazionali quanto ai numerosi autoctoni che da secoli identificano il legame con il territorio stesso. Nel corso della storia si sono alternati momenti di successo ad altri di crisi per una zona o per l’altra, ma oggi la parte del primattore spetta senza dubbio a due realtà che rappresentano il vino italiano nel mondo intero: la Valpolicella, con i suoi Superiore e gli Amarone, e Conegliano Valdobbiadene, che ha fatto del Prosecco e delle bollicine made in Italy una bandiera. Sono queste le denominazioni più attive, in cui la nascita e lo sviluppo di nuove realtà è veloce sul fronte qualitativo come su quello commerciale. Tanti i vini premiati proprio in Valpolicella, dove annotiamo con gioia come lo stile del Superiore stia ritagliandosi un’identità più autentica, limitando al massimo il processo di appassimento delle uve e dando vita a vini che hanno nella finezza aromatica e nella tensione gustativa la cifra stilistica. Anche per gli Amarone il percorso è simile, senza rinunciare all’appassimento, ma ricercando un profilo più integro e meno morbido.

A Conegliano Valdobbiadene invece è sempre più convincente la produzione di Prosecco Brut, a testimonianza di una ricerca che esalta le doti di sapidità e delicatezza del vitigno senza chiedere grandi aiuti allo zucchero. I Colli Euganei sono la consueta fucina di rossi vigorosi e raffinati, come testimonia perfettamente il Baon di Giordano Emo Capodilista, mentre nei vicini Colli Berici spetta all’azienda Dal Maso il medesimo compito con un sontuoso Merlot Casara Roveri.

Nella zona orientale della Regione sempre più aziende valorizzano il loro territorio con originalità e senza inseguire modelli predefiniti. I fratelli Sutto e i Cescon si uniscono a Serafini e Vidotto nel dare voce a un’area che non vive di solo Prosecco ma che ha grandi potenzialità anche per i vini fermi. A Soave, Custoza e Bardolino, infine, l’identità s’identifica ormai con concetto di eleganza, rinunciando a concentrazioni esasperate o aiuti da vitigni estranei alla tradizione.

 

Amarone della Valpolicella ’14 - Famiglia Cottini - Monte Zovo

Amarone della Valpolicella Cl. ’14 - Allegrini

Amarone della Valpolicella Cl. ’10 - Cav. G. B. Bertani

Amarone della Valpolicella Cl. ’09 - Giuseppe Quintarelli

Amarone della Valpolicella Cl. Albasini ’11 - Villa Spinosa

Amarone della Valpolicella Cl. Casa dei Bepi ’12 - Viviani

Amarone della Valpolicella Cl. Costasera Ris. ’13 - Masi

Amarone della Valpolicella Cl. De Buris Ris. ’08 - Tommasi Viticoltori

Amarone della Valpolicella Cl. Monte Ca’ Bianca ’13 - Lorenzo Begali

Amarone della Valpolicella Cl. Vign. di Ravazzol ’13 - Ca’ La Bionda

Amarone della Valpolicella Cl. Villa Rizzardi ’13 - Guerrieri Rizzardi

Amarone della Valpolicella Leone Zardini Ris. ’11 - Pietro Zardini

Amarone della Valpolicella Pasqua Mai dire Mai ’11 - Pasqua-Cecilia Beretta

Baon ’15 - Conte Emo Capodilista La Montecchia

Bardolino Sup. Pràdicà ’16 - Corte Gardoni

Campo Sella ’15 - Sutto

Capitel Croce ’17 - Roberto Anselmi

Cartizze Brut V. La Rivetta - Villa Sandi

Colli Berici Merlot Casara Roveri ’15 - Dal Maso

Conegliano Valdobbiadene Rive di Ogliano Brut Nature ’17 - BiancaVigna

Custoza Sanpietro ’16 - Le Vigne di San Pietro

Custoza Sup. Amedeo ’16 - Cavalchina

Custoza Sup. Ca’ del Magro ’16 - Monte del Frà

Lugana Molceo Ris. ’16 - Ottella

Lugana Sergio Zenato Ris. ’15 - Zenato

Madre ’16 - Italo Cescon

Montello e Colli Asolani Il Rosso dell’Abazia ’15 - Serafini & Vidotto

Riesling Renano Collezione di Famiglia ’13 - Roeno

Soave Cl. Calvarino ’16 - Leonildo Pieropan

Soave Cl. Monte Alto ’16 - Ca’ Rugate

Soave Cl. Monte Carbonare ’16 - Suavia

Soave Cl. Monte Grande ’16 - Graziano Prà

Valdobbiadene Brut Campofalco Vign. Monfalcon ’17 - Canevel Spumanti

Valdobbiadene Brut Dirupo ’17 - Andreola

Valdobbiadene Brut Nature Particella 232 - Sorelle Bronca

Valdobbiadene Brut Rive di Col San Martino Cuvée del Fondatore Graziano Merotto ’17 - Merotto

Valdobbiadene Brut Rive San Pietro di Barbozza Grande Cuvée del Fondatore Motus Vitae ’16 - Bortolomiol

Valdobbiadene Extra Dry Giustino B. ’17 - Ruggeri & C.

Valpolicella Cl. Sup. Camporenzo ’15 - Monte dall’Ora

Valpolicella Sup. Ripasso Campo Ciotoli ’16 - I Campi

Valpolicella Sup. Tenuta Campocroce ’16 - Tenute SalvaTerra 

 

Classifica delle migliori porchette dei Castelli Romani

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La top ten del mensile di ottobre del Gambero Rosso è dedicata alla specialità norcina protagonista del fast food romano per eccellenza, regina di merende, sagre e feste paesane: la porchetta. Qui le tre arrivate sul podio.

 

La porchetta dei Castelli Romani

Si fa presto a dire porchetta. La sua macrozona di elezione è l’Italia centrale; ce ne sono di buone e buonissime in Toscana, nell’Alto Lazio (nel Viterbese), in Umbria (specie a Norcia, patria di salumi e salumieri), in Abruzzo (dove è famosa quella di Campli), nelle Marche. Con qualche ramificazione extraterritoriale, nel sud e nel nord Italia, in Veneto per esempio, dove gusto e aromi si attenuano e ingentiliscono. Ma la “porca” – come scrive Emilio Gadda nelle pagine del suo Pasticciaccio – è quella saporita, speziata e maleducata dei Castelli Romani, area nell’hinterland sud della capitale, che ha nel paese di Ariccia l’epicentro storico di produzione di questa specialità norcina dalla tradizione ultramillenaria risalente a prima dell’antica Roma. Furono i porchettari di questo centro castellano, nel 1950, guidati dal sindaco di allora Ovidio Cioli, a creare la prima sagra della porchetta, che ogni anno si celebra ad Ariccia nel primo weekend di settembre.

La degustazione alla cieca

Per la classifica del mensile di ottobre il nostro panel di esperti ha degustato, come sempre alla cieca, la porchetta “romana” reperibile sul mercato quanto meno dell’Italia centrale, in negozi, locali e gdo: sia quella di Ariccia Igp, sia quella senza certificazione, ma sempre prodotta all’interno della zona dei Castelli Romani. La degustazione prevedeva l’assaggio del prodotto sia freddo che scaldato. Al panel hanno partecipato: Marco Camilli (produttore di legumi bio e assaggiatore professionista di olio), Indra Galbo (redazione del Gambero Rosso), Marco Greggio (agronomo e docente di analisi sensoriale), Mara Nocilla (giornalista del Gambero Rosso), Attilio Servi (produttore romano di grandi lievitati, anche creativi ai salumi) e Domenico Villani (maestro assaggiatore della delegazione O.N.A.S. di Roma).

La top 3

Porchetta di Leoni Isabella

1 - Leoni Isabella (Tronchetto di porchetta di Ariccia Igp)

Da quasi un secolo Leoni Isabella ha legato il suo nome alla celebrata specialità norcina dei Castelli. A inizio ‘900 il nonno Augusto Leoni, porchettaro di Ariccia, apprese l’arte di produrre la tradizionale porchetta e gettò le basi dell’attività di famiglia, che continua tuttora da oltre 50 anni senza soluzione di continuità. Controllo della filiera, selezione delle carni (per l’80% italiane, il resto spagnole), ricette antiche, rispetto della tradizione coniugate agli standard di sicurezza moderni sono le carte vincenti della porchetta firmata Isabella Leoni. Bella, giustamente grassa e ben condita, ha profumi delicati ma tipici di buone carni suine cotte e spezie, più accenti dolci biscottati. Gusto eccellente, sapido ma coerente, aromi corrispondenti all’olfattiva, parte magra leggermente asciutta a fronte di un grasso piacevole e solubile, ottima crosta per consistenza e sapore. Perfetta gustata calda.

Prezzo al kg 18/22 euro

Leoni Isabella - Ariccia (RM) - via Perlatura, 49 - 0693496348 - 3475954668 – porchettaleoni.it

 

Porchetta di Leopardi

2 – Leopardi (Tronchetto di porchetta di Ariccia Igp)

Dal 1947 lungo quattro generazioni: da Empedocle Leopardi, detto Pepparone, che cominciò a produrre la porchetta e a venderla al dettaglio con un chiosco ambulante, fino al bisnipote Giorgio Leopardi, che ha sviluppato l’azienda al punto da distribuire alla gdo e all’estero. Le carni sono in parti nazionali, in parte Ue, la lavorazione è fatta secondo tradizione. Il prodotto Leopardi è un’altra bella porchetta di Ariccia che ha nel condimento uno dei suoi maggiori punti di forza, una concia spinta e tipica dominata dagli olii essenziale del rosmarino impiegato nel cuore della “porca” insieme all’aglio e al pepe nero, che ne caratterizza il profilo olfattivo e aromatico e tende a coprire le note animali. Si presenta molto colorita, di un bel rosa acceso, con una crosta caramellata e leggermente gommosa, e una sapidità molto alta. Giuste intensità e persistenza, buona la carne impiegata. Parte magra leggermente fibrosa compensata da un buon grasso scioglievole.

Prezzo al kg 19/20 euro

Leopardi -Ariccia (RM) - via Longarina, 18a – 0693492073 – porchettadiaricciadoc.com

 

Porchetta di Mancini la Norcineria dal 1870

3 - Mancini la Norcineria dal 1870 (Tronchetto di porchetta di Ariccia Igp)

Da oltre 130 anni la vera porchetta di Ariccia fatta secondo le ricette della tradizione contadina, affiancata da altre specialità norcine territoriali quali coppa di testa, coppiette, guanciale, salamini con finocchio di campo. La “porca” Mancini si presenta con diverse tonalità di rosa e “maleducata” nel senso migliore: molto grassa e molto ben condita, molto saporita, con picchi di sapidità dovuti all’uso di sale grosso (i cui cristalli si avvertono sotto ai denti), l’elemento animale e la concia di aglio, pepe nero e rosmarino decisamente esuberanti e prorompenti, il grasso succulento, la crosta biscottata color caramello scuro omogenea e compatta. Una porchetta dalle note alte e assai ben fatta, con buone carni suine mature, di suino pesante, cotte a regola d’arte e dalla struttura morbida e solubile nonostante le leggera tenacità delle parti magre. Peccato un leggero sentore ormonale e la crosta non croccante ovunque.

Prezzo al kg 18/20 euro

Mancini la Norcineria - Ariccia (RM) - via Appia Antica, 70 – 0693393116 – norcineriamancini.it

 

a cura di Mara Nocilla

foto della top 3 di Fabrizio Perilli

 

QUESTO È NULLA...

Anteprima mensile di ottobre, la classifica delle porchette

Nel numero di ottobre del Gambero Rosso, un'edizione rinnovata in questi giorni in edicola, trovate la classifica completa con un approfondimento sul disciplinare della certificazione Igp ottenuta da Bruxelles nel 2011 e i consigli su come usarla suggeriti dal pasticcere e lievitista Attilio Servi, dal maestro gelatiere Marco Radicioni, dai pizzaioli Patrick Ricci e Gabriele Bonci e dallo chef Antonello Colonna.

Il numero lo potete trovare in edicola o in versione digitale, su App Store o Play Store

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Novità a Milano. 4 bar con pasticceria dalla colazione all’aperitivo: Marlà, Cabaret, Ofelé e la Cannata Sicilian Bakery

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In cerca di una pausa dolce per l’arrivo dell’autunno, 4 indirizzi da segnare in agenda con idee chiare, giovani pasticceri e prodotti di qualità

 

Nella Milano che ogni giorno propone qualche novità gastronomica, il (lungo) periodo di grandi investimenti nel settore della ristorazione non sembra destinato a conoscere battute d’arresto. E se da un lato il dinamismo della città concede ampio spazio a progetti ambiziosi – il rientro dalle vacanze si è aperto con l’attesissimo esordio di Starbucks – e ingolosisce grandi nomi (da Niko Romito ad Heinz Beck, per non parlare della numerosa compagine di pizzaioli che oggi vantano una propria insegna all’ombra della Madonnina), dall’altro sono le nuove piccole imprese a confermare quanto il clima di fiducia che si respira in città sia in grado di fare la differenza (sempre tenendo a mente il dato meno lusinghiero sul gran numero di chiusure che questa girandola di aperture, spesso improvvisate, porta con sé). Dunque, per esempio, restando nel perimetro di azione di bar, caffetterie e pasticcerie, sono diverse le avventure in procinto di iniziare o fresche di esordio che potrebbero riservare sorprese.

Marlà. Laboratorio di pasticceria

Marlà è la crasi di due nomi, Marco Battaglia e Lavinia Franco: entrambi giovani, entrambi pasticceri, i due ragazzi sono una coppia nella vita e tra pochi giorni anche sul lavoro, nel laboratorio che insieme hanno progettato in corso Lodi (civico 15, non distante dal distretto del cibo che gravita intorno a Trippa, nell’area di via Muratori, dove di recente è arrivata anche la pizza di Jacopo Mercuro), dopo un percorso comune alla Pasticceria Martesana (solo l’ultima tappa di una serie di esperienze eccellenti, che per esempio hanno visto Lavinia a bottega presso Philippe Conticini ed Ernst Knam). E la loro pasticceria con caffetteria sarà fresca e innovativa com’è giusto che sia per un’impresa che nasce giovane ma ha voglia di fare strada, contando soprattutto su una solida conoscenza delle basi. Le ultime settimane sono state dedicate alle prove: si sfornano brioche e pain au chocolat per la colazione, cannoncini di sfoglia da farcire al momento con crema pasticcera, monoporzioni di torta alle rose, tartellette di frolla. Quando aprirà, Marlà sarà aperto da mattina a sera, anche per la pausa pranzo con proposte salate, e con servizio di caffetteria. Una ventina i posti a sedere all’interno, 10 all’esterno per la bella stagione.

 

Cabaret. Caffè filtro, pasticceria dolce e salata, musica e drink

Ci spostiamo in via Cornalia (metro Gioia) per ritrovare una vecchia conoscenza della caffetteria meneghina. Lui si chiama Gilberto Stucchi, e nel 2004 è stato fautore del rinnovamento del panificio di famiglia aperto nel 1966, quel Pane & Caffè che in via Murat era diventato un punto di riferimento per tutta la giornata, dalla colazione del mattino alla merenda con cheesecake e torta alle mele nella veranda riscaldata, fino all’aperitivo serale con prodotti da forno e gastronomia salata e al dopocena musicale. Passando per il pranzo con i piatti del giorno, cucinati da mamma Adriana, tra risotti e cotoletta alla milanese. Finita un’epoca, entro la metà di novembre Gilberto si prepara a esordire con un nuovo progetto, Cabaret ha voluto chiamarlo, in omaggio alla sua passione per la musica e lo spettacolo (che anche nel nuovo spazio non mancheranno) e per richiamare subito alla mente l’immagine del classico cabaret di paste. Ma il suo bar cercherà di strizzare l’occhio alla modernità. Per esempio con la proposta di pasticceria, affidata a un giovane pasticcere in arrivo dalla scuola di Ernst Knam, che lavorerà sul dolce e il salato, per offrire una proposta 100% della casa, dalla colazione all’aperitivo. Le basi sono quelle della pasticceria di tradizione italiana e francese, con monoporzioni creative, brioche e lieviti, cannoncini e bignè farciti al momento. E per la sera una linea di pasticceria salata, quiche, salatini ugualmente prodotti in laboratorio. Stessa attenzione per la caffetteria: “Sarà responsabile del banco una ragazza in arrivo da 5 anni di esperienza in caffetterie londinesi, proporremo due monorigini a rotazioni, caffè espresso e filtro, ma anche latteart. E poi un’ampia selezione di tè e tisane, macha, latte di mandorla e avena per cappuccini alternativi”. Per l’aperitivo anche una drink list studiato in abbinamento con la pasticceria dolce e salata, oltre ai classici della miscelazione. Circa 100 metri a disposizione, con 50 coperti più il bancone a farla da padrone, con apertura dalle 7.30 a sera (fino alle 2 nel weekend, quando si farà anche musica dal vivo).

Cannata Sicilian Bakery. Dolci, pane e arancini

Ha già superato il giro di boa dei due mesi la Cannata Sicilian Bakery di Tommaso Cannata, che in corso Indipendenza, all’inizio di agosto, ha portato l’esperienza decennale maturata a Messina, alla guida della sua Boutique del pane. Per Milano ha cucito su misura un format ibrido, bistrot, pizzeria, ma soprattutto bakery (con caffetteria) operativa sin dalle prime ore del mattino, con biscotti, dolci da credenza, lieviti, focacce messinesi e sfizi di street food – arancini compresi - che vogliono raccontare la Sicilia più autentica in città (dove prima dell’estate sono arrivati anche i produttori di Fud e l’energia di Andrea Graziano). E grande protagonista il pane.

 

Il nuovo Ofelé

Chiudiamo con una novità a metà, perché Ofelé (pasticcere in milanese) è da tempo una garanzia della colazione e della merenda milanese in zona Solari. Ma da qualche settimana la bakery di via Savona si è ingrandita e rifatta il look, senza perdere di vista l’obiettivo: coccolare i clienti con le creazioni dolci e salate della casa, a opera di Stefania e sua madre Mariagrazia. Ora però c’è più spazio per sedersi, una ventina di posti guadagnati, mentre la proposta resta legata ai classici dell’american breakfast e del brunch, che ogni fine settimana attira molti appassionati del genere, per gustare pancake salati, bagel e cheesecake. Per l’aperitivo serale (dalle 19), invece, la novità rubitt, piccoli assaggi di cucina per accompagnare un calice di vino o un drink.

 

Marlà – Milano – corso Lodi, 15 – prossima apertura - www.facebook.com/creiamodolcienonsolo/

Cabaret – Milano – via Emilio Cornalia – dall’inizio di novembre 2018

Cannata Sicilian Bakery – Milano – corso Indipendenza, 5, angolo via Ciro Menotti – 02 7380400

Ofelé – Milano – via Savona, 2 – 02 49500096 – www.ofele.it

 

a cura di Livia Montagnoli

Il Peperone di Senise IGP: l’oro rosso della Lucania raccontato dai giovani imprenditori di MAB

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Gestire un’attività agricola a quasi 500 km di distanza è possibile. Vi raccontiamo la storia una giovane coppia che produce il Peperone di Senise IGP che ha conquistato anche grandi chef

 

 

Se ancora siete tra quelli che dubitano dell’esistenza di una regione italiana che corrisponde al nome di Basilicata, molto probabilmente non avete mai assaggiato il Peperone di Senise IGP. Si tratta di un peperone di forma allungata – che ricorda un cornetto - dal sapore dolce, famoso per essere commercializzato come peperone crusco (prima essiccato poi fritto in olio extravergine di oliva).  Qui non possiamo farvelo assaggiare, ma possiamo dirvi che può creare un tipo di dipendenza simile a quella che provocano le patatine, ma molto più sana: basti pensare che il peperone di Senise IGP contienevitamine A, E, C, K e PP.
Enrico Fanelli e Maddalena Guerriero di MAB (Masseria Agricola Buongiorno), in questa intervista, ci svelano tutte le curiosità del Peperone di Senise IGP e in particolare del loro prodotto, amato anche dagli chef.
Infine, vi regaliamo anche una ricetta della trattoria Tre Gamberi La Locandiera di Bernalda.

 

Chi siete e cosa fate?
Siamo Enrico e Maddalena, una coppia di giovani laureati, titolari di MAB – Masseria Agricola Buongiorno. Da circa quattro anni produciamo il Peperone di Senise IGP, prodotto simbolo della tradizione gastronomica lucana.

Com'è nata l'esigenza di aprire questa azienda? 
Più che esigenza parlerei di volontà e da una concomitanza di fatti. Enrico ha rilevato dalla zia un’azienda di famiglia, che era in stato di abbandono. Inoltre, il settore in cui operava fino a qualche anno fa era quello finanziario, uno dei primi settori a risentire della crisi. Così ha deciso di reinventarsi e abbiamo fondato Mab.

Come mai avete scelto proprio la coltivazione del Peperone di Senise IGP?
Enrico è molto legato alla sua terra, la Basilicata. È una persona perseverante e io sono come lui. Abbiamo creduto in MAB cercando di valorizzare il Peperone di Senise Igp, un prodotto con un potenziale elevato, ma che nessuno ha mai provato veramente a rivalutare.

È stato difficile emergere nel mercato?
Le aziende che vantano il marchio IGP devono scontrarsi con un mercato complicato, saturo di marchi che non corrispondono ai requisiti di tutela e che, per questo, hanno maggiore facilità dal punto di vista economico. La nostra azienda, che ha il marchio IGP, è iscritta al Consorzio di tutela e viene controllata da Agroqualità, l'organismo preposto dal Ministero delle politiche agricole alimentari, forestali e del turismo a vigilare sul rispetto del disciplinare di produzione.

Qual è l'iter di produzione del peperone dalla semina al prodotto finito?
Il processo produttivo viene eseguito esclusivamente a mano: dal trapianto alla raccolta, alla fase di insertaggio (in cui i peperoni vengono legati in collane) e di essiccazione, che avviene con metodi naturali, al fine di garantire maggior qualità e genuinità del prodotto. Iniziamo la raccolta tra la fine di luglio e l’inizio di agosto (a seconda dell’andamento della stagione estiva); in questo periodo il prodotto raggiunge la massima maturazione. Successivamente si passa alla fase di essiccazione, eseguita in locali areati che rispettano le vigenti norme sanitarie, esponendo indirettamente al sole le tipiche collane chiamate "serte". Tutte queste fasi vengono effettuate nel rispetto dei controlli previsti dal disciplinare di produzione del Peperone di Senise IGP.

Dopo l’essiccazione del peperone cosa avviene?
Viene selezionato e fritto in olio extravergine di oliva per diventare peperone crusco, che in dialetto senisese vuol dire “croccante”.

Oltre al crusco, quali prodotti vendete?
Abbiamo le tipiche collane di peperone secco; l’oro rosso, ossia la polvere di peperone ottenuta dalla macinazione del prodotto essiccato e privato dei semi; la confettura di peperone; e da quest’anno i zafarani, ossia filetti di peperone fresco grigliato racchiusi in vaso con olio evo e sale, tutti i prodotti sono ottenuti con il Peperone di Senise IGP.

Vivete a Roma, ma l'azienda ha sede a Senise in Basilicata. Come si gestisce un'attività a distanza?
Con non pochi sacrifici. Entrambi abbiamo una seconda attività che per ora abbiamo deciso di mantenere. Tieni presente che il nostro prodotto viene raccolto in un solo periodo dell’anno, indicativamente tra luglio e settembre. In questo periodo Enrico rimane spesso in azienda e io lo raggiungo nel weekend. All’interno dell’azienda, inoltre, lavorano 6 collaboratori specializzati con cui ci confrontiamo giornalmente e che ormai sono parte fondamentale del nostro progetto. Successivamente ci dedichiamo alla commercializzazione del prodotto e alla ricerca di nuovi canali di distribuzione.

Quanto è difficile posizionare un prodotto così di nicchia nei ristoranti o nelle salsamenterie, ad esempio? Come riuscite nella vostra impresa?
Non è semplice, ma solo al primo approccio, poi una volta che il cliente lo prova, non può farne a meno. Credo che crei dipendenza! Il lato positivo di non rimanere in azienda tutto l’anno è proprio questo, ci permette di prendere più contatti, di partecipare a diversi eventi di promozione.

Chi, a oggi, ha scelto il vostro peperone?
Passiamo dallo chef d'alto rango (come Riccardo Di Giacinto del Ristorante All'Oro o Marco Milani del ristorante Baccano) alla trattoria di quartiere, catering, bistrot e non per ultimo le pizzerie. Ma il prodotto è in vendita anche presso le enoteche e le gastronomie.

Chi richiede il vostro prodotto come lo utilizza?
La cucina italiana negli ultimi anni si è evoluta, anche per quanto riguarda gli abbinamenti, lo stesso è accaduto con il nostro prodotto. Fino a qualche tempo fa veniva utilizzato per accompagnare il baccalà, come vuole la tradizione lucana, oggi lo puoi abbinare a formaggi stagionati o freschi, degustarlo con una buona mozzarella di bufala, ma puoi abbinarlo anche al pesce: mazzancolle, polipi, gamberi cotti o crudi.

Oggi consigliereste ai giovani di lasciare tutto e diventare imprenditori agricoli?
Sicuramente sì, purché dietro ci sia una passione molto forte e una costante attenzione alla qualità, perché a produrre un prodotto banale siamo bravi tutti, bisogna puntare sull’innovazione e sulla qualità della materia prima.
Per chiudere abbiamo chiesto una ricetta con il peperone crusco a “La Locandiera” di Bernalda, Tre Gamberi nella guida Ristoranti d’Italia 2018.

Ferricelli con mollica di pane e peperone crusco

Ingredienti per 4 persone:

320 g di pasta ferricelli (tipica pasta fresca lucana)
200 g di mollica di pane raffermo
1 cucchiaio di peperone di Senise IGP macinato
olio extravergine d’olive e sale q.b.
1 spicchio di aglio

Procedimento

Mettete a bollire l'acqua in una pentola.
In una padella versate circa 4 cucchiai di olio a persona e fate profumare uno spicchio d'aglio.
Aggiungete la mollica e una presa di sale e fate rosolare.
A cottura ultimata versate il peperone di Senise in polvere, mescolate e lasciate da parte.
Calate la pasta e lasciate cuocere. Una volta scolata unite la mollica con peperone.
Mescolate e impiattate.
Potrete finire con peperone crusco.

 

Masseria Agricola Buongiorno - Senise (PZ) - Contrada Rotalupo snc - 0973 296271 -  https://www.masseriagricolabuongiorno.it/

Trattoria La Locandiera  -Bernalda (MT) - corso Umberto I, 194 - 0835 543241 -  http://www.trattorialocandiera.it/

Foto di apertura Mariangela Russo

 

a cura di Antonella Dilorenzo

 

 

 

Bologna Cocktail Week 2018. Il festival che celebra l'arte del bere miscelato

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Torna Bologna Cocktail Week, la manifestazione dedicata alla mixology che per il secondo anno consecutivo prende vita nel capoluogo emiliano. Con 27 cocktail bar d'autore e tanti maestri bartender, l'evento si presenta con un programma sempre più fitto di appuntamenti imperdibili. 

 

L'evento

Ormai è chiaro a tutti: Bologna, per anni centro della movida universitaria, è oggi molto più attenta alla qualità in fatto di drink e cocktail e lo dimostrano le recenti aperture, da Scarto ai cocktail di Bizzarre e di Salvatore Castiglione al DolceSalato Bistrò, che confermano l'inarrestabile fermento del mondo della mixology. Il fatto che un anno fa sia nata una Cocktail Week ne è poi un'ulteriore dimostrazione. Il format di successo internazionale, già collaudato a Firenze e Roma, torna per la sua seconda edizione dal 15 al 21 ottobre 2018, con ospiti internazionali, degustazioni, seminari, workshop e una Mixology Competition, in scena il 18 ottobre di fronte a una giuria presieduta da Enrico Scarzella di Bizarre. Coinvolgendo ben 27 realtà locali, impegnate nella realizzazione di cockatil ricercati e nella diffusione della cultura del buon bere.

Il programma

Comincia oggi, quindi, una kermesse dedicata alla miscelazione a ai drink d'eccellenza, miscelati con sapienza dai bartender nei locali che hanno scelto di prendere parte al festival. Il programma si propone di esaminare le tante sfumature che compongono questo microcosmo di appassionati, dalla tradizione della distillazione alpina alla spillatura, attraverso masterclass e seminari dedicati. C'è il Reserve Training, con un focus su Tanqueray Ten, Ketel One, Bulleit e Belsazar a cura di Francesco Galdi, vincitore del World Class Italia 2018, e poi gli abbinamenti gastronomici con L'Ora del Vermouth, insieme a Matteo Bonoli, master herbalist che farà (ri)scoprire al pubblico il fascino del Rosso Antico, “il principe degli aperitivi”. L'obiettivo? Sensibilizzare i visitatori verso un consumo consapevole, offrendo una panoramica dettagliata sui prodotti, le tecniche e le tradizioni dell'arte della miscelazione. E quindi via libera al laboratorio dedicato al miele, Honey Night, durante il quale il nettare degli dei sarà protagonista di drink originali, e poi il momento dell'aperitivo, quello alla bolognese, con piatti e sapori tipici della tradizione emiliana ad accompagnare cocktail studiati appositamente per l'abbinamento, e la beer mixology, che coniuga birra e bere miscelato.

I protagonisti

Ancora una volta, sono tanti i locali che hanno deciso di aderire alla manifestazione, proponendo i loro cocktail alcolici e analcolici messi a punto per l'occasione, alcuni in abbinamento ai piatti della tradizione, altri da gustare in purezza. Bizarre Cocktail Boutique, Boavista, Cabò, Camera Con Vista Bistrot,Casa Minghetti, Dolce e Salato Bistrot, Emporio 1920, Emporio Armani Caffè, Ex Forno Mambo, Foodies, Fourghetti, Gamberini, Gesto, I Conoscenti: sono solo alcuni dei nomi che hanno scelto di lavorare fianco a fianco per promuovere la mixology made in Bologna, insieme a Mojo Jand, Moretto, NuLoungeBar, Pastis, PiedradelSol, ReSoleBistrot, Ruggine, Smoll, VeryNice, MadamaBeerstròe molti altri ancora.

Bologna Cocktail Week – Bologna – dal 15 al 21 ottobre 2018 - www.bolognacocktailweek.com/


Apre a New York il Museo della Pizza. Ecco com’è il MoPi che celebra la pizza come linguaggio universale

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C’è voluto qualche mese per realizzare le installazioni, ora fino al 18 novembre New York avrà il suo museo della pizza, un percorso tra opere d’arte contemporanea che raccontano come il cibo italiano più famoso nel mondo sia diventato un simbolo universale. Tra invenzioni kitsch e collezioni da Guinness. 

 

La pizza come linguaggio universale

Prima dell’estate l’annuncio: un museo della pizza… a New York. L’iniziativa dello studio di design Brooklyn Nameless Network aveva lasciato l’amaro in bocca a molti sostenitori della pizza made in Italy, pizzaioli di fama compresi, maldisposti a tollerare lo “scippo” di un’eccellenza di cui gran parte dell’Italia rivendica la proprietà intellettuale. In realtà le dichiarazioni d’intenti degli ideatori e i manifesti sfoderati a tappezzare la città chiarivano l’obiettivo di un progetto non propriamente catalogabile tra i musei del cibo, e invece più legato a sfruttare l’immagine della pizza in quanto potente linguaggio universale, riflettendo così sui simboli dell’immaginario collettivo nell’era della comunicazione digitale. Peraltro per un periodo di tempo molto limitato, sulla scia del successo di precedenti temporary dedicati al cibo nella sua dimensione più pop. Dunque eccessivo ci sembrava gridare allo scandalo, semmai più opportuno riflettere sull’occasione persa di promuovere un’iniziativa analoga, comunque fonte di visibilità per la pizza nel mondo a qualunque latitudine fosse promossa, poiché “la pizza è un fenomeno culturale che trascende la geografia e il linguaggiospiegava allora Kareem Rhama, Ceo di Nameless Network.

 

Il MoPi. Com’è

Qualche mese dopo, il MoPi – per dirla con l’acronimo impresso all’entrata – ha aperto i battenti a Williamsburg, dove resterà aperto fino al 18 novembre, invitando il pubblico a percorrere un viaggio nel mondo della pizza attraverso l’arte, o meglio l’interpretazione – finanche un po’ kitsch – che della pizza forniscono gli artisti coinvolti nella realizzazione delle 12 installazioni che scandiscono l’allestimento, compresa una variante della Venere di Botticelli sorpresa ad addentare una fetta di pizza mentre fa capolino da una scatola per l'asporto. Ma dietro alla goliardia di immagini che ridisegnano un mondo pizza-centrico – dalla grotta realizzata con mozzarella in silicone alla spiaggia della pizza firmata Adam Green, alla collezione di scatole per pizza da Guinness dei Primati messa a disposizione da Scott Wiener, che ne ha raccolte oltre 1500 da 80 Paesi del mondo, compreso il cartone dedicato ai Simpson e quello in edizione limitata che nel 2015 ha celebrato la visita di Papa Francesco a Philadelphia – c’è l’intenzione di celebrare la pizza “come stile di vita”, e per la sua valenza culturale, anche attraverso l’ispirazione che fornisce all’arte contemporanea.

La pizza come le piramidi d’Egitto

Di più, si spinge a dire Rhama, la pizza va celebrata “perché rappresenta le piramidi d’Egitto del cibo”, e per questo ringrazia Napoli per averla inventata. L’operazione è indubbiamente una trovata di marketing, e punta a catturare quante più condivisioni su Instagram possibili nel breve periodo; poi, però, dopo il primo mese di test, potrebbe diventare un museo permanente con la voglia di intrattenere ed educare insieme. Entrare “nell’unico spazio al mondo che celebra la pizza attraverso l’arte” costa circa 39 dollari, e il biglietto acquistabile solo online dà diritto a scattare un numero infinito di foto (anzi, abbondare è nell’interesse di tutti). Oltre a una meritata fetta di pizza all’uscita, anche se, precisano gli organizzatori, “al MoPi non si viene per mangiare, ma per vivere una divertente esperienza culturale”, com’è giusto che sia per un museo che arriva a dichiararsi “epico” (potere della suggestione). La visita dura un’ora e i bambini sotto i 5 anni entrano gratis, ma il museo si rivolge a tutte le fasce d’età.

MoPi – New York – William Vale, Wythe Avenue, 55 - www.themuseumofpizza.org

 

a cura di Livia Montagnoli

Verticale di carbonara. 30 carbonare ripercorrono la storia del piatto

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Una giornata tra amici si è trasformata in una verticale di carbonara. Non una verticale qualunque, ma il tentativo di replicare le diverse ricette che si sono susseguite nella storia della carbonara (che vi abbiamo già raccontato).

 

Sulle origini della carbonara vi abbiamo già detto (quasi) tutto, ma mai ci saremmo aspettati che qualcuno organizzasse una verticale di carbonara prendendo in esame trenta ricette storiche e attuali, selezionandone poi dieci. L'organizzatore - che è anche l'autore dell'articolo dove si parla dell'origine del piatto - è Luca Cesari. Di lavoro fa tutt'altro: è operatore culturale al Comune di Castelfranco Emilia a tempo pieno, e per hobby fa l'istruttore di scherma storica. Ma è talmente appassionato di cucina da aver cominciato, anni fa, un lavoro di ricerca certosina per approfondire la storia della gastronomia italiana focalizzandosi sulle ricette più conosciute, una su tutte la carbonara. E ora ha organizzato una verticale, di cui vi mostriamo le più significative.

La prima carbonara in assoluto dello Chef Renato Gualandi (1944)

La prima carbonara dello Chef Renato Gualandi (1944)

Il 22 settembre del 1944, lo chef Renato Gualandi a Riccione cucina la prima carbonara: “Gli americani avevano del bacon fantastico, della crema di latte buonissima, del formaggio e della polvere di rosso d’uovo. Misi tutto insieme e servii a cena questa pasta ai generali e agli ufficiali. All’ultimo momento decisi di mettere del pepe nero che sprigionò un ottimo sapore. Li cucinai abbastanza “bavosetti” e furono conquistati dalla pasta”.

La prima carbonara inserita in un ricettario italiano (1955)

La prima carbonara inserita in un ricettario italiano (1955)

Il ricettario in questione è La signora in cucina e l'autore è Felix Dessì. La ricetta dei Maccheroni alla carbonara inizia ad avvicinarsi a quella odierna: mentre la pasta cuoce, si sbattono nella zuppiera, come per una frittata, un uovo ogni etto di pasta, una cucchiaiata di parmigiano per ogni uovo e un pizzico di pepe. In disparte, in un padellino si fa sciogliere e prendere colore a della pancetta affumicata, tagliata a piccoli dadi. La proporzione dev’essere di circa mezzo etto ogni uovo. Quando la pasta è cotta e scolata, la si rimescola energicamente nella zuppiera, in modo che si amalgami bene all’uovo, che cuoce leggermente a quel calore, poi si versa la pancetta e il lardo fuso che ne è scolato e si rimescola ancora. Se si preferisce il piccante, un buon pecorino può sostituire il parmigiano.

L'introduzione del guanciale (1960)

L'introduzione del guanciale (1960)

Ne La grande cucina di Luigi Carnacina viene finalmente introdotto il guanciale, ma c'è un ma: c'è anche la panna. La ricetta infatti prevede spaghetti, guanciale (ganascia di maiale) tagliato a pezzi, una cucchiaiata d’olio, burro, uova intere, parmigiano grattugiato e qualche cucchiaiata di panna liquida freschissima e molto cremosa.

La carbonara del organizzatore (2018)

La carbonara di Luca Cesari (2018)

L'ha chiamata Carbonatriciana e riunisce, ovviamente, le due ricette simbolo della tradizione romana riunite in un unico piatto che guarda al futuro.

 

Per la verticale completa: www.tortellinieaffini.it/2018/09/11/la-verticale-di-carbonara/

 

 

Gaetano Trovato. Lo chef italiano col più gran numero di allievi di successo

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Nel mensile di ottobre del Gambero Rosso abbiamo indagato le doti di un autentico “maestro” qual è chef Gaetano Trovato. Qui un'anticipazione.

 

Partito dalla Sicilia e approdato nelle colline della Val d'Elsa, Gaetano Trovato ha creato uno dei tempi più solidi della cucina italiana: nella realizzazione dei piatti, ma soprattutto nella capacità di formare i giovani chef che sono diventati i protagonisti della nuovissima cucina italiana. Mentre lo chef sta preparando la nuova spettacolare sede del suo ristorante Arnolfo, abbiamo indagato le sue doti di autentico “maestro”, con una mappa e con i pensieri dei suoi allievi migliori.

Gaetano Trovato

Che lo chef Gaetano Trovato sia uno dei maggiori artefici della grande cucina italiana è inconfutabile da decenni. Come un signore rinascimentale con modi da mecenate, accoglie ogni giorno i suoi ospiti nel suo palazzo nel centro storico di Colle Val d’Elsa, tra i dolci declivi della provincia senese. Una casa in cui regna l’eleganza, data anche da certi dettagli che insieme alle persone rendono un luogo unico e accogliente. Tra i lampadari di cristallo Baccarat, gli immensi quadri con le fotografie di Nicola Bertellotti, i mobili antichi, spiccano fiori freschi ovunque, una delle passioni di Giovanni, fratello dello chef e suo alter ego in sala e che prima di raggiungerlo ad Arnolfo nel 1988 ha vissuto per 22 anni in Olanda. “I fiori sono un mio pallino, ci arrivano freschi e sono uno dei nostri elementi caratterizzanti, ricordano la casa in cui siamo cresciuti da bambini, e danno eleganza. Sono un gesto di amore e gentilezza”.

Arnolfo – Casa

La casa. Sì, perché è così che i fratelli Trovato definiscono il proprio ristorante Arnolfo – nome che vuole omaggiare l’architetto duecentesco Arnolfo Di Cambio originario proprio di Colle Val d’Elsa – ma anche perché tale è stata in passato quando sono arrivati qui con la madre Concetta da Scicli. “È qui che nostra madre nel 1978 ha iniziato a lavorare in una trattoria come cuoca, e fino a due anni fa ci aiutava in cucina a fare la pasta frescaracconta ancora Giovanni Trovato. Una donna forte, che ha abbandonato la propria terra – in tutti i sensi: a Scicli lavorava in un’azienda agricola – reinventandosi una vita e un lavoro e contemporaneamente portando avanti una severa educazione per i figli. Ma è grazie a tanta amorevole severità che Gaetano ha tracciato il proprio percorso partendo dal diploma alberghiero e attraversando le folgoranti cucine di chef del calibro di Roger Vergé – uno dei padri della nouvelle cuisinee ideologo della cuisine du soleil, fondamentale per il successivo pensiero di Trovato – nel provenzale Moulin de Mougins, e Gaston Lenôtre – maître patissier amico e sodale di Vergé – ma anche di Angelo Paracucchi nell’omonima Locanda di Ameglia.

{gallery}Gaetano Trovato - i piatti1{/gallery}

La storia degli inizi

Erano anni rivoluzionari quelli tra i '70 e gli '80, anni in cui la Francia tracciava un percorso alternativo ai dettami rigidi di Escoffier, per cui la nouvelle cuisinefaceva scalpore per i suoi principi di eleganza, leggerezza, cotture rapide e ingredienti stagionali, imponendosi rapidamente come nuovo modello di riferimento grazie a chef come Bocuse, i fratelli Troisgros, Chapel, e lo stesso Vergé. E l’Italia non stava a guardare: Marchesi ne aveva capito il potenziale abbracciandone il pensiero che dal 1977 aveva concretizzato in via Bonvesin de la Riva conquistando la critica e guadagnando riconoscimenti. E a fare da controcanto c’era la Linea Italiana in Cucina, “una straordinaria operazione di restaurazione gastronomica”, come l’hanno definita i critici Trabucco e Bolasco, un’associazione di ristoratori uniti nell’intento di riportare in auge e valorizzare i piatti della cucina regionale, “nel rifiuto di una creatività intesa come estrosità e sperimentalismo pasticcione”. E poi c’erano gli outsider, chi sfuggiva alle classificazioni restando talvolta nella periferia della Storia, come nel caso di Angelo Paracucchi, pioniere e precursore di tanta cucina di oggi che meriterebbe di essere rivalutato, fautore di quella nuova cucina mediterranea che predilige il vegetale, il pesce e soprattutto l’olio extravergine d’oliva al posto degli allora dominanti grassi animali, in nome di una concezione salutare, digeribile ma mai priva di sapore. È questo l’alveo in cui prende forma la personalità di Trovato e che ancora oggi si riverbera nel suo pensiero di cucina che si staglia saldamente tra queste coordinate tridimensionali: semplicità, eleganza e toscanità. Una cucina che da sempre poggia sulla materia prima, indagata e auscultata con rispetto e classe. Eppure tanta continuità di valori non significa staticità. Da quel 1984 in cui Arnolfo ha trovato la sua attuale dimora, sono arrivati riconoscimenti – le due stelle Michelin, la prima nel 1986, e la seconda nel 1997, le tre forchette del Gambero Rosso, il premio Chef Emergente del Gambero Rosso, le tre stelle di Veronelli, la menzione “Eccezionale” sulla Guida Espresso – che hanno sancito ogni volta la ricerca sul duplice asse della cucina e dell’accoglienza.

Un Arnolfo tutto nuovo

E a distanza di 34 anni sono già iniziati i lavori che nel marzo 2020 porteranno all’apertura di una nuova sede. “Tutto l’Arnolfo è in fibrillazione per questa nuova avventura. Questo nuovo progetto è il raggruppamento di idee e concetti estirpati dai miei 35 anni di attività, soprattutto per quanto riguarda la comodità sul posto di lavoro. Il lavoro in cucina è già molto pesante, il mio fine principale è poter creare un buon ambiente per me, la mia famiglia e per tutti i ragazzi che vorranno condividere la passione per il cibo in futuro. Il mio amore per l’architettura, che ha sempre influenzato il mio modo di fare cucina, ha avuto la possibilità di esprimersi al 100%. Insieme al team di architetti che mi sta seguendo, ho disegnato una struttura moderna, che allo stesso tempo rievoca la storia di Colle Val D'Elsa: la torre, infatti, è in onore allo scultore e architetto Arnolfo di Cambio. Proprio come per il passato, abbiamo deciso di avere un occhio per il futuro, creando una struttura ecosostenibile, la struttura è in cristallo e corten, materiale illimitatamente riciclabile. Ilriciclo evita il consumo di altro petrolio e la diminuzione del carico ambientale e delle emissioni di CO2. In un momento come questo, ci è sembrato più che doveroso porre più attenzione alla salvaguardia ambientale. Sono contento inoltre di esser riuscito a ricavare un laboratorio separato, dove poter mostrare e insegnare al meglio ai ragazzi la lavorazione della materia prima. La linea guida di Arnolfo rimarrà sempre la stessa, è quello che siamo, quello che ci piace fare, ma sono convinto che questo sarà uno stimolo ulteriore a dare il meglio di noi. “Finalmente, dopo tanti anni di duro lavoro, sono riuscito a creare “il ristorante dei miei sogni” – racconta impetuoso Gaetano Trovato – quello che sognavo quando ho iniziato questo lavoro, che riesca, insomma, in colpo d’occhio a trasmettere la mia filosofia.

{gallery}Gaetano Trovato - i piatti2{/gallery}

Un cuoco insegnante

Sono tanti i punti di forza di questa realtà, ma c’è un aspetto nella personalità di Gaetano Trovato che lo rende davvero unico. In un anno in cui mai come prima la riflessione di critici e addetti ai lavori si è concentrata sull’importanza dell’ospitalità e della necessità di creare un team affiatato non solo sul piano professionale ma anche personale, e in cui Massimo Bottura ha fatto del fattore umano la propria bandiera spandendone il verbo ai quattro venti, è il momento di evidenziare quanto questo valore da sempre accompagni la pratica ed il lavoro di chef Trovato. “Sono certo che ogni chef del mondo sia concorde sul fatto che i ragazzi che abbiamo il piacere di avere nelle nostre cucine diventano come dei figli per noi. Rivedo in loro la voglia e la determinazione che avevo io alla loro età, all’inizio di questo lungo viaggio che mi ha accompagnato per gran parte della mia vita. Questo è un lavoro molto duro, fatto di grandi sacrifici, ma se una persona riconosce che potrebbe essere la propria via, non deve esitare un momento e lavorare duro per raggiungere la gratificazione personale, che è, a mio avviso, la più pura e intensa soddisfazione possibile. E tutti oggi convengono sul fatto che Trovato sia non solo un grande chef, ma anche un grande maestro, inteso anche nel senso più autenticamente didattico del termine, capace di dare insegnamenti fondanti ma non dall’alto, in una direzione univoca, bensì traendone a sua volta importanti spunti di riflessione e crescita collettiva.

 

a cura di Sara Favilla

foto di Lido Vannucchi

 

QUESTO È NULLA...

Gaetano Trovato-anteprima mensile di ottobre

Nel numero di ottobre del Gambero Rosso, un'edizione rinnovata in questi giorni in edicola, trovate il racconto completo con un'utile timeline che mostra tutte le tappe fondamentali della vita professionale dello chef Trovato. Un servizio di 10 pagine che include anche dei focus sui suoi dieci allievi più conosciuti, da Eugenio Jacques Boer a Matteo Lorenzini, da Simone Cipriani a Filippo Saporito.

 

Il numero lo potete trovare in edicola o in versione digitale, su App Store o Play Store

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Il cioccolato di Modica ottiene la certificazione Igp. Luci e ombre del disciplinare

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Sostenuto dal Consorzio di Tutela cioccolato di Modica (che riunisce solo una parte dei produttori), l'iter per il riconoscimento dell'Igp si è concluso con il via libera dell'Unione Europea. Festeggia il Ministro Centinaio, ma cosa dice il disciplinare? 

 

E alla fine la certificazione è arrivata. Il cioccolato di Modica, frutto di una peculiare lavorazione artigianale della pasta amara di cacao (con zucchero di canna) a freddo che non prevede concaggio, ha ottenuto il riconoscimento Igp, diventando di fatto il primo cioccolato a essere tutelato dall'Unione Europea. Eppure il percorso è stato lungo, e controverso. Chi festeggia in queste ore è il ministro del Mipaaft Gian Marco Centinaio, che sull'account Twitter del ministero aggiorna la conta delle eccellenze gastronomiche italiane protette da certificazione Dop e Igp, a quota 296 con l'ultimo ingresso. La nota ufficiale si sofferma in particolar modo sul valore economico e culturale del riconoscimento per una “produzione che ha sempre rappresentato un'importante occasione di lavoro per la popolazione locale e ancora oggi costituisce una significativa attività economica e una delle più importanti fonti di occupazione del comune siciliano”. Ma l'altra faccia della medaglia di un disciplinare che rischia di banalizzare il lavoro degli artigiani del cioccolato di Modica l'ha analizzata per noi Elisia Menduni sul numero di ottobre del mensile del Gambero Rosso, nell'ambito di una più ampia trattazione sul cioccolato in Italia e nel mondo a firma di Mara Nocilla. Pubblichiamo qui il testo per stimolare una riflessione su luci e ombre della neonata Igp.

 

Cioccolato di Modica. Tutti i problemi dell'IGP che sta nascendo

Un prodotto unico come il cioccolato di Modica sta per avere una certificazione Igp che non protegge gli artigiani (veri), la qualità e la storia di un prodotto unico. I produttori di cioccolato modicano negli ultimi 20 anni si sono decuplicati e il fenomeno cioccolato è diventato un importante volano di turismo e commercio per la zona e la Sicilia tutta. Da piccola realtà artigianale, oggi il cioccolato modicano si trova nella grande distribuzione e in tutto il mondo. L’iter della denominazione è stato lungo. Nel 2017 il Consorzio di Tutela cioccolato di Modica (nato nel 2003 e composto solo da una parte dei produttori) deposita una proposta di riconoscimento del marchio Igp presso il Ministero. Il disciplinare passa all’esame dell’Unione Europea, lo scorso 7 agosto viene approvato e inizia ufficialmente la procedura di registrazione del “Cioccolato di Modica Igp”. Nel disciplinare ci sono lacune importanti e specifiche inutili. Partiamo dalle materie prime facoltative, ovvero le spezie, che nel disciplinare prima vengono elencate una a una con dosaggi specifici (cannella, vaniglia, peperoncino, noce moscata, agrumi, finocchietto, gelsomino, zenzero, frutta secca, sale) poi, poche righe oltre, viene concessa la possibilità di usare qualsiasi altra spezia e aroma naturale. La seconda gravissima criticità sono i controlli che il Consorzio dovrà far effettuare per garantire che il prodotto Igp segua il disciplinare. "A oggi (8 settembre 2018) l’organismo preposto, il CSQA, non ha un piano dei controlli", denuncia Pierpaolo Ruta dell’Antica Dolceria Bonajuto, sottolineando che in questa situazione chiunque continuerà a produrre e distribuire prodotti non controllati e di qualità dubbia. Terzo punto: l’origine del cacao. "Nel disciplinare non si fa alcuna menzione, consentendo nei fatti ai produttori di approvvigionarsi come vogliono, lavorando anche a partire da massa di cacao industriale, scadente, senza alcun controllo della filiera", dichiara Elvira Roccasalva dell’azienda Donna Elvira. "E non ci spingiamo ad affrontare gli aspetti etici che riguardano le numerose aberrazioni di questo mercato". Infine la storia. Per accreditare la storicità del prodotto, nel disciplinare vengono elencati meno di dieci testate, libri e articoli, dimenticando la ricca serie di articoli e volumi che parlano della Dolceria Bonajuto e del suo titolare Franco Ruta, artigiano innovatore e visionario che ha fatto la storia del cioccolato modicano. Escludere il suo nome nel disciplinare è una pericolosa censura che non lascia sperare sul futuro dell’unica Igp di cioccolato in Italia. Per reazione, Andrea Graziano (FUD Bottega sicula) e Pierpaolo Ruta hanno creato un cioccolato dalla denominazione surreale e provocatoria “Cioccolato di un paese vicino Ragusa”...

 

a cura di Elisia Menduni

foto di Francesco Basciani

 

QUESTO È NULLA...

Nel numero di ottobre del Gambero Rosso, un'edizione rinnovata in questi giorni in edicola, trovate l'indagine completa con un focus sui nuovi metodi di coltivazione e di produzione, che vanno di pari passo con l'evoluzione del gusto e la sensibilità dei consumatori. Un servizio di 12 pagine che parla anche di raw chocolate (esiste davvero?), di collaborazioni con produttori di birra, fornai, pizzaioli, chef, gelatieri, bartender. Non solo, trovate anche due mappe con i cioccolatieri di ricerca in Italia e nel mondo e un utilissimo glossarietto.

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Se la chimica diventa sostenibile. Le nuove sfide dell'agricoltura

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Produrre di più (per una popolazione che cresce) e inquinare di meno. Sono le due sfide, spesso contrapposte, che il mondo agricolo si trova ad affrontare. Ai colossi dell'industria agrochimica il compito di trovare una sintesi. Ecco i loro progetti sostenibili.

Industria agromica e sostenibilità ambientale. Una contraddizione in termini? In realtà, al di là delle facili ed errate connessioni, si tratta di due ambiti complementari. Anzi, si può affermare che la seconda è già da anni l'obiettivo dell'industria chimica.

Sempre più multinazionali, infatti, per rispondere alle esigenze dei tempi, stanno lavorando alla commercializzazione di prodotti a basso impatto ambientale, sensibilizzando gli stessi agricoltori al loro impiego. “Ma attenzione a trovare il giusto equilibrio” mettono in guardia le associazioni di categoria, che fanno capo a Federchimica: “Quando si parla di sostenibilità, non ci si riferisce solo all'ambito ambientale, ma è un concetto che va declinato anche in sostenibilità economica e sociale. D'altronde viviamo in un momento storico in cui se in Italia possiamo permetterci di interessarci al colore o al diametro di una mela, in altri Continenti non c'è cibo a sufficienza per tutti. Per cui trovare il giusto equilibrio diventa fondamentale. E che ci piaccia o no, l'apporto della chimica – fertilizzanti e agrofarmaci - è indispensabile per farlo”.

 

Il campo dei fertilizzanti

Proprio per rispettare i principi della sostenibilità, le oltre 50 imprese che fanno parte di Assofertilizzanti (una delle 17 associazioni di Federchimica) hanno deciso volontariamente di sottoporsiad un disciplinare, che considera come elementi fondamentali: sicurezza, salute e rispetto dell'ambiente. Parametri ormai sempre più importanti, non solo per i grandi produttori di fertilizzanti, ma anche per gli agricoltori. “In generale” spiega l'associazione a Tre Bicchieri“la tendenza che si sta affermando sempre di più è quella di ottimizzare l'utilizzo dei prodotti, ricorrendovi solo quando è necessario. Questo si può fare grazie, ad esempio, all'agricoltura di precisione che consente di utilizzare i prodotti in base alle peculiarità del terreno e alle reali esigenze della pianta. I metodi sono diversi: si va dai sempre più utilizzati droni, capaci di individuare dall'alto la carenza di elementi nutritivi,ai sensori sulle barre distributrici,dalla fertirrigazione a goccia, fino ai tanti investimenti che si stanno facendo nel campo degli inibitori, per evitare la dispersione eccessiva di sostanze nell'atmosfera”.

Altra strada sempre più battuta è, poi, quella dei cosiddetti biostimolanti che, nati come concimi di nicchia, oggi hanno guadagnato importanti quote di mercato e sono anche diventati un fiore all'occhiello della produzione italiana. “Tuttavia” spiega Assofertilizzanti “ad oggi, purtroppo, non esiste un quadro normativo europeo né per i biostimolanti, né più in generale per i fertilizzanti. C'è solo il Regolamento CE 2003che, però, disciplina solo i concimi minerali. Tutti gli altri – organici, organo-minerali, e biostimolanti – hanno solo una regolamentazione nazionale e, quindi, per essere commercializzati all'estero, devono rispettare il principio di mutuo riconoscimento, con diverse ed immaginabili lungaggini burocratiche”. Anche in quest'ottica, nel 2011, è nata Ebic, l'European Biostimulants Industry Council che oggi conta 50 membri e promuove la creazione di una legislazione europea armonizzata in materia di biostimolanti.

 

Biolchim e la frontiera dei biostimolanti

In attesa di arrivare a una regolamentazione comunitaria, abbiamo chiesto di cosa si tratti e in che modo possano essere considerati veramente innovativi, a un'azienda leader nella loro produzione, come Biolchim (fondata a Medicina, che oggi conta al suo interno le italiane Cifo e Ilsa spa, la canadese West Coast Marine Bio Processing e l’ungherese Matécsa Kft).

Si tratta di formulati che favoriscono l'assorbimento di nutrienti del suolo e che permettono, così, alle piante di esprimere elevate performance” spiega il responsabile tecnico-agronomico Franco Vitali Si noti bene: i biostimolanti non apportano nutrizione, ma favoriscono l'assorbimento delle sostanze presenti nel suolo o associate. Nello specifico, ottimizzano l'uso dei fertilizzanti, ne riducono le perdite e aiutano le piante a tollerare e superare gli stress ambientali. La cosa interessante dal lato produttore, è che generano ritorno dell'investimento, grazie ai bassi dosaggi e all'aumento della resa e della qualità”.

A questo, si aggiunga che i biostimolanti si inseriscono nella filosofia del riciclo, in quanto derivano dal recupero e dalla trasformazione di materie prime, quali ad esempio il collagene, scarti originati dalla lavorazione della soia, estratti di alghe.“Per quanto ci riguarda” continua Vitali “produrre in modo sostenibile significa creare più valore, usando meno input, diminuire i costi e ridurre al minimo l'impatto ambientale. Insomma, fare di più con meno. Ma anche meno sintesi e più estrazione.Per questo puntiamo sull'economia circolare: l'unica economia dove anche lo scarto viene riciclato e rimesso in circolo”.

Il progetto di “riconversione” sostenibile Biolchim è iniziato nel 2008 e ogni anno si arricchisce di nuovi prodotti, tanto che oggi più del 30% di quelli presenti in catalogo fa parte della linea green, ammessi quindi in agricoltura biologica. “I prezzi? In linea con gli obiettivi” conclude Vitali “L'idea è, infatti, usarli solo quando necessario: dare meno, ma meglio. E questo ha un impatto notevole, non solo sull'ambiente, ma anche sulle tasche dell'agricoltore virtuoso. A giocare un ruolo fondamentale in questa partita è, infatti, la conoscenza. Dell'agricoltore stesso e di tutti i tecnici che lo guidano nelle scelte”. Sono, ad esempio, quattro le tecniche innovative consigliate dal gruppo bolognese: concimazione localizzata e a basso dosaggio (microgranuli); uso di concimi a lenta cessione; agricoltura di precisione; fertirrigazione. E proprio per la diffusione di know how e l'esigenza di continuare a sperimentare, la stessa Biolchim nel 2011 ha lanciato il progetto Win (Worldwide Innovation Network), una rete internazionale, che mette insieme 99 tra università, centri di ricerca, laboratori e distributori, per facilitare il trasferimento tecnologico dalla ricerca all’industria e accelerare i tempi di sviluppo e commercializzazione dei biostimolanti.

 

Il campo degli agrofarmaci

Spostandoci dal lato agrofarmaci, vediamo che le cose cambiano. A partire dalla normativa che è già definita a livello europeo e stratificata nel tempo, come ci spiega l'associazione di riferimento, Agrofarma (40 imprese associate), che fa parte anch'essa di Federchimica: “Si consideri che il quadro normativo degli agrofarmaci è uno dei più complessi del sistema industriale, molto simile a quello farmaceutico, e con un' alta vocazione scientifica, se si considera che il comparto spende in media il 6% del proprio fatturato in ricerca e sviluppo. Per la commercializzazione del prodotto, esiste, infatti, un doppio livello di registrazione: europeo e nazionale. Le aziende devono, quindi, presentare un dossier - per buona parte relativo all'impatto ambientale - che richiede circa 10 anni di studi, prima di poter registrare il prodotto e, quindi, immetterlo sul mercato. Studi e ricerche che presuppongono investimenti a sei zeri. È opportuno precisare, inoltre, che la registrazione è a tempo, nel senso che ha una scadenza, quindi ogni volta che l'impresa presenta la domanda di rinnovo del prodotto - un po' come la revisione della macchina - bisogna verificare che rispetti i parametri della legge vigente al momento della richiesta”.

Ma non è finita. Oltre ai due livelli sopracitati, esiste, poi, quello che si può definire il terzo livello di registrazione. Quello privato, che riguarda i canali di vendita, Gdo o anche grandi marchi dove confluiscono le materie prime, e che utilizzano dei disciplinari privati, cui il produttore deve attenersi. Un punto nevralgico per l'arrivo dei prodotti sul mercato, ma anche un sistema che, per la sua gestione, suscita vari malcontenti nella filiera. “La cosa che deve essere chiara è che dietro questi disciplinari non sempre c'è una necessità giustificabile dal punto di vista scientifico” spiega l'associazione di categoria“per questo sarebbe auspicabile che, prima di stilarli, anche il mondo della chimica venisse interpellato per capirne l'attendibilità, ma soprattutto per essere certi che determinati criteri possano essere realmente soddisfatti. Il rischio, se si alza troppo l'asticella, è di non trovare più merce da mettere in scaffale. Anche perché ad oggi, è impensabile fare agricoltura senza l'apporto di mezzi chimici. Se vogliano agitare il vessillo della tutela ambientale, racconteremmo solo una parte della verità. Chi lavora nel campo della chimica, non deve essere sempre additato come venditore di veleno, ma essere considerato come un esperto di settore che, partendo dalla conoscenza scientifica, ha ben a cuore la salute dell'ambiente, di chi vi lavora a stretto contatto e del consumatore finale”.

Lo dimostra il fatto che praticamente tutti i grandi gruppi agrochimici hanno ormai inserito linee bio o hanno in essere progetti finalizzati alla sostenibilità ambientale.

 

I progetti Syngenta per suolo e vite

È il caso di uno dei principali attori dell'agro-industria mondiale, il colosso Syngenta (12,65 miliardi di dollari per fatturato; 200 milioni per Syngenta Italia), che da anni investe nello sviluppo di un'agricoltura sostenibile, attraverso diversi progetti e con un imperativo categorico: “produrre di più con meno risorse”. In modo specifico, la società con base a Basilea, è anche molto impegnata in campo vitivinicolo. Rientra in quest'ambito Grape Quality Agreement, ovvero un protocollo di coltivazione integrato, che aiuta a produrre uve in linea con le caratteristiche qualitative richieste, ma con allo stesso tempo gli standard di sostenibilità sociale e ambientale, senza rinunciare al ritorno di business. Come? “Attraverso la tecnologia” spiega a Tre Bicchieri Riccardo Vanelli, commercial unit head Syngenta Italia “Da quella in vigneto, che prevede un programma personalizzato di gestione del terreno, alla formazione dei viticoltori, fino all'accesso ai mercati internazionali. Il sistema, infatti, attraverso il software Emat, permette alle aziende di conoscere, già all'inizio dell'anno, la lista dei Paesi dove esportare, incrociando i profili residuali degli agrofarmaci adottati in vigneto, con le legislazioni dei diversi Paesi del mondo sui Limiti Massimi di Residui (LMR) e anche con le regole – a volte parecchio restrittive – delle maggiori catene di distribuzione, garantendo così l'esportabilità a monte”. Un sistema che risolve, quindi, un problema di fondo: la complessità legislativa mondiale in fatto di sostenibilità ambientale. Oggi sono circa 16 mila gli ettari che hanno adottato il progetto per circa 140 aziende di tutta Italia e 8 cantine cooperative. Ci sono nomi del calibro di Santa Margherita, Settesoli, Zaccagnini.

Per quanto riguarda, il lavoro sul campo, Syngenta ha anche una soluzione chiamata, Operation Pollinator: “Un modo” spiega Vanelli “per aiutare l'agricoltore a creare dei bordi campo, dove si favorisce la creazione di nuovi habitat adatti agli impollinatori, con l'obiettivo di garantire la biodiversità in vigneto (ma può essere applicato anche ad altri settori) e tracciare dei corridoi ecologici, intatte dall'inquinamento ambientale”. Ma non è finita qua. Non tutti sanno, infatti, che la storia del marchio Vino Libero (lanciato nel 2012 dal gruppo Fontanafredda e dal suo proprietario Oscar Farinetti) è iniziata proprio in ottica sostenibile dalla collaborazione con Syngenta, per poi evolvere nel capo biologico.

Ma guardiamo al futuro: quale sarà quello degli agrofarmaci e soprattutto che agricoltura ci attende? “Di certo non possiamo pensare idealmente di passare a un'agricoltura totalmente biologica” conclude Vanelli “non possiamo neanche permettercelo perché il Pianeta cresce e con esso la richiesta di cibo. Il biologico tout court può andar bene per le nicchie, ma su grande scala la soluzione è il compendio tra una chimica avanzata e allo stesso tempo rispettosa dell'ambiente. Lotta integrata, insomma. Che non può fare a meno degli agrofarmaci - oggi circa il 40% della produzione agricola mondiale andrebbe persa senza gli agrofarmaci - ma che è alla costante ricerca di quelli con profili più puliti e passa dallo studio su principi attivi fino alla gestione delle resistenze. Un po' come avviene per i farmaci”. In fondo, oggi chi curerebbe una grave malattia con il bicarbonato?

 

Come cambia la vendita dei prodotti fitosanitari

Che la svolta green sia già in atto lo confermano anche i negozi di prodotti per l'agricoltura. “Negli ultimi 2-3 anni la vendita di prodotti bio è cresciuta di oltre il 30%” spiega Vito Pino del punto vendita FitotecnicaLo possiamo constatare dall'allargamento degli spazi a esso dedicati. Per quanto ci riguarda, da un piccolo scaffale adesso ci siamo allargati a un intero settore. In generale si tratta di prodotti più mirati e selettivi che vanno ad agire su una singola malattia o su un insetto specifico. La tendenza generale (bio o meno) è quella di avere prodotti con tempi di carenza brevi (arco temporale che deve passare dal momento del trattamento a quello di raccolta; ndr):da 3 a 5 giorni, mentre prima si andava da 60 a 120 giorni. Inoltre, dopo il boom degli anni ’80, oggi si tende a diminuire i principi attivi (ovvero il numero di molecole) presenti nel singolo prodotto”.

Tra le ultimissime tendenze in corso, Pino ricorda anche anche l'uso di nuove tecniche come il “lancio di insetti utili”: “Si tratta di insetti antagonisti, allevati dalle biofabbriche, che possano contrastare quelli che attaccano le piante. Nell'ultimo anno la richiesta è aumentata moltissimo, sebbene sia ancora un “prodotto” più complicato da trattare”. Ma come tutte le novità, il passaggio ad un'agricoltura sostenibile non è facile e ha bisogno di tempo: “Molti agricoltori” conclude “sono restii a cambiare prodotti, preoccupati soprattutto dai prezzi (15-20% in più di quelli tradizionali) e dai possibili rischi. Tuttavia sono anche consapevoli di come le cose siano cambiate e di quanto la sostenibilità sia ormai un’esigenza di mercato inarrestabile”.

 

 

a cura di Loredana Sottile

 

Questo articolo è uscito sul nostro settimanale Tre Bicchieri del 13 settembre

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Tre Bicchieri. Parla Pietro Zardini della cantina omonima

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In occasione del premio Tre Bicchieri per il Leone Zardini Riserva '11, abbiamo incontrato Pietro Zardini della cantina omonima. Che ci ha raccontato la sua storia.

 

Una delle ipotesi più accreditate vuole che il nome Valpolicella derivi dal latino Vallis polis cellae, che tradotto letteralmente significa valli dalle molte cantine. A testimoniare l'intimo legame tra questa terra e il vino. Legame che Pietro Zardini, della cantina omonima, celebra intrecciandolo con la storia della sua famiglia, da 5 generazioni impegnata con la coltivazione della terra. Piccoli agricoltori, prima mezzadri e poi – con Pietro – proprietari di una manciata di ettari dedicati alle uve tipiche del territorio. E profondamente legata al territorio e alla tradizione è l'impostazione perseguita negli anni da Pietro. Frutto di esperienze oltralpe e anni di collaborazioni con altre realtà del territorio che gli hanno consegnato idee chiare e voglia di sperimentare, senza mai forzare la mano, senza mai uscire dal solco della storia familiare. Un lavoro artigianale, lento, che richiede tempo per mettere a punto ogni passaggio. Un modo di fare di cui scorciatoie e fretta sono acerrime nemiche. E che è valso il premio Tre Bicchieri per il Leone Zardini Riserva '11 che esplora l'animo più riservato e complesso dell'Amarone, col frutto che si nasconde dietro note minerali e tocchi di erbe officinali prima del sorso tanto potente quanto teso, sapido ed elegante. Ecco la sua storia.

 

Quale è l'origine dell'azienda?

La mia è una famiglia di piccoli contadini. A partire dal capostipite Leonardo, che già nel 1860 era a San Floriano di San Pietro in Cariano. Dopo di lui ci sono stati Leonardo, Giacinto, Pietro, infine mio padre Leone e me, Pietro. Fino a mio nonno, però, erano mezzadri. Coltivavano vite, ma anche grano, ulivi, alberi da frutto, come accadeva nelle aziende agricole della zona. Il vino si vendeva, ma era non più del 60% della produzione. Dopo la guerra l'attività si è concentrata sulla vite. Mio padre da contadino è diventato vignaiolo, prendendo dei vigneti. Lui ha continuato negli anni '70 e '80. Negli anni '90 sono arrivato anche io, dopo gli studi e le esperienze in altre cantine.

 

Cosa è cambiato con il tuo arrivo?

Anche se la mia famiglia fa Amarone da cinque generazioni, il vero cambiamento c'è stato con mio padre prima e con me, dopo. Mi sono impegnato per migliorare la qualità, prendendo nuovi vigneti in collina, e costruendo una nuova cantina. Eliminando alcune cose e inserendone delle altre, come nuove tecniche, fermentazioni naturali, appassimenti senza macchine. Tutte cose che rimandano all'idea artigianale del vino.

 

Spiegaci meglio

Cerco la qualità e per farlo sono tornato alle origini, a fare vino come lo facevano i miei avi, in modo artigianale, senza coadiuvanti e senza cose aggiunte, con follature manuali nei tini in legno. Perché la cosa più importante è la terra, e i miei vini sono collegati direttamente a essa.

 

Dunque, sintetizzando, come sono i tuoi vini?

Sono vini molto tradizionali: per me l'Amarone è quello nato 300 anni fa. Quindi evito al massimo qualsiasi interferenza con macchinari, con lieviti aggiunti e legni piccoli. È una produzione molto limitata.

 

Oltre alle botti, in cantina ci sono anche delle anfore, per ora utilizzate per il recioto. Quali caratteristiche conferisce questo contenitore?

Sono tanti anni che lavoro con le anfore, le uso durante l'affinamento e non nella vinificazione. Sono anfore naturali non cerate né smaltate, è terra cotta. E donano al recioto una sensazione molto bella, minerale, che riconduce alla natura. Sembra che il vino sappia di scaglia di pietra, è molto particolare.

 

Hai intenzione di utilizzarle anche per altre tipologie di vino?

Sì, sperimento di continuo. Questo è il primo di cui sono soddisfatto. Considera che ho circa 7mila litri di vino in anfora, e finora ne ho imbottigliati solo 500. Sto provando anche con l'Amarone, a fare un affinamento in anfora prima e in legno poi. Sperimento anche conlavorazioni a cappello sommerso, e su un Amarone senza solforosa. Ma ci vuole tanto tempo. Un Amarone si vende dopo 5-6-7 anni di affinamento. Questo è il mio lavoro, un lavoro lento e costante, in cui bisogna essere sempre sul pezzo per saperne di più.

 

Raccontaci come nasce il Leone Zardini, il vino che ha portato i primi Tre Bicchieri in azienda.

È un 2011, un vino messo in commercio dopo 7 anni di invecchiamento e in cui è stata bandita qualsiasi cosa moderna. Nasce dalla voglia di fare un vino molto legato alla tradizione e, al territorio. L'ho dedicato al mio babbo che aveva un carattere forte, era un personaggio. Era il prototipo del contadino che lavora la terra e segue la tradizione familiare. Aveva imparato da mio nonno, metteva in pratica quel che gli avevano tramandato. Ma era anche intraprendente: è stato tra i primi a comprare un trattore, in Valpolicella, ha continuato a fare vino in modo tradizionale anche quando è arrivato il boom. E così è il vino che gli ho dedicato: pressature e follaure a mano, legni grandi. Insomma: un vino artigianale.

 

È il tuo primo Tre Bicchieri...

Sì, e per me significa un nuovo punto di partenza su cui lavorare ancora. Significa che il lavoro fatto in questi 30 anni è quello giusto e ora abbiamo un nuovo spunto per andare avanti e migliorare ancora di più. Sono fatto così: devo continuare a fare cose nuove ma sempre in modo tradizionale, sempre legato alla terra e alla storia della mia famiglia.

 

Nel 2018 l'Amarone ha festeggiato i 50 anni della creazione della denominazione. Cosa ti auguri per il futuro?

La Valpolicella ha corso un po' troppo dietro al denaro, è bene che per i prossimi 50 anni si pensi più al vino. Che ha potenzialità enormi, perché si distingue da quello che si trova nel resto del mondo.

 

È tra i vini italiani che ha più successo all'estero, e sono cresciuti molto anche i consumi interni. Perché l'Amarone piace così tanto?

È un vino molto diverso dagli altri. Un vino inventato dall'uomo, a partire da uve poco nobili valorizzate dall'appassimento. Qui abbiamo corvina rondinella molinara, non cabernet o merlot. Ma con queste uve sono riusciti a creare un vino importante.

 

Quali sono le sue caratteristiche?

È un vino che non riempie tutta la bocca, perché prodotto da uve non molto ricche. Ma è lunghissimo. Esattamente al contrario di un vino come il Merlot, che si spande in bocca ma non è così persistente. E invece una delle grandi qualità dell'Amarone è proprio la lunghezza. Ricco com'è di zuccheri infermentescibili, glicerina e altre sostanze, non finisce mai. Se fatto bene, appena deglutisci arriva il retrogusto che richiama il sorso e rimane in bocca per dieci minuti. E poi c'è un'altra caratteristica: l'eleganza. Se rispetti la tradizione, l'Amarone deve puntare all'eleganza.

 

Come è cambiata la Valpolicella negli anni?

Quando ho iniziato, 30 anni fa, nel mio paese c'erano solo tre cantine, ora sono 20. E la vite è stata piantata anche dove non si era mai vista e dove probabilmente non deve stare, perché se non c'era significa che le uve lì non vengono così bene. In questa corsa sono arrivate anche persone che si sono avvicinate al vino solo per business, che non hanno storia né bagaglio culturale. Che non sono interessate a sapere di più. Invece credo che con il vino non si finisca mai di imparare.

 

E cosa hai capito in questi anni?

Ho capito che facendo milioni di bottiglie la qualità di abbassa, che usando le scorciatoie la qualità si abbassa, che se hai fretta non fai il vino buono.

 

Pietro Zardini - San Pietro in Cariano (VR)- via Cadeniso IT37029 - +39 045 6800989- http://pietrozardini.it/

 

a cura di Antonella De Santis e William Pregentelli

 

Truffleland. La tartuficoltura secondo Urbani e come si coltivano i tartufi

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Il tartufo è un fungo simbionte, che cresce spontaneo nella terra, ma in simbiosi con le radici di alcune specie vegetali. E la ricerca ci ha messo secoli a perfezionare un processo, detto micorizzazione, per fornire alla tartuficoltura piante in grado di stimolare la produzione. L'azienda umbra fa un passo in più, e con la sua Truffleland si proietta verso la tartuficoltura del futuro. 

 

Urbani Tartufi. I leader del mercato mondiale

Di storia alle spalle, Urbani Tartufi ne ha una lunghissima e fortunata: un secolo e mezzo che gli garantisce il primato italiano della lavorazione del tartufo. Eppure l'azienda umbra - forte di un quartier generale internazionale a New York e di una rete di Truffle bar & restaurant diffusa da Pechino a Dubai, a San Paolo del Brasile, molti in partnership con Eataly - sembra essere ben proiettata verso il futuro, grazie alla generazione più giovane della famiglia, brava a non adagiarsi sul prestigio della dinastia che oggi detiene da sola quasi il 70% del mercato globale dei tartufi, compresi oltre 600 prodotti derivati, per un fatturato di 60 milioni di euro all'anno (e si celebra nel Museo di Scheggino, Perugia, dove è cominciato tutto). Olga dirige con i suoi cugini l'attività avviata nel 1852 dal trisavolo Costantino, ma presto la quinta generazione Urbani lascerà spazio alla sesta, quella di Luca e Francesco, figli di Olga e promotori del progetto Truffleland, di fatto un grande “vivaio” a disposizione di chi vuole intraprendere la coltivazione di tartufo nero.

La simbiosi e le piante micorizzate

Uno spazio cioè, sempre ricavato nella Valnerina di Scheggino, messo a coltura un anno fa, dove crescono le cosiddette piante nutrimento del tartufo – querce, noccioli, carpini, lecci, pioppi, salici, tigli – che ricordiamo è un frutto spontaneo della terra e vive in simbiosi con le radici di alcuni alberi prediletti (in gergo è quello che si definisce un fungo simbionte). Dunque nella “terra del tartufo” non vi aspettate di trovare tartufi. Piuttosto, a un anno dalla messa a dimora, le prime piantine micorizzate disponibili per l'acquisto di terzi che vogliano intraprendere la tartuficoltura. L'innovazione perfezionata da Urbani, che ha pure brevettato l'invenzione, consiste proprio nel processo di micorizzazione delle radici cui sono sottoposte le piante della Truffleland: un trattamento che assicura la più alta concentrazione di spore fruttifere rispetto alla media europea di mercato, aumentando così le possibilità di raccolto. Per definizione, una pianta micorizzata si ottiene da un seme certificato di specie forestali ectomicorizziche unite in simbiosi con le principali specie di tartufo di pregio, richieste dal mercato e coltivabili.

 

Tartuficoltura. La sua storia e come si pratica

Chiariamo allora che la coltivazione di tartufi, di fronte a una domanda mondiale in crescita costante, è una pratica particolarmente redditizia, specie considerando la diminuzione della raccolta spontanea in atto da qualche anno nel nostro Paese (mentre altri Paesi “emergenti” beneficiano del vuoto). Ma non si improvvisa: ci vuole pazienza – perché una tartufaia dia i primi frutti passano dai 5 ai 7 anni, mentre l'apice produttivo si raggiunge intorno all'undicesimo – e una grande capacità di gestione del terreno, che deve garantire le giuste condizioni ambientali (previa analisi pedologica) per la crescita del tartufo. Storicamente la coltivazione di tartufi ha origini antiche: testi cinquecenteschi e trattati che seguiranno nei secoli a venire, già cercano di orientare la pratica, pur senza intuire la fondamentale relazione simbiotica tra pianta e tartufo. Solo nel corso dell'Ottocento si avvierà il metodo di coltura indiretta tramite alberi “vocati”, ma comunque a livello empirico (la scoperta si fa risalire al primo decennio del XIX secolo, su un terreno della Provenza). Perché si comincino a utilizzare piante micorizzate in laboratorio e allevate in serra, però, bisognerà aspettare gli anni Sessanta del Novecento. Per circa vent'anni la tecnica sarà limitata al tartufo nero pregiato, mentre le ultime conquiste della ricerca – nel periodo che dagli anni Ottanta arriva fino ai giorni nostri – mirano a rendere possibile anche la coltivazione di tartufo bianco pregiato. In Italia il comparto della ditte specializzate nella coltivazione e commercio di piante micorizzate è cresciuto di pari passo con il successo della tartuficoltura (che la stessa famiglia Urbani ha cercato di intraprendere, fin dagli anni Sessanta, con scarsi risultati, prima di avviare un proprio laboratorio di ricerca).

Truffleland. La tartuficoltura secondo Urbani

E Urbani si prefigge di dominarlo offrendo, sostiene la casa, “un business chiavi in mano” (in Italia e all'estero) che incentivi una filiera agricola sostenibile e di qualità. L'idea, sul lungo periodo, è quella di contribuire al riscatto di terreni incolti perché poco redditizi e compensare il disboscamento di zone vocate, aiutando l'aspirante tartuficoltore in tutto il percorso che lo conduce dall'avvio d'impresa al primo guadagno (stimato da Urbani, nel giro di 5-8 anni dalla piantumazione in 30mila euro netti per ettaro per una durata di 20-25 anni, ma ricordiamolo, la cifra è soggetta a molte variabili). Come? I tecnici di Truffleland guidano all'acquisto delle piante più adatte per il terreno in questione, ne verificano l'idoneità, realizzano l'impianto e prestano assistenza durante la crescita, fino alla prima raccolta (su richiesta Urbani mette a disposizione anche cani da cava già addestrati, come il Grifo Nero Valnerino). Poi interviene la divisione commerciale di Urbani, disponibile ad acquistare il prodotto al prezzo corrente di mercato, proponendosi quindi come garante della filiera (e mantenendo al contempo la sua leadership). Ma il vivaio di Truffleland ha anche velleità sperimentali: grazie ai microchip che monitorano le piantagioni, nei prossimi anni l'azienda raccoglierà dati sempre più precisi sulle piante più idonee alla tartuficoltura. Al momento le piante in vendita permettono la coltivazione di tre diverse tipologie: tartufo nero, tartufo estivo e bianchetto. E poi c'è l'Accademia, la Truffleland Masterschool, inserita nell'elenco delle fattorie didattiche accreditate dalla regione Umbria: in aula, laboratori di micorizzazione, germinatoi e serre per formare e informare studenti e operatori del settore, con il supporto di agronomi e docenti specializzati.

 

www.truffleland.com

 

a cura di Livia Montagnoli

 


Anteprima Tre Bicchieri 2019. Piemonte

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Le anticipazioni dei premiati dalla Guida Vini d'Italia 2019 del Gambero Rosso ci portano in Piemonte.

 

Dopo i 51 vini a base nebbiolo premiati in Vini d’Italia 2018, che rappresentavano poco oltre il 66% del totale regionale, l’edizione 2019 fa segnare ancora un piccolo calo. Quest’anno i vini Tre Bicchieri a base nebbiolo sono 43 – un buon numero considerando la non facile vendemmia 2014 per il Barolo – ovvero circa il 58% dell’eccellenza piemontese. Questo, ovviamente, non sta a significare una lenta perdita d’importanza del vitigno principe; si tratta, invece, di una testimonianza di grande vitalità di tutto il comparto. Sulla scia della Langa, ormai lanciata in un’orbita internazionale, sia dal punto di vista vitivinicolo sia da quello turistico, tutto il Piemonte si sta muovendo.

Numerosi sono gli spunti di riflessione. Ad esempio è interessante vedere come la regione stia ribadendo a gran voce la sua primogenitura in fatto di spumanti Metodo Classico. Troppo a lungo il nome Alta Langa è stato poco comunicato, oggi finalmente inizia un’opera di proselitismo, che tende a riunire sotto un unico marchio il meglio delle bollicine classiche del Piemonte meridionale. Per la pima volta in assoluto, ben quattro cuvée si aggiudicano i Tre Bicchieri; solo uno dispiega Alta Langa in etichetta, ma gli altri lo diventeranno presto. Da notare ancora la bella performance d’insieme del Nord Piemonte con un bianco canavesano (Erbaluce di Caluso) e sei rossi a base nebbiolo (due Gattinara, due Ghemme, un Fara e un Coste della Sesia Nebbiolo). Tra i rossi premiati si consolida la presenza di vini immediatamente godibili, come il Nebbiolo ’15 di Antoniotti che ruba lo scettro al ben più quotato Bramaterra ’14 dello stesso produttore. Altra considerazione importante è la splendida riuscita d’insieme del vitigno più piantato in regione: la barbera, che merita ben 12 Tre Bicchieri, dall’Albese al Casalese, passando per la sottozona di Nizza Monferrato, anche in virtù di un trittico di vendemmie d’ottima qualità per il vitigno, con le calde e siccitose 2015 e 2017. Anche in questo caso si fanno notare le due Barbera d’annata: l’Avvocata ’17 di Coppo e la Lavignone ’17 di Pico Maccario, che mettono in fila le più blasonate concorrenti delle rispettive scuderie. Infine un plauso va agli otto neofiti che raggiungono per la prima volta il fatidico traguardo: Negretti, Facchino, Roberto Ferraris, Isolabella della Croce, Colombo Cascina Pastori, Boniperti, Ioppa e La Raia. Senza scordare il Moscato Passito La Bella Estate di Vite Colte.

 

Alta Langa Zero Ris. ’12 - Enrico Serafino

Barbaresco Albesani ’14 - Cantina del Pino

Barbaresco Albesani Santo Stefano Ris. ’13 - Castello di Neive

Barbaresco Asili ’15 - Ca’ del Baio

Barbaresco Asili ’15 - Ceretto

Barbaresco Asili Ris. ’13 - Produttori del Barbaresco

Barbaresco Asili V. Viti ’13 - Roagna

Barbaresco Camp Gros Martinenga Ris. ’13 - Tenute Cisa Asinari dei Marchesi di Grésy

Barbaresco Cottà ’15 - Sottimano

Barbaresco Currà Ris. ’12 - Bruno Rocca

Barbaresco Montaribaldi ’14 - Fiorenzo Nada

Barbaresco Montefico ’15 - Carlo Giacosa

Barbaresco Pajoré ’15 - Bel Colle

Barbaresco Rabajà ’15 - Giuseppe Cortese

Barbaresco Sorì Tildin ’15 - Gaja

Barbera d’Alba Vittoria ’15 - Gianfranco Alessandria

Barbera d’Asti L’Avvocata ’17 - Coppo

Barbera d’Asti Lavignone ’17 - Pico Maccario

Barbera d’Asti Nuda ’15 - Montalbera

Barbera d’Asti Sup. V. La Mandorla ’16 - Luigi Spertino

Barbera del M.to ’16 - F.lli Facchino

Barbera del M.to Sup. Bricco Battista ’15 - Giulio Accornero e Figli

Barbera del M.to Sup. Le Cave ’16 - Castello di Uviglie

Barolo Bricco Ambrogio ’14 - Negretti

Barolo Bussia 90 Dì Ris. ’12 - Giacomo Fenocchio

Barolo Bussia V. Mondoca Ris. ’12 - Poderi e Cantine Oddero

Barolo Cannubi ’14 - Marchesi di Barolo

Barolo Cerretta ’14 - Giacomo Conterno

Barolo del Comune di La Morra ’14 - Brandini

Barolo Falletto V. Le Rocche Ris. ’12 - Bruno Giacosa

Barolo Ginestra Ris. ’11 - Cascina Chicco

Barolo Ginestra Ris. ’10 - Paolo Conterno

Barolo Lazzarito Ris. ’12 - Ettore Germano

Barolo Monprivato ’13 - Giuseppe Mascarello e Figlio

Barolo Monvigliero ’14 - F.lli Alessandria

Barolo Novantesimo Ris. ’11 - Paolo Scavino

Barolo Rapet ’14 - Ca’ Rome’

Barolo Ravera Bricco Pernice ’13 - Elvio Cogno

Barolo Ris. ’11 - Giacomo Borgogno & Figli

Barolo Rocche dell’Annunziata ’14 - Renato Corino

Barolo Rocche di Castiglione ’14 - Vietti

Barolo Sottocastello di Novello ’13 - Ca’ Viola

Barolo Vigna Rionda Ester Canale Rosso ’14 - Giovanni Rosso

Colli Tortonesi Timorasso Il Montino ’16 - La Colombera

Coste della Sesia Nebbiolo ’15 - Odilio Antoniotti

Derthona Sterpi ’16 - Vigneti Massa

Dogliani Papà Celso ’17 - Abbona

Dolcetto di Ovada ’16 - Tacchino

Erbaluce di Caluso 13 Mesi ’16 - Benito Favaro

Fara Bartön ’15 - Gilberto Boniperti

Gattinara Osso San Grato ’14 - Antoniolo

Gattinara Ris. ’13 - Giancarlo Travaglini

Gavi del Comune di Gavi Minaia ’17 - Nicola Bergaglio

Gavi V. della Madonnina Ris. ’16 - La Raia

Ghemme ’13 - Torraccia del Piantavigna

Ghemme Balsina ’13 - Ioppa

Giuseppe Galliano Brut Nature M. Cl. ’13 - Borgo Maragliano

Grignolino del M.to Casalese ’17 - Tenuta Tenaglia

Langhe Rosso Giàrborina ’16 - Elio Altare

Marcalberto Extra Brut Millesimo2Mila13 M. Cl. ’13 - Marcalberto

Millesimato Pas Dosé M. Cl. ’13 - Contratto

Moscato d’Asti Canelli Ciombo ’17 - Tenuta Il Falchetto

Moscato d’Asti Casa di Bianca ’17 - Gianni Doglia

Nizza ’15 - Tenuta Olim Bauda

Nizza Augusta ’14 - Isolabella della Croce

Nizza La Court Ris. ’15 - Michele Chiarlo

Nizza Liberta ’15 - Roberto Ferraris

Ovada Convivio ’16 - Gaggino

Piemonte Moscato Passito La Bella Estate ’16 - Vite Colte

Piemonte Pinot Nero Apertura ’15 - Colombo-Cascina Pastori

Roero Arneis Cecu d’la Biunda ’17 - Monchiero Carbone

Roero Arneis Sarun ’17 - Stefanino Costa

Roero Ròche d’Ampsèj Ris. ’14 - Matteo Correggia

Roero Valmaggiore V. Audinaggio ’16 - Cascina Ca’ Rossa

Mangiare a Firenze. Guida alle migliori 9 pizzerie

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Mangiare una buona pizza a Firenze non è mai stato così semplice. Ecco le migliori della città (e dintorni) selezionate dalla guida Pizzerie d'Italia del Gambero Rosso. 

 

Chi l'avrebbe mai detto che Firenze fosse destinata a diventare una delle località simbolo della pizza in Italia? Fra nuove insegne di livello, grandi maestri pizzaioli che vanno, ritornano, raddoppiano o cambiano, il capoluogo toscano è ormai un punto di riferimento per tutti gli amanti dell'arte bianca, che qui potranno trovare un'offerta variegata, ampia, in grado di rispondere a ogni esigenza.

La scelta degli indirizzi migliori si fa ardua, e quindi occorre selezionare attentamente, ricorrendo a parametri ferrei. Per la nostra rubrica, abbiamo deciso di menzionare solo le pizzerie che abbiano raggiunto un punteggio minimo di 85 punti nella guida Pizzerie d'Italia 2019.

 

Fratelli Cuore

Fratelli Cuore

L'ottima mentalità imprenditoriale dei fratelli Caprarella, unita alla tecnica ineccepibile del maestro pizzaiolo beneventano Agostino Figliola, continua a rivelarsi una carta vincente, che anno dopo anno conferma l'eccellenza dell'offerta di Fratelli Cuore. Una pizzeria d'autore, ma prima ancora un progetto di riqualificazione urbana che ha recuperato un'ex biglietteria internazionale alla stazione di Santa Maria Novella, restituendo agli spazi una nuova vita. L'insegna, infatti, è il luogo ideale per i viaggiatori in transito, ma anche per tutto il pubblico fiorentino, che sempre più spesso sceglie di recarsi alla stazione per gustare un'ottima pizza. A rendere il menu speciale, un impasto soffice e digeribile cotto a legna, a doppia lievitazione e perfettamente alveolato. E poi i condimenti gustosi, dal pomodoro dell'Agro Sarnese Nocerino con il fiordilatte casertano o la ricotta di bufala cilentana, alla scarola stufata con burrata, pomodori confit e olive taggiasche in polvere. Completano l'offerta una carta di vini, birre e cocktail contenuta ma ben studiata.

Fratelli Cuore – Firenze – p.zza Stazione c/o Stazione di Santa Maria Novella – www.fratellicuore.it

 

La Divina Pizza

La Divina Pizza

Prima il rinnovo del locale, poi il menu. Graziano Monogrammi e sua moglie Roberta (conosciuta dai clienti più affezionati come “la Divina”) continuano a sorprendere gli amanti del gusto. Quella di Graziano è una pizza gourmet, a degustazione, oggi declinata nel nuovo percorso La Divina Evoluzione, che segna un ulteriore passo in avanti di questo maestro pizzaiolo d'eccezione, da sempre ispirato alla filosofia del collega e amico Simone Padoan. Via libera, quindi, a sperimentazioni sulle lievitazioni con pasta madre e la ricerca dei prodotti migliori, dalle farine agli ingredienti che compongono i topping saporiti ed equilibrati. Tra le proposte ala pala, esposte al bancone, da provare la Regina, la Napoli 2.0 e - quand'è stagione - la Primavera con burrata pugliese, crema di asparagi, crudo toscano e petali di Parmigiano 30 mesi. Tra le tonde, invece, restano ben salde le tradizionali, a cui si aggiungono le varianti settimanali frutto della fantasia dell'artigiano.

La Divina Pizza – Firenze – via Borgo Allegri, 50r – www.ladivinapizzafirenze.it

 

Fuoco Matto

Fuoco Matto

Da Catanzaro a Firenze, per una pizza in pieno stile napoletano: il giovane Domenico Luzzi continua a mietere successi con la sua pizza a lenta lievitazione, dal cornicione alto e rigonfio, elastica e scioglievole. Qui, si viene per provare i grandi classici dell'arte bianca, Marinara e Margherita in primis, ma anche le pizze con impasto semintegrale, come la Nero di Calabria con bufala cilentana, basilico, pomodoro Piccadilly, olio extravergine di oliva e prosciutto Nero di Calabria a crudo. Da non perdere, poi, la Tonno e Cipolla 2.0, con pomodoro del Piennolo, cipolla di Tropea marinata, tonno del Mar Cantabrico, fiordilatte a crudo e finocchietto selvatico. Inoltre, ogni pizza è disponibile anche con l'impasto multicereali. Ottimi anche gli antipasti, in particolare i tranci di panuozzo, da accompagnare a un calice di vino o una delle tante birre artigianali.

Fuoco Matto – Firenze – via XXVII Aprile, 16 – www.fuocomatto.it

 

Le Follie di Romualdo

Le Follie di Romualdo

Romualdo Rizzuti e le sue follie. Come la scelta di trasferirsi a Firenze dopo la lunga esperienza al ristorante di famiglia sulla costa salernitana, oppure l'idea di aprire Sud all'interno del Mercato Centrale (ora in mano a Marco Fierro). Per non parlare della collaborazione con l'Hotel Four Seasons e dei tanti altri progetti in cantiere che – ne siamo certi – non deluderanno il pubblico di buongustai fiorentini. Le Follie di Romualdo nasce all'interno dell'ex gastronomia ristorante Convivium, che oggi vive una seconda vita grazie alla ristrutturazione che ha dato origine a un locale elegante e curato nei minimi dettagli. La stessa ricerca si rileva nelle pizze, a base di farine selezionate che insieme al lievito di birra vanno a comporre un impasto morbido e perfettamente alveolato. Cavallo di battaglia sono le rosse, con salsa fatta in casa con differenti qualità di pomodoro (in particolare, da non perdere La mia Napoli, con acciughe del Cantabrico in uscita, e la fritta L'oro di Napoli, con ricotta di bufala, fiordilatte, cotto e pepe nero). Presenti anche i piatti della tradizione campana e un'ampia selezione di Champagne e vini.

Le Follie di Romualdo – Firenze – v.le Europa, 4 – www.lefolliediromualdo.it

 

Al Fresco

Al Fresco

Ancora Rizzuti, stavolta all'interno di un hotel di lusso del calibro del Four Seasons, progetto fortemente voluto dallo chef del ristorante Il Palagio, Vito Mollica. Qui, da giugno 2018 Romualdo ha portato in tavola la sua tonda napoletana, da gustare a uno dei tavoli con affaccio sulla piscina oppure nell'elegante Atrium Bar interno. L'impasto è lo stesso, firma inconfondibile di un vero maestro, mentre la cottura cambia, stavolta in forno elettrico con pietra refrattaria. Non mancano le pizze classiche, a cui si aggiungono quelle ideate in collaborazione con Vito: la Nizzarda, per esempio, con crema di patate, tonno rosso crudo, alici marinate, fagiolini, olive, uova di quaglia, capperi e pomodorini, oppure la Lucana con scamorza, pecorino di Filano, melanzane rosse, borzillo e polvere di peperoni di Senise. Impeccabili il servizio e la carta dei vini.

Al Fresco – Firenze – Four Seasonos - Borgo Pinti, 99 - +39 55 2626 1 - https://www.fourseasons.com/it/florence/dining/restaurants/al_fresco/

 

Giotto

Giotto

Da Ischia a Firenze, passando per Roma: Marco Manzi, pasticcere con il pallino per le lievitazioni, ha impiegato poco a ottenere il meritato successo, frutto di un lavoro attento e una ricerca continua delle materie prime migliori. Nella periferia fiorentina approda nel 2016, portando con sé le tecniche apprese nel tempo e la tradizione della pizza verace napoletana. Dalla sua terra, pesca le specialità migliori come l'aperitivo ischitano e i piatti di mare, preparati da mamma Maria e la fidanzata Jacklyn, ma a fare la parte del leone è la pizza. Fritta o al metro, e poi i panuozzi. Farine non raffinate, lievito madre rigenerato quotidianamente e un'alta idratazione vanno a formare un disco sottile ed elastico, caratterizzato dal classico cornicione pronunciato. Oltre alla Marinara e la Margherita, ci sono le Pizze Stellate, create con la complicità di chef come Tommaso Luongo, che ha contribuito alla realizzazione della Tartare, con tartare di manzo, tre varietà di pomodori, scarola riccia, noci e limone. Gli amanti della pizza fritta, invece, non possono rinunciare a un assaggio della Montanarina, nella versione tradizionale oppure con lardo di Colonnata, noci e miele.

Giotto – Firenze – via F. Veracini, 22a – www.pizzeriagiotto.it

 

Sud Firenze

Sud

Dopo il genio creativo di Romualdo Rizzuti, alla pizzeria del Mercato Centrale lo scorso giugno è arrivato Marco Fierro, braccio destro proprio di Romualdo e poi alla corte di Stefano Callegari. Dopo una laurea in biotecnologie alimentari e con un master in management all'attivo, il pizzaiolo cilentano ha scelto di dedicarsi al mondo dell'arte bianca, presentando un prodotto gustoso e digeribile, incentrato sul concetto di salubrità e leggerezza. Alla base dell'impasto, un'alta percentuale di farina semintegrale da grani coltivati in Piemonte e macinati a pietra lavica naturale, e poi il lievito madre centenario, dono di Callegari. Marinara, Napoli e Margherita sono delle proposte sempre valide, ma non sono da meno le pizze creative come la Magnifico, con mozzarella di bufala affumicata, salame piccante di Savigni, pomodorino giallo, basilico, ricotta salata di Parola, tutte prelibatezze fornite dagli artigiani del Mercato.

Sud – Firenze – p.zza Mercato Centrale, via dell'Ariento – www.mercatocentrale.it

 

Il vecchio e il mare

Il Vecchio e il Mare

Tre Spicchi per il giovane Mario Cipriano, napoletano doc cresciuto professionalmente nel locale di famiglia a Trieste, che dall'estate 2017 ha preso il timone de Il Vecchio e il Mare a Firenze insieme al ristoratore Pasquale Naccari. Un pizzaiolo che si inserisce a pieno titolo nel firmamento cittadino della pizza napoletana, grazie al suo impasto tradizionale e a quello creativo con aggiunta di sfarinato di fico d'India e zenzero. La scelta cade su farine semintegrali con germe di grano, a basso contenuto glutinico, e ai cinque cereali, esaltati dal lievito madre. Fra le specialità della casa, la Grigio Casentino con fiordilatte, datterino giallo vesuviano, stracciatella pugliese e crudo di Grigio del Casentino stagionato 24 mesi. Ma sono da provare anche le speciali, tra cui la sbriciolona e confettura di cipolle rosse e zafferano o la San Marzano, con stracciatella, battuto di rucola selvatica e salame al vino. Il mercoledì e il giovedì sera sono disponibili anche le pizze in pala.

Il Vecchio e il Mare – Firenze – via G. Gioberti, 61 - www.facebook.com/Il-Vecchio-e-il-Mare-45674374901/

 

Lo Spela

Lo Spela

Resta fermamente ancorato al suo angolo di Chianti, Paolo Pannacci, pizzaiolo per vocazione che, dall'età di 16 anni, si dedica ogni giorno alla ricerca sulle lievitazioni, gli ingredienti e le farine. Continua a stupire con una carta in costante evoluzione, un menu che cambia di continuo, un po' per assecondare il rimo delle stagioni, un po' per accontentare il suo insaziabile estro creativo. Al centro di tutto, le farine: macinate a pietra integrali, di farro e canapa biologiche, lavorate con cura in impasti soffici e scioglievoli, lievitati lentamente per non meno di 30 ore. Qui, è obbligatorio un assaggio della Margherita Gourmet al padellino, cotta al vapore e al forno, con filetti di San Marzano e fiordilatte a crudo, oppure della Vegetariana, un impasto con semi e cereali che accoglie asparagi, patate viola, crema di patate dolci, ricotta e cerfoglio. Senza dimenticare le Limited Edition, pizze ideate con l'aiuto di cuochi, pastry chef e nutrizionisti, ripiegate e condite dentro e sopra con seppie, lardo, mozzarella e pomodoro.

Lo Spela – Greve in Chianti (FI) – via Poneta, 44 – www.lospela.it

a cura di Michela Becchi

Pizzerie d'Italia 2019 – pp. 395 – Euro 8,90 – La guida è acquistabile in edicola, libreria e online

Guida Pizzerie d'Italia 2019 del Gambero Rosso: è arrivato il tempo dei voti

Mangiare a Verona. Guida alle migliori 8 pizzerie

Mangiare a Torino. Guida alle migliori 5 pizzerie 

 

Octavin ad Arezzo. Menu e prezzi della scommessa Luca Fracassi che porta aria nuova in città

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Piccoli spazi, solo 28 coperti nel centro di Arezzo per convincere con una cucina fuori dagli schemi della ristorazione tradizionale che va per la maggiore in città. Ci prova Luca Fracassi, classe 1985, che punta tutto sulla sostenibilità. E gioca con gli ingredienti del territorio. 

 

Luca Fracassi. Chi è

Lui si chiama Luca Fracassi, e il cognome lo condivide con un casentinese celeberrimo della gastronomia italiana, quel Simone macellaio tra i più apprezzati ambasciatori della Chianina toscana. Ma l'omonimia non deve ingannare, ché sul territorio aretino Fracassi è un cognome facile da incontrare. Luca, non a caso, è nato ad Arezzo, e di professione fa lo chef: “La cucina è la mia vita, il vino la mia passione”, chiarisce lui offrendo un'ottima sponda per chiedergli di più del suo ultimo progetto. Classe 1985, nel suo passato ci sono il Magnolia di Alberto Faccani, “un illuminante passaggio al Celler di Can Roca di Girona”, gli insegnamenti d'oro di Paolo Teverini; gli ultimi tre anni (fino al termine del 2017), invece, li ha passati a dirigere la cucina della cantina Tenimenti d'Alessandro, a Cortona, ripensata negli ultimi mesi da Gigi Nastri, che di Luca ha preso il posto la primavera scorsa, quando da Borgo Syrah l'osteria ha cambiato nome (e concept) in Creta. Il giovane chef aretino, intanto, ha approfittato di qualche mese di stop per concretizzare il suo primo progetto in solitaria, con la compagna che lo segue sul lavoro – in sala – e nella vita. Così a maggio 2018 è nato Octavin, un piccolo ristorante nel centro di Arezzo che concentra le idee e il passato di Luca nel contesto di una piccola città di provincia altrimenti ben poco incline a sperimentare nuove strade.

La cucina di Octavin

Eppure lui, consapevole di rappresentare un punto di rottura rispetto alla ristorazione tradizionale e rassicurante che ad Arezzo va per la maggiore (l'ottavina, in metrica, è la forma dell'improvvisazione), ha avuto chiaro sin dall'inizio quel che, con un po' di coraggio, avrebbe voluto portare nella sua città: “Un'idea di ristorazione sostenibile che investe la gestione dell'attività a tutto tondo, non solo con la ricerca di materie prime di cui sappiamo tutto, ma anche nella riduzione degli sprechi, sull'esempio di colleghi che considero modelli da seguire, come Christian Puglisi”. Questo ha portato, per esempio, alla realizzazione di un orto appena fuori città che cresce parallelamente al progetto Octavin, coltivato personalmente dai ragazzi - “con l'aiuto del babbo della mia ragazza, perché un orto non si improvvisa, è un lavoro che va seguito con costanza” - fertilizzato con il compost ricavato dalle cialde di caffè usate al ristorante.

E pure a selezionare fornitori fidati (la carne del Casentino, anatre e polli dalla Valdarno, il pescato secondo disponibilità dei pescatori di Castiglion della Pescaia), molti ingredienti del territorio che però sono trattati in cucina con mano decisamente poco incline a subire i limiti della tradizione locale: “Per questo non parlerei troppo alla lettera di cucina di territorio; ci piace lavorare con pochi ingredienti e preparazioni mai banali, molte fermentazioni, accostamenti insoliti... Cerchiamo di divertirci”. C'è forse un po' di incoscienza? “Volevo cimentarmi con Arezzo, in realtà ho fatto una scelta semplice, perché è questo che so fare. Certo, lo sforzo per farci capire dev'essere quadruplo: abbiamo solo 28 coperti e qualche posto nel dehors durante la bella stagione, siamo una piccolissima realtà e abbiamo appena iniziato. Ma il pubblico sta rispondendo bene”. In cucina si lavora in tre, Luca compreso, in sala sono in due.

Menu e vini

Si mangia alla carta - “una proposta breve che cambia spesso” - o con formula degustazione, da 4 o 7 portate (37 e 70 euro per i percorsi, 50 euro in media per un pasto alla carta). E l'idea è quella di divertire senza voler stupire a tutti i costi con sapori estremi. Qualche esempio? I rigatoni con estratto di rape rosse e anguilla del Trasimeno, affumicata al ristorante; o i fegatelli di maiale Grigio del Casentino, “una proposta molto tipica dalle nostre parti, però solitamente servita stracotta. Noi invece la proponiamo super morbida, quasi da mangiare al cucchiaio”, serviti con sedano rapa e spinaci; e ancora, i tortelli con mandorle in brodo di spugnole, gli spaghetti con vongole e cipresso, il polletto arrosto con lenticchie e porri, l'anatra con cipolla e ginepro, la seppia con tartufo e zenzero. Carta dei vini altrettanto personale, circa 80 etichette per una cantina costruita a piccoli passi, “con vini fatti bene, molti naturali, tante scoperte basate su rapporti diretti con i produttori. Spesso sono in Francia per visitare le cantine, è una passione, e riporto sempre con me qualche bottiglia. Insomma, una carta che mi rappresenta, e piuttosto insolita per Arezzo”. Ma c'è anche la voglia di mettere in campo le proprie convinzioni senza prendersi troppo sul serio.

 

Black Out

Così, il 25 ottobre segnerà l'esordio della serata Black Out, un modo per riflettere sulla sostenibilità come stile di vita, anche a tavola: in menu solo pietanze lavorate o cotte senza ricorrere all'elettricità, tra topinambur alla brace, porcini con crescione e pino mugo, orzo con prezzemolo e crema d'aglio e pollo arrosto con tartufo e porro. “Le possibilità sono molte, tra preparazioni alla brace, estrazioni a freddo, fermentazioni... Niente salse al frullatore, roner, basse temperature!”. Si cena a lume di candela e il pagamento con carte sarà momentaneamente non disponibile, ca va sans dire.

 

Octavin – Arezzo – Scalinata Camillo Berneri, 2 – 0575 357927 – www.octavin.it

 

a cura di Livia Montagnoli

Sorprese in Toscana. Il pinot noir del Mugello

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Nel mensile di ottobre del Gambero Rosso andiamo alla scoperta del pinot nero del Mugello, che è diventato uno dei protagonisti della rinascita di questo territorio. Qui un assaggio.

 

La cartolina del Chianti è lontana. Qui sale l’Appennino, terra di boschi e pascoli che si innalzano a nord di Firenze, regno di una Toscana sconosciuta ai più, anche se è la terra di Giotto e Cimabue e del poeta Dino Campana. Il mangiare è fatto di sapori forti, tortelli, patate e grigliate, cacciagione. Il vino arriva tardi e sceglie la strada opposta. Percorre gli aromi e le trame sottili e balsamiche del pinot nero. E alla fine del vecchio millennio, grazie ad alcuni coraggiosi pionieri, quell’uva simbolo di Borgogna diventa uno dei protagonisti della rinascita del Mugello.

Il Mugello

Una Toscana meno nota ma bellissima, luminosa e ruspante, lontana dalle dolci colline del Chianti o dai cipressi di Bolgheri, spicchio settentrionale della regione nella provincia di Firenze, delimitato a nord dall’Appennino, a sud da Monte Giovi e Monte Senario, a ovest dalla Calvana. È il Mugello, la terra di Giotto, Beato Angelico e Andrea del Castagno ma anche del poeta Dino Campana: montagne e colline, una verde vallata attraversata dal fiume Sieve e ovunque pievi, ville e castelli, campi di cereali, patate e allevamenti, nonché sagre paesane a suon di tortelli e carne alla brace, eccellenze gastronomiche e artigianali. Una regione da sogno ma autentica, assai distante dai cliché. Negli ultimi secoli mancava il vino buono, questo è vero, se si escludevano ottime realtà presenti nel comune di Dicomano che già rientra nella Doc del Chianti Rufina. Poi vi ha messo piede il più inaspettato, per indole e reputazione, colui che punta tutto su classe ed eleganza, altro che ruvidità mugellane. Nasce da un grappolo così compatto che pare una pigna ma offre acini delicati, sensibili, con buccia sottile e poco colore; parla francese perché in Borgogna c’è nato, e da buon principe passeggia volentieri fino allo Champagne, mentre fatica a superare il Reno o le Alpi, figurarsi l’Appennino tosco-romagnolo…

Azienda Fortuna al Mugello

La vicenda di Paolo Cerrini

Cresce soltanto in certi piccolissimi angoli nascosti del mondo – dice Paul Giamatti-Miles in Sideways, celebre film di Alexander Payne – e solo il più paziente e amorevole dei coltivatori può farcela… E inoltre, andiamo... oh, i suoi aromi sono i più ammalianti e brillanti, eccitanti e sottili e antichi del nostro pianeta”. “Eppure se mi avessero consigliato di piantare cavolini di Bruxelles, mi sarei fidato!”, gli fa eco il nostro Paolo Cerrini dell’Azienda agricola il Rio, che invece è divenuto il pioniere del Pinot Nero in Mugello. Di vino non se ne intendeva, ma il suo mentore era Marco De Grazia (il Barolo Boy che con Terre Nere avrebbe poi ridisegnato l’Etna), il quale non ebbe dubbi: terra argillosa, estati brevi, escursioni termiche e umidità importanti? Bene, per uscire dagli imbevibili “vini del contadino”, tipici della zona, c’era da sparigliare le carte... “Ma nonostante tutto le prime vendemmie non promettevano granché”.

È un guerriero dal cuore tenero, Paolo, sguardo acuto e battuta pronta, artista che si spaccia per artigiano. L’amore per la bicicletta, da ragazzo, lo portò a fare l’orafo cesellatore in città: lavoro di bottega e lunghe pedalate nel tempo libero, finché non aprì un laboratorio tutto suo e la professione cominciò a ripagarlo. Anni d’oro per Firenze, che con la Francia ci dialogava in altri ambiti, vedi Cartier che tentò di portarselo a Parigi. Ma Cerrini rimase in Toscana, cominciò a setacciare la campagna, acquistò un rudere sopra il paese di Vicchio e avviò la ristrutturazione. “Annesso c’era questo podere, un tempo appartenente alla fattoria di Molezzano: perché non provare a fare vino, anche solo per berlo tra amici?”.

Azienda Fortuna al Mugello

L'incontro con Manuela Villimburgo

Primi filari nel 1992, bottiglie incoraggianti nel ‘97, chiusura della bottega orafa nel ’98 (“i tempi erano cambiati, Firenze ancor di più”) e nel ‘99, la svolta: sulle note di un tango conosce Manuela Villimburgo, giornalista romana che lo seguirà nella vita e sarà determinante nello sviluppo dell’azienda: “Senza di lei tutto questo non sarebbe stato possibile”. Anche il loro matrimonio diverrà occasione per ampliare la vigna, la festa si chiamerà Per Tutta la Vite e ogni invitato potrà partecipare con l’acquisto di barbatelle… “Non abbiamo fatto altro che chiedere consigli, basti vedere il nostro sito per capire quante persone abbiamo importunato negli anni”. Umiltà, studio, dedizione, prima etichetta per l’annata 2001 e da lì non faranno altro che crescere, puntare alla qualità con estremo rispetto per la natura ma anche per la scienza: “perché sul trattore ci salgo io”, dice Paolo, e il risultato va portato a casa. Anche i bianchi parlano francese, Chardonnay e Sauvignon per l’Annita e il Carabà, mentre il loro classico è appunto il Ventisei, 100% Pinot Nero con parziale macerazione carbonica, un anno di affinamento in barrique e altri diciotto mesi tra cemento e bottiglia, eleganza borgognona ma spalle toscane, note balsamiche che stupiscono. Un vino che diventa un punto di riferimento per diverse aziende che in questa zona intraprendono un’avventura simile; così come è di riferimento, dal 2012, l’associazione Appennino Toscano – Vignaioli di Pinot Nero di cui Paolo e Manuela sono tra i fondatori.

Paolo e Manuela non sono gli unici a far emergere il Pinot del Mugello. Insieme a loro, Alfredo Lowenstein di Podere Fortuna nel comune di Scarperia e San Piero, Marzio Politi Valeria Vecci della cooperativa Voltumna, Michele Lorenzetti della biodinamica Marzio. O ancora le aziende FrascoleIl Lago Terre di Giotto. Tutte le loro testimonianze le trovate nel mensile di ottobre del Gambero Rosso.

 

a cura di Emiliano Gucci

 

 

QUESTO È NULLA...

Pinot nero-anteprima del mensile di ottobre

Nel numero di ottobre del Gambero Rosso, un'edizione rinnovata in questi giorni in edicola, trovate il racconto completo con tutte le testimonianze del Mugello. Un servizio di 9 pagine che include anche un focus sul Podere della Civettaja (il primo pinot nero del Mugello a conquistare i Tre Bicchieri), i punti di vista del sommelier Samuele Del Carlo e del vice curatore della Guida Vini d'Italia Giuseppe Carrus. E ancora, gli 8 piatti tipici del Mugello, le cantine in zona da non perdere e gli 8 indirizzi consigliati dagli stessi vignaioli, con mappa annessa per orientarsi meglio.

Il numero lo potete trovare in edicola o in versione digitale, su App Store o Play Store

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Frantoi aperti in Umbria. Con Mangiaunta si impara a creare la carta degli oli

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L'olio extravergine di oliva gioca un ruolo determinante in cucina, ed è per questo che un ristoratore deve avere una buona selezione di etichette. Come si fa? Lo spiegherà l'esperto Giulio Scatolini durante Mangiaunta, iniziativa umbra che si inserisce all'interno del progetto Frantoi Aperti. 

 

Frantoi Aperti

Tempo di raccolta delle olive, delle prime moliture: l'autunno è un momento decisivo per l'oro verde d'Italia. Iniziano a comparire i primi oli, altri sono in fase di lavorazione, e intanto in Umbria si celebra l'extravergine con la manifestazione Frantoi Aperti, un'iniziativa che andrà avanti per tutto il mese di novembre, a cominciare dal fine settimana che va dal 1 al 4. Protagonisti saranno i borghi di Assisi, Spoleto, Campello sul Clitunno, Giano dell'Umbria, Gualdo Cattaneo e Trevi. Ma poi ci saranno Castel Ritaldi, Passignano sul Trasimeno, Foligno, Spello e molti altri ancora. Località che hanno fatto dell'olio e dell'ulivo i propri simboli nel mondo, e che in questo periodo di fermento, mettono in scena – e in tavola – la loro lunga tradizione con una serie di eventi originali per valorizzare l'olio extravergine di oliva.

Mangiaunta

Un momento di condivisione, un'attività che rievoca epoche passate ma condotta con tecniche contemporanee: la prima frangitura delle olive sarà al centro, dal 1 al 5 novembre, dell'iniziativa Mangiaunta. Un festival giunto ormai alla quattordicesima edizione, che offre la possibilità di partecipare a visite guidate ai frantoi in lavorazione, con degustazioni di olio appena franto presso il Frantoio Speranza, Frantoio Moretti Omero, Frantoio Filippi eil Frantoio Flamini. A fare da sfondo alla festa dell'olio, Giano dell'Umbria, antico borgo medioevale incastonato fra i Monti Martani, con vista impagabile sulle vallate più incontaminate del polmone verde d'Italia. Qui, i visitatori potranno riscoprire il senso della convivialità, ritrovandosi attorno al braciere acceso in piazza per una bruschettata in compagnia, con l'olio nuovo e le tante specialità del territorio umbro.

 

Giano dell'Umbria

La carta degli oli

Ma non finisce qui: cuore pulsante di questa edizione è la Carta Oliata, appuntamento fissato per il 5 novembre e dedicato a tutti i ristoratori, chef e operatori del settore. Insieme al Gambero Rosso, verrà redatta una vera carta degli oli per i ristoranti, ideata e messa appunto dall'esperto di analisi sensoriale e capo panel Giulio Scatolini. Umbro doc, da sempre impegnato nella diffusione della cultura dell'extravergine di qualità, Giulio conosce bene l'importanza dell'oro verde nei piatti. “Il corso è nato perché un olio di qualità può esaltare un piatto semplice, ma un olio difettato può decretare la non riuscita di un piatto ben eseguito”, spiega Giusy Moretti, consigliere comunale con delega al turismo. Fra gli assaggi a disposizione durante il laboratorio, regina indiscussa sarà la cultivar San Felice, tipica di quella piccola oasi verde che circonda l'abbazia di San Felice, “un'oliva particolare che avrete modo di assaggiare in molte declinazioni”. Dopo le degustazioni, partiranno le visite ai frantoi, per osservare da vicino i trucchi del mestiere, e al termine della giornata ogni partecipante riceverà una vetrofania da esporre nel proprio locale, che identifica l'insegna come “Ambasciatrice dell'olio extravergine d'oliva di Giano dell'Umbria”.

 

olio

L'olio nella ristorazione

Parlare di consapevolezza per i ristoratori in fatto di extravergine è ancora prematuro. Certo, qualche passo in più è stato mosso, progetti innovativi portati avanti da veri appassionati, con tanta determinazione e quel pizzico di coraggio necessario per fare la differenza (Filodolio, a Roma, Olivia a Firenze, L'Osteria del Tarassaco a Rivisondoli, il Ristorante degli Angeli a Magliano Sabina, tanto per citarne alcuni), ma la strada da percorrere è ancora lunga. Per questo manifestazioni come Mangiaunta (e in generale Frantoi Aperti) sono fondamentali per accrescere la consapevolezza dei ristoratori, ultimi anelli di una lunga filiera a cui spetta il compito di informare i consumatori.

Le 10 regole per una corretta carta degli oli

A dettare i parametri per la stesura di una carta degli oli adeguati è sempre lui, Giulio, che nella formazione di assaggiatori, frantoiani, tecnici e ristoratori ha speso gran parte della sua vita. Con la consapevolezza di chi ha fatto dello studio dell'olio il proprio punto di partenza e di arrivo, e lo sguardo sognante che lascia trapelare l'emozione a ogni assaggio. Senza dimenticare mai lo spirito brioso di ogni buon umbro che si rispetti: “I grandi oli che valorizzano al meglio i cibi migliori non piacciono a tutti... infatti, non tutti hanno buon gusto!”.

  1. Il numero degli oli. Si può (e si deve) avere diverse etichette per categoria (due dal fruttato leggero, due dal fruttato medio e due intenso), ma se ne apre una per volta. Altrimenti, il cliente si confonde e gli oli in bottiglie già aperte si deteriorano più in fretta.

  2. La luce. Sono tre i nemici principali dell'extravergine: ossigeno, calore e luce. È preferibile scegliere bottiglie scure oppure coprirle con della carta argentata, e occorre conservarle al meglio, al riparo da fonti luminose e di calore, in un luogo fresco e asciutto.

  3. Il tappo. Il tappo deve essere quello antirabbocco, ovvero uno studiato su misura per impedire, appunto, il rabbocco delle bottiglie, garantendo trasparenza e onestà ai clienti. Inoltre, va chiuso bene dopo ogni assaggio, in modo da evitare il contatto fra olio e ossigeno.

  4. L'educazione. Quello dell'extravergine di qualità è ancora un tema chiaro a pochi, per questo occorre informare e formare i clienti, evitando però di fornire loro troppe nozioni complesse contemporaneamente. L'educazione è un processo lento e graduale, da portare avanti con pazienza.

  5. L'abbinamento. L'olio si presta ad accostamenti armonici, che rispecchiano il sapore della ricetta: su un piatto robusto, quindi, sarà meglio usare un olio dal fruttato intenso, con sensazioni di amaro e piccante ben pronunciate, mentre su un piatto più delicato è opportuno abbinare un olio dal fruttato più leggero.

  6. Le varietà. Per fare luce sul mondo dell'extravergine, bisogna presentare al cliente almeno una parte dell'immensa biodiversità olivicola italiana. Quindi, portare in tavola etichette da cultivar diverse, monorigini e blend, ognuna da abbinare al giusto piatto a seconda dell'intensità e delle note aromatiche caratteristiche.

  7. In medio virtus stat. L'obiettivo è ricercare l'armonia, l'equilibrio elegante fra gusti e profumi, amaro e piccante, sapori e sensazioni retrolfattive. Si può sperimentare, ma sempre con consapevolezza e rispetto per le materie prime: il gusto finale non deve essere troppo intenso né troppo debole.

  8. La territorialità. Mai dimenticare il legame con il territorio: per un abbinamento azzeccato, la scelta territoriale è la migliore. Un monocultivar di taggiasca, per esempio, solitamente delicato e dalle note aromatiche più lievi e sottili (salvo, come sempre, le dovute eccezioni) è più indicato per la cucina locale. Discorso analogo vale anche per le varie zone regionali: gli oli della parte del Trasimeno in Umbria sono diversi da quelli del resto del territorio.

  9. Il prezzo. La carta degli oli fa parte del servizio di un ristorante. Se un locale fa pagare il coperto, il prezzo degli assaggi sarà incluso in quella cifra.

  10. Il rispetto. Per l'olio ma anche per il cliente che vuole godersi la cena. Il ristoratore non deve mai esagerare, e deve essere in grado di mediare fra olivicoltori e consumatori: non deve, quindi, farsi prendere la mano rischiando di annoiare o, peggio, allontanare il cliente dal mondo dell'oro verde.

Mangiaunta – Giano dell'Umbria – dal 1 al 5 novembre 2018 - www.facebook.com/LaMangiaunta/

Frantoi Aperti – Umbria, evento diffuso – dal 1 al 25 novembre 2018 - www.frantoiaperti.net/

a cura di Michela Becchi

 
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