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Meet in Cucina in Puglia. La prima edizione del congresso gastronomico regionale a Bari

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Lo avevamo conosciuto quattro anni fa in occasione dell'edizione zero in Abruzzo, ma dopo la tappa marchigiana del 2017, il congresso incentrato sulla cucina regionale ora approda anche in Puglia. Appuntamento a Bari il prossimo 8 ottobre. 

 

Il congresso

Quattro edizioni in Abruzzo, una riuscitissima nelle Marche, a Senigallia, e ora anche una in Puglia, a Bari. Il congresso gastronomico ideato dal giornalista Massimo Di Cintio continua a raccogliere l'entusiasmo del pubblico di appassionati e addetti ai lavori. Sarà per il format originale focalizzato sulle tipicità regionali e i grandi protagonisti del territorio, con l'apporto degli chef locali e il contributo degli operatori del settore, per i convegni sempre più centrati, per il confronto diretto tra cuochi e consumatori che aiuta, anno dopo anno, a fare il punto della situazione e tracciare linee di confine marcate che permettono di definire il concetto di gastronomia regionale, ma Meet in Cucina, ormai, è un appuntamento per gli amanti della tavola. Una manifestazione nata a Chieti, ma che sembra destinata a toccare, una alla volta, tutte le regioni italiane.

L'edizione pugliese

Quest'anno è il turno della Puglia, con la prima edizione in scena lunedì 8 ottobre a Bari, alla Fiera del Levante, in collaborazione con l'Unione Regionale Cuochi Puglia e con le sette associazioni provinciali aderenti alla Federazione Italiana Cuochi, con la complicità della Regione Puglia-Assessorato Risorse agroalimentari. Che sia in Puglia, nelle Marche o in Abruzzo, l'obiettivo dell'evento è sempre lo stesso: accendere i riflettori sulla cucina del territorio e le eccellenze della tradizione, favorendo l'incontro dei professionisti e delle aziende per creare una rete sempre più fitta tra tutti gli operatori. Un'occasione unica di aggiornamento professionale, una manifestazione lungimirante che si propone di “mettere insieme attori fondamentali della filiera agroalimentare che, attraverso uno scambio di competenze, possono valorizzare al meglio le nostre produzioni e la qualità dei prodotti pugliesi”, come ha specificato Leonardo di Gioia, assessore alle Risorse agroalimentari della Regione Puglia.

I prodotti

In particolare, saranno le specialità targate “Prodotti di Qualità”, marchio promosso dalla Regione, le protagoniste della prima edizione. Eccellenze Igp, Dop, ma non solo: prodotti tipici realizzati con cura dalle aziende migliori, in grado di raccontare la terra pugliese, con i suoi profumi, colori e il suo gusto deciso. Un evento fortemente voluto dalla Regione, da tempo impegnata a sostenere iniziative simili “perché salvaguardano e potenziano il nostro patrimonio enogastronomico e il made in Puglia, dedicando un'attenzione particolare a un segmento importante, ovvero la ristorazione, leva strategica di sviluppo del nostro agroalimentare ma anche del sistema turistico regionale”.

Gli chef

E poi, naturalmente, loro. Gli chef che hanno fatto dei sapori pugliesi il loro marchio di fabbrica, e che saliranno sul palco per raccontare la propria esperienza, la strada percorsa fino a oggi e quella che verrà. Un viaggio compiuto insieme ai prodotti della terra, onnipresenti nei loro piatti, oggetto di ricerca e tanto studio, un lavoro intenso per capire come valorizzarli al meglio e reinterpretarli con gusto e creatività. Tecniche innovative che si mescolano alle usanze del passato, consigli della nonna che riemergono prepotenti, ricordi vivi smorzati però da una consapevolezza piena e un tocco personale netto. E poi i piatti, analizzati nel dettaglio e poi messi in degustazione per il pubblico. A realizzarli, Andrea Cannalire del Cielo de La Sommità, Stefano di Gennaro di Quintessenza, Teresa Galeone di Già sotto l'Arco, Franco Ricatti di Bacco, Angelo Sabatelli dell'omonimo ristorante di Putignano, Felice Sgarra di Umami e Antonio Zaccardi del Pashà. Con la partecipazione speciale del Presidente Nazionale della Federazione Italiana Cuochi, Rocco Pozzulo, e Felix Lo Basso come ospite speciale. Insieme, per dimostrare che – come ricorda Di Cintio - “La Puglia in questo momento non solo è una delle destinazioni turistiche più gettonate ma sta dimostrando una grande dinamicità gastronomica, grazie al lavoro dei grandi cuochi storici sempre sulla cresta dell’onda e di una nuova generazione di cuochi di prim’ordine impegnati a valorizzare il grande patrimonio agroalimentare della regione”

Meet in Cucina – Bari – 8 ottobre 2018 - www.meetincucina.it/

a cura di Michela Becchi


Tre Bicchieri. Parla Rita Babini dell'azienda Ancarani

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Un percorso lungo che porta alla rinascita di alcuni autoctoni quasi sconosciuti: centesimino e famoso. Ma che poi si estende anche alle uve albana e sangiovese.

 

L'azienda nasce per volere di Claudio Ancarani, a partire dai terreni acquistati dal nonno. “L'ha voluta fortemente lui” dice la moglie Rita Babini, “poi mi sono aggiunta io”. Circa 40mila bottiglie l'anno – le prime risalgono al 2001 - per 17 ettari e mezzo di vigneti. Una produzione di misura, decisamente artigianale, dove domina il lavoro sul territorio e i vitigni autoctoni. Per il quale l'azienda è nota “ammettendo che si parli della nostra cantina” si schermisce Rita “lo si fa soprattutto per centesimo e famoso, anche perché sono uve che si usano meno”. Sono solo 8 le cantine che producono centesimino, “una ricchezza per tutto il territorio” spiega. E parla di biodiversità, di varietà genetica, tutela della cultura e della saggezza locale. Il progetto dell'azienda si costruisce a passo lento ma costante, anno dopo anno. Valorizzando questi piccoli vitigni sconosciuti ai più e portando avanti un'idea di vitivinicoltura che, in vigna quanto in cantina, vuole assecondare e valorizzare ciò che consegna la natura in quest'angolo d'Italia nei pressi della Torre di Oriolo, nel Faentino. E l'impronta che vogliono dare al loro lavoro è quella tutta artigianale, che regala prodotti identitari, capaci di raccontare un luogo, con le sue radici e la sua memoria, smarcando i ritratti più usuali della regione. I risultati sono intriganti, perfettamente aderenti all'idea di un minuzioso dipinto di questo territorio. Ce ne parla Rita Babini.

 

Qual è la vostra idea di vitivinicoltura?

La definizione più corretta è artigianale, anche perché corrisponde alle dimensioni piccolissime della nostra cantina, che nasce con un occhio di riguardo verso la biodiversità della nostra zona.

Sangiovese e albana sono le bandiere della Romagna, ma stanno emergendo anchealtre uve. Per esempio il centesimino o il famoso che voi vinificate in purezza. Come mai questa scelta?

Claudio sentiva di voler raccontare la nostra visione di Romagna, distaccandosi da quella più comune. Siamo vicino a dei giganti, ma volevamo far sentire la nostra voce. Esiste un altro tipo di coraggio: quello di non aver paura di raccontare qualcosa di diverso rispetto alla narrazione più diffusa. E noi lo facciamo attraverso due autoctoni, il centesimino a bacca rossa e il famoso, bianco. Abbiamo sempre guardato con attenzione alle varietà autoctone romagnole, non ultimo il trabbiano, cui tengo molto. Sono vitigni piuttosto diversi uno dall'altro.

Quali sono le loro caratteristiche?

Il centesimino è varietà prefillossera, poi rimessa su piede di vite americana, che si contraddistingue per una apertura di semiaromaticità, allo stesso modo del famoso. Per non esasperare questo aspetto facciamo una raccolta leggermente anticipata rispetto a come si faceva fino a una decina di anni fa, quando in molti vendemmiavano uve quasi surmature. Non ci troviamo in questa scelta come non ci troviamo nell'uso di legno in cantina.

Come mai?

Cerchiamo di raccontare il territorio e il terreno. Stare sopra Faenza, nella zona di Oriolo, significa avere terreni di forte sabbiosità con vene di argilla. E nei terreni sabbiosi i vitigni con una punta di aromaticità riescono a esprimersi meglio.

Come vi approcciate a questi vitigni?

Nel centesimino l'aspetto olfattivo nel bicchiere è importante, il carattere semiaromatico è parte della bevuta; ha discreta persistenza e un bella struttura, si distingue dal sangiovese per la sua acidità e i tannini più felpati. L'aspetto semiaromatico è tipico anche del famoso, che ha, tra le sue caratteristiche, un possibile crollo di acidità piuttosto repentino. A noi piace raccoglierlo precocemente rispetto alla piena maturazione, in modo da mantenere una buona spalla acida che riesca a rinfrescare la bevuta, per bilanciare l'aspetto aromatico.

Questo per la vigna. In cantina, invece?

Facciamo una fermentazione spontanea in piccoli mastelli senza controllo di temperatura, sulle bucce sia per i rossi che per l'albana, ma non per trabbiano e famoso. In cantina usiamo acciaio e cemento sin da subito. Abbiamo vitigni semiaromatici e un terreno sabbioso che li esalta, non riteniamo sia necessario aggiungere anche del legno, già abbiamo sin troppe cose da mettere in equilibro. L'equilibrio è una cosa fondamentale. Usiamo legno solo per il passito, con barrique di quinto passaggio che portiamo in esaurimento.

Il lavoro di zonazione del sangiovese procede a passo spedito e sempre più aziende aggiungono la sottozona in etichetta. Può essere la strada per conferire sempre più valore al Sangiovese romagnolo?

Questa è una domandona. Per dare valore credo si debba avere maggiore rispetto del vitigno prima di parlare di sottozone. A volte pare ci sia un po' di timore nel raccontare la schiettezza del nostro Sangiovese, spesso si tende a scimmiottarne altri più blasonati, ma il nostro è un altro. Che ovviamente varia a seconda della terra su cui si coltiva, perché parte tutto dalla terra, che cambia a seconda di terreno, altitudini, esposizioni. Poi, una volta rispettato il vitigno e l'annata, le sottozone possono aiutare a n le diverse sfumature e le diverse provenienze.

Qualcuno parla di fenomeno Albana, per spiegare la fortuna che sta riscuotendo in questi anni questa varietà. Tante le sue interpretazioni: da quelle in sottrazione alle più ricche e materiche, passando per le versioni macerate sulle bucce. Non si rischia di fare confusione?

Il sangiovese sta cercando la sua identità da trenta anni, porre questo dubbio sull'albana credo sia prematuro. Credo oggi si abbia voglia di raccontare l'albana così come è nato, perché per anni si è snaturato, basti pensare che il disciplinare addirittura lo voleva bianco, e fino a pochi anni fa si conosceva solo nella versione passito. Farei un passo indietro per questo. Al momento direi che vediamo quel che si può fare con questo albana. Non è un vitigno che apre spazio a mille interpretazioni.

Allora che vitigno è?

Credo che l'albana abbia una sua identità, è un'uva esuberante, prepotente, che se c'è si sente eccome, indipendentemente se è stata macerata o no, ovviamente rifuggendo dalle esasperazioni che, in qualsiasi direzione vadano, tendono sempre a coprire. Questo se si è voluta mettere in bottiglia. Perché non sempre si trova albana nel bicchiere quando c'è scritto albana in etichetta.

Avete conquistato il vostro primo Tre Bicchieri, ma non con il vino che forse vi sareste aspettati, il centesimino. Invece il premio è arrivato con il Sangiovese, on il Biagio Antico '16. Che ne pensate?

Siamo felicissimi di averlo ricevuto per il sangiovese, si parla più frequentemente di centesimo o albana anche perché se ne fanno pochi. È stata veramente una bellissima sorpresa. Credo sia il sangiovese meno ruffiano che ci sia capitato di fare in questi anni e siamo felici così. Perché è quello che identifica di più la nostra zona, quello schietto, di quando chiacchieri con gli amici, mangiando una fettina di salame o giocando a carte.

 

Az. agricola ANCARANI - loc. Santa Lucia - Faenza (RA) - via S. Biagio Antico 14 - +39 0546 642162 - viniancarani.it

 

a cura di Antonella De Santis e William Pregentelli

Hart Bageri a Copenaghen. La panetteria di René Redzepi e Richard Hart

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Ha contribuito a diffondere l’importanza della lenta lievitazione e del pane di qualità in America, e ora si confronta con una nuova piazza, quella danese. La panetteria di Richard Hart a Copenaghen, con la complicità di Redzepi e della squadra del Noma. 

 

Il panificatore

Dieci anni fa, il trasferimento in California. E da quel momento, tutto è cambiato per Richard Hart, inglese doc appassionato di cucina, che in America ha scoperto un nuovo modo di panificare, una filosofia diversa che approccia l’arte bianca con apertura e originalità, ma anche con una tecnica ben precisa e un’attenzione scrupolosa a ogni fase di lavorazione. Un universo complesso fatto di lente lievitazioni, dogmi, regole ferree che però valicano i confini della panificazione così come l’abbiamo sempre conosciuta. Con l’ingresso alla Tartine Bakery di San Francisco, Hart scopre un pane “ad alta idratazione, con alveolatura omogenea e ben sviluppata, e dalla crosta fragrante e sottile”. Uno stile che l’artigiano adotta fin da subito, “lo ritengo migliore anche dal punto di vista nutrizionale, perché la maturazione lenta facilita la digestione”.

 

Hart

Il pane bruciato

A caratterizzare lo stile californiano, però, è soprattutto il colore: scuro, dal marrone intenso al nero carbone. Un pane “bruciato”, ma buonissimo. Il motivo? Il desiderio di sperimentare con tutti i colori del prodotto: “Ogni pagnotta ha un suo spettro cromatico. C’è il bianco della farina, che è una sorta di guarnizione immancabile, il marrone, e poi il nero sulle parti bruciate. Noi abbiamo scelto di conferire una variazione diversa a ogni pane, nero incluso”. La differenza, come sempre, la fa la qualità delle farine – biologiche e rimacinate a pietra – e degli impasti, a lenta maturazione con lievito madre. “Il tema della lievitazione per noi è fondamentale: molte persone oggi consumano meno pane perché quello a cui sono state abituate negli anni era fatto velocemente, senza cura, e per questo risultava più difficile da digerire”.

 

Richard Hart

L’approdo a Copenaghen

Quello del pane bruciato, poi, è divenuto nel tempo un fenomeno diffuso fra panificatori di tutto il mondo, Italia inclusa. E ora arriva anche a Copenaghen, con il nuovo, incredibile progetto che porta la firma di René Redzepi. È l’Hart Bageri, panificio nato dalla collaborazione tra Richard e lo chef nel quartiere di Frederiksberg. “Dopo aver lavorato per molto tempo come head baker a San Francisco, avevo voglia di un mio spazio, magari a Londra o a Parigi. I ragazzi del Noma mi hanno convinto, invece, a trasferirmi a Copenaghen, e così dopo pochi giorni ho fatto i bagagli e sono partito con la mia famiglia”.

 

Hart Bageri

Una città in cui Richard si è ritrovato quasi per caso, seguendo l’istinto, affidandosi a una delle squadre di ristorazione più solide al mondo. “Redzepi mi ha detto: prima vieni a Copenaghen, apri una panetteria. Poi vedrai che arriverai ovunque tu voglia”.Per dire quanto conta nella crescita gastronomica di un territorio avere personaggi di carisma capaci a fare da calamita per altri professionisti oltre che, in questo come in tanti altri casi che riguardano Redzepi, partner nell'investimento. Redzepi è infatti noto in tutto l'universo per il suo ristorante Noma, ma in realtà grazie alla sua oculata attività imprenditoriale sta contribuendo a riempire la capitale danese di progetti gastronomici di altissimo profilo: la Hija de Sancez con i suoi indimenticabili tacos, la neo-birreria Barr, il ristorante 108 e adesso questa backery. Una attività meno celebre di quanto proposto ogni giorno al Noma, ma non per questo meno importante.

 

Richard Hart

Il panificio

Una bakery danese, dunque, che guarda allla tradizione del passato, ma puntando al futuro: “Una panetteria che si ispira alla storia per creare qualcosa di nuovo”. Con Redzepi che coordina la selezione delle materie prime migliori e aiuta Hart a mettersi in contatto con i fornitori di fiducia, e il panificatore inglese che gestisce l’intera produzione. Ci sono i dolci, quelli tipici della viennoiserie ma leggermente rivisitati, e nuove proposte che strizzano l’occhio alle classiche brioches, ma ben lontane dal pain au chocolat che siamo abituati a vedere fra i banchi delle boulangerie francesi. E poi biscotti, dolci da credenza, plumcake, e naturalmente il pane. Tanto pane, dai bauletti di segale ai panini integrali, dalle pagnotte di semi all’immancabile pane bruciato. “Il pane bruciato ormai è parte del mio stile. Lo porterò con me ovunque io vada”.

Hart bageri – Copenaghen - Gammel Kongevej 109 - hartbageri.com/

a cura di Michela Becchi

 

Il Risorgimento della Cucina Torinese. Il menu collettivo alla corte di Matteo Baronetto

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Non poteva esserci luogo più simbolico per celebrare il Risorgimento della Cucina Torinese: piazza Carignano, con il Palazzo dove venne proclamata l’Unità d’Italia e il ristorante del Cambio, dove Cavour era di casa. L’idea degli chef di Torino per raccontare insieme la cucina piemontese del presente. 

 

L’idea è di Matteo Baronetto, lo chef del Cambio, e in qualche modo è una sorta di risposta al dibattito che si è svolto alla Nuvola Lavazza durante il Salone del Gusto (ne abbiamo parlato anche sul Gambero) in cui era emersa un’immagine di cucina gastronomica senza creatività, senza più scambi e discussioni fra chef, insomma un po’ in stallo.

A giudicare dalla serata del Cambio, sembrerebbe di no. Al ristorante amato da Cavour infatti si sono riuniti gli chef dei locali più rappresentativi della “nuova onda” della cucina torinese, quelli che hanno aperto in città negli ultimi due anni. Una brigata d’eccezione che ha dato vita a un menu, per esaltare le specialità della stagione per definizione della cucina piemontese, l'autunno-inverno.

Baronetto si è spinto anche oltre: “Questo menu, firmato collettivamente dai cuochi delle nuove realtà gastronomiche cittadine, è a mio avviso una ‘Carta Costituente’, che certifica quanto, dal 2014 (anno di apertura del nuovo Cambio) questa città sia tornata al centro della scena nazionale, segnando l’inizio di un nuovo Risorgimento enogastronomico”.

I partecipanti

E c’erano proprio tutti, da Cannavacciuolo Bistrot a Piano 35, Spazio 7, Condividere, e poi Les Petites Madeleines del Turin Palace, Magazzino 52, il Carignano, La Pescheria Gallina, Edit, Snodo

La foto di gruppo è un bel ritratto di una cucina che ha voglia di “risorgere” quando non è già risorta. E per aperitivo due barman d’eccellenza, Alberto Terzi del Carlina cocktail bar con il Cocktail Quarantotto, decisamente risorgimentale e Marco Ciminnisi del Bar Cavour del Cambio con il Cocktail Renaissance (questa volta “Rinascimento”, ma il concetto è lo stesso).

Al di là dei singoli piatti (assaggi-degustazione, con alcune sorprese come il Gelato al parmigiano omaggio a Bob Noto di Federico Zanasi di Condivedere, lo spiedino di semolino, acciughe, amarene e olive e il Montebianco di fagioli di Baronetto, la Capponadda povera dei pescatori di Beppe Gallina, giusto per fare qualche esempio) quello che è interessante è l’idea di un menu collettivo (e non semplici proposte di piatti firmati), dall’antipasto al dolce, e il progetto di fare di Torino, grazie alla sua cucina, una capitale del gusto, secondo il nuovo brand annunciato al Salone del Gusto.

 

La cucina che vuole fare rete

Il cibo come motore del cambiamento (Food for Change è stata la parola chiave del Salone) e di una nuova visione della città e del suo futuro: funzionerà? Si riuscirà a fare rete partendo dalla cucina o la Carta Costituente verrà revocata come capitò davvero nel Risorgimento?

Certo è nella tradizione - oggi naturalmente rivisitata – che la cucina torinese e piemontese trova la sue radici. E proprio il “padrone di casa” Matteo Baronetto di questo ripensamento delle tradizioni ha fatto un suo punto di forza (anche il nuovo menù autunnale, fra zuppe di nocciole e lumache o lasagne di pasta con rognone di coniglio e champignon lo conferma). Partirà da Torino, come nella storia d’Italia, un nuovo Risorgimento a tavola? Nell’affollata serata del Cambio tutti gli chef sembravano contenti di aver lavorato insieme e stimolati dall’idea di qualche forma di progetto comune, di dialogo, di confronto.

Come e se si concretizzerà, staremo a vedere.

 

Del Cambio - Torino - piazza Carignano, 2 - delcambio.it

 

a cura di Rosalba Graglia

 

Origine e storia dei due ragù (napoletano e bolognese)

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Abbiamo cercato di ricostruire l'origine del ragù napoletano e di quello bolognese, tra ricettari e libri storici.

 

I maccheroni alla napoletana (dolci) di un tempo

Provate a immaginare di tornare indietro alla metà del Cinquecento e assaggiare un piatto di maccheroni alla napoletana: cosa pensate che vi trovereste davanti? Se ci basiamo sulla descrizione di Cristoforo Messisbugo, storicamente una delle prime, rimarreste sorpresi da un piatto di spesse tagliatelle fatte con farina, mollica di pane e zucchero impastati con uova e acqua di rosa. Secondo l'usanza del periodo, questa pasta dalla consistenza morbida e gusto spiccatamente dolce, veniva poi cotta nel brodo e servita con zucchero e cannella come piatto a sé stante oppure come “contorno” al lesso di cappone. All’epoca, oltre a zucchero e spezie (per chi se li poteva permettere), l’unico condimento utilizzato per la pasta era costituito da burro e formaggio grattugiato. I piatti di pasta in cui si potevano trovare altri ingredienti, tra cui anche la carne, erano invece quelli destinati ad andare in forno, secondo l’antica tradizione delle lasagne inaugurata già nel Medioevo.

La comparsa del ragù, ma non nei maccheroni

La “pastasciutta” non era diffusa come lo è oggi, mentre erano preferite le paste in brodo o da forno che, nel Settecento si evolveranno in timballi e pasticci. Il primo cuoco che riporta la ricetta del timballo di maccheroni in crosta è Vincenzo Corrado ne “Il cuoco galante” del 1773 ed è lo stesso che nomina probabilmente per la prima volta in Italia il ragù. Con questo nome, di chiara derivazione francese, non si intende affatto un condimento per la pasta, ma una vivanda a sé stante che oggi potremmo paragonare a uno spezzatino o a un brasato. Il Corrado ne descrive diversi, dal ragù di petto di vitello a quello di animelle, fino al ragù di gamberi o uova. Il piatto in genere prevedeva una prima rosolatura in burro, lardo o olio, poi una cottura in brodo o vino con ortaggi ed erbe aromatiche. Spesso, ma non è una regola universale, a fine cottura si aggiungeva succo di limone, o più raramente aceto, per aumentare l’acidità del piatto. Il ragù era una preparazione molto versatile e utilizzata per insaporire altre vivande, oppure per formare un ripieno, ma non veniva ancora associato alla pasta.

Quando la carne incontra la pasta

Principio che viene confermato, anche se solo in parte, nella monumentale opera in sei volumi di Francesco Leonardi, autore de “L’Apicio moderno”, dato alle stampe la prima volta a Roma nel 1790. Qui si ritrovano nuovamente i Maccaroni alla Napolitana in cui appare un condimento simile all’attuale ragù alla napoletana, ma ancora allo stato embrionale: dopo la lessatura i maccheroni vengono conditi con parmigiano, pepe e sugo di vitello o manzo (ovvero il sugo ristretto ottenuto dalla stufatura di un grosso pezzo di carne), poi fatti riposare sopra la cenere calda e serviti. La cosa interessante è che tra la prima e la seconda edizione del ricettario, Leonardi inserisce una nota importante per la storia della gastronomia, ovvero la possibilità di aggiungere il sugo di pomodoro all’intingolo di carne stufata.

ragù napoletano

L'origine del ragù napoletano

La definitiva conferma di questo modo di condire la pasta arriva qualche anno più tardi nel ricettario “La cucina casereccia” stampato a Napoli da un anomimo autore che si firma con le solo iniziali M.F. Questo si può considerate il prototipo più antico del ragù napoletano: i maccheroni lessati e cosparsi di formaggio grattugiato si condiscono “con buon brodo di ragù, dove sieno stati cotti i pomidoro”. Nella ricetta il ragù è ottenuto con un grosso pezzo di manzo steccato con prosciutto e chiodi di garofano, fatto rosolare con cipolla, prosciutto, lardo ed erbe aromatiche e infine cotto nel brodo con l’aggiunta di pomodoro. Il termine “ragù” designerà ancora per molto tempo un piatto di carne in intingolo e con questo significato si ritrova curiosamente anche nel libretto della Bohème di Puccini. Per condire la pasta si utilizza quindi solo la parte liquida che si forma durante la cottura, mentre la carne si consuma a parte.

La ricetta, con minime varianti, sarà ripresa da Ippolito Cavalcanti nella “Cucina teorico pratica” del 1837, forse il più famoso ricettario napoletano antico (che, tra le altre cose, registra per la prima volta gli spaghetti al pomodoro). Successivamente si alterneranno versioni dello stesso piatto con o senza l’aggiunta di pomodoro e solo nel corso del Novecento questo ingrediente entrerà stabilmente nella ricetta. Contemporaneamente verranno introdotte delle varianti, come l’introduzione della carne di maiale, inizialmente non contemplata.d

E il ragù alla bolognese?

Mentre il ragù alla napoletanaera già pienamente affermato sulla scena culinaria, quelloalla bolognese non dava ancora segni di vita. Nel“Cuciniere italiano moderno” di metà Ottocento si trova però unaricetta molto interessante per ricostruirne i primordi, quella deiMaccheroni alla famigliare. In questo caso il sugo di braciole o stufato viene arricchito con un battuto di midollo e prosciutto a cui si aggiunge il pomodoro. La vera novità sta nel suggerimento di prendere la carne avanzata dalla cottura, tritarla e aggiungerla al condimento: anche se il piatto principale continua ad essere la carne da sola, la pastasciutta nella sua dimensione più domestica sta lentamente acquistando un proprio peso specifico all’interno del pasto ed emerge l’esigenza di condirla adeguatamente.

A partire da questo momento nei ricettari faranno capolino altre preparazioni che utilizzano la medesima logica per i propri condimenti di cui appare chiara la derivazione meridionale. Il primo è il torinese Francesco Vialardi nella “Cucina borghese” del 1863 con gli immancabili Maccheroni alla napoletana che vengono serviti insieme a piccoli involtini di carne di vitello ripieni e i Maccheroni alla sardaper i quali prevede un condimento a base di carne di vitello tagliata a dadini soffritta nel burro con la cipolla e pomodoro fresco. In quest’ultima ricetta ci sono ormai tutti i presupposti per il ragù “alla bolognese”: la carne entra direttamente nel piatto, superando la logica che la voleva consumata a parte, e il sugo di carne viene sostituito completamente dal solo soffritto di cipolla e dai pomodori. Ma se ci si fermasse qui, probabilmente oggi si parlerebbe del ragù alla sarda e non di quello bolognese.

I maccheroni alla bolognese di Pellegrino Artusi

Sarà Pellegrino Artusi, con il celebre “La scienza in cucina e l’arte di mangiare bene”, a descrivere i Maccheroni alla bolognese (l’autore ancora non parla di ragù perché il termine all’epoca doveva generare ancora ambiguità), in cui compare un vero e proprio “proto-ragù” a base di pancetta di maiale salata e carne di vitello insaporite con sedano, carota e cipolla, il tutto tirato a cottura con brodo di carne. Artusi suggerisce anche alcune aggiunte per arricchire questo condimento: funghisecchi, tartufo, fegatinidi pollo e pannache, insieme al latte, avrà fortune alterne all’interno del ragù fino ai giorni nostri. Un ragù bianco in cui non trova posto il pomodoro, ma ricco e saporito, come voleva la tradizione bolognese.

Dopo una fase instabile durata quasi un ventennio, la trasformazione definitiva avviene allo scadere del primo decennio del Novecento quando quasi tutti gli autori opteranno per la sostituzione delle tagliatelle al posto dei maccheroni (variante già suggerita da Artusi) e per l’inserimento costante del pomodoro. A completare gli ingredienti del ragù, infine la carne di maiale fresca, ma solo nel secondo dopoguerra, come riporta il celebre “Il cucchiaio d’argento” proponendo una ricetta che è rimasta sostanzialmente invariata fino ad oggi. Ricetta che però non corrisponde con quella depositata nel 1982 alla Camera di Commercio di Bologna dalla Delegazione di Bologna dell'Accademia Italiana della Cucina. Ma forse anche questo è il bello delle cucine locali e delle ricette che variano di casa in casa.

 

a cura di Luca Cesari

Grano evolutivo. Storia e vantaggi del miscuglio

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Salvatore Ceccarelli ci spiega perché il grano evolutivo e la tecnica del miscuglio, rappresenta il futuro dell'agricoltura, dell'alimentazione e della panificazione. Insomma, trattare il grano come fosse una popolazione.

 

Ne hanno parlato gli stessi panificatori durante “Bread for change”, il seminarioorganizzato dai ragazzi di Brisa, Davide Longoni e Matteo Piffer del Panificio Moderno di Trento a Terra Madre (guardare il video), ne abbiamo parlato anche noi nel mensile di settembre scorso in un articolo dedicato alla nuova era della panificazione. Ma cosa si intende esattamente per grano evolutivo? E perché secondo molti rappresenta il futuro dell'agricoltura e dell'alimentazione? Abbiamo interpellato colui che lo ha introdotto in Italia nel 2010, Salvatore Ceccarelli.

La nascita del grano evolutivo

L'idea di seminare più varietà non è nuova per la scienza,“c'è, per esempio, un lavoro scientifico pubblicato nel 1938 dall'Università della California che testimonia come questa strategia di mescolare sia uno strumento efficace dal punto di vista agronomico per contrastare malattie e insetti”. A dirlo il padre contemporaneo del grano evolutivo, il genetista agrario di fama internazionale Salvatore Ceccarelli, grazie al quale, oggi, siamo qui a parlare di grano evolutivo e di miscugli.

Salvatore Ceccarelli

Che cos'è il grano evolutivo

Ma di che si tratta esattamente? “Una popolazione evolutiva non è altro che una mescolanza di tantissime varietà diverse della stessa specie”. Un concetto tanto semplice, quanto concretamente utile: “Questi miscugli servono a far fronte al cambiamento climatico grazie alla loro capacità di evolversi nel tempo”. Proprio per questa loro capacità Ceccarelli preferisce chiamarle popolazioni evolutive, e non miscugli come si fa spesso. “Vi faccio un esempio concreto: nel 2008 mentre lavoravo ad Aleppo ho mescolato un migliaio di tipi di semi di orzo e li ho portati ad alcuni agricoltori in cinque paesi diversi: Siria, Algeria, Eritrea, Giordania e Iran. Il risultato è stato subito un raccolto abbondante, che poi è stato distribuito ad altri agricoltori, e le sementi così selezionate sono state diffuse. L’anno successivo ho fatto lo stesso con frumento duro (mescolando 700 tipi diversi) e con il frumento tenero (mescolando 2000 tipi diversi). Con gli anni queste tre popolazioni si sono moltiplicate, hanno viaggiato per tutto il Medio Oriente e nel 2010 sono arrivate e hanno cominciato a diffondersi in Italia”. Una diffusione avvenuta spontaneamente tra gli agricoltori con il semplice passaparola.

I vantaggi

Si tratta di miglioramento genetico partecipativo-evolutivo, facilmente spiegabile attraverso la teoria dell'evoluzione,“secondo cui coltivando una popolazione evolutiva, ci si mette al riparo da malattie ed erbe infestanti nuove o cambiamenti climatici perché tra gli individui di una popolazione ce ne sarà sempre una parte che riuscirà a cavarsela”. Non solo, con le popolazioni evolutive si evita di sottostare al monopolio dei semi e all'impoverimento dei raccolti e della dieta quotidiana. “Quando si parla di semi se ne parla in modo ideologico perché spesso vengono associati al monopolio dei semi, a sua volta associato a quello dei pesticidi (basta pensare che il 70% del mercato è nelle mani di tre corporazioni)”. Il problema del controllo dei semi, però, non rappresenta solo una criticità etica: con il tempo “ha portato ad un'uniformità dei campi e alla perdita della biodiversità. Il che, a livello nutrizionale, si traduce in una diminuzione della diversità nella flora intestinale che provoca processi di infiammazione. Una volta appurato questo, ci possono anche essere diverse teorie, ma tutti i dietologi concordano sul fatto come per un sano microbiota intestinale sia fondamentale una dieta quanto più diversificata possibile”. E una dieta diversificata richiede un'agricoltura diversificata. Non solo, “secondo i risultati preliminari di una sperimentazione condotta da Open Field, nel contesto del progetto Bio2, i pani fatti con questi grani evolutivi hanno un rilascio dell'amido più lento e dunque le risposte glicemiche e insulinemiche post-prandiali su soggetti sani sono meno intense e più lunghe”. Così si evitano attacchi di fame e situazioni che, a lungo andare, possono portare all'insulino resistenza. “Nelle Marche e in Molise – aggiunge Ceccarelli - è iniziata anche la trasformazione in pasta del miscuglio di frumento duro (quello di 700 varietà diverse): i primi assaggi sembrano indicare un prodotto perfino superiore alla pasta prodotta con il Cappelli”.

Giuseppe Li RosiGiuseppe Li Rosi

Chi lo produce, quanto costa e chi lo macina

L'altra buona notizia è che sempre più contadini, soprattutto in Sicilia, Toscana, Marche e Molise, si stanno mettendo in gioco sul fronte del grano evolutivo. Uno dei primi (e attualmente uno dei maggiori produttori) è stato Giuseppe Li Rosi, Presidente di Simenza, che oggi dà i suoi grani a Chiara Quaglia e Piero Gabrieli del Molino Quaglia. “Loro sono stati gli unici fino a oggi a credere in questo progetto perché, in maniera rapida, hanno accettato il prezzo che abbiamo chiesto noi agricoltori. Parliamo di 70 centesimi al chilo sotto trebbia e alla rinfusa, quindi senza essere selezionato, a fronte dei 21 del grano tradizionale. È quasi il triplo, ma la cosa bella è che non hanno guardato a quanto guadagneranno con questa operazione, ma a quale sarà il risultato di questo progetto”. Un risultato che si traduce nella valorizzazione del lavoro dell'agricoltore e di conseguenza nella sensibilizzazione del consumatore, “che deve essere disposto a pagare il giusto prezzo per i prodotti fatti con questo grano”. Ecco perché Chiara e Piero consigliano di non miscelare questa farina con altre, altrimenti si andrebbe a vanificare l’utilità sociale del progetto, con il rischio di una diminuzione delle commesse a scapito dell'agricoltore.

 

 

Il punto di vista dei panificatori

Piccoli appezzamenti vengono poi portati avanti anche da alcuni mugnai e addirittura da alcuni panificatori, come i ragazzi del Forno Brisa (vedi video) o lo stesso Gabriele Bonci che nella sua azienda agricola Le Spinose sta avviando la sperimentazione con una coltivazione di grano di Verna. Nel frattempo, però, usa due diversi tipi di evolutivo: “Quello tutto brianzolo a filiera corta ottenuto dal miscuglio del progetto chiamato Spiga e Madia e il Mazì (un altro dei tanti nomi dati al miscuglio di frumento tenero), una coltivazione sperimentale che ha preso vita nelle Marche grazie al Molino Mariani. Il risultato è un prodotto che accorcia la filiera tra il contadino e il consumatore finale, un pane agricolo e naturale, ottenuto da farine che hanno parametri organolettici diversi e non omologabili a una farina tradizionale, che diventa espressione del territorio dove il grano viene coltivato”. È il grano (evolutivo) del futuro.

 

a cura di Annalisa Zordan

 

 

 

Anteprima Tre Bicchieri 2019. I migliori vini delle Marche

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Le anticipazioni dei premiati dalla Guida Vini d'Italia 2019 del Gambero Rosso ci portano nelle Marche.

 

Sfogliando le pagine sulle Marche in guida, troverete diverse nuove aziende o il ritorno di alcune che sembravano aver smarrito la strada. Questa volatilità non va vista come un elemento negativo, tutt’altro. La qualità si va livellando verso l’alto e la costituzione strutturale del comparto vitivinicolo marchigiano, basato su solido tessuto di aziende di dimensioni contenute, accentua l’aspetto concorrenziale spingendo tutti a fare sempre meglio. Grandi e piccoli devono meritare di esser ritratti in quest’istantanea che scattiamo su di un panorama formato da circa 1000 vini di oltre 200 aziende.

Gli assaggi di quest’anno ci hanno restituito alcune considerazioni interessanti: i rossi regionali, in particolare quelli del quadrante sud della regione, stanno imboccando un’agevole fruibilità data da aromi più freschi e minor concentrazione. Processo non facile quando si ha a che fare con un’uva come il montepulciano. Rileviamo anche la volontà di alcuni distretti di realizzare un circolo virtuoso: ci riferiamo in particolare ai produttori di Bianchello del Metauro e del Colli Maceratesi Ribona che stanno inanellando una serie di vini sempre più convincenti. In questo senso va letto il primo Tre Bicchieri a una Lacrima di Morro d’Alba. Sono anni che la piccola denominazione dà segni di vitalità con nuovi interpreti e investimenti costanti. L’Orgiolo di Marotti Campi riesce a coniugare complessità al tipico tratto aromatico del vitigno. Ci piace segnalare anche il ritorno al premio per due aziende simbolo dei rispettivi distretti: Moroder con il Dorico ‘15 per il Conero e Pollenza con l’omonimo vino, anch’esso 2015, per la provincia di Macerata. Il Rosso Piceno festeggia nel migliore dei modi il cinquantenario della sua istituzione con ben tre vini insigniti del massimo riconoscimento, realizzati da aziende iconiche della denominazione quali De Angelis, Le Caniette e Velenosi. Sempre una triade rende onore al Pecorino offidano: accanto a quelli dei giovani virgulti Simone Spinelli e Marco Santori si staglia il vino che rende omaggio a Guido Cocci Grifoni, artefice del recupero della varietà dall’oblio. I premi al Verdicchio oramai fanno poco rumore: molte conferme tra gli interpreti più ispirati ma anche diversi “ritorni” come nel caso di Sparapani, Casalfarneto e Santa Barbara.

 

Castelli di Jesi Verdicchio Cl. San Paolo Ris. ’16 - Pievalta

Castelli di Jesi Verdicchio Cl. San Sisto Ris. ’16 - Fazi Battaglia

Castelli di Jesi Verdicchio Cl. Tardivo ma non Tardo Ris. ’16 - Santa Barbara

Castelli di Jesi Verdicchio Cl. V. Il Cantico della Figura Ris. ’15 - Andrea Felici

Conero Dorico Ris. ’15 - Alessandro Moroder

Il Pollenza ’15 - Il Pollenza

Lacrima di Morro d’Alba Sup. Orgiolo ’16 - Marotti Campi

Offida Pecorino ’17 - Tenuta Santori

Offida Pecorino Artemisia ’17 - Tenuta Spinelli

Offida Pecorino Guido Cocci Grifoni ’14 - Tenuta Cocci Grifoni

Piceno Sup. Morellone ’13 - Le Caniette

Rosso Piceno Sup. Oro ’15 - Tenuta De Angelis

Rosso Piceno Sup. Roggio del Filare ’15 - Velenosi

Verdicchio dei Castelli di Jesi Cl. Sup. Grancasale ’16 - CasalFarneto

Verdicchio dei Castelli di Jesi Cl. Sup. Il Priore ’16 - Sparapani-Frati Bianchi

Verdicchio dei Castelli di Jesi Cl. Sup. Misco ’17 - Tenuta di Tavignano

Verdicchio dei Castelli di Jesi Cl. Sup. Podium ’16 - Gioacchino Garofoli

Verdicchio dei Castelli di Jesi Cl. Sup. V. V. ’16 - Umani Ronchi

Verdicchio dei Castelli di Jesi Cl. Sup. Ylice ’16 - Poderi Mattioli

Verdicchio di Matelica Mirum Ris. ’16 - La Monacesca

Verdicchio di Matelica Vertis ’16 - Borgo Paglianetto

 

> Partecipa alla Grande Degustazione Tre Bicchieri 2019

Il Cibo incontra la Cultura. Un cinema per Salina nei sogni di Clara Rametta, patronne dell’hotel Signum

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Sono passati trent’anni dalla nascita del Signum, e Clara Rametta non ha mai smesso di credere nelle potenzialità della sua isola. Così i festeggiamenti per il trentennale coincidono con la scommessa su un nuovo progetto: la nascita di un cinema per Salina. E il mondo gastronomico offre il suo sostegno.

 

Alle origini del Signum

Clara Rametta è una donna tenace. Più di Trent’anni fa, insieme a suo marito Michele Caruso, intuiva le potenzialità di un insieme di vecchie case su un terreno digradante sul mare nel Comune di Malfa, isola di Salina, che oggi rappresentano l’anima composita dell’hotel Signum, punta d’eccellenza dell’ospitalità nell’arcipelago Eoliano. Ci sarebbero voluti 4 anni, da quella prima intuizione, per portare a casa il risultato: una genesi controversa, per la difficoltà di ottenere la concessione edilizia fino ai sigilli che poco dopo l’inizio del cantiere interrompevano i lavori, procrastinando ancora una volta la realizzazione della struttura. Di quel periodo di passione - quando in tanti restarono sorpresi dalla scelta di portare avanti un progetto così ambizioso proprio a Malfa, in una zona dell’isola inesplorata dal turismo se non per poche settimane all’anno – resta memoria nel nome che anticipa l’ingresso tra vialetti in pietra bordati di gelsomino (quello a cinque, l’autentico e profumatissimo siciliano) e splendidi esempi di restauro conservativo misti e costruzioni ex novo che si sono aggiunte negli anni, fino a creare quello che il Signum è oggi. Un luogo d’accoglienza esclusivo che non ha perso la sua dimensione familiare, le unità abitative arredate col gusto di chi si diverte a scovare mobili antichi e pezzi di design nei mercati, la premura sorridente di chi continua a credere nei suoi sogni, e spesso – la storia lo dimostra – riesce a intuire le cose prima che accadano.

La famiglia CarusoLa famiglia Caruso

Saper fare turismo

E infatti Clara, che oggi è anche sindaco di Malfa (circa 700 abitanti durante l’inverno e rinomato centro turistico da aprile a ottobre), non nasconde la soddisfazione per quanto è stato fatto da allora: anche la stagione che si è appena conclusa ha fatto registrare nel solo Comune che amministra più di 25mila presenze, più di tutte le altre località dell’isola, “per la maggior parte stranieri, circa 15mila, e questo è stato il mio pallino sin dall’inizio” racconta lei ricordando le difficoltà iniziali “promuovere il Signum e Salina all’estero, far arrivare sull’isola, che nella sua storia molto e precocemente è stata segnata dai flussi migratori verso l’America, un turismo straniero in grado di apprezzarne le risorse molteplici in diversi periodi dell’anno, perché non siamo solo mare, ma anche trekking, enogastronomia tradizionale e ristorazione moderna, cultura e tradizioni popolari”. La sfida l’ha vinta, e quest’anno, con la famiglia al completo – Michele che la segue schivo ma testardo quanto lei, Luca, il primogenito, e la sorella Martina, classe 1988, proprio come il Signum – festeggia il trentennale della sua attività.

La vista dal SignumAffascinante vista dal Signum

30 anni di Signum

I suoi figli, del resto, in quanto a tenacia non sono secondi a nessuno: “Hanno una bella intesa, e amano il Signum, per questo siamo fiduciosi che la nostra storia continuerà a lungo”. Martina, che oggi è una delle giovani chef più apprezzate d’Italia, tutta la sua perseveranza l’ha riversata in cucina: “Sin da bambina si intrufolava tra pentole e fornelli col padre. Quando a 18 mi ha detto che voleva farne un mestiere, l’ho messa alla prova: ‘Ti piace la cucina? E allora comincia a lavorare qui!’. Non l’ha più lasciata”. Luca, invece, è l’anima complementare della nuova generazione Caruso: da vent’anni ristorazione e cantina costituiscono il fiore all’occhiello della struttura, lui ha accelerato il processo di crescita, facendone una meta gastronomica che vale il viaggio. Un video, firmato Gio Martorana (che per i 25 anni ha realizzato un libro fotografico dedicato alla stessa storia), riassume gli ultimi 30 anni, chiosando col fermo immagine in bianco e nero di una coppia di sposini sorridenti: Clara e Michele.

Da Palazzo Marchetti al Cinema per Salina. Un esempio di mecenatismo

Ma le sfide non finiscono qui: l’obiettivo è nuovo e altrettanto ambizioso, il punto di partenza non cambia, perché dietro alle idee ci sono le persone, la loro capacità di fare sistema, le storie che sanno custodire e donare agli altri, perché possano goderne tutti. È questo l’intento più nobile del mecenatismo, ed è un atto di amore verso la sua isola e la cultura il progetto fiorito intorno a Palazzo Marchetti, ormai da un paio d’anni a questa parte. Immortalata nel film Il Postino dell’indimenticato Massimo Troisi (e molti sono i registi stregati dal fascino dell’arcipelago), Salina ha sempre coltivato un legame speciale con il cinema e la cultura. Clara ne ha fatto una missione: “Negli anni Novanta fondavamo l’associazione culturale Didime, per dare un luogo di ritrovo ai nostri figli. All’epoca era solo una scuola di musica, poi abbiamo comprato un pianoforte e cominciato a coinvolgere musicisti e artisti”. Senza Palazzo Marchetti tutto questo non sarebbe stato possibile, e non a caso anche questa è una storia di tenacia: partito per cercare fortuna in America, l’eoliano Marchetti dagli anni Venti stabilì a New York una fiorente impresa di importazione di marmo di Carrara (quello servito per realizzare anche il Grand Central); negli anni Trenta era tornato sull’isola, nel palazzo fatto realizzare per sé e sua moglie americana. L’ultima erede, sua nipote Josephine, è l’anello di congiunzione con Clara, che a Palazzo è riuscita a fondare una Casa della Cultura mossa da un pizzico di incosciente intraprendenza: “All’epoca avevamo bisogno di uno spazio, Palazzo Marchetti era abitato da questa anziana erede solo per poche settimane l’anno. Decisi di andare a New York, presi i miei figli e bussai alla porta di Josephine per chiederle di donare all’isola l’edificio”. Solo qualche mese più tardi, quando Josephine morì ultranovantenne, Clara ebbe la risposta: Palazzo Marchetti, da quel momento in avanti, apparteneva al Comune. Il restauro degli spazi ha lasciato intatti il fascino dell’epoca e molti dei suoi arredi originali, compresa la bella cucina del pian terreno. Al piano superiore, invece, le tre camere padronali sono diventate residenze per gli artisti che si esibiscono a Palazzo: l’affaccio dal patio è mozzafiato, e la vista spazia sul mare, verso Stromboli e Panarea. Happy ending, dunque?

{gallery}Salina - il cibo incontra la cultura{/gallery}

Fare cultura per generare storia. Dalla tavola al cinema

No, considerando quanto il circuito di attività culturali potrebbe svilupparsi ulteriormente se Malfa disponesse di uno spazio dedicato ad accogliere grandi numeri e attività che Palazzo Marchetti non è in grado di sostenere. Così nasce il Cibo incontra la cultura, ennesimo tassello di avvicinamento alla realizzazione di un Cine-auditorium capace di accogliere festival, proiezioni, masterclass di cinematografia, musica, fotografia, destagionalizzando così il turismo sull’isola, e alimentando la voglia di Salina di farsi porto culturale dell’arcipelago (l’isola già accoglie il Salina Doc Festival). Cosa c’entri il cibo è presto detto: negli ultimi tre giorni Malfa, il Signum e le strutture limitrofe (dall’hotel Ravesi al Sant’Isabel, al Capofaro & Malvasia resort) sono stati teatro di un ciclo di cene ed eventi enogastronomici destinati a raccogliere fondi per finanziare l’impresa. Per la realizzazione del progetto firmato Giusy Vinci – una struttura con cavea interrata e copertura retrattile mossa da travi in legno lamellari che ricalcano il profilo di una barca tirata a secco – sono necessari circa 500mila euro. La scelta è stata quella di non contare su finanziamenti pubblici, e la nascita del Cinema di Salina è subordinata interamente alle donazioni: tutti possono contribuire anche con una piccola offerta tramite bonifico o circuito Paypal sul conto bancario dedicato (sul sito tutti i dettagli). Quando sarà completata – ci vorrà un anno dall’inizio dei lavori – la struttura potrà ospitare fino a 200 persone, celebrare la storia dell’isola e attirare un nuovo pubblico a Salina. Un sogno che la famiglia del Signum ha scelto di appoggiare, e con lei tutti i professionisti intervenuti nell’ultimo weekend, che ha registrato sold out ogni sera: Tim Butler protagonista della cena a 4 mani con Martina Caruso, la famiglia della Tenda Rossa (ancora una grande storia familiare della ristorazione italiana) dalla Toscana per l’insolito duetto a tavola tra la cacciagione e il mare… E poi tutti gli chef e gli artigiani arrivati dalla Sicilia per la festa conclusiva, sotto le stelle, proprio nel giardino di Palazzo Marchetti, dove questa bella storia si appresta a continuare. Clara sembra non dubitarne, e il suo entusiasmo mentre snocciola idee estemporanee in divenire è coinvolgente: “Sa quanti organi abbiamo sull’isola? Nove. Perché non organizzare un festival organistico abbinato a serate enogastronomiche nella prima settimana di ottobre? E che dire della festa di San Giuseppe? Il 19 marzo Malfa è una spettacolo: la stagione è già buona, la gente scende in strada per la processione, tutti preparano i piatti tradizionali e la pasta e ceci. Sarebbe bellissimo farne un momento di racconto delle nostre tradizioni”. Crederci è facile.

 

Signum – Salina – Malfa – via Scalo, 15 – hotelsignum.it

Per donazioni e informazioni: www.palazzomarchetti.it

 

a cura di Livia Montagnoli

foto in apertura: Tartare con more fermentate e senape siciliana di Bonetta dell'Oglio

 


Il pizzolo di Sortino. Che cos'è e dove mangiare questa specialità

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In un paesino siciliano di poco più di 8mila abitanti, in molti portano avanti la tradizione del pizzolo. Una sorta di pizza farcita che col tempo è diventata simbolo di Sortino.

 

Le origini del pizzolo

Sortino, arroccato sui Monti Iblei nella provincia di Ragusa, non è solo il paese del miele. Qui ci sono molte attività che dedicano tempo e costanza alla lavorazione del pizzolo, una specialità locale simile alla pizza, diventata portabandiera di tutti i prodotti del territorio. Parola del Sindaco Vincenzo Parlato“È senza dubbio un prodotto che valorizza tutto un paniere di ingredienti locali, dalle verdure del territorio alle erbe di campo, dai salumi ai formaggi; è per questo che mi piacerebbe fosse conosciuto anche al di fuori dalla valle dell'Anapo”. Eppure del pizzolo si sa gran poco, se non che è nato (come spesso accade) quasi per caso e necessità: “Quando le massaie facevano il pane avanzavano sempre dei ritagli di pasta e, per non buttarli, ci facevano una specie di focaccia tonda ben tirata, dove aggiungevano timo dei Monti Iblei, sale e olio; insomma quel poco che si riusciva a trovare”.Solo successivamente si è iniziato a tagliare la focaccia a metà cottura per farcirla con peperoni, pomodori, aglio e cipolla, tutto precedentemente arrostito.

La sua diffusione

La diffusione del pizzolo è però recente e legata agli emigrati sortinesi, che una volta ritornati in patria hanno applicato le tecniche di panificazione apprese all'estero, soprattutto nel Nord Europa. Oggi l'impasto (con lievito di birra o lievito madre) e le farce sono a discrezione della fantasia del pizzarolo e ciascuna pizzoleria ha il suo cavallo di battaglia. “È un prodotto dalle potenzialità inesplorate, sia per quanto riguarda gli impasti sia per gli ingredienti”. Così, nella Sicilia dello sfincione o del pane cunzato, si colloca anche il pizzolo. Noi ne abbiamo provati otto, tutti studiati quasi fossero un piatto e ben equilibrati, e tutti farciti con prodotti a chilometro giusto. Qualche esempio? C'è l'Nfigghiulato con nepitella, stracciatella, fichi secchi, salsiccia, pomodori secchi e olive nere della pizzoleria Le Monache, il Rucoletta de La Castellina con pesto di rucola, riduzione di vino rosso, mozzarella di bufala, scaglie di grana e lardo, c'è quello con i grani locali (Tumminia, Margherito e Madonia) di Pizzolissimo con bietoline selvatiche, salsiccia, pecorino primo sale, pomodoro datterino e timo. Ottima anche la versione dolce con ricotta e, ovviamente, miele.

Pizzolo

Gli indirizzi dove provare il pizzolo

La Castellina – Sortino - Contrada Mascalucia - 0931 956485

Flash - Sortino - viale Mario Giardino 23/B - 0931 956459

Inizio – Sortino - via Andrea Gurciullo, 40 - 0931 316198

La Malakenia – Sortino - viale Mario Giardino, 40 - 0931 953505

Le Monache – Sortino - Contrada Monticelli - 0931 953268

Nabila – Sortino - via Santa Sofia, 19 - 0931 953905

Pantalica – Sortino - via Castagna, 2 - 0931 953835

Pizzamania – Sortino - via Padre Gaudenzio Cianci, 28 - 0931 953058

La Pizzoleria – Sortino - via Libertà, 152 - 0931 953924

Pizzolissimo – Sortino - Contrada Albinelli - 0931 954849

I Quattro Canti – Sortino - via della Libertà, 88 - 0931 954066

La Romantica – Sortino - viale Mario Giardino, 30 - 0931 956260

La Rotonda – Sortino - via Belice, 3 - 331 9050573

Sacre Pietre – Sortino - Contrada Fusco - 340 531 9645

 

a cura di Annalisa Zordan

foto di La Pizzoleria

 

 

 

 

 

A Roma Maker Faire 2018 mette in mostra le invenzioni per il cibo del futuro. E c'è anche la cucina circolare di Igles

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Dal 12 al 14 ottobre il festival dell'innovazione nato a San Francisco nel 2006 celebra la sua sesta edizione romana. Centinaia le invenzioni tecnologiche degli artigiani 4.0, c'è anche un padiglione dedicato al food tech e all'agrifood. E il Gambero Rosso partecipa con i suoi seminari. 

 

Maker Faire, gli artigiani del futuro

A Roma la Maker Faire, festival dell'innovazione che valorizza la creatività degli artigiani del futuro, è arrivata alla sua sesta edizione. E quanto la città apprezzi la manifestazione, quest'anno di stanza alla Fiera di Roma, lo dimostra la buona affluenza di pubblico, grandi e piccini, che curiosa ogni anno tra le ultime invenzioni di artigiani digitali, centri di ricerca, imprese innovative, giovani startup e università. 50mila metri quadri a disposizione per centinaia di proposte mai viste prima, molte orientate all'interazione con il pubblico, spettacolari perché fantasiose e capaci di anticipare le necessità del futuro, all'insegna di un saper fare che evolve dalla dimensione tradizionale all'innovazione tecnologica. E sono moltissimi i temi affrontati   - design, elettronica, artigianato digitale, salute e qualità della vita, arte, droni, energia, sostenibilità, open source, il negozio del futuro, area kids, aerospazio – a dimostrazione di quanto la tecnologia possa essere importante alleato per l'evoluzione culturale, sociale, economica del pianeta. Quest'anno Maker Faire Rome andrà in scena dal 12 al 14 ottobre, con 7 padiglioni allestiti per l'occasione.

 

Il cibo a Maker Faire

Nel padiglione 4, intitolato al Design/Life si concentreranno le invenzioni di ambito agricolo e alimentare, che più ci interessano nel nostro tour di ricognizione preventivo (tra i padiglioni più interessanti anche quello dedicato all'economia circolare). Ma alla cucina del futuro e alla robotica applicata alla coltivazione dei campi saranno dedicate anche conferenze e laboratori nel fitto programma di seminari e workshop organizzati dal festival. L'area food e agritech riunisce principalmente le innovazioni in materia di ricerca agricola messe a punto negli ultimi anni sul territorio nazionale, con la partecipazione di Crea, Enea e Arsial, che insieme presenteranno 30 soluzioni innovative applicabili alle filiere agroalimentari. Assoluta novità, invece, sarà il Ristorante del Futuro promosso da Eni, main partner della manifestazione, che in collaborazione con Gambero Rosso proporrà menu sostenibili rivisitando ricette tradizionali del Lazio sul piano della tecnica e del valore nutrizionale (in cucina ci saranno i ragazzi dell'Istituto alberghiero Costaggini di Rieti).

 

Gambero Rosso con Igles Corelli

E il Gambero Rosso curerà nella stessa area una serie di appuntamenti formativi sul valore nutrizionale del cibo, la sostenibilità delle materie prime, la cucina circolare: protagonista sul palco Igles Corelli, promotore della cucina zero sprechi che utilizza la tecnologia per risparmiare tempo e risorse (sabato 13, dalle 16 alle 17, nell'area convegni Agrifood). In calendario anche seminari sull'informazione digitale del cibo, su fermentazioni e orti verticali, olio e tecnologia, riuso delle biomasse vegetali e guide alla degustazione.

 

Le invenzioni più curiose

Tra le più curiose invenzioni in mostra invece l'apparato per la lievitazione domestica di impasti, la vertical farm computerizzata e compatta per coltivazioni sane a km 0, il dado vegetale realizzato con gli scarti di verdura dei processi industriali,  i dispositivi olfattivi digitali intelligenti per le cucine professionali, il drone spaventapasseri, i funghi Espresso, che nascono dai fondi di caffè, e persino una “mojito machine”. Il resto sarà divertente scoprirlo da soli, a spasso tra le invenzioni che cambieranno il futuro.

 

Maker Faire Rome - Fiera di Roma - dal 12 al 14 ottobre - 2018.makerfairerome.eu 

 

a cura di Livia Montagnoli

I vini del futuro. Un sondaggio di Sopexa svela le nuove tendenze

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Francia imprescindibile, Italia in crescita (ma con reputazione da migliorare), Spagna tra le più performanti. biologici e biodinamici la categoria più promettente, avanzano i formati alternativi come il vino in lattina. Tutti i risultati del Wine trade monitor 2018.

 

Nei prossimi due anni, mercato e trend di consumo parleranno ancora francese. I vini transalpini sono considerati imprescindibili negli assortimenti, ma quelli di origine italiana costituiscono una bella sorpresa, dal momento che sono destinati a registrare i migliori progressi nelle vendite. Il quadro emerge dal Wine trade monitor 2018 di Sopexa, l'agenzia internazionale di comunicazione e marketing, autrice di un sondaggio che ha coinvolto ben 781 tra importatori, grossisti e distributori in sei mercati chiave: Stati Uniti, Canada, Giappone, Belgio, Cina e Hong Kong. Uno sguardo al futuro che per la prima volta, quest'anno, ha inserito i vini frizzanti. Dalle referenze all'evoluzione delle vendite, dalle novità tecnologiche alla reputazione, l'indagine online ha coinvolto un panel diversificato di professionisti tra cui buyer, responsabili commerciali e amministratori delegati, metà dei quali appartengono ad aziende che commercializzano oltre 100 mila bottiglie l'anno con un 17% che supera il milione.

Il portafoglio degli operatori

L'indagine si è soffermata, innanzitutto, sul tema delle referenze in portafoglio. Mediamente, importatori, grossisti e distributori affermano di commercializzare vini di otto diversi Paesi. La Francia è la più gettonata, con il 92% delle preferenze, davanti all'Italia (76%) e alla Spagna (71%). Avanzano con una certa velocità i Paesi competitor, come Australia, Cile e, soprattutto, Stati Uniti, che sono scelti dagli operatori secondo una percentuale che va dal 45% al 56%. Il mercato con una gamma più ridotta è, invece, quello cinese, che registra una media di 4,8 Paesi d'origine. Qui spiccano i francesi, seguiti da quelli australiani in forte risalita, poi Italia e Cile. Situazione molto diversa a Hong Kong, che costituisce un mercato “aperto", e conta una media di 7,4 diversi Paesi di origine dei vini.

I trend di vendita

Quattro operatori su dieci affermano che i vini italiani sono tra quelli con i migliori aumenti nelle vendite. In particolare, in Canada, i due terzi degli operatori affermano che l'Italia è al terzo posto nella classifica di vendite e, soprattutto, per i prossimi due anni un 56% degli intervistati sottolinea che l'Italia sarà certamente nel podio dei Paesi con il maggior tasso di incremento. Per quanto riguarda la Cina, la visibilità degli italiani è aumentata, considerando che i prodotti sono al terzo posto per il 43% del campione, con un outlook positivo da qui al 2020 sul fronte dei migliori incrementi di vendita. A spiegare le ragioni di questo miglioramento è Andrea Ferrero, direttore del Consorzio Barolo Barbaresco Alba Langhe e Dogliani: "In Cina e Canada i vini italiani hanno un vantaggio innanzitutto legato alla straordinaria varietà dei vitigni. Un patrimonio di autoctoni che contribuisce a elevare l'interesse dei mercati. Inoltre, abbiamo anche un rapporto qualità-prezzo eccezionale". Considerando, poi, i vini spagnoli, il 39% dei professionisti coinvolti nel sondaggio di Sopexa li inserisce tra i più performanti. In Giappone, il 48% li inserisce tra quelli con le migliori vendite nel 2017, meglio dei vini cileni, scesi in quarta posizione. Proiettato al futuro e ai prossimi due anni, il vino spagnolo dovrebbe essere inserito sul podio per il 30% degli intervistati. Grande potenziale di crescita, infine, in Canada e Stati Uniti per quasi metà degli operatori. La Francia resta il Paese in testa alle classifiche, con un 82% di intervistati che la colloca al primo posto nelle performance 2017 e un 50% che conferma le buone previsioni tra 20218 e 2019, specie negli Usa, Belgio e Hong Kong. Qualche segnale di debolezza, e perdita di quote di mercato, sul mercato cinese e canadese, dove la rincorsa degli italiani potrebbe avere buon esito.

La reputazione

È netta la distanza che separa la Francia dagli altri Paesi in materia di immagine. Il 64% ritiene quelli francesi più performanti. L'Italia ottiene appena il 13% dei voti. Segno di un gap ancora da colmare nei confronti dei transalpini i cui prodotti sono considerati al top nelle grandi occasioni, nelle campagna di comunicazione di marche e azioni collettive, in tema di sviluppo sostenibile e capacità di adattamento alle aspettative dei consumatori. Qualche segno di cedimento viene rilevato in Cina e Canada. Dall'altro lato, la Spagna e il Cile guadagnano reputazione se si considerano i parametri come l'attrattività legata al prezzo e la ricerca di un prodotto di tutti i giorni. L'Italia, invece, si distingue nel campo dell'innovazione.

I formati e le etichette alternative

Wine trade monitor 2018 ha analizzato anche il packaging e i vari formati. In questa speciale analisi emerge che i due terzi degli operatori asiatici, nei Paesi asiatici, stimano una crescita più alta per le mezze bottiglie e gli altri formati più piccoli. In Nord America, è previsto un incremento di quelli alternativi, con oltre 4 operatori su 10 che punteranno sul bag in box e sul vino in lattina. Notevoli differenze tra Asia e America in tema di etichette. Nel primo caso, le etichette smart sono considerate un mezzo di comunicare con un consumatore finale sempre in rete e, allo stesso tempo, un sistema di garanzia per i clienti che chiedono informazioni sull'autenticità di un prodotto. Nel secondo caso, in America del Nord, e anche in Belgio, metà degli operatori stima che tali etichette non porteranno alcun valore aggiunto, con un sorprendente 18% che, negli Stati Uniti, non ha idea di che cosa si tratti. Ad avviso di Augustin Missolfe, direttore di Sopexa Cina, il mondo digitale è un passaggio obbligato nella relazione con la clientela: "Dopo l'O2O, ovvero online to offline, è arrivata l'ora del O+O, con etichette smart che consentono di ordinare sul cellulare il vino che si sta bevendo in quel momento al ristorante". Ma c'è di più: tra i più grandi operatori del vino in Cina, nove su dieci hanno già attribuito un codice Qr unico per ogni bottiglia su una parte delle scorte di cantina, in funzione di una vendita immediata. Thomas Morisset, ceo di MadeForGoods di Shangai, spiega che il sistema più frequente è "l'autenticazione del prodotto su WeChat, tramite il codice Qr. Alcune marche" spiega "sviluppano applicazioni B2B destinate a fidelizzare non solo i grossisti e i distributori ma anche i bar e i ristoranti. Altre, invece, sviluppano delle promozioni puntando sui consumatori: lotteria, buste rosse chiamate 'Hongbao' digitalizzate da WeChat, che permettono di guadagnare sconti da riutilizzare online nell'acquisto successivo o dei punti da raccogliere, seguendo programmi di fedeltà".

Biologici, Dop e rosati

I biologici e i biodinamici per la prima volta entrano nella top 3, rappresentando la categoria "più promettente", secondo Sopexa, dei prossimi due anni. La categoria fa meglio anche dei vini varietali per oltre un terzo degli operatori (a esclusione di Cina e Hong Kong). Sul mercato belga, e in Giappone, biologici e biodinamici sono il trend più forte. A crescere particolarmente saranno le Dop regionali, come Chianti, Bordeaux, etc, come evidenzia il rapporto di Sopexa, che cita Cine e Hong Kong come aree a più alto potenziale. Pertanto, la denominazione regionale è il primo criterio collegato alla valorizzazione del vino da qui al 2020. Infine, i rosati: una categoria che prosegue la crescita in Nord America, con più di un operatore statunitense su quattro e oltre un canadese su due che stima un'ulteriore e forte crescita dei rosé.

I colori del futuro

Sui vini rossi la Francia guida le classifiche. Le quattro indicate dagli intervistati sono Bordeaux in Asia, Languedoc in Belgio, Côtes du Rhône e Borgogna. I prodotti della Nuova Zelanda, soprattutto i bianchi di Marlborough, con l'eccezione del Belgio, si collocano per tutti nei primi due posti della classifica dei bianchi più promettenti. Per i vini bianchi della Loira, ottime prospettive negli Stati Uniti (un operatore su tre). Provenza e Corsica sono sul podio delle vendite del futuro per il 63% di buyer e operatori di mercato. I rosati italiani sono citati come competitor dei francesi e nella top 3 delle progressioni di vendite in Cina, Giappone e Canada. Tra gli spumanti, Prosecco e Cava sono i più attesi: il primo in Nord America, il secondo in Giappone e Belgio.

Lo Chenin blanc. Nuovo trend topic?

Forte interesse negli Usa per lo Chenin Blanc, vitigno che è diventato uno dei preferiti dei sommelier, molto influenti sui consumatori, che conoscono bene Riesling o Chardonnay ma vogliono provare nuove tipologie. Prodotto in diverse regioni del mondo, la Valle della Loira, i Finger Lakes di New York, Oregon, Nuova Zelanda, Africa del Sud, lo Chenin Blanc rappresenta un'alternativa ai vini di alcune grandi regioni viticole, dove i prezzi sono molto aumentati. I consumatori americani chiedono vini rinfrescanti, accessibili e conviviali. La strada da percorrere è ancora lunga, secondo Thomas Minc, direttore di Sopexa Usa, in particolare perché non esistono ancora brand leader.

La classifica dei vini varietali

È stabile la classifica mondiale dei vini da vitigni internazionali. Nei prossimi due anni i più richiesti dovrebbero essere Cabernet Sauvignon, Chardonnay, Pinot Nero e Merlot. Tra i cambiamenti evidenziati dal rapporto Sopexa, lo Shiraz/Syrah è atteso in crescita in Cina e Hong Kong, il Grenache in Belgio. Il calo dello Chardonnay negli Usa favorirà lo Chenin blanc, mentre il Canada berrà più Sauvignon.

 

a cura di Gianluca Atzeni

 

 

Questo articolo è uscito sul nostro settimanale Tre Bicchieri del 20 settembre

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Soy Comida Perfecta. Sono il cibo perfetto, la startup spagnola contro lo spreco alimentare

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Ancora progetti anti-spreco. A Barcellona arriva la piattaforma online che raduna tutti i prodotti esteticamente poco gradevoli e rimasti invenduti, per consegnarli poi direttamente a casa. Ecco come funziona. 

 

La startup

“Sono il cibo perfetto”. Questo l'inequivocabile nome della startup contro lo spreco alimentare nata per volontà di Desiree Taboada, da tempo impegnata nella sensibilizzazione sulle maggiori problematiche ambientali, che insieme alla socia Natalia Escolà ha deciso di creare un negozio online per recuperare gli avanzi. Frutta dalle forme irregolari o poco accattivanti, scatole di cereali un po' ammaccate o bottiglie di bevande con l'etichetta capovolta: tanti i prodotti che restano invenduti nei supermercati o che non arrivano neanche al punto vendita per via della loro estetica. Sono proprio quelli a cui Desiree ha deciso di restituire valore, così come quelli ancora commestibili anche dopo la data ultima di scadenza. A patto che siano sani e di qualità.

Il servizio

Soy Comida Perfecta è quindi la soluzione innovativa ideale per non gettare le tante eccedenze alimentari che vengono sprecate quotidianamente in molte case, a beneficio dell'ambiente e anche del portafogli. Un vero mercato che fa affidamento su una rete di fornitori in continua espansione, e che si occupa di consegnare a domicilio in diversi quartieri di Barcellona e Castelldefels, attualmente le uniche località in cui il servizio è disponibile, anche se Desiree ha dichiarato di voler ampliare al più presto il proprio raggio d'azione, in Spagna ma anche in altri paesi europei. Parola chiave: trasparenza. Attraverso il sito internet – o l'app disponibile per smartphone – i consumatori possono ottenere tutti i dettagli necessari per l'acquisto, dagli ingredienti alla data di scadenza. E anche il tipo di danno che il cibo ha subito, il motivo dietro ogni ammaccattura: così, ogni cliente può procedere con la spesa con consapevolezza.

L'obiettivo

Piattaforma online a parte, Desiree si impegna anche a organizzare eventi specifici sul tema dello spreco, video e conferenze. Obiettivo ultimo del progetto, infatti, è quello di informare i consumatori ed educarli a un consumo consapevole: “Il problema è che nella vita di tutti i giorni non c'è sempre la possibilità di pensare a diverse opzioni per quanto riguarda il risparmio di cibo. Ecco perché cerchiamo di incoraggiare le persone a trovare nuovi modi di ridurre lo spreco”. Un consiglio pratico? Fare la lista della spesa. Un'accortezza che può risultare banale ma che, in effetti, non sempre viene messa in pratica nella quotidianità: “Occorre prendere meno decisioni impulsive quando siamo al supermercato, in modo da non ritrovarci con molto più cibo di quello che ci serve”.

Lotta allo spreco a Barcellona

Un'idea originale approdata dapprima a Castelldefels, con solo 40 fornitori aderenti, e poi a Barcellona, “il riscontro del pubblico è stato positivo fin dall'inizio, riceviamo spesso messaggi di ringraziamento e anche consigli su come migliorarci”. È proprio a Barcellona che la startup ha avuto maggiore successo, un po' per il grande fermento che c'è attorno al mondo del food tech, un po' perché lo scambio fra le due ideatrici e i consumatori, e fra i consumatori stessi, ha permesso la creazione di una rete a tutti gli effetti di persone impegnate nella causa. “A Barcellona il tema della qualità della vita e dell'ambiente è molto sentito. Le persone cercano di migliorare la propria vita e fare scelte consapevoli, come spostarsi in bicicletta, comprare prodotti locali e riciclare. Per noi non esiste un luogo migliore per intensificare la relazione tra la riduzione di cibo e il risparmio economico”.

www.soycomidaperfecta.com/

a cura di Michela Becchi

Gastronomika 2018 report. Primo giorno. Berasategui, Arzak, Aduriz

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La prima giornata del congresso di San Sebastian cerca di rispondere alla domanda: cosa è la cucina di avanguardia oggi? Per riflettere su questo tema sono chiamati i più grandi cuochi spagnoli. E non solo.

 

Nell'edizione del ventennale di Gastronomika si riflette sul ruolo e il significato della cucina di avanguardia, che questo stesso congresso ha tenuto a battesimo tanti anni fa. E lo si fa a partire dalla celebrazione di colui che ne è considerato il padre, Juan Mari Arzak, che a metà giornata riceve il premio alla carriera come “simbolo della rivoluzione gastronomica”. Con un messaggio emozionato ed emozionante di cui lo omaggiano i più grandi cuochi del mondo, presenti in video o in carne e ossa sul palco. Joan Roca - “un giorno decidi che vuoi essere un cuoco, in un altro momento decidi che tipo di chef vuoi essere. Quando ho incontrato Juan Mari Arzak, ho deciso che volevo essere come lui” - Paul Gagnaire, Alex Atala, Ana Ros, Mr e Mrs Bund, Gaston Acurio, Michel Bras e molti altri lo salutano al grido di “¡Aúpa, Juan Mari!” (dai, Juan Mari). Si stringono intorno a lui, a quell'uomo che ha saputo guardare la cucina con gli occhi di un bambino. Che ha saputo condurre, insieme agli altri grandi cuochi spagnoli, la scuola iberica nella contemporaneità attraverso tecniche e talenti visionari. E che ancora non perde un intervento dei colleghi nei congressi in cui partecipa.

Martin Berasategui a Gastronomika 2018Martin Berasategui 

Rispetto e dedizione

Ma cosa è, oggi la cucina? Grande lavoro, innanzitutto. Non tappeti rossi, non photocall, ma dedizione, umiltà, sapore, rispetto e sacrificio. Ammonisce così i giovani Martin Berasategui nella sua ponencia durate la quale ripercorre 25 anni di cucina d'avanguardia (una cucina leggera, creativa, fresca, elaborata e immediata, la definisce) e annuncia nuovi progetti in Spagna e in Portogallo. Usa una delle tecniche più iconiche dell'avanguardia per rendere omaggio a uno dei pixtos baschi più semplici, chiamato Gilda, lo spiedino di olive, alici e peperoncino verde (guindilla) riproposto sferificando gli ingredienti ridotti precedentemente in crema, con una procedura ormai diventata famosa. Lo accompagna a una tartare di tonno su un brodo trasparente di acqua di pomodoro, dove ha infuso tonno secco e capperi. Ancora un elemento classico dell'avanguardia, la spuma sifonata, nel cappuccino di patate, funghi e tartufo, insieme al piccione. Baratasegui ospita sul palco Victor Suarez, suo allievo oggi al Hayde di Tenerife, che omaggia la cucina locale con un polpo con patate dolci, caviale di mandarino, mojo verde (una salsa tipica delle Canarie) reso croccante, maionese e katsobushi, presentato su un piatto che ricrea l'habitat del pesce realizzato in materiale biodegradabile, a focalizzare l'attenzione sulla sostenibilità.

 

Sapore e narrazione

La cucina? Sapore, storia e narrazione. Così sintetizza Elena Arzak l'essenza del cucinare. Perché se è vero che i cuochi sono sempre più ascoltati, è ancora più vero che devono parlare attraverso i loro piatti, più che con le parole. Perché la cucina è prima di tutto cibo, e può raccontare le cose e renderle comprensibili attraverso i piatti. Dunque la domanda da porsi oggi è: quale è il messaggio della cucina? La tecnica, l'ambiente, la stagionalità, l'incontro di culture e di saperi, come quando si ispira alla sfogliatella napoletana per creare una sottile cialda che richiama, nell'aspetto, il taglio di un tronco d'acero, a riportare, anche lei, l'attenzione sullo stato di salute delle nostre aree verdi.

Il piatto di Elena ArzakIl piatto di Elena Arzak

Tempo e tecnica

Come un sistema solare, il sistema gastronomico di Diego Guerrero del DStage di Madrid, include satelliti che gravitano nell'orbita della sua cucina: sono gli studenti del Master di Scienze Gastronomiche Basque Culinary Center e il Future Food Lab dell'Istituto Europeo di Design. Con i primi sta sviluppando studio di nuove textures. Nella sua cucina usa sempre meno ingredienti, ma impiega sempre più tempo per prepararli, a volte anche giorni, quelli necessari per far evolvere la materia prima o arrivare a perfezionare certi risultati. Il lavoro sulle proteine e i grassi, per esempio, consente snack come il calamaro alla romana, in cui il cefalopode viene ridotto in crema e lavorato in purezza. Ci sono poi il gambero rosso, trasformato per ottenere diverse consistenze in un solo prodotto, il garum di alici che dona grande profondità gustativa. Nel suo lavoro il confine tra salato e dolce è uno spazio in cui insinua preparazioni inaspettate per i clienti, come il predessert alle mandorle, il pudding di riso senza latte che sorprende per la sua cremosità, frutto di quasi due giorni di fermentazione, o ancora il millefoglie di tempeh di macadamia. La fermentazione è tecnica ormai immancabile: “ha cambiato il nostro modo di cucinare” dice. E ha i suoi tempi. Gli consente di lavorare per riusare gli scarti alimentari, allo stesso modo – e qui interviene la collaborazione con l'IED – ricicla quelli plastici per farne stampi per la cucina.

Diego GuerreroDiego Guerrero

Disfrutar a Barcellona è uno dei regni dell'avanguardia gastronomica, quella che passa per la sperimentazione di tecniche e procedure. Dopo l'ubriacatura per il macchinario delle meraviglie, l'Oc'oo, che ha portato in giro per il mondo per presentare prove ed esperimenti, Oriol Castro continua la sua marcia verso la ricerca continuando a impiegarlo, sì, ma solo uno strumento utile per raggiungere risultati diversi o solo più lontani. Oggi parte dal lavoro con le mandorle per tracciare uno straordinario panorama gustativo che porta dal frutto verde a quello fermentato, dal latte alle pelle fritta, in un orizzonte di sapori interessantissimo e pronto ad aprire nuove suggestioni gastronomiche. Ci sono poi gli esperimenti con l'inulina, con cui produce una pasta sfoglia leggerissima e versatile, completamente senza farina (quindi adatta anche per chi ha intolleranze o allergie), lavora con il nasello in salsa verde e la txuleta – (sorta di t bon locale), e perfino con il classico pinxtos Gilda (anche lui), assurto a simbolo della cucina basca qui oggetto di sferificazione, a sua volta simbolo della cucina di avanguardia.

Il piatto di Oriol CastroIl piatto di Oriol Castro

Ritorno alle origini

Bisogna tornare alle origini”, invita Dani Garcia (Marbella) che omaggia i piatti della tradizione e li pone allo stesso livello di quelli più innovativi: “l'importante è che ogni ingrediente abbia il sapore che deve avere e che sia in equilibrio”. Ma gli equilibri sono somme di elementi che possono variare ogni volta e ogni volta trovare un nuovo bilanciamento, come nel gazpacho, che ha interpretato in maniera diversa anno dopo anno, a partire da una base alleggerita dall'acqua di pomodoro al posto della salsa. Stesso discorso per la tartare o lo stufato: piatti all'apparenza semplicissimi. Ma che riservano ancora molte sorprese per chi li gusta, sensazioni che possono essere diverse da persona a persona come diversa è la storia e la memoria di ognuno. Quella memoria che pesca anche dalla tradizione gastronomica oggetto, sul palco di San Sebastian, della ricerca di Garcia.

 Dani GarciaDani Garcia

Discorsi simile anche per Eneko Atxa (Azurmendi, Larrabetzu) che ha presentato un piatto di cucina basca, il Pastel de cabracho, dimostrando che l'avanguardia passa anche dalle radici culinarie. Serve però uno sguardo capace di scardinare idee preconcette e convinzioni errate: "Non conosciamo che una piccola parte della nostra cucina", commenta Ana Vega, con lui sul palco per spiegare l'origine delle ricette locali come bacalao Club Ranero, il txangurro, la marmitako o kokotxas in salsa verde. Ricette che affondano la loro origine nel passato, ma in grado - ancora oggi - di essere protagoniste della tavola contemporanea.

Ancora una riflessione su radici culinarie e avanguardia spinge Ramon Frexia, del Frexia di Madrid, a riflettere su cosa rappresentino per noi. E parte da una domanda: cosa è la tradizione gastronomica? “È qualcosa che ci appartiene, che abbiamo nel sangue e fa parte del nostro Dna”. Qualcosa che lui ha appreso alla scuola del padre, per questo ancora di più legato alla sua intimità. L'avanguardia gastronomica, invece, è più difficile da definire. È qualcosa di collegato alla creatività, alla sensazione, è provocazione e spinta intellettuale. Ci sono molte risposte. Per lui l'avanguardia è un elemento che vive nell'attualità del suo organismo gastronomico, composto di tanti tasselli diversi per stile e livello, e mentre annuncia l'imminente apertura di un nuovo locale, un tapas bar stavolta, dimostra come l'innovazione sia multiforme, si esprima in modi e percorsi diversi.

Il piatto di Ramon FrexiaIl piatto di Ramon Frexia

Immersione esperienziale

Per Paul Pairet la cucina è immersione in un lungo viaggio multisensoriale. 22 portate in successione; 10 commensali per volta riuniti intorno a un unico tavolo in uno spazio alimentato da videoproiezioni, a creare un contesto che rilancia e amplifica l'ambiente gustativo. Un frammento di spazio-tempo in cui gli ospiti si devono affidare allo chef francese di stanza a Shanghai. Perché quella proposta nel suo Ultraviolet è un un'esperienza complessiva – Psycho test il titolo del suo intervento – in cui i clienti sono accompagnati nelle suggestioni dello chef. Come Candle in the wind, il fantastico baccalà profumato alla lavanda cotto a temperatura controllata in uno scrigno di cera che ne mantiene gli umori. O il pollo cotto un solo minuto nel barattolo di vetro insieme a un legno bruciato e al foie gras che assicura morbidezza e umidità a un piatto altrimenti asciutto. La tecnica è quella usata più di venti anni fa, ma l'avanguardia non significa solo creare qualcosa di nuovo ogni volta, ma far riposare ed evolvere procedure e ricette. È lo stesso per il Truffle brunt soup bread, che ricorda da vicino un pain perdue ed è la rilettura (arricchita dal tartufo) di un gesto, quello con cui si trovava a insaporire un pezzo di pane con la salsa meuniere quando – dopo aver cucinato tanto – non voleva più mettersi ai fornelli per se stesso. Un piatto che sa di casa e di semplicità. Non stupisca di trovarlo in uno dei regni dell'innovazione gastronomica: “è un piatto centrato” spiega “che ha un suo significato nell'ambito del percorso di degustazione”. È inftti l'esperienza complessiva che lo interessa, non il singolo piatto, ma tutto il complesso, incluso ambiente, tempi e orari, elementi fondamentali per Pairet.

Paul PairetPaul Pairet

Il confine tra semplicità e complessità

Prestiamo attenzione alle frontiere, come quelle tra semplicità e complessità, perché lì si annidano nuove strade per cucinare”. Quello di Andoni Luis Aduriz è un racconto che tutto trascina con sé. Visionario, anche quando si tratta di eliminare il superfluo, mette insieme lingua (per provare e godere), semi (quelli ritenuti un difetto cruciale quando trovati nei piatti, e che lui rende protagonisti), tempo (quello necessario per ottenere certi prodotti e che ne determina il valore), tecnica (la sua amata tecnica che consente di estrarre il sapore in modo sempre più preciso e sorprendente: cosa accade quando una cipolla sa davvero di cipolla? Cosa quando la sua texture è oltre l'immaginato?). Esplora simboli e contesti, indaga i dettagli e li traduce in immagini in movimento, quelle dei suoi video sempre più raffinati, perché la sua cucina è narrazione – e lo è in un modo completamente differente da quella di Elena Arzak - è indagine del limite e approfondimento. E guardare dentro e oltre per decostruire e poi ricostruire il panorama di riferimento per ogni cosa. E farlo con la complicità dei suoi clienti, sempre meno spettatori e sempre più protagonisti cui chiede di assumersi la responsabilità dello sperimentare con consapevolezza. Perché la semplicità può arrivare molto lontano ed essere straordinaria.

Il piatto di Andoni Luis AdurizIl piatto di Andoni Luis Aduriz

Il prodotto al centro del piatto

Calamari, percebes, granchio reale. Al centro della ponencia di Oliver Peña (Bar Enigma) c'è la materia prima “che deve essere da 10 per riuscire a farne un piatto da 20”. E propone, sul palco di Gastronomika, l'esperienza in diretta del suo locale di Barcellona in cui i piatti si avvicendano velocemente. Un assaggio (è il caso di dirlo) di quel che si vive al Bar Enigma: gioco gastronomico, sapori e tecnica, a partire dal prodotto. Prodotto che, nel caso del giapponese Yoshihiro Narisawa (Les Creations de Narisawa a Tokyo) fa rima con bosco: la sua è una cucina che non potrebbe fare a meno della naturalità e degli ingredienti della foresta, attualmente sono circa 300 le erbe silvestri che usa. E molte altre sono ancora da scoprire. Questo permette non solo di valorizzarle in cucina mediante tecniche antiche come, per esempio, le immancabili fermentazioni (di cui loda la prospettiva gastronomica come la salubrità), ma di prendersene cura, completando il suo lavoro in cucina impegnandosi in prima persona nel piantare nuovi alberi.

Oliver PeñaOliver Peña

Cambi di prospettiva

Fare avanguardia a partire da una tecnica classica come la cottura nel forno? È possibile, facendo un lavoro attento sulla qualità, selezionando materie prime, alimenti e perfino il legno. Non rimanendo mai cieco di fronte ai dettagli. E cambiano la prospettiva dalla cucina alla sala per prendere in esame l'esperienza del pranzo in ogni suo elemento. Con questa visione, per certi versi innovativa, i tre fratelli Sandovar Mario Diego, Rafael – seduti intorno a un tavolo raccontano la loro storia e le nuove prospettive di Coque, il loro ristorante che da agosto 2017 si è trasferito a Madrid. Hanno voluto, ognuno, inseguire il proprio sogno, facendo in modo che il loro nuovo locale fosse un posto in cui stanno bene non solo i clienti ma anche chi ci lavora. Anche questo è un approccio rivoluzionario. Che non ignora però l'innovazione, con le ricerche sull'idrolisi dell'uovo, su polifenoli, fermentazioni e fibre. Presentano in questa occasione la fattoria a San Lorenzo del Escorial, un luogo dedicato alla produzione sostenibile di carni e ortaggi e un centro di ricerca. Quella che Mario Sandoval sviluppa con un team di quattro persone "abbiamo aperto molte strade nella ricerca che ci stanno dando molte gioie", confermano i suoi fratelli cui riservano il 5% degli incassi del Coque.

www.sansebastiangastronomika.com

 

a cura di Antonella De Santis

foto di apertura: Elena Arzak sul palco 

 

A Parigi il primo hotel goloso di Fauchon. La storica gastronomia francese si lancia nell’ospitalità

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Un palazzo haussmanniano completamente ristrutturato e arredato con i colori della casa, colazioni e servizio in camera gourmet e un Grand Cafè aperto al pubblico affacciato su place de la Madeleine. Così la storica epicerie parigina francese debutta nel mondo dell’hotellerie. Ed è solo l’inizio. 

 

Fauchon dal 1886

A Parigi, che non manca di celebrare a ogni angolo la sua lunga consuetudine col cibo inteso come quintessenza della joie de vivre, Fauchon è tra le più celebrate boutique gastronomiche. Lunghissima la sua storia, il marchio è stato fondato nel 1886 dal fruttivendolo Auguste Fauchon, quando l’epicerie di place de la Madeleine cominciava a servire di prelibatezze e delicatessen la città, alimentando la fama gourmand dei parigini.

E col tempo Fauchon è diventato un brand esclusivo, il Tiffany del cibo come ha voluto ribattezzarlo qualcuno, celebre per le sue confezioni rosa shocking, le vetrine che proteggono file ordinate di praline, il banco gastronomia ricolmo di specialità francesi e produzioni della maison, il servizio (anch’esso esclusivo e proposto a caro prezzo) di caffetteria e bistrot: con 75 negozi in tutto il mondo e solide radici sul mercato asiatico, l’impresa è oggi nelle mani di Michel Ducros, immobiliarista quasi settantenne che nel 1998 ha preso le redini dell’attività storica puntando con decisione all’internazionalizzazione e ora scommette sulla differenziazione dell’offerta, cimentandosi nel campo dell’ospitalità. Il risultato è apprezzabile da poco più di un mese da chi passa davanti al 4 di boulevard de Malerbes, proprio dirimpetto al quartier generale de la Madeleine: qui, dalla completa ristrutturazione di un sontuoso edificio della seconda metà dell’Ottocento è nato il primo hotel a 5 stelle firmato Fauchon, solo l’inizio di una strategia di posizionamento sul mercato dell’hotellerie, battente bandiera The Leading hotels of the world.

L’hotel gourmet

Di fatto, dunque, quella che negli ultimi anni è diventata una multinazionale del cibo made in France si lancia con decisione nel settore dell’ospitalità, concretizzando un progetto sviluppato a partire dal 2016 con l’appoggio di Esprit de France, partner al 49% e fondamentale per conferire il know how necessario all’impresa (l’idea è quella di aprire venti alberghi nel prossimo decennio, da Kyoto a Doha, già in progettazione, fino agli Stati Uniti e al Brasile). Fauchon dal canto suo si ripromette di offrire agli ospiti un soggiorno quanto più gourmet possibile, dalla colazione al servizio in camera, ai cadeau golosi – dalle madeleine al foie gras, passando per la selezione di tè e lo champagne - in vendita nella boutique interna e proposti come benvenuto ai clienti. Ma il nuovissimo hotel – che conta 54 camere e 11 suite e si somma al novero degli alberghi extralusso dell’VIII arrondissement (non distante c’è il mitico Hotel Ritz, recentemente ristrutturato) – annovera anche una caffetteria con terrazza affacciata sulla piazza da 150 posti (il Grand Cafè Fauchon), una sala da pranzo privata riservata agli ospiti della struttura, un giardino del tè. Ci sono voluti 20 milioni di euro per trasformare il sogno in realtà, e tre anni di lavori: un investimento importante, ma coerente con gli obiettivi di crescita di un’azienda che oggi, dopo le difficoltà di una quindicina d’anni fa, può vantare un fatturato di 180 milioni annui.

E per chi non può permettersi il lusso di soggiornare in una struttura tanto esclusiva, l’esperienza al Grand Cafè dell’albergo è invece decisamente accessibile, specie a pranzo grazie alle formule menu a prezzi contenuti, e ha il pregio di riassumere oltre 130 anni di storia della maison. Anche se le cose, da allora, sono decisamente cambiate.

 

Fauchon Hotel – Parigi – boulevard de Malerbes, 4 - https://fr.hotel-fauchon-paris.fr/

 

a cura di Livia Montagnoli

 

La Bigoncia a Genova. Il ristorante chiude dopo 15 anni di attività

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Come funziona una guida gastronomica? E perché può capitare che un ristorante chiuso venga comunque inserito in guida? Dopo aver appreso della chiusura del ristoranteLa Bigoncia a Genova, abbiamo deciso di anticipare i detrattori raccontando il dietro le quinte delle guide gastronomiche.

 

Come funziona una guida gastronomica

Andare al ristorante, pagare il conto, redigere una scheda, estrapolarne una valutazione secondo un determinato parametro, offrire un resoconto globale e fornire un servizio chiaro e pragmatico: è la procedura standard del critico, sorta di cliente “esperto” arruolato per testare sul campo cucina, servizio, cantina e annessi e connessi, e riportare le impressioni in un format più o meno schematico e riconoscibile. Dopodiché, in sede di redazione, avvengono tutte le verifiche del caso compreso l'aggiornamento dati, che consiste nel chiedere a ciascun ristorante giorno di chiusura, periodo di ferie, carte di credito ammesse e molto altro (ma non vi stiamo qui ad annoiare). Capita, però, che durante questo aggiornamento non vengano comunicate da parte del ristoratore anomalie. E capita anche che, nel periodo che va dalla chiusura della guida, all'uscita della stessa in libreria (parliamo di circa un mese e mezzo di intervallo), i ristoranti chiudano. È una cosa che va al di là delle nostre “capacità umane”, ma è anche vero che su più di duemila indirizzi la percentuale di questi casi è davvero ridotta.

Chiude a Genova il ristorante La Bigoncia. La comunicazione su Facebook

Dopo le dovute premesse, torniamo alla (brutta) notizia: dopo 15 anni di attività, chiude a Genova un ristorante che abbiamo in guida da un decennio, La Bigoncia.

Ai nostri clienti, amici e famigliari”. Così esordiscono nella loro pagina Facebook i “Bigonci” Corrado, Giorgia, Francesca e Karina. “Quindici anni fa con un pizzico di follia iniziammo quest’avventura chiamata Bigoncia, con tanti sogni, tanti progetti, tanto entusiasmo. Per primo vorremo ringraziare le nostre famiglie e gli amici strettissimi che ci hanno sempre sostenuto e creduto in noi. Ai nostri clienti: grazie per averci permesso di condividere con voi i vostri momenti di gioia in famiglia. Abbiamo visto fidanzati diventare sposi e poi genitori; abbiamo visto bambini laurearsi e diventare adulti di successo; abbiamo conosciuto persone famose nel mondo che ci hanno dimostrato cosa vuol dire l’umiltà; nonni arrivare fino ai 100 anni, coppie celebrare Nozze d’Oro... addirittura Nozze di Diamante e di questi ultimi ci portiamo la lezione di vita più importante: amarsi e rispettarsi sempre! Un grazie va anche a quei clienti che sono diventati anche veri amici, che hanno gioito con noi ma anche pianto insieme a noi. In questi quindici anni abbiamo voluto solo coccolarvi e farvi sentire come a casa, a volte siamo riusciti a volte no, ma vi possiamo assicurare che in tutto quello che facevamo provavamo a trasmettere cuore, passione e professionalità. Grazie ai ragazzi che hanno lavorato con noi, sopportando la disciplina e lo stress del servizio che ci imponeva Corrado! Da oggi la Bigoncia non c’è più, ma per noi rimarrà sempre un luogo speciale. Grazie di averci insegnato tanto. Arrivederci”.

Corrado CarpiCorrado Carpi

Le motivazioni

Un arrivederci malinconico che ci ha spinto a chiamarli per capire le motivazioni di questa decisione. “Siamo stanchi – si sfoga Karina Cruz - eravamo io e mio marito (Corrado Carpi, ndr), lui si occupava della cucina e io dei vini, della sala e dei clienti. La Bigoncia era la nostra piccola bomboniera, a lei abbiamo dedicato tutta la nostra passione e il nostro amore, ma dopo quindici anni abbiamo preferito dire basta. Troppi problemi, troppo stress, purtroppo con gli anni è diventato sempre più difficile trovare personale di cucina o di sala, ricordo ancora lo scorso 31 dicembre, quando non sono riuscita a trovare personale per la serata, ero disperata. Ora, dopo un po' di pausa, probabilmente faremo i dipendenti, senza pensare al personale, alle tasse, alla burocrazia. Ci rimetteremo in gioco, la voglia c'è tutta”. Chiuso un capitolo, se ne aprirà sicuramente un altro. Arrivederci Karina e Corrado.

 

La Guida Ristoranti d'Italia 2019 del Gambero Rosso verrà presentata il 29 ottobre alle 18.00 presso l'hotel Sheraton di Roma. Per info: 06 55112300

 

a cura di Annalisa Zordan

 

 


Kotaro Noda è il nuovo executive chef di Faro a Tokyo. Resta il Bistrot 64, nella nuova avventura c'è molta Italia

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Da 20 anni in Italia, lo chef adottato da Roma si sente quasi più italiano che giapponese. Ma da qualche giorno (pur mantenendo l'impegno col Bistrot 64, di cui ora è anche socio), ha intrapreso una nuova sfida a Tokyo, alla guida del ristorante Faro per il gruppo Shiseido. Ecco cosa farà. 

 

Shiseido, non solo cosmesi

La storia del gruppo giapponese Shiseido, oggi colosso della cosmesi su scala mondiale, comincia nel 1872 a Ginza, elegante distretto di Tokyo. All'epoca, il farmacista Arinobu Fukuhara fondava la Shiseido Pharmacy conquistando nel giro di pochi decenni il mercato della bellezza nipponico con invenzioni “rivoluzionarie” come fard e fondotinta colorati (in Europa e in Italia il brand arriverà solo alla fine degli anni Sessanta). Ma in pochi sono a conoscenza del pallino del signor Fukuhara per la ristorazione: da più di un secolo, nel quartier generale di Ginza, accanto al palazzo della bellezza Shiseido, un edificio gemello ospita la cittadella del cibo della compagnia, lo Shiseido Parlour, riunendo un insieme di ristoranti originariamente ispirati alla cultura occidentale (celebre, nella prima metà del Novecento, il lavoro sulla gassosa conosciuta in Europa, e riproposta sul mercato giapponese sotto il marchio Shiseido), che col tempo hanno finito per diventare insegne di cucina locale, seppur contaminata da altre culture, proprio perché custodi di antiche ricette. Le mire espansionistiche del gruppo verso Occidente, insomma, all'inizio del XX secolo passarono attraverso il cibo (a proposito dei rapporti tra cosmesi e cibo, tempo fa raccontavamo la storia dei Laboratori Hur), e oggi tra i ristoranti Shiseido spicca il bistellato L'Osier, tavola devota all'alta cucina francese dal 1973. Analogamente, all'interno del Parlour, è nato Faro, ristorante di cucina italiana che da una settimana a questa parte si presenta ai commensali in veste rinnovata: nuovo look, nuovo chef e brigata di sala e cucina pronte a lavorare sul raggiungimento di obiettivi ambiziosi.

Frittelle di mais con lardo di Colonnata e polvere di gobbi fermentati

Kotaro Noda da Faro

Già particolarmente apprezzato in città – Tre Forchette a Tokyo per la guida Top Italian Restaurants, insieme a Luca Fantin e Heinz Beck Tokyo – il cambio al vertice del gruppo Shiseido ha portato la voglia di ripensare il ristorante per attrarre la clientela internazionale che gravita intorno a Ginza. Investimento da due milioni di euro, restyling degli spazi e cucina ridisegnata su indicazione del nuovo executive chef, che alle nostre latitudini non suona affatto come una new entry della ristorazione gourmet. Da Roma a Tokyo - e ritorno, considerando la spola continua tra le due città che lo attende per i prossimi mesi – Kotaro Noda ha il talento e l'esperienza giusta per sostenere l'impresa, lui che, dopo vent'anni trascorsi nel BelPaese, si sente quasi più italiano che giapponese. Dunque, è bene specificarlo, Kotaro non lascia la cucina di Bistrot 64, di cui nel frattempo è diventato anche socio, ma affianca all'impegno romano un nuovo progetto ambizioso: “Sono venuti a cercarmi, c'ho pensato a lungo prima di accettare, l'ho fatto quando ho capito che volevano puntare in alto. E in Giappone porto me stesso, la mia visione di cucina com'è maturata nel tempo, qualcosa che non è etichettabile con troppo rigore. C'è sicuramente molto dell'Italia, ma soprattutto molto di me: se avessi aperto lo stesso ristorante in Italia non sarebbe stato lo stesso”. D'altro canto anche Kotaro sa che il Giappone che ricordava non esiste più: “L'impatto con Tokyo è stato sorprendente. Tutto ciò che ricordavo è cambiato, ora la città sta investendo molto per crescere, tra due anni ospiterà le Olimpiadi, potremmo pensare a Tokyo come alla New York asiatica, arrivano da tutto il continente per visitarla”.

 

Prodotti locali, ispirazione italiana

Un contesto sicuramente stimolante per lavorare sulla qualità, considerando pure quanto le filiere produttive si siano evolute negli ultimi anni: “Un tempo era impensabile lavorare a Tokyo con zucchine, carciofi o ingredienti “occidentali” prodotti localmente. Oggi trovo moltissimi prodotti nelle campagne di tutto il Paese, circa il 95% del nostro approvvigionamento: viaggiano rapide e ci consentono di cambiare menu anche giornalmente, utilizzando i prodotti più freschi. Acquisto qui anche il grano e il riso Carnaroli, mentre dall'Italia faccio arrivare l'olio di oliva e ingredienti pregiati come il tartufo bianco, quand'è disponibile”. Il nuovo Faro è operativo dall'inizio di ottobre, ma il libro della prenotazioni è già sold out per i prossimi due mesi (le prenotazioni vengono aperte ogni bimestre): “Abbiamo pochi giapponesi, non sono abituati a questa cucina. Da noi arriva soprattutto clientela internazionale, e a quella vogliamo puntare”.

L'esperienza deve cominciare dall'ingresso in sala, “ho voluto che i colori e il design ricordassero le atmosfere mediterranee, e che lo stile non fosse eccessivamente lussuoso. L'impatto è molto diverso dal gusto locale, molti ristoranti qui sono al piano strada, si fa largo uso del nero... Noi però siamo al decimo piano, volevo fare della luce un punto di forza, schiarendo lo spazio con tonalità che spaziano dal bianco all'azzurro”.

Torta di fiori ed erbe aromatiche

La cucina di Faro

Ma cosa si mangia, ora, da Faro? “Facciamo una cucina fine dining e divertente, basata sui miei anni in Italia, ma molto diversa da quella del Bistrot. L'unico piatto che ho portato da Roma è il mio spaghetto di patate, perché molti lo chiedono ed è diventato un piatto bandiera. Però i punti di contatto finiscono qui, l'esperienza a Tokyo è completamente diversa”.

Dell'Italia ci sarà la pasta, “abbiamo comprato una trafilatrice per la nostra cucina”, e anche la brigata parla “italiano”: “Ho portato con me un sous chef giapponese con 7 anni di esperienza in Italia, arriva da Milano dalla cucina di Tokuyoshi. E anche la pasticcera, giapponese di nascita, ha lavorato per 20 anni tra l'Enoteca Pinchiorri, Bottura, il Seta al Mandarin Oriental di Milano”. Il direttore di sala, invece, è italiano, ma in questo continuo cambio di fronte, vive e lavora da molti anni a Tokyo.

Ravioli con calamari e kale

Menu unico, degustazione a mano libera dello chef, ma diverso dal pranzo alla cena: sui 60 euro il conto per il primo (e proposta 100% vegana), circa 170 la sera, quando la proposta diventa “super fine dining” riassume Kotaro, che per cena serve in sequenza 13 piatti, la prima parte giocata sui finger food. Una trentina i coperti, mise en place curata nel dettaglio, con piatti di grande impatto scenografico realizzati da artigiani giapponesi.

Kotaro lavora con la tranquillità di chi sa di poter gestire entrambe le situazioni: “Al Bistrot la situazione è stabile, mai mi sarei lanciato in una nuova avventura se non fosse così; quando anche a Tokyo avremo raggiunto un buon equilibrio allora potrò pensare di essere meno presente. Per ora sono in Giappone, ma ogni mese torno in Italia. E questa sfida mi dà molta energia”.

 

Faro – Tokyo Ginza Shiseido Building - https://faro.shiseido.co.jp/en/

 

a cura di Livia Montagnoli

Tre Bicchieri. Parla Giacomo Mattioli di Poderi Mattioli

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Li abbiamo premiati con i Tre Bicchieri per il loro Verdicchio dei Castelli di Jesi Classico Superiore Ylice ’16. Ora intervistiamo Giacomo, che insieme al fratello Giordano gestisce Podere Mattioli.

 

A Serra de' Conti il verdicchio è ovunque, nei filari che rigano il panorama, nella storia agricola, nel cuore e nel futuro delle aziende che qui operano. Una di queste è Podere Mattioli, oggi nelle sapienti mani dei fratelli Giordano e Giacomo, che una decina di anni fa hanno deciso di cambiar rotta rispetto al padre Argilio, diventando produttori di vino. Giacomo ci racconta tutta la storia.

Inquadriamo a fondo l'azienda: voi Mattioli siete due fratelli, come avete ripartito i diversi ruoli?

Mio fratello (Giordano, ndr) è agrotecnico e si occupa dei vigneti, a oggi abbiamo 6 ettari e mezzo di terreni, mentre io sono enologo e sto in cantina.

Conciliare i rispettivi ruoli è difficile?

Se ognuno si occupa del proprio ruolo, no! Al di là delle battute, i nostri ruoli coesistono tranquillamente e nella fase di vendemmia si fondono per dare il massimo risultato.

La vostra cantina è recentissima eppure le foto alle pareti e l'età de vigneti parla di una storia cinquantennale. Ce la narrate?

Tutto è iniziato con nostro nonno Armando che fino agli anni '60 aveva dei vigneti e una cantina dove produceva vino per la famiglia (erano in diciassette!) e i vicini. Dopodiché nostro padre Argilio ha acquisito l'azienda focalizzandosi sulla parte agricola, allargando la produzione anche ai cereali.

In questo periodo vostro padre vendeva la propria uva ad altre aziende, fino a che non avete deciso di compiere il gran passo: diventare produttori. Cosa vi ha spinto, nel 2006, a prendere questa decisione?

Volevamo valorizzare i nostri vigneti, poi era un periodo storico in cui non aveva più senso vendere le uve e basta.

Come l'ha presa vostro padre?

Bene. Certo, ogni tanto era scettico su alcune nostre scelte, come quella di reimpiantare il verdicchio in una zona per lui anomala, perché molto alta e su di un terreno prevalentemente sabbioso.

Qual era il motivo di questo scetticismo?

Un punto di vista completamente diverso: lui era orientato alla quantità, noi fin dall'inizio ci siamo posti come obiettivo la qualità.

Parola d'ordine: qualità. Che vi ha spinto a puntare fin da subito sul biologico.

È stata una scelta logica, essendo a trecento metri sul livello del mare e in una zona ventilata, non c'era bisogno di trattamenti chimici.

La cantina di Poderi Mattioli

Poi c'è stata la costruzione di una moderna cantina completamente immersa nei vigneti.

Ha rappresentato il naturale completamento di un progetto finalizzato a preservare ed esaltare il valore delle uve che possono essere così lavorate a pochi minuti dalla loro raccolta. Partire dalla terra per arrivare al grappolo d’uva ci permette di produrre vini di qualità con una forte connotazione territoriale.

Qual è il segreto del Classico Superiore Ylice, con il quale vi siete aggiudicati i Tre Bicchieri?

Abbiamo la fortuna di conciliare i pregi dei vini delle due sponde del fiume Esino. Il nostro Classico Superiore Ylice ha infatti l'eleganza e l'aromaticità dei vini della sponda sinistra e la freschezza di quelli della sponda destra. Poi, per enfatizzare queste caratteristiche, facciamo una raccolta precoce (anche perché nel terreno sabbioso l'uva matura prima).

Quali sono le differenze sostanziali tra i due vini di punta (Ylice e Lauro)?

Rispetto all'Ylice, le uve del Lauro sono in un terreno argilloso ed esposto ad ovest, quindi maturano una ventina di giorni dopo, il che si rispecchia nel grado alcolico e nell'acidità del vino.

Abbiamo avuto saggio della vostra buona mano anche come spumantisti. Vi sono novità in serbo per il futuro?

Al di là delle sperimentazioni in cantina, non andremo a incrementare la produzione, che ad oggi si aggira sulle 2mila bottiglie, tutte Metodo Classico 50 mesi sui lieviti e a dosaggio zero.

Non è stata una vostra invenzione.

Esatto, nella cantina di nostro nonno abbiamo trovate delle bottiglie chiuse con tappo a corona e contenenti del vino frizzante, evidentemente anche lui aveva fatto delle prove.

Si fa un gran parlare di Verdicchio; probabilmente è il bianco italiano che riscuote più consensi tra la critica. Tutto questo successo si ripercuote effettivamente sulle vendite? Come è cambiato il consumo di Verdicchio nel tempo?

La nostra prima annata di produzione risale al 2010, dunque non abbiamo uno storico, però, è un dato certo che sempre più produttori di Verdicchio stiano valorizzando il vitigno.

Una valorizzazione che è stata apprezzata dai consumatori.

Ultimamente stiamo ricevendo sempre più richieste da parte di distributori nazionali.

Cosa succede sui mercati esteri?

Siamo presenti in Belgio, Olanda, Svizzera, Francia e America, ma il nostro principale mercato rimane l'Italia.

 

Poderi Mattioli - Serra De' conti (AN) - 0731 878676 - poderimattioli.it

 

a cura di Annalisa Zordan

 

 

 

 

Parabere Gourmet City Guide. Gli indirizzi al femminile del cibo in 10 città del mondo

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Cinque anni fa nasceva a Bilbao la piattaforma Parabere: ideata da Maria Canabal, l'associazione ha sin dall'inizio l'obiettivo di illuminare il mondo al femminile del cibo, rivendicando pari opportunità di genere. Così dopo il forum annuale è nato un database di servizio, e ora arrivano le guide gastronomiche cittadine che riuniscono gli indirizzi golosi condotti da donne di talento. 

 

Le donne di Parabere

Da cinque anni il Parabere Forum accende i riflettori sul mondo dell'enogastronomia e della ristorazione al femminile, riunendo le donne del cibo in occasione del congresso annuale ideato da Maria Canabal (prossima edizione in programma a Oslo, all'inizio di marzo 2019, il 3 e 4 per “cambiare le regole del gioco”). Ma l'obiettivo del progetto è stato sin dall'inizio quello di costruire un network a sostegno delle donne che in vario modo contribuiscono all'evoluzione del settore, e spesso in condizioni di disparità di genere: produttrici, ricercatrici, imprenditrici, chef, pasticcere, antropologhe, tutte chiamate a condividere la propria esperienza, far sentire la propria voce e rivendicare il ruolo che gli spetta in un mondo ancora prevalentemente appannaggio maschile (una constatazione che è valida specialmente per il comparto dell'alta ristorazione). Dunque il primo traguardo raggiunto da Parabere negli ultimi anni è quello di aver stimolato un sentimento comune fondato su valori condivisi, perché è l'unione che fa la differenza. Sulle sinergie nate tra le partecipanti al forum si fondano numerosi progetti al femminile promossi in tutto il mondo da quando il movimento è nato. Con lo stesso scopo è stato creato il database che riunisce 5000 donne del settore di 40 Paesi del mondo, perché chiunque possa facilmente conoscere la loro storia, apprezzarle per quello che fanno e magari coinvolgerle in eventi e progetti di settore.

 

Parabere Gourmet City Guide

L'ultima idea di Maria si chiama Parabere Gourmet City Guide: un'app scaricabile gratuitamente che riunisce ristoranti e indirizzi gastronomici condotti da donne. Una sorta di guida gastronomica interattiva en rose disponibile al momento (l'app è stata rilasciata nel mese di settembre, disponibile su Google Play e iTunes) per 10 città del mondo: Bangkok, Berlino, Copenhagen, Galway, Istanbul, Città del Messico, Montreal, New York, Parigi e Sidney. E dunque quel che c'è da aspettarsi, per ogni città coinvolta, è un elenco ragionato di suggerimenti per godere della scena gastronomica locale con un occhio di riguardo ai progetti al femminile che si distinguono per originalità e qualità della proposta, tra caffetterie, ristoranti fine dining, food truck, bakery, pasticcerie, botteghe artigianali, cocktail bar. Il grosso del lavoro di selezione si fonda proprio sul database popolato negli ultimi anni attraverso il network di Parabere; facilmente navigabile, l'app è suddivisa in categorie tematiche, e ogni indirizzo rimanda a una breve scheda descrittiva con recapiti e geolocalizzazione che facilita l'orientamento di chi la consulta. Ogni guida sarà periodicamente aggiornata. “Questo è un progetto nato per appoggiare il talento e l'imprenditoria femminile, che rende pubblici i dati raccolti a partire dal 2015. Le prossime città in preparazione sono Oslo e Melbourne, ma l'obiettivo è quello di aggiungerne sempre di più”, spiega Maria Canabal.

 

RestaurantHER. Le donne della ristorazione negli Stati Uniti

Ricordiamo a tal proposito che dall'estate scorsa anche la scena gastronomica statunitense ha visto nascere un nuovo strumento di catalogazione delle imprese di ristorazione al femminile: RestaurantHER è la piattaforma che fornisce una mappa interattiva con più di 25mila indirizzi guidati da donne o legati al talento di chef e brigate a prevalenza femminile. L'iniziativa è stata finanziata dal gruppo GrubHub e promossa dall'organizzazione Women Chefs & Restaurateurs, che da 25 anni è impegnata a sostenere le donne che lavorano nel settore. L'idea è quella di incoraggiare sempre più di loro a intraprendere una carriera nel mondo della ristorazione per ribaltare la situazione che negli Stati Uniti le vede retribuite in media il 28% in meno dei loro colleghi. Proprio la possibilità di apprezzare sulla mappa il gran numero di attività guidate da donne che ce l'hanno fatta dovrebbe, nelle intenzioni di chi l'ha pensata, rappresentare la realtà di un'industria che conta ben più di quel che si immagini sul contributo femminile.

 

L'app di Parabere: https://play.google.com/store/apps/details?id=com.parabere.gluttonomy&hl=it

https://restauranther.com

 

a cura di Livia Montagnoli

Anteprima Tre Bicchieri 2019. I migliori vini della Campania

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Le anticipazioni dei premiati dalla Guida Vini d'Italia 2019 del Gambero Rosso ci portano i Campania.

 

Se per i nostri antenati la Campania era “felix”, per i moderni appassionati di gastronomia e di vino non possiamo che usare lo stesso aggettivo. Le nostre degustazioni anche quest’anno ci hanno dato risultati eccellenti: la regione è pervasa da un clima di entusiasmo e di creatività che è solo destinato a crescere in futuro. La Campania del vino è un grande laboratorio a cielo aperto, dove vengono coltivati vitigni che qui albergano da millenni o magari sono stati riscoperti da poco, è un territorio con microclimi che dalle alture dell’Avellinese degradano fino alle vigne terrazzate della Costiera e del Cilento per arrivare sulle isole di Capri e di Ischia. Ben 23 sono le etichette premiate, anche se altri 50 vini hanno partecipato alle nostre finali e si sono classificati a un’incollatura dai premiati.

Se sommiamo i tre Taurasi, quello di Caggiano, quello di Feudi di San Gregorio e quello Contrade di Taurasi con i due Greco di Tufo, quello di Miniere e quello di Pietracupa con i tre Fiano d’Avellino (Tenuta del Meriggio, I Favati e Rocca del Principe) con l’Aglianico di Donnachiara arriviamo a ben 10 vini premiati per il comprensorio storicamente più importante della regione, l’Irpinia.Il Beneventano incalza, e raccoglie sempre maggiori consensi di mercato. Noi, oltre ai molti vini finalisti che vi raccomandiamo, abbiamo confermato i Tre Bicchieri a tre specialisti della Falanghina, La Guardiense, Terre Stregate e Fontanavecchia, cui si somma lo splendido Piedirosso di Mustilli, che realizza anche Falanghina di livello assoluto. Ma mentre ci arrivano segnali di ripresa confortanti da Lettere e Gragnano (Asprinio: chi l’ha visto?), non possiamo non notare la crescita del panorama costiero, che sia la Costa d’Amalfi (premiati Marisa Cuomo e Sammarco) o il Cilento, con gli ottimi vini di San Salvatore e quelli dal taglio artigianale di Casebianche. Ad Ischia a tenere alto il blasone dell’isola ci pensa Tommasone, con una straordinaria Biancolella. Chiudiamo la rassegna con i Campi Flegrei, dove la Falanghina di Astroni si conferma bianco di razza, e con il Casertano, dove due vignaioli appassionati come Alois e Nanni Copè lasciano intuire che oltre alle ottime etichette che premiamo c’è un potenziale che ancora può esprimersi. Chiudiamo la rassegna con un grande vino in una delle sue più felici espressioni, il Montevetrano ’16 di Silvia Imparato. Un panorama affascinante che nella sua complessità trova la chiave di lettura.

 

Aglianico ’16 - Donnachiara

Caiatì Pallagrello Bianco ’16 - Alois

Campi Flegrei Falanghina V. Astroni ’15 - Cantine Astroni

Costa d’Amalfi Furore Bianco Fiorduva ’17 - Marisa Cuomo

Costa d’Amalfi Ravello Bianco Selva delle Monache ’17 - Ettore Sammarco

Falanghina del Sannio Janare Senete ’17 - La Guardiense

Falanghina del Sannio Svelato ’17 - Terre Stregate

Fiano di Avellino ’17 - Tenuta del Meriggio

Fiano di Avellino Pietramara ’17 - I Favati

Fiano di Avellino Tognano ’15 - Rocca del Principe

Fiano di Avellino Ventidue ’16 - Villa Raiano

Greco di Tufo ’17 - Pietracupa

Greco di Tufo Miniere ’16 - Cantine dell’Angelo

Ischia Biancolella ’17 - La Pietra di Tommasone

Montevetrano ’16 - Montevetrano

Pashka’ ’17 - Casebianche

Pian di Stio ’17 - San Salvatore 1988

Sabbie di Sopra il Bosco ’16 - Nanni Copè

Sannio Sant’Agata dei Goti Piedirosso Artus ’16 - Mustilli

Sannio Taburno Falanghina Libero ’07 - Fontanavecchia

Taurasi Piano di Montevergine Ris. ’13 - Feudi di San Gregorio

Taurasi V. Macchia dei Goti ’14 - Antonio Caggiano

Taurasi Vigne d’Alto ’12 - Contrade di Taurasi

 

> Partecipa alla Grande Degustazione Tre Bicchieri 2019

 

Gastronomika 2018 report. Secondo giorno. Virgilio Martinez, Angel Leon, Joan Roca, Josean Alija

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Cronache da Gastronomika 2018. Cosa è successo nella seconda giornata del famoso congresso di San Sebastian.

 

Cucinare il paesaggio

Raccontare l'orizzonte gustativo a partire dal paesaggio circostante è uno dei concetti basilari della cucina. E nel caso di Virgilio Martinez il panorama è il Perù, quello che scopre nelle sue indagini e fa conoscere nel suo Central di Lima. Ora che si è trasferito nella nuova sede di Barranco, il suo progetto non solo gastronomico ma anche culturale diventa sempre più organico. L'obiettivo è sempre lo stesso: mettere a fuoco la biodiversità, la vastità di panorami e visioni che dal mare arriva fino in cima alle Ande. Così, nel Central, i piatti si organizzano proprio in base alle altitudini, a tracciare ognuno una narrazione geogastronomica. E lo fa con il marchio dell'avanguardia sudamericana, che passa per l'innovazione ma torna alle radici e al territorio. Che al Central esprime con cose come la pelle di piragna servita come snack. Oggi il lavoro di Martinez si moltiplica con il Mil di Cusco, un'ora di viaggio dalla capitale peruviana e quasi 4mila metri sul livello del mare. Centro di ricerca sulla cucina locale, cui è dedicato il 70% dello spazio, e ristorante. Qui la proposta si fa ancora di più centrata attorno al prodotto e alle tecniche ancestrali di cottura, in piena collaborazione con le comunità di cuochi e contadini locali, quelli che in quel territorio incredibile sono custodi di materie prime sconosciute altrove. Come le varietà di patate: “se ne usano abitualmente una decina, ma ne esistono circa 3600”, con colori, forme, dimensioni e textures differenti. Nel Mil il concetto gastronomico è tutto dentro questo universo di forme e sapori. A questi locali si aggiunge anche il ristorante Kjolle, il frutto del “divorzio gastronomico” tra lui e la moglie Pia Leon (fresca di premio come Female Best Chef 2018 dell'America Latina), dove il passo è ancora diverso. E intanto, mentre parla di persone, tradizioni, biodiversità, ecosistemi, altitudini tiene viva l'attenzione sul suo lavoro: “a novembre sarò in Amazzonia per un progetto”, annuncia.

Angel Leon sul palco di Gastronomika 2018Angel Leon

Immaginate di osservare il mondo attraverso una lente che ne trasforma i contorni, e da lì di guardare la cucina e ogni suo dettaglio. Così Angel Leon, come Alice attraverso lo specchio, ci mostra un paesaggio dove a ogni elemento che conosciamo sulla terra ne corrisponde uno subacqueo. Pomodori, capperi, lattuga, asparagi, zafferano: ogni alimento scopre il suo equivalente nel mondo marino (compreso tra le spiagge e gli abissi) con sorprendente puntualità. E con caparbietà Leon li studia uno a uno. Non c'è da stupirsi: nel suo Aponiente di Cadice, Leon ha rivelato, tassello dopo tassello, il mondo sommerso portando alla ribalta elementi (e alimenti) mai visti prima, come nel caso della biomassa luminosa. Stavolta presenta un petto di pollo di mare: tomato (o butterfish) a fare la carne – “perché è un pesce insipido come il pollo” - la pelle della murena (con la cui polpa prepara anche un civet), scolorita mediante l'azione dell'acqua salata del mare e resa croccantissima, verdure di mare a completare il piatto. Marino anche un incredibile botillo, sorta di soppressata preparata con il tonno. E la continua ricerca su un organismo ancora tutto da scoprire: il mare.

Il piatto di Angel Leon Il piatto di Angel Leon 

20 anni di avanguardia

L'edizione 2018 di Gastronomika sarà ricordata come quella del ventennale. Inevitabili le cerimonie, e ancora di più i momenti di riflessione su quanto fatto finora. Come nel caso di Josean Alija (Nerua, Bilbao), che ha raccontato i venti anni della sua cucina attraverso le foto, bellissime, dei piatti. E insieme alle immagini, idee e concetti a definire i punti cardine di un lavoro che lo vede sempre più convinto sostenitore di uno sguardo complessivo in cui tecnica, servizio, efficienza collaborano alla riuscita del ristorante. I suoi piatti con gli anni sono diventati più essenziali, mescolano ricordi, tecnica, piacere, provocazione, delicatezza, tradizione. Partono da un'idea e seguono strade diverse. C'è il lavoro sui vegetali e i legumi, o quello sulle fermentazioni, con il natto di cecia fare da emblema di una cucina che divide: si ama o si odia. E una soave mousse di rapa e asparagi bianchi a suggellare un intervento che vede salire, sul palco, i suoi storici collaboratori Chele González (Gallery Vask, Manila, Filippine), Paco Morales (Noor, Cordova) e David García (Corral de la Morería, Madrid).

Il piatto di Paco MoralesMousse di rapa e asparagi bianchi

Per i fratelli Roca questi sono stati 20 anni di idee e conferenze sorprendenti. Le ripropone in sequenza Joan Roca, a raccontare l'universo del Celler e la sua insopprimibile spinta creativa. Che lavora per idee e relazioni, scoperte e applicazioni. Si tratti della distillazione o della cottura ad alta pressione, dei macchinari, dei piatti nati dalla scomposizione dei profumi, delle cene esperienziali. Nel Celler di Girona è passata la rivoluzione, e sul palco di San Sebastian la sua rappresentazione, con una timeline che lascia a bocca aperta per ritmo e forza immaginativa. Oggi racconta di un metodo creativo fatto di connessioni, come quelle nate da un colore (l'insalata rossa), da un vino nel suo insieme di uva e di paesaggio (entrambi raccontati nel piatto), da un libro (La Fisiologia del gusto di Brillat-Savarin dove si parla di ambra grigia che qui è parte di un lavoro sul calamaro), un panorama (nel dolce Pineda). È un quadro sinottico semplice ed efficace. Merito di una conoscenza condivisa, di un dipartimento di ricerca e sviluppo che preme forte sull'acceleratore (a capo c'è Hoi, una delle 44 donne su un totale di 95 dipendenti), del valore assoluto di questa spinta rinnovatrice, che è capace di avere riflessi sulla società, l'ambiente, le persone, perché "l'avanguardia sarà umanistica o non sarà".

Joan RocaJoan Roca

Ma di cosa si parla quando si parla di avanguardia gastronomica spagnola oggi? E quale è la figura dello chef nel 2018? A rispondere cinque protagonisti di questa avanguardia: i giornalisti José Carlos Capel, Rafael García Santos Benjamín Lana, e gli chef Quique Dacosta (Quique Dacosta, Dènia) e Joan Roca (El Celler de Can Roca, Girona). È una retrospettiva che va dalla Nouvelle Cuisine alla Nuova Cucina Basca, dal congresso di Vittoria del 1984 all'arrivo di Ferran Adrià (che nel 1997 ha significativamente separato la cucina dal laboratorio in una presa di coscienza del proprio lavoro, che ha trovato proprio nella consapevolezza dei metodi e meccanismi della cucina l'elemento che ha trasformato certa ristorazione), dalla provocazione al ruolo della critica, e si apre alle prospettive future ("non dimentichiamo che il futuro è femminile" dice José Carlos Capel). Quando è nato il congresso di San Sebastian (all'epoca Lo Mejor de la Gastronomia) a opera di Rafael García Santos, i tempi erano maturi per raccontare il momento d'oro che viveva la cucina spagnola, in cui nascevano nuovi concetti, tecniche e prospettive e si diffondevano grazie a uno spirito di gruppo che consentiva di condividere obiettivi e conoscenze. Si è dovuto trovare il modo per esprimere questo sul palco (una cosa del tutto nuova, nata con i congressi): “senza raccontare tutto ma solo un frammento di lavoro per volta”riflette Dacosta. E lì si sono definite le nuove tendenze. La cosa sorprendente è stata la risposta della società che ha accolto e partecipato a questa rivoluzione. Cosa è rimasto di quella rincorsa? C'è una minore spinta propulsiva, colpa forse anche di una “critica che non critica, perché ci hanno negato l'accesso ai loro ristoranti quando abbiamo detto che qualcosa non ci piaceva. Così si è smesso di sviluppare uno spirito critico, e” puntualizza Rafael García Santos “la stessa cosa è già accaduta in Francia”. Mentre un tempo uno come Rafael spingeva gli chef a essere sempre vigili e migliorare ogni giorno, costantemente sotto esame. Oggi che la cucina non è più così provocatoria e la rivoluzione è consolidata, è rimasto un gruppo di persone che lavora sodo, che ha superato la crisi “senza perdere i principi e senza smettere di creare" dice Dacosta, e che può ancora dire la sua “perché”, commenta Joan Roca: "anche se il paradigma è cambiato e la cucina non è più così di nicchia; gli chef non hanno fermato le macchine”, hanno sviluppato team che permettono loro di andare avanti con la ricerca, ed essere più impegnati, perché “abbiamo molto da dire". Per esempio sulla sostenibilità e un approccio più etico.

Il piatto di Pedro SubijanaIl piatto di Pedro Subijana

Cucina di prodotto

Partire da un prodotto per vederne le varie applicazioni è una delle istanze della ricerca gastronomica. Juan Carlos Padrón Jonathan Padrón (El rincón de Juan Carlos, Tenerife) lavorano sull'avocado, di cui indagano le potenzialità dolci e salate, Pedro Subijana (Akelarre, San Sebastián) sul latte di capra, presentato in cinque diverse applicazioni, e l'abalone, mollusco dalla conchiglia molto bella impiegato raramente in cucina. Insieme a lui Enrique Fleischmann - storico collaboratore oggi al ristorante Bailara (Bidania-Goiatz) e Toxko Getaria (Getaria) - ha spiegato come migliorare il sapore di alcuni alimenti in modo naturale, mediante prodotti come la salsa di ostriche o il shinkinbushi, ovvero katsuobushi (ingrediente feticcio che compare a più riprese a San Sebastian) preparato a partire da funghi comuni, in una mescolanza di materie prime e tecniche di diverse origini. Allo stesso modo di quanto fa Paco Pérez (Miramar, Llançà) con il suo wasoli, un aioli a base di wasabi. Ancora di prodotto parla José Andrés (diversi ristoranti tra cui Minibar, Washington, e Somni a Los Angeles) quando si chiede se si può fare una cucina spagnola senza la materia prima spagnola. La risposta è no. Così richiama alla necessità di valorizzare e difendere tanto il prodotto quanto le ricette e le tradizioni iberiche, per esempio l'ensaimada, dolce tipico di Maiorca che – riflette – dovrebbe essere diffuso come i croissant. L'occasione è la presentazione dei suoi progetti, a partire da Somni, ristorante di gastronomico per 10 commensali dove reinventa i classici sapori spagnoli, come il pane e pomodoro realizzato su una base di meringa con grasso di prosciutto iberico. Continuando con Jaleo, prossimo tassello del suo universo ristorativo che porta la cucina spagnola nel mondo: 600 posti dentro Disney World, con ricette di tutte le regioni spagnole. E infine il progetto di solidarietà con Porto Rico, esempio di come “la nostra professione può cambiare il mondo". In questo lungo excursus tra concetti, materie prime e tecniche, c'è un prodotto ricorrente, che se pur in mille varianti ha acceso l'attenzione di diversi cuochi: il garum, che dal passato lontano arriva fino ai giorni nostri complice l'interesse per le fermentazioni e per la profondità di sapori che apre. Ne parlano Kiko Moya Redrado (L'Escaleta, Cocentaina) e Alberto Ferruz (BonAmb, Jávea) a rappresentare - con Ricard Camarena e – la nuova cucina levantina costa est “fatta di sale, luce e tempo", Albert Raurich (Dos Pebrots e Dos Palillos Barcelona) che ne offre un'originale versione di tonno. Ma compare anche solo come riferimento nella maggior parte delle conferenze. A riprova che l'avanguardia è un'attitudine che sa elaborare saperi, storie e ingredienti dal passato e dal presente per proiettarli verso il futuro.

www.sansebastiangastronomika.com

 

a cura di Antonella De Santis

 

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