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Anteprima Tre Bicchieri 2019. I 4 migliori vini della Basilicata

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Continuano le anticipazioni dei premiati dalla Guida Vini d'Italia 2019 del Gambero Rosso. Oggi è il turno della Basilicata.

 

Nel 2019 Matera è la Capitale europea della Cultura. Un evento di portata internazionale che sta accendendo i riflettori su una regione mediaticamente fin troppo nell’ombra. Ne siamo felici, perché crediamo che tutti quelli che avranno la fortuna di trascorrervi qualche giorno non potranno che rimanere ammaliati dalle sue bellezze, dai suoi scenari pittoreschi (e non parliamo solo dei Sassi... c’è tanto altro da vedere e visitare sul territorio), da una cucina splendidamente mediterranea e, infine, dai suoi vini. Forse è proprio questo che è mancato alla Lucania, quel po’ di esposizione mediatica che avrebbe permesso di accelerare quel processo di crescita e rinnovamento della sua viticoltura che è partito già anni fa ma che non procede spedito come dovrebbe.

Se guardiamo la sola lista dei premiati – quattro – non possiamo certo fare salti di gioia... Uno in meno dello scorso anno... Sugli scudi comunque l’indomita Elena Fucci con la sua boutique winery, Paternoster che continua a sfornare classici anche dopo l’ingresso in un gruppo dal più ampio respiro, Cantine de Notaio che con il Repertorio ci fornisce un’interpretazione moderna e godibilissima del grande rosso della regione, l’Aglianico del Vulture, e non ultima Terre degli Svevi con un elegantissimo Re Manfredi all’altezza delle sue migliori annate. Quel che più conta è che i vini alle nostre finali erano ben 18, con due presenze della provincia di Matera a incrinare la quasi totale egemonia dei vignaioli del Vulture.

Ma in regione non sono tutte rose e fiori, nonostante il livello elevato di questo piccolo plotone. Le aziende sono tante ma hanno bisogno di investire in attrezzature, professionalità, nella cura dei vigneti... Tutte operazioni costose, che il prezzo tutto sommato basso (favorito dalla presenza di cooperative e di alcuni produttori di grandi dimensioni) che spuntano i vini lucani sul mercato non consente. Il classico serpente che si morde la coda, insomma. A farne le spese sono le piccole e medie cantine che non hanno la forza di presentarsi in maniera organizzata sul mercato. Un vero peccato, perché il Vulture, ma anche il comprensorio materano, il Grottino di Roccanova e le Terre dell’Alta Val d’Agri sono terroir di grande vocazione, che meriterebbero ben altri esiti. Non ci resta che sperare che i riflettori internazionali e le istituzioni aiutino a far decollare questa regione che per potenziale qualitativo non è seconda a nessun’altra.

 

I vini della Basilicata premiati con Tre Bicchieri


Aglianico del Vulture Don Anselmo '15 – Paternoster
Aglianico del Vulture Il Repertorio '16 – Cantine del Notaio
Aglianico del Vulture Re Manfredi '15 – Re Manfredi-Cantina Terre degli Svevi
Aglianico del Vulture Titolo '16 – Elena Fucci


In viaggio. Malta, una piccola Repubblica dai grandi sapori

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Crocevia di culture, mix di popoli mediterranei (ma non solo), storia antica e stratificata... mare splendido e paesaggi evocativi. Sul mensile di settembre del Gambero Rosso approdiamo a Malta. Qui un'anticipazione.

 

Ecco Malta, isola piena di arte e dalla vita culturale vivace e dinamica, che si propone anche come meta gourmet con i suoi piatti che parlano italiano e nordafricano e con i vini che iniziano a evolversi in direzioni diverse. Un viaggio per tenere nel cuore un bel ricordo dell’estate, fatto di profumi, sapori e colori.

La vulgata più consolidata cala il poker dei fondamentali su cui l’oleografia maltese si regge, inchiodata, e lo scandisce coi rispettivi quattro punti cardinali (in senso orario, all-in): siciliani da nord, turchi da est, nordafricani da sud e spagnoli da est. Non avventuriamoci però in una reverse engineering turistica ma superiamola sagomando un portolano reloaded. Degli influssi di Trinacria teniamoci i retaggi di un buffo lessico gastronomico – da compendiare col linguaggio sublime di Mattia Preti, seicentesco pittore calabrese (uniamo Cariddi a Scilla per l’occasione) – mentre quelli d’oriente impastiamoli in un’unica melassa coi maghrebini. E gli iberici d'Aragona? Li lasciamo alle pagine meno stropicciate dei sussidiari. Sublimiamo invece gli altri due innesti, la matrice britannica e quella ospitaliera dei cavalieri di san Giovanni. Una viene spesso liquidata sottolineando gli apporti meno raffinati – fish & chips, curry a pioggia, qualche pudding e birre dozzinali (ma ottimo gin) – mentre l’altra alimenta un’oleografia d'appendice. Eleviamo la prima, ridimensioniamo (per riscoprirla) la seconda e scrutiamo Malta come un fragrante bun. Giriamoci intorno per una ricognizione delle coste, tastiamo la consistenza dell’entroterra e serbiamo le città per la fine: è lì che s’addensa in grumi di vie, isolati canditi isolani e segni di lieviti d’arte speciali.

Malta

L’arcipelago della piccola repubblica è formato da tre isole abitate (le più grandi) e una costellazione polverizzata di due dozzine di lande senza residenti: alcune sono isolotti, altri faraglioni o scogli umidi. Il perimetro di Malta si sfilaccia in frange frattali, onde e correnti lo sgranocchiano senza sosta: il risultato è un profilo lungo duecento chilometri. Non male per un solido sovapponibile all'Elba. Idem per Gozo: è grande, si fa per dire, quanto il lago d'Iseo ma i suoi bordi, srotolati, s’allungherebbero per una cinquantina di chilometri. Comino è piccola come Giannutri e fa da cuscinetto di calcare e sedimenti corallini – o enorme seme di cumino (l’etimo pare inequivocabile) – tra le prime due: Mgarr e Fort Chambray da un lato, la punta della punta di Cirkewwa dall'altro. Il “picco” (sic) che svetta su tutto (tanto vicino al mare quanto alto sul mare) campeggia a 250 metri sulle falesie di ta’ Dmejrek a strapiombo sui flutti di Dingli. Partiamo da lì, con l’interno a babordo ed il blu dall'altra parte (si guida a sinistra). Le baie di Fomm-ir Rih e Gnejna squadernano l'ouverture d’una grandeur geologica capricciosa ed ineffabile. Alla Golden Bay si replica a soggetto ma lo stordimento arriva quando si fa il giro di Marfa. È una penisola-piattaforma che condensa tutti (o quasi) gli atout, compattati in un bignami arido e bellissimo: le spiagge sabbiose più vaste, resti di bastioni, torrette & co, pietre ed arbusti. Prima però un’intermezzo kitsch (ma con stile) e vintage (senza nostalgia), il Popey Village di Anchor Bay, allestito per le riprese del Popeye di Robert Altman: una versione d’autore, amara ed originale, del fumetto. Sono passati quarant’anni e oggi le diciannove casupole in legno di Sweethaven fanno da sfondo a matrimoni e gite, spruzzi, lazzi e schiamazzi. Melliheha è subito oltre, tagliando all’interno. Per le brochure e qualche manuale il toponimo rimanderebbe al miele: plausibile e inedito si rincorrono a Malta ché vero, verosimile e sotteso sono quasi la stessa cosa (oggi e da millenni). E, di lemma in lemma, a Melita: fino a dieci anni fa la sua effige campeggiava sulle lire.

Il miele

Adesso è l’euro a circolare, quelle sei lettere-simbolo rilanciano tuttavia l’origine di Malta e della prima capitale, l’attuale Mdina-Rabat. Restiamo sul miele, eterna promessa promettente. In questi mesi di autunno la scena se la prende quello al carrubo, toccherà quindi – dopo l’intermezzo breve (e dolce q.b.) dell’inverno maltese – a quello di trifoglio e poi di timo. “Di tipi di miele ne abbiamo in realtà molti altri, almeno otto”, assicura Arnold Grech, apicoltore ottantenne con sei decenni di esperienza. “I fiori di asfodelo a volte consentono un buon miele natalizio. Il migliore è però quello di fiori d’arancio”. Con gli agrumi, del resto, si fa anche altro, già che ci siamo: Il kinnie, per esempio (una sorta di chinotto aromatizzato), soft-drink icona dagli Anni Cinquanta.

Siamo a metà, il quasi-fiordo di st Pawl è forse quello su cui Saulo di Tarsòs naufragò nel 60 d.C. Né lui né il fidato Luca ne conoscevano il nome: “Una volta in salvo venimmo a sapere che l’isola di chiamava Malta”, così vergò negli Atti degli Apostoli. A proposito: Publio, che li ospitò per tre mesi, è uno dei tre santi patroni nazionali. San Paolo è l’altro, ovviamente. Il terzo non è però san Giovanni ma sant’Agata, come a Catania (appena una quarantina di miglia nautiche da Valletta).

(La) Valletta

La Valletta

Torniamo dall’agiografia alla geografia, superiamo l’estensione teorica delle Victoria Lines – una muraglia di fine Ottocento, baluardo-cerniera di Her Majesty – e l’amalgama metropolitano si scopre un po’ alla volta, carta dopo carta: Pembroke (residenziale e a basso profilo), poi Paceville (nightlife) e Sliema-st. Julians (nightlife più “high life”). Dunque Valletta, senza quel “la” che ci siamo abituati, chissà perché, ad anteporre: deriva dal francese Jean de La Valette, Gran Maestro #49 e figura ben lontana da una soubrette tv. Ou pas? Le “Three Cities”, infine: Se bluffiamo col tris Birgu, Bormia ed Isla si fa fatica a ricordarle. Con due aggettivi – Vittoriosa e Cospicua, rispettivamente – e Senglea (altro Gran Maestro, Claude de La Sengle) l’aura metropolitana si dà invece un tono. E dà senso pieno all’etichetta del complesso portuale-navale che descrivono intorno a Valletta: Grand Harbour. Una data da segnare in calendario: la regata di sabato 8 settembre.

Di grand a Valletta pulsava una cucina che richiamava i migliori chef a deliziare i palati nei rispettivi “auberge” cavallereschi di riferimento: per ogni cappella della co-cattedrale c’erano un vessillo ed un panorama culinario, catalisi di un’interazione frenetica. Il vero melting pot, letteralmente, s’è raffinato soprattutto tra le cucine dell’epoca (e dell’epica) dell’ordine dei cavalieri di san Giovanni: la loro presenza è iniziata con la concessione di Carlo V nel 1530 ed è andata avanti fino a fine Settecento. Col quinto quarto del periplo chiudiamo il cerchio in bellezza. Il tratto da Marsascala e Marsaxlokk – un unico lungomare d’eccezione tra due borghi marinari – vale la pena farlo a piedi: un paio d’ore ed incontri ravvicinati coi panorami che altrimenti rimarrebbero, penalizzati, sullo sfondo di selfie frettolosi. Il seafront del primo torreggia, arcidifeso, e si stempera nelle tante calette rocciose. Al secondo conviene arrivare dopo aver visto Kalanka il-Fonda e Ponta da’Delimara. L’area di Hal Farar e Zurrieq, coi suoi mulini e l’aeroporto non lontano, impone una scelta: incursione, spalle al mare, o fine del giro? Entrambe le cose, solo un cenno ora al tratto finale ché tra Qrendi e Dingli il litorale si fa ancora più frastagliato e l’entroterra più denso di vestigia notevoli: i templi di Hagar Qim – una delle tre coccarde Unesco di Malta (le altre sono il nucleo storico di Valletta e l’ipogeo di Hal Saflieni) e le “cart ruts”, solchi-binari, testimoni di un viavai ante litteram ed operoso.

Il paesaggio interno

Le vigne a Malta

Il paesaggio interno maltese è dominato da rocce e pietra, sassi ed altre rocce: molte costruzioni sono in blocchi di qawwa (più chiara e solida) e franka (leggera e dalle tinte ocra più cupe). Cinquanta sfumature di terre, dunque, con poca acqua dolce dai flussi (e dai volumi) minimi costanti. L’agricoltura però regge, iper-parcellizzata – croce, delizia (e tutto quello che c’è in mezzo) di chi opera a chilometro zero per necessità – e dinamica. Piante di carrubo un po’ ovunque, aranci e ulivi. Serre per fragole e pomodori. E vigne. Un’area su cui puntare per farsi un’idea (e bei giri)? Il triangolo Siggiewi-Mdina-Qormi fornisce uno dei campionari più rappresentativi del panorama agricolo coi suoi orizzonti rurali “misti” ed i piatti a base di coniglio: è la star involontaria della gastronomia, epitome sublime di processi, gusti e materie prime. Qormi è anche il vertice della panificazione isolana, la mecca dell’hobza maltese. Prima o poi bisogna andarci, almeno una volta, a verificare che è perfetto come in tutta l’isola (ma con qualcosa in più): due produzioni al dì – la prima all’alba, la seconda nel pomeriggio – un po’ ovunque, da sempre. “Forse voi riuscite a capirlo meglio di altri, del resto il termine kumpanacc lo usavate anche in Italia, no? Il pane è un elemento che vive dell’ordinario, sempre uguale e guai a chi tradisce la tradizione” – Anna Sant,studiosa, interprete e profonda conoscitrice della sua terra, scherza (ma neanche troppo). “Ricorre però di festa in festa e scandisce dunque una geografia complessa e ciclica, vivaio di piccole e gradi varianti. E sconfina, azzarderei, anche nello straordinario quando si decide cosa collocare su una ftira (frisella, nda)”. Come da noi. “Sì ma con note più sature e sapori decisi”. Da comporre ed assemblare: in questo l’ecosistema culinario locale non conosce veri rivali.

I pastizzi maltesiI Pastizzi

Nel numero di settembre del Gambero Rosso il viaggio alla scoperta di Malta continua, tra i pastizzi di Gozo e i siti migliori per le immersioni.

 

a cura di Federico Geremei

foto di Malta Tourism Authority

 

QUESTO È NULLA...

Nel numero di settembre del Gambero Rosso, un'edizione rinnovata in questi giorni in edicola, trovate il racconto completo con i piatti tipici, i piccoli e grandi produttori di vino e gli indirizzi di dove andare a mangiare a La Valletta, St Julian's, Mdina e Rabat. Un servizio di 10 pagine che include anche le testimonianze della giornalista e critica d'arte Sara Dolfi Agostini (quest'anno Valletta è stata nominata European Capital of Culture) e le altre chicche da non perdere, tra il nuovo parliament di Renzo Piano e le opere di Caravaggio.

 

Il numero lo potete trovare in edicola o in versione digitale, su App Store o Play Store

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Pizza Romana Day. A Roma la riscossa della Nuova Pizza Romana, che lancia un manifesto

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A firmarlo saranno i pizzaioli convinti che la pizza romana possa competere con la napoletana, ragionando su impasti e condimenti per restituire dignità a uno stile dotato di storia e identità da difendere. Una giornata, il 13 settembre, per scoprire quant'è buona la “nuova” pizza romana. 

 

La rinascita della pizza romana

Sarà una giornata di celebrazione, e il nome dell'evento non lascia dubbi a riguardo. Ma anche un momento di riflessione che coinvolgerà i pizzaioli di una città, Roma, intenzionati a ripensare la comunicazione della pizza romana. Perché lo stile peculiare della Capitale sia in cerca di riscatto a fronte del dilagante successo della pizza napoletana è presto detto: considerato marginale soprattutto per l'incapacità di stabilire e difendere determinati parametri di qualità (quante sono, a Roma, le pizzerie acchiappaturisti che hanno svilito la pizza romana in nome di una logica del commercio senza regole tecniche ed etica del lavoro?) il modello della pizza romana è rimasto relegato entro i confini della città, schiacciato da un prodotto che invece ha saputo nobilitare la sua storia, raccontare il cuore e le tradizioni di un'intera città – Napoli – e farsi promotore di un mestiere antico che di recente ha conquistato un traguardo importante, con il riconoscimento Unesco per l'Arte del pizzaiuolo napoletano. Ma insensato sarebbe limitarsi alla contrapposizione tra due stili che invece possono coesistere proprio in virtù di quella evoluzione che il settore della pizza ha conosciuto negli ultimi anni, sperimentando sugli impasti, riallacciando i contatti con il territorio e i suoi produttori, innovando il prodotto, e quindi di fatto rendendo anacronistica qualsiasi gerarchia stilistica. Esiste la pizza buona, e quella che non lo è. Le pizzerie che lavorano con coscienza per migliorarsi e offrire un'esperienza di qualità al cliente, e quelle che invece se ne infischiano. La professionalità prescinde dagli stili, e questo dovrebbe essere un punto di partenza ovvio. Indubbiamente, però, c'è bisogno di pizzaioli impegnati sul campo per concretizzare la rinascita della pizza romana, indirizzando la ricerca su impasti e condimenti che restituiscano dignità e identità al prodotto.

 

Il Pizza Romana Day

Il Pizza Romana Day (promosso da Agrodolce e Repubblica Sapori) ha intenzione di sancire una nuova consapevolezza, impostare la ripartenza con la complicità dei pionieri della Nuova Pizza Romana, e dotarli di un manifesto sottoscritto da un nutrito gruppo di pizzaioli che hanno deciso di scommettere sulla riscossa della pizza romana. Tutto avverrà il 13 settembre, in due momenti distinti pensati per coinvolgere non solo gli addetti ai lavori, ma anche i romani. La mattina, presso l'Osteria di Birra del Borgo, sarà il momento di riflettere sul tema, durante l'incontro a porte chiuse moderato da Eleonora Cozzella: al termine della mattinata sarà svelato il Manifesto della Nuova Pizza Romana, un decalogo concentrato sulle linee guida e gli obiettivi di un movimento che riparte dalle basi per raggiungere nuovi traguardi. La sera l'evento conquista la città: numerose le pizzerie della Capitale che hanno aderito all'iniziativa scegliendo di omaggiare la pizza romana, cimentandosi per una sera con le cinque classiche dello stile: Margherita, Napoli, capricciosa, funghi, fiori. Sfida facoltativa: il calzone romano. In aggiunta anche due rivisitazioni sul tema, con condimenti speciali a discrezione dei pizzaioli. Dunque all'evento prenderanno parte non solo le pizzerie dichiaratamente fautrici della rinascita della pizza romana – pensiamo per esempio a 180g, Giulietta, Passetto – ma anche le insegne che hanno scelto di accettare la sfida per una sera. Di seguito l'elenco delle pizzerie coinvolte il 13 settembre, ricordando che per scoprire le ultime novità e le migliori pizzerie su scala nazionale il 20 settembre l'appuntamento è a Napoli, per la presentazione della guida Pizzerie d'Italia 2019 del Gambero Rosso a Palazzo Caracciolo.

 

Le pizzerie del Pizza Romana Day

180g Pizzeria Romana | via Tor de’ Schiavi, 53

91 bis | via della Farnesina, 91

Al Grottino | via Orvieto, 6

Exquisitaly | piazza di S. Bernardo, 99

Frontoni |  via Assisi, 117

La Gatta Mangiona | via Ozanam, 30-32

Gazometro 38 | via del Gazometro, 38

Giulietta |  pizza dell’Emporio, 28

Magnifica | via Ugo De Caroli, 72 d

            Moma | via Calpurnio Fiamma, 40-44

            Osteria di Birra del Borgo | via Silla, 26a

Pro loco Pinciano | via Bergamo, 18

Sant'Alberto | via del Pigneto, 45

Sbanco | via Siria, 1

Seu Pizza Illuminati | via Angelo Bargoni, 10-18

Spiazzo | via Antonio Pacinotti, 83

Pizzeria di Quartiere | Pietralata

Lievito | Viale Europa, 339

Passetto | Piazza di S. Apollinare, 4

Casette di Campagna | Via di Affogalasino, 40

 

a cura di Livia Montagnoli

 

 

Nuovi corsi per barman firmati Massimo D'Addezio. A Roma nasce Accademia Chorus

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Per essere bravi barman non basta sapere fare 100 cocktail: bisogna essere dei professionisti a 360 gradi, saper gestire il bar in ogni suo aspetto ed essere professionali. Un nuovo corso punta a forma nuovi professionisti del settore.

 

Sono passati 6 anni da quando Massimo D'Addezio ha smesso di tenere i corsi (perché di seguirli invece non ha mai finito). Ora ha deciso di tornare alla carica e, per farlo, mette in campo insieme alla sua competenza, gli operatori del settore: Camera di Commercio, da una parte, e l'agenzia per il lavoro Openjobmetis, dall'altra. Accanto, il patrocinio con Federalberghi e Fipe e la presenza, come media partner, di Gambero Rosso Food&Wine Academy. A cercare una triangolazione che possa mettere in contatto, direttamente, allievi e mondo del lavoro. Perché, al netto del fascino innegabile della miscelazione e della scena dei cocktail bar, quello del barman è prima di ogni cosa un lavoro. E come tale ha regole, relazioni e dinamiche da conoscere. Proprio per questo per accedere al corso che avrà luogo a Roma, negli spazi di Chorus e in quelli della Gambero Rosso Food&Wine Academy, occorre superare una selezione (la data ultima per inviare la propria candidatura è il 5 ottobre).

D'Addezio è uno dei nomi più importanti del bere miscelato, barman di razza, famoso ben prima che il bartending diventasse così popolare. A lui si deve la nascita del mitico bar dell'Hotel De Russie, per anni tappa immancabile per chi – romano di Roma o solo di passaggio – volesse bere un cocktail Martini come si deve. Capace di intrattenere, proporre, offrire, fidelizzare, insegnare, far bere benissimo e far divertire. Uno che la sa lunga, e passa, con la stessa classe, da un microbar tra le vie del Pigneto, al lussuoso locale tutto ottoni e divanetti sopra l'Auditorium Conciliazione. Un posto in cui stare, e stare bene. Poi ci sono i premi, le consulenze, le mille cose fatte e da fare, tra cui il programma Spirits, su Gambero Rosso Channel, che racconta il mondo del bartending, e il libro omonimo.

In questo periodo lontano dalla cattedra, la scena della miscelazione è esplosa, acquistando visibilità e suscitando sempre più interesse. Sono proliferati locali, corsi (attualmente si contano circa 60 scuole solo a Roma) e opportunità, anche perché personale preparato ancora manca. Ma ci sono anche mille insidie da cui tenersi alla larga: gestori improvvisati, tentazioni a portata di mano, cattive abitudini, colleghi poco seri, situazioni spiacevoli. Si potrebbe continuare a lungo. Come mettersi al riparo? “Con la professionalità” risponde deciso D'Addezio. E per professionalità non intende solo la capacità di miscelare spirits secondo ricette vecchie e nuove, ma conoscere questo lavoro in ogni suo aspetto. Perché “il bar non è solo il bancone”.

Il bar è il bar

Il bar è tutto un complesso di cose che bisogna conoscere, è un'azienda che bisogna saper gestire. È una bottega: bisogna tagliare la frutta, tenere in ordine i frigoriferi, lavare gli strumenti, tenere d'occhio il beverage cost e i fornitori, gestire le situazioni che si vengono a creare, fare in modo che tutto fili liscio. “Fare il barman non è stare sotto i riflettori”, è un lavoro che richiede molto sacrificio, fatica fisica, costanza, responsabilità. “Significa anche finire il turno e andare a dormire, per essere presente e operativo la mattina dopo”. Invece è un mondo che porta, con facilità, eccessi e stravizi. “Mi è capitato che mi dicessero di bere uno shottino prima o durante il servizio” riflette“dico di no, che non si beve né uno shottino né altro”. Insomma il lavoro è lavoro, e questa è la prima regola. Una regola di vita. Se si vuol bere bisogna stare dall'altra parte del bancone. Su questo D'Addezio insiste molto: sulla comprensione di quel che si sta facendo. E sulle regole da seguire, di forma e non solo: “dare sempre del lei, per esempio, o rispondere sempre educatamente”. Anche se a richieste talvolta assurde. “Il bar è un posto fatto di regole” ribadisce con fermezza.

I locali non sono tutti uguali?

I bar non sono tutti uguali: ci sono quelli su strada, quelli d'albergo, quelli ristoranti, hanno livelli diversi, diversa affluenza e diverse attitudini. A quale fate riferimento nel corso? “Tutti, attraverso le persone che volta per volta verranno ospiti, vogliamo far fare l'esperienza diretta di diverse tipologie e diverse situazioni. Parliamo di quel che succede nel bar, tutti i bar”. Che, ripete, è molto di più di quanto avviene al bancone: “il bar è cultura”. Lui, dalla sua, ha un'esperienza a 360 gradi: pub, bar d'albergo (il mitico Stravinskij del De Russie di Roma), un piccolo locale su strada di un quartiere popolare, meta della movida capitolina (Co.So.) e “il sogno di una vita” un bar-ristorate al piano mezzanino, riservato ed elegantissimo, il Chorus, sede del corso per la gran parte delle lezioni (a eccezione di quelle che si tengono nelle aule del Gambero Rosso). Senza contare le consulenze dentro e fuori Roma.

 

Il corso

12 lezioni di 4 ore. Dopo la prima lezione introduttiva ci sono una serie di incontri tematici: 2 sul vino (in Italia è sempre moto richiesto), nozioni di hccp, lavorazione della frutta (per smoothies analcolici ma non solo: estrazioni, succhi, macerazioni sono parte integrante della realizzazione di un drink), 5 lezioni di merceologia e miscelazione, elementi di sala (a cura di Andrea Mautone, il direttore di Chorus, già con Massimo Riccioli e altri), elementi di gastronomia e finger food (con Andrea Sangiuliano, executive chef di Chorus esperienze al De Russie e in Svizzera e Francia). 48 ore complessive. Insieme a lui Gelasio Lovatelli d'Aragona (fondatore della International Wine Academy of Roma ed esperto di vino), Eleonora Giglio (ex barmade del De Russie, sommelier e volto televisivo), Solomiya(sua partner in Spirits, la trasmissione del Gambero Rosso sul bere miscelato che vede Massimo D'Addezio protagonista.

Cosa si può insegnare in 48 ore? “Non saper fare 100 cocktail, ma sapere come stare in un locale” e aggiunge “un corso non basta per essere formati, ma può essere propedeutico per sviluppare nel tempo una professionalità tale da poter entrare in strutture di alto livello” ovviamente continuando a studiare, ad aggiornarsi, senza mai dare nulla per scontato. Insomma: investire su se stessi “perché ognuno è proprietario di un'azienda: se stesso” e di quella deve prendersi cura. “Quel che noi diciamo sempre è che il corso può rispondere a 10 domande ma deve fartene venire 100” e aggiunge “occorre spegnere il telefonino e accendere il cervello”. Perché, come dicevamo, non basta saper lanciare 4 bottiglie per essere un professionista serio. Quello serve per la scena, il gioco, a volte l'ego. Che è una delle componenti in ballo.

 

Barman e cliente: chi è il protagonista?

La parola chiave è empatia: quella che si deve generare da una parte all'altra del bancone. Un'energia che deve rendere l'esperienza del cliente la migliore possibile. “Non ci sono regole scritte sulla pietra” avvisa D'Addezio “ogni barman ha i suoi clienti, sono i suoi e lui li conosce. Il bar è fatto di fantasia e di persone, bisogna rispettare tutto di questo universo per tirare fuori la serata”. Un insieme di fattori diversi, dunque, nei quali muoversi senza seguire una formula rigida. Però una cosa è certa. “il cliente deve essere rispettato, sempre”, bisogna dargli lo stesso servizio e la stessa cura sia che chieda un bicchiere d'acqua, sia che voglia un rum raro, o un semplice Spritz. “Non sono d'accordo con chi non vuole servire certi drink, bisogna andare incontro alle richieste del cliente: non dimentichiamo mai che è lui che fa andare avanti l'azienda e paga lo stipendio”. Quindi bisogna fare in modo che il cliente sia soddisfatto: “epoi chi oggi prende un semplice Spritz, magari la volta successiva o quella dopo ancora vorrà provare una variante che gli proponi. Quello sarà un tuo cliente”. Ma quanto conta la personalità, e l'ego del barman? “Quello ci sta, e bisogna saperlo mostrare. Ma fino a un certo punto: se stai dietro un bancone devi voler fare il barman, non il modello”.

Il segreto del successo

Come è una drink list ideale? “Non troppo lunga: le persone stanno al bar per chiacchierare e divertirsi, non per studiare un menu infinito: 12 cocktail e 4 analcolici vanno più che bene”. Quante bottiglie? “diciamo 100”. Ma c'è qualcosa da cui non si può prescindere? “Bisognerebbe poter spiegare i drink, e fare sempre qualcosa su misura per chi hai di fronte, anche minima, ma fatta espressamente per lui. Il tailor made è il futuro del mestiere”. Cosa determina la fortuna di un locale? “Ci sono tre elementi: location, location location” dice“e poi un po' di fortuna”. Scherza, ma la formula del successo non c'è. È un'alchimia difficile da definire: fatta del luogo, del know how, delle persone e dell'energia che c'è. E poi di qualcosa di insondabile per cui un posto che sulla carta non ha speranze funziona benissimo e un altro che, al contrario, pur con tutte le carte in regola proprio non va. E il momento storico ed economico non concede margini di errore.

 

Le insidie di un mondo affascinante

Da un lato e dall'altro della filiera bisogna stare accorti: il costo del lavoro è alto, anche perché dietro ci sono assicurazioni sanitarie, infortunistiche, contributi. Eluderli significa inquinare il mercato. Queste spese per le aziende, sono tutele per il dipendente, gli assicurano un futuro e consentono all'intera filiera del lavoro e della previdenza sociale di andare avanti. “La professionalità include anche la presa di coscienza di questi aspetti. E la capacità di capire dove si annidano le fregature”. Puoi farci qualche esempio? “Se ti arriva una proposta di gestire un bar senza limiti di budget dovresti farti qualche domanda”. Le città sono piene di progetti milionari che durano appena pochi mesi, avvelenando il mercato e spesso coprendo riciclaggio e malavita. Un professionista è in grado di districarsi tra questo genere di insidie. Come tra e situazioni difficili che ci si trova ad affrontare: un cliente molesto, per esempio, “soprattutto stando su strada può capitare”, oppure uno che ha già bevuto abbastanza: “meglio servire un bicchiere in meno e non farlo tornare a casa steso”. Così si conquista la fiducia delle persone, che tornano proprio perché si fidano e riconoscono la professionalità di chi è dietro al bancone: “ho persone che mi seguono da quando ho cominciato, 28 anni fa”. E questa professionalità, che lo ha reso uno dei barman più celebri e premiati d'Italia, è quella che mette a disposizione degli allievi dei corsi.


Accademia Chorus – Roma – data ultima per inviare le candidature: 5 ottobre 2018. Inizio corsi 22 ottobre 2018. Costo: 500€ - Info: https://www.accademiachorus.it/


a cura di Antonella De Santis

 

Culinary Zinema a San Sebastian. 7 pellicole sul cibo per il Festival del Cinema dei Paesi Baschi

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Proiezioni e cene a tema per la settimana del Festival del Cinema di San Sebastian, che da otto anni da spazio al cinema gastronomico. Storie in arrivo da tutto il mondo per raccontare i protagonisti della ristorazione, le filiere agricole, le storie di impegno sociale legate al cibo. Il programma dell'edizione 2018. 

 

Le passerelle del cinema gastronomico

Ottava edizione per una delle più longeve kermesse cinematografiche dedicate al cinema gastronomico, il Culinary Zinema di San Sebastian, di poco più giovane del festival nato 12 anni fa nell'alveo della Berlinale, quel Culinary Cinema diventato una manifestazione parallela al concorso dell'Orso d'Oro, e tanto apprezzata da stimolare l'organizzazione di festival ugualmente concentrati sulle molteplici interazioni tra cibo e cinema (come l'uno può ispirare l'altro, e, viceversa come il cibo può essere rappresentato dal cinema). E infatti il palinsesto del Culinary Zinema è frutto proprio della collaborazione tra il Festival di Berlino e il Basque Culinary Center, che nell'ambito del San Sebastian Film Festival rinnovano ogni anno il cartellone di una sezione molto attesa, che anticipa di pochi giorni l'inizio di Gastronomika, quando i protagonisti della scena gastronomica spagnola e internazionale si ritrovano nella città basca per discutere del futuro del settore. Dunque la passerella del Culinary Zinema ha anche il merito di scaldare i motori: quest'anno la kermesse andrà in scena dal 21 al 29 settembre, e le proiezioni della sezione gastronomica si articoleranno per tutta la durata della manifestazione, dal 22 al 28 del mese, proponendo al pubblico una selezione di 7 pellicole di autori internazionali, oltre a una serie di appuntamenti collaterali che spostano l'attenzione sulla tavola e gli chef chiamati a concludere ogni serata con una cena d'autore.

 

I temi, i film in cartellone

I soggetti, com'è abitudine, esplorano ogni aspetto dell'universo enogastronomico, esplorando temi, protagonisti, interi sistemi produttivi e interazioni con la società del cibo (un esempio, anzi quattro, di quante siano le strade da esplorare è arrivato di recente dal Lido di Venezia, con quattro proposte trasversali, in qualche modo legate al cibo, anche se per aspetti molto diversi tra loro). Nessuna produzione italiana per il cartellone di Culinary Zinema 2018, ma pellicole in arrivo da Spagna, Argentina, Francia, Giappone, Canada, Corea del Sud e Singapore. C'è spazio per la storia della rinascita dell'olio extravergine di Jaen, un documentario di produzione spagnola dal titolo Jaen, Virgen & Extra; e per il percorso di ritorno alla terra del giovane Hye-won, protagonista del film Little Forest (Corea del Sud), che affronta a suo modo il tema della decrescita felice, affidando il messaggio alla riscoperta della vita rurale, dei suoi ritmi e dei suoi prodotti. Alla riscoperta delle sue radici culturali e gastronomiche si muove anche il protagonista di Ramen Shop (una ricetta familiare), che si muove dal Giappone a Singapore per ritrovare le origini della sua famiglia. Altri autori, invece, puntano la camera sul mondo della ristorazione professionale: Tegui, pellicola inaugurale della sezione, segue l'evoluzione del ristorante argentino pluripremiato di German Martitegui; The Heat: a Kitchen (r)Evolution, invece, entra nelle cucine di tutto il mondo per raccontarne anche gli aspetti meno edificanti, i ritmi di lavoro forzati, le discriminazioni. E alle donne chef in grado di scardinare i luoghi comuni affida la parola per portare sul grande schermo la rivoluzione al femminile che sta prendendo piede in tutto il mondo. Tra loro Anne-Sophie Pic, Anita Lo, Angela Hartnett. Chiude la kermesse il documentario “autobiografico” Bihar Dok 13, che segue il percorso dei ragazzi del Basque Culinary Center per ideare il menu d'avanguardia da cui prende il titolo il film.

 

A seguire, proprio nel pop up gestito dal Basque andranno in scena le cene legate al tema delle proiezioni (70 euro il costo del biglietto integrato), con, tra gli altri, German Martitegui, Paco Morales e i ragazzi del Basque Culinary Center.

 

a cura di Livia Montagnoli

6 Emmy per Anthony Bourdain. Los Angeles celebra l’autore scomparso e la sua serie più celebre, Parts Unknown

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A giugno scorso, proprio mentre girava uno degli episodi della serie che l’ha reso celebre nel mondo, Anthony Bourdain si è tolto la vita. Il 23 settembre prossimo, la stagione finale di Parts Unknown sarà trasmessa dalla CNN. Intanto la serie fa il pieno di premi a Los Angeles. 

 

Niente da fare per Corrado Assenza

Alla vigilia della cerimonia dei Creative Arts Emmy Awards – la passerella dedicata alle categorie “secondarie” che abitualmente precede di qualche giorno l’evento principale, quest’anno in programma per il 17 settembre – anche l’Italia del cibo sperava di strappare 15 minuti di celebrità con uno dei sui ambasciatori più stimati, quel Corrado Assenza protagonista di un apprezzatissimo episodio di Chef’s Table Pastry. Candidato nella categoria Outstanding Cinematography for a non fiction program, l’unico episodio per il 2018 della pluripremiata serie prodotta da David Gelb ha dovuto cedere il passo a un’altra produzione della cinquina, il documentario del National Geographic Jane. E invece non ha deluso le aspettative l’omaggio postumo ad Anthony Bourdain, anche lui in passato più volte protagonista sul palco degli Emmy, ma mai premiato come quest’anno, con la platea di Los Angeles chiamata a stringersi a più riprese in un commosso applauso per il produttore – cuoco giramondo, grande divulgatore delle culture gastronomiche di tutto il mondo. 

 

6 Emmy per Bourdain

Proprio a pochi giorni dalla messa in onda dell’unico episodio inedito completato prima della scomparsa di Bourdain – la premiere della puntata sul Kenya andrà in scena il 23 settembre sulla CNN – Parts Unknown porta a casa 6 riconoscimenti. La serie, conosciuta in Italia col titolo di Cucine Segrete e in onda da 12 stagioni, riassume la filosofia di Bourdain nel suo approccio di ampio respiro al racconto dei protagonisti e dei luoghi del cibo, irriverente e al tempo stesso interessato a cogliere le dinamiche sociali, economiche e culturali che si concretizzano intorno a un tavolo. Un’idea che ha fatto scuola, e che la commissione degli Emmy ha deciso di omaggiare a pochi mesi dalla scomparsa del suo autore con i premi alla miglior fotografia, per montaggio audio e mixaggio, e con due riconoscimenti assegnati proprio a Bourdain per il miglior programma divulgativo e per la sceneggiatura, con l’Emmy ottenuto per la puntata girata nel Sud Italia, una delle più celebri dell’ultima stagione trasmessa. Un premio ulteriore è andato all’episodio Anthony Bourdain: explore Parts Unknown come miglior corto non fiction. Sul palco, a ritirare i premi per il collega scomparso, il team al lavoro sulla serie e la producer Lydia Tenaglia.

Il pane in Italia. La nuova era

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Un tempo il pane era legato alla terra, al bisogno familiare, senza troppa consapevolezza. Tanto che l’antica tradizione agricola è naufragata nello standard di un’industria anonima. Ma oggi un gruppo di professionisti - che abbiamo interpellato nel numero di settembre del mensile del Gambero Rosso - sta costruendo la nuova identità del pane italiano. Con uno sguardo al territorio, ai grani antichi, alla tradizione e con un occhio verso le migliori tendenze internazionali. E anche la Gdo scimmiotta (o segue) questa tendenza.

 

Il pane, un tempo al centro della tavola, alimento quotidiano con consumi dieci volte più alti di quelli di oggi, supera la crisi degli ultimi anni. Si alza l'asticella della qualità e sale con vigore la scala dei valori culturali ed economici. Il pane è tornato finalmente al centro di dibattiti, discussioni, sperimentazioni tecniche e agricole. Abbiamo cercato di scardinare certezze e falsi miti, mode e inutili complicazioni, dando la parola ai più straordinari panificatori d’Italia. Abbiamo poi cercato anche di spaziare sia a livello cronologico (il concetto di “antico” è sempre più legato al mondo dell'arte bianca) sia a livello geografico, andando a vedere come lo scenario della panificazione di ricerca italiana si collochi in un contesto globale quanto mai vivido di novità e sfide.

Mani che impastano il pane. Foto di Francesco Vignali

Il pane come il vino

Mi piace paragonare il pane al vino - esordisce Davide LongoniIl vino nel Dopoguerra era vissuto come alimento, poi, lo scandalo del metanolo ha costretto tutto il mondo enologico italiano a entrare nell'età adulta. Così, il vino, è diventato oggetto di un consumo consapevole, edonistico e culturale; si è creato valore aggiunto”. Stesso sentiero sta battendo il pane: “Una volta si mangiava 1 kg pro capite di pane al giorno, ora se ne mangiano meno di 100 grammi (la gente spende, quotidianamente, più per il caffè), quindi l'unica via per sopravvivere, parlo da fornaio, è quella di creare valore aggiunto”. Ma riavvolgiamo il nastro. Cos'è cambiato nel corso degli anni, quali sono le cause di questo drastico crollo dei consumi di pane? “Nel mio paesino, in Brianza, negli anni Ottanta c'erano dodici panifici, poi è arrivata la grande distribuzione a mettere in crisi il sistema, con un appiattimento verso farine raffinate e pani morbidi”. A questo si è aggiunto un crollo dei consumi, lo spiega bene Gabriele Bonci: “Oggi il pane non ha più il significato che aveva in passato. Un tempo era considerato bene primario, simbolo di aggregazione familiare, al centro della tavola. Quando si andava a comprarlo, si usciva sempre dal forno con la pagnotta da due chili”. Rincara la dose Longoni: “Le famiglie un tempo erano numerose, compravano sempre il pane per la settimana; il boom economico ha ristretto i nuclei familiari, le persone hanno cominciato a mangiare sempre più spesso fuori casa e ci si sono messi pure i surrogati del pane, come cracker e grissini. E se prima il mestiere lo si trasmetteva di padre in figlio, in quel periodo i genitori sconsigliavano vivamente di intraprendere la loro strada”. Lo dice con un velo di nostalgia Longoni, erede di una solida famiglia di fornai, ma panificatore per scelta.Insomma, hanno chiuso moltissimi forni...”.

Pagnotte di Bonci. Foto di Francesco Vignali

La new wave del pane

Ancora parallelismo pane-vino: Fortunatamente, questo ha fatto sì che si ripensasse il prodotto. E grazie a una grande rete di fornai si sono gettate le basi per una nuova era del pane, considerato, sì, come alimento, ma anche come nutriente e portatore di un valore culturale importante. Si è dato spazio alla segale, al farro monococco, si è iniziato a recuperare grani in disuso e pasta madre”. La “madre” di Longoni è con lui fin dall'inizio, “ha 15 anni, ma ogni giorno la rinfresco e la rigenero”Di come siano cambiati i tempi anche Piergiorgio Giorilli ha un’idea lucida: lui ha cominciato a panificare a 14 anni, nel forno di famiglia. Era il 1959:“Sono passati molti decenni, ho contribuito sul campo all’evoluzione del mestiere. Credo che il nostro compito sia anche quello di intuire i desideri del mercato. Quand’ero con mio padre i clienti entravano al forno alle 8 del mattino, prima di andare a lavorare in campagna. Oggi è più facile che arrivino dopo una giornata di lavoro, nel tardo pomeriggio: e vogliono trovare pane fresco”. Come fare? “L’evoluzione tecnologica, in questo senso, ci è venuta incontro: non c’è più necessità di panificare due volte al giorno. Possiamo farlo la mattina, poi mantenere le forme a temperature di 15-16 gradi, pronte da infornare nel pomeriggio. Anche questo è un modo per rispondere alla comodità della grande distribuzione, che punta sul pane precotto disponibile a ogni ora del giorno”.

Gli va dietro uno dei suoi allievi, Stefano Priolo del panificio Casa Priolo a Bojano. Rappresentante di quinta generazione di una famiglia di panettieri. Stefano, che di anni ne ha solo 24, ribadisce che oggi bisogna assecondare le richieste del mercato: “Mio nonno mi ha raccontato di pagnotte da 5 chili, oggi impensabili: se si vuole campare bisogna diversificare l'offerta. Noi facciamo di tutto, dai grissini ai biscotti, ai cracker, ai taralli, perché sul pane non c'è molto margine. Dopo un corso da Raffaele Rega e Carlo Di Cristomi sto divertendo a creare un pane con farina e acqua fermentata aromatizzata alla frutta. Il risultato? Una maggiore conservabilità e un sapore particolare”.

Le alveolature del pane di Bonci. Foto di Francesco Vignali

Diversificare

Parola d'ordine, dunque, diversificare. Che nella new wave del pane va a braccetto con standardizzare. Lo spiega bene Luca Scarcella: “Ho cominciato a lavorare nel forno di mio zio quando avevo solo diciassette anni, considerando che oggi ne ho 44 potete immaginare tutti i cambiamenti che ho vissuto. Il cliente di oggi è molto esigente e di conseguenza il panettiere non può più essere come quello di una volta, c'è bisogno di stare su Facebook, bisogna proporre più prodotti e si deve sfornare il pane caldo durante tutto il giorno”. Come? Standardizzando il processo attraverso una cella di fermalievitazione grazie alla quale si può fare il pane il giorno prima, per poi infornarlo il giorno seguente.“La maggiore difficoltà del panettiere è avere a che fare con una pasta viva soggetta a variazioni di temperatura e umidità, ma se si riesce a mantenere le due variabili costanti, anche l'addetto alla vendita è in grado di infornare il pane, così non c'è bisogno della presenza costante del panificatore, che magari può aprire anche un secondo punto vendita”. Viene meno il romanticismo? Probabile, ma non ne risente in alcun modo la qualità del pane, che anzi, oggi, ha raggiunto livelli eccellenti anche grazie alla presa di coscienza dei panettieri e dei consumatori.

Il servizio completo, dove si parla anche di valore economico, di mode e di formazione, lo trovate nel numero di settembre del mensile del Gambero Rosso.

 

a cura di Livia Montagnoli e Annalisa Zordan

foto di Francesco Vignali

 

QUESTO È NULLA...

Articolo sul pane del mensile di settembre

Nel numero di settembre del Gambero Rosso, un'edizione rinnovata in questi giorni in edicola, trovate l'articolo completo con gli interventi di Eugenio PolAdriano Del Mastro, i ragazzi di Brisa, Aurora Zancanaro, Franco Palermo e Nicolò Grazioli. Un servizio di 16 pagine che include anche la storia di Francesco Vitale, chef e panettiere che da Blumenthal è arrivato a Cagliari, quella di Forno Collettivo a Milano e del pane “sciocco” toscano. Non solo, nel mensile trovate anche un utile glossarietto, le biografie dei protagonisti dell'articolo, i 10 punti più rappresentativi della filosofia del pane nuovo, i consigli per riconoscere il pane buono e quelli per farlo a casa. In più le mappe dei panifici di ricerca in Italia e nel mondo, con un focus, a firma di Laura Lazzaroni, sul fermento globale che sta vivendo questo settore.

 

Il numero lo potete trovare in edicola o in versione digitale, su App Store o Play Store

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Apre Sesamo Pizza e Cucina. Luca Belliscioni e la pizza in teglia da Roma a Lisbona e ritorno

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Il giovane pizzaiolo romano non ama stare fermo. Da qualche mese ha portato a Lisbona la pizza romana in teglia, protagonista di una serie di chioschi a marchio Mercantina. Ora apre un locale suo a Roma, zona Trastevere: ecco come sarà Sesamo Pizza e Cucina. 

 

Luca Belliscioni, chi è

Di esperienze, nonostante la giovane età, Luca Belliscioni – alias LucaBì – può vantarne parecchie. Trait d’union è la passione per la pizza, quella romana in teglia, che nasce muovendo i primi passi nella pizzeria di famiglia a Palestrina (alle porte della Capitale), e finora, poco più che trentenne, l’ha spinto a lanciarsi con entusiasmo in numerosi progetti. In attesa di concretizzare l’ambizione di un locale tutto suo – e il traguardo è imminente – Luca ha sperimentato su farine, lievitazioni, prodotti, facendosi notare in passato per la convincente proposta di Grecco Enjoy (pizzeria a taglio di via Gregorio VII, a Roma), e inanellando diverse collaborazioni e consulenze sul territorio romano e laziale, con il menu delle pizze sviluppato per l’Opificio del Gusto di Colleferro, e l’ultima apparizione nell’estate di Borgo Ripa, di nuovo a Roma, per sfornare pizze alla pala per il pubblico di Domina 2018 (ultimi giorni per approfittare, fino al 15 settembre).

La pizza alla pala a Lisbona

Nel frattempo, però, si è fatto conoscere pure all’estero. Il progetto più ambizioso, work in progress in Portogallo, è nato quasi per caso: “Nel 2017, partecipando alla manifestazione Città della Pizza, ho incontrato due imprenditori portoghesi. Sono rimasti colpiti dal prodotto, ci siamo scambiati i contatti. Poi ho scoperto che a Lisbona gestiscono un gruppo di ristorazione solido, e che avevano intenzione di provare a importare la pizza romana in teglia in città”. C’è voluto qualche mese per trovare un accordo, poi Luca è volato a Lisbona, per scoprire un progetto già piuttosto articolato nella sua concezione. Obiettivo: aprire una serie di chioschi in punti strategici della città a marchio Mercantina (lo stesso dei 3 ristoranti del gruppo), per servire esclusivamente pizza alla pala gourmet e gelato (di Filippo Licitra, anche lui italiano, ma trapiantato a Lisbona, dove gestisce la gelateria Gelato Davvero). Quindi Luca si è messo al lavoro, ha studiato un impasto su misura – tipo 0, 1, farro e una piccola aggiunta di soia – ed esplorato i mercati locali, per valorizzare i prodotti del territorio nel mix calibrato con le materie prime in arrivo dall’Italia, “principalmente formaggi e latticini, mentre verdure e insaccati sono portoghesi, come la tipica morsela, una sorta di sanguinaccio che è diventato protagonista di una delle pizze simbolo dei nostri chioschi, con mela caramellata e stracciatella”.

 

I chioschi di pizza e gelato

Per ora sono due i chioschi Mercantina Pizza e Gelato operativi, circa 20-30 metri quadri per laboratorio e spazio di vendita. La lavorazione degli impasti, però, si appoggia sulle cucine dei ristoranti del gruppo, nelle immediate vicinanze dei chioschi. E l’intenzione è quella di replicare rapidamente il format, per sfruttare le potenzialità di un mercato in espansione, ma ancora inesplorato: “A Lisbona si trovano pizzerie tradizionali al piatto, il segmento della pizza a taglio ha invece ampi margini di crescita. Per questo entro l’autunno definiremo numeri e posizionamento dei nuovi chioschi, e da consulente esterno quale sono ora entrerò anch’io in società. Intanto mi sono occupato della formazione dei ragazzi sul posto, seguiti direttamente dallo chef del gruppo Diogo Coimbra”. E con l’espansione arriverà anche uno spazio destinato a diventare laboratorio di produzione centralizzata per tutti i chioschi Mercantina, dove la pizza viene cotta in forno elettrico, completata con i condimenti e servita alla pala divisa in tranci, anche a portar via grazie al packaging studiato per preservarla.

Sesamo Pizza e Cucina a Roma

Intanto però le ultime settimane di Luca sono state completamente assorbite dal progetto che sta per vedere la luce in viale Trastevere, angolo piazza Mastai (dove un tempo c’era Kalamaro Piadinaro): “Ci sono voluti sei anni per concretizzare gli sforzi, ma tra pochi giorni saremo pronti per inaugurare Sesamo, la nostra idea di pizza e cucina”. Il plurale è d’obbligo, perché in questa nuova avventura Luca porta con sé il pizzaiolo Valerio Mangiavacchi e lo chef Francesco Casanova, da tempo legati sul lavoro e per amicizia. Lo spazio sarà aperto dalla mattina alla sera, assecondando i diversi momenti della giornata con un’offerta che cambia, dall’american breakfast – a uso e consumo principalmente dei turisti stranieri che frequentano la zona – al pranzo leggero, alla cena più strutturata. Non una classica pizzeria a taglio, dunque, anche se la pizza di Luca resterà protagonista, ma un locale informale dove trovare ristoro in qualunque momento della giornata, che servirà anche hamburger gourmet, insalate homemade, sfizi di cucina secondo stagione. E perché la pizza conservi il suo scettro, anche i burger saranno serviti tra due cialde di pizza al sesamo che sostituiscono il bun tradizionale. Per colazione bacon, uova strapazzate, pane fatto in casa con burro e marmellata, muffin e donut, succhi di frutta organici. L’approccio è informale, niente servizio al tavolo, cucina a vista, sgabelli e mensole per consumare sul posto, però tutto sarà curato nel dettaglio, a cominciare dalla pizza, impasto ad alta idratazione, lievitazione a 72 ore, farine selezionate. E circa 10 proposte a rotazione sul banco. Operativi dalla prima settimana di ottobre.

 

Sesamo Pizza e Cucina – Roma – viale Trastevere, 83 – dalla prima settimana di ottobre

Mercantina Quiosque Pizza e Gelato – Lisbona - http://mercantina.pt/it/mercantina-pizza-gelato/

 

a cura di Livia Montagnoli


Torino e dintorni del Gambero Rosso. Una nuova guida cittadina per la vivace scena gastronomica all’ombra della Mole

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Uscirà a novembre 2018 la prima edizione della guida che il Gambero Rosso, in collaborazione con l’Assessorato al Commercio e Turismo della città, dedica ai migliori indirizzi gastronomici di Torino, sulla scia del successo delle edizioni cittadine dedicate a Roma e Milano. Ecco perché. 

 

A Torino, il Gambero Rosso è presente con una sua Città del gusto dal 2013. E certamente il capoluogo piemontese ha dimostrato negli ultimi anni di saper reggere il confronto con destinazioni più chiacchierate come Milano e Roma per quanto riguarda la vivacità della scena enogastronomica cittadina. Lunga è la sua tradizione in merito, città che preserva consuetudini e costumi gastronomici che si fanno risalire alla corte sabauda; altrettanto vivo il rapporto con il territorio circostante, le realtà produttive d’eccellenza piemontesi e una cultura rurale che ha tanto da insegnare. E poi c’è il presente della ristorazione, il fermento di una città che fa convivere la cucina popolare delle vecchie piole con le proposte d’avanguardia della nuova generazione, gli indirizzi vegetariani (Torino è una delle città europee più sensibili all’argomento), le pizzerie, i ristoranti etnici, le enoteche e le birrerie.

 

Una guida per Torino

Tutto questo, e molto altro – come gli storici caffè torinesi, le pasticcerie, le botteghe dolciarie e i luoghi dove ritrovarsi per omaggiare una radicata cultura dell’aperitivo – lo troverete, a partire da novembre 2018, nella prima edizione della guida cittadina che il Gambero Rosso dedica a Torino e dintorni, in collaborazione con l’Assessorato al Commercio e Turismo del Comune di Torino. Un vademecum per orientarsi all’ombra della Mole, che accompagnerà turisti e torinesi nella scoperta dei migliori indirizzi della città, che si tratti di una semplice pausa gourmet a passeggio per il centro, di una golosa gita fuori porta o di scegliere un ristorante per una cena speciale. Tante sono le anime gastronomiche di Torino, altrettanti gli spunti presenti tra le pagine della guida, che segue il successo delle edizioni dedicate a Roma e Milano: disponibile nella doppia versione cartacea e digitale, la guida è anche bilingue, in italiano e in inglese, proprio perché pensata anche per la grande percentuale di stranieri che visitano la città. Nella parte iniziale della guida sarà inoltre presente una sezione speciale, realizzata in collaborazione con Turismo Torino, con le informazioni sulle principali manifestazioni culturali e fieristiche che si svolgono nella città della Mole.

 

Torino capitale del gusto

Soddisfazione nella parole del Presidente Paolo Cuccia, che oggi ha presentato la nuova guida a imprenditori e associazioni cittadine presso gli Uffici dell’Assessorato al Commercio e al Turismo: “Siamo orgogliosi di ampliare le nostre guide cittadine con una pubblicazione dedicata a Torino, città in continuo fermento e da sempre uno dei pilastri della tradizione enogastronomica made in Italy. Gambero Rosso è da sempre portavoce per la promozione dei luoghi e delle eccellenze territoriali e siamo certi che, la guida Torino e Dintorni, nella duplice versione cartacea e digitale, disponibile anche in inglese, contribuirà al flusso turistico nazionale e internazionale”. Ringraziamenti anche all’Assessorato al Commercio e Turismo della Città di Torino – “partner di prestigio in questo grande progetto per lo sviluppo della città” -  che, dal canto suo, con le parole dell’assessore Alberto Sacco rafforza il messaggio: “La nostra amministrazione è impegnata a rafforzare l’immagine di Torino, in Italia e all'estero, quale destinazione turistica dal punto di vista culturale ed enogastronomico. Nel 2018, anno del cibo, stiamo lavorando, in collaborazione con la Camera di commercio, a un progetto che identifichi Torino come Capitale del Gusto per intercettare anche i desideri di una crescente parte di mercato legata alla food economy e alle sue tradizioni. La guida Gambero Rosso, accompagnando i turisti in una food experience a 360 gradi del nostro territorio, costituisce un tassello importante nello sviluppo di questo progetto”. Per saperne di più, appuntamento a novembre.

Tre Bicchieri. Parla Paolo Montrone dell'azienda Terre degli Svevi

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La zona del Vulture ha ancora ampi margini di crescita, soprattutto per quanto riguarda comunicazione e promozione all'estero. Per questo i premi come il Tre Bicchieri sono così importanti. Parola di Paolo Montrone.

 

Le capacità imprenditoriali del Gruppo Italiano Vini hanno portato in poco tempo l’azienda diretta da Paolo Montrone a posizionarsi nel panorama enoico del Vulture come inevitabile punto di riferimento. Gli ettari vitati sono ben 110 con la vigna storica della cantina rappresentata dal Vigneto Serpara, nel comune di Maschito, dove le viti, che raggiungono i quarant’anni di età, forniscono le uve per l’unico cru aziendale. Gli altri corpi vitati si trovano poi a Venosa e in varie località vocate, dove trovano spazio vitigni a bacca bianca come il traminer aromatico e il müller thurgau. I vini hanno tutti una decisa linea comune: giocano su morbidezze ed equilibri che ingentiliscono la potenza tannica dell’Aglianico del Vulture. Abbiamo incontrato Paolo Montrone che, lucano di nascita, meglio sa descriverci la situazione attuale e la crescita dell'azienda.

 

Quando l'azienda è stata acquista dal Gruppo Italiano Vini?

Il Gruppo Italiano Vini acquistò la Cantina e circa 110 ettari di vigneti nel 1998. È così che nasce l’avventura di Terre degli Svevi. È inevitabile affermare che, in quegli anni, l’Aglianico del Vulture non era di certo un vino noto e lo stesso si può dire del nostro territorio in generale. Il grande investimento fatto dal Gruppo Italiano Vini fu, dunque, senza ombra di dubbio, una bella scommessa. Il GIV, prima ancora di acquistare la Tenuta e i vigneti, si era da sempre interessato a questo territorio, consapevole del grande potenziale della zona e del nostro vitigno autoctono.

 

A quali cambiamenti avete assistito negli ultimi anni?

La cantina che celebra la presenza sulla zona degli Svevi e in particolar modo la figura di Re Manfredi, figlio di Federico II, ha puntato sin da subito alla ricerca della massima qualità del prodotto, a partire dal minuzioso lavoro nei vigneti sino all’imbottigliamento, e ha raggiunto subito ottimi risultati.

 

Cosa significa essere parte del Gruppo Italiano Vini?

Far parte della grande famiglia GIV, primo gruppo del vino in Italia e tra i primi al Mondo, ci dà la possibilità di essere sempre al passo con i tempi, di poter sperimentare tecnologie innovative, ma di rimanere comunque sempre fedeli alla tradizione e alla nostra identità.

 

Quali sono i vostri prossimi progetti?

Gli investimenti del Gruppo continuano e mirano soprattutto alla ristrutturazione di alcuni dei vigneti di proprietà e al rinnovo della Cantina. Altri interessanti progetti riguardano l'ospitalità e la ristorazione; in autunno è infatti prevista l’inaugurazione del ristorante “Taverna Re Manfredi” a Matera, città che nel 2019 sarà Capitale Europea della Cultura e orgoglio per l’intera Basilicata. Vorrei, a questo punto, ringraziare il Presidente del GIV, Corrado Casoli, il quale, particolarmente affezionato alla nostra Cantina, crede fortemente nella crescita di Terre degli Svevi.

 

Quanto è conosciuto come vvino l'Aglianico del Vulture in Italia e all'estero?

Le potenzialità e il pregio dell’Aglianico del Vulture sono da sempre riconosciuti dagli esperti di vino e dagli operatori del settore. Risulta invece piuttosto complicato comunicare e far entrare nell’Olimpo dei grandi vitigni italiani l’Aglianico, ancora poco conosciuto e per troppi anni offuscato dai grandi giganti come il Barolo, il Chianti e l’Amarone. Il Gruppo Italiano Vini può vantare una rete commerciale estera molto strutturata e potente, ma mi rendo conto che per le piccole realtà del Vulture emergere nel mercato estero risulta un’impresa ostica.

 

Cosa sta facendo il Consorzio per promuovere nuove iniziative finalizzate alla valorizzazione di questo grande rosso da invecchiamento?

È fondamentale creare unione e complicità tra i vari produttori e puntare su iniziative promosse dal Consorzio e dall’Enoteca Regionale. Queste iniziative devono dare visibilità al nostro territorio, alle varie declinazioni dell’Aglianico e ai progressi sempre più notevoli ottenuti dalle cantine.

 

Quali sono i prossimi passi?

L’Aglianico deve allontanarsi dalla ormai remota immagine di vino da taglio, ruvido e aggressivo. Oggi sono in crescita le cantine che, sempre più attente ai dettagli e alla ricerca di alta qualità, producono vini di sorprendente eleganza e finezza. Ogni riconoscimento, premio ottenuto da un qualsiasi produttore rappresenta un ottimo risultato non solo per la cantina in questione, ma per la visibilità e la promozione del nostro Aglianico.

 

Questo è il vostro sesto Tre Bicchieri consecutivo, senza tener conto degli altri ottenuti negli anni. Quanto vale ancora questo riconoscimento?

Ritengo che per tutti i produttori italiani il riconoscimento più ambito sia senza dubbio quello dei Tre Bicchieri. La vostra guida è sicuramente la più conosciuta anche all’estero ed è quella che permette ai produttori di ottenere un’ottima visibilità utile a inserirsi nei vari mercati, esteri e non. Il fatto di aver ottenuto per più anni di seguito questo riconoscimento non può che renderci orgogliosi e fieri di aver lavorato con serietà e di essere riusciti a preservare un alto standard qualitativo. Ed è anche per questo che il consumatore di oggi, sempre più attento alla qualità del prodotto, continua ad apprezzarci.

 

Re Manfredi - Cantina Terre degli Svevi - Venosa (PZ) - loc. Pian di Camera - www.cantineremanfredi.it

 

a cura di Stefania Annese

 

Anteprima Tre Bicchieri 2019. I migliori vini di Abruzzo e Molise

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Continuano le anticipazioni dei premiati dalla Guida Vini d'Italia 2019 del Gambero Rosso. Oggi è il turno di Abruzzo e Molise.

 

Il comparto vitivinicolo abruzzese si configura per molti versi come un’efficace riproduzione in scala di quello nazionale. Da un punto di vista storico: nella progressiva capacità di valorizzare le proprie peculiarità, lasciando sullo sfondo le epoche dominate da ingenti produzioni e sfusi generici poi utilizzati fuori regione. Da un punto di vista territoriale: in Abruzzo si fa vino di qualità a ridosso delle più alte cime appenniniche fino alle pianure che lambiscono il litorale adriatico, con relative declinazioni agricole e geo-climatiche. Così come dal punto di vista imprenditoriale. Tra le migliori aziende incontriamo infatti autentiche corazzate da milioni di bottiglie insieme a minuscoli artigiani con tirature da garage; una fitta rete di cooperative accanto a cantine private di ogni tipo; una rosa di realtà veterane continuamente rimpolpata da marchi emergenti. Scenario che naturalmente si riflette nella proposta commerciale.

A fronte di una piattaforma ampelografica tutto sommato più razionale e contenuta rispetto ad altri distretti, le diverse provenienze geografiche e sensibilità tecniche disegnano un quadro quanto mai variegato. In particolare bianchi da trebbiano e pecorino, rosati e rossi da montepulciano che coprono l’intero arco stilistico, dal tipo mediterraneo al nordico, dal goloso all’austero, dal vino di pronta beva a quello da attendere con pazienza. Passando per una serie di interpretazioni abitualmente associate all’universo “naturale”, che tuttavia ispirano sempre più il lavoro di aziende decisamente classiche. Quindi protocolli bio, progetti di sostenibilità ambientale, fermentazioni spontanee, macerazioni sulle bucce anche per le uve bianche, maturazioni in cemento e terracotta, vinificazioni senza chiarifiche, filtrazioni o solfiti aggiunti, e così via. Il tutto cucito da una straordinaria versatilità gastronomica, che permette alle principali tipologie di accompagnare praticamente qualunque piatto, non solo della tradizione locale. Peraltro senza necessità di svenarsi: non è certo un caso se ancora una volta compaiono fra i Tre Bicchieri diverse opzioni adatte a un consumo quotidiano, o giù di lì. Una selezione che vede in primo piano i Montepulciano d’Abruzzo, senza dubbio la denominazione più importante della regione: proprio in questi mesi si festeggia il cinquantennale del riconoscimento ministeriale e la sequenza di vini premiati ci ricorda una volta di più quanto sia cambiato lo scenario in questo lasso di tempo.


I vini dell'Abruzzo premiati con Tre Bicchieri
 

Abruzzo Pecorino Giocheremo con i Fiori '17 – Torre dei Beati

Cerasuolo d'Abruzzo Piè delle Vigne '16 – Luigi Cataldi Madonna

Montepulciano d'Abruzzo '13 – Valentini

Montepulciano d'Abruzzo Colline Termane Zanna Ris. '13 – Illuminati

Montepulciano d'Abruzzo Mo' Ris. '14 – Cantina Tollo

Montepulciano d'Abruzzo Podere Castorani Ris. '14 – Castorani

Montepulciano d'Abruzzo Spelt Ris. '15 – La Valentina

Montepulciano d'Abruzzo Vign. Di Sant'Eusanio '16 – Valle Reale

Pecorino '17 – Villa Medoro

Trebbiano d'Abruzzo Castello di Semivicoli '15 – Masciarelli

Trebbiano d'Abruzzo Sup. Mario's 44 '16 – Tenuta Terraviva

Tullum Pecorino Biologico '17 – Feudo Antico

 

Ci spostiamo, ma solo un po'. E ci ripetiamo. A dispetto di abusati tormentoni: il Molise esiste, eccome. Lo sanno bene gli appassionati più attenti e curiosi, desiderosi di esplorare le rotte meno battute del turismo enogastronomico. Che scoprono qui una regione in buona parte incontaminata, fieramente connessa alle sue radici rurali. Con tutto quanto ne consegue in termini di biodiversità, salubrità ambientale e ricchezza paesaggistica. Molto più di un territorio di frontiera, come troppo spesso viene descritto e semplificato.

Da un lato sono innegabili i punti di contatto con le aree limitrofe per quel che riguarda condizioni orografiche, variabili climatiche, base ampelografica. Per non parlare degli aspetti legati a cultura, tradizioni, perfino gastronomia. Dall’altro basta poco per rendersi conto di come le comunità molisane conservino una propria specifica identità, non confondibile. Che marca inevitabilmente anche le produzioni di pregio. Ecco allora rossi e rosati da montepulciano e aglianico che ha poco senso paragonare con i loro omologhi di Abruzzo, Campania e Puglia. Oppure bianchi da falanghina, greco, trebbiano e malvasia, a cui si affiancano cultivar internazionali come sauvignon e chardonnay, che declinano di volta in volta l’indole mediterranea o montana, spensierata o rigorosa, dei diversi areali.

Là dove tocca alla tintilia il ruolo di vino-vitigno bandiera, che proprio in Molise sembra aver trovato la sua terra d’elezione per originalità e carattere. Ideale testimonianza in tal senso arriva dalla versione 2016 targata Di Majo Norante, per l’ennesima volta unica azienda della regione capace di conquistare i Tre Bicchieri. Ma nel primo gruppo di merito si segnalano in grande crescita altre importanti realtà come Borgo di Colloredo, Claudio Cipressi e Tenimenti Grieco. E alle loro spalle un piccolo gruppo di cooperative e cantine private che propongono vini sempre più definiti e personali, oltre che convenienti. C’è insomma una squadra che si consolida vendemmia dopo vendemmia e siamo convinti di non peccare di ottimismo immaginando un ulteriore incremento di attenzione e riconoscibilità, in un futuro poi non così lontano.

 

Il vino del Molise premiato con Tre Bicchieri
 

Molise Tintilia '16 – Di Majo Norante

 

Chef's Table 5 e 6. La star è Albert Adrià, per l'Italia c'è il macellaio-oste Dario Cecchini

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Cast insolito per le prossime stagioni di Netflix, che annuncia la messa in onda di 8 nuovi episodi, tra la fine di settembre (i primi 4, disponibili dal 28 del mese) e il 2019. Evidente l'impegno di raccontare storie e volti nuovi della ristorazione internazionale, il nome più celebre è quello di Albert Adrià. A per l'Italia, a sorpresa, c'è la Toscana di Dario Cecchini. 

 

Una serie di successo

Che Netflix fosse in procinto di rilasciare una nuova stagione di Chef's Table era già noto da un paio di mesi. Del resto il format ideato da Davide Gelb, anche per merito di una programmazione oculata, resiste al passare degli anni senza colpo ferire. E l'effetto sorpresa, legato principalmente al totoscommesse sui protagonisti delle stagioni che verranno, fomenta l'attesa per la messa in onda dei nuovi episodi. Di nuovo, com'è avvenuto per le stagioni 3 e 4 della fortunata serie, la sorpresa è doppia: l'ultimo anno, intervallato dall'altrettanto fortunato spin off Chef's Table Pastry (con l'ormai mitica puntata dedicata a Corrado Assenza), è servito per riorganizzare le troupe, e sguinzagliarle in giro per il mondo con l'idea di scoprire storie ancora diverse, e non necessariamente mainstream, di chi lavora nel settore della ristorazione. L'esito della ricerca restituisce bottino pieno: 8 nuovi episodi che la piattaforma di streaming online rilascerà in due tranche, la stagione 5 dal 28 settembre, la sesta in programma per il 2019. Stesso approccio, finalità differenti: gli episodi prossimi alla messa in onda seguiranno le storie di chef e cucine “rimaste nascoste troppo a lungo”; mentre la stagione 6 seguirà il fil rouge del “ritorno a casa”, e capiremo presto perché.

 

La quinta stagione. C'è Albert Adrià

Prima però, ecco i protagonisti della quinta stagione: Cristina Martinez, Bo Songvisava, Musa Dagdeviren, Albert Adrià. Un quartetto insolito, se non fosse per la presenza del più giovane dei fratelli Adrià, che poco conosciuto decisamente non è, ma la letteratura gastronomica ha spesso voluto rappresentare all'ombra della genialità di Ferran. Assodato che il presunto dualismo tra i due è leggenda ormai superata, di Albert la serie porterà alla luce soprattutto la capacità imprenditoriale e il talento di tenere insieme un gruppo di ristorazione agguerritissimo e unico al mondo, seguendo anche in presa diretta l'inaugurazione di Enigma, aperto dalla premiata ditta Adrià all'inizio del 2017 a Barcellona. Per il resto, il merito della quinta stagione sembra essere proprio quello di raccontare prospettive e volti inediti del panorama gastronomico internazionale, garantendo pari spazio alla componente femminile: a Philadelphia le riprese seguono la regina della cucina messicana in città, Cristina Martinez e il suo celeberrimo South Philly Barbacoa (già visto nell'episodio che Ugly Delicious dedica alla cultura dei tacos). Negli ultimi anni Cristina è diventata suo malgrado paladina della lotta all'inasprimento delle leggi migratorie negli Stati Uniti, rivendicando il ruolo degli immigrati nel settore della ristorazione. Con Bo Songvisava la serie atterra nuovamente a Bangkok (ricordate l'episodio su Gaggan Anand?), per raccontare uno degli astri nascenti della ristorazione fine dining asiatica. Attivista del movimento Slow Food, la chef thailandese dirige in città il ristorante Bo.Lan, stimolando la crescita di un circuito di produzione locale etico e votato al biologico. Nel quartetto anche il turco Musa DagDeviren, che a Istanbul è proprietario di una serie di insegne (tra cui Ciya) che tramandano la cucina tradizionale.

 

La sesta Stagione. Dario Cecchini e la macelleria di Panzano in Chianti

La sesta serie, invece, si muove tra l'America, Londra... e l'Italia. È la Toscana di Dario Cecchini, macellaio-oste dal piglio verace e terzo italiano a conquistare un posto nel cast di Chef's Table dopo Massimo Bottura e Corrado Assenza. Una scelta inconsueta, che conferma la volontà di allargare il campo di indagine oltre le cucine blasonate dell'alta ristorazione, e certo giocherà molto su panorami e folclore del Chianti, come avvenuto nella Sicilia di Corrado Assenza (speriamo evitando gli eccessi). Celebrato per le sue doti divulgative, oltre che per la grande preparazione tecnica e il fiuto imprenditoriale (oggi a Panzano in Chianti gestisce un'attività poliedrica, la bottega-laboratorio, il ristorante Solociccia, le lezioni per addetti ai lavori e amatori), l'autorevolezza che Cecchini ha saputo ritagliarsi nel tempo avrà molto probabilmente un grande riscontro davanti alla macchina da presa. Con lui, negli episodi in onda nel 2019, Mashama Bailey, chef del ristorante Grey a Savannah (Georgia), Sean Brock e il suo impero di ristorazione “casalinga” in South Carolina, Asma Khan, chef e proprietaria del ristorante indiano Darjeeling Express a Londra.

 

a cura di Livia Montagnoli

Alberto Marchetti, l'artigiano che fa il gelato per Starbucks Milano

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Lui: una manciata di gelaterie artigianali. Loro: quasi 30mila caffetterie in tutto il mondo. In comune un gelato al caffè. Nasce all’insegna del gusto una delle più sorprendenti collaborazioni del nuovo Starbucks di Milano. 

 

Immaginate che deve aver pensato Alberto Marchetti il 18 dicembre 2017 quando gli hanno inviato un messaggio Whatsapp dalla sua gelateria di Torino per dirgli che Starbucks lo stava cercando. Che alcuni americani, dopo aver assaggiato il suo gelato, hanno lasciato un biglietto da visita per essere ricontattati. E quel biglietto da visita annunciava il settore ricerca e sviluppo di Seattle (casa madre della catena). Una cosa è certa, “il giorno dopo ero a Milano per incontrarli”. Come ci sono finiti da Casa Marchetti? “Credo fossero a Torino per ispezionare le sue caffetterie”. Che nel capoluogo piemontese hanno una lunga e gloriosa tradizione. Da quel primo assaggio è cominciato un percorso lungo 9 mesi, tutto top secret. “Nel primo appuntamento sono stati evasivi persino di quale Starbucks stessero parlando, perché non avevano ancora firmato per il locale. Li ho anticipati io” ricorda. Figuriamoci il resto. Così sono andati avanti, inizialmente con l’idea di una semplice consulenza sui tre gusti presenti nella Roastery di Milano, poi alzando il tiro “hanno voluto mettere il mio nome, raccontare la collaborazione, ci tenevano, poi mi hanno chiesto di fornire il prodotto e firmarlo”. È la prima volta che Starbucks serve del gelato “e la cosa bella è che è un gelato italiano”. Quello scelto e approvato dallo stesso Howard Schultz, deus ex machina della più grande catena di caffetterie al mondo. Un colosso in dialogo con un piccolo artigiano, scelto tra i più bravi in Italia. In barba a preconcetti e cattivi pensieri.

In questa gestazione il lavoro è stato scadenzato da incontri e prove: “da metà gennaio abbiamo cominciato a vederci ogni due settimane con due team di ricerca e sviluppo, quello di Seattle e quello di Londra” mentre in Casa Marchetti si continuava a lavorare in gran segreto per mettere a punto il prodotto finale, “ogni tanto qualche cliente chiedeva cosa fosse quel fumo che vedeva” sorride, e aggiunge “ma abbiamo tenuto tutto riservato”.

Il gelato all’azoto liquido

Il fumo è quello dell’azoto liquido che consente di servire un gelato preparato al momento, su ordinazione. “L’idea dell’azoto è stata loro, avevano già le idee chiare e anche le attrezzature” spiega “esattamente all’opposto di come si fa di solito, mancava il prodotto ma già c’era tutto il resto”. E proprio il prodotto è quello che ha sviluppato in questi mesi Marchetti, confrontandosi volta dopo volta con il team della caffetteria “arrivavano in 5 o 6 per fare tutti gli assaggi, ci si sono dedicati tantissimo: tenevano moltissimo al risultato finale” e aggiunge “è emozionante lavorare con gruppi di ricerca così grandi”.La molla che li ha convinti, secondo Marchetti, è il suo lavoro sulle materie prime, tutte ben visibili da Casa Marchetti. E la bontà del suo gelato, che ha conquistato i Tre Coni nella guida Gelaterie d’Italia del Gambero Rosso.

Tre i gusti studiati per Milano: un fiordilatte, un sorbetto al caffè preparato con un cold brew e impiegando tutta l’acqua estratta a freddo, e un gelato al caffè, una crema classica con l’uovo e il latte in cui è stato infuso il caffè, una specie di cold brew preparato con il latte al posto dell’acqua.

La miscela del gelato è preparata nella gelateria di Torino e spedita a piazza Cordusio dove viene mantecata al momento solo la porzione ordinata dal cliente. Per farlo si usa una specie di planetaria in cui una valvola immette l’azoto liquido nella miscela, che fredda tutto. In due o tre minuti il gelato è pronto per essere servito accompagnato da un doppio espresso, che ogni cliente può versare sul gelato a suo piacimento, sulla falsariga del classico gelato affogato. Un gelato studiato in esclusiva per Starbucks con il suo caffè da abbinare al suo caffè. Come è questo gelato? “Rispetto a quello tradizionale è più setoso, perché si formano cristalli di ghiaccio più fini, di circa 700 volte. È un gelato estemporaneo, da consumo immediato”. In questi giorni, e fino alla fine dell’anno, ci sarà il Pantheon come ingrediente base, ma a gennaio il blend della Roastery cambierà, e con esso anche il gelato, che Marchetti studierà nel mese precedente per mettere a punto la ricetta. In pratica è un piccolo menu che cambia ogni tre mesi, che però rimarrà circoscritto ala Reserve Roastery: le selezioni Starbucks non entreranno infatti nelle gelaterie di Marchetti, che conferma la partnership con la torrefazione San Domenico.

 

Come sta andando Starbucks?

Come sta andando è ancora presto per dirlo, anche se le file per entrare e vedere questo Starbucks delle meraviglie sono sotto gli occhi di tutti, file che si ritrovano anche all’interno. “Ancora non abbiamo dati, so solo che stanno facendo parecchio gelato” tantissimi quelli che assaggiano “è tutto molto emozionante”. Ed emozionale. Ma è la prima tappa di una collaborazione più ampia? “Quella è ovviamente una speranza, ma al momento il progetto è limitato alla Roastery di Milano”. A differenza di quella di Princi, che è nata nella torrefazione di Seattle, per poi arrivare a Shanghai e Milano. Ma come è lavorare con una azienda di queste dimensioni? “È una relazione che fa crescere molto, è una bella palestra” risponde. “Ho imparato un po' di cose, soprattutto a livello organizzativo. E poi è incredibile vedere come lavorano, basti pensare all’attenzione che dedicano alla formazione. 4 mesi di scuola per tutti i ragazzi che lavorano alla roastery, che infatti sono tutti molto preparati”. Un elemento indiscutibilmente di merito (uno dei molti a nostro avviso) per il locale che ha suscitato così tante polemiche e levate di scudi. Ma come è stata accolta la sua collaborazione? Nessuno ha gridato allo scandalo di un artigiano che si piega alla multinazionale? “Ho ricevuto solo congratulazioni e apprezzamenti, soprattutto da parte dei colleghi che ringrazio per l’incoraggiamento. Sono contento che sia passato il messaggio”.

 

Casa Marchetti – Torino – piazza CNL, 248 - 011544383 - www.albertomarchetti.it/

Starbucks Reserve Roastery – Milano – Piazza Cordusio, 3

 

a cura di Antonella De Santis

 

I grandi cocktail bar d’Italia. A Roma le 10 migliori espressioni della miscelazione italiana con il Gambero Rosso

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Il loro impegno sarà premiato dalla guida Bar d’Italia 2019 di prossima uscita, che dedica un’intera sezione a bartender e mixology. Ma i migliori 10 cocktail bar dell’anno saranno di nuovo protagonisti, a Roma, di una serata speciale da Chorus Cafè. Appuntamento il 3 ottobre.

 

Tempo di bilanci sull’ultimo anno enogastronomico italiano, tempo di guide e consigli per l’uso per sapere sempre come orientarsi in cerca dei migliori indirizzi per mangiare e bere da Nord a Sud della Penisola. Dopo l’estate, apre la stagione editoriale del Gambero Rosso la guida Pizzerie d’Italia 2019: appuntamento a Napoli, il 20 settembre, per scoprire protagonisti e premiati.

 

Bar d’Italia 2019

E in una ideale staffetta tra settori del mercato gastronomico che si protrarrà fino alla fine dell’anno, martedì 25 settembre, a Roma, sarà già il turno dei Bar d’Italia 2019, vademecum a una tradizione tutta italiana che negli ultimi anni ha trovato modo di rinnovarsi grazie all’impegno di giovani professionisti, che oggi affiancano le insegne storiche sulla mappa dei migliori indirizzi per sorseggiare un buon caffè, godere di una pausa pranzo rilassata e informale, condividere un aperitivo con gli amici. Nel corso della cerimonia di presentazione saranno assegnati, come di consueto, Tre Chicchi e Tre Tazzine. Ma ci sarà spazio pure per cocktail bar e bartender che hanno conquistato sul campo una menzione tra le insegne che valorizzano l’arte della miscelazione in Italia.

 

I 10 migliori cocktail Bar d’Italia

Proprio 10 di loro, il 3 ottobre, torneranno a incontrarsi a Roma, sul palcoscenico – ma sarebbe meglio dire dietro al bancone – della serata I Grandi Cocktail Bar d’Italia, organizzata da Gambero Rosso presso il Chorus Café di Massimo D’Addezio, al secondo piano dell’Auditorium della Conciliazione, con vista sulla cupola di San Pietro. È ancora presto per fare nomi, ma è certo che si tratterà di un appuntamento unico nel suo genere, con i protagonisti della miscelazione italiana chiamati a raccontarsi attraverso i propri drink, interpretazioni dei grandi classici e twist sul tema, tenendo conto anche di chi non ama bere, con una proposta di cocktail analcolici ad affiancare le proposte alcoliche. Durante la serata Gambero Rosso e Sanbittèr premieranno i 10 migliori cocktail bar dell’anno. Appuntamento alle 19, e fino alle 23, per scoprire i protagonisti.


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In viaggio. Il Tavoliere delle Puglie e il Nero di Troia

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Il mare è all’orizzonte, verso il Golfo di Manfredonia, ma qui è il regno del Nero di Troia, in piena Capitanata, nel Tavoliere verde d’Italia intorno a Foggia. Nel numero di settembre trovate il racconto completo, qui un'anticipazione.

 

La mitologia della storia di questo territorio plasma anche l’origine di questo vitigno particolare, polposo e buccioso, dal tannino morbido. A circondare le vigne distese di verdure, olivi, cereali… Sapori decisi ed eleganti. E un vino che ha trovato la via del futuro.

Il territorio

La Capitanata, la Daunia o semplicemente il Foggiano, le campagne del Tavoliere pugliese strette tra la coda d’Appennino e il promontorio del Gargano, liberate da un mare e da un cielo infinito che si fondono nel blu; e campi sterminati, pietra, uliveti, capolavori medievali e barocchi, influenze greche e saracene tra splendori e contraddizioni, profili ruvidi e cuori caldi, l’eco delle transumanze abruzzesi, quello della dominazione spagnola… Talvolta per definire un territorio non basterebbe viverci, abitarlo da generazioni, figurarsi attraversarlo seppur a caccia di incontri, parole, idee; puoi al massimo cogliere un pretesto, il simbolo che in un lampo sembra racchiuderne l’essenza.

L’uva e la mitologia

Prendi per esempio quest’uva dalla buccia spessa e nera, col suo acino polposo che matura tardi ma restituisce fierezza, potenza, e volendo anche trame tanniche raffinate, note di fiori e piccoli frutti rossi, folate di brezza marina. Era buona per il taglio, l’uva di Troia, aveva tutte le caratteristiche giuste per far da spalla a certi esili vitigni del nord: colore intenso che vira al violaceo, grado alcolico importante, ottime rese quantitative specialmente nell’evolversi delle coltivazioni a tendone. Ma ci si è accorti che è troppo bella, buona, identitaria e nobile per disperderla nel sangue degli altri, per cui si è preferito rimetterla al centro, adoprarsi per restituirle il palcoscenico che merita.

Il mito la vorrebbe figlia dell’eroe greco Diomede, che finita la guerra vagabondò per l’Adriatico e risalì il fiume Ofanto portandosi appresso pietroni e tralci di vite dalla città di Troia. Altre piste riconducono alla più vicina Troia pugliese, un comune alle appendici dei Dauni (ospita la Concattedrale romanica col rosone a undici raggi che compariva nelle vecchie banconote da 5.000 lire), oppure alla città albanese di Kruja, o alla Rioja spagnola. Il finale non cambia, ed è questo inizio di recupero e rilancio, nonché una giovane Doc (Tavoliere Nero di Troia, ancora utilizzata da pochi produttori) e nuove sperimentazioni che fanno presagire un futuro prossimo assai intrigante.

Grappoli d'uva

Si parte da San Severo

Il viaggio può cominciare da San Severo, a suo tempo capoluogo di Capitanata, paese simbolo del barocco pugliese con diciotto chiese storiche, cunicoli di cantine a formare una sorta di città sotterranea e d’intorno una vasta, ondeggiante pianura calcarea dedicata perlopiù a oliveti e uve bianche. Ma l’azienda D’Alfonso Del Sordo, ovvero la storia del vino di zona (fu avviata nel 1860), è anche artefice del riscatto del grande Nero, quello di Troia.

Gianfelice segue 35 ettari e una produzione di circa 200mila bottiglie annue con attitudine da artigiano, un occhio al mercato e i piedi saldi nella tradizione. Nel 1993 era un giovane laureato in giurisprudenza, quando il padre Antonio morì in una sciagurata disgrazia aerea e gli lasciò il timone tra le mani. Puntò subito alla caratterizzazione dei vini, tracciando rotte che guardavano all’estero ma rivalutando le uve autoctone, di proprietà e vendemmiate a mano, alcune provenienti da vigneti di oltre quarant’anni. «Il tempo di orientare la bussola, anche affidandoci a enologi affermati come Severino Garofano e Luigi Moio, per poi capire che l’azienda aveva un’identità e poteva imporla, trasmettendo il proprio carattere». A monte l’idea di smarcarsi dalla cultura locale, che badava più alla quantità che alla qualità, finché tutta la Puglia enoica non ha cominciato a crescere “seppur a doppia velocità, perché era il Salento a fare da traino”.

Guado San Leo è il cru aziendale, da un raro clone a bacca piccola di Nero di Troia, il Bombino è il fratello bianco che gli fa da contraltare: “Hanno enormi potenzialità espressive, sapranno affermarsi oltre ogni aspettativa”. La tenuta Coppanetta, ai piedi del promontorio Garganico, è il cuore delle produzioni, ed è qui che sorgono le cantine per vinificazione e imbottigliamento.

Nessuna ricetta assoluta, massima attenzione per interpretare lo spirito del produttore e la vocazione del territorio” dice Cristiano Chiloiro, giovane enologo tarantino cresciuto in Romagna, con precedenti esperienze a fianco di Cotarella e Soldera. “Territorio che talvolta non ha saputo cogliere l’attimo e guardare avanti” gli fa eco Gianfelice; “è una parola semplice, territorio, ma la si riempie coi fatti, mettendo insieme storia, tempo, relazioni umane e moltissimo lavoro”.

Nei dintorni, numeri importanti e risultati di rilievo per tenuta Coppadoro, realtà imprenditoriale avviata agli albori del Duemila con ambiziosi obiettivi di leadership. I tre vigneti delle “contrade” Ratino, Cotinone e Coppadoro formano il giardino del sogno, 125 ettari in produzione e altri 40 che attendono un pieno impiego. Guidata da una gruppo giovane ed entusiasta, l’emblema aziendale è racchiuso nel fiore del cardo stilizzato nel logo, “simbolo di crescita ed eleganza”. I loro Nero di Troia sono Stibadium, con intensa macerazione sulle bucce e dodici mesi di affinamento in barriques, e Brando, a incarnare “la dedizione dell’omonimo viticoltore che ha curato le nostre viti con instancabile passione per un’intera generazione”.

Il viaggio continua in compagnia di Valentina Passalacqua e il suo progetto avviato nell’abbraccio della biodinamica e della Montagna del Sole, di Alberto Longo, che ha dato forma ai suoi sogni affondandovi le radici di 35 ettari vitati, rilevando un’antica masseria denominata Fattoria Cavalli. E di diverse aziende a sud di Foggia: Podere 29, Cantine Spelonga e Cantine Paradiso.

 

a cura di Emiliano Gucci

 

QUESTO È NULLA...

Anteprima articolo del mensile di settembre

Nel numero di settembre del Gambero Rosso, un'edizione rinnovata in questi giorni in edicola, trovate il racconto completo con la bella storia della Cantina d'Araprìe un focus sul Bombino bianco, ovvero l'altra faccia del Nero di Troia. Un servizio di 10 pagine che include anche le 5 tavole da non perdere tra l'Adriatico e il Tavoliere, i 9 olivocoltori da conoscere e il racconto di Peppe Zullo, chef a Orsara di Puglia.

Il numero lo potete trovare in edicola o in versione digitale, su App Store o Play Store

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Taste of Roma 2018. Programma, chef partecipanti, menu e prezzi

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Dal 20 al 23 settembre l'Auditorium Parco della Musica ospita ancora una volta una kermesse di chef d'eccezione, in rappresentanza delle tavole gourmet della Capitale. Il programma e i protagonisti di Taste of Roma 2018.

 

L'evento

Formula che vince non si cambia. Così per il settimo anno consecutivo, il festival dedicato ai grandi chef della Capitale, torna dal 20 al 23 settembre presso l'Auditorium Parco della Musica. Ben 17 i ristoranti coinvolti, per quattro giornate dedicate all'alta cucina durante le quali ogni cuoco presenterà un menu di quattro piatti, con un prezzo che varia dai 7 ai 10 sesterzi (ovvero euro). Il format vincente dell'evento, dunque, resta invariato: piccole porzioni di alta cucina a prezzi contenuti, per coinvolgere una platea trasversale, magari anche coloro che solitamente non frequentano i ristoranti di un certo profilo. Non solo, il programma prevede showcooking, degustazioni e seminari.

Programma e tema

Beck,Bowerman, Troiani,CaceresBaldassarre (che tra poco aprirà Avvolgibile Trattoria Popolare a Roma), TerrinoniGlowigUsaiNastri: questi e molti altri gli chef protagonisti della manifestazione, ma non gli unici. Taste, infatti, vanta anche una serie di professionisti ospiti che intratterranno i visitatori con cene a quattro mani all'interno di un ristorante adibito per l'occasione. Gli autori degli appuntamenti sono i pizzaioli Pier Daniele Seu, Massimo Giovannini e Salvatore Grasso, e gli chef Paolo Trippini, Andrea Provenzani e Adriano Baldassarre. Tutti chiamati a interpretare o a prendere ispirazione da un'opera artistica italiana (i piatti d'ispirazione sono quelli con la dicitura “d'autore”). Non può mancare, naturalmente, il vino, presente nel winebar Trimani, dove i visitatori potranno degustare 60 etichette selezionate tra vini classici ed emergenti.

Ma concretamente, cosa si mangerà? Abbiamo assaggiato in anteprima gli assaggi che porteranno Kotaro Noda (Bistrot 64), Riccardo Di Giacinto (All’oro), Francesco Apreda (Imàgo all’Hassler), Massimo Viglietti (Achilli Enoteca Al Parlamento). E abbiamo chiesto loro dove vanno a mangiare nella Capitale.

Spaghetti di patate, burro e alici di Kotaro NodaSpaghetti di patate, burro e alici di Kotaro Noda

Kotaro Noda

Brillante talento giapponese, è autore di una proposta che reca inconfondibile la sua firma, anche grazie alla ricerca dei migliori prodotti italiani intrapresa non appena arrivato in Italia, diversi anni fa ormai. Kotaro Noda è scevro da condizionamenti culturali, e questo lo ha portato a inventare ex novo accostamenti tra le materie prime del Belpaese, usando la gentilezza tipica del Sol Levante. Ai Giardini Pensili dell’Auditorium porta i suoi famosi Spaghetti di patate, burro e alici; l'Onigiri fritto alla milanese, la Panzanella con baccalà e, come piatto d'autore, lo Shabu shabu di Hidagyu con orzotto al Parmigiano. Quali sono i suoi tre indirizzi del cuore? Pizzarium, Retrobottega e Doozo.

Macaron "Romano" di Riccardo Di GiacintoMacaron "Romano" di Riccardo Di Giacinto

Riccardo Di Giacinto

La sua dimensione è ormai nella struttura alberghiera inaugurata poco più di un anno fa, The H'All Tailor Suite, dove il talentuoso Riccardo Di Giacinto propone sia i classici di All’Oro sia le sue ultime creazioni. Al Taste propone entrambe le cose, dagli storici Riassunto Di Carbonarae Tiramisù All'Oro, agli attuali Pollo alla cacciatora e Macaron "Romano". Ma quando non è in cucina, dove va mangiare? “Sicuramente allaBaiaa Fregene, Da Robertino e da Il Sorpasso. Poi, nella zona dove vivevo un tempo, a Fonte Nuova, c'è Da Luigino, quel tipico posto dove non c'è nemmeno il menu perché “fa lui”, e di lui mi fido”.

Mozzarella di bufala e bruschetta di Francesco ApredaMozzarella di bufala e bruschetta di Francesco Apreda

Francesco Apreda

Anima campana, spirito cosmopolita (soprattutto quando si tratta dell'Oriente) e la capacità di saldare in incontri apparentemente impossibili ingredienti esotici e sapori nostrani come la mozzarella o il pomodoro. È Francesco Apreda, chef dell'Imàgo all’Hassler, che a Taste of Roma porta, per l'appunto, Mozzarella di bufala e bruschetta; Insalata di polpo e olive di Gaeta; La dolce pescae Pasta, patate e granchio. I suoi consigli gastronomici sono Chinappi, Sushisen e Pianostrada, che quest'estate ha duplicato con Pianoalto.

Massimo Viglietti

Chef ligure di stanza Roma, Massimo Viglietti ha una ben precisa e riconoscibile cifra stilistica. La sua è infatti una cucina anarchica (è lui stesso a definirla tale), a tratti estrema, che si fa apprezzare per gusto e personalità. E, per non smentirsi, al pubblico di Taste propone Pesce marinato, tapenade di olive e cioccolato bianco; Cozze e vongole in zimino, mousse di piccione, pera e consommè di vitello; Maccheroncino fresco, robiola, spinacino e caviale e Gambero suzette. Anche per lui, domanda di rito: quali sono i tre indirizzi del cuore? “Da Achilli al Dom, L'Osteria di Birra del Borgo eLiberal, il mio bar sotto casa, dove mi rilasso con il mio moscow mule di fine giornata”.

 

Taste of Roma 2018 | Roma | via Pietro de Coubertin, 30 | dal 20 al 23 settembre | tasteofroma.it

 

a cura di Annalisa Zordan

 

I ristoranti presenti a Taste of Roma 2018

  1. Imàgo all’Hassler

  2. Tordomatto

  3. La Pergola – Hotel Rome Cavalieri

  4. Glass Hostaria

  5. Metamorfosi

  6. La Terrazza Hotel Eden

  7. All’oro

  8. Barrique

  9. Mirabelle Hotel Splendide Royal

  10. Magnolia

  11. Acquolina

  12. Bistrot 64

  13. Finger’s

  14. Il Convivio Troiani

  15. Per Me

  16. Ristorante il Tino

  17. Achilli Enoteca Al Parlamento

  18. Maestri in Cucina Ferrarelle

 

Gli indirizzi consigliati

Pizzarium – Roma - via della Meloria, 43 - 06 3974 5416 - bonci.it

Retrobottega – Roma - via della Stelletta, 4 – 0668136310 – retro-bottega.com

Doozo – Roma - via Palermo, 51 - 06 481 5655 - doozo.it

Ristorante La Baia - Fregene (RM) - via Silvi Marina, 1 - 06 6656 1647 - labaiadifregene.it

Da Robertino – Roma - via Panisperna, 231 - 06 474 0620

Il Sorpasso – Roma - via Properzio, 31/33 - 06 8902 4554 - sorpasso.info

Da Luigino – Torre Lupara (RM) - via Nomentana, 728 - ristorantedaluigino.it

Chinappi – Roma - via Augusto Valenziani, 19 - 06 481 9005 – chinappi.it

Sushisen – Roma - via Giuseppe Giulietti, 21A - 06 575 6945 - sushisen.it

Pianostrada – Roma - via delle Zoccolette, 22 - 06 8957 2296

Achilli al Dom – Roma - via Giulia, 131 - 333 217 9279 – achilli.restaurant

L'Osteria di Birra del Borgo – Roma - via Silla, 26a - 06 8376 2316 – osteria.birradelborgo.it

Liberal – Roma – indirizzo non pervenuto

 

Bread for Change al Salone del Gusto. I Panificatori Agricoli Urbani a Torino per discutere della nuova era del pane

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Arrivano da tutta Italia, condividono la passione per un mestiere artigiano, quello del panificatore, che sta riscoprendo il suo legame con la terra e si propone di stimolare il cambiamento coinvolgendo tutti gli attori della filiera. Si incontrano al Salone del gusto di Torino, e invitano tutti ad ascoltarli. 

 

Bread for Change. Chi sono i Panificatori Agricoli Urbani

Il mondo del pane cambia. Il pane cambia il mondo. Slogan ambizioso per la tavola rotonda che riunirà un nutrito gruppo di panificatori italiani della “nuova era” (per capire di cosa parliamo, ecco un estratto dell'articolo di copertina del nostro mensile di settembre) in occasione del Salone del Gusto di Torino.

Del resto il desiderio di confrontarsi sugli obiettivi e le priorità della panificazione moderna è genuino e condiviso dagli artigiani del pane che si riconoscono nel ruolo di Panificatori Agricoli Urbani, un'etichetta che sottolinea la necessità di far fronte comune per comunicare il legame imprescindibile tra il lavoro agricolo e il mestiere artigiano. La paternità appartiene a Davide Longoni, il “collettivo” che si ritroverà al Lingotto ha fatto propria questa istanza: “Lavorando in città abbiamo la possibilità di dare visibilità a quella parte della filiera agricola di cui poco si parla. Dobbiamo sfruttare il fermento culturale che si sta concretizzando intorno al settore della panificazione per incentivare tutta le filiera a lavorare bene, con consapevolezza, in modo etico e sostenibile”. A parlare è Pasquale Polito, in rappresentanza del team del Forno Brisa di Bologna, che sulla mappa della panificazione new wave occupa un posto importante.

 

I miscugli evolutivi. Il terroir del pane

I ragazzi, insieme alla squadra del Panificio Moderno di Trento e allo stesso Davide Longoni, sono tra i promotori dell'incontro torinese, ribattezzato Bread for Change e aperto anche al pubblico del Salone, oltre che ai professionisti del settore, chiamati a portare il proprio contributo: “Per la terza volta ci ritroviamo a Torino per fornire il nostro pane alla mensa dei delegati di Terra Madre (una tonnellata di pagnotte da grani abruzzesi macinati a pietra in degustazione anche presso i Laboratori del Gusto  e l'Osteria dell'Allenza, dal 20 al 24 settembre, ndr) e stimolare il dibattito sul pane di filiera” continua Pasquale “Quest'anno il focus dell'incontro riguarderà i miscugli evolutivi, con la collaborazione del professor Salvatore Ceccarelli, che per primo ha teorizzato la tecnica di coltivazione del miscuglio dinamico, sperimentata per la prima volta in Siria”. Dunque una tematica perfettamente in linea con i valori che il movimento dei Panificatori Agricoli Urbani si prefigge di promuovere: la qualità del pane nasce in campo, e la biodiversità è una risorsa da tutelare. A moderare l'incontro - “una lezione non tecnica, ma divulgativa” sottolinea Pasquale “con l'obiettivo di spiegare un concetto essenziale per il futuro della filiera: i semi si adattano ai luoghi e alle condizioni pedoclimatiche del territorio, non dobbiamo maltrattare i terreni per seminare forzosamente una determinata varietà. E il miscuglio, in questo senso, supera i limiti delle vecchie varietà di frumento, assecondando il naturale processo di adattamento dei semi a uno specifico territorio di cui saranno l'espressione più autentica sul lungo periodo. Potremmo parlare allora di terroir del pane” -  ci sarà Laura Lazzaroni, giornalista, esperta di panificazione italiana e internazionale e autrice del volume Altri grani. Altri pani.

La tavola rotonda

Poi, sarà la volta della tavola rotonda: “Un modo per supplire alla mancanza di un vero e proprio momento di incontro per i professionisti del settore. Esistono diverse fiere per discutere di tecniche e alimentare la competizione tra addetti ai lavori, ma la nostra sfida è quella di stimolare nuovi approcci al dibattito, rivoluzionare le schede tecniche del pane fornendo parametri qualitativi finora trascurati, coinvolgendo non solo i panificatori, ma anche agricoltori e molitori”. Perché ora sia il momento giusto per farlo, Pasquale lo spiega senza esitazioni: “Chi fa avanguardia dev'essere capace di condividerla con gli altri, indicare delle linee guida comuni per sistematizzare l'innovazione. Non vogliamo produrre un disciplinare, ma indicare la via, in collaborazione con le università e tutti gli attori della filiera. E chissà che anche l'industria, in futuro, non possa prendere esempio da questo movimento per migliorarsi. La storia del progresso ha sempre funzionato così”. Parteciperanno all'incontro Gabriele Bonci, Adriano Del Mastro, Daniele Ciabattoni, Aurora Zancanaro, Andrea Perino, Giovanni Cerrano, Davide Longoni, Matteo Piffer, Forno Brisa. Ognuno prenderà la parola per quattro minuti, ognuno solleverà un tema di discussione a partire da un oggetto o una parola chiave che lo identifica: “Condivideremo il nostro punto di vista per capire che ruolo può avere il pane come bene agricolo e artigianale nell'influenzare il cambiamento globale. Con l'impegno a stilare un manifesto e incontrarci periodicamente per registrare i progressi e l'auspicio di coinvolgere un numero sempre maggiore di professionisti. Più siamo e meglio è”. L'appuntamento per chi vorrà partecipare alla tavola rotonda ed essere parte del cambiamento è per sabato 22 settembre, dalle 18, in Sala Pt1.

 

Bread for Change – Torino – Salone del Gusto, Lingotto Fiere, Sala Pt1 – il 22 settembre alle 18 – www.salonedelgusto.com

 

a cura di Livia Montagnoli

Classifica dei migliori rigatoni italiani dei pastifici artigianali

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Blind test dedicato a uno dei formati di pasta più amati, protagonista dei primi piatti della tradizione romana e di condimenti importanti, da ragù di carne e misto “scoglio”. Abbiamo messo a confronto, a prova di fuoco e di dente, i rigatoni dei più famosi pastifici artigianali italiani. Nel mensile di settembre del Gambero Rosso trovate la top 16. Qui i rigatoni arrivati sul podio.

 

Chi ricorda lo spot pubblicitario Barilla degli anni Ottanta firmato da Fellini? Ristorante elegante, musica di sottofondo di Nino Rota (dal film La dolce vita, ovviamente), coppia raffinata che tuba a distanza, sorrisini e ammiccamenti, maître con codazzo di camerieri in livrea che srotola un lungo elenco di piatti francesi très chic. Infine la scelta della signora, fuori da ogni programma. Rigatoni!

Cosa vuol dire rigatoni artigianali

A questo formato tra i più identitari del mangiarbene italiano, celebrato dalla cucina del centro-sud (dove è nato) e protagonista dei primi tradizionali romani, è dedicata la classifica mensile. Abbiamo messo a confronto i rigatoni di virtuosi pastifici artigianali italiani. Cosa vuol dire artigianale nel caso della pasta di semola di grano duro? Vuol dire lavorazione lenta, estrusione attraverso trafile in bronzo ed essiccazione a bassa temperatura, dai 38 ai 55 gradi, in tempi lunghi, dalle 24 alle 72 ore secondo il formato, un metodo soft che consente di non stressare la semola, rispettarne le caratteristiche organolettiche e nutrizionali, soprattutto di non danneggiare la lisina, un importante amminoacido essenziale, responsabile oltretutto della digeribilità della pasta.

Rigatoni

Ci siamo attenuti strettamente a quanto dichiarato in etichetta, Rigatoni, anche se in molti casi dentro la scatola o la busta non c’è il più grande e grosso dei maccheroni tubolaridopo il pacchero, bensì sedani, tortiglioni o maniche (nelle schede indichiamo forma e dimensione per dare un’idea del reale formato). L’aspetto è quello della pasta artigianale: vibrante, dorata, opaca e ruvida, piacevole al tatto come seta grezza e scrub naturale. Domina la Campania (la maggior parte delle aziende in lizza), quasi tutti di Gragnano, cittadina nell’hinterland di Napoli che nel 2013 ha ricevuto l’Igp per la sua pasta. Seguono la Puglia, l’Abruzzo, le Marche e la Sicilia, terra di grani duri antichi di eccellente qualità in via di recupero e riscoperta. Già, il grano, recentemente oggetto di dibattiti e polemiche per la presenza, reale o presunta, di tracce di micotossine, glifosate e altri fitofarmaci nel grano duro estero. Al punto che note industrie italiane di pasta – anche per motivi di marketing – hanno deciso di ridurre le importazioni della materia prima straniera a favore di quella nazionale. Tranne uno, tutti i rigatoni in lizza sono fatti con grani coltivati e moliti in Italia: è la dimostrazione che molti piccoli pastifici artigianali del Bel Paese scommettono sul grano duro nostrum, con tanto di dichiarazione in bella evidenza sull’etichetta.

Rigatoni

La degustazione alla cieca

I campioni sono stati sottoposti a un blind test, una degustazione cieca condotta da un panel specializzato, che ha analizzato l’aspetto visivo, olfattivo, gustativo e tattile della pasta: il profilo aromatico, la tenacità e la tenuta alla cottura, l’integrità del formato (dentro la confezione e una volta cotto), l’omogeneità della struttura tra dentro e fuori (senza l’“animella” biancastra all’interno e il velodi amido esterno), la fedeltà tra il tempo di cottura indicato in etichetta e quello impiegato nelle cucine della Città del Gusto di Roma. Per evitare che si rompessero (talvolta succede ai formati giganti), prima di buttarli in pentola i rigatoni sono stati ammollati alcuni secondi in acqua fredda. Un piccolo accorgimento che vi consigliamo di seguire.

Al panel di degustazione hanno partecipato: Angelo De Bianchi (chef di Gambero Rosso Academy), Sandro Masci (chef, esperto e docente di analisi sensoriale), Antonio Menconi (esperto di analisi sensoriale di pane e olio), Mara Nocilla (giornalista del Gambero Rosso) ed Elvan Uysal (giornalista di enogastronomia).

1 ex aequo - Consorzio Terre di Biccari (Rigatoni)

Rigatoni

Il rigatore Numbero Uno, da poco in vendita nel settore di nicchia, è figlio di un bel progetto di filiera. Il consorzio foggiano, nato nel 2017, coltiva il grano (varietà Quadrato, Pietrafitta, Vendetta e Torrebianca) secondo un rigido disciplinare per garantire una materia prima priva di micotossine e agrofarmaci. Il molino Dibenedetto di Altamura lo trasforma in semola, a freddo e in piccole quantità per volta. L’azienda agricola e pastificio Antonio Caccese di Ariano Irpino produce i maccheroni con trafilatura al bronzo e lenta essiccazione a temperature che non superano mai i 45°. Un rigatone vero, grande, solido e materno, dalla pelle abbronzata e molto ruvida al tatto, perfetto nell’artigianalità, con una calda dolcezza lattica e una soave persistenza. Il profumo gentile e vivido, con richiami floreali e vegetali di campo di grano e semola, esprime gioia di vivere. Spaziale la tenuta alla cottura, con la texture tenace e perfettamente omogenea che conserva ancora la sua ruvidità. Tempo di cottura: meno degli 11 minuti indicati, assaggiateli a 9’ e regolatevi.

500 g prezzo 2,90/4 euro

Consorzio Terre di Biccari Biccari (FG) - via Giardino, 128 - 3391174470 – 3284118555 – terredibiccari.it

 

1 ex aequo - Pastificio dei Campi (Rigatoni Pasta di Gragnano Igp)

Rigatoni

Packaging sofisticato – un cubo finestrato di cartoncino rosso e nero con i ritratti dei protagonisti della filiera, dal contadino Mario al pacchettista Aniello – per la linea top Di Martino, fatta con grano duro 100% italiano tracciato, trafilata al bronzo ed essiccata a 52°. Il grano duro (varietà principali Saragolla, Pietrafitta, Grecale e Kore) è coltivato nel Subappennino dauno e macinato dal Molino De Vita. I rigatoni di questa selezione premium sono degli accattivanti tuboni simili a candele rigate tagliate, con la pelle dorata, opaca e piacevolmente ruvida, perfetti e omogenei tra loro ma senza nulla togliere alla natura artigianale, caratteristiche visive che mantengono anche in cottura. I profumi e gli aromi intensi dopo la cottura, richiamano la dolcezza del mondo vegetale, il campo di grano, il fieno e ricordi di noce. Sapore molto delicato. Struttura tenace in grado di catturare la salsa. Tempi i cottura: 11 minuti contro i 12 consigliati.

500 g prezzo 4/7 euro

Pastificio dei Campi - Gragnano (NA) - via dei Campi, 50 – 0818018430 – pastificiodeicampi.it

 

2 - La Fabbrica della Pasta di Gragnano (‘e Rigatoni Pasta di Gragnano Igp)

Rigatoni

Un rigatone esagerato, un corazziere campione di bodybuilding, leggermente piegato a corno (siamo in Campania!). Ma non sono la forma e la pezzatura ipertrofica a fargli conquistare il secondo posto. Dietro ci sono l’esperienza della famiglia Moccia, pastai gragnanesi da tre generazioni, il grano italiano, una lavorazione artigianale e curata (trafile in bronzo, essiccazione lenta intorno ai 40°). Colore dorato chiaro e luminoso, superficie opaca e ruvida (anche all’interno), emana profumi gioiosi e pervasivi di semola fresca, mulino e pane appena sfornato. Un rigatone antidepressivo! La cottura mantiene abbastanza il colore e la forma, mentre fa quasi a raddoppiare la dimensione, senza però far perdere al rigatone nerbo e integrità. Magnifica cartella (spessore), omogenea, tosta e corposa. Sapore dolce, caldo e pieno, all’altezza del profilo aromatico, grande persistenza. Un rigatone talmente buono e profumato da non aver bisogno neanche del condimento, e che nobilita qualsiasi salsa o compagno di viaggio. Precisi i tempi di cottura indicati: 12 minuti.

500 g prezzo 2,50/3,30 euro

La Fabbrica della Pasta di Gragnano - Gragnano (NA) - viale San Francesco, 30 – 0818011487 – lafabbricadellapasta.it

 

3 ex aequo – Faella (Rigatoni Pasta di Gragnano Igp)

Rigatoni

Faella è una certezza. Il packaging, la classica busta di carta porcellanata con i colori delle antiche confezioni di pasta di Gragnano (bianco, rosso e blu) e la scritta anni ’30 che richiama il logo della Fiat dello stesso periodo. Oltre 110 anni di ininterrotta attività. Semole di grano duro italiano. Lavorazione artigianale con trafilatura al bronzo ed essiccazione a temperature sotto i 48°. Infine, la qualità del prodotto, come dimostra la posizione in classifica del suo rigatone corto e cicciottello (quasi un mezzo rigatone), forse poco conforme al formato ma molto accattivante: pelle ambrata calda e solare, al tatto ruvida e materica, al naso intense note di grano e fieno, miele e noce con echi tostati. La cottura mantiene l’integrità della forma e sufficientemente la dimensione, il colore e la ruvidità. Al palato è forte e gentile: sapore dolce e materno, quasi lattico, ritorno dei profumi inebrianti avvertiti al naso, buon dente, struttura omogenea, bella persistenza. Tempi di cottura indicati 13-15 minuti, ma voi assaggiate la pasta dopo 11’ e regolatevi.

500 g prezzo 2,50/3 euro

Faella - Gragnano (NA) - piazza G. Marconi, 13/14 - 0818012985 - pastificiofaella.com

 

3 ex aequo – Marella (Rigatoni)

Rigatoni

Grano 100% italiano, lavorazione artigianale, trafilatura al bronzo (con basso contenuto d’acqua), essiccazione lentissima a 37-38°, l’esperienza pastaia di Antonio Marella. Grazie a questi fondamentali il pastificio di Gioia del Colle si aggiudica un terzo posto con un rigatone mignon, un mezzo cannerozzo della tradizione pugliese (il vero rigatone aziendale è in realtà il maccherone). Chiaro, superficie matt e ruvida dentro e fuori, confezionato in spartane buste di cellophane, è prodotto con un mix di grani duri (Svevo, Cappelli, Quadrato e Duro Lucano) coltivati in Puglia e Lucania e macinati nel molino Ca.Me.Ma. di Altamura. I profumi, molto delicati prima di toccare la pentola, sbocciano in cottura dolci, freschi e gioiosi di pane, semola e mulino e si uniscono a un gusto pieno e pulito. Mantengono sufficientemente forma, dimensione, colore e ruvidità una volta scolata la pasta. Texture tenace e omogenea, buona persistenza. Tempo di cottura dichiarato 10 minuti, ma i rigatoni possono essere pronti dopo 9 minuti. In vendita (anche) nella Catena Carrefour Gourmet.

500 g prezzo 2,90/4,20 euro

Marella - Gioia del Colle (BA) - s.da prov.le Putignano, km 0,300 – 0803434511 – pastamarella.it

 

a cura di Mara Nocilla

foto di Fabrizio Perilli

 

QUESTO È NULLA...

Nel numero di settembre del Gambero Rosso, un'edizione rinnovata in questi giorni in edicola, trovate la classifica completa con gli altri 11 rigatoni. Non solo, il servizio include anche 11 primi e un dessert d'autore e un focus sui quei formati che spesso vengono confusi con i riatoni.

 

Il numero lo potete trovare in edicola o in versione digitale, su App Store o Play Store

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Pantelleria DOC Festival report. Alla scoperta del territorio e dei suoi vini

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Un'isola vulcanica sospesa tra la Sicilia e l'Africa, battuta dal vento e seccata dal sole. Ma capace di vini straordinari. È Pantelleria.

 

Basalti neri come una notte senza stelle, rocce color del fuoco, ossidiane e tufi verdi, ricordi lontani d’antiche eruzioni vulcaniche, colorano questa goccia di lava persa nel blu cobalto del mare. Il cielo è animato dalla violenza del vento che soffia senza sosta nel cuore del Mediterraneo, come un respiro ribelle, libero e profondo. Gli arbusti selvatici, piegati dalla forza del Maestrale e dello Scirocco, stanno silenziosamente riparati tra i massi. Neppure gli ulivi osano lasciare la terra e crescono bassi, quasi sdraiati come cespugli contorti. Le piante di cappero strisciano come serpi dalle foglie carnose tra le rocce scure, con il loro generoso carico di preziosi fiori. Quella di Bent el Riah, “la figlia del vento” come la chiamavano gli Arabi, è una natura ruvida e selvaggia, bruciata da un arido sole.

 

Le vigne di Pantelleria

In un ambiente estremo, senza sorgenti d’acqua, che si deve accontentare del dono mattutino della rugiada o di rare piogge, solo una pianta ostinata come la vite poteva sopravvivere. Gli aspri rilievi rocciosi dell’isola sono tagliati orizzontalmente da ordinate linee di muretti a secco. Pietre di lava sapientemente accostate, che sostengono i piccoli e arditi terrazzamenti, frutto di una viticoltura eroica e faticosa. Un geometrico paesaggio vitato, creato nel corso dei millenni dai contadini panteschi, così ben integrato nel contesto ambientale da costituire un esempio di perfetta simbiosi tra uomo e natura. La fitta trama delle ordinate pietre dei terrazzamenti è punteggiata qua e là dai cubi di lava dal tetto bianco dei dammusi, le caratteristiche abitazioni di Pantelleria e dagli alti muri circolari dei giardini panteschi, antichi e ombreggiati custodi dei pochi alberi d’agrumi. Un territorio da esplorare e scoprire assaporando tutti i colori, i profumi e i sapori di una storia millenaria. Pantelleria è da sempre il crocevia del Mare Nostrum, sospesa tra la Sicilia e l’Africa, è il naturale porto d’approdo per chi naviga sulle rotte da oriente a occidente o da sud a nord. Antica terra del popolo dei Sesi, dei Fenici, dei Romani, dei Bizantini e poi degli Arabi, che hanno lasciato la testimonianza della loro lunga presenza con i nomi di molte contrade: Bukkuram, Khamma, Rekhale, Gadir, Kattibuale e altre.

L’uva zibibbo e l’alberello di Pantelleria

L’uva zibibbo, o moscato d’Alessandria, è presente da secoli sull’isola e viene coltivata ad alberello, secondo un’antichissima consuetudine diffusa in tutte le aree calde e siccitose del Mediterraneo. La vite è piantata senza tutori e allevata come un minuscolo albero. Le piante sono messe a dimora in piccole conche, che riparano dal vento e consentono di raccogliere e convogliare verso le radici la poca umidità della notte. Una forma di coltivazione trasmessa di generazione in generazione dai contadini panteschi, che ha consentito la sopravvivenza della viticoltura in queste difficili condizioni. La Pratica agricola della coltivazione della vite ad alberello di Pantelleria è stata la prima tradizione rurale al mondo a essere riconosciuta Patrimonio dell’Umanità dall’Unesco nel 2014. L’alberello pantesco rappresenta un elemento identitario della cultura agricola e della storia dell’isola. Una consuetudine che è diventata il simbolo del profondo legame tra il lavoro dell’uomo e la natura. Il riconoscimento Unesco è un importante punto di partenza per valorizzare sia l’isola nel suo complesso, che i vini di Pantelleria. L’istituzione nel 2016 del Parco nazionale dell’Isola di Pantelleria potrà portare a una maggiore valorizzazione del patrimonio paesaggistico e ambientale e all’incremento di un turismo di qualità, alla ricerca di una vacanza a contatto con la natura, con importanti testimonianze storico-archeologiche e la ricchezza enogastronomica pantesca.

 

I vini di Pantelleria

La prima edizione del Pantelleria DOC Festival, che dal 31 agosto al 9 settembre ha visto l’isola animarsi di molte iniziative, è stata promossa dal Consorzio dei Vini Doc di Pantelleria e dal Consorzio turistico Pantelleria Island, con il patrocinio del Comune e del Parco nazionale isola di Pantelleria. L’evento ha offerto l’occasione per fare il punto sulla produzione dei vini e per riflettere sulle prospettive future del territorio.

Oggi a Pantelleria operano 445 viticoltori, di cui 370 associati al Consorzio. La superficie totale vitata è di 417 ettari, con una resa media per ettaro che non arriva a 45 quintali. In passato le vigne coprivano una superficie molto più ampia, progressivamente abbandonata per l’arrivo sui mercati di varietà di uva da tavola più produttive e per la scarsa remunerazione legata alla coltivazione di uve destinate alla produzione di vini. I dati del 2017 del Consorzio, che rappresentano circa 83% del totale dell’isola, ci danno la seguente fotografia: la tipologia Passito Liquoroso rappresenta il 62%, il Passito il 15%, il Moscato liquoroso il 13%, il Moscato il 4%, il Pantelleria bianco il 5%, il Pantelleria frizzante lo 0,5% e il Pantelleria spumante lo 0,5%. La fetta più grande di mercato, che coincide anche con le vendite nel canale GDO, è rappresentata dai liquorosi, la tipologia più economica di Passito, ma anche la meno nobile e quella che meno rispecchia l’eccellenza della grande tradizione pantesca. La percentuale dei bianchi fermi è piuttosto bassa, anche se la presenza di cantine che imbottigliano in Sicilia sotto altre denominazioni, rende il dato poco attendibile.

Prospettive per il futuro

Nelle giornate del Festival Pantelleria DOC si è parlato molto della valorizzazione di Pantelleria come territorio, esaltando la sua unicità e la sua bellezza, che nel campo vitivinicolo si esprimono attraverso la coltivazione della vite ad alberello, Patrimonio dell’Unesco, i suoli vulcanici e le vigne terrazzate. Elementi di grande impatto paesaggistico e di enorme valore storico e culturale, che dovrebbero costituire i pilastri su cui fondare la tipicità dei vini dell’isola. Il consumo dei vini dolci è in calo ovunque e la produzione del Passito di Pantelleria sarà inevitabilmente destinata a rappresentare una piccola nicchia di mercato. Considerando la storia di questo vino e il livello di qualità che esprime, sarebbe opportuno cercare di ottenere la DOCG per questa tipologia.

Seguendo l’esempio di Denominazioni di territori simili, ad esempio Lipari o l’isola greca di Santorini, si potrebbe cercare di orientare maggiormente la produzione verso vini bianchi secchi, cambiando un po’ l’immagine e la percezione di Pantelleria, oggi troppo legata solo al Passito. Santorini, patria del Vinsanto, è un’isola vulcanica per molti versi paragonabile a Pantelleria. Ha un clima siccitoso, un vitigno simbolo come l’assyrtiko ed è costantemente battuta dalle raffiche violente del Meltemi, che costringe addirittura a coltivare la vite a terra, con una sorta di “canestro” naturale. Se in passato la fama dell’isola greca era legata al celebre Vinsanto, nel corso degli ultimi decenni la produzione dei vini bianchi secchi ha preso il sopravvento. Basta assaggiare le etichette del Domaine Sigalas o di Hatzidakis per scoprire bianchi di qualità assoluta. A Pantelleria non manca nulla per percorrere con decisione questa strada.

Peccato che a fronte del desiderio generale di voler valorizzare Pantelleria, il suo nome e la sua storia, i principali produttori di vini bianchi secchi a base di zibibbo commercializzino le loro etichette con le denominazioni Sicilia DOC o Terre Siciliane IGT, senza nessun riferimento all’isola. Una vera contraddizione. Se si vuole veramente promuovere Pantelleria, occorre legare in modo chiaro e univoco un vino e un vitigno a un territorio e alla pratica agricola dell’alberello pantesco. Per creare una riconoscibilità certa e un valore per l’isola, bisogna utilizzare il nome di Pantelleria in etichetta. È inoltre necessario comunicare e far conoscere le particolarità della cultura pantesca, l’utilizzo di una pratica agricola riconosciuta Patrimonio dell’Umanità dall’Uneesco e il carattere vulcanico del terroir, argomento di grande interesse e attualità.

I migliori assaggi

Le giornate del Pantelleria DOC Festival sono state l’occasione per visitare le principali cantine dell’isola, incontrare i produttori e assaggiare i loro vini. Il Passito di Pantelleria DOC si è confermato il vino di punta del territorio. Il livello complessivo è molto buono, con etichette di vera eccellenza. Meno convincente il Passito Liquoroso, che può vantare un notevole successo commerciale per via del basso prezzo, ma che rischia di creare una percezione distorta del Passito nel consumatore meno attento. Tra i bianchi secchi ci sono bottiglie molto interessanti. Tuttavia se l’obiettivo futuro sarà puntare su questa tipologia, è necessario fare un ulteriore salto di qualità.

Tra i pochi spumanti elaborati con uva zibibbo in purezza, segnaliamo il Metodo Classico Matuè '14 di Salvatore Murana. Affinato per 36 mesi sui lieviti, esprime profumi di zagara, note agrumate e iodate. Il sorso è fresco e salato, con un finale vibrante, su note piacevolmente citrine. Ci sono piaciuti molto anche i vini bianchi di Salvatore Murana. Il Pantelleria Bianco Praia '16 nasce nella zona di Praia, Ghirlanda e Coste, la più fresca dell’isola. Esprime aromi d’agrumi, sentori di erbe della macchia mediterranea, sensazioni sapide e di pietra focaia, su un sottofondo aromatico, delicato e armonioso. Il Pantelleria Bianco Gadì '14 proviene dalle vigne coltivate a Gadir. Regala aromi di fiori bianchi, erbe officinali, un centro bocca dal frutto maturo e aromatico, che si allunga verso un finale sapido e minerale.

La cantina di Marsala Marco De Bartoli, dal 1984 produce vini a Pantelleria nella Tenuta Bukkuram. L'Integer '16 è realizzato utilizzando fermentazioni spontanee e lieviti indigeni, con macerazione sulle bucce, parte in botti usate e parte in anfora. Il vino si affina per 10 mesi in fusti di rovere francese e viene imbottigliato senza chiarifica e filtrazione. Un calice che regala densi aromi di frutta gialla matura, note di mandarino, un sorso salato di vibrante freschezza e un finale caratterizzato da una piacevole sensazione tannica. Più tradizionale ilPietranera '15, che è prodotto con le uve provenienti dalle zone più fresche delle contrade Cufurà e Ghirlanda. Un vino dal profilo snello e di buona tensione acida, in cui le note sapide, agrumate e minerali, prevalgono sulle morbidezze aromatiche dello zibibbo.

La Tenuta Coste di Ghirlanda coltiva le sue vigne nella splendida Piana di Ghirlanda, situata nella zona centrale dell’isola. Il Silenzio '14 è uno zibibbo intenso ed elegante, con aromi di erbe selvatiche della macchia mediterranea, cenni balsamici e freschi aromi agrumati, che si distendono al palato in modo armonioso e persistente, con un frutto maturo e un finale dalle gradevoli sensazioni saline.

Tra i passiti, una conferma la qualità del Passito di Pantelleria Bukkuram Padre della Vigna '12 di Marco De Bartoli. Complesso e avvolgente, ricorda gli aromi dell’uva passa, di datteri, fichi secchi, scorza d’agrumi candita, sentori erbe officinali e freschi ricordi balsamici. Altra grande bottiglia il Passito di Pantelleria Mueggen '11 di Salvatore Murana, che esprime aromi di uva sultanina, uniti alla freschezza dell’agrume candito, delle erbe aromatiche della macchia mediterranea e chiude con un finale leggermente amaricante. Il Passito di Pantelleria Ben Rye di Donnafugata non ha bisogno di molte presentazioni è ormai da anni tra i vini dolci italiani più premiati. L’annata 2010 si presenta con aromi maturi, profondi e complessi, con note di uva passa, frutta secca, albicocca disidratata, morbide spezie e miele d’agrumi. La Cantina Basile produce il Passito di Pantelleria Shamira con le uve provenienti dalle Contrade Scirafi e Sateria. L’annata 2012 regala armoniosi aromi di uva sultanina, arancia amara, scorza d’agrumi, miele di castagno e mallo di noce. Chiudiamo con due espressioni molto classiche del Passito di Pantelleria, quasi didattiche nel loro modo d’interpretare quest’eccellenza dell’isola: il Passito di Pantelleria Nes '16 delle Cantine Pellegrino e il Passito di Pantelleria Arbaria '15 di Vinisola.

 

a cura di Alessio Turazza

 

Ritorno alla Terra. Ode alla cucina naturale a La Madernassa, con un gruppo di giovani chef

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Al Resort La Madernassa la prima edizione di M@D 100%Natura, Into the Wild- Eat Local. Ospiti nella cucina di Michelangelo Mammoliti, Martino Ruggieri, Franco Aliberti e Galileo Reposo. Ecco com’è andata la cena. 

 

C’era anche Martino Ruggieri, il candidato dell’Italia al Bocuse d’Or, alla cena a più mani organizzata alla Madernassa, il resort di Fabrizio e Luciana Ventura, nel cuore della Langhe. L’idea è di Michelangelo Mammoliti, lo chef del ristorante, ed è l’espressione di una filosofia di cucina profondamente legata alla natura che ha dato vita alla prima edizione di M@D100%Natura, Into the Wild Eat Local. Ovvero, in idioma nazionale, una scelta al 100% dalla parte della natura selvaggia e dei prodotti locali. Una sorta di sfida, un desiderio di tornare all’essenziale: prodotti dell’orto, piccoli produttori.

Gli chef

A mettersi in gioco – insieme ad alcuni produttori del territorio - quattro chef accomunati dall’età – sono tutti fra i 30/40 anni –e da un desiderio di ritorno alla terra, anche con proposte audaci sul piano del gusto e delle consistenze.

Così sono arrivati qui Franco Aliberti, un curriculum che spazia da Ducasse a Marchesi a Bottura fino all’attuale Le Présef, ristorante dell’Azienda Agricola La Fiorida in Valtellina, a Mantello. Poi Galileo Reposo, 40 anni giusti giusti, pasticcere per passione da sempre, che ha lavorato con Leeman, al Luogo di Aimo e Nadia, alla Trattoria Toscana di Ducasse e ora è capo pasticcere al Peck di Milano. In gran forma e “carico” Martino Ruggieri, classe 1986, che ha fatto un breve blitz a Parigi da Alléno a luglio (com’è noto è chef adjoint al Pavillon Ledoyen) ma ora continua i suoi allenamenti in quel di Alba, all’Accademia del Bocuse d’Or Italia, con Crippa e Luciano Tona (anche lui ospite della serata, e molto ottimista rispetto al pupillo Ruggieri e alla sua determinazione).

Ci sono Marchesi, Ducasse, Pierre Gagnaire e Alléno anche nel background di Mammoliti, giovane chef (è nato nel 1985) considerato una rivelazione (ed entrato ufficialmente e recentemente nel team di Ruggieri per il Bocuse).

Il risotto di Franco Aliberti

I piatti, i vini

Che dopo un po’ di canapé e una interessante barbabietola “al plurale” (con succo di barbabietola in aggiunta) ha esordito con l’antipasto Karma al peperone, ortaggio decisamente local per la zona. Audace il risotto integrale (riso della Riserva San Massimo, oasi di biodiversità nel parco del Ticino) con le animelle, che Franco Alberti ha mantecato con crema di cipolle, e trota di Chiusa Pesio, nel Cuneese, con crema di regina dei prati per il piatto di pesce firmato Mammoliti, mentre Ruggieri si è cimentato con il classico dei classici, croce e delizia degli chef francesi, il piccione. Declinato in piccione con fichi, piccioncino, ovvero coscetta fritta da tuffare nel cioccolato e piccionissimo, pelle di piccione al cioccolato bianco, sorprendente.

La trota di Michelangelo Mammoliti

Una sorta di pre-dessert, preludio al dessert tutto vegetale di Galileo Reposo, con carote e granita di macis, assai creativo. Il coraggio, la novità, la natura sono stati il filo conduttore di tutta la serata. Anche per quanto riguarda il “contorno” dei piatti. I vini, per cominciare, presentati con passione dai sommelier della Madernassa Fabrizio Ventura e Alessandro Tupputi.

Dopo un sorprendente Alta Langa rosè di Paolo Berruti, quelli di Ghiomo (nome che arriva da un attrezzo per fare le botti) con il ruvido Giuseppino Anfossi che si autodefinisce “contadino a Guarene” e fa vino secondo la tradizione, ogni annata “è una storia diversa e non la scriviamo noi ma la natura” con un Arneis dal nome programmatico di In primis. Poi il Barbaresco dell’azienda Punset di Neive di Marina Marcarino, che dal 1987 ha convertito tutta la produzione in bio e crea l’unico Barbaresco ecologico certificato, e per finire il Moscato Passito di Loazzolo, la più piccola doc d’Italia, della cantina dell’Oasi del Forteto della Luja.

In sintonia anche il caffè, Ibo wild alla Napoletana (nel senso di caffettiera) della Torrefazione San Domenico di Roberto Messineo.

 

Insomma un appuntamento di gusto che è soprattutto un ritorno programmatico alle origini e alla terra. Un bell'inizio per un evento che promette di riservare ogni anno sorprese. Come ha detto Mammoliti: “È arrivato il momento di provare a far comprendere come la terra sia capace di offrirci tutto ciò di cui una buona cucina ha bisogno”. Nel futuro della cucina under 40 insomma c’è un viaggio “into the wild”.

 

La Madernassa- Ristorante & Resort, Località Lora 2 Guarene (CN) - 0173/611716 -335 1430810 – www.lamadernassa.it- (camere di charme, 334 8299339)

 

a cura di Rosalba Graglia

foto di Dario Bragaglia

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