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Tre Bicchieri. Parla Luigi Cataldi Madonna dell'azienda Cataldi Madonna

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L'intervista a Luigi Cataldi Madonna che ha ottenuto i Tre Bicchieri per il suo Cerasuolo Piè delle Vigne e punta a valorizzare i vini rosati, a cominciare dal nome: “Chiamiamoli vini rosa”.

 

E se i filosofi si mettessero a fare vino? Certamente la loro anima razionale (quella che lo stesso Platone vedeva adatta addirittura a governare) e la loro saggezza unita al concreto, sono qualità che ben si applicano al mondo del vino. Ebbene, in Abruzzo, in un piccolo paese di nome Carrufo, c'è un professore universitario di filosofia - “non chiamatemi filosofo: i nomi sono importanti, diamo loro il peso che meritano” - che il vino lo pensa, ripensa, lo fa, gli parla, anche se non lo beve più. Ex alcolista pentito, ex parlamentare di sinistra, lui è (tutt'oggi) Luigi Cataldi Madonna, rappresentante di terza generazione dell'omonima azienda, composta da più di 31 ettari di vitigni autoctoni e tradizionali, quali montepulciano, pecorino e trebbiano, tutti situati a 440 metri di altitudine. Una realtà che svolge gran parte del lavoro in campagna, per garantire l'equilibrio delle viti, senza trascurare le attività in cantina, dove il vino diventa grintoso, sapido e fresco; perfetto portavoce delle tanto amate uve. Uve delle quali Luigi esamina e studia ogni aspetto, anche grazie al suo spirito critico. Con lui abbiamo fatto una piacevole chiacchierata di certo non scevra di divagazioni filosofiche, se così si possono chiamare.

Da una parte il lavoro scelto (il professore di filosofia), dall'altra il lavoro ereditato: come si conciliano l'anima del filosofo e quella del produttore di vino?

Per prima cosa sono professore di filosofia, non filosofo: i nomi sono importanti, diamo loro il peso che meritano! Detto questo, il professore universitario ha parecchio tempo libero e ovviamente è abituato a pensare e ragionare, e questo si riflette sulle cose che fa: dietro ogni vino mio ci sono un concetto e un progetto, non faccio vino perché è richiesto.

A proposito dell'importanza dei nomi, secondo lei è corretto parlare di “filosofia del vino”?

La filosofia ha a che fare con tutto e con niente. Occhio, però, a non abusarne.

Torniamo al tema vino. Quali sono le principali caratteristiche del territorio di Ofena, dove nasce la sua azienda?

Il Forno d’Abruzzo, così viene chiamato il piccolo altopiano a forma di anfiteatro nel cui epicentro si trova Ofena, è molto particolare perché giace sotto il Calderone, l’unico ghiacciaio degli Appennini e il più a sud del nostro emisfero: insomma un forno con annesso frigorifero. Così, l’aria che spira dalla montagna rinfresca le giornate estive come se fosse in azione un gigantesco condizionatore naturale. Un fenomeno naturale che caratterizza anche i nostri vini.

Parliamo anche della viticoltura nell'aquilano: passato, presente e futuro

In passato la provincia dell’Aquila in generale, e la zona di Ofena in particolare, erano le maggiori produttrici di vino della regione fino alla seconda guerra mondiale (come documentano gli annuari vitivinicoli del tempo). Solo in seguito il testimone della quantità è passato alle terre più facilmente coltivabili delle province costiere. Però vedo un futuro roseo anche grazie al cambiamento climatico che sta portando alcune aziende a spostarsi in quelle che erano zone fredde e difficilmente coltivabili.

Il Pecorino ha rappresentato per lei un vino fondamentale

Nel 1990 andai alla Rauscedo per assaggiare in microvinificazione il pecorino, un vitigno riscoperto sette anni prima dall’amico Vincenzo Aquilano a Vittorito, un paese ad appena venti chilometri da Ofena. Il suggerimento di impiantarlo stuzzicava la mia curiosità proprio nel momento in cui cercavo un vitigno abruzzese alternativo al Trebbiano. È stato un amore a prima vista sia per quanto riguarda il vino (un’esplosione di acidità indecifrabile e però subito intrigante), sia per il nome evocativo e peculiare.

Proprio sul nome ha puntato tutto fin dal primo momento

Mi attivai immediatamente per ottenere una IGT che consentisse l’uso del nome in etichetta e così nacque l’IGT “Alto Tirino”, oggi travasata nella IGT “Terre aquilane” (più estesa, ma comunque poco affollata). Con l'annata 1996 uscì, per la prima volta, una bottiglia denominata Pecorino. Per me, in quegli anni, usare il nome Pecorino era anche una forma di protesta contro l’eccessiva enfasi, la forzata nobilitazione di un prodotto, il vino, che stava allontanando le persone. Sono sempre stato un provocatore, nonché un ex della sinistra parlamentare, da sempre convinto che il vino debba avere un ruolo sociale, nonostante io sia anche un ex alcolista pentito!

Lei è stato tra i primi a vinificare il Pecorino in purezza; come le è venuta l'intuizione?

Il Pecorino Frontone deriva esclusivamente dal primo impianto del 1990. Il vigneto è di 8.000 mq con 2000 ceppi. Dopo diverse disavventure agronomiche, dovute in gran parte alla mia ignoranza del vitigno, sono riuscito a imbottigliare l’annata 1996 con 9 g/L di acidità: una caratteristica piacevole per me, ma allora non gradita a molti. Un vino nuovo, spigoloso, quasi alieno in un'epoca in cui andava di moda la rotondità.

Troppo avanti per il periodo storico?

Forse, e l’altalena dei giudizi mi rese insicuro, tanto da cominciare a fare prove diverse in campagna e in cantina: vendemmia tarda, vendemmia tardiva, fermentazione in legno, fermentazione malolattica. Con poco successo. I dubbi sulla scelta del vitigno aumentavano. Nell’annata 2005 insieme all'enologo Lorenzo Landi lavorammo su due ipotesi che poi si sono rivelate valide. Il pecorino è un vitigno aromatico, ma la cui aromaticità è facilmente volatilizzabile. Ed è un vino geneticamente acido. Se non si rispettano queste due caratteristiche il risultato può essere un buon vino, ma non un Pecorino: cercare di attenuarne l’acidità significa snaturarlo.

Il pecorino è marchigiano o abruzzese?

Chissà se prima o poi si troverà una risposta, io nel frattempo sto facendo una ricerca genetica.

Calici con vino rosato

Il Gambero Rosso ha premiato per il secondo anno consecutivo il suo Cerasuolo Piè delle Vigne: come procede la valorizzazione del Cerasuolo e dei rosati italiani in generale?

A dire il vero il Gambero premiò il Piè delle Vigne 2004 come miglior rosato italiano già nel 2006, poi ci è tornato dopo tanti anni. Chiaramente questi riconoscimenti fanno sempre piacere e fa ancora più piacere vedere i colleghi percorrere (bene) la via del rosa.

Il rosa?

Io parlo di vino rosa. Se ci pensate, rosato è il participio passato di un verbo che non esiste.

E rosè?

È un termine anacronistico, lo usavano i nostri nonni quando al posto di “cappotto” o “lampada” dicevano “paltò” e “abat jour”. Perché si parla di bianchi, di rossi e mai di rosa?

Ci ha convinti. Come procede la valorizzazione dei rosa in Italia?

Nonostante si stiano facendo enormi passi avanti - non a caso sono ancora promotore di cinque consorzi italiani che a ridosso di Vinitaly hanno firmato un'intesa sul rosa(to) - l'italiano non ha capito il mondo del rosa. Ho scoperto, leggendo la tesi di laurea di mia figlia (Giulia Cataldi Madonna, ndr) che a fronte del 32% dei francesi che bevono il rosa, solo il 6% di italiani lo apprezzano. Eppure, fino a fine 700, esisteva solo il vino rosa ottenuto semplicemente pigiando le uve a bacca rossa, anche perché il rosso è un vino decisamente più tecnologico.

Secondo lei qual è il motivo?

Uno dei grandi nemici del rosa è la disinformazione. Basta pensare che la tecnica più utilizzata per ottenere il vino rosa in Italia è quella del salasso, ovvero prelevando una certa quantità di mosto dalla vasca di macerazione nella quale si sta preparando un vino rosso.

Dove sta il problema?

La destinazione delle uve è il rosso, invece per fare il rosa bisogna cercare uve più fresche e meno mature. Il rosa, dunque, non può essere trattato come un sottoprodotto del rosso, non può ridursi a essere un rosso scolorito.

Ci ricorda un po' la storia del burro in Italia, trattato come sotto prodotto del formaggio. Dunque la tecnica del salasso sarebbe da bandire del tutto?

No, il salasso è molto utile ma soltanto per il rosso e solo nelle annate piovose perché serve a riequilibrare la proporzione naturale tra polpa e buccia.

Che tecnica usa lei per i suoi rosa?

Per il Cataldino vinifico in bianco ma con le uve rosse. Mentre per il Pièdelle Vigne ho rivisitato una vecchia tecnica abruzzese (che ho esteso anche al Cerasuolo): si procedeva con la vinificazione del montepulciano in bianco e affianco si metteva un mastellone dove si maceravano le bucce con una piccola parte di mosto; dopo 4-5 giorni si aggiungeva questo mosto rosso al mosto bianco in fermentazione. Le proporzioni del taglio erano assolutamente soggettive, così ognuno lo faceva del colore che voleva. Forse è lo spettro dei colori del rosa che mi ha fatto innamorare del vino (rosa).

A proposito dell'importanza dei nomi: la tecnica come si chiama?

Della svacata.

E la sua rivisitazione in che consiste?

La rivisitazione si è basata sulla supposizione che questo taglio dovesse avvenire durante la fermentazione per essere più efficace e per dare un prodotto più interessante. Per tre anni sono state sperimentate tre modalità di taglio: all’inizio, a metà e alla fine, tenendo costante la parte in rosso inoculata che veniva aggiunta a circa 10° di babo. Ognuno dei tre anni l’inoculo della parte rossa a metà della fermentazione della parte bianca è risultata di gran lunga superiore.

Così è nato il Piè delle Vigne. E come l'ha chiamata questa tecnica?

Trattandosi di un’unione dinamica quando le caratteristiche genetiche delle due partite sono mezzo-formate e fanno la seconda fase della formazione insieme, sarebbe opportuno parlare di innesto più che di taglio.

La tecnica dell'innesto che va ad agire sulla genetica del vino. Ci perdonino i lettori per l'insistenza sui nomi: come lo potremmo definire un vino ottenuto con questa tecnica?

Siano clementi i lettori. Qual è il compito che Dio dà ad Adamo? Quello di dare i nomi alle cose, perché se non hanno un nome non esistono. Tornando a noi, direi che è un vino androgino, anche se io preferisco chiamarlo transessuale, un po' come l'Angelo Incarnato di Leonardo da Vinci, anche se io non sono ovviamente da Vinci!

Un vino rosa, dunque, ottenuto sia con vinificazione in bianco che in rosso. Le sue caratteristiche si avvicinano di più a un rosa o a un rosso?

È semplicemente un vino che coinvolge il suo bevitore nella determinazione della sua natura. In questo modo la bevuta cambia senso radicalmente perché chi lo beve non è passivo, ma coopera all’identificazione della sua natura. È un’operazione ermeneutica facile da capire, basta berlo a occhi chiusi: diventa rosa se si ha voglia di rosa e di freschezza, oppure rosso se si ha voglia di tannini e di concentrazione. L’essere trans accontenta tutti.

 

Cataldi Madonna - Ofena (AQ) - località Piano - 0862 954252 - cataldimadonna.com

 

a cura di Annalisa Zordan

 


I prezzi di Starbucks sono troppo alti? Ecco quanto deve costare un buon caffè espresso

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C'è la location, certo, l'elegante atmosfera creata da un ambiente di design e gli arredi di livello. Ma c'è anche molto altro dietro il listino prezzi del nuovissimo Starbucks Reserve Roastery di Piazza Cordusio a Milano. Cosa? Ce lo spiegano i professionisti del settore. 

 

Starbucks a Milano. Finalmente

Non è il male assoluto e non è una catastrofe. Non più di quanto lo siano, spesso, i nostri bar”. Commentavamo così, due anni e mezzo fa, la notizia dell'arrivo di Starbucks in territorio italiano. Un annuncio che, fin dall'inizio, non ha risparmiato le polemiche di tanti consumatori, un grido allo scandalo che continua ancora oggi, a pochi giorni dalla tanto attesa inaugurazione del punto vendita di Piazza Cordusio a Milano. Una diatriba che si fa sempre più accesa e che ha diviso nettamente in due l'opinione pubblica: da un lato, i sostenitori convinti della supremazia del caffè italiano nel mondo, dall'altro i professionisti del settore specialty (ovvero quel segmento di baristi, torrefattori e importatori da anni impegnati nella promozione della qualità del caffè), che hanno accolto con entusiasmo la novità, riponendo la massima fiducia nel colosso di fama internazionale, che con le sue tante attrezzature e proposte – dalle macchine espresso ai sistemi di estrazione in filtro – potrebbe finalmente instillare nel pubblico la curiosità di scoprire un nuovo modo di approcciarsi e bere caffè.

 

Starbcuks

€1,80 per un espresso. Ed è subito polemica

E pensare che noi del Gambero Rosso, l'arrivo di Starbucks lo attendevamo con ansia ancora prima di scoprire che si trattasse di un Reserve Roastery (il terzo nel mondo, dopo Seattle e Shangai), soluzione unica che garantisce ai clienti un'esperienza sensoriale a 360 gradi nel mondo del caffè, in un ambiente dal design ricercato. Una cura del dettaglio maniacale, un'atmosfera suggestiva che già di per sé – senza contare la posizione privilegiata, l'incredibile investimento in macchinari di primo livello – potrebbe giustificare i prezzi mediamente più alti degli altri bar. Ma non basta, perché i veri motivi per cui nello spazio di Piazza Cordusio si arriva a pagare 1,80 euro per un espresso sono altri, e vanno ben oltre la location.

 

Romedia Studio

Antitrust? La consumazione è una libera scelta

"Prezzitroppo alti, l'autorità verifichi la correttezza delle tariffe imposte ai consumatori", la denuncia di Codacons all'Antitrust non ha tardato a scatenarsi. Un'azione paradossale e quanto mai inverosimile. Un buon espresso è un piacere, ma certamente non un bene di prima necessità: nessun consumatore è obbligato a pagare questa cifra, soprattutto considerando che in Italia esistono una serie innumerevole di bar con prezzi più bassi fra cui scegliere. Ed è proprio nella libera scelta che risiede l'insensatezza dell'operazione del Codacons. A confermarlo, i fotografi e videomaker di Romedia Studio, che già lo scorso anno presentavano il loro documentario a tema Coffees – Italians do it better(?). Federico Lucas Pezzetta e Federica Balestrieri non potevano mancare alla prima del gigante stellestrisce: “Abbiamo provato quasi tutti i caffè, più scuri degli specialty a cui siamo abituati, ma con qualche piacevole eccezione”, racconta Federico. Certo, i chicchi del Reserve, seppur migliori rispetto a quelli usuali della catena, difficilmente incontreranno a pieno il gusto di un vero amatore di specialty coffee (ben diverso dal caffè che si trova nella maggior parte dei bar tricolore), ma siamo comunque di fronte a una bevanda ben fatta ed estratta a dovere. “Il servizio è di altissimo livello, e non si è obbligati a consumare. Provate ad andare in un bar qualsiasi in zona Duomo e sedervi al tavolo senza ordinare nulla: sicuramente i titolari vi inviteranno a consumare o ad alzarvi. Al Reserve ci si va anche solo per farsi una cultura sul caffè, chiedere informazioni, spiegazioni sulle diverse origini e miscele. E poi, il prezzo dei bar vicini in centro città non si allontana così tanto da quello di Starbucks”. Con un'unica differenza: la qualità media del servizio, dell'offerta e l'ambiente dei locali nei dintorni è nettamente inferiore.

 

Starbucks, personale

Quella tostatura scura...

Prima di procedere, una precisazione doverosa: "Lo stile di tostatura di Starbucks è diverso rispetto a quello di un torrefattore artigiano specializzato in caffè di ricerca", sottolinea Maurizio Valli, torrefattore, barista ed esperto di analisi sensoriale del Bugan Coffee Lab, realtà bergamasca che comprende anche una scuola di formazione. Soprattutto, appassionato di oro nero in tutte le sue sfumature, che al Reserve ha assaggiato ogni singola proposta: "I chicchi sono più scuri, vero, ma non si percepiscono note sgradevoli di bruciato o rancido. C'è un sentore fumé - voluto - che può piacere o meno, ma è il loro marchio di fabbrica". Una scelta, dunque, non un errore: "Ho speso molto, provato tutto, e non me ne pento. Ogni bevanda era estratta in maniera rigorosa. Non smetterò mai di ripetere quanto siano preparati i ragazzi dietro il bancone!"

 

Starbucks,c affè

Questione di numeri

E poi, intendiamoci: “Chi è dietro a Starbucks, i conti li sa fare bene”, ci ricorda Davide Cobelli della Coffee Training Academy, scuola di formazione veronese per baristi e torrefattori da poco rinnovata (con un cambio sede, a Cerea, in via A.M. Lorgana, 21). “Esiste una figura chiamata bar manager, un professionista con competenze strategiche in grado di gestire strutture e attività. Una persona (nel caso di Starbucks un team) che fissa il food cost, il prezzo dell'offerta, che include non solo il valore del cibo o della bevanda, ma anche il resto delle spese, in modo da ricavarne un guadagno minimo per rientrare e sopravvivere come attività”. Un espresso double shot – il più frequente da Starbucks – richiede circa 14 grammi di caffè, il doppio dei canonici 7 grammi (cifra variabile a seconda di tanti parametri) impiegati nel classico espresso. “Questo significa che ogni tazzina costa circa 25/30 centesimi. Aggiungendo le altre spese del locale, si arriva minimo a 80 centesimi, se non 1 Euro, 1,20 Euro. Se il prezzo finale fosse 1 Euro, dove sarebbe il guadagno?”. Il prezzo giusto per un buona tazzina? “Fra 1,30 a 1,60, a seconda della qualità della materia prima, del servizio, la location e il resto se parliamo di espresso normale e non doppio”. Naturalmente, sempre per chicchi di buon livello.

 

Starbucks Reserve Roastery

Prezzo alto come segno di sostenibilità

Come quelli che utilizza Francesco Sanapo, fra i primi torrefattori in Italia a parlare di specialty e a creare una caffetteria, Ditta Artigianale (seguita dalla seconda sede a Oltrarno) tutta incentrata sull'oro nero. Soprattutto, fra i primi ad aver introdotto in Italia un prezzo superiore per il caffè espresso: 1,50 Euro. “Le difficoltà per produrre caffè sono aumentate per via del riscaldamento globale, che ha comportato una serie di problematiche, fra cui le tante malattie che si stanno abbattendo sulle piante. Occorrono maggiori trattamenti, che hanno un costo elevato”. La qualità, come sempre, richiede una spesa, e pagare di più un caffè equivale a “restituire dignità al lavoro del produttore. Il tocco umano, in qualsiasi business, non va mai dimenticato”. Tante le critiche che l'artigiano nel tempo ha dovuto fronteggiare per via del prezzo, “i consumatori inizialmente non capiscono, bisogna spiegare loro il motivo: dietro ogni tazzina, ci sono 50 ciliegie, raccolte a mano e nel momento di miglior maturazione, processate e poi infine tostate ed estratte con una cura maniacale”. E il caffè di Starbucks? “Mi è capitato spesso, durante i viaggi nei Paesi d'origine, di imbattermi nelle realtà che producono chicchi per Starbucks, e ne ho sempre sentito parlare bene: è una vera impresa, che paga bene e subito, e il caffè che acquista è di buona qualità”. Ma se questo non bastasse a convincere il presidente del Codacons... “Lo invito pubblicamente a venirmi a trovare: gli offro un corso gratuito sul caffè. Poi ne riparliamo”.

 

Starbucks, cappuccino

All'origine del caffè: il lavoro in piantagione

Facciamo un passo indietro, e torniamo in piantagione, dove la realtà per i lavoratori del settore è tutt'altro che rosea. A descriverla, Alberto Polojac, importatore di caffè verde dell'azienda Imperator di Trieste, che nei Paesi d'origine trascorre buona parte della sua vita. “Siamo a un livello drammatico per i prezzi di borsa del caffè, ai minimi storici degli ultimi tredici anni. Il prezzo del caffè arabica è inferiore a un dollaro per libbra, mentre il costo di produzione mediamente si aggira attorno a un dollaro e cinquanta  per libbra, che è la cifra minima di partenza per un caffè fairtrade”, la soluzione equa e solidale che si impegna a garantire un futuro migliore per gli agricoltori. “Più che del prezzo della tazzina, oggi mi preoccuperei per il prezzo che guadagnano i contadini. Con numeri simili, le generazioni future non si avvicineranno mai al caffè”. Inoltre, i recenti cambiamenti climatici rischiano di rendere improduttive alcune zone, “e soprattutto, un giorno potrebbero non esserci più persone disposte a coltivare”. Un euro a espresso non è un sistema sostenibile: “Certamente, un torrefattore – e di conseguenza un barista – è contento di pagare meno, ma per gli importatori come me, la qualità del caffè in questo modo è svalutata. Si compra sempre in perdita”. E i coltivatori? “Se le condizioni non migliorano, prima o poi cambieranno strada. Ricordiamoci che molti di loro vengono da situazioni critiche: si sono dati alla produzione di caffè per abbandonare il narcotraffico. Spero vivamente che non accada l'operazione contraria”. 1,80 Euro a espresso è quindi una cifra adeguata? “Certamente. Non sono ancora stato nella sede di Milano, ma conosco il Reserve di Seattle: buona materia prima, talvolta ottima, tostata un po' scura, stile Starbucks, ma servita in maniera eccellente da un personale preparatissimo e competente”. Di quanti bar italiani possiamo dire lo stesso?

Un nuovo approccio al caffè

Sul consumo diffuso del caffè è urgente un cambio di mentalità. Consumarlo meno come fosse una “medicina” necessaria in virtù di una sorta di dipendenza; consumarlo in maniera più consapevole, tenendo conto che si tratta di un alimento, di una pianta che ha la sua filiera; consumarlo migliore e quindi pagandolo un po' di più e, con l'arma del prezzo, diffondere benefici in tutta l'industria che c'è dietro ad una tazzina. Insomma, invece che un livellamento verso il basso (oggi in Italia il caffè si paga meno che dovunque, Grecia, Albania, Portogallo inclusi, per esempio), con la corsa a chi chiede meno e fa un prodotto peggiore, muoversi all'inverso. Del resto, 100 banali caffè al mese da 90 centesimi costano esattamente come 50 buoni caffè da 1 euro e 80, con benefici per tutti (specie per la parte più debole di questo comparto) e nessun esborso in più. In questo senso, come già avvenuto a Firenze con la citata Ditta Artigianale, Starbucks con la sua forza mediatica può essere didatticamente utile alla causa. Tra qualche anno, pagare una tazzina di espresso una cifra più etica e sostenibile potrebbe essere non più considerato uno scandalo o un attentato alle libertà personali come viene percepito ora in Italia.

a cura di Michela Becchi

 
 

Anteprima Tre Bicchieri 2019. I migliori vini di Valle d'Aosta e Canton Ticino

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Le anticipazioni dei premiati dalla Guida Vini d'Italia 2019 del Gambero Rosso. Oggi è il turno di Valle d'Aosta e Canton Ticino.

 

La Valle d’Aosta rimane una regione marginale nella produzione viticola del nostro paese con una media produttiva annua che si aggira sui 20mila ettolitri, ovvero - se tutto finisse in bottiglia - poco oltre i due milioni e mezzo di pezzi, molto meno di quanto imbottigliano le più grandi aziende nazionali. Ciò che rende la Valle d’Aosta irripetibile, invece, è la sua conformazione: da Donnas e Courmayeur, non è possibile trovare due territori uguali.

Innanzitutto la regione offre una larga scelta di vitigni, dove gli autoctoni e gli alloctoni sono perfettamente complementari. Tra i rossi i potenti e polposi syrah e fumin si alternano con i più sfaccettati e delicati pinot noir e petit rouge, mentre tra i bianchi i freschi prié blanc e petite arvine – in ampia crescita quest’ultima – fanno da contraltare ai più burrosi chardonnay e malvoisie (pinot grigio).

La grande differenza nasce soprattutto dall’enorme variabilità di microclima, dovuti alla posizione dei vigneti: a l’envers (sulla riva destra della Dora Baltea, ovvero con esposizione da Nord a Est), o a l’adret (la più calda e vocata riva sinistra che è rivolta verso Sud o verso Ovest), alla loro giacitura e soprattutto all’altitudine, con vigne che vanno dai 300 a oltre 1100 metri di quota. Questa ricchezza e questa variabilità rappresentano la vera forza di questa piccola regione.

Dopo un’annata 2017 disastrosa dal punto di vista climatico, i viticoltori della Valle si stanno riprendendo lentamente. Dopo una vendemmia 2016 che aveva fatto registrare una produzione totale di 21mila ettolitri, il 2017 si ferma a 10mila ettolitri con una perdita pari al 53%. Il nostro incoraggiamento va alla zona di produzione del Blanc di Morgex et de La Salle che ha visto cancellare in un attimo tutto il lavoro di quella stagione. In qualche cantina la perdita è stata del 98%. Nel palmarès dei premiati dell’edizione di Vini d’Italia 2019 non appaiono cantine nuove, ma torna al successo Anselmet con una splendida selezione di Chardonnay. Il conteggio dei premiati recita: due Chardonnay, due Petite Arvine, un Fumin e un Moscato Passito. La bella sorpresa, però, sta nella lenta rinascita della Bassa Valle e del Donnas, che farà parlare di sé in futuro.

Sopraquota 900 – Rosset Terroir
Valle d'Aosta Chambave Muscat Fletrì '16 – La Vrille
Valle d'Aosta Chardonnay Cuvée Bois '16 – Les Crêtes
Valle d'Aosta Chardonnay Main et Cœur '16 – Maison Anselmet
Valle d'Aosta Fumin '16 – Lo Triolet
Valle d'Aosta Petite Arvine '17 – Elio Ottin
 
 
Al secondo anno dopo il “rientro” in Guida il Ticino ben si destreggia nel mondo vitivinicolo. Nell’ultimo decennio questo fazzoletto di terra a ridosso le Alpi si sta davvero consolidando a livello qualitativo, e il Merlot, principe di questa regione, ha davvero trovato una seconda patria. I viticoltori lo sanno bene e hanno imparato a giocare con tutte le sue espressioni, anche vinificato in bianco, con ottimi risultati.

Ma il Ticino è anche terra di tante altre uve. Tra queste la bondola, un autoctono a bacca rossa che pian piano sta tornando in auge, anche se con piccole produzioni. Benché il territorio ticinese non sia molto vasto e il vitigno predominante sia il Merlot, le differenze territoriali tra nord e sud traducono in forma liquida un ventaglio di prodotti variegato e interessante.

Aspetto non trascurabile del Cantone è anche quella di aver riscoperto un’enologia “giovane”. È in crescita l’esercito di ragazzi che conseguono il diploma o la laurea in enologia per poi tornare tra i filari per seguire le orme di famiglia portando nuova linfa vitale e un bagaglio di tecnica moderna. Tecnica che interpretano senza stravolgere la fisionomia del territorio ma, anzi, esplorandola e assecondandola.

Nonostante il Ticino non sia così vocato per i vini bianchi, quest’anno ne abbiamo assaggiati di ottimi. Spicca su tutti il Sileno ’16 dei Fratelli Corti, che è fresco, sapido delicatamente aromatico: in una parola, irresistibile. Al livello più alto della classifica, però, ritroviamo il Vinattieri ’15, che con la sua estrema eleganza non teme rivali. L’altro Tre Bicchieri è davvero una sorpresa: Il Castanar ’13 di Andrea Ferrari. Un assaggio indimenticabile. Il Ticino è un piccolo territorio che riesce a stupire. E non finisce qui. Scommettiamo?

Ticino Merlot Castanar '13 – Roberto e Andrea Ferrari
Ticino Merlot Vinattieri '15 – Vinattieri Ticinesi

 

 

 

Al Piano 35 di Torino arriva chef Marco Sacco. Menu e prezzi dal ristorante più alto d’Italia

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Arriva dalla tranquillità di Mergozzo, dove il suo Piccolo Lago è da anni un ristorante che vale il viaggio. Ma a Torino giocherà su uno (più) registri diversi per dimostrare che uno chef moderno può e deve saper fare impresa, senza perdere di vista l'originalità e l'artigianalità. Ecco come cambia il menu di Piano 35 con Marco Sacco. A pranzo (novità) e cena. 

 

Mio padre aveva un ristorante in cui proponeva pizze al padellino. Mi piaceva stare lì. A 9 anni gli dissi ‘ da grande farò il cuoco’. A 20, tornato da un po’ di giri per il mondo, ‘io farò lo chef stellato’”. Esordisce così Marco Sacco nel presentare e raccontare in anteprima il suo progetto per Piano 35, il ristorante del grattacielo Intesa SanPaolo, che apre ufficialmente lunedì prossimo, 17 settembre, e di cui è il nuovo chef (Due Forchette del Gambero Rosso e Due Stelle al Piccolo Lago di Mergozzo, com’è noto, tanto a ribadire che i sogni di gioventù si possono realizzare).

Cosa significa essere chef oggi

Un progetto, quello di Piano 35, avviato da mesi (dopo l'addio di Ivan Milani), per il quale Sacco ha messo a punto un nuovo format. Come farà a conciliare due impegni tanto importanti, lo chef che negli ultimi anni ha dedicato tutto se stesso a valorizzare il suo territorio e quella “gente di lago” tra cui è nato e cresciuto, lo spiega con grande consapevolezza di sé e di quanto sia cambiato il mestiere del cuoco nel tempo: “Oggi uno chef dev'essere in grado di delegare, e questo non significa farsi sconti. Anzi è un impegno che richiede grande capacità di visione e gestione delle risorse: il cuoco deve saper costruire un format, fare formazione e trasmettere la sua filosofia a tutto lo staff. Abbiamo bisogno di grandi protagonisti in grado di supervisionare il lavoro di altri, più giovani, scelti proprio per la loro capacità e passione. Solo così cresce l'intero settore, anche agli occhi del mondo. I francesi lo fanno da sempre, i tempi sono maturi anche per noi”. Questo, sia ben chiaro, non significa abdicare alla propria identità, semmai avere le carte in regola per raccontarla a un pubblico sempre più ampio. E questo è quanto Marco Sacco auspica per la nuova avventura torinese: “Fare impresa in cucina non significa industrializzarsi, l'originalità deve restare la nostra cifra, ma oggi è importante standardizzare la qualità per proporla su palcoscenici ambiziosi e internazionali. Deve beneficiarne l'italianità della nostra cucina”. Una riflessione estremamente attuale, quella di Sacco, che proprio nelle ultime settimane abbiamo sentito rilanciare con forza anche da Niko Romito, che sulla standardizzazione dell'italianità ha costruito l'idea di alta cucina che porta nel mondo all'interno dei ristoranti di Bulgari.

 

Tra il lago e Torino

Non per questo, lo chef di Mergozzo ha intenzione di trascurare l'attività che l'ha fatto arrivare sin qui: la sfida più ambiziosa, d'ora in avanti, sarà proprio questa. E lui parte carico per affrontarla. Sul versante “lacustre” il progetto Gente di Lago avviato circa un anno e mezzo fa e ora diventato anche un programma prodotto da Gambero Rosso Channel – è cresciuto moltissimo: “All'inizio era un pensiero, oggi è diventata un'associazione di professionisti, che il 7 e l'8 ottobre prossimi si incontreranno sull'Isola dei Pescatori, sul lago Maggiore, per il primo grande incontro del movimento, che sarà insieme un momento di festa (tutti i ristoranti dell'isola proporranno un piatto simbolo, mentre gli chef in arrivo da fuori porteranno i propri ingredienti, per lavorare sulla contaminazione, momento essenziale per l'evoluzione del territorio, ndr) e di aggiornamento, per parlare di formazione, acquacoltura, industria. Con caparbietà siamo riusciti a coinvolgere i pescatori, il Cnr, le imprese. Ci guadagniamo tutti”.

Ora, però, c'è anche Torino: “All'inizio mi sono preso tempo per pensare, capire perché accettare. Con mia moglie abbiamo ragionato a tavolino: a Torino dovremo essere capaci di esaudire il pubblico più tradizionalista, la grande Torino sabauda abituata a tante tavole importanti; ma è anche vero che il grattacielo di Renzo Piano, da un giorno all'altro, è atterrato in città quasi fosse un luogo magico, fuori dal tempo. Ecco, così abbiamo capito che si poteva lavorare, e bene, su un format stimolante perché capace di sommare più anime, e accogliere proprio tutti”.

 

L'importanza della squadra

Alla firma è seguita una rigida organizzazione del lavoro: “Formata la squadra, abbiamo lavorato tutti insieme al Piccolo Lago, dai primi di agosto. Poi, da un paio di settimane a questa parte, la brigata destinata a Piano35 si è insediata al suo posto, sotto la supervisione del mio braccio destro, Silvestro Zanella”. Sacco, dal canto suo, sarà “un drone che si sposta tra Mergozzo e Torino, ma spero più per la soddisfazione di vivere in prima persona entrambe le esperienze che per reali problematiche da risolvere”. L'attitudine è quella giusta, e si aprirà per pranzo e cena sin dal primo giorno, anche se almeno fino a dicembre le prenotazioni serali saranno contingentate, per garantire una corretta fase di rodaggio al team. Intanto scopriamo cosa si mangerà.

Pausa Pranzo

La prima novità è la Pausa Pranzo. Si chiama proprio così il menu del pranzo, che non esisteva in precedenza al ristorante. “Voglio far venire tutti a pranzare a 150 metri da terra. Con una cucina buona, bella, veloce, con piatti facili, comprensibili per tutti, spaghetti, tagliata, guancia. E attenta al prezzo”. Così la carta del pranzo è da comporre a piacere, scegliendo fra proposte suddivise in box-prezzo: piatti a 10 euro (per esempio pasta e fagioli o zucca al forno), a 14 euro ( e lì troviamo fra gli altri il vitello tonnato, gli spaghetti al pomodoro, il riso con zucca e salsiccia di Bra), e poi a 22 (albese e porcini, tagliata di manzo...), fino ai 26 (spaghetti al gambero e burrata, guancia ai porcini e via declinando).

Spaghetti al gambero e burrata

I dessert sono proposti a 6 euro (bonet, torta di mele). Unica regola, scegliere almeno due piatti. Che possono essere anche un piatto da 10 e un dessert, totale 16 euro per pranzare nel ristorante più alto d’Italia e con la cucina di uno chef stellato. Magari aggiungendo un calice di vino (4/7 euro), e il caffè (2 euro). Oppure spaziare fra le fasce di prezzo, arrivando a cifre anche consistenti, e concedendosi svariati sfizi. Massima libertà insomma e assoluta accessibilità: queste sono le parole chiave di una pausa pranzo che non è solo buona, bella, veloce, ma anche attenta al budget: perfetto.

 

A cena, internazionalità

A cena la parola chiave cambia, e diventa internazionalità: “Qui alla sera potremmo essere dovunque, a New York, a Shangai”, spiega Sacco. Arrivano turisti approdati a Torino dal mondo, e torinesi che sognano di viaggiare nel mondo. E allora entrano in scena altrettanti viaggi del gusto. Niente carta, ma il piacere di affidarsi a una cucina d’autore che ha previsto 3 menu (da scegliere per tutto il tavolo) per altrettanti percorsi improntati a rassicurare o sorprendere, secondo l'inclinazione del cliente.

Il Piemonte, per cominciare. Vitello tonnato, immancabile. Ma anche raviolini del plin ai tre arrosti, risotto, la fassona, la trota. Di questo menù, Sacco ha presentato in anteprima 3 piatti-cult.

Riso Carnaroli con peperone rosso e acciuga

Oltre a un impeccabile vitello tonnato, un sorprendente risotto con peperone rosso e acciuga, quasi una versione al riso della bagna cauda. Molla creativa è il ricordo (che torna spesso nelle proposte e nello storytelling dello chef): il risotto in Piemonte è un piatto di referenza, se la gioca con i plin, e l’omaggio al peperone (rosso, e passato senza pelle – la parte meno digeribile – fino a farlo assomigliare alla vista a un sugo di pomodoro) e alle acciughe diventa un omaggio alla piemontesità. Ultimo piatto presentato, la trota marmorata cotta a 45 gradi e solo per 15 minuti, con prato di crescione, salsa al burro acido e ribes.

Secondo menu della cena, Mediterraneo. E qui la visione si allarga a una cucina soprattutto di mare, ma non soltanto (alle spalle del mare, nelle isole, in Centro Italia, l’agnello è una bella scoperta).

Mazzancolla in kataifi, cous cous, burro d'arancio e zenzero

Molto convincente la mazzancolla in kataifi, con cous cous e burro d’arancio e zenzero, mix di Nord Africa con il tocco francese del burro, e tutto giocato in chiave ricordo il pancotto ai frutti mare. “Mia nonna mi faceva sempre il pancotto, per non sprecare il pane avanzato, e con il brodo di gallina. Io l’ho ripensato in chiave di mare” E poi l’agnello, tenerissimo, con melanzana affumicata e maionese al timo.

Il terzo menu si apre al Mondo, parte da Torino e dall’Italia e spazia per i continenti, dall’aglio nero e ostrica al pacchero e caviale, dal merluzzo, curry e lenticchia al babà a Rio.

Il dolce assaggiato in anteprima ci riporta a casa: torta di mirtilli, gelato al fieno, gelatina alla lavanda, mou di cioccolato bianco.

Perché tre menu? “Perché voglio far venire i torinesi almeno tre volte diverse da Piano 35”. Ogni menu può declinarsi in un percorso di 4 portate (90€) o di 7 (130€), da abbinare a un percorso vini di 3 calici (40€) o 5 (60€). Ultima nota importante: la valorizzazione delle artigianalità di Torino, con il coinvolgimento delle botteghe dei panettieri, i cioccolatieri (Filippo Novelli di La Perla sta già studiando un gianduiotto dedicato a Piano 35).

Accessibilità e qualità a pranzo, e cucina d’autore a cena: al Piano 35 con Marco Sacco è iniziato un nuovo corso, per assaporare la “voglia di partire e il desiderio di tornare a casa”. Buon viaggio.

 

Piano35 – Torino – Grattacielo Intesa SanPaolo – dal 17 settembre 2018, a pranzo e cena - grattacielointesasanpaolo.com/ristorante

 

a cura di Rosalba Graglia e Livia Montagnoli

foto di Franco Borriello

Pizza Romana Day. La prima edizione svela il Manifesto della Nuova Pizza Romana, poi la festa in città

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Sono 20 le pizzerie della Capitale che hanno aderito alla prima di un progetto che rivendica l’orgoglio della pizza romana con l’idea di supportare il cambiamento, all’insegna della qualità. In mattinata la firma del manifesto, poi l’evento da sold out in tutta la città. E i pizzaioli romani si riscoprono uniti. 

 

La pizza romana (tonda). Cos’è

Una gigantografia del manifesto della Nuova Pizza Romana campeggia nella sala dell'Osteria di Birra del Borgo, dove il Pizza Romana Day scalda i motori aspettando la grande festa diffusa che si consumerà in serata. Il 13 settembre 2018 sancisce, nelle intenzioni degli ideatori (Agrodolce, Greenstyle e Repubblica Sapori), la prima edizione di una giornata votata a onorare la pizza romana – quella tonda, servita al piatto, bassa e scrocchiarella... Attenzione a non confonderla con pizza in teglia, alla pala, pinsa – pronta a riscoprirsi all'altezza del confronto con la pizza napoletana. Non uno scontro, per l'appunto, ma un confronto tra due stili che identificano la cultura gastronomica e la storia delle rispettive città d'appartenenza, con la pizza romana finalmente matura per giocarsi il riscatto ad armi pari, lavorando su impasti e condimenti. Bistrattata e affossata da decenni di storia commerciale improntata a fare cassa più che qualità, la pizza romana ha finito per autorelegarsi in un ruolo marginale, seppur molto apprezzata da un grande numero di romani. Poi, di recente, è arrivato il tempo in cui qualche pioniere della nuova era ha deciso di marcare la differenza col passato, in una città per molti versi diventata terreno fertile per pizzerie di qualità e ricerca, ma quasi sempre concentrate su una personale interpretazione dello stile napoletano, più che sulla riscoperta della tradizione locale. E invece oggi qualcuno indica la strada per la rinascita della romana, una pizza senza cornicione (o perlomeno condita fino al bordo, anche quando le lunghe maturazioni rendono difficile annullarlo), sottile, croccante... E digeribile.

Lunga maturazione e digeribilità. Gli obiettivi

La differenza la fa la ricerca su materie prime e tecniche di lavorazione, per l'appunto, in funzione di una digeribilità che dev'essere priorità di ogni pizzaiolo, come suggerisce Enzo Coccia, presente sul palco del dibattito insieme a Giancarlo Casa Davide Fiorentini. Il maestro napoletano non risparmia qualche bonario sfottò – la goliardia ci sta tutta in un confronto sentito quanto il tifo calcistico – ma si mostra soprattutto costruttivo nel suggerire ai colleghi romani una strategia di comunicazione efficace per sancire il cambio di passo. Snocciola numeri – Roma è la città che può contare più pizzerie in Italia, ma quante lavorano bene? - solleva perplessità (“qual è la percezione della pizza romana in Italia e nel mondo? Il rischio confusione è altissimo”), propone di codificare tecniche e regole per arrivare alla stesura di un disciplinare, come avvenuto in passato per la verace pizza napoletana.

Nessuno però ha intenzione di bruciare le tappe: il primo step prevede di riaccendere l'attenzione e la curiosità sulla pizza romana, che d'altronde difficilmente si presta a essere ingabbiata in regole troppo rigide, come spiega un preparatissimo Giancarlo Casa. Lui, patron della Gatta Mangiona, ha scelto di seguire lo stile napoletano, ma da qualche tempo lavora al Passetto anche sulla romana: “La differenza sta nel capire l'importanza della maturazione dell'impasto” spiega “anche quando si procede con impasto diretto è necessario prevedere almeno 8 ore”. La questione è riassunta nel punto 3 del Manifesto che un bel numero di pizzaioli della Capitale, fautori della rinascita della romana e non solo, si sono impegnati a firmare.

Il Manifesto. 10 punti per la Nuova Pizza Romana

Ci sono Stefano Callegari e Pier Daniele Seu, Luca Pezzetta e lo stesso Giancarlo Casa. E poi, a seguire Fiorentina Ceres, Frontoni e tutti i protagonisti che hanno aderito all’evento serale, che prende forma per una sera in 20 pizzerie della città. In 10 punti, il manifesto indugia sulla storia (evidenziando il boom degli anni Sessanta come l’inizio della fine, quando la necessità di servire i clienti con velocità e tenere i prezzi bassi ha determinato la corsa al ribasso) e la descrizione del prodotto, l’impasto, i condimenti classici – Margherita, Napoli, capricciosa, funghi e calzone romano – pur ribadendo che “la pizza romana è icona di libertà e fantasia”. Si prosegue con i punti dedicati a stesura e cottura (in forno a legna o elettrico), al cornicione e all’aspetto finale: “Il colore deve essere dorato, con lievi note di tostatura, possibilmente prima di bolle nere”, si legge; e, si affretta ad aggiungere Casa, “senza ricorrere a trucchetti come si faceva in passato, con l’aggiunta di latte o zucchero per ottenere la doratura, che invece è naturale conseguenza della corretta maturazione dell’impasto”. Il finale è dedicato a chi lavora in pizzeria, col punto 9 che riassume l’importanza del servizio di sala nel saper raccontare il prodotto, e il punto 10 intitolato al fattore umano, che fa appello al rispetto per gli altri e all’etica del lavoro. La serata registra il sold out in tutte le pizzerie coinvolte, il primo obiettivo è raggiunto: stimolare tra i pizzaioli di Roma il desiderio di fare squadra è un primo traguardo importante. Poi si vedrà.

 

a cura di Livia Montagnoli

I vini di Châteauneuf-du-Pape. Un paesaggio fatto di vigne regno delle molteplicità e di insolite armonie

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Un’assolata distesa di vecchie vigne, un cielo ventoso dalla luminosità straripante, un piccolo borgo dominato dalle rovine di un antico castello, sono le prime immagini che riempiono lo sguardo quando si arriva a Châteauneuf-du-Pape. E subito appare chiaro che è la vigna la protagonista del paesaggio.

 

Non siamo in una Provenza verde e lussureggiante, ma in un paesaggio arido, quasi spoglio nella sua nuda essenzialità. Qui, intorno a Châteauneuf-du-Pape, tutto sembra modulato sulla centralità della vigna, senza inutili distrazioni. Anche se la coltivazione della vite era già presente in epoca Romana, si deve al trasferimento della sede papale da Roma ad Avignone (1309-1377) lo sviluppo di una viticoltura di qualità per la produzione del celebre Vin du Pape. Oggi la superficie dell’AOC si estende sul territorio comunale di Châteauneuf-du-Pape, Courthézon, Bédarrides, Sorgues e Orange, per un totale di 3.133 ettari (93% a bacca rossa e 7% a bacca bianca), di cui circa il 25% in regime di agricoltura biologica.Il disciplinare prevede vendemmie manuali con cernita in vigna dei migliori grappoli e rese inferiori ai 35 ettolitri per ettaro, tra le più basse di tutta la Francia. La forma dall’allevamento più diffusa è l’alberello, obbligatoria per grenache noir, mourvèdre, picpoul noir, terret noir. Syrah e altri vitigni possono essere allevati invece anche a spalliera.

viti

L’arte dell’assemblaggio

Châteauneuf-du-Pape è la terra della molteplicità e dell’armonia. Il disciplinare prevede l’utilizzo di 13 vitigni:grenache (noir, gris, blanc), syrah, mourvèdre, cinsault, clairette (blanche, rose), vaccarèse, bourboulenc, roussanne, counoise, muscardin, picpoul (blanc, gris, noir), picardan e terret noir. I vigneron assomigliano a direttori d’orchestra, che ogni anno sono chiamati a scrivere un nuovo spartito in base alle caratteristiche del millesimo. La spina dorsale dei vini è costituita dalla grenache noir, che si è ambientata bene sui suoli poveri dell’Appellation, resistendo alle estati torride e alla violenza del Mistral. L’assemblaggio è completato principalmente da syrah, mourvèdre e a volte cinsault. La syrah serve a dare colore e struttura, ma in quest’area trova il suo limite meridionale e va coltivata nelle esposizioni più fresche. La mourvèdre, al contrario, è al suo confine settentrionale e predilige i terreni argillosi e ben soleggiati: come dicono i vecchi vigneron “la tête au soleil et les pieds dans l'eau”. Conferisce ai vini la freschezza e le caratteristiche note di garrigue, mentreil cinsaul, regala morbidi aromi fruttati. In quasi tutti i vini, anche se non dichiarate, ci sono piccole percentuali delle altre varietà, da sempre mischiate nelle vecchie vigne. Vincet Avril, titolare dello storico Domaine Clos des Papes, è un convinto fautore dell’assemblaggio: “Per molti anni – ci racconta – mio padre e io abbiamo assaggiato alla cieca una ventina di diverse cuvée e l’assemblaggio totale. Il vino migliore è sempre risultato l’assemblaggio”. Il fascino dei vini di Châteauneuf-du-Pape risiede proprio in questa sfaccettata e complessa personalità. Lontana dall’utilizzo di pratiche standardizzate, l’Appellation è un vero cantiere dai mille volti, in cui certo non ci si annoia a fare vino.

La produzione di Châteauneuf-du-Pape è frammentata in una miriade di Domaine d’antica tradizione familiare e non è facile decidere quali visitare. Nel mensile di settembre potete leggere il nostro tour tra vini e produttori.

 

a cura di Alessio Turazza

scatti della Fédération des Producteurs de Châteauneuf-du-Pape

 

QUESTO È NULLA...

Preview del mensile di settembre

Nel numero di settembre del Gambero Rosso, un'edizione rinnovata in questi giorni in edicola, trovate il tour completo tra vini e produttori con una mappa esemplificativa, i 3 migliori ristoranti della zona e un glossarietto utile per conoscere tecniche di coltivazione e produzione. Un servizio di 10 pagine che include anche i nostri 10 migliori assaggi di Châteauneuf-du-Pape e un focus su Gigondas con gli indirizzi delle cantine.

Il numero lo potete trovare in edicola o in versione digitale, su App Store o Play Store

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Waveco. Quando per cucinare si usano i massaggi: ultrasuoni per maturare carne e vegetali

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Cambiano i tempi e le esigenze di una cucina professionale, nuove tecnologie arrivano a supporto del lavoro in brigata. Ecco la proposta di Gourmet Services. 

 

Tempo e spazio costano sempre di più e anche la struttura e le abilità dello staff di cucina sono cambiati negli ultimi anni. Si sono moltiplicati gli utensili a disposizione di chef (ma anche degli appassionati) per intervenire sui diversi ingredienti e personalizzare i piatti. Sempre più, quindi, servono attrezzi polivalenti e di dimensioni ridotte che possano dare un sostegno concreto permettendo al personale di cucina di occuparsi di altro. In questo senso si è mossa la ricerca di Gourmet Services, azienda specializzata nella distribuzione di materiali da cucina di nuova generazione, che facendo tesoro del know how acquisito nella gestione di marchi come 100% Chef e ICC ha puntato a sperimentare strade non ancora battute. A partire dagli ultrasuoni. Che da qualche tempo hanno cominciato a far capolino nelle cucine più all’avanguardia.

Gli ultrasuoni in cucina. La waveco

Anche se però mai in forme specifiche pensate e tarate per trattare il food – spiega Riccardo Capannelli, responsabile della comunicazione di per Gourmet Services – Per questo abbiamo sostenuto con convinzione la nuova startup innovativa Next Cooking Generation che ha studiato gli ultrasuoni fino alla realizzazione di waveco: una macchina di dimensioni contenute, polivalente, pensata per una maturazione spinta della carne ma particolarmente versatile: tanto che non sappiamo ancora quanto possano essere gli ambiti di utilizzo. Ma è importante lasciare spazio alla creatività e alla sperimentazione degli chef”. Sì, la nuova waveco – sperimentata già in diverse cucine e protagonista del nuovo corso curato da Igles Corelli presso la Gambero Rosso Food & Wine Academy alla Città del gusto di Roma, che parte a alla fine di settembre e dedicato interamente alle nuove tecnologie – nasce dalla suggestione del massaggio praticato ai manzi waygiu di Kobe per ammorbidirne la texture e applica gli ultrasuoni per imitare l’effetto di una frollatura prolungata, senza però rovinare la carne e senza riduzioni di peso. “Ottenere una frollatura di 40 e più giorni in una manciata di minuti”, così ne spiega l’effetto Igles Corelli. Ma pensate di estenderne l’uso ad altri ingredienti, magari vegetali. “Abbiamo fatto degustazioni-test di legumi trattati al waveco – spiega l’ingegnere Daniele Di Clerico che fin dal 2011 segue la sperimentazione di NCG – Ed è una sensazione particolare assaggiare ad esempio un fagiolo passato agli ultrasuoni: si può utilizzare anche senza cottura. Ma pensate anche al sedano, a una carota, alla patata… e al pesce, a un polpo per esempio”. Insomma, la “cottura” diventa davvero una parola da usare ormai con le virgolette, specialmente quando invece del fuoco o del calore utilizza i… Massaggi!

 

E all’orizzonte c’è già wavegap

Se waveco è già in commercio, all’orizzonte c’è wavegap: è la nuova macchina che uscirà sul mercato tra pochi mesi e già in iper-sperimentazione nelle cucine di diversi chef di alto rango. Di cosa si tratta? Cuoce a bassa temperatura e sotto vuoto. Bella scoperta, direte! Ci sono già Roner e il Gastrovac. Sì, ma qui siamo in un altro mondo: intanto sul fronte dell’ecosostenibilità, perché non si utilizza la plastica. E sul fronte quindi del rispetto della materia: non c’è compressione del cibo nel sacchetto. Si può inoltre usare acqua, ma anche olio o qualsiasi altro liquido aromatico o aromatizzato in qualsiasi modo e permette così di costruire un cibo del tutto particolare in cui la cottura avviene in maniera omogenea. Inoltre, è completamente automatizzata a differenza di altre macchine che vanno seguite nelle fasi di lavorazione; e si possono trattare – in spazi molto ridotti e compatti – fino a 12 chili di carne contemporaneamente.

 

Gourmet Services. Come lavora

L’azienda abruzzese nasce nel 2011 e si garantisce fin da subito l’esclusiva per la distribuzione delle attrezzature dei marchi spagnoli 100% Chef e ICC. L’anno successivo, oltre a vendere l’azienda di Alba Adriatica mette in piedi anche l’Officina, un laboratorio per l’assistenza necessaria alle macchine vendute, ma anche un vero e proprio laboratorio in cui sperimentare e fare ricerca. È in questo laboratorio che 4 anni dopo nasce waveco: è la prima macchina che funziona con gli ultrasuoni pensata ad hoc per la cucina. Il brevetto viene registrato a nome della Next Cooking Generation, startup di Gourmet Services che è il rivenditore ufficiale delle nuove macchine. Oltre a rimanere concessionario dei due altri marchi spagnoli. E per i prossimi due anni sono diverse le novità in via di perfezionamento.

 

Gourmet Services – Alba Adriatica (TE) – via Ascolana 14/A

 

Sweety of Milano 2018. Il festival più dolce dell’anno a Palazzo delle Stelline

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Il weekend meneghino riunisce i migliori pasticceri d'Italia per la quarta edizione della rassegna dedicata alla tradizione dolciaria. Banchi d'assaggio, incontri, laboratori e masterclass per trasformare Palazzo delle Stelline nel regno dei golosi.   

 

L’evento

Due giorni per sperimentare l’eccellenza del settore artigianale dolciario italiano, che si mette in mostra, ancora una volta, con i suoi protagonisti migliori, una carta dei dolci ricchissima, incontri a tu per tu con i grandi maestri pasticceri, forum e seminari per scoprire il lato più dolce della tradizione tricolore. Puntuale come sempre, anche questo settembre torna uno degli appuntamenti più attesi dai buongustai: è Sweety of Milano, il fine settimana più dolce dell’anno, un simposio di pasticceria a Palazzo delle Stelline, dove poter gustare creazioni uniche e chiacchierare con i grandi personaggi che hanno fatto la storia dei dessert italiani. 25 grandi maestri in arrivo da tutto lo Stivale, per un totale di 100 imperdibili specialità, da assaggiare e acquistare, e 60 appuntamenti – tra laboratori e masterclass – per apprendere le tecniche base della pasticceria e i segreti del mestiere per rifare, anche in casa, una torta d’autore.

 

I protagonisti

Il format, piuttosto lineare, scommette ancora una volta sull’eccellenza del comparto artigianale, radunando gli esperti del settore nelle sale d’epoca dell’edificio meneghino, che si ammanteranno di nuovo per qualche giorno del fascino di un’inedita pasticceria estemporanea, quella che ogni goloso ha sempre sognato di vivere. A Palazzo, il 15 e 16 settembre prossimi, ognuno gestirà il proprio stand di degustazione e vendita, ma il calendario prevede anche una serie di seminari destinati al pubblico, che cercherà di carpire i trucchi per la riuscita di un buon dolce dagli addetti ai lavori che si avvicenderanno sul palco. E la lista dei presenti parla chiaro, le stelle del firmamento della pasticceria italiana hanno aderito senza indugio anche alla quarta edizione. Tra loro, Maurizio Santin, Gianluca Fusto, Luigi Biasetto, Ernst Knam, Alfonso Pepe, Gino Fabbri, Sal De Riso, l’immancabile “Sweetman” Iginio Massari e molti altri ancora.

 

Le novità

Novità di quest’anno, la Sweet Baby, scuola di pasticceria per i più piccoli, che potranno divertirsi a mettere le mani in pasta insieme ai personaggi dei Minions. E poi l’area relax nel chiostro, con tanto di esposizione delle migliori fotografie del contest amatoriale “Design del Dolce”, e il pastry pairing, l’abbinamento tra i cocktail di Cristian Lodi e i dolci di Nicolò Moschella. Infine, naturalmente, tanti assaggi: dalle torte alle frolle, dai semifreddi ai profiteroles, dalle crostate ai biscotti, dai gelati alle sfogliatelle, si avrà solo l’imbarazzo della scelta.

 

Sweety of Milano – Milano – Palazzo delle Stelline – 15-16 settembre 2018 - sweety.italiangourmet.it/

 

a cura di Michela Becchi


TripAdvisor e le false recensioni: sentenza storica a Lecce, ma il problema resta l'anonimato

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Nove mesi di reclusione e una sanzione da 8mila euro a carico di PromoSalento, che nel 2015 vendeva recensioni false - circa un migliaio – sulla piattaforma online più consultata nel mondo. Così si è pronunciato il Tribunale di Lecce, stabilendo un precedente importante. Il problema però resta: come arginare i falsi profili? TripAdvisor festeggia, i ristoratori non ci stanno. 

 

La sentenza

Si parla già di sentenza storica, una presa di posizione – e finalmente suffragata dalla decisione di un tribunale – mirata ad arginare quel maremagnum di frodi che il web è capace di crescere in seno. Se non altro a fare il primo passo, perché la piaga delle false recensioni – di questo si parla, e colpevole è chi opera in modo fraudolento sulla piattaforma di TripAdvisor – sarà dura a morire, nonostante il precedente appena sancito dal Tribunale Penale di Lecce: la compravendita dei pacchetti di recensioni false scritte sotto falsa identità su ristoranti e strutture di ospitalità in Italia è illegale, e pertanto punibile per legge. La pena? Nel caso specifico, per una truffa ripetuta e risalente al 2015, nove mesi di prigione e una sanzione pecuniaria di 8mila euro per coprire spese e danni. A incassare il colpo è il titolare dell'agenzia di comunicazione PromoSalento, una delle numerose attività commerciali che col tempo – e la complicità della piattaforma americana, troppo spesso pronta a chiudere un occhio – si è specializzata nella vendita di recensioni a pagamento, chiaramente fake, ed estremamente dannose per chi lavora onestamente nel settore dell'ospitalità, considerando quanto la community di TripAdvisor sia numerosa e radicata in tutto il mondo.

 

TripAdvisor al servizio delle indagini

L'indagine era stata coadiuvata sin dall'inizio da TripAdvisor, costituendosi parte civile contro la società salentina, e aiutando gli inquirenti a raccogliere prove a supporto dell'accusa. Contemporaneamente, la piattaforma del gufo ha penalizzato le strutture che avevano pagato PromoSalento per trarne vantaggio (circa un migliaio le recensioni bloccate e rimosse, attribuite all'agenzia di comunicazione truffaldina). Ma qui il discorso si fa più complesso. Brad Young, VP Associate General Counsel di TripAdvisor, ha commentato così la sentenza di Lecce, ribadendo l'urgenza per la piattaforma di stroncare il fenomeno: “Crediamo che si tratti di una sentenza storica per internet. Scrivere recensioni false ha sempre rappresentato una violazione della legge ma questa è la prima volta che, come risultato, il truffatore è sfinito in prigione. Investiamo molto nella prevenzione delle frodi e siamo efficaci nell’individuarle, dal 2015 abbiamo bloccato le attività di più di 60 aziende di recensioni a pagamento nel mondo. Ma non possiamo fare tutto da soli ed è per questo che desideriamo collaborare con le autorità competenti e le forze dell’ordine per supportare i loro procedimenti penali”.

 

La lettera agli esercenti

E infatti proprio nelle ultime ore TripAdvisor si è mosso per correre ai ripari, chiedendo l'aiuto degli esercenti regolarmente iscritti: “Caro proprietario...” inizia la lettera ricevuta anche da molti ristoratori... E continua arrivando dritta al punto: “Le scrivo per aggiornarla su un importante sviluppo (con riferimento alla sentenza, ndr) nella nostra continua battaglia contro le truffe relative alle recensioni” e soprattutto, “per farle sapere come ci può aiutare”. Tra la rivendicazione orgogliosa del proprio ruolo nel processo che ha portato alla felice conclusione del caso e il riferimento al team di investigatori che “lavora indefessamente per individuare aziende di recensioni a pagamento e impedire loro di operare sul nostro sito”, la missiva scivola via fino all'accorata richiesta d'aiuto: “Non possiamo farcela da soli... Insieme possiamo fare ancora di più”. Seguono istruzioni per l'uso e l'indirizzo di una casella email dedicata, d'ora in poi, a raccogliere le segnalazioni sospette ricevute dai ristoratori decisi a collaborare, in quanto preziosi “alleati”... “Con l'augurio di celebrare presto altre vittorie come questa”.

 

Ma è l'anonimato il vero problema

Proprio questo tono trionfale, e la rapidità con cui l'azienda è salita sul carro del vincitore, hanno indispettito non pochi ristoratori che da tempo fanno i conti con il problema e provano a segnalarlo, inutilmente: “Dopo tre anni di recensioni false segnalate a cui hanno risposto che 'la recensione rispetta le linee guida', i gufi diventano paladini della giustizia”, scrive Pietro Cairoli di Trippa (Milano), condividendo il suo disappunto su Facebook. L'indignazione è frutto principalmente dell'indisponibilità dimostrata finora da TripAdvisor davanti alla richiesta di molte attività recensite online di abolire l'anonimato di chi recensisce sulla piattaforma. Indubbiamente il metodo più semplice per stroncare sul nascere recensioni rilasciate sotto falsa identità, eppure mai preso in considerazione dal colosso americano. Il malcontento è diffuso e generalizzato, qualcuno si spinge ad accusare la piattaforma di non prendere provvedimenti a riguardo per non subire un calo di accessi. Con buona pace della veridicità delle recensioni. Certo nessuno toglie la soddisfazione per la sentenza del tribunale, molti nel mondo della ristorazione e tra gli addetti ai lavori l'hanno accolta positivamente, con l'augurio che sia solo l'inizio. Tutti, però, concordano su un punto: serve più controllo. E l'anonimato tra cui si annidano speculatori, concorrenti sleali e persino vendicatori seriali dev'essere il primo feticcio contro il quale fare quadrato.

 

a cura di Livia Montagnoli

Tre Bicchieri. Andrea Ferrari della Tenuta Vitivinicola Roberto e Andrea Ferrari

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Nell'immaginario comune la Svizzera è terra di laghi, prati verdi, mucche, cioccolata e formaggio. Ma nell'ultimo decennio è diventata terra anche di vino. Abbiamo intervistato Andrea Ferrari della Tenuta Vitivinicola Roberto e Andrea Ferrari, che con il suoTicino Merlot Castanar '13si è aggiudicato i Tre Bicchieri.

 

Il papà Roberto, ingegnere agronomo, ha cominciato il tutto coltivando 1 solo ettaro di vigna, al quale si sono aggiunti, sempre nel Canton Ticino, altri appezzamenti, fino ad arrivare a 9 ettari, rimasti tali fino a oggi. A sostenere la passione del padre, c'è Andrea, con studi di viticoltura a Châteauneuf alle spalle e un diploma alla scuola di enologia e viticoltura di Changins. Un bagaglio formativo e culturale che lo porta ben presto a far parte dell'azienda di famiglia. Un'azienda, una famiglia, che ha da sempre investito nella crescita qualitativa, tanto da non concentrarsi solo sul merlot: “Ovvio, la nostra maggior produzione è uva merlot, ma coltiviamo anche vitigni particolari e poco presenti alle nostre latitudini– allevano chardonnay, sauvignon, viognier, syrah, cabernet sauvignon, cabernet franc, petit verdot, carminoir, marselan, caladoc – e grazie a questo possiamo dedicarci alla produzione di vini che si differenziano dal classico Merlot ticinese”. Nella loro gamma di vini, tutti non filtrati, figurano oggi cinque bianchi monovitigni, un rosato di merlot e syrah, sette rossi, di cui tre Merlot DOC, e un particolare assemblaggio, che è una sorta di scommessa del giovane Andrea. Lo abbiamo intervistato.

 

Tenuta Vitivinicola Roberto e Andrea Ferrari vista dall'alto

 

Siete stati premiati per il Merlot e anche lo scorso anno il Ticino ha conquistato un Tre Bicchieri con un Merlot. Il Ticino si può riassumere solo in questa varietà o si può pensare a una vitivinicoltura ticinese diversa?

È innegabile che il merlot sia il vitigno principe del Ticino, occupa circa l'80% dei terreni vinificati, ma noi ci stiamo muovendo per superare questa associazione automatica.

 

Come?

Innanzitutto coltivando undici vitigni differenti, poi puntando molto sul Castanar Riserva, il mio vino top, frutto di un assemblaggio di cinque vitigni rossi, tra cui merlot in quantità minoritaria, cabernet sauvignon, cabernet franc e carminoir.

 

È apprezzato anche in Italia?

Forse meno del classico Merlot ticinese, che è più rotondo e armonico, e si avvicina maggiormente ai gusti italiani.

 

Nel Ticino si beve molto vino italiano, pensate che anche in Italia si possa consumare vino ticinese o non è uno scambio a doppio senso?

Il vero problema è che non siamo conosciuti come produttori di vino. Quando si pensa alla Svizzera, il pensiero va subito al cioccolato o al formaggio, agli orologi o alle banche, ma ultimamente si sta muovendo qualcosa, arrivano appassionati incuriositi da Como o da Varese.

 

È solo un problema di immaginario collettivo?

Senza ombra di dubbio abbiamo dei costi aziendali alti, che non ci consentono di essere competitivi nei vini base. Ma in quelli top lo siamo eccome.

 

Nei vostri vini si sentono le radici italiane?

Abbiamo più radici francesi, basta pensare al taglio bardolese che caratterizza la maggior parte dei nostri vini.

 

Siete una piccola cantina: nei vostri programmi c'è una crescita in termini di dimensioni?

Per gli standard ticinesi, direi che siamo una cantina media! In ogni caso vogliamo stare dove siamo con i nostri 9 ettari e la nostra produzione (producono circa 45mila bottiglie all'anno, ndr).

 

Perché?

Principalmente perché il margine di crescita nel nostro territorio non è alto: dovremmo acquistare aziende già esistenti.

 

Avete in programma di esplorare anche altri mercati oltre a quelli locali? E quali?

Stiamo cercando, come Associazione viticoltori vinificatori ticinesi di trovare nuovi spunti, siamo principalmente orientati al mercato americano, qualcuno guarda anche alla Russia e al Giappone.

 

Tenuta Vitivinicola Roberto e Andrea Ferrari – Stabio - via Bella Cima, 2 – 0041765662255 - viniferrari.ch

 

a cura di Annalisa Zordan

 

 

 

 

 

 

 

Nuove aperture a Milano. Tanta pizza, il delivery di Iyo, gli chef di Identità Golose

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Settembre parte con l'acceleratore sulla piazza gastronomica di Milano, già sotto i riflettori per l'esordio di Starbucks. Sono arrivati Romito e Beck, il pane di Forno Collettivo, la pizza di O'Fiore mio. Ora tocca alla romana in teglia di Jacopo Mercuro e alla pizzeria moderna di Cocciuto. Iyo raddoppia con il take away orientale Aji, Identità Golose si prepara al debutto del suo Hub. 

 

Riassunto delle ultime aperture

La fine dell'estate, come sempre, porta grandi novità. È il momento giusto per avviare nuovi progetti, si torna in città con la curiosità di provare nuove tavole e indirizzi che tracceranno le linee guida del prossimo anno gastronomico. A Milano l'inizio di settembre ha coinciso principalmente con l'evento più atteso in città, l'inaugurazione del megastore di Starbucks – il primo in Italia, “dopo 35 anni di corteggiamento” ha ribadito Howard Schultz – in piazza Cordusio. Esordio chiacchieratissimo e foriero di immancabili polemiche, tra strenui difensori del caffè della nonna, fan del marchio della sirena e curiosi che continuano ad assieparsi all'ingresso dell'ambiziosa Roastery Reserve per prendere parte al rituale più mondano di questo settembre meneghino. Qualche giorno prima, però, esordiva in via Lecco un progetto altrettanto rivoluzionario nell'idea di portare a Milano – che pure in quanto a panifici di ricerca è forse la città più all'avanguardia in Italia - un modo nuovo di panificare, ispirato all'evoluzione della panificazione internazionale. Così Forno Collettivo (dietro c'è il team di Botanical Club e Champagne Socialist) ha conquistato l'interesse degli addetti ai lavori ancora prima di aprire, e ora, poco a poco, si impegna per figurare sulla mappa delle mete gastronomiche da non perdere in città. Dal pane alla pizza, i primi giorni del mese si segnalano anche per un altro esordio importante, solo il primo punto vendita di un progetto di espansione ben più ambizioso nel futuro di O' Fiore Mio. A Milano Davide Fiorentini e la sua squadra – appoggiati da nuovi soci desiderosi di investire in Italia e all'estero – hanno portato il format bolognese delle pizze di strada, nient'altro che pizza in teglia alla romana interpretata secondo il metodo del gruppo faentino, con l'idea di unire l'Italia su una pizza. E quindi selezionando ingredienti di qualità su tutto il territorio nazionale per proporre un'offerta di pizza al trancio molto varia – in omaggio a Milano debutta la Bauscia, con crema di riso allo zafferano, luganega, taleggio e germogli - nel pur piccolo locale di piazza Argentina (a coordinare le operazioni c'è il pizzaiolo Jonathan Trombini).

Pizzottella. La pizza in teglia romana di Jacopo Mercuro

Ma di pizza in teglia, l'autentica romana (e in arrivo da Roma!) si parlerà, e molto, anche in quella che è diventata una delle enclave gastronomiche più dinamiche della città, via Lodovico Muratori. Siamo in zona Porta Romana, a pochi passi da Trippa e nel regno di David Ranucci, imprenditore della ristorazione di origini laziali: oggi vive tra Miami e Milano, dove gestisce tre locali, a pochi metri l'uno dall'altro - Giulio Pane e Ojo, Abbottega, Casa Tua – memore delle tradizioni di famiglia e dei sapori della Tuscia. L'ultimo progetto, ancora all'insegna della romanità, coinvolge direttamente un autorevole partner in crime come Jacopo Mercuro, giovane pizzaiolo romano che nella Capitale ha scommesso sulla rinascita della pizza romana (insieme a Mirko Rizzo nella pizzeria popolare di Centocelle, 180g). Il primo amore di Jacopo, però, è stato la pizza in teglia: “Voglio portare a Milano quello che facevo da Mani in Pasta (la pizzeria a taglio di via Ostiense, chiusa più di un anno fa, ndr), però adattando il prodotto alla piazza milanese, in uno spazio molto curato e con servizio al tavolo”. Dunque Pizzottella aprirà in soft opening il 18 settembre, Jacopo seguirà l'avvio per tre settimane, poi si dividerà tra Roma e Milano, “salendo anche tre volte a settimana per impostare il lavoro, affidato a un pizzaiolo che ho portato con me da Roma, ex cliente di Mani in Pasta e oggi perfettamente in grado di padroneggiare impasti e cotture”. Da Pizzottella si mangerà solo pizza in teglia (niente fritti, ma per il prossimo anno Jacopo e Mirko potrebbero riservare sorprese), servita in trancio da due formati (3.90 o 4.90 euro), “per facilitare l'approccio dei milanesi”. Al banco – 14 proposte a rotazione ogni giorno secondo stagionalità, con i classici romani (amatriciana, cacio e pepe, gricia, carbonara) sempre presenti - il cliente sceglierà cosa ordinare, riceverà un numero e potrà accomodarsi al tavolo, prima di essere servito in qualche minuto. “Abbiamo scelto di curare la mise en place, mettere a disposizione anche le posate, anche se spero di convincere più persone possibili a mangiare con le mani; avremo una quarantina di posti a disposizione su due livelli, per l'allestimento abbiamo giocato su ceramica, legno e rame, richiamando anche il soffitto con travi a vista. È uno spazio davvero bello e c'è margine per fare bene”. Impasto con prefermento, farine con poco glutine, grande digeribilità e croccantezza. Tra gli ingredienti molti prodotti laziali – come salumi e formaggi selezionati da Vincenzo Mancino o le birre artigianali, “e avremo anche la pizza ripiena con la mortadella, irrinunciabile!” – apertura a pranzo e cena, per sfruttare le caratteristiche della zona. E l'idea di esportare presto il format a Barcellona.

La pizzeria moderna di Cocciuto

Restando a Milano, continuiamo a parlare di pizza – ormai le pizzerie in città non si contano più! - per raccontare l'idea di Cocciuto, “pizzeria moderna” (di questa tendenza, ben individuabile nella nostra Guida Pizzerie in presentazione il 20 settembre, riparleremo sul mensile di ottobre) come la definiscono i suoi ideatori, intenzionati a replicare rapidamente l'insegna in città. Si comincia dall'ambiente, uno spazio con nove vetrine su strada, all'angolo con via Savona: in omaggio al polo della moda e del design milanese, Cocciuto offre un'atmosfera urban chic, improntato al comfort e alla piacevolezza dell'esperienza nel suo complesso, cominciando proprio dalle attenzioni del servizio di sala. Cuore dell'impresa, però, resta la pizza, affidata alle cure di Andrea Godi e Antonio Caputo, ex Marghe (del resto Paolo Piacentini, ideatore del progetto con Michela Reginato, è anche fondatore di Marghe). Tradizione napoletana nel piatto, con il guizzo della condivisione grazie alla proposta di pizza al metro, e logica del chilometro buono, con materie prime in arrivo da tutta Italia. In abbinamento carta dei cocktail e un bel lavoro sui vini naturali, italiani e francesi.

 

Dalla cucina napoletana al delivery orientale

Terminato l'aggiornamento sulle pizzerie, restiamo però in ambito partenopeo con Nennella, istituzione napoletana della cucina popolare. La storica trattoria (dal 1949) dei Quartieri Spagnoli aprirà presto all'ombra del Duomo, con la complicità di Gino Sorbillo. In menu non solo i piatti della tradizione campana, ma anche le pizzelle (di Sorbillo) con ragù o genovese. Appuntamento in largo Corsia dei Servi a partire dalla fine di settembre.

Fuori dagli schemi, invece, è la proposta di Aji, delivery (a bordo di scooter elettrici) e take away di alta cucina orientale che porta la firma di Claudio Liu, che raddoppia la sua presenza in via Pier della Francesca, dove ha già portato al successo Iyo (12 anni e non sentirli). Poco più in là, nello spazio ipertecnologico di Aji, Liu e i suoi cuochi si propongono di servire cucina giapponese di qualità a prezzi convenienti, anche a domicilio: cucina a vista, anche da strada, organizzazione rigorosa del lavoro, software all'avanguardia per gestire le comande. E un social table da 12 posti per chi vuole consumare sul posto. Ma cosa si mangia (o si ordina da casa)? Tartare e carpacci di pesce, gyoza, sashimi e sushi, chirashi e una serie di sfizi in stile Iyo.

 

I cuochi di Identità Golose

L'alta cucina – oltre che con Heinz Beck a CityLife e all'interno dell'hotel Bulgari, dove Niko Romito ha da poco portato la sua idea di cucina italiana codificata secondo regole precise per restituirle dignità – sarà protagonista pure all'Identità Golose Hub che aprirà battenti dal 18 settembre negli spazi che un tempo ospitavano la Fondazione Feltrinelli in via Romagnosi. Ristorante, palcoscenico per chef, spazio eventi e luogo di scambio e confronto tra gli addetti ai lavori, il polo ideato da Paolo Marchi e Claudio Ceroni offrirà anche (soprattutto) tanta cucina d'autore. La supervisione del progetto è affidata ad Andrea Ribaldone, che supervisionerà il servizio del pranzo, affidato al resident chef Alessandro Rinaldi; dal mercoledì al sabato, per cena, si avvicenderanno chef in arrivo dall'Italia e dal mondo (si parte, tra gli altri, con Matias Perdomo, Philippe Leveille, Christoph Bob, Cedroni, Paco Roncero, Ana Ros), a testimoniare quanto negli ultimi anni Milano sia diventata una vetrina importante per l'alta ristorazione.

 

Starbucks Reserve Roastery - Milano - piazza Cordusio, 3 

Forno Collettivo - Milano - via Lecco, 15 - www.fornocollettivo.com

O' Fiore Mio - Milano - piazza Argentina, 4 - ofioremio.it

Pizzottella - Milano - via Lodovico Muratori, 8 - www.pizzottella.it

Cocciuto - Milano - via Bergognone, 24 - www.facebook.com/cocciutomilano/

Aji - Milano - via Piero della Francesca - www.aji.mi.it 

Attimi di Heinz Beck - Milano - CityLife - piazza 3 Torri, primo piano - www.attimi-heinzbeck.it

Identità Golose Hub - Milano - via Romagnosi, 3 - www.identitagolose.it

 

a cura di Livia Montagnoli

Starting the reinvention of Albanian cuisine. A Tirana la cucina dei grandi chef a confronto con quella delle nonne

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Starting the reinvention of Albanian cuisine a Tirana mette a confronto la cucina delle nonne con quella dei grandi chef albanesi che lavorano all'estero. Un nuovo modello di congresso gastronomico volto alla riscoperta e alla rilettura della cucina tradizionale albanese.

 

La memoria dei quasi 50 anni di regime che hanno tenuto l'Albania isolata rispetto al resto del mondo occidentale come del blocco sovietico è ancora percepibile. Lo è nell'eredità architettonica, nei ricordi della gente, nell'impatto devastante che la dittatura di Hoxha ha avuto sulla vita di migliaia di persone, nella loro intimità, le abitudini, lo stile di vita condizionato da difficoltà economiche, sospetti, mancanza di libertà, repressione. Tacendo sul fatto che la riforma agraria con la confisca delle terre e l'abolizione della proprietà privata influenzarono fortemente lo sviluppo economico e sociale del paese.

È un passato recente, molto recente, quello da cui si sta liberando quel lembo di terra a un passo dall'Italia. Così vicino da condividerne orizzonti e visioni. La fine del comunismo, nel 1990, ha aperto le porte alla democrazia e a un esodo storico, le immagini dei barconi straripanti di persone approdati in Puglia sono ancora vive nei ricordi di molti. È stato un evento epocale, che ha cambiato per sempre non solo il volto di quell'Albania appena uscita dalla dittatura, ma anche di quella successiva, perché quella diaspora ha portato fuori dai confini un'intera generazione, desiderosa di immergersi nella società che gli era stata negata. Alcuni poi sono rientrati, ma molti sono ancora all'estero.

In questo percorso durato anni - la dittatura prima, l'esodo e la globalizzazione dopo - si è creata una profonda voragine che ha inghiottito tante cose. Tra queste anche le radici gastronomiche. Di fatto annullate da questi eventi e dalla rincorsa a un'occidentalizzazione che ha schiacciato le tradizioni per andare incontro a quel che accadeva nel resto del mondo, aprendo le porte a un'industrializzazione disordinata. Così oggi, a Tirana e in tutto il territorio, è più semplice trovare ristoranti italiani o internazionali che albanesi, circoscritti a poche, talvolta ormai pittoresche, presenze. E l'eredità culinaria, con il suo carico sociale e culturale, è dispersa e rischia l’estinzione. Qualche anno fa Fundim Gjepali, chef dell'Antico Arco di Roma, ci raccontava come l'Albania non avesse tradizioni legate alle feste religiose, neanche quelle gastronomiche: “non ci sono piatti delle feste”. Era un esempio, però emblematico.

 

La reinvenzione della cucina albanese

È il momento di recuperare questa eredità prima che sia troppo tardi, deve aver pensato lo chef Bledar Kola del ristorante Mullixhiu di Tirana. La migliore offerta gastronomica attualmente nella capitale. Oggi che il paese delle Aquile sta affermandosi come nuova meta turistica (con il rilievo che riveste in questo campo l'enogastronomia) e che già da qualche tempo assiste a una rinascita. Ne avevamo parlato a proposito del mercato cittadino della capitale, Pazari i Ri, rinnovato lo scorso anno secondo lo stile dei mercati gastronomici di mezza Europa. E proprio il mercato, in una Tirana puntellata da gru che suggeriscono rigenerazione urbana (talvolta, ovviamente, anche speculazione), è lo scenario scelto da Bledar per un'iniziativa volta a recupero di quell'identità (non solo) gastronomica oggi ancora appannata. Una cucina formata in secoli di contaminazioni - influenzata com'è da suggestioni ottomane, balcaniche, greche, mediterranee – che occorre riscrivere secondo canoni contemporanei perché l'Albania possa entrare nelle coordinate gastronomiche internazionali.

Per farlo ha richiamato alcuni dei migliori chef albanesi, oggi nelle cucine di mezzo mondo: Grecia, Svezia, Danimarca, Stati Uniti, Belgio e, ovviamente, Italia, una delle principali destinazioni dopo la diaspora. Ne avevamo raccontato un anno fa: sono storie di grandi chef e integrazione. Si tratta di cuochi pienamente immersi nella riflessione sulla cucina contemporanea, che ne conoscono orientamenti, tecniche, linguaggi, e spesso hanno cominciato la carriera lontano da casa e che dunque non ne vivono, se non nella memoria, l'eredità gastronomica.

I miei ricordi di cucina albanese sono quelli dei tempi duri, quando il cibo era prezioso e c'era parsimonia in tutto”dice la chef Entiana Osmenzeza, che aggiunge però “l'altra faccia della medaglia è che tutto era bio bio bio. Stagionalissimo, esisteva solo il mercato dei contadini, delle cooperative che erano sotto il controllo del regime. Mi ricordo le mele: erano piccole, saporitissime e brutte. Si faceva tutto in casa, senza tante attrezzature ma genuino”. L'Albania è una terra ricchissima di materie prime straordinarie: l'agnello di Karaburun e delle montagne intorno a Valona, il pesce delle coste frastagliate e bellissime, frutta e verdura magnifica, formaggi di capra, miele. E un mosaico di piatti tipici, anche molto diversi da regione a regione, proprio per via di quelle contaminazioni di cui parlavamo prima. A quelli sono chiamate a officiare le nonne, per una volta non solo ideale riferimento ma vere protagoniste di un evento gastronomico.

pazari i ri - il mercato di tirana

Il mercato di Tirana

Rrno per me gatue: live to cook

L'iniziativa Starting the reinvention of Albanian cuisine è promossa daKola con Rrno per me gatue (ovvero vivere per cucinare) il movimento internazionale che coinvolge giovani chef albanesi per “preservare, reinventare, sviluppare e promuovere la cucina albanese a livello internazionale”. Per sancire il legame con la materia prima locale e la storia del territorio. Obiettivo? Stimolare una riflessione sulla cucina tipica che porti a un tavolo di confronto e sperimentazione, che metta in rete chef (che operano sia nel paese che fuori) e mondo agricolo, creando dei modelli per le giovani generazioni, e disegni dei possibili scenari di sviluppo per sostenere un'economia agroalimentare più sostenibile e identitaria. Consapevoli anche dell'impatto che la cucina ha sul turismo e l'agricoltura, sui sistemi alimentari e la società in generale.

Fergesa Verore, piatto di Ardit Curri

Fergesa Verore di Ardit Curri

12 piatti, 12 chef, 12 nonne

Reinventare la cucina albanese, come recita il titolo dell'evento, ma non prima di documentarne la versione filologica. Quella, per l'appunto, delle nonne, “eroine della tradizione culinaria albanese” capaci di custodirla anche durante gli anni durissimi della dittatura. 12 di loro saranno coprotagoniste insieme a 12 chef internazionali per presentare altrettanti piatti tipici, di diverse zone del paese, nella versione tradizionale e in quella innovativa. Per esempio Ardit Curri (ristorante San Martino 26 a San Gimignano) porta il Fergesa Verore, un piatto dell'area di Durazzo. Nella ricetta tradizionale si cuociono pomodoro e peperoni in un soffritto di aglio e olio, una volta pronti si aggiungono, fuori dal fuoco, ricotta e uova montate, infine si passa in forno in una teglia di terracotta. “È un piatto povero” racconta Ardit “che anche negli anni più difficili in cui si pativa la fame non mancava quasi mai sul tavolo”. Nella sua ricetta mantiene tutti gli ingredienti in forme, consistenze e temperature completamente differenti. “Dell’uovo uso solo il tuorlo coagulato tramite freddo, il pomodoro viene sostituito da datterini confit, che mantengono integri la forma e acquistano un gusto tendente al dolce, la ricotta viene messa in un sifone perciò abbiamo una spuma di ricotta, con il peperone faccio una salsa da decoro. In più aggiungerò delle sfoglie di byrek”. Bleri Dervishi– da poco rientrato a Tirana per far partire un nuovo, importante progetto - presenta la sua versione delle Kernackat e Korces, tipiche di Korce, città montana dell'Albania del sud, Corizza in italiano. Si tratta di polpette di sola carne, origano cipolla e pepe nero. Tradizionalmente vengono cotte sulla piastra e servite insieme alla cipolla cruda e accompagnate con birra locale. “Propongo una versione a base di carne cruda marinata. In Albania non si usa mangiare la carne cruda. Le accompagno con un brodo di birra, crema di cipolla, pane di farina di mais e foglie di origano fresco”.

Ci sono poi Rahman Buqaj porta Flija e Tropojes, torta salata di Kelmend, quasi al confine con il Montenegro; Fejsal Demiraj che dal Noma di Copenaghen, alla corte del cuoco di origini albanesi Rene Redzepi (da cui sono passati anche la Osmenzeza, Pema, Bocari e lo stesso Bledar Kola), arriva con la sua versione del Qervish me miell misri dhe pule, piatto di pollo con una crema di farina di mais, Erion Karaj del The Groucho Club di Londra porta la Jufka, pasta locale. Si continua così, affiancando la ricetta tradizionale alla sua rilettura a opera di cuochi: Ronald Bukri (Maza e Zier – Pulendra carne e farina di mais), Pol Pocari oggi a Le Cirque di New York(nella sua versione il Kaurma ne Saç,spezzatino con le verdure cucinato in una pentola simile al wok, diventa uno street food, un panino farcito con questa zuppa, olio al prezzemolo e una crema di feta) Loris Pema (al Pandenus di Milano, presenta Tave Krapi, carpa al forno), Besnik Gashi (Tave Prizrenit, tegame di uova, farina e verdure) Albert Hazma (Tava Elbasanit).

Entiana OsmenzezaEntiana Osmenzeza

I dolci sono affidati a Mario Peqini del Piazza Duomo di Alba (Sultjazh me Ballokume, sorta di pudding con biscotti) ed Entiana Osmenzeza che presenta un Qumështor me Petë: “un piatto al quale sono legata e mi piace davvero, e che spesso preparo a casa. Ai tempi mia nonna la faceva ogni fine settimana e tutti i nipotini erano intorno alla stufa a legna. Alla base c'era il latte buono, intero, grasso del contadino. Uova fresche, burro, pasta fillo fatta in casa, tostata.Inutile dire che i prodotti erano fantastici. Il profumo del burro avvolgeva tutta la casa”.È il Qumeshtor, preparazione che può essere salata oppure dolce.

 

Visto che questo congresso si basa proprio sulla tradizione e la cultura familiare, Entiana arriva accompagnata dalla zia “la cuoca di casa dopo mia nonna” che prepara la versione salata, mentre la chef si occupa la versione dolce, “non ho voluto stravolgerla tanto, per essere in linea con la natura dell'evento. La base del dessert è proprio il Qumeshtor fedele alla ricetta originale”dice, e poi spiega “valorizzo i prodotti, il latte con il quale faccio un cremino leggero e senza zuccheri aggiunti. Poi sottili cialde di pasta fillo tostate, preparate con sciroppo di zucchero profumato di verbena”.Nei dolci albanesi c’è quasi sempre lo sciroppo di zucchero (sherbet), “può anche sembrare un po’ pesante. A me piace tanto e devo essere sincera in certe ricette non si può togliere”.

 

A tirare le fila anche il professore Andrea Shundi, autore del libro “Arbëresh EtnoGastronomy”, e Andrea Pieroni, rettore dell’università delle scienze gastronomiche di Pollenzo. Guest chef? Eugenio Boer fresco della sua riapertura a Milano. Insieme per definire una sorta di manifesto della nuova cucina albanese. Una cucina, e dei protagonisti, di cui sentiremo parlare in futuro.

 

Gli chef partecipanti:

Fejsal Demi, Mario Peqini, Erion Karaj, Roland Bukri, Entiana Osmenzeza, Albert Hazma, Lasithi, Ardit Curri, Besnik Gashi, Bleri Dervishi, Loris Pema, Pol Porcari, Rahman Buqaj

 

A Tirana Starting the reinvention of Albanian cuisine – Tirana – Pazari i Ri – martedì 18 settembre

 

a cura di Antonella De Santis

 

 

 

 

 

 

Attivo: nasce il packaging in grado di prolungare il tempo di conservazione degli alimenti

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Da sempre fra le questioni più annose nel mondo alimentare, la cosiddetta “shelf life” degli ingredienti, ovvero la durata di un alimento, potrà presto essere prolungata grazie a un imballaggio innovativo che prevede l'aggiunta di oli essenziali nel cartone. 

 

L'idea

Un cartone impregnato con oli essenziali ad azione antimicrobica, in grado di prolungare la data di scadenza della frutta. Si chiama Attivo, ed è una nuova formula di packaging ideata per contrastare lo spreco e lo scarto alimentare, una soluzione innovativa progettata da Bestack, consorzio di produttori di imballaggi in cartone ondulato per ortofrutta, e il dipartimento di Scienze e Tecnologie Agro-alimentari dell'Università di Bologna. A testare per primi l'efficacia delle confezioni, le aziende Sant'Orsola e Orchidea Frutta.

Gli esperimenti

Durante lo sviluppo del progetto, i primi esperimenti dell'ateneo, condotti coinvolgendo 30 persone, hanno mostrato fin dall'inizio risultati positivi: i lamponi nell'imballaggio Attivo avevano un aspetto migliore di quelli nella confezione tradizionale, e sono rimasti freschi più a lungo, maturando del 10-11% in meno rispetto agli altri, a quattro giorni dal confezionamento. In questo modo, grazie al loro gusto ancora genuino (+9,6%in più rispetto a quelli in imballaggio convenzionale), i lamponi hanno meno probabilità di finire la spazzatura, riducendo così lo spreco del 6,25%. Un dettaglio che comporta anche un potenziale posizionamento di prezzo maggiore: oltre l'85%dei soggetti intervistati, infatti, ha dichiarato di essere disposto a spendere l'11% in più per i lamponi di Attivo. Risultati analoghi per il test sulle ciliegie, che ha evidenziato una riduzione dello scarto del 10,5% nel caso dell'imballaggio innovativo.

I vantaggi

Gli antimicrobici naturali contenuti nel cartone Attivo consentono di disinfettare la superficie degli imballaggi, ridurre le cariche batteriche anche patogene e aumentare la sicurezza alimentare”, ha spiegato il direttore di Bestack Claudio Dall'Agata. Che aggiunge: “In secondo luogo, consentono di rallentare i processi di maturazione e senescenza di lamponi e ciliegie, dando al prodotto una shelf life superiore di oltre un giorno in entrambi i casi e differenziali di scarto consistenti, considerato soprattutto il valore unitario del prodotto”. Una caratteristica che permette di raccogliere prodotti a elevato grado brix (livello zuccherino di frutta e verdura) e “garantire la loro qualità nel tempo con maggiore certezza, oltre ad allungare la loro vita di scaffale”. Ulteriori vantaggi, poi, sul fronte comunicativo: “La riduzione degli scarti alimentari è una tematica verso cui i consumatori sono molto sensibili. Grazie all'utilizzo degli imballaggi Attivi, si può costruire un piano di comunicazione di sicuro impatto per il consumatore finale”.

a cura di Michela Becchi

Anteprima Tre Bicchieri 2019. I migliori vini della Liguria

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Le anticipazioni dei premiati dalla Guida Vini d'Italia 2019 del Gambero Rosso. Oggi è il turno della Liguria.

 

L’immagine che ci consegnano le nostre degustazioni annuali ci mostra una Liguria enologica in perfetta salute, e in grande spolvero. Cosa non facile dove le vigne sono lembi di terra strappati con forza dall’uomo alla montagna, e dove sono poche ragguardevoli eccezioni le cantine - a parte le strutture cooperative - che possono vantare un parco vigne di più di dieci ettari. Attraverso un lavoro di secoli i vignaioli della regione hanno ricavato poggio su poggio, creando muretti di contenimento a secco con le pietre del posto, dove poter piantare viti e ulivi per il fabbisogno familiare.

Oggi tutto questo paga: qui si ottengono vini dal carattere unico, da questi terrazzamenti panoramici affacciati sul mare, infatti, non si gode solo un meraviglioso panorama mediterraneo. In questi vini il Mediterraneo lo si respira letteralmente, con i suoi profumi balsamici e di macchia, il vento salmastro, le rocce arroventate dal sole, le erbe aromatiche e gli agrumi, elementi che qui hanno sapori e profumi straordinariamente intensi. La definizione di viticoltura eroica nasce proprio per raccontare queste piccole realtà artigianali, dove ogni vendemmia è un miracolo d’impegno, sudore e fortuna, specie oggi, in epoca di repentini cambiamenti climatici. Ma il vignaiolo ligure ha una tenacia innata, ed è abituato a vincere le sfide: contro il tempo, contro le mode, contro i mercati globalizzati che vorrebbero numeri produttivi impensabili in questa regione.

Quest’anno premiamo sette di questi artigiani, sei veterani e una new entry, che vanno a comporre un perfetto quadro descrittivo della Liguria del vino. Dai Colli di Luni ci arrivano tre Vermentino straordinari, il Fosso di Corsano di Terenzuola ’17, il Boboli ’17 di Giacomelli, che debutta nell’esclusivo club dei Tre Bicchieri, e il classico Etichetta Nera di Lunae Bosoni. Dal Ponente invece ecco tre eccellenti Pigato: il Bon in da Bon ’17 di BioVio, U Baccan ’16 di Bruna e il Via Maestra de La Ginestraia. Chiude la serie l’unico rosso, l’elegantissimo Dolceacqua Beragna ’17 di Ka Mancinè, ambasciatore di un territorio e di uno stile di vino rosso che ha sempre più appassionati. Molti sono i vini giunti alle nostre degustazioni finali, comunque, a conferma della straordinaria vitalità e del talento dei vignaioli liguri.

Colli di Luni Vermentino Boboli '17 – Giacomelli
Colli di Luni Vermentino Lunae Et. Nera '17 – Cantine Lunae Bosoni
Colli di Luni Vermentino Sup. Fosso di Corsano '17 – Terenzuola
Dolceacqua Beragna '17 – Ka' Manciné
Riviera Ligure di Ponente Pigato Bon in da Bon '17 – BioVio
Riviera Ligure di Ponente Pigato U Baccan '16 – Bruna
Riviera Ligure di Ponente Pigato Via Maestra '16 – La Ginestraia

Ristorante Da Vittorio. È l'holding di famiglia (Cerea) l'arma vincente

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In oltre 50 anni i Cerea sono diventati un autentico impero dell'enogastronomia di qualità made in Italy, dentro e fuori il Belpaese. Nel numero di settembre del mensile del Gambero Rosso abbiamo studiato la loro holding per carpirne i segreti. Qui un'anticipazione.

 

Dagli ingredienti alle cotture espresse – anche in catering enormi (sì, pure quello del matrimonio dei Ferragnez) – dalle selezioni di prodotti alle autoproduzioni, tra ristorazione e regalistica, la galassia fondata dal mitico Vittorio vanta un fatturato da 15 milioni e mezzo di euro l'anno. Ecco come ci sono riusciti.

Gli esordi

In principio era il giovane Vittorio. Classe 1936, estrazioni umili, il primo dei Cerea entrò diciassettenne come garzone al Nazionale, che all'epoca era il bar più in vista di Bergamo. Era così svelto ad avvitare i portafiltri che nel giro di due mesi mise la freccia su tutti i banconieri e i baristi che stavano lì da un pezzo. Nemmeno maggiorenne, era già capobarman di un locale che serviva qualcosa a metà tra i 2 e i 3mila caffè al giorno, cifre oggi impensabili. Passò poi al Balzer, altro luogo simbolo della città, coi suoi 9mila krapfen sfornati quotidianamente, facendosi ossa ancora più spesse. Nel 1960 si mise in proprio: rilevò coi fratelli l’Orobica, una piccola insegna. Ma il successo lo costrinse a ingrossare l’ambizione: il 6 aprile 1966 aprì il ristorante che portava il suo nome, in viale Roma.

Da Vittorio, vista del dehors. Foto di Matteo Zanardi

Oltre mezzo secolo dopo l'apertura

Cinquantadue anni dopo quel dì, Da Vittorio è un’azienda che fattura 15 milioni e mezzo di euro all’anno e dà lavoro a 142 persone, che quasi raddoppiano sotto le festività. Cifre da holding, inarrivate nel gastro-mondo italiano. Una multinazionale del buono così ramificata che anche Enrico, Bobo, Francesco, Barbara e Rossella - i 5 figli del patriarca, scomparso nel 2005 - non sanno bene come riepilogare tutti gli asset. Ci proviamo noi. Oggi Da Vittorio è prima di tutto uno dei 9 ristoranti a 3 stelle Michelin d’Italia e uno dei Tre Forchette del Gambero dall’edizione 2013 della guida. Un’insegna da 70/80 coperti a servizio e forse l’unico locale iper-blasonato d’Italia capace di mettere a sedere una trentina di persone anche nei pranzi infrasettimanali. Ma soprattutto, un luogo in cui l’accoglienza – risale al 2005 il trasferimento da Bergamo centro alla Cantalupa a Brusaporto - è così incredibile e sorridente che costringe la clientela a tornare più e più volte, anche solo per rilassarsi in una delle 10 camere della Dimora sovrastante. In tema di cucina d’autore c’è anche una quarta stella Michelin, quella dell’omonimo ristorante contenuto nel Carlton Hotel di St. Moritz, una vetrina nel cuore posh dell’Alta Engadina svizzera (e ce ne fu una quinta, il ristorante Acquacotta dell’Hotel Terme di Saturnia ma lì la consulenza è cessata). Da Vittorio splende dunque oltreconfine grazie al lavoro dei cuochi Luca Mancini e Gianbattista Bergamelli, due ragazzi allevati nelle cucine di Brusaporto.

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I maestri del catering

Ma la vera parte del leone nella galassiadel business deiCerea è recitata dalle attività di catering, germogliate alla fine degli anni Settanta: un patrimonio che oggi assorbe addirittura il 50% del fatturato. Il punto è che nessuno sa fare ristorazione esterna come loro: cucinano in Italia e nel mondo un centinaio di volte l’anno e capitano giorni, come durante l’ultimo Salone del Mobile di Milano, in cui sono impegnati per quattro eventi in contemporanea. Hanno spadellato in esterna per Bill Clinton, i coniugi Obama, la Regina Elisabetta, Hussein di Giordania. Hanno accompagnato eventi di Prada (memorabile quel ricevimento per 250 persone a Shanghai), Armani, Buccellati, Cartier, Gucci, Versace… Organizzato matrimoni faraonici, come quello di Gaia Trussardi all’isola d’Elba, per 400 invitati. O cene di gala su atolli maldiviani così estesi che occorre l’autostop per passare da una cucina all’altra. Il segreto? Lo riassume Enrico “Chicco” Cerea, il maggiore dei fratelli: “Scegliere sempre la via meno facile. In un catering di stampo classico il grosso delle preparazioni è svolto il giorno prima: sottovuoto, precottura, stoccaggio, abbattimento... Ed è rigenerato nel giorno dell’evento. Cerchiamo invece di preparare e cucinare sempre tutto in loco, espresso. Ho visto catering per 150 persone, con solo due cuochi. Noi per 50 invitati impieghiamo 8 o 10 persone. E non ci formalizziamo di fronte a location improponibili: ieri abbiamo fatto un evento in una cucina di 3 metri per 2. Lavoravamo in 8. Ho fatto 3 docce in due ore”.

Non solo catering, nel mensile di settembre si parla anche delle molteplici consulenze e di regalistica, altro segmento in grande crescita.

 

a cura di Gabriele Zanatta

foto di Matteo Zanardi

 

QUESTO È NULLA...

Nel numero di settembre del Gambero Rosso, un'edizione rinnovata in questi giorni in edicola, trovate il racconto completo con l'intervento del sindaco di Brusaporto Roberto Rossi. Un servizio di 10 pagine che include anche un'utile timeline con le tappe più significative della storia di famiglia, un focus sul business del catering in Italia e la bio di tutti i protagonisti di questa bella storia.

 

Il numero lo potete trovare in edicola o in versione digitale, su App Store o Play Store

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Jordi Roca oltre il Celler. Rocambolesc al San Miguel di Madrid, e presto a Girona arriva Casa Cacao

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Ormai è un'impresa solida quella che il pasticcere catalano ha messo in piedi insieme a sua moglie Ale Rivas: il gelato di Rocambolesc raddoppia a Madrid, al mercato di San Miguel. Ma ora gli sforzi si concentrano su Girona, dove all'inizio del 2019 inaugura Casa Cacao: laboratorio del cioccolato, caffetteria, boutique hotel. Per raccontare la filiera del cacao sostenibile. 

 

Rocambolesc. Gelato d'autore alla conquista della Spagna

Quando il progetto Rocambolesc ha preso le mosse nel laboratorio di pasticceria del Celler de Can Roca, l'idea era proprio quella di replicare la suggestione del carretto ambulante che un tempo girava per strade e mercati vendendo gelati (lo stesso che sorprende, alla fine della cena, gli ospiti del Celler, in un tripudio di petit fours). Dietro c'è sempre stato lo studio matto e disperatissimo di uno dei pasticceri più geniali del mondo, Jordi Roca, e di sua moglie Ale Rivas, messicana d'origine e pasticcera anche lei, ormai votata al mondo della gelateria. Ma l'intenzione, l'attitudine di questa attività di famiglia cresciuta in parallelo al lavoro intenso del ristorante, è sempre rimasta legata all'immaginario fantastico di una casa dei balocchi che riempie gli occhi di colori e invenzioni inaspettate, sin dal primo approccio con la bottega, nella forma – riconoscibilissima – codificata per Rocambolesc a Girona (dove il primo negozio apriva nel 2012), Barcellona, Alicante e Madrid. Nella capitale spagnola la gelateria di Jordi Roca ha esordito un paio di anni fa nell'area gourmet del Corte Ingles di Calle Serrano, insieme a format d'autore altrettanto celebri, come Streetxo e Punto Mx.

Jordi Roca a San Miguel

Da qualche giorno, però, Rocambolesc è tornato alle origini, conquistando un banco al Mercado di San Miguel, lanciato verso una rinascita gastronomica che vorrebbe riportarlo agli antichi splendori, quando a partire dal 2009 la struttura di inizio Novecento ristrutturata e riaperta in forma di mercato gourmet si impose rapidamente come modello per l'apertura di food court e mercati gastronomici in tutta Europa. Il tempo ha contribuito ad affievolire la spinta rivoluzionaria del progetto, e oggi tra i banchi di San Miguel – ormai costantemente preso d'assalto da turisti di tutto il mondo, mentre ben pochi madrileni si avventurano all'interno per un aperitivo venduto a caro prezzo – di qualità se ne vede ben poca. Per questo il primo obiettivo della nuova proprietà, subentrata poco meno di un anno fa, è stato quella di attualizzare l'offerta richiamando attori di peso del panorama gastronomico spagnolo. E la scelta è ricaduta (anche) su Rocambolesc, tra le prime novità a insediarsi a San Miguel. Si vende gelato alla maniera di casa Roca: 6 varianti a rotazione stagionale con topping a scelta, in cono, brioche ripiena. Disponibile anche l'ormai celeberrima Roca Tocha, gelato su stecco ispirato con buona dose di autoironia al dettaglio fisiognomico più prominente del pasticcere catalano, il naso. Resta la voglia di divertirsi e regalare ai clienti momenti di divertimento, dunque, ma l'impresa continua a crescere con grandi margini di sviluppo. Oggi Rocambolesc dà lavoro a circa 40 dipendenti e dispone di un laboratorio centrale per la produzione del gelato a Girona, prossimo a essere rimpiazzato con uno spazio più grande, per implementare ulteriormente i volumi.

Casa Cacao. La filiera del cioccolato nel cuore di Girona

È qui che entra in gioco il progetto più ambizioso di Jordi Roca, che all'inizio del 2019 concretizzerà un sogno in cantiere già da un paio d'anni, una Casa del cioccolato nel cuore di Girona. Casa Cacao sarà laboratorio del cioccolato (con il supporto del nuovo centro di produzione), negozio per la vendita e la degustazione, centro didattico per educare alla cultura del cacao, ma anche boutique hotel, diretto da Anna Payet, moglie di Joan. L'obiettivo è quello di percorrere l'intera filiera produttiva, dal seme al prodotto finito, rendendo partecipe chi consuma il cioccolato non solo dei processi creativi e delle lavorazioni necessarie per trasformare la materia prima, ma anche di quanto sia importante stabilire una provenienza certa, etica e sostenibile per le fave di cacao in arrivo dai territori più vocati. Il progetto vedrà al lavoro insieme i tre fratelli: al piano strada il Bar Cacao sarà caffetteria, cioccolateria e rivendita di praline e tavolette di cioccolato, sotto la direzione del maestro cioccolatiere inglese Damian Allsop, con laboratorio a vista; al piano superiore, invece, Casa Cacao si articolerà in 15 stanze a tema con terrazza che guarda sulla città. Mentre nel centro di Girona (in placa de Catalunya) i lavori diretti dall'architetto Sandra Tarruella procedono spediti - poco meno di 2 milioni di euro il costo dell'intera operazione – Jordi Roca e Allsop hanno trascorso gli ultimi mesi tra piantagioni di cacao in giro per il mondo, con l'idea di rappresentare nello spazio catalano tutte le migliori produzioni internazionali, dalla Colombia al Perù, dal Messico al Madagascar, fino ad alcuni Paesi asiatici, comprando personalmente il prodotto dai piccoli agricoltori locali, al giusto prezzo. Anche il packaging sarà sostenibile, ricavato dalle fibre di cacao riciclate. Si comincia a gennaio 2019.

Per scoprire tutto sul cacao – le migliori produzioni sostenibili, i maestri cioccolatieri che fanno ricerca in Italia e nel mondo – invece prenotate il vostro numero di Gambero Rosso in edicola: la copertina di ottobre è dedicata proprio al cioccolato.

 

a cura di Livia Montagnoli

140 anni per il cioccolato di Venchi, che va alla conquista del Giappone

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La storia comincia nel 1878, nel laboratorio dolciario di via degli Artisti, a Torino. Oggi l'azienda, dopo il rilancio avviato dalla nuova proprietà all'inizio degli anni Novanta, è solida e punta all'estero. Così per il compleanno si regala un accordo con la giapponese Mitsui. L'Asia è il mercato su cui puntare. 

 

140 anni di Venchi

Nella Torino che si appresta ad accogliere la XII edizione di Terra Madre Salone del Gusto, qualche giorno fa è andata in scena un'altra ricorrenza gastronomica importante: sono passati 140 anni dalla fondazione del primo laboratorio dolciario a marchio Venchi nel centro della città (in via degli Artisti, all'epoca, è Silvano Venchi a produrre gianduiotti e altre prelibatezze al cacao). Era il 1878. Oggi la produzione si è trasferita a Castelletto Stura, in provincia di Cuneo, nel grande centro dove confluiscono materie prime in arrivo da tutto il mondo (a cominciare però dal km 0 delle nocciole piemontesi Igp di Cravanzana). Dopo il cambio di proprietà dei primi anni Novanta, l'azienda è cresciuta in modo esponenziale, e oggi conta poco meno di mille dipendenti, per un fatturato stimato a circa 100 milioni di euro per il 2018. Il merito è dell'accelerazione costante e calibrata messa a punto negli ultimi 18 anni dal triumvirato Martelli – Ferrero – Cangioli, che ha spinto sulla differenziazione del prodotto e sull'innovazione tecnologica, mantenendo però il controllo totale delle vendite con i propri agenti inviati sul territorio.

 

La festa, la mostra a Torino

Così lo scorso 14 settembre, alle OGR di Torino si è festeggiata la storia del marchio e insieme il presente di un'azienda italiana solida; e la mostra curata da Clara e Gigi Padovani – frutto di lunghe ricerche d'archivio, tra l'Archivio di Stato di Roma, il Museo del Manifesto di Torino, le collezioni di quotidiani d'epoca e molti altri istituti d'Italia – inaugurata per l'occasione (ora visitabile presso lo show room Venchi di Robilante, CN), ripercorre anche questa evoluzione, scandendo la storia di Venchi in 11 tappe, in parallelo allo sviluppo dell'arte dolciaria torinese e piemontese. Ma il presente e il futuro di Venchi sono rivolti pure all'estero, grazie a un piano di internazionalizzazione che vuole raccontare il cioccolato italiano nel mondo (nel Cinquecento furono i Savoia a ottenere la licenza per commercializzare cacao in Europa). Con oltre 100 negozi a gestione diretta in 70 Paesi, l'export di casa Venchi assorbe il 30% della produzione, mentre il modello della cioccogelateria, ideato nel 2007, è destinato a diffondersi con capillarità, per mostrare al mondo un catalogo arrivato a comprendere circa 350 ricette di cioccolato, oltre a 90 gusti di gelato.

 

Venchi in Giappone. L'accordo con Mitsui

Dunque l'accordo ufficializzato proprio in concomitanza con i festeggiamenti torinesi per l'anniversario procede in questa direzione: il partner coinvolto è il giapponese Mitsui, multinazionale che spazia dalla meccanica alla distribuzione, all'alimentare. Con la nuova alleata nipponica, Venchi si muoverà alla conquista del Giappone, con l'apertura di 40 cioccogelaterie nel Paese. Perché il mercato su cui insistere, ora, è l'Asia: a Pechino Venchi ha insediato alcuni dei suoi uffici operativi, e da lì controlla la crescita del marchio in Cina. Ma l'obiettivo è più ambizioso, e delle nuove 100 aperture previste entro il 2020 in tutto il mondo, circa la metà saranno dislocate sul territorio asiatico. Sempre consapevoli di dove è cominciato tutto.

 

a cura di Livia Montagnoli

Starbucks Reserve Roastery Milano 10 giorni dopo l'inaugurazione. Video e riflessioni

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Torniamo da Starbucks per sfatare qualche mito, e documentare, etro per metro, la nuova Roastery di piazza Cordusio a Milano. E lo facciamo con l'aiuto di due filmaker di rifermento nel mondo del caffè.

 

A 10 giorni dall'inaugurazione, dal bagno di folla, dalle curiosità esaudite dei tanti coffee lovers, di Piazza Cordusio chiusa per performance e per ospiti vip, forse è giunto il momento di tornare sull'argomento Starbucks Milano. Anche perché, nonostante i tanti contenuti usciti, forse la copertura stampa avuta dall'evento non è da considerarsi esaustiva in relazione a tutte le sfaccettature e alla caratura di questa novità commerciale capace di cambiare la prospettiva italiana sul caffè, la sua percezione, la sua cultura.

 

Per aiutarci a riflettere sulla faccenda abbiamo optato per muoverci su due vie. Da una parte abbiamo girato un video all'interno del punto vendita; è un filmato assolutamente amatoriale ma ci può aiutare a fare una analisi più approfondita e con qualche utile riferimento visivo. Guardarlo spezzone per spezzone ci può essere utile per capire i versanti meno raccontati di questo grande bar. Dall'altra ci siamo rivolti a dei giovani esperti come i ragazzi di Romediastudio, che sono un po' i comunicatori-filmaker attualmente state of the art sul mondo del caffè di ricerca anche grazie alla loro riconoscibilità internazionale e al documentario su questo ambiente realizzato un annetto fa oltre che alla loro seguitissima pagina Instagram. Grazie dunque a Federico Lucas Pezzetta e Federica Balestrieri che hanno messo giù per noi i loro punti di riflessione su Starbucks.

 

 

Partiamo dunque dal video qui sopra. Si tratta di un giro di 5 minuti in presa diretta nel punto vendita di Piazza Cordusio. L'unica cosa che non si vede è la fila, sempre presente almeno in queste prime settimane di apertura. La fila si divide in due spezzoni, il primo esterno all'edificio (talvolta addirittura a circondarlo), il secondo interno, nel loggiato. È qui che c'è il primo contatto tra il visitatore e il mondo Starbucks: un giovane addetto imbastisce il primo step della narrazione che poi sarà protagonista per tutto il percorso interno. “È la tua prima volta qui?", "Sei stato altre volte da Starbucks?", "Sai che questo Starbucks è diverso da tutti gli altri Starbucks che hai visitato?" e via così. L'obbiettivo è caricare l'avventore di aspettative e farlo calare subito nell'atmosfera. Invece che di cliente o di consumatore abbiamo prima parlato di "visitatore", ed è questa in effetti la sensazione che si ha entrando. Il feeling è simile all'ingresso di uno spazio espositivo di impronta museale. E qui veniamo alle riprese del video.

 

starbucks milano

MINUTO 0.05

Ebbene sì, quando si entra, esattamente come avviene in molti musei e fondazioni, si viene dotati... della mappa! Il negozio è grande, ma non sconfinato, la mappa dunque serve fino ad un certo punto, tuttavia crea quella magia e restituisce quella sensazione di essere in un luogo speciale. Buona mossa di marketing atta a generare una suggestione di autorevolezza e rispetto. Il caffè come qualcosa di sacro, da rispettare come un'opera d'arte.

 

starbucks il bar di princi

MINUTO 0.15

A sinistra dell'ingresso c'è subito un grande bar, dominato da ampi banner che riportano alcuni nomi di caffè e di origini con la grafica delle confezioni di Starbucks Reserve Roastery. Sulle pareti di questo bar gli alcolici si dividono lo spazio con le pagnotte di Princi. Siamo nell'area del pane e dell'arte bianca. Qui a dominare è il forno, non il caffè. Il bar ha macchine e macinini di tutto riguardo, ma il caffè è ancillare rispetto agli altri prodotti che stanno nel bancone. Alle spalle è chiaro il riferimento alla produzione: bocche di forno e forni per riscaldare inclusi.

 

starbucks milano

MINUTO 0.30

Di fronte a questo caffè-panificio, c'è tutta l'area retail. Una rivendita di prodotti per la caffetteria (soprattutto per prepararsi un buon caffè a casa in tutte le estrazioni possibili) abbastanza inarrivabile. Si tratta di uno showroom assai significativo per uno degli obbiettivi che direttamente o indirettamente la Reserve Roastery si propone: fare cultura sul mondo del caffè. Fino ad oggi pensavate che fare caffè a casa significasse esclusivamente agire sulla vostra moka o pigiare il pulsante della vostra macchinetta elettronica per l'espresso? Qui avete un assortimento abbondante di chemex, sifoni, v60, caraffe, aeropress, kettle, postazione per fare il gelato all'azoto - quello firmato da Alberto Marchetti - e quant'altro. Il messaggio è abbastanza chiaro: il caffè non era solo quello che pensavate e potete prepararvelo in mille maniere che qui vi aiutiamo a scoprire.

 

starbucks la tostatrice

MINUTO 0.40

Sempre spalle all'ingresso, sulla destra c'è il cuore della roastery vera e propria, con la macchina che tosta caffè 24 ore su 24. I ritmi di lavoro sono necessari perché grazie all'apertura della Reserve di Milano, Starbucks ha cambiato tutta la propria logistica europea. I punti vendita francesi, tedeschi, austriaci, spagnoli (e presto quelli che apriranno in Italia) non vengono più approvvigionati direttamente dal Nordamerica bensì direttamente da Milano. Le dimensioni di questa tostatrice servono sì a far scena (il collocamento in mezzo a tutto è indicativo), ma sono il fulcro di un progetto che è anche e soprattutto industriale e logistico.

 

starbucks milano il negozio di caffè

MINUTO 1.20

Questo è il negozietto del caffè. Varie origini, varie tostature, differenti livelli di colorazione e gusto e personale iper competente disposto a spiegare. Non sembra esserci una macchina per macinare perché il caffè, se lo si vuole degustare nella sua massima espressione, va comprato in grani e macinato a casa (il macinino è in vendita, ovviamente) poco prima dell'estrazione.

 

MINUTO 1.40

Qui si vede il resto dell'area retail, che è davvero grande rispetto al totale della superficie, diciamo un 10% abbondante. Non solo attrezzature per il caffè, quindi, ma anche marchandising puro. Incluse bici e vespe! Lo store di oggettistica è collocato in maniera così centrale rispetto al layout complessivo del negozio, che si può ipotizzare che influisca non poco nel conto economico complessivo sia in termini di fatturato che di margini di guadagno.

 

starbucks milano la tostatrice

MINUTO 1.55

Mentre la tostatrice tosta, anche qui come al negozietto del caffè troviamo l'ennesimo dipendente Starbucks intento a spiegare. Spiegare, spiegare, spiegare. Questa la chiave, o meglio una delle chiavi. Narrazione, storytelling, formazione, educazione. La conoscenza del pubblico è (mediamente) così bassa che a chiunque è offerta l'opportunità di uscire sapendone un po' di più. Notare il vassoio con i vari colori dei chicchi, a partire dal verde. Il caffè è un vegetale, una pianta. Molti lo scopriranno solo qui, ne siamo certi.

 

starbucks milano angolo bar

MINUTO 2.10

Distributori di chicchi, macchine del caffè, macinini per i chicchi, macchine per il gelato, macchine per fare il caffè syphon, macchine per fare il caffè filtro, macchine per fare il caffè freddo. Tutto in sovrannumero. Il bar sorprende molto da questo punto di vista. Non solo la tecnologia è al top, ma è sovrabbondante rispetto alle esigenze. Come si può vedere praticamente nessuno beve il caffè all'italiana, in pieni. A tutti è offerta l'opportunità di stare seduti. È vero che il caffè costa 1,80 euro, ma è anche vero che viene servito con acqua e dolcetto e che si sta seduti. Nei nostri bar il caffè costa meno se consumato al bancone, ma se ci si siede la cifra supera perfino quella di Starbucks.

 

starbucks milano

MINUTO 3.37

In questo preciso istante si può per certi versi percepire l'ampiezza dell'area "industriale" dello Starbucks Reserve Roastery di Milano. Tutta la parte sulla destra dell'inquadratura è lo stabilimento non solo di torrefazione, ma anche di confezionamento, stoccaggio, distribuzione dei caffè che andranno in giro per l'Europa. Una grossa porzione del negozio, insomma, è non accessibile e dedicato a produzione e logistica. In realtà il cuore dell'operazione è proprio questa qui.

 

starbucks milano cocktail bar

MINUTO 4.00

Siamo nel cocktail bar. L'impronta è un cocktail bar milanese degli anni Ottanta. Il caffè non è il protagonista principale - come avviene nel bar di Princi - ma comunque non è affatto assente. Sia grazie a una grossa postazione per la produzione di caffè freddo (cold brew), sia grazie a un carrello che suggerisce l'utilizzo dei caffè nel lavoro dei barman. Anche qui, come si vede in uno spezzone del filmato, solo macinini che macinano il caffè direttamente. Non ci sono insomma i classici macinini da bar italiano con la campana di plexiglass con i chicchi e il caffè già macinato sotto. Il caffè va macinato pochi istanti prima dell'estrazione, altrimenti perde profumi e caratteristiche e complessità.

 

10 superstizioni su Starbucks da sfatare

Dopo i 5 minuti di passeggiata dentro Starbucks e dopo aver notato alcuni dettagli grazie al filmato, passiamo come anticipato la parola a Romediastudio che per noi ha setacciato i social, ha trovato le più ricorrenti obbiezioni a Starbucks e ha provato a dare una risposta. Si tratta di un campione di 10 obbiezioni, ma se ne avete altre possiamo fare delle aggiunte, semplicemente scrivete nei commenti cosa non vi quadra e proveremo a rispondervi. Non fate però l'errore che hanno fatto molti in queste settimane: parlare prima di aver visitato e approfondito un minimo la faccenda.

 

1. Il caffè di Starbucks fa schifo. E mia nonna lo fa meglio…

Ovviamente il gusto è soggettivo ma non è possibile negare che ci sia un lavoro di qualità alla radice. Starbucks sceglie di tostare solo caffè 100% arabica e questa è una differenza che può essere avvertita dal palato del consumatore italiano medio tradizionalmente abituato a dei blend di arabica e robusta per l'espresso. Uno dei marchi di fabbrica dell'azienda americana è la tostatura scura dei chicchi: tale caratteristica viene contestata dai coffee lover amanti delle note acide e degli aromi spiccatamente fruttati nella bevanda, ma - garantendo alla tazza sentori di cioccolato e biscotto - è in realtà molto più vicina al gusto italiano standard di quanto si possa pensare.

 

2. Starbucks è una multinazionale e come tale non rispetta il pianeta

Mentre Starbucks nella sua declinazione classica serve caffè più commerciali, in Starbucks Reserve vengono selezionati caffè di singola origine, molti dei quali da microlotti. I caffè di Starbucks Reserve sono insomma direct trade. Nel 2013 la compagnia di Seattle acquistò la sua prima fattoria in Costa Rica - Hacienda Alsacia - che funziona anche come centro di ricerca e sviluppo sulla filiera del caffè. I support center di Starbucks sono 9 in tutto il mondo: sono luoghi dove la compagnia condivide con i farmer scoperte e conoscenze sul mondo del caffè al fine di migliorare la qualità del raccolto e la redditività della farm per il produttore.

 

3. Quello migliore è il “caffè italiano”

Il caffè "italiano" non esiste: la sua coltivazione avviene nella fascia tropicale del globo; le prime caffetterie non sono nate in Italia; un italiano inventò sì la geniale macchina per espresso (tra l'altro l'idea alla base era quella di ridurre il tempo dedicato dai lavoratori alle pause), ma a livello mondiale il metodo di preparazione della bevanda nera più diffuso è quello a filtro. Un caffè filtro preparato con tutti i crismi fa ottenere una tazza sicuramente con meno corpo ma super aromatica. Inoltre se non si è di fretta è un'ottima soluzione per chi gradisce un rilascio più lento e prolungato della caffeina. È perfetto se vogliamo mantenere la concentrazione alta per un tempo più lungo.

 

4. Starbucks senza il frappuccino e i prodotti pieni di zucchero e calorie non è Starbucks

Starbucks agli albori era un negozio di rivendita di caffè tostato fresco che veniva venduto rigorosamente in chicchi. Iin un certo senso quindi è vero il contrario. La Roastery è un ritorno alle origini. Starbucks Reserve è da considerare quindi una torrefazione classica da una parte e un laboratorio sperimentale per quanto riguarda il menu che offre. Per questo non troverete frappuccino o strane bevande dai nomi difficilmente pronunciabili. Reserve è un brand con il quale Starbucks ascolta quella fascia di consumatori che fanno dell'healty life-style il loro stile di vita.

La partnership con Princi in questo senso è sicuramente un attestato di stima per quello che riguarda la sezione food all'Italiana e al tempo stesso rappresenta un accordo strategico con un marchio che ha una buona reputazione e una struttura in grado di mantenere la qualità del prodotto anche su più larga scala.

Prima di Princi, Starbucks Reserve e una parte dei normali store avevano iniziato a servire i prodotti dell'azienda californiana di proprietà di Pascal Rigo La Boulange (società che Starbucks acquistò per 100 milioni di dollari nel 2012 e che chiuse nel 2015). La differenza principale tra La Boulange (che forniva sandwich e dolci di buona qualità ma spesso, per necessità logistiche, da decongelare) e Princi è l'inserimento del forno a legna all'interno della Roastery. Il piano di sviluppo prevede di aprire circa 1000 Princi bakery nel mondo (capaci nel futuro di servire, perché no, anche i classici Starbucks). Tutto il cibo e il caffè che potete ordinare nella Roastery milanese è preparato nella Roastery stessa. Tutto questo per dire che Reserve Roastery è un altro (proprio un altro!) marchio del gruppo Starbucks. Allo stesso modo in cui nel gruppo automobilistico FCA il marchio Maserati ha un posizionamento e il marchio Fiat ne ha un altro, non sarebbe neppure lontanamente pensabile trovare delle similitudini. Che infatti qui non ci sono.

 

5. Questa Roastery è la brutta copia Italianizzata di Starbucks

Starbucks non si è Italianizzato per l'Italia. Le Roastery di Seattle e Shanghai lavorano in modo simile già da tempo. L'espresso è solo uno dei tanti metodi di preparazione del caffè proposti ma il menu offre tantissime bevande che raramente capita di trovare in una classica caffetteria Italiana.

Il brand Reserve per Starbucks è più che altro un ingresso nel mercato della terza onda. Nella third wave of coffee l'intera filiera, dal farmer fino al consumatore finale, ha un'importanza centrale. Questo si traduce in: maggiore sostenibilità; chicchi tostati per enfatizzare al massimo gli aromi; migliore formazione professionale di chi lavora all'interno della caffetteria.

Ad ogni modo Starbucks, quando entra in un nuovo Paese, cerca di entrare in sintonia con le abitudini locali. Starbucks e Howard Schultz amano l'Italia, ma il nostro Paese non è stato un'eccezione.

 

6. Ma 300 dipendenti per fare il caffè?

Ovviamente i dipendenti all'interno della Roastery non svolgono tutti la stessa mansione. C'è chi si occupa di tostare il caffè, chi è addetto al reparto packaging, chi si occupa della rivendita di caffè al dettaglio e chi vende il merchandising nei piccoli punti shop; senza dimenticare chi lavora da Princi, chi al reparto Mixology al piano superiore né i baristi al bancone caffetteria.

I dipendenti lavorano su turni quindi non sono tutti contemporaneamente presenti. Ma soprattutto la specializzazione delle risorse contrariamente a quanto si potrebbe pensare, non ne diminuisce l'apporto produttivo bensì lo aumenta in un'ottica di collaborazione del team e customer service. E poi, come si vede nel video qui sopra, la Reserve è anche e soprattutto una fabbrica, una autentica grande torrefazione.

 

7. I dipendenti sono sottopagati e sfruttati come in molte altre grandi aziende

I dipendenti di Starbucks Reserve hanno ricevuto un training di oltre due mesi, tutto regolarmente sotto contratto e pagato. Una condizione vantaggiosa da guardare assolutamente di buon occhio per la situazione occupazionale del mercato del lavoro Italiano. Nell'ottica dell'azienda di Seattle una persona felice, motivata e poco stressata è una risorsa che va a lavoro più volentieri. Negli Stati Uniti i dipendenti full time di Starbucks sono stati tra i primi a poter usufruire di un programma di copertura sanitaria, rimborso delle tasse universitarie e stock option dell'azienda (da qui il motivo per cui i lavoratori di Starbucks sono definiti "partner").

 

8. L'arrivo della multinazionale americana è un affronto all'Italia

Al contrario, per costruire la Roastery, Starbucks si è avvalso della collaborazione di imprese Italiane a tutti i livelli: design, impiantistica, macchinari. Ogni singola parte all'interno della Roastery è stata pensata e costruita su misura per l'edificio di Piazza Cordusio che solo qualche tempo fa era in disuso.

 

9. L'investimento per la Roastery è esagerato rispetto al feedback che avrà dai consumatori di Milano

Milano per Starbucks ha una duplice funzione: da una parte è una pubblicità clamorosa per l'azienda che può dire finalmente di essere presente in Italia (addirittura con una Roastery) e dall'altra ha una funzione strategica. Con la Roastery di Milano e quella di Shanghai Starbucks ha creato due assi fondametali per la distribuzione di caffè Reserve tostato fresco per Europa e Asia. In Europa c'era in realtà già una Roastery alle porte di Amsterdam ma non era aperta al pubblico. Inoltre la torrefazione in Olanda si è sempre occupata di tostare le miscele più commerciali, non i chicchi migliori. I caffè Reserve prima di Milano venivano tostati a Seattle e poi spediti oltreoceano. Inutile dire che il consumatore finale ne guadagna in termini di freschezza del prodotto, mentre la compagnia abbatte spudoratamente i costi. Insomma, se volessimo esagerare, la Reserve produrrebbe economie di scala anche se rimanesse senza clienti al dettaglio.

 

10) In Australia Starbucks ha già fallito. Fallirà anche in Italia

Starbucks ha imparato molto dall'insuccesso australiano. In quel continente fu stretta tra una solida tradizione di caffetterie Italiane di stampo classico e le caffetterie specialty della third wave e non riuscì a posizionare efficacemente il proprio prodotto dovendo rispondere a queste due correnti molto diverse: da un lato gli appassionati della caffetteria tradizionale, molto ancorati alle proprie antiche abitudini, dall'altro i coffee lovers fruitori di una tostatura molto più chiara di quella proposta da Starbucks.

L'ingresso di Starbucks in Italia in grande stile con la Reserve Roastery mette subito in chiaro la differenza in termini di qualità della sua materia prima rispetto ad altre grandi multinazionali.
Starbucks vuole comunicare in questo modo di essere assolutamente consapevole dei propri mezzi: oltre a rappresentare un omaggio da parte di Schultz alla tradizione italiana, questo è il vero significato della Roastery di Cordusio.

Fra non molto, nei punti vendita che verranno aperti e gestiti dalla famiglia Percassi (che saranno Starbucks tradizionali) si potranno trovare anche quei prodotti, come il Frappuccino, che tanto sono graditi a una certa fascia di clienti.

 

Starbucks Reserve Roastery – Milano – piazza Cordusio, 3

 

a cura di Massimiliano Tonelli e Romediastudio

 

 

Identità Milano. Inaugura oggi l'hub di gastronomia internazionale di Identità Golose. Le foto

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Sarà una finestra sul mondo a Milano, nelle intenzioni dei suoi ideatori Paolo Marchi e Claudio Ceroni, che nello spazio polifunzionale di via Romagnosi hanno riassunto quasi 15 anni di storia di Identità Golose. Dal 20 settembre via alle attività: pranzi e cene d'autore, incontri formativi, degustazioni. Le prime foto. 

 

Identità Milano. Cos'è

L'entrata di via Romagnosi 3, di giallo vestita, invita a scoprire come i lavori degli ultimi mesi abbiano contribuito a ripensare gli spazi che un tempo ospitavano la Fondazione Feltrinelli (oggi approdata in viale Pasubio). Totale dell'investimento: circa 2 milioni di euro. Identità (Golose) Milano, recita l'insegna chiamata a riassumere l'ampio ventaglio di attività che d'ora in avanti prenderà forma sotto il tetto del “primo hub internazionale di gastronomia” della città. Due giorni di inaugurazione serviranno a prendere confidenza con temi e protagonisti dell'inedito polo gastronomico firmato Identità Golose - Paolo Marchi e Claudio Ceroni ne sono i numi tutelari – destinato a proiettare una volta di più Milano nell'Olimpo delle capitali internazionali dell'alta cucina. Di progetto ambizioso – il più ambizioso nella storia di Identità – parlano i suoi ideatori: un centro polifunzionale per eventi gastronomici e culturali, con ristorante quotidianamente aperto al pubblico, a pranzo e cena, spazio didattico e area formativa, per amatori e professionisti. Un format nuovo che raccoglie l'eredità di Expo 2015, quando proprio a Identità Golose fu affidata l'organizzazione di uno spazio ristorativo fondato sul principio della rotazione tra chef in arrivo da tutto il mondo per partecipare alla celebrazione della cucina d'autore.

Il ristorante. Una finestra sul mondo

Sarà dunque in primo luogo una vetrina per loro, i cuochi che si avvicenderanno ai fornelli secondo un programma che sarà svelato progressivamente; e un'opportunità di lavoro per molti professionisti del settore. Ma anche, nelle intenzioni di chi l'ha voluto, un nuovo spazio a disposizione della città, per stare bene insieme, imparare, divertirsi, scoprire cucine insospettabili, prendere confidenza con l'alta ristorazione in una dimensione mediata e più rassicurante, anche per chi abitualmente non frequenta tavole blasonate.

Il ristorante aprirà al pubblico a partire da giovedì 20 settembre, con l'intenzione di ribadire sin dall'inizio il principio cardine del progetto: il dialogo. Il dialogo tra Milano, l'Italia e il mondo; il dialogo tra cuochi in arrivo da esperienze completamente diverse; il dialogo tra chi cucina, chi produce e chi racconta, privilegiando quel fattore umano che è stato tema dell'ultima edizione del congresso meneghino.

Alla prima settimana di programmazione “speciale”, con cene a più mani ed eventi corali, seguirà, dalla prossima, un calendario di routine (si fa per dire, perché i protagonisti cambiano di continuo, comincia Moreno Cedroni), con le cene degli chef ospiti dal mercoledì al sabato sera (tutte al costo di 75 euro per 4 portate, prenotabili online sul nuovo sito dedicato) e il pranzo (35 euro per il business lunch) servito dalla brigata del resident chef Alessandro Rinaldi – con la supervisione di Andrea Ribaldone, executive della casa – che seguirà anche il servizio del lunedì e del martedì sera. Ecco le prime foto degli spazi.

 

Identità Milano – Milano – via Romagnosi, 3 - www.identitagolosemilano.it/prenotazioni/

 

a cura di Livia Montagnoli

 

Rural Festival: le novità dell’edizione 2018

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Si è chiusa la quinta edizione di uno degli appuntamenti più attesi e amati della biodiversità. Le novità, le iniziative, i protagonisti. Visita all’allevamento di asini dell’azienda Montebaducco di Giuseppe Borghi. Intervista a Mauro Ziveri, mente e cuore della manifestazione.

 

Ogni anno, dal 2014, Rural Festival riserva delle sorprese. Edizione dopo edizione l'appuntamento dedicato alla biodiversità agricola dell'Emilia Romagna e della Toscana, che si tiene a Rivalta nel Parco Barboj, sulle colline parmensi, aggiunge pezzi nuovi in un puzzle che sembra non avere fine e non smette di incantare. L'edizione 2018, l'8 e il 9 settembre, sarà ricordata come la più ricca di sempre. Grazie a Mauro Ziveri, l’ideatore dell’evento, capofila di progetti raccolti sotto il nome Rural tesi alla salvaguardia delle antiche razze animali e di vegetali di varietà dimenticate. Con il sostegno di tanti agricoltori e allevatori custodi e di uno staff capace di fare squadra.

rural telaio del canapaio

Le novità 2018

Quest'anno i nuovi assi nella manica sono stati l'apertura alla biodiversità ligure (la zucchina trombetta, l’asparago violetto, la pesca di acciughe fatta con l’antico metodo della lampara), lo spazio del baco da seta, il “canapaio” con la filiera della canapa dal campo al telaio, lo show cooking per bambini, un programma di incontri e attività hanno movimentato la due giorni sulle colline tra Lesignano de' Bagni e Torre di Traversetolo, a un'ora di macchina da Parma. Ai focus divulgativi – sui frutti antichi con Enzo Melegari, sugli animali della fattoria con Alessio Zanon, su 80 varietà di uve, olivo e pomodori della biodiversità condotti da Mauro Carboni – si sono alternati momenti ludici, come lo spettacolo dei cavalli bardigiani, ai quali quest’anno è stata dedicata un’area attrezzata a stalle, e le lezioni di cucina per piccoli chef nel “Rural Theatre”, condotte da Gino Campagna, una delle novità più apprezzate dalle famiglie in questa edizione. È stato ingrandito il recinto degli animali della tradizione rurale dell’Emilia Romagna (dalla pecora cornigliese alle oche romagnole), è stata aumentata la scuderia dei trattori d'epoca Landini con modelli degli anni '30, '40 e '50. Ed è cresciuto il numero di casette in legno, deliziose, spartane ma scicchissime (una anche con vasca idromassaggio esterna) situate in un angolo del parco particolarmente panoramico, per un turismo evoluto ed esclusivo, affittate solo con pacchetti viaggio a gruppi di persone, “per veicolare il concetto di biodiversità” spiega Mauro Ziveri “non si viene qui solo per mangiare e dormire, ma per vivere il territorio a 360°”.

rural

Il parco, la spesa negli stand dei contadini e degli allevatori

Ma al di là delle novità, si torna sempre volentieri in questo angolo quieto e incantato di Emilia, recentemente eletto a riserva Mab Unesco, anche solo per passeggiare tra i filari di uve antiche e gli alberi di frutta dimenticata, sedersi sulle balle di fieno coperte da teli di juta e perdere lo sguardo sul profilo delle colline, i boschetti, i calanchi e i barboj, i vulcanelli di fango dove fino al '600 si estraeva il sale per dirottarlo ai prosciuttifici. Si pranza o si fa merenda nel punto ristoro con l’ottimo crudo di suino nero Rosa dell’Angelo, il prosciutto del padrone di casa. Si fa spesa nella mostra-mercato direttamente negli stand di allevatori e contadini: la passata di pomodoro riccio di Parma e l’olio di olivastra seggianese, i ceci rosa e i fagioli zolfini, gli gnocchi di patata rossa di Cetica e i testaroli della Lunigiana di farina di farro, la marocca di Casola e i tortél dóls con la mostarda, il mais Otto File della Garfagnana e la confettura di susina zucchella senza zuccheri aggiunti, il miele biologico del Parco Barboj, i formaggi di antiche razze bovine del territorio emiliano e quelli toscani di pecora massese, il caffè di orzo Leonessa e il sidro di mele di montagna, vini da vitigni vintage, come il Lambrusco Maestri, il Fortana del Taro e il vino di uva termarina. Sono alcuni dei prodotti della biodiversità animale e vegetale proposti da una quarantina di produttori, tra veterani di Rural e new entry.

rural chef gino campagna

Show cooking per bambini con “chef Gino”

Tra le iniziative che hanno catalizzato maggiore attenzione sono stati gli show-cooking per piccoli cuochi al Teatro Rural. Bambini dai 3 agli 8-9 anni sono stati i protagonisti di lezioni di cucina in un’area del parco Barboj adibita a spazio convegni, guidati dallo chef Gino Campagna, un omone che accanto ai bambini sembrava l’incredibile Hulk. Chi è Gino Campagna?Sono nato e cresciuto nell’Oltretorrente, antico quartiere popolare di Parma, sono educatore pedagogico, nel 1990 mi sono trasferito in America, a Los Angeles”, racconta Gino, che negli States nel corso di 27 anni è diventato una star nell’insegnare ai bambini americani la buona cucina fatta di ingredienti semplici: organizza corsi ed eventi per i piccoli, è protagonista di programmi televisivi dedicati a food e children, prima per Disney Channel poi presso emittenti sia in America che in Italia (ospite a La Prova del Cuoco), è blogger per The Huffington Post, a Los Angeles ha fondato Piccolo Chef Foundation insieme a Tina Fanelli Moraccini e Lilian Palmier, ha sostenuto la campagna promossa da Michelle Obama “Chef Moves to School”, ha scritto libri, tra i quali “Chef Gino’s Taste Test Challenge”, presentato proprio in questi giorni a Parma. “In America spesso si mangia fuori casa o si preferisce comprare cibi già pronti, i prodotti alimentari sono sofisticati e i bambini non hanno contatto con la cucina e le materie prime fresche” spiega Gino Campagna “c’è un vuoto tra food, kitchen e children:, io mi ci sono inserito dentro usando il mio personale metodo fatto di giocosità, entusiasmo e passione, cerco di trasmettere la cucina semplice fatta di ingredienti e l’esperienza sociale del cibo, che sono tipici italiani”.

rural montebaducco

Gli 800 asini di Giuseppe Borghi

Uno dei primi produttori che hanno abbracciato il progetto di Ziveri sulla biodiversità è Giuseppe Borghi, titolare dell’azienda biologica Montebaducco, a Quattro Castella, in provincia di Reggio Emilia, dove alleva 800 asini di antiche razze. All’ingresso gli asini ragusani e i romagnoli, sia quelli scuri che quelli grigi con due belle strisce nere a croce lungo la schiena e sulla fascia scapolare, il sardo color tortora, il candido etiope bianco, l’irlandese a chiazze bianche e marroni. C’è la nursery, con i piccoli appena nati, e la zona svezzamento. “Abbiamo 120 asine in lattazione, ciascuna produce al giorno un litro e mezzo di latte” spiega Giuseppe Borghi. Tutto è in biologico, un biologico vero, con la coltivazione in azienda di fieno e foraggio destinati agli animali e il loro letame usato per concimare i campi. All’interno di Montebaducco c’è il ristorante, le camere, un piccolo museo di attrezzi agricoli vintage e un impianto all’avanguardia di liofilizzazione del latte, ottenuto con la tecnica Spray-drying, un metodo di disidratazione a freddo che consente di mantenere inalterate le caratteristiche nutrizionali e organolettiche. Un latte nobile, analizzato costantemente dall’Università di Bologna, venduto nel canale farmaceutico e destinato ai bambini allergici e intolleranti al latte vaccino. “Siamo l’unico allevamento di asini al mondo a liofilizzare il latte direttamente in azienda, abbiamo salvato la vita a diversi neonati”, dice orgoglioso Borghi.

rural mauro zivieri

Suini neri: gli allevamenti sulle colline parmigiane e senesi

Immancabile alla festa di Rivalta, con la sua camicia gialla, il colore d’ordinanza dello staff Rural, c’è Mauro Ziveri, mente e cuore della manifestazione, titolare di diverse realtà e promotore di progetti che hanno come filo conduttore la biodiversità. Tutto nasce dalla Rosa dell’Angelo, azienda di salumi di alto profilo con allevamento cinque stelle lusso di suini neri, a pochi chilometri di distanza dal Parco Barboj, dove i maiali vivono liberi di accoppiarsi, di fare chilometri e chilometri tra prati in pendenza e boschi recintati, di scavare con il muso il terreno per cercare radici e tartufi. “Integrazione di cereali nobili ma niente ogm, niente antibiotici, no al taglio della coda e alla limatura dei denti” entra nel dettaglio Alessio Zanon, veterinario specializzato nel recupero di razze antiche che da anni collabora con Ziveri. Il paradiso dei maiali con “mille metri a disposizione per capo”, precisa Mauro Ziveri. Le cosce diventano prosciutto crudo di ineffabile bontà. E il resto? “Lo vendiamo alla Coop della zona:la carne suina in vendita nei supermercati a marchio, quelli indicati ogm free e senza antibiotici, proviene dal nostro allevamento”. La Rosa dell'Angelo va talmente bene, in Italia e soprattutto all'estero, nel mercato di nicchia, che Ziveri ha deciso di doppiarla in Toscana nell’azienda Cipressa, un antico querceto di 40 ettari sull'alta collina di Gaiole in Chianti, nel cuore di uno dei distretti più aristocratici ed esclusivi dei vini supertuscans (nel raggio di pochi chilometri Montevertine, Badia a Coltibuono, Castello di Ama, Dievole, Castello di Volpaia, Lamole di Lamole…), che ospita un allevamento di cinta senese, le cui carni vengono trasformate in salumi ricchi di sapore. “E presto entrerà in funzione un altro allevamento toscano, in Maremma, con 2.500 capi, in un contesto ancora più favorevole per la crescita e il benessere dei maiali grazie alla minore escursione termica e minore umidità”, anticipa Mauro.

rural

Il senso di Mauro per la biodiversità

L’incontro con Mauro Ziveri avviene nel punto ristoro del Parco Barboj, fulcro dell’evento, ai tavoli sociali e di fronte alla mappa Rural con le varie attività. Il suo sguardo è diretto, le parole esprimono passione, determinazione e uno spirito etico che non scende a compromessi, associato a ordine e a un istintivo senso del bello: è la forza di Rural. Mauro Ziveri ha cominciato la sua attività dall’allevamento di maiali e dal prosciutto di Parma, una realtà imprenditoriale troppo stretta. O meglio troppo larga per lui. Così è restato nel prosciutto ma a modo suo, di suino sia biondo che nero allevato libero a prato e bosco. “Prova a leggere quello che c'è scritto nel disciplinare di produzione del prosciutto di Parma Dop: sono previste farine di pesce, di cocco e di soia, di cui non si sa la provenienza e se ogm, ma non si può usare l’erba di prato fresca. È un'assurdità! Per questo sono uscito del Consorzio”. Così è nato, per sfida, per rivalsa, l'allevamento di maiali neri della Rosa dell'Angelo.

rural formaggio valpadana

La biodiversità di Ziveri non si limita ai suini e ai salumi. A poche centinaia di metri da qui c’è la Stalla della Salvezza della Fattoria Montanina, allevamento in biologico di quattro antiche razze bovine del territorio emiliano: bianca modenese (o valpadana), grigia dell'Appennino (o garfagnina), bardigiana (o pontremolese) e varzese (o tortonese). Stesso tipo di allevamento, stessa alimentazione, stesso metodo di lavorazione, stesse forme (una specie di grana in miniatura) per quattro formaggi (realizzati dal vicino caseificio Iris) completamente diversi tra loro: da quello più grasso e giallo con retrogusto amarognolo ottenuto dal latte della bardigiana, a quello più chiaro, dolce e magro, ricco di caseina della vacca grigia. Salvaguardia di razze in via d’estinzione a parte, il senso della Stalla della Salvezza è dimostrare che una razza non vale l’altra e dà prodotti differenti. “Quando sento che per il parmigiano reggiano viene usata la vacca frisona mi vergogno. Dove è andato l’orgoglio di noi emiliani?”, si domanda Mauro.

rural pomodoro riccio di parma

L’altro progetto sul quale Ziveri lavora da anni è quello del riccio di Parma, il pomodoro “bistecca” della tradizione rurale di qui,coltivato a pieno campo e trasformata in conserva in via sperimentale a La Mamiana, il suo podere di Panocchia, nell’hinterland di Parma. “La mia avventura nel pomodoro riccio è partita da pochi semi conservati in un barattolo di latta regalati dalla vedova di un agricoltore, D’Addomo, che aveva una collezione di pomodori delle nostre zone”, racconta Mauro, che per portare avanti il suo progetto ha preso in affitto la villa del professor Rognoni (l’agronomo che nella seconda metà dell’800 introdusse la coltura di questo pomodoro nella rotazione agraria)dove ha allestito un centro studi e ad agosto organizza un evento dedicato, e nei terreni ha avviato la produzione dell’ortaggio: proprio come fece Rognoni nel 1867. “Da quella manciata di semi nel giro di 3-4 anni è partita la produzione del riccio di Parma, che dal 2016 viene trasformato in passata”. Una magnifica passata verace, polposa e dall’aroma fresco fatta con la collaborazione degli agricoltori custodi di questo pomodoro grande e costoluto rosso scarlatto, che lo coltivano a mano nella pedemontana parmense, e della Centrale della Frutta di Traversetolo, che oltre alla passata produce anche i succhi di frutta antica del progetto Rural.

I prodotti della biodiversità agricola emiliana, toscana e da poco anche ligure si possono trovare in due Rural Market: nel centro di Parma in Borgo Giacomo Tommasini 7, nei locali di quella che fu la rinomata Salumeria Grisenti (aperto da martedì a sabato) e a Radda in Chianti le domeniche di settembre e di metà ottobre in viale Venti Settembre 11, all’interno della Rural Gallery, un’ex officina meccanica recuperata nel centro del paese.

 

a cura di Mara Nocilla

 
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