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L'assurdo post di Milena Gabanelli contro gli chef

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La famosa giornalista va a cena in un noto ristorante di Bologna, fa una foto a un piatto e la pubblica facendo superficialmente sarcasmo sul profilo Facebook della sua rubrica sul Corriere della Sera.  

 

Qualcuno potrebbe obiettare che trattasi di mera boutade agostana e come tale dovrebbe essere considerata, qualcun altro potrebbe segnalare che a dar corda alle polemiche - replicando seriosi come stiamo per fare - si rischia solo di fare il gioco di chi la polemica l'ha generata e cavalcata. Tuttavia questa volta abbiamo optato per dire la nostra sulla spiacevole faccenda del post Facebook di Milena Gabanelli contro gli chef. In primis perché abbiamo stima di Gabanelli e di tutti i giornalisti importanti come lei: siamo convinti che debbano comportarsi con la consapevolezza di essere spina dorsale civile ed esempio per il Paese e quindi quando dicono una sciocchezza riteniamo che sia il caso di rimarcarlo.

Un post assurdo

Ma insomma cos'è successo giusto al debutto della settimana di questo Ferragosto 2018? La giornalista Milena Gabanelli -  già a Rai Tre oggi al Corriere della Sera  -  è ospite in un ristorante gastronomico, il Marconi di chef Aurora Mazzucchelli in provincia di Bologna. Le arriva quello che lei crede essere l'antipasto, lo fotografa e lo pubblica su Facebook aggiungendo un commento sarcastico, alludendo alla scarsezza della porzione e riferendosi agli chef con un tono di scherzoso rimbrotto, come a chiedere consenso ai suoi fan. Fin qui poteva essere un contenuto leggero, buttato lì per divertirsi e vedere l'effetto che fa con lo stile che ti aspetteresti non da una figura di alta autorevolezza bensì dal peggior commentatore di TripAdvisor, ma la storia ha qualche dettaglio in più.

Il primo dettaglio è che la Gabanelli non è una giornalista qualsiasi. È considerata una delle più grandi e autorevoli giornaliste italiane. Ha un seguito notevole, le persone si fidano di lei, molti tendono a dare per oro colato ciò che dice, prima a Report, su Rai Tre, oggi nella sua nuova rubrica per il Corriere della Sera. Proprio per questo già sarebbe stato discutibile un post sarcastico, buttato lì senza minimamente pensare alle conseguenze, col rischio - poi verificatosi - di infangare tutta una categoria. E se si analizzano i commenti dei lettori, con le relative risposte di Gabanelli stessa, ci si accorge che di sarcastico non c'è poi granché. In un commento, sempre tra il serio e il faceto, Gabanelli arriva a definire "masochismo" il sedersi a un ristorante di alta cucina sorprendendosi del fatto che, nonostante i prezzi non contenuti, i tavoli siano tutti pieni di malcapitati avventori. Dunque, seppur su un registro ambiguo ai confini del lazzo, un vero attacco gratuito a una categoria e a una professione, oltre che a un complesso sistema economico.

Un piatto di Aurora Mazzucchelli (foto di Lido Vannucchi)

Un prevedibile sfogatoio contro gli chef

Milena Gabanelli sa perfettamente quale è il suo target di pubblico, conosce la sensibilità dei suoi follower, è escluso che non sappia quale impatto un contenuto populista come quello del post in questione possa avere sulla propria fan base. E infatti il post fa il suo lavoro: quasi 400 condivisioni e centinaia di commenti tutti in rapido aumento. In un attimo il contenuto si trasforma nello sfogatoio e nello sciocchezzaio digitale di tutti i luoghi comuni  e i pregiudizi possibili e immaginabili contro gli chef, contro la cucina di ricerca, contro i ristoranti gastronomici. Le migliaia di persone che seguono il profilo di Dataroom (questo il nome della rubrica di Gabanelli che piace a circa 130mila fan) hanno visto confermate, in qualche maniera validate, le loro superstizioni, le loro paure, i loro preconcetti rispetto alle tavole gourmet dove "si mangia poco e si spende troppo". Invece di fare il suo mestiere di smontatrice di fake news insomma (il ruolo per cui ha iniziato la collaborazione con il Corriere della Sera), Gabanelli si è trasformata in questo specifico caso in autrice di autentiche falsità date in pasto al pubblico felicissimo di sbranare la preda di turno come usa sempre di più sui social. 

 

Dataroom del Corriere ora parli di gastronomia

È infatti una fake news che gli chef facciano mangiare poco i loro clienti facendoli spendere troppo, è una fake news che sedersi ai ristoranti di alto livello sia una tortura, è una fake news che assaggiando un piatto di una grande chef come Aurora Mazzucchelli non si riesca a sentire il sapore a causa della scarsa quantità di cibo. E il fatto che si tratti di fake news è dimostrato dalle circostanze: Gabanelli non dà nessun elemento, non sappiamo se il piatto è il primo di una lunga serie di piatti, non sappiamo quanto lungo sarà il menu degustazione (altro che uscire affamati), non sappiamo ovviamente neppure dove si trovi la giornalista. Tutto vago, tutto difficile da misurare per chi legge, tutto perfetto invece per gettare fango nel ventilatore contro tutta un'intera categoria: "Ma questi chef!?" chiosa nel post la Gabanelli facendoci venire voglia di replicare "Ma questi giornalisti!?". E se, visto il ruolo pubblico del personaggio (candidata alla Presidenza della Repubblica per il M5S nel 2013), sarebbe stato piuttosto assurdo uscirsene così anche solo su un profilo privato, diventa davvero paradossale il fatto che tutto ciò sia avvenuto proprio sul profilo di Dataroom, la rubrica di Rcs nata esattamente per smontare le notizie false utilizzando la freddezza dei numeri. 

Utilizzando i numeri la Gabanelli avrebbe potuto raccontare quale è la crescita in termini di economia, addetti (posti di lavoro!), indotto, fatturato, impatto di immagine su tutto il paese dell'alta cucina italiana negli ultimi anni. Avrebbe potuto spiegare quanto è ancora difficile questo mondo per le cuoche donne, invece di metterne alla berlina una delle poche che ce l'ha fatta. Avrebbe potuto illustrare, con i dati, quanto in questo preciso momento storico nel nostro Paese la gastronomia (più del design, dell'arte, della musica, del cinema, dell'architettura) sia il settore che sta tenendo botta rispetto alle grandi sfide creative internazionali, tenendo non alto, ma altissimo il nome dell'Italia ormai considerata leader in questo comparto perfino rispetto agli storici "rivali" Francia e Spagna. Gabanelli con una specifica "puntata" di Dataroom avrebbe potuto - e potrebbe - illustrare ai suoi lettori quale è il contributo al turismo di alto livello, e dunque in definitiva al benessere di tutto il Paese, che viene grazie all'impegno dei cuochi che meriterebbero massimo sostegno anche e soprattutto da parte del sistema dell'informazione e non prese in giro, banalità e pregiudizi reduci dagli anni Ottanta. In definitiva a una giornalista del calibro di Milena Gabanelli si dovrebbe richiedere di fare quadrato per raccontare in maniera appropriata una delle eccellenze assolute del sistema paese, non un contributo alla sua facilonesca messa in cattiva luce. Del resto è proprio quello che fanno i grandi giornalisti in Spagna, nel Regno Unito, nei Paesi Nordici. Se non ci credete provate per un istante a immaginare un siparietto simile in Francia. Quale grande giornalista si permetterebbe? Quale? 

 

La cucina è forma di creatività (e l'antipasto non è un antipasto)

Ma, mutatis mutandis, quale grande giornalista non sapendo nulla di arte contemporanea metterebbe sul suo Facebook (anzi sul suo profilo Facebook aziendale!) la foto di un quadro o di una scultura sghignazzando e dando di gomito ai propri fan? E una performance di teatro contemporaneo? E un film di un giovane regista? A prescindere che si guardi, che si ascolti, che si tocchi o che si mangi, la produzione creativa dovrebbe meritare un briciolo di rispetto da parte di chi ha in mano da decenni le redini dell'opinione pubblica.

Così come il rispetto si dovrebbe ai lettori, specie quando si è ben consci di quanto siano facilmente suggestionabili su alcuni temi facili da cavalcare. Ad esempio Gabanelli avrebbe potuto spiegare ai propri fan, da giornalista accurata e meticolosa quale è, che quel piatto non era altro che uno dei quattro piccoli benvenuti da parte della chef prima di iniziare il percorso di degustazione. Chiaro? Non un antipasto come scritto nel post dunque, ma il primo di una serie di 4 stuzzichini offerti gratuitamente (a dispetto dei mille commenti che insultano "la cacatina di piccione che costerà una fortuna") prima di iniziare la serie degli antipasti, poi i primi, poi i vari secondi, poi il pre-dessert, poi il dessert, poi gli stuzzichini dolci finali. Ma davvero avete ancora fame dopo? Ma davvero pensate che 70 o 90 euro (tanto costano i menu al Marconi, ristorante che la Gabanelli definisce "caro" fino a sorprendersi della presenza di clienti masochisti) per tre, quattro, talvolta cinque ore di autentico intrettenimento culturale, di alto artigianato in presa diretta siano un prezzo inaccettabile? Se poi però portate la vostra vettura dall'elettrauto 200 euro se ne vanno senza fiatare. Siamo alla famosa filastrocca degli italiani che pur producendo il migliore extravergine del mondo, pagano di più l'olio che mettono nel motore della macchina di quello che metto nello stomaco. Una filastrocca che racconta una china triste, rispetto alla quale i grandi giornalisti dovrebbero mettere in guardia...

Insomma, tornando al piatto incriminato, non solo la quantità oggetto delle canzonature della Gabanelli era quella corretta, ma sarebbe stato proprio un errore tecnico proporre quantità maggiori in sede di snack di inizio pasto. Uno stuzzichino pre-antipasto troppo sostanzioso, troppo abbondante, capace di appesantire e di soddisfarre l'appetito prima del dovuto, quello forse, per assurdo, avrebbe meritato una annotazione negativa. Non certo uno snack delle idonee dimensioni di  uno snack.

 

Ma il Corriere non puntava tutto sul cibo?

In chiusura, sarebbe interessante sapere cosa pensi l'azienda di Urbano Cairo dei commenti con la bava alla bocca verso chef e alta gastronomia italiana che a centinaia si snocciolano sotto al post della Gabanelli nel profilo di Dataroom. Perché quei commenti rappresentano la readership del Corriere. Lo stesso Corriere che sta puntando moltissimo sui contenuti a tema food. Lo stesso Corriere che inaugura sezioni, rubriche, numeri speciali e addirittura un vasto palinsesto di eventi in tutt'Italia attorno alle figure dei grandi cuochi. Lo stesso Corriere che dopo l'estate uscirà con una nuova rivista gastronomica. Proprio quel Corriere che da ieri, su un suo profilo ufficiale, percula in maniera sciatta e superficiale una eccellente cuoca-imprenditrice che prova a gestire il suo ristorante (la sua azienda!) nel bel mezzo dell'Appennino emiliano,  e con lei tutti gli chef suoi colleghi. 

 

a cura di Massimiliano Tonelli

 


Guida per mangiare bene alle Isole Baleari. Maiorca, Minorca, Ibiza e Formentera

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Le Baleari sono sempre fra le più gettonate mete per le vacanze estive. Oltre alla movida notturna e le bellezze paesaggistiche, però, in ognuna di queste è possibile anche assaggiare prodotti gustosi e piatti saporiti. La nostra guida alle Baleari, da Maiorca a Formentera.  

 

Maiorca, Minorca, Ibiza, Formentera. Località che hanno sempre vissuto di un tipo di turismo che spesso ne ha fatto dimenticare i tratti culturali più autentici e antichi, come la gastronomia. Mangiare bene nelle Isole Baleari, però, non solo è possibile, ma è anche molto facile. Il mar Mediterraneo dove sorgono, infatti, dona alle terre frutti prelibati che, uniti con sapienza alle tecniche e conoscenze acquisite tramite i tanti influssi delle terre limitrofe, Spagna in primis, restituiscono piatti semplici dal gusto unico, i sapori intensi e i profumi inebrianti. Un ruolo fondamentale, però, lo gioca anche la carne, specialmente quella di maiale, celebrata in tutte le sue forme durante il rituale della mattanza.

 

Maiorca

Maiorca: riso, agnello e pane

La più grande delle isole dell'arcipelago, forte di una biodiversità ricca e variegata, la storia antica e una costa straordinaria. Qui, il riso la fa da padrone, insieme a carne, pesce e verdure di stagione, ma ci sono anche il pane e i lievitati, senza dimenticare il ruolo fondamentale dell'agnello, simbolo della Pasqua che a Maiorca diventa protagonista tutto l'anno.

I piatti tipici

Arròz brut: un riso speziato, inizialmente nato per impiegare i tanti prodotti dell'orto. Si tratta, infatti, di una ricetta che cambia continuamente veste a seconda delle stagioni. Che ci siano i funghi o le verdure a foglia, una sola è la costante: il brodo torbido che dà il nome al piatto, un mix di cannella, zafferano, pepe e paprika unito ai fegatini di pollo o coniglio tritati.

Arròz sec: riso diffuso un po' in tutte le Baleari, ma in particolare a Maiorca, a base di carne, sobrasada, funghi e altri ingredienti che variano in base alla stagionalità.

 

frit mallorqui

Frit mallorquí: chiamato anche freixura, è un fritto di carne di agnello con fegato e viscere, accompagnato da patate, cipolle, pomodori, finocchi, peperoni e condito con cannella, chiodi di garofano, pepe e alloro. Un tempo ricetta tradizionale della Pasqua, oggi viene preparata in ogni occasione.

 

paletilla de cordero

Paletilla de cordero: spalla d'agnello arrosto con patate e altre verdure a piacere. Ognuno ha la sua versione, purché rispetti il punto cardine della ricetta: la carne deve essere tenerissima e succosa.

Peix al forn: una delle preparazioni più storiche, inserita all'interno del “Corpus del Patrimonio Culinario Catalàn”, antico ricettario della tradizione catalana. Si tratta di un pesce cotto intero al forno con patate, vino e cipolla.

Trempó: insalata a base di cipolla, peperoni verdi, pomodori maturi, olio extravergine di oliva, sale e, talvolta, un po' di aceto. Viene servita come antipasto oppure contorno per piatti di carne robusti.

 

Tumbet

Tumbet: Patate, melanzane e peperoni rossi tagliati a fette e fritti in olio d'oliva, per essere poi sovrapposti fra di loro a mo' di timballo. Un tortino vegetariano che viene ricoperto con salsa di pomodoro e prezzemolo.

Lieviti e carni insaccate

Botifarrons: salsiccia di maiale cruda solitamente preparata in occasione del macella del maiale, la mattanza. È diffusa in tutti i Paesi di lingua catalana, in particolare Maiorca e Minorca, ma la si trova, con qualche variante, anche nel Nord Europa. Caratteristica principale è la presenza di sangue all'interno dell'involtino di carne.

 

ensaimada

Ensaimada: dolce che dal 1996 vanta il marchio Igp (Indicazione Geografica Protetta) “Ensaïmada de Mallorca”. Un impasto a lenta lievitazione a base di farina, acqua, uova, zucchero, lievito e strutto, chiuso nella tipica forma a spirale e insaporito con il cabell d'àngel, una sorta di confettura di zucca. Nel periodo di Carnevale, viene preparata con la sobrasada.

Gatò de almendras: torta di mandorle nata nelle corti del Settecento, frutto delle contaminazioni francesi, completamente priva di farina e profumata con scorza di limone e cannella.

Pa mallorquí: pane di grano saraceno (da sempre il più coltivato nell'isola), inizialmente cibo destinato alle famiglie contadine meno abbienti, che non potevano permettersi la farina bianca. Oggi viene preparato con diversi cereali (spesso segale unita a grano tenero) e con il lievito madre.

 

Sobrasada

Sobrasada: carne macinata e mescolata con spezie, lasciata a stagionare nei budelli, preparata durante la mattanza. Un mix di carne magra, grassa, sale, paprika dolce e piccante, consumata tradizionalmente durante tutto l'anno come prodotto povero (la carne fresca era riservata ai giorni di festa). Nasce a Maiorca ma è oggi presente in tutte le Baleari.

 

Minorca

Minorca: l'arte casearia e l'invenzione della maionese

Seconda isola per estensione, dichiarata riserva della biosfera dall'Unesco, ancora una volta un luogo immerso nella natura più incontaminata che ha visto susseguirsi dominazioni diverse, dal periodo aragonese a quello inglese, che hanno contribuito nel tempo a strutturare la complessa identità culturale della zona. Anche a tavola.

I piatti tipici

 

caldereta

Caldereta de Langosta: anticamente preparata a bordo delle barche, è una zuppa di mare con aragosta e pomodori, da consumare fredda, una volta ben addensata a distanza di qualche ora dalla cottura, con crostini di pane fritti nell'olio extravergine di oliva.

 

Imama

Imam bayildi: piatto tipico della cucina turca ma ormai da tempo presente nelle tavole minorchine. Si tratta di melanzane ripiene di polpa di melanzane, prezzemolo, aglio, olio d'oliva, cipolle e pomodori, stufate e servite come secondo oppure piatto unico.

Carni, salse e formaggi

Carn-i-xulla: salsiccia di maiale condita con sale, pepe nero e altre spezie e lasciata stagionare.

Cuixot: salsiccia di maiale speziata e caratterizzata dall'aroma di finocchietto, preparata con il sangue di maiale che conferisce il tipico colore scuro alla carne.

 

coca

Coca: una sorta di focaccia con pomodoro, peperoni, oppure alici, olive e sardine, presente anche in versione dolce.

 

maionese

Maionese:le salse sono presenti fin dal Medioevo nelle cucine nobiliari, ma la prima testimonianza scritta della maionese risale al 1750, nell'"Art del la Cuina, llibre cuina menorquinadi Fra Francesc Roger, ricettario storico della cucina minorchina. Inizialmente chiamata aioli bo, la salsa viene conosciuta nel resto del mondo dopo il 1756, anno dell'invasione francese dell'isola.

Queso di Mahon: gode di una denominazione di origine protetta dal 1985 il formaggio a latte crudo a base di latte vaccino e di pecora, che prende il nome dal porto dal quale partivano le navi per l'esportazione. È disponibile nella versione stagionato o semi-stagionato.

Dolci

Coca: la versione dolce di questa focaccia si prepara con la frutta, mentre quella salata (vedi sopra) esiste in diverse farciture.

 

patissets

Pastissets: biscotti di pasta frolla a forma di fiore solitamente composti da 7 petali (pastis, dolcetto set, sette) e ricoperti di zucchero a velo. È possibile trovarli anche ripieni di confettura di fichi o cosparsi di miele.

 

ibiza

Ibiza: le contaminazioni a tavola

Un luogo senza tempo il cui carattere preciso è frutto della mescolanza fra diversi popoli. Ibiza oggi è il racconto di genti e dominazioni che hanno lasciato il segno anche nei piatti. Ibiza può fare affidamento su una cucina variopinta, fatta di pochi ingredienti valorizzati al massimo in ricette semplici e dal sapore definito.

I piatti tipici

Arroz de matanzas: la mattanza è un rituale molto sentito in tutte le Baleari. In questa occasione, a Ibiza (ma anche a Formentera) si prepara da sempre un risotto con le diverse parti del maiale, per celebrare l'abbondanza della tavola.

Bullit de peix: uno dei piatti più rappresentativi dell'isola, una zuppa di pesce stufato cotto lentamente, realizzata con il pescato del giorno, solitamente con specie locali.

 

chipirones fritos

Chipirones fritos: calamari fritti presenti in tutte le isole, diffusi anche in Spagna e, più in generale, in tutti i Paesi del Mediterraneo.

 

ensalada de crostas

Ensalada de crostas: ricetta dalle origini remote che ricorda da vicino la nostra panzanella. Un'insalata a base di pane raffermo bagnato nell'acqua, olio extravergine di oliva, pomodori, cipolla rossa ed erbe aromatiche

Frita de mantances: fritto misto di carne, peperoni e patate, ideato per celebrare la fine della mattanza.

 

pa amb oli

Pa amb oli: semplice bruschetta con olio extravergine di oliva, pomodoro e sale, immancabile durante pranzi e cene estive.

Sofrit pagès: stufato di carne d'agnello, pollo e maiale, spennellato di strutto di maiale e accompagnato da patate arrosto, originariamente preparato a Natale.

Prodotti, dolci e liquori

 

espineta

Mandorle: la fira de la flor d'ameter, ovvero la fioritura dei mandorli, è un momento cruciale dell'inverno ibizenco e maiorchino, che anticipa l'arrivo della bella stagione. Fra le varietà più note a Ibiza, la espineta, frutto di piccole dimensioni molto dolce.

 

flaò

Flaò: detta anchetarta de questo ibicenca (torta di formaggio ibizenca), è un dolce composto da una crema di formaggio fresco spalmabile, yogurt greco, caprino e panna, racchiusa in una base di farina, uova, zucchero, olio d'oliva e anice. Una sorta di versione mediterranea della cheesecake americana.

 

hierbas

Hierbas: secondo la leggenda, il liquore ottenuto dalla fermentazione di tante tipologie di piante differenti è nato a Formentera alla fine dell'Ottocento per idea di Juan Mari Mayans, ma da sempre lo hierbas è considerato parte della cultura ibizenca. Ogni bottiglia, infatti, raffigura in etichetta un angolo dell'isola. La prima fabbrica, comunque, nasce proprio a Ibiza per volontà di Mayans, che crea il primo grande marchio del liquore.

 

Formentera

Formentera: il ritorno alle tradizioni

Fortemente legata al mare ma anche all'agricoltura della terraferma, a Formentera sono ancora le zuppe di pesce e i fritti a dominare la tavola. È la meno popolata delle isole e forse anche per questo nel tempo ha saputo conservare intatte le proprie radici, continuando a presentare una cucina di stampo tradizionale, basata sui prodotti del territorio e le usanze del passato, ma anche molto influenzata dalla vicina Ibiza.

I piatti tipici

Arroz marinera: piatto comune a molti Paesi, particolarmente diffuso in Argentina. È un risotto ai frutti di mare, nato per utilizzare tutti quei pesci attaccati alle rocce più piccole che solitamente non venivano impiegati perché difficili da tagliare.

Bullit d'ossos: durante la mattanza, le uniche parti del maiale che venivano scartate erano le ossa, a cui restava sempre attaccata un po' di carne e cartilagine. Venivano, allora, conservate nel sale e poi cotte in acqua bollente insieme alle verdure dell'orto, solitamente patate e cavoli.

Calamar a la bruta: ricetta a base di calamari, cipolle, vino bianco, sherry, miele, olio d'oliva, prezzemolo e sobrasada cotti in un tegame, leggermente modificata a seconda della zona e della stagionalità. Il nome a la bruta si riferisce alla semplicità degli ingredienti e della preparazione.

 

chuletas de cordero

Chuletas de cordero: costolette di agnello aromatizzate con aglio, vino bianco, sale, pepe, rosmarino e cotte in forno insieme alle patate.

 

fideua

Fideuà: originaria di Valencia, la fideuà è una sorta di paella che prevede più ingredienti - dalla carne al pesce, senza dimenticare le verdure - e che utilizza la pasta spezzettata al posto del riso. È da tempo un punto fermo anche nella cucina di Formentera.

Ensalada payesa: insalata contadina di patate (oppure bescuit, pane tostato), pomodori, peperoni verdi, cipolla, tonno o peix sec (pesce essiccato) olio d'oliva, olive e sale, che varia a seconda degli ingredienti a disposizione.

Guisat de peix: un piatto ispirato alla tradizione ibizenca, uno stufato di pesce e mandorle preparato con il pescato del giorno.

Il recupero degli avanzi e la tradizione del pesce essiccato

 

greixonera

Greixonera: un dolce di recupero, una sorta di budino a base di pane raffermo (spesso si utilizzano anche le brioches), latte, cannella, zucchero, uova e liquore, popolare tanto a Formentera quanto a Ibiza.

Peix sec: fra le tradizioni più antiche dell'isola, quella di essiccare il pesce, specialmente quello catturato con il palangaro, che consente di trattenere solo le specie di dimensioni più grandi. Un metodo di conservazione nato prima dell'avvento del frigorifero, ma portato avanti ancora oggi.

a cura di Michela Becchi

 
 
 

Ferran Adrià 20 anni dopo la rivoluzione del sifone

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A 20 anni dalla rivoluzione del sifone cosa è cambiato? Dove va la cucina mondiale? Ferran Adrià riapre El Bulli e punta tutto sullo studio. Nel mensile di agosto del Gambero Rosso abbiamo raccontato passato, presente e futuro dello chef spagnolo. Qui un'anticipazione.

 

Correva l’anno 1998. A El Bulli di Roses i fratelli Adrià avevano fissato il loro ultimo corso di cucina. In cinque anni 800 persone, tra cui numerosissimi chef da tutto il mondo, avevano seguito le loro lezioni. Poteva bastare. Sarebbe stato l’ultimo appuntamento. Stefano Bonilli, allora direttore (e fondatore) del Gambero Rosso, decise di non farselo sfuggire portando in Costa Brava, a Cala Montjoi, una ristretta pattuglia di chef italiani che in soli tre giorni videro stravolta ogni loro idea sulla cucina. Furono tre giorni intensi, memorabili, irripetibili, con lezioni di Ferran Adrià e di Albert da mattina a sera interrotte solo da una passeggiata sulla spiaggia o una puntata dal mitico Rafa’s ad assaggiare i suoi frutti di mare cotti sulla piastra. “Questo non è un corso, è una festa”, commentava Ferran, facendo notare come di solito nei corsi di cucina si finisse per assaggiare un piattino in dieci. Lì invece si accendevano i fuochi d’artificio del loro menu degustazione, che veniva intanto testato. Qualcosa di simile allo sbalordimento colpì tutti di fronte alla zuppa di piselli che cambiava temperatura mentre la mangiavi, o davanti ai ravioli realizzati con la seppia e farciti con un ripieno di cocco liquido. Grant Achatz, che sarebbe passato in quella cucina pochi mesi dopo incontrandovi pure René Redzepi, descrive nel suo libro Life On the line quella stessa incredulità: “Cosa diavolo sta succedendo, so cucinare, ma questa è magia”.

Ferran Adrià

Il sifone

Mostrò allora, Ferran, l’uso del sifone e fu strabiliante. La minestra in texturas è nella storia: mousse di mais, mousse di cavolfiore, puré di pomodoro, spuma di barbabietola, granita di pesca, gelato di mandorla, gelatina di basilico… Sorride Mauro Uliassi, tra i fortunati del corso, nel ricordare l’overdose di felicità e di energia positiva. A condividere quell’eccitazione c’erano Moreno Cedroni, Agata Parisella, Paolo Teverini, Dario Laurenzi, Caterina Marchetti... che scherzavano – profeticamente – sull’uso di tecniche mai prima immaginate: “Ieri sera mi ha telefonato mia madre per avvertirmi che le lasagne sono in frigo pronte da mettere in forno. Le ho risposto che le frullo e le infilo nel sifone”.

Per la prima volta – commenta oggi Davide Cassi, professore di fisica della materia all’Università di Parma dove ha fondato e dirige il laboratorio di fisica gastronomica e testimone chiave di quella rivoluzione (sua, peraltro, l’introduzione nel 2002 del termine cucina molecolare ad indicare quel tipo di cucina nata dalla collaborazione chef-scienziato e più in generale creata con tecniche generate dalla ricerca scientifica, poi impropriamente appiccicata tout court alla cucina di Adrià) – per la prima volta era stata la tecnica e non l’ingrediente a ispirare lo stile di cucina. Il sifone era stato sin lì utilizzato, soprattutto nei bar tedeschi, per risolvere il problema del classico ciuffetto di panna inderogabile su ogni fetta di torta servita. Il sifone dava il vantaggio di conservarla montata in frigo pronta per l’uso. Poi è arrivato Adrià. Ed ecco che un succo di barbabietole ha preso d’incanto la struttura della panna”. “Oggi – aggiunge Uliassi – i cuochi di sifoni ne tengono anche otto, nove”. Ma il sifone era solo un elemento e non il più importante di quel repertorio di tecniche e concetti ognuno dei quali ne spalancava in maniera esponenziale altri dieci, cento. Prendi ad esempio le tagliatelle di mango alla carbonara: se assumi il concetto che la polpa del mango può essere interpretata come una pasta, va da sé che la puoi anche trasformare in un raviolo, in un cannellone, in una lasagna… “Tra vent’anni le sue tecniche si svilupperanno a macchia d’olio, non ci sarà un cuoco che non le adotterà perché i suoi non sono solo piatti e ricette ma un intero sistema di idee e di concetti”, giurava allora Agata Parisella, emozionata a tal punto davanti al semifreddo di Parmigiano da avere i lucciconi agli occhi. E così è andata, e ben prima di 20 anni.

Albert e Ferran Adrià

Il modello Adrià

Quanti gelati al formaggio vedi in giro da anni? O gelati di tutti i possibili legumi? Un sistema che ha poi fatto sciogliere anche la neve sui licheni di Redzepi e dissotterrato le asce culinarie di mezzo mondo. Scorrendo le ricette del secondo numero della nuova rivista indie, edita negli Stati Uniti, Tooth-Ache, un magazine fatto dagli chef per gli chef (quasi impossibile trovarlo in Italia ammenoché non passate dai ragazzi di Edicola 518 a Perugia), è evidente come il linguaggio forgiato da Adrià sia ancora alla base delle loro creazioni. La matrice, forse all’insaputa degli stessi giovani cuochi, è scolpita in quell’epoca d’oro. Ci sarebbe mai stata la Sea food pasta, la pasta realizzata con 40 differenti tipi di pesci e molluschi come quella creata dal nostro Giuseppe Iannotti del Krèsios nel beneventano, giusto per citare uno degli chef italiani più creativi e sperimentali (con tanto di laboratorio da poco aperto) e immortalata anche nel blog di Steve Plotnicki, l’ex produttore americano appassionato di cibo e autore delle classifiche mondiali Opinionated About Dining – OAD?

I menu globali – riflette Uliassi – sono il frutto di un metodo, dilagato in tutto il mondo e imposto dai fratelli Adrià a partire dal Taller, il loro laboratorio di Barcellona dove si pensava, studiava, elaborava. Oggi non si dà una cucina creativa senza un pensatoio. Noma a Copenaghen è figlio di quel modello. In Italia Niko Romito (o gli Alajmo) hanno costruito un sistema creativo legato allo studio e alla ricerca e per di più con una visione imprenditoriale di altissimo livello legata alla formazione”. “Ma era l’assenza di pregiudizi il valore aggiunto di quella cucina – aggiunge Stefano Baiocco, approdato a La Mecca all’inizio del nuovo Millennio – Questo il vero regalo alla cucina moderna: una libertà di pensiero prima inconcepibile. Occhi aperti. Mente aperta. Coraggio. Il credo di Adrià ci ha cambiato tutti. E anche le tecnologie hanno cominciato ad evolversi proprio a partire da quel momento”.

Ferran Adrià

Sono più che mai tutti allievi di Adrià. Lo stesso Andoni ne è il miglior discepolo”. Non ha dubbi Philippe Regol, il critico gastronomico franco-catalano che con il suo blog “Observacion Gastronomica 2” segue passo passo l’evolversi del panorama gastronomico spagnolo e non solo. “Ferran – sostiene Regol – non ha fatto solo la sua rivoluzione ma ha consentito a tutti di farla, ha cambiato lo spirito della creatività. Non ci sono più limiti, chiunque è libero di trovare la sua espressione e il suo cammino senza aspettare che qualcuno detti la linea come è stato nel passato. Non ci si aspetta più che un paese abbia un primato sull’altro. C’è forse oggi una cucina dominante? Questa è la novità. Questo il nuovo chip mentale che Adrià ha esportato. Dopo che per anni ci siamo spesi a parlare del primato della cucina spagnola su quella francese, della francese sull’italiana o viceversa, ci troviamo in realtà di fronte a una nuova cucina internazionale, con uno schema che si va un po’ troppo ripetendo: le guarnizioni di puré, i tuberi, le radici, verdure e foglie crude… sempre molto politically correct, ma puoi trovarla a Londra come a Parigi o a New York o nel più sperduto villaggio della Bretagna. Siamo nella post avanguardia caratterizzata dall’assimilazione di tutto quanto è successo, con una cucina che però non si ferma, in perpetua evoluzione. La chiamerei una rivoluzione permanente”.

Il post-El Bulli

Ciò che ha fatto dichiarare la “resa” a un critico come Rafael García Santos che in una recente intervista a La Vanguardia, definendo Adrià l’unico rupturista, ha decretato che “il momento rivoluzionario si è concluso con la chiusura di El Bulli nel 2011: da quel momento la gastronomia spagnola vive di dividendi e non più di generazione di patrimonio”. Secondo Garcia Santos “ci sono tante verità in giro, dal naturalismo all’ecologia alla prossimità ma siamo in un mondo di mode e di tendenze dove tutto si converte in marketing”.

Ferran Adrià

Non ne consegue tuttavia che il livello di creatività sia calato. Anzi, mai ce n’è stata tanta in circolo. Il foraging quotidiano, il nativismo degli ingredienti, le fermentazioni, le affumicature, le glassature (dimentichiamo qualcosa?, si, forse l’amore per il selvaggio e per il raw, le astringenze, le acidità, gli amari…) regalano sempre nuovi brividi sulle montagne russe dei sapori. Ogni chef compone la sua trama attraverso un mix di tecniche e di tradizioni moderne e antiche scovate magari in giro per il mondo in un meticciato di idee, spunti, riflessioni prima sconosciuti: il Mediterraneo che sfocia nel Pacifico o penetra in Austria (il Mare Nostrum interpretato con prodotti austriaci da Konstantin Filippou a Vienna), il locale che incontra il globale in una rete di esperienze di cui si fa interprete per esempio la “famiglia” Gelinaz!, il sistema open source ideato da Andrea Petrini e Fulvio Pierangelini che vede gli chef più espressivi del momento scambiarsi per uno o più giorni le cucine preparando menu irripetibili ai quattro angoli del globo. Una fonte aperta di scambi e conoscenze prima inediti.

I piatti nel frattempo sono diventati storie che raccontano la biodiversità di ogni nazione. Richie Lin, del Mume Restaurant a Taiwan si ispira al Messico e cerca il metodo per fare la pasta masa preparando tortillas con la quinoa taiwanese. Ma le basi di tutti questi racconti sono state gettate a Roses, in quella generosa socializzazione delle tecniche che è stata la scintilla del futuro. Le pelli tostate di una murena che simulano quelle di un maialino, i formaggi marini a partire da legumi, alghe e plancton o frutta secca di Ángel León di Aponiente a Cadice o i crackers di pelle di piranha di Virgilio Martinez al Central di Lima sono solo alcune delle voci scelte a caso di una Enciclopedia della cucina moderna che si è andata componendo allora. E se la texture di un cavolfiore glassato è meglio di quella di uno stinco di vitello è perché Adrià, come Prometeo, ha rubato il fuoco agli dei per donarlo agli uomini.

 

a cura di Raffaella Prandi

foto di Paolo della Corte

 

 

QUESTO È NULLA...

Servizio su ferran Adrià nel mensile di agosto

Nel numero di agosto del Gambero Rosso, un'edizione rinnovata in questi giorni in edicola, trovate il servizio completo con l'intervista a Ferran Adrià, un glossarietto per comprendere la sua rivoluzione, il parere fuori dal coro di Edoardo Raspelli. E ancora, gli chef, italiani e non, che devono molto allo chef spagnolo e la presentazione di Condividere, il ristorante all'interno della Nuvola di Lavazza, firmato Zanasi-Adrià.

Il numero lo potete trovare in edicola o in versione digitale, su App Store o Play Store

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Uazz’America, la cucina a stelle e strisce: italo-americana, la cucina degli emigranti

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Oggi gli americani viaggiano molto e il più delle volte conoscono la differenza tra la cucina che si mangia nel nostro Paese e quella italo-americana. Quello che per loro è Italian food è infatti una evoluzione della cucina tricolore che si prepara negli States, simbolo della storia dell’emigrazione.

 

Per fortuna oggi gli amanti della buona tavola negli States viaggiano, si informano, studiano e riproducono fedelmente le nostre pietanze. Ma la cucina degli emigranti è uno spaccato culturale che racconta un’epoca, parla di adattamento all’ambiente nuovo (spesso ostile, come accade tristemente ancora adesso) ritratto di una cultura alimentare che non va assolutamente persa.

 

La tradizione italo-americana

Sono tanti i piatti simbolo della comunità italo-americana negli States, che qui in Italia fanno sorridere per quanto si discostano dall’originale: l’Italian dressing, per esempio, ha poco di Italiano, ma va invece più incontro ai palati americani. C’è poi il chicken parmesan, che nella struttura della parmigiana, al posto delle melanzane, impiega filetti di pollo impanati e fritti. La pastiera a Pasqua in USA spesso diventa “rice pie” che in mancanza del grano (ma anche acqua di fiori d’arancio), usa il riso cotto. La cena di pesce della vigilia di Natale, tipica del meridione, evolve e diventa Feast of the Seven Fishes, che come dice il nome, prevede almeno sette pietanze a base di pesce.

 

C’è poi la pizza con “pepperoni”, originariamente un salame piccante appunto fatto con il peperoncino. Tutte queste evoluzioni hanno come base di partenza l’opulenza e la disponibilità di materie prime su suolo americano. Chi nel XIX secolo partiva dall’Italia per cercare un futuro migliore, si lasciava alle spalle miseria, fame e stenti. Una volta arrivati negli States, trovava – oltre a ingredienti nuovi mai visti prima - manzo in abbondanza, latticini, farina di mais, patate, uova e verdure in quantità mai viste in patria. Da questo derivarono porzioni più abbondanti, ma anche il comfort food, ovvero cibo che regala emozioni, che rassicura, e fornisce una buona dose di conforto dalla nostalgia di casa.

Spaghetti and meatballs

Il piatto forse più simbolico degli Italiani d’America sono gli spaghetti and meatballs, ovvero con le polpette. L’origine di questo piatto è attribuita agli emigrati italiani che andarono a cercare fortuna oltreoceano fra la fine del XIX secolo e i primi anni del ‘900. In Italia da secoli prepariamo polpette, che da altrettanto tempo, in regioni come l’Abruzzo ad esempio, gustiamo con la pasta. Spaghetti e pomodori in scatola erano alla base della dieta dell’emigrante, ma poi, vista l’abbondanza di carne in America, il classico piatto di spaghetti al pomodoro si arricchì con polpette di carne, alterandone però la misura, che da scarse e piccoline divennero, per ciascuna porzione, 3-4 enormi polpette della misura di una mela.

La ricetta è quella che sappiamo, un buon sugo fatto con pomodori pelati, insaporiti da aglio, origano, basilico e sale. Nel sugo vengono poi cotte le polpette di carne macinata di manzo, tenute insieme da uovo sbattuto, mollica di pane, parmigiano grattugiato, sale, prezzemolo e altre varianti che cambiano di famiglia in famiglia. C'è una curiosità sulla cottura degli spaghetti negli States: molti americani di una certa generazione sostenevano che per testare se gli spaghetti erano cotti andavano lanciati contro una parete; se rimanevano attaccati al muro, erano cotti. Immaginate che colla immangiabile?

Quella italo-americana è una cucina nata dalla sopravvivenza dei ricordi, fatta di racconti, ricette tradizionali da Nord a Sud, pranzi delle nonne e ingredienti italiani che non si trovavano nel Nuovo Mondo e quindi subivano delle storpiature per necessità. Ma c’è una ricetta che spopola in America che ha un’origine tutta italiana (ma che in Italia non è molto frequente incontrare al ritorante), nata a Roma 104 anni fa e che da quest’anno ha intitolata a sé una giornata, il 7 febbraio, quando si celebra infatti in USA il National Fettuccine Alfredo Day.

Le Fettuccine Alfredo

Anche se la paternità di questa ricetta è contesa tra due locali capitolini, all'origine della ricetta c'è sempre l'affettuoso gesto d'amore del cuoco romano Alfredo Di Lelio per la moglie Ines, indebolita da una difficile gravidanza. La ricetta originale prevedeva allora (invariata ad oggi) tre ingredienti di qualità straordinaria: le fettuccine all’uovo, il burro fresco e il parmigiano grattugiato. Ma quello che rese famoso questo piatto in America è stato un personaggio di Hollywood: Douglas Fairbanks, tra i fondatori del premio Oscar, che alle sfarzose cene nella sua enorme villa conquistava gli ospiti proprio con questa pasta che aveva scoperto a Roma nel 1920, durante il viaggio di nozze con la diva del cinema muto Mary Pickford. La coppia, al ritorno in America, contribuì a rendere famose le fettuccine di Alfredo in America, piatto associato più di ogni altro, dagli americani di allora e di oggi, all’Italia. Come ringraziamento, la coppia di divi mandò in regalo ad Alfredo due posate d’oro, forchetta e cucchiaio, con la loro dedica, “To Alfredo, the King of Noodles”.

 

I tre ingredienti e le tre fasi della ricetta

Al timone del ristorante Alfredo alla Scrofa ci sono oggi Veronica Salvatori e Mario Mozzetti, che hanno ereditato il ristorante ceduto da Alfredo ai bisnonni. È proprio Mario che mi svela i segreti della ricetta delle Fettuccine Alfredo, rimasta inalterata dal lontano 1914.

Tre ingredienti e tre fasi di preparazione: il primo ingrediente della formula magica è la fettuccina, che deve essere tassativamente sottile, quasi trasparente, di una consistenza inusuale per le nostre abitudini. Questa caratteristica particolare permette l’unione di tutti gli ingredienti per ottenere la “firma” del piatto, ovvero la cremosità delle fettuccine Alfredo. Poi c’è il burro, dolce e cremoso, naturale e fresco, per forza non salato. Il terzo ingrediente è il parmigiano grattugiato, quello che da sapidità al piatto, contrastando la dolcezza del burro. Nel ristorante di via della Scrofa si usa solo Parmigiano Reggiano invecchiato 24 mesi, che grattugiato e poi setacciato tre volte diventa una polvere finissima.

 

Ingredienti a parte, ci sono poi le 3 fasi da seguire scrupolosamente per la buona riuscita del piatto. In cucina ho la rara opportunità di seguirle passo-passo. Prima di tutto è importante la cottura delle fettuccine fresche che sono immerse delicatamente in acqua bollente. Più sottile la pasta e ovviamente più breve è la cottura. Le fettuccine di via della Scrofa bollono nell’acqua per non più di 30 secondi! Prima che sia passato questo tempo, lo chef prepara un piatto ovale fondo da portata, rigorosamente caldo, che permetterà la fusione del burro. Su questo piatto adagia il burro fresco a temperatura ambiente, quindi già morbido. Non meno importante è poi la fase seguente, cioè la scolatura. Questa avviene direttamente dalla pentola al piatto. Le fettuccine cotte sono sollevate dall’acqua con un forchettone a due punte, che al contrario di uno scolapasta, permettono alle fettuccine di non spezzarsi e di non ammassarsi.

A questo punto le fettuccine nel piatto da portata vengono ricoperte di parmigiano grattugiato finissimo. Per l’ultima fase entra in gioco una figura chiave, il “mantecatore”, ovvero un Maître professionista che da Alfredo alla Scrofa ha lavorato per decenni. Con una gestualità accurata e ponderata affinché le fettuccine diventino un tutt’uno con burro e parmigiano, il Maître-mantecatore termina il piatto, sotto lo sguardo del cliente, al tavolo. Per mantecare, utilizza una forchetta lunga e un cucchiaio, e con un movimento rotatorio dal basso verso l’alto, ottenendo così la giusta consistenza.

 

Siete ancora convinti che in America si mangi male?

 

a cura di Eleonora Baldwin

 

Alfredo alla Scrofa - Roma - via della Scrofa, 104/a - tel. 0668806163 - www.alfredoallascrofa.com

 

Questi e altri racconti li trovate in Uazz’America, un programma che va in onda tutti i lunedì alle ore 22:00 su Gambero Rosso Channel SKY 412; in replica sabato alle 12:30; e domenica alle 19:30.

 

Leggi anche le altre puntate di Uazz’America

 

 

 

 

Barbecue a Ferragosto. I consigli dei grandi macellai italiani

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Diffusosi prima in America, il barbecue negli ultimi anni è esploso anche da noi. Permette diverse modalità di utilizzo ed è adatto per ogni tipo di preparazione, carne in primis. Abbiamo chiesto a sei grandi macellai italiani che cosa ne pensano del barbecue (che non è sinonimo di griglia).

 

Griglia e barbecue non sono la stessa cosa

Con la prima tecnica designiamo un sistema di cottura utilizzato per la prima volta forse un milione e settecentomila anni fa. Scoperto il fuoco, l’homo erectus non avrebbe tardato molto a intuire i benefici della carne abbrustolita dalla fiamma vivace e diretta. E il barbecue? È nato molto dopo. L’etimo risale a barbacoa, un vocabolo che gli scherani di Cristoforo Colombo avrebbero ascoltato per la prima volta nei Caraibi nel 1492. L’avrebbero pronunciata gli indio Taino, padroni dell’isola attualmente divisa tra Haiti e Repubblica Dominicana. Chiamavano così la graticola di legno su cui cuocevano alimenti ricoperti da foglie. È lo stratagemma antenato del barbecue di concezione moderna, che oggi consiste precisamente in “due semisfere di metallo che danno origine a una camera di cottura chiusa ma ventilata, all’interno della quale sono cotti lentamente alimenti utilizzando la brace o la fonte di calore ai lati”, recita l’introduzione di Barbecue Surprise, un manuale cult edito da Magi&Co e pubblicato dall’Accademia dei Signori del Barbecue nel maggio 2016.

Cosa ne pensano i grandi macellai italiani

Michele Varvara

Michele Varvara della Macelleria Varvara fratellidicarne (Altamura, BA): Il barbecue diffuso in Italia è modello acriticamente importato da quello anglo-americano, si cuociono infatti prevalentemente carni estere e si adopera un lessico anglosassone: brisket, pulled pork... Per non parlare della consuetudine delle salse adoperate per laccare i tagli. Un modello che poco c’entra con le carni italiane, molto più magre, con testure differenti, meno marezzate e dotate di un grasso molto meno resistente e che dunque abbisognerebbero di tecniche di cottura meno invasive, di mano più leggera, di brace prodotta esclusivamente da legna. Di cotture insomma, a servizio della carne stessa, che ne lascino integre le qualità e ne rispettino la delicatezza.

 

Roberto Liberati

Roberto Liberati di Bottega Liberati (Roma): La cottura alla brace l’ ho vista da bambino, come un momento conviviale importante e apparentemente semplice. Adesso che sono io a cimentarmi in questo metodo di cottura mi rendo conto delle difficoltà e delle tempistiche. Ricetta base di una buona cottura alla brace? Legna o carbone, l’importante che siano di qualità. Le carni preferisco che siano di grossi tagli ma comunque sempre di altissima qualità. La carne deve essere più grassa? Vero fino a un certo punto. Meglio una carne magra ma buona, che grassa ma pompata (come la maggior parte di quelle che circolano). Calcolare se la giornata è più o meno ventosa e da dove provenga il vento. Calcolare la quantità della brace prima di iniziare la cottura. E poi prediligere la cottura indiretta con tempistiche lunghe, qualsiasi carne ve ne sarà grata. Sul condire prima o dopo, è bene lasciare che ognuno di voi lo decida, tenendo presente che maggiore è la qualità del prodotto, minore potrà essere il suo condimento.

 

Franco Cazzamali

Franco Cazzamali della Macelleria Cazzamali (Romanengo, CR): C'è molto interesse riguardo ai bbq – quelli chiusi, tipo Weber – anche da parte di chi non si era mai avvicinato alla carne. Tanti dopo qualche programma tv si sentono esperti, chiedono dei tagli senza conoscerli: per esempio punta di petto, brisket o pastrami sono lo stesso taglio lavorato in modo diverso, lo stesso per asado e biancostato. È un'occasione per aprire un dialogo con i consumatori, quelli che si affidano e vogliono saperne di più rispettando il lavoro altrui, di allevatori e macellai, perché anche qui si deve prendere quel che c'è, come in pescheria. La natura ha i suoi tempi e le sue quantità. Non chiedete un pezzo specifico per il bbq, ma dite le vostre preferenze, che animale si vuole, e poi ascoltate come lavorare i tagli disponibili. Tutte le parti sono buone alla griglia, anche la trippa, bisogna conoscere la carne, il tipo di calore (a legna o a gas) e poi studiare tanto.

 

Gian Pietro e Giorgio DaminiGian Pietro e Giorgio Damini

Gian Pietro Damini di Damini Macelleria e affini (Arzignano, VI): Scegliamo il macellaio prima della carne: se ci affidiamo a qualcuno che lavora con coscienza ed etica avrà interesse a educare e dare consigli nel rispetto del prodotto, dell'ambiente e del cliente. Per un buon bbq ci deve essere la materia prima – buona e sana - e deve essere lasciata più pulita e pura possibile: niente salse o spezie, solo ottima carne da cuocere, qualsiasi tipo di griglia si scelga, non fredda ma a temperatura ambiente. Non violentiamo la carne con shock termici, è importantissimo. E facciamo attenzione: la carne di manzo non perdona il minimo errore.

 

Michelangelo Masoni

Michelangelo Masoni della Macelleria Masoni (Viareggio, LU): Ultimamente sembra non si possa vivere senza. Sempre più appassionati vengono a trovarmi alla ricerca di prelibatezze, tagliate a regola d’arte. Massaie o mariti laboriosi, in generale appassionati dell’ultima ora in cerca di Boston Butt o Saint Louis, la globalizzazione porta anche questo. Per non parlare della marinatura, con mieli, melasse e diavolerie varie, e le relative affumicature per giorni interi. Se penso al barbecue associandolo a un giorno speciale, di condivisione e festa all’aria aperta e in ottima compagnia, io dico sì. Se lo devo pensare come sistema di cottura alternativo alla padella di ferro, resto però molto perplesso. Soprattutto per i macchinosi processi di uniformizzazione della materia prima a monte che rischiano di vanificare il sacrificio degli allevatori nei campi e il mio di ricerca.


 

Giuseppe Zen

Giuseppe Zen della Macelleria Popolare (Milano): Io che ho il sangue che profuma di brace romagnola, considero il barbecue tuttavia in parte come anestetico dei sapori originali. Si rischia che la materia prima, quando va bene, abbia un ruolo da comprimaria senza più reminiscenza dell'animale, della cultura del territorio, dei metodi di allevamento. Trovo nel bbq più l'allegro divertissement di un momento. Certo, i novelli bbqmaster fioriscono e generano business che male non fa; ciò che riconosco come cultura del cibo però è un'altra cosa...

 

Articolo uscito sul Gambero Rosso di marzo. Un numero tutto rinnovato che potete trovare in versione digitale su App Store Play Store

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COSA TI SEI PERSO

Nel numero di marzo del Gambero Rosso trovate un servizio di 12 pagine, a firma di Gabriele Zanatta, dedicato interamente al barbecue,una tecnica antica che ha conquista chef e ristoranti, con la mappa dei cuochi che in Italia lo utilizzano, le diverse tecniche di cottura, il glossarietto da tener presente se ci si vuole avvicinare a questo tipo di cottura, uno sguardo verso l'estero, con i comunicatori e i profili Instagram più importanti e seguiti del settore, e le considerazioni dei guru del barbecue, come Gianfranco Lo Cascio, Marco Agostini, Ruschioni e Steven Raichlen.

 

In viaggio. Sudafrica, tra valli del vino e tendenze gastronomiche

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Nel numero di agosto del mensile del Gambero Rosso, siamo andati nella patria di Nelson Mandela a 100 anni dalla sua nascita. Sono lontani i tempi dell’apartheid e le quattro principali città del paese, oltre a colline, savane, vigneti, sono un instancabile crogiuolo di novità e tendenze. Qui un'anticipazione del viaggio.

 

Sono trascorsi cento anni dalla nascita di Nelson Mandela. Madiba, come lo chiamano qui, sarebbe soddisfatto del suo Sudafrica: un paese dal carattere cosmopolita frutto delle diverse etnie e culture che qui si incontrano e convivono. A lui si devono l’integrazione e la contaminazione diffusa, per anni annientate dall’apartheid. Oggi design, arte, cultura e nuove tendenze si sviluppano ed evolvono tra le sue principali città: Cape Town (capitale legislativa), Durban, Johannesburg e Pretoria (capitale amministrativa), incubatori di nuovi talenti, mete che attirano sempre più visitatori da tutto il mondo.

Lavorazione del vino in Sudafrica

Il paese del vino

Diversi possono essere i tagli di viaggio lungo la “Nazione Arcobaleno”: un itinerario enogastronomico potrebbe rappresentare un’ottima scelta. Il Sudafrica è uno dei paesi più vocati alla coltivazione della vite; eleganti e saporiti vini provengono dai vigneti concentrati quasi tutti a sud-ovest, nella regione di Boland Basin, a 80 km da Città del Capo: Cape Winelands, dove Stellenbosch con le sue 60 tenute vinicole è considerata la capitale per eccellenza del vino sudafricano. Ricca di ville coloniali del Settecento, è abbracciata da una corona di montagne da un lato e l’Oceano Indiano dall’altro; la prima strada del vino del comprensorio fu inaugurata nel 1971 e si snoda all’interno di un’affascinante valle particolarmente adatta alla viticoltura. Constantia Wine Route è invece la più antica del paese e ospita alcune delle tenute più famose tra cui Groot Constantia, Klein Constantia e Buitenverwachting. Poi, la celebre Route 62: la più lunga strada del vino al mondo che si snoda dal Western all’Eastern Cape passando attraverso caratteristiche cittadine come Oudtshoorn, Langkloof e Barrydale. E se il paesaggio richiama numerosi amanti del bello, lo stesso vale per gli appassionati del buono. Già gli olandesi capirono che c’era terreno fertile quando nella seconda metà del seicento introdussero la viticoltura ricorrendo alle varietà francesi. Storicamente il vitigno più diffuso era il pinotage (incrocio di pinot nero e cinsault) oggi soppiantato da uve internazionali anche se alcuni produttori continuano a mantenerlo in vita con espressioni ricchissime.

Tra le cultivar a bacca bianca eccelle lo Chenin Blanc, scarsamente diffuso in Europa, ma notevole per eleganza, sapidità e freschezza grazie alla sua acidità vibrante. Tra le varietà d’uva nera sono diffusi shiraz e cabernet sauvignon che traggono beneficio da un clima mediterraneo con inverni miti e piovosi, estati soleggiate, temperatura media fresca dovuta alla corrente del Benguela con acqua fredda che arriva direttamente dall’Antartico e vento scirocco utile contro umidità e muffe. Le cantine più interessanti? Rispondono ai nomi di: Jordan, Meerlust, Demorgenzon, Rustemberg, Delaire Graff, Morgenster, Hamilton Russell, Altheit Vineyards, Sadie, Crystallum, Boekenhoutskloof, Silwervis, Testalonga e Lomond.

Piatto di Luke Dale-Robertsdi Test KitchenPiatto di Luke Dale-Roberts di Test Kitchen

La grandi cucine sudafricane

Certo è che un buon calice chiama una cucina di carattere. A tal proposito il Sudafrica è un ventaglio di culture diverse che hanno dato e danno vita a piatti cangianti e variegati. L'incredibile cucina Cape Malay del Western Cape e il Durban Indian Food della east coast, possono essere definite le "due facce" della gastronomia sudafricana. “Le cucine della costa orientale e occidentale del Sudafrica sono arrivate a definire la nostra terra, in particolare la cucina indiana di Durban e quella del Capo Malese – racconta la giornalista enogastronomica Ishay Govender-Ypma originaria di Pietermaritzburg (capoluogo della provincia del KwaZulu-Natal, ad est) – Non si può visitare questo paese e non provare un bunny chow di Durban per esempio (pagnotta scavata e ripiena di curry) o gli stufati di carne di Cape Malay e le koesisters (ciambelle speziate e spolverate di cocco). Se si è a Durban è assolutamente da assaggiare il magnifico buffet al curry del ristorante Oyster Box e lo stesso vale per le specialità di Cape Malay da rintracciare all’interno delle piccole insegne capitoline come il Bo-Kaap in cui gustare il curry di agnello”.

Il viaggio alla scoperta delle tendenze gastronomiche sudafricane continua nel numero di agosto del mensile del Gambero Rosso.

 

a cura di Giovanni Angelucci

foto di Sintesi

 

QUESTO È NULLA...

Anteprima mensile di agosto, servizio sudafrica

Nel numero di agosto del Gambero Rosso, un'edizione rinnovata in questi giorni in edicola, trovate il racconto completo con le altre specialità sudafricane, dai bredies (stufati a base di pomodori e fagioli) ai bobotiedi carne tritata con curry, uova e cipolle, serviti con riso. E un focus sullacucina gourmet di Cape Town, Paternoster e Pretoria, con le testimonianze di Scot Kirton di La Colombe, Luke Dale-Roberts di Test Kitchen, Kobus van der Merwe del ristorante Wolfgat e Chantal Dartnall del ristorante Mosaic at the Orient. Un servizio di 10 pagine che include anche le 10 specialità da non perdere, le testimonianze dell'enologo Giorgio Dalla Cia e dello chef di 95 Keerom Giorgio Nava, un'interessante timeline con tutte le date principali della storia sudafricana e gli indirizzi utili dove mangiare e dormire.

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Acqua di mare. Caratteristiche, tendenze e utilizzi

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Molti cuochi contemporanei la utilizzano e sono nate specialità alimentari a base di acqua marina a partire da birre, pani e pizze. Ma quella dell’acqua di mare è una “scoperta” che viene da lontano. Nel numero di agosto del mensile del Gambero Rosso ne esploriamo le caratteristiche, le tendenze e gli utilizzi. Qui un assaggio.

 

Dallo spagnolo Quique Dacosta al pugliese Giovanni Lorusso, nelle cucine l’acqua marina ha sempre maggiori utilizzi; a fornirla una decina di aziende tra Spagna, Scozia e Puglia che la commercializzano, già sanificata. Del resto è un ingrediente pieno di preziosi oligoelementi e fa molto meno male del sale raffinato. Inoltre, è anch’essa una parte importante del terroir e ha una storia millenaria da raccontare.

Poseidone. disegno di Marcello Crescenzi

La dualità tra acqua dolce e acqua salata

Un’antica leggenda orientale racconta che Alessandro Magno andasse per il mondo alla ricerca della Sorgente di Vita accompagnato dal suo cuoco. Questi un giorno lavando un pesce salato in una fonte lo vide improvvisamente riprendere vita: avevano trovato l’acqua dell’immortalità. La dualità tra acqua dolce (piovana o di sorgente) e acqua salata è presente in moltissime culture. L’acqua dolce è femminile, l’acqua spumeggiante, oceanica, maschile; nella mitologia greca primordiale, Pontos (il mare) è sterile e ha bisogno dell’intervento divino per essere in grado di generare.

In Estremo Oriente, nello Shintoismo, la purificazione avviene attraverso l’acqua salata di mare, perché il sale garantisce la conservazione e l’incorruttibilità degli alimenti. Ma l’eccesso di sale corrode, quindi acqua e sale devono essere mescolati con saggezza. Scrisse Euripide che “il mare guarisce le malattie degli uomini” e la scienza, due millenni dopo, gli ha dato ragione: l’acqua di mare contiene più di 90 preziosi elementi minerali che il semplice sale, cloruro di sodio al 97% (più iodio aggiunto dopo la raffinazione) non contiene. Naturalmente per essere utilizzata dall’uomo, quest’acqua va microfiltrata, a freddo, e depurata.

Un porta sale con dentro acqua e pesci. disegno di Marcello Crescenzi

Nell’antichità: balneum maris e acqua pazza

Le origini degli usi alimentari dell’acqua di mare risalgono a pratiche antiche che sono state mitologizzate, e poi codificate, in ricette tradizionali e popolari. Si dice per esempio che la tecnica del “bagno maria” sia stata messa a punto da Marian, sorella di Mosè, o dalla misteriosa alchimista Maria la Giudea; in realtà la pratica di immergere in un bacile di acqua non potabile dolce o salata e calda un recipiente più piccolo, deriva dall’espressione latina “balneum maris”, bagno di mare appunto. Numerose preparazioni culinarie richiedono di utilizzare questa pratica semplice e geniale: gli alimenti riscaldati lentamente in questo modo si fondono perfettamente, con dolcezza e gradualità.

In principio erano i marinai in viaggio: anticamente, a bordo delle navi, per pulire, rinfrescare e cuocere le derrate, pesci e molluschi in primis, si utilizzava l’acqua di mare, così da poter conservare la preziosa acqua dolce per bere. I cibi riuscivano molto saporiti, senza bisogno di tanti condimenti, e l’uso si diffuse. Nacquero così le cotture all’acqua pazza. Non solo di prodotti ittici: gli anziani pugliesi e napoletani ricordano ancora ricette tradizionali di pani impastati con acqua di mare, e polli all’acqua marina. Anche la tradizionale fresella acquasale del Salento viene da qui. Del resto, il mestiere dell’acquaiolo, oggi scomparso, prevedeva che il portatore d’acqua avesse con sé due otri: uno d’acqua dolce, più costosa, e uno di acqua salata più economica. Parliamo di diversi secoli fa, quando il mare era certamente più incontaminato e le norme igieniche sconosciute. Da qualche anno questa pratica si è nuovamente diffusa, prima come una moda e poi come una abitudine salutare. Naturalmente bisogna usare acqua che abbia subìto un processo di sanificazione, così come vale per l’acqua del rubinetto.

Un veliero disegno di Marcello Crescenzi

L’acqua di mare nel XXI secolo: un business

Tutti gli esperti concordano nell’asserire che l’acqua di mare sia molto più di acqua&sale: infatti oligoelementi come cloruro, sodio, solfato, calcio, magnesio e potassio sono presenti in generose quantità. Inoltre contiene in piccole dosi quasi tutti i 92 elementi della tavola di Mendeleev e quindi potenzialmente è la più completa delle acque minerali.

Ma passiamo alla produzione e alla distribuzione di questo alimento. Rimanendo in Europa è la Spagna la leader della commercializzazione dell’acqua di mare, con sei aziende tra cui Agua de Mar, che commercializza anche svariati prodotti, dalle patatine alla pizza e ai succhi di frutta, mentre Lactoduero propone in vendita acqua marina del Cantabrico (dove si lavorano le famose acciughe). In Scozia, Acquamara imbottiglia l’acqua dell’Oceano Atlantico; in Italia svetta la pugliese Steralmar che ha depositato un brevetto per la propria acqua microbiologicamente pura: “riservadimare”. L’innovazione tecnologica, poi, ha permesso, a cascata, la messa a punto di alcuni prodotti agroalimentari molto interessanti, connubio tra le tipicità locali e l’acqua di mare.

Ma cosa si può fare con l'acqua di mare? Nel numero di agosto del mensile del Gambero Rosso passiamo in rassegna gli utilizzi in cucina.

 

a cura di Alessandra Guigoni

disegni di Marcello Crescenzi

 

QUESTO È NULLA...

Mensile di agosto - anteprima del servizio sull'acqua marina

Nel numero di agosto del Gambero Rosso, un'edizione rinnovata in questi giorni in edicola, trovate i birrifici, i pizzaioli, gli chef, italiani e non, che utilizzano l'acqua di mare (tra i primi a utilizzarla nella gastronomia moderna è stato FerranAdrià). Non solo, trovate anche le proprietà, i modi migliori per utilizzarla a casa, i principali produttori e una ricetta by Felice Lo Basso, chef di Felix Lo Basso Restaurant a Milano.

 

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Il Marais dei pasticceri: itinerario fra pâtissier e chocolatier nel popolare quartiere di Parigi

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Un percorso a tappe nel Marais alla scoperta delle migliori pasticcerie dell'affascinante quartiere di Parigi.

 

La pasticceria francese sembra godere – ancora di più - di un momento di grande fortuna e “si esporta bene come lo champagne o le borse di lusso” scrive Les Echos. Girando per Parigi si scoprono vecchi e nuovi indirizzi, quasi impossibile star dietro alle novità. Piccole botteghe di giovani pasticceri emergenti o nuove aperture delle star del settore: la capitale francese si conferma una destinazione di culto per i foodiesgolosi. Il recente Salon de la Pâtisserie che si è svolto negli spazi espositivi di Portes des Versailles con la presidenza di Pierre Hermé, è stata l’occasione per conoscere anche qualche volto meno conosciuto.

Sapori di Siria alla francese

Come Myriam Sabet che ha aperto il suo negozio in rue de la Verrerie, nel cuore del Marais. È la storia personale che ha ispirato a Myriam la sua idea di pasticceria: vissuta la prima infanzia ad Aleppo, si è poi trasferita con la famiglia a Parigi, lavorando inizialmente in altri settori. Poi un soggiorno a Montréal e il contatto con un maestro pasticcere siriano, le hanno aperto la strada verso quello che era il suo obiettivo: creare una linea di pasticceria che unisse i sapori dell’infanzia e della sua città natale, la rosa di damasco, i cedri, il gelsomino, con la grande tradizione francese, utilizzando prodotti selezionati come i pistacchi iraniani, il burro AOC Charentes-Poitou, la panna di Normandia, i limoni di Amalfi.

Entrando nei piccoli spazi della Maison Aleph ci si ritrova in un angolo di Medio Oriente: l’azzurro del Mediterraneo è il colore dominante nel décor creato da Eloïse Bosredon, mentre il packaging che si ispira ai disegni dei pavimenti dei palazzi di epoca Omayade è stato ideato da Romain Chirat. Quanto alla produzione dolciaria, si indirizza su alcuni grandi linee: i Nids (la pasta fillo della tradizione levantina con diverse guarniture rifinita con un cappello di panna montata), anche in versione Nids de voyage (più comodi per l’asporto), le Barres chocolatées (barrette di cereali al cioccolato con grani di girasole, frutta secca, nocciole piemontesi, pistacchi, albicocche e cedri canditi in varie combinazioni) e le 1001 feuilles (reinterpretazione dei baklava). Come accompagnamento c’è qualche bevanda maison, come la deliziosa acqua alla rosa di Damasco, la limonata di limoni di Amalfi e in estate anche i gelati allo yogurt e alla rosa di Damasco.

Dall'alta pasticceria al take away in barattolo

Poco distante, sempre in rue de la Verrerie, c’è la piccola boutique di Christophe Michalak, uno dei quattro indirizzi parigini di un pasticcere che, a soli 44 anni, è uno dei volti più conosciuti dei canali televisivi francesi. Da MasterChef a Le gâteau de mes rêves le sue apparizioni non si contano, come pure le esperienze da grandi nomi – Fauchon, Pierre Hermé e Alain Ducasse per il quale curò la pasticceria al Plaza Athénée - mentre fra i titoli conquistati sul campo ci sono la Coppa del mondo della Pasticceria vinta nel 2005 come componente della squadra francese e la nomina nel 2013 a miglior pasticcere dell’anno.

Presto aprirà in Giappone, i suoi libri continuano ad essere un successo, come pure le masterclass che si svolgono al CaféMichalak in rue du Faubourg Poissonnière. Per le sue creazioni più famose (religieuses, macarons, kouglof, opéra e i popolarissimi dolci in barattolo Cosmik) si fa spesso la coda, anche nel Marais.

 

La street patisserie

In rue des Rosiers c’è uno dei tre indirizzi parigini di Yann Couvreur. Dopo essersi formato nelle cucine di grandi ristoranti e palace come il Trianon, Le Carré des Feuillants, Park Hyatt, Hôtel Burgundy, Prince de Galles, Yann – figlio di un libraio – apre nel 2016 il suo primo indirizzo in rue Parmentier e in seguito si installa nel cuore del Marais (adesso è anche presente alle Galeries Lafayette di Boulevard Haussmann). In rue des Rosiers c’è un banco vendita con possibilità per i clienti di sedersi e degustare sul posto. Sulla destra, il piccolo laboratorio a vista. Al mattino si parte con le colazioni con caffè bio, succhi di frutta (ananas-zenzero-coriandolo) e dolci a scelta; a mezzogiorno c’è la pausa salata con la proposta di panini, roulé, sfoglie, quiche. Alle due finestrelle del laboratorio che affacciano sulla strada è possibile ordinare il proprio dolce preferito: fra tutti la millefeuille, dolce simbolo di Yann fin dai tempi in cui lavorava al Prince de Galles. Il suo principio cardine è quello della desacralizzazione della pasticceria haut de gammeportandola “sulla strada” alla portata di tutti.

Cioccolato e vino

Le novità non mancano fra le strade del Marais, come al 43 di rue des Archives dove Patrick Roger ha aperto il suo settimo negozio parigino. Il locale è abbastanza minimal, con qualche bella “scultura” in cioccolato, ma la qualità è la stessa degli altri indirizzi. In vendita c’è anche L’Instant 2016, la prima annata del vino (Syrah affinato in anfore) che il cioccolatiere-artista produce nel dipartimento dei Pirenei Orientali.

Il regno del sablé

Portandoci verso l’Haut Marais, zona meno turistica ma dall’anima autentica, si può fare una sosta da Bontemps in rue de Bretagne, una pasticceria aperta circa tre anni fa che ha fatto del sablé il suo cavallo di battaglia. Pasta poco zuccherata, con un’aggiunta di fleur de sel, farciture al frutto della passione, alla vaniglia del Madagascar, al limone bio di Sicilia, al cioccolato. Il sablé Gianduja ha come ingrediente, ça va sans dire, le nocciole del Piemonte.

Jacques Genin, il fondeur en chocolat

La destinazione finale della passeggiata nel Marais non può che essere La Chocolaterie al numero 133 di rue de Turenne, indirizzo ben conosciuto da molti appassionati di cose dolci. E’ la sede del laboratorio di Jacques Genin, uno dei grandi nomi della pasticceria francese. Questo chef pâtissier autodidatta che ama definirsi fondeur en chocolat ci accoglie a piano terra negli eleganti spazi della pasticceria e del salon du thé, ma ci conduce immediatamente al primo piano dove si trova il laboratorio, il suo regno. Il carattere generoso e infinitamente curioso di Genin si nota nel momento in cui presenta in degustazione una parte significativa della sua produzione: non dice quasi nulla sulle ricette, si aspetta un commento, gli occhi sorridono in attesa di capire cosa l’interlocutore ha colto del suo lavoro, se ci si stupisce di fronte a un accostamento di gusti, a un sapore inaspettato.

Genin ha sempre sostenuto che La Chocolaterie deve essere un luogo aperto, di confronto non necessariamente con altri professionisti della pasticceria. La degustazione corre sui grandi classici di Genin: la gamma di cioccolatini, torta al limone verde e basilico, Paris-Brest, millefoglie con varie farciture (cioccolato, praliné e vaniglia), le inarrivabili paste di frutta. Un solo avvertimento: se volete portarvi a casa una torta dovete ordinarla con 24 ore di anticipo. In alternativa, si possono gustare direttamente sul posto. Uno dei principi cardine di Genin è “tutto fatto al momento secondo richiesta, tutto fresco”.

 

Maison Aleph – Francia – Parigi - rue de la Verrerie, 20 - 0983034202

Christophe Michalak – Francia – Parigi - rue de la Verrerie, 16 – +33 0140279013 - www.christophemichalak.com

Yann Couvreur – Francia – Parigi - rue des Rosiers, 23 bis - www.yanncouvreur.com

Patrick Rogers – Francia – Parigi - rue des Archives, 43 - +33 0961683930 - www.patrickroger.com

Bontemps – Francia – Parigi - rue de Bretagne, 57 – 0142741068

Jacques Genin - – Francia – Parigi - rue de Turenne, 133 - 0145772901; www.jacquesgenin.fr

 

 

a cura di Dario Bragaglia


Street food, sì, ma di pesce. 4 indirizzi tutti a provare a Catania

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Uno sguardo all’insù verso l’Etna, a Muntagna, come la chiamano da queste parti, e uno nel profondo mare, Catania traduce la sua duplice natura geofisica in una identità culinaria unica, con la cucina di pesce a fare la parte del leone. Anche in versione street food.

 

Nel capoluogo etneo che ha dato i natali al fenomeno Fud (ora anche a Palermo e Milano), la bottega che interpreta in chiave sicula e moderna il classico fast food, si affacciano oggi realtà nuove di street food mentre alcune di quelle esistenti già da tempo trovano una chiave diversa, informale e disinvolta – in una parola, appunto, “street” - per portare avanti tradizioni secolari legate al pesce e ai prodotti facili da consumare anche senza coltello e forchetta, in piedi o camminando. Più che puntare verso l’alta ristorazione, infatti, a Catania si preferisce proporre la tradizione della cucina di mare in versione cibo di strada (ma gourmet), con panini, taglieri o cartocci di pesce elaborati in menu che accostano sapori di una volta e abbinamenti nuovi, partendo sempre dalla materia prima, la cui scelta non è mai lasciata al caso.

Arancini con sugo di pesce

mm! Street Food

Come mm! Macelleria Marino e il loro nuovissimo mm! Street Food. Tutto ha inizio più di 30 anni fa con la storica macelleria della famiglia Marino che diventa palestra di vita e professionale per i fratelli Carmelo e Gaetano, che insieme oggi gestiscono il ristorante, la trattoria e il locale di street food di pesce. “Sono stato il primo, insieme alla mia famiglia” dice Carmelo “a servire nella macelleria di famiglia, tanti anni fa, i panini con la carne e il pesce che oggi sono diventati il famoso street food”. Studi agrari, esperienze all’estero e poi il ritorno nella sua Catania dove Carmelo, appresa sin da bambino l’arte di lavorare la carne, continua l’attività con il ristorante e la trattoria laddove un tempo c’era la famosa macelleria.

Il recentissimo mm! street food riprende la nostra tradizione dei panini con il pesce, ma con un menu totalmente nuovo che molti dicono gourmet e noi diciamo anche e soprattutto artigianale, naturale, locale, stagionale. Uno street food dove la differenza sta nella qualità delle materie prime e nel modo in cui il pesce viene lavorato”. Ed è Carmelo a trattare personalmente il pesce che sceglie ogni giorno da fidatissimi venditori negli adiacenti banconi della pescheria e lo propone in piatti che accostano sapori semplici ma mai banali. Il menu è veloce e fresco, studiato per un viaggio nei sapori dell’Isola, partendo proprio da Catania.

Come il fish burger di tonno con salsa di yogurt, insalata mista, pomodoro, provola affumicata o l’hot dog di pesce con caciocavallo ragusano, cipolla rossa in agrodolce, o la ciabatta con carpaccio di tonno e la mozzarella burrata. Ci sono anche i famosi arancini catanesi ma questa volta solo di riso bianco serviti su un sugo di pesce, le sarde a beccafico, la parmigiana di pesce spada e il coppo di pesce misto fritto. Ancora all’Isola è legata la scelta dei vini e delle birre artigianali, tutti rigorosamente made in Sicily.

 

 

Panino con tonno crudo

Fishiaria

Restiamo sempre nel cuore del centro storico di Catania, non lontano dalla brulicante e iconica pescheria, dove è nato Fishiaria, un progetto voluto da Giuseppe D’Aquino e Cristina Messina che hanno deciso di puntare principalmente sul pesce crudo e marinato per i piatti così come per i panini di mare, anche se di recente in cucina si prepara anche qualche piatto caldo. C’è il panino di tonno crudo, pomodoro, chips, stracciatella, guanciale, vellutata di basilico e mandorle e quello di polpo, nduja, rucola, cavolo nero in agrodolce e pomodoro. Tra i più gettonati anche il panino gourmet ai gamberoni crudi, maionese all’avocado, rucola, ciliegino, guanciale croccante e quello con alici, misticanza, tuma, pistacchio. Ancora e solo pesce crudo nei taglieri di misto mare, le tartare di orata, spigola, salmone, tonno e pesce spada; il carpaccio di pesce ma anche il ceviche di salmone servito con il mango, l’arancia, menta e mandorla.

Abbiamo scelto di proporre soprattutto pesce crudo perché volevamo creare un menu che avesse una linea di continuità pur nella varietà delle proposte” dicono Giuseppe e Cristina. “I nostri crudi sono sempre abbinati alla frutta fresca e le verdure nonché ai vini e alle birre siciliane” continuano “Stiamo puntando molto anche sui nostri cocktail. È un nuovo modo di gustare il pesce purché si scelga sempre la qualità e soprattutto la freschezza del prodotto locale”. Chiediamo loro perché a Catania manca un indirizzo di alta ristorazione. “Perché forse manca il pubblico o perché oggi un ristorante di un certo livello rappresenta un impegno non facile da gestire” rispondono, ma poi aggiungono “sono cambiati anche i tempi e le abitudini alimentari. Si preferisce una ristorazione facile, pratica, veloce ma di qualità. Quella del panino gourmet di pesce sembra essere perfetta perché coniuga tradizione e innovazione”.

 

Frittura

Scirocco, Sicilian Fish Lab

Sullo street food di pesce hanno puntato da tempo anche i ragazzi di Scirocco, Sicilian Fish Lab, un locale nato da una vecchia macelleria che si affacciava sulla pescheria e oggi recuperato nella forma di un chiosco con i tavoli all’aperto. Fritture di calamari, gamberi, seppioline, alici avvolte nei tradizionali cartocci di carta di paglia ma anche gli arancinetti di pesce, le sarde a beccafico, le polpettine di baccalà, gamberetti, alici. Piatti semplici, veloci, pesce fresco di giornata lavorato come da tradizione siciliana legata al cibo di strada.

 

Arancino di mare

Anchovy Fish Bar

Non lontano da Catania, ad Acitrezza, nella Riviera ciclopica famosa per le sue storie legate al mito (Ulisse) e alla letteratura (I Malavoglia di Giovanni Verga), c’è Anchovy Fish Bar dove troviamo ancora la formula del pesce proposto in street food in versione gourmet. Si parte sempre dalla tradizione siciliana, in questo caso gli arancini di pesce al nero di seppia e ricotta di bufala o ai gamberi e pistacchio, si continua con i classici “coppi” di paranza e fritto del giorno, fino agli ormai immancabili panini di mare ricercati nell’accostamento di pesce, formaggio e verdure. Come il panino Anchovy, un burgher di alici, cipolla caramellata, cremoso di caciocavallo e salsa in finocchietto selvatico o quello di tonno con pistacchi tostati e cipolla di Giarratana stufata.

A guidare la cucina c’è lo chef Danilo De Pietra che il proprietario Andrea Rosa ha voluto dopo aver maturato l’idea di un fast food di qualità. “Vogliamo comunicare al pubblico” dice Danilo “un nuovo modo di fare street food di pesce: di qualità. Perché nel classico cibo di strada catanese spesso la qualità manca, mentre noi puntiamo soprattutto sulla scelta attenta delle materie prime. Che per noi significa pesce fresco che viene da una filiera controllata, riso siciliano, verdure locali, formaggi siciliani”. Quale è la vostra proposta? “Abbiamo studiato insieme un menu stagionale dove il pesce viene lavorato e trattato in maniera minimale esaltando il gusto e l’odore”. Quando è che un panino diventa gourmet? “Quando c'è una materia prima di qualità e una personale interpretazione delle ricette con diversi ingredienti come formaggi, verdure, legumi, con l’apertura a ricette internazionale come il nostro panino con l’astice nel classico stile americano”.

 

mm! Street Food – Catania - via Pardo, 26 - 095 348897

Fishiaria Quality food and Cocktail - Catania - via Riccioli, 4/6 - 095 6179932- http://www.fishiaria.it/

Scirocco, Sicilian Fish Lab – Catania - piazza Alonzo di Benedetto 7 - 095 8365148
328 9237 991- http://www.sciroccolab.com/

Anchovy Fish Bar – Aci Castello (CT) - via Provvidenza - 095 711 6047

 

a cura di Liliana Rosano

 

 

 

 

Quali pesci preferire in estate nel versante Mediterraneo. I consigli di: Caterina Ceraudo, Luca Casablanca e Pino Cuttaia

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Termina qui, nel Mediterraneo, il nostro viaggio lungo le coste e i mari d'Italia alla scoperta dei pesci estivi. Un cammino che abbiamo intrapreso assieme a chef che questo prodotto lo lavorano ogni giorno, oggi è la volta di Caterina Ceraudo, Luca Casablanca e Pino Cuttaia (che ci ha regalato anche una ricetta).

 

Approdiamo in Calabria e in Sicilia per scoprire qual è il pesce di stagione in queste zone, con l'aiuto di tre grandi chef: Caterina Ceraudo, Luca Casablanca e Pino Cuttaia, il quale ci ha svelato anche una ricetta facilmente replicabile a casa.

Dattilo

Caterina Ceraudo

Strongoli è un piccolo centro a due passi dal Mar Ionio, lontano dalle principali vie di comunicazione e fuori dai circuiti turistici. Eppure, proprio qui, il coraggioso Roberto Ceraudo ha dato vita a una vera oasi nel deserto tra vitigni e cultivar locali, mandarini, clementine e un antico frantoio a ospitare quel che oggi è il regno di Caterina Ceraudo. Chef giovane e tenace, che dopo essersi laureata in enologia, ha frequentato la scuola di Niko Romito per intraprendere con consapevolezza questa strada, mantenendo sempre ben saldi alcuni principi, parliamo di precisione ed eleganza, ma anche di grandi materie prime, tanta freschezza e sapori decisi, come quello del pesce azzurro, il suo prediletto. “Amo tanto il pesce azzurro, sia marinato che cotto al forno o fritto, è un prodotto che ha già un sapore deciso, quindi come lo fai, risulta eccezionale”. Ma tornando ai pesci estivi, adesso sui banchi del mercato quali si trovano? “È stagione dei pesci di paranza, come le triglie, i merluzzi o gli occhialoni, tipici pesci del mare calabrese”.

Tischi Toschi

Luca Casablanca

È bella Taormina e passeggiare tra i suoi vicoli regala un'immagine unica delle bellezze della Sicilia, dal teatro greco a quello romano, dalle architetture arabeggianti di alcuni palazzi storici alle colonne romane che oggi ornano le facciate di certe case gentilizie. E proprio al piano terra di un antico edificio a ridosso del corso, si apre il minuscolo locale di Luca Casablanca, dove si respirano passione, dedizione e attenzione ai dettagli, anche e soprattutto quando si tratta delle materie prime, come il pesce. “Da noi il pesce non manca, in nessun periodo dell'anno. Adesso abbiamo ancora il pesce spada, poi pesci locali come i pettini che si fanno fritti, stamattina”Luca solitamente va a “fare la spesa” tra Marina di Riposto e Messina“ho trovato anche gamberoni freschi, alalunga a carne bianca, scorfani belli grossi, polpi”. Ma se c'è un pesce che gli dà più soddisfazioni di altri, è senza dubbio la bruttina quanto buona rana pescatrice. “Qui è un pesce abbastanza raro perché bistrattato, un tempo era cibo dei pescatori, ma quando arrivano esemplari da 20-25 chili, mi emoziono. Ha una bella consistenza, la carne è ottima e noi la facciamo con una salsa agli agrumi che gli dona delle note leggermente agrodolci”. Una goduria che sa di Sicilia, la stessa Sicilia che ospita un'altra grande tavola, quella di Pino Cuttaia.

La Madia

Pino Cuttaia

Licata è lontana da tutto, specialmente dalle mete più frequentate dell’isola, ma qui c'è Pino Cuttaia, grande cuoco e instancabile lavoratore che sa coniugare, come pochi altri, sapori del sud, tradizioni e tecniche innovative. La sua cucina è materica e attinge dal territorio circostante, dalle campagne a un passo da qui che stagionalmente regalano verdure intense, ai pesci, probabilmente i migliori di questo mare, che lo chef conosce a menadito. “Il rapporto che ho con il mare è principalmente un rapporto di attesa, ovvero aspetto impaziente l'arrivo di determinati prodotti, un po' come avviene con le pesche o le ciliegie. In questo periodo nelle pescherie si trovano seppioline, calamaretti, polipetti, triglie (con le quali solitamente si fa la frittatina). In generale è la stagione dei pesci piccoli, quelli destinati a crescere, quelli che rimandano al gesto domestico: ricordo quando arrivavano tutti questi pesci e mamma e zia, sedute su due seggiole con una bacinella piena d'acqua di mare tra le gambe, svisceravano e squamavano a ritmo incessante e con un unico obiettivo, la frittura. Ecco questa è la stagione della frittura e della prima raccolta nel mare”. La ricetta che ci regala non prevede la frittura, ma regala altrettante soddisfazioni.

Ravioli di calamaro, ripieni di tinniruma di cucuzza, con salsa di acciughe

Ravioli di calamaro di Pino Cuttaia

Ingredienti per 4 persone

200 g di calamari

200 g di tinniruma (germogli della pianta di cucuzza siciliana)

100 g di ricotta vaccina

50 g di cipolla

50 g di olio extravergine d’oliva

Sale

La sfoglia. Per questa preparazione utilizzare solo il manto (o sacca) del calamaro. Dopo averlo ben pulito e spellato, lavare e asciugare perfettamente e frullare fino a ottenere una crema liscia e appiccicosa da trasferire in un sac à poche con bocchetta liscia. Far uscire delle palline, da appiattire con il batticarne fra due fogli di carta da forno in modo da ottenere una sfoglia sottilissima, quasi trasparente. Immergere queste sfoglie in acqua a 70°C per 10 minuti.

Il ripieno. Dopo averla lavata, sbianchire la tinniruma nell’acqua salata in ebollizione, per 2 minuti, poi scolarla e passarla subito in acqua e ghiaccio perché mantenga un bel colore verde, quindi strizzarla fra le mani. Scaldare l’olio in una padella e far rosolare dolcemente la cipolla tritata, quindi unire la tinniruma e lasciarla cuocere, a fiamma bassa, per 10 minuti. A questo punto unire la ricotta sbriciolata, mescolare, regolare il sale e proseguire la cottura, sempre a fuoco dolce, fino a che il liquido si è asciugato completamente. Infine frullare con il minipimer.

Per la salsa di acciughe

250 g di latte

uno spicchio d’aglio

50 g di olio extravergine di oliva

20 g di filetti d’acciuga sotto sale

Versare il latte in un pentolino, unire lo spicchio d’aglio spellato e metterlo sul fuoco al minimo. Lasciare ridurre fino a quando si addensa e assume una consistenza simile a quella della panna. A questo punto aggiungere l’olio e i filetti di acciuga dissalati; proseguire la cottura per altri 5 minuti. Frullare con il minipimer per ottenere una salsa liscia e cremosa.

Per guarnire

4 scampi appena scottati e sgusciati

Preparare il raviolo al momento del servizio, evidenziando la trasparenza dell’involucro. Allargare dunque una sfoglia di calamaro sul piatto, mettere al centro un cucchiaio di ripieno e chiudere con un’altra sfoglia. Completare il piatto con la salsa e, infine, guarnire con uno scampo appena scottato da una sola parte.

 

Dattilo - Strongoli (KR) – c.da Dattilo – 0962865613 - dattilo.it

Tischi Toschi - Taormina (ME) – 3393642088 - tischitoschitaormina.com

La Madia - Licata (AG) – corso Filippo Re Capriata, 22 – 0922771443 - ristorantelamadia.it

 

a cura di Annalisa Zordan

 

La mappa dei pesci estivi

Tirreno Nord. I consigli di: Enrico Marmo, Davide Cannavino e Valentino Cassanelli

Tirreno Centro. I consigli di: Luciano Zazzeri, Fulvietto Pierangelini e Gianfranco Pascucci

Tirreno Sud. I consigli di: Giorgio Scarselli, Rinaldo Merola e Martina Caruso

Adriatico Nord. I consigli di: Maria Grazia Soncini, Lionello Cera e Francesco Brutto

Adriatico Centro. I consigli di: Gennaro D'Ignazio, Mauro Uliassi e Moreno Cedroni

Adriatico Sud. I consigli di: Domenico Cilenti, Pasquale Cetrone, Marco Carone e Floriano Pellegrino

 

Libri. Viaggio alle sorgenti del tè

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Un viaggio in 7 tappe e altrettante tipologie di tè per conoscere tutto quanto si cela dietro la bevanda più consumata al mondo dopo l'acqua. Tra reportage, libro fotografico e monografia dotta, un volume imperdibile pieno di informazioni, bellissime immagini, aneddoti e storie sul tè.

 

Più di 500 pagine per raccontare il tè, dalle origini alla commercializzazione, dalla produzione alle leggende, delle piantagioni alle denominazioni, dalle tipologie ai modi di consumo, dalle fasi di lavorazione alle classificazioni, all'assaggio. Un'opera di gran pregio, nei contenuti come nella forma, con foto intense che testimoniano il lungo lavoro di ricerca che ha dato vita a Viaggio alle sorgenti del tè. Quasi 3 anni di lavoro, 4 mesi di viaggio, migliaia di chilometri percorsi, “dall'Oceano Indiano al Mar della Cina, dai piedi dell'Himalaya alle vette del Fujiyama” in 7 regioni produttori di tè. Tanto è servito per andare a fondo e scoprire l'essenza della seconda bevanda più consumata al mondo (dopo l'acqua).

A firmare questa bellissima monografia, Catherine Bourzat, esperta di Asia, che ha più volte attraversato alla ricerca di luoghi, storie e ricette da tradurre in racconti, guide e libri di viaggio. Insieme a lei, in questa lunga avventura, Laurence Mouton, appassionata di cucina e di viaggi, food stylist, illustratrice e fotografa.

Prima fermata: Sri Lanka e il Ceylan

Il punto di partenza di questo incredibile diario di viaggio è lo Sri Lanka, “Lanka la risplendente” (e il suo Ceylan), punto di snodo per la via delle Indie e “teiera dell'impero delle Indie britanniche”. La prima piantagione visitata è Hantane, con il suo vicino museo del tè, e una tradizione che risale alla fine dell'Ottocento, ai tempi dell'impero coloniale britannico, quando la pianta arrivò dall'India e in pochi decenni conquistò il mercato europeo. Oggi gli usi sono ancora quelli di un tempo, con la manodopera (erede di quella arrivata al seguito della pianta) che abita in casupole malconce vicine ai campi in cui lavora a condizioni durissime. Qui si beve un infuso dal gusto forte, che si addolcisce leccando un po' di zucchero versato nell'incavo di una mano. Si fa tappa poi a Nuwara Eliya (dove il tè è parte del marketing turistico) e Ad Uva (dove si usa consumare il tè mescolato energicamente con zucchero e latte in polvere), si passa a Upcot per visitare una torrefazione modello dall'organizzazione rigorosissima e osservare le fasi di lavorazione. In un racconto denso di dettagli affascinanti e notazioni intime e preziose si continua il viaggio. Non sono che le prime suggestioni, quelle che aprono a un mondo fatto di appunti arguti, panorami illustrati, cartine geografiche, dettagli e aneddoti, battute da bar e affettuosi ritratti di vite lontane, quelle organizzate intorno alle piantagioni. Storie di povertà, di grandi aziende e piccoli operai, di minime attività familiari. Di progressi e cambiamenti, come la nascita della ferrovia in Sri Lanka, proprio per assicurare la commercializzazione del tè. Quella che può considerarsi l'antenata del Darjeeling Himalayan Railway.

 

Un viaggio a tappe

Dopo lo Sri Lanka si approda nel Giappone del Shincha, dove la campagna è uniforme e accoglie una agricoltura meccanizzata e di grandissima precisione. Si sale e si scende di altitudine per testare le varietà del tè, frutto della terra, del clima e della mano dell'uomo. Questa è la regione del tè verde, dal sapore fragilissimo e le proprietà benefiche. Qui si scopre la ceramica giapponese e un metodo di preparazione in tre tempi e tre temperature dell'acqua, studiato da un'anziana di Tokoname che colleziona coppe e teiere. Si passa di città in città, ogni volta con un ritratto da conservare: i wagashi di Fujinomiya, dolcetti per accompagnare il tè, le aste, le moderne confezioni di bevanda già pronta, le colazioni a base di soba e udon, la suggestiva cerimonia del tè. Si approda poi all'India del Darjeeling: Calcutta, Tumsong, Ging e così via, a raccontare il tè e le persone del tè, proprietari di piantagioni e operai, raccoglitrici, giovani e anziani e via così, snocciolando questioni di pressante attualità, e visioni dal tetto del mondo. Si passa a Taiwan per l'Oolong, con Taipei e il suo tè a palline, e tante tappe e altrettante miniature di vita legate al protagonista del libro. Si vola verso la Cina e i suoi Pura Luce, e poi di nuovo in Giappone per il Maccha, per terminare questo lungo viaggio in Birmania alla volta dei Le-phet. In mezzo ci sono sempre panorami gustativi, geografici, umani e sociali, storia e storie da conoscere e raccontare.

Così si passa di regione in regione, di immagine in immagine, cambiando altitudini e sapori. Si incontrano donne in sari immerse fino alla vita nelle piante del tè che, con gesti rapidi e precisi prendono solo la gemma e le prime due foglie in cui risiede la quintessenza del tè; si studia l'opera dei maestri del tè e l'abilità dei tea taster, le tecniche di degustazione e valutazione, si intercettano elementi di botanica, agronomia, chimica, si scoprono componenti e proprietà, i segreti commerciali, i sandwich e la piccola pasticceria, la storia e le opere di alcuni dei più importanti nomi della storia del tè, come Thomas Lipton (l'inventore del tè confezionato in pacchetti singoli) e Twinings (cui si deve la nascita dei blends).

 

Un proverbio cinese dice: “Quand'anche passassi tutta la vita a studiare il tè, non ne conoscerai mai tutti i nomi”. E forse 500 pagine non sono sufficienti, ma sono abbastanza per far innamorare di questa incredibile bevanda.

 

 

Viaggio alle sorgenti del tè - Catherine Bourzat e Laurence Mouton - Guido Tommasi Editore -

520 pagine - 35 €

 

a cura di Antonella De Santis

Mangiare in aereo. Le ultime idee dalla ristorazione di bordo: come gli astronauti sui voli Lufthansa, la fattoria all’avanguardia di Emirates

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Per migliorare il servizio di ristorazione in volo, le grandi compagnie di linea cercano soluzioni innovative, collaborano con celebri chef, propongono servizi su misura. Le ultime idee più originali? La fattoria verticale di Emirates e i pasti per astronauti di Lufthansa. 

 

Mangiare in volo

Che mangiare bene a bordo di un aereo sia ancora un terno al lotto non è un luogo comune. Troppo spesso anche le più blasonate compagnie di linea offrono (nel migliore dei casi, perché spesso parliamo di servizi a pagamento) pasti trascurabili e insapore, dimenticando completamente gusto ed estetica. Negli ultimi anni, però, non pochi gruppi del settore hanno scelto di puntare su un miglioramento dei servizi al passeggero che passa anche dalla qualità dell’offerta gastronomica (un sito per viaggiatori che non vogliono rischiare brutte sorprese recensisce le migliori e peggiori esperienze col cibo in aereo). E in questo senso non sono mancati esperimenti con grandi chef al servizio delle esigenze di volo (con menu ideati ad hoc per essere facilmente riscaldati e serviti ad alta quota, e persino qualche estemporanea apparizione a bordo, per cucinare in occasione di tratte speciali) e team esperti al lavoro per ideare nuove soluzioni esclusive. Contemporaneamente anche l’offerta degli aeroporti, sempre più inclini a ospitare moderne food hall, è migliorata in direzione di una proposta più variegata e di qualità: non pochi chef hanno deciso di sposare la causa e diversi sono gli scali aeroportuali gourmet rintracciabili nel mondo, da Heathrow a Londra all’aeroporto Leonardo da Vinci di Fiumicino, che ormai quasi due anni fa inaugurava un nuovo terminalad alta concentrazione di insegne ambiziose, con gli Attimi di Heinz Beck, la cucina di Cristina Bowerman per Autogrill, il ristorante di Michelangelo Citino (senza dimenticare l’Open Bistro di Antonello Colonna, veterano dello scalo romano).

 

La fattoria verticale di Emirates

Ma c’è pure chi progetta ambiziosi piani per il futuro, come l’Emirates Flight Catering, la compagnia che fornisce prodotti e alimenti agli aeroporti emiratini: in accordo con il gruppo Crop One, specializzato nella realizzazione di fattorie verticali, la compagnia finanzierà la costruzione della fattoria verticale più grande del mondo, a partire dal prossimo inverno a Dubai. I lavori richiederanno oltre un anno per essere completati, ma quando la struttura di oltre 12mila metri quadri sarà operativa garantirà l’approvvigionamento di prodotti sempre freschi (365 giorni all’anno, senza l’utilizzo di pesticidi e in ambiente controllato con strumenti digitali di precisione) per le oltre 100 compagnie aeree e i 25 lounge aeroportuali del Dubai International Airport serviti da Emirates. L’ambizione del progetto fa già parlare della più grande operazione di ristorazione aerea del mondo, anche per la netta riduzione dell’impatto ambientale in termini di emissioni di anidride carbonica legate al trasporto dei prodotti (oggi gli Emirati importano l’85% dei prodotti alimentari, mentre la fattoria verticale restituirà 2700 chili di frutta e verdura al giorno, senza dispendio eccessivo di risorse idriche). 

 

Cibo per astronauti… In aereo

Di tutt’altro stampo è l’operazione fin quasi goliardica di Lufthansa, già molto attiva nello sviluppo di soluzioni innovative per coccolarei propri clienti a bordo. Dalla fine di agosto la compagnia tedesca offrirà ai passeggeri che volano in business class su voli a lungo raggio in partenza dalla Germania la possibilità di ordinare un pasto molto speciale. L’obiettivo? Simulare per il tempo di un pasto l’impressione di essere nello spazio, in compagnia degli astronauti di una missione spaziale. Anzi, una nello specifico, quella della stazione spaziale ISS, dove il tedesco Alexander Gerst e il suo team si trovano dall’inizio di giugno. All’inizio dell’anno, infatti, anche il gruppo LSG Lufthansa ha collaborato con l’Agenzia spaziale europea per ideare sei pasti calibrati sulle esigenze di un astronauta in vista della missione tedesca; le stesse pietanze saranno servite su richiesta in business class, in speciali contenitori simili a lattine, molto simili a quelli utilizzati dall’equipaggio della stazione spaziale. Ma non c’è da aspettarsi specialità astruse: come molti astronauti obbligati a trascorrere molti mesi lontano da casa, anche Gerst, originario della Svevia, ha scelto di portare con sé piatti che gli ricordassero la cucina di tutti i giorni, seppur ripensata tenendo conto dell’assenza di gravità. Quindi largo a spatzle, pollo con funghi e ragù, maultaschen (una pasta ripiena tipica della Baviera). Non si può dire che i creativi di Lufthansa manchino di originalità.

 

a cura di Livia Montagnoli

Nasce il marchio Prodotto di montagna. Centinaio per la valorizzazione delle imprese montane

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Firmato dal Ministro delle politiche agricole alimentari, forestali e del turismo il decreto che istituisce il marchio identificativo del regime di qualità “Prodotto di montagna”. I primi passi di Centinaio. 

 

Il ministro

È sull’esponente leghista Gian Marco Centinaio che il nuovo governo italiano ha scelto di fare affidamento per portare avanti le linee programmatiche del contratto di governo redatto da Lega e M5S in materia di tutela dell’agricoltura, sostegno della piccola pesca e made in Italy. Dopo aver ricevuto un primo cartellino giallo lo scorso 9 luglio, quando la filiera nazionale del vino gli ha inviato una lettera-appello con cui lo ha invitato a velocizzare alcune pratiche fondamentali per tutto il comparto, come la nomina del Comitato nazionale vini del Mipaaf e il bando Ocm promozione, Centinaio continua il suo percorso destreggiandosi fra i principali nodi del settore agroalimentare italiano.

Il marchio

Fra le prime mosse, la creazione di un nuovo marchio di qualità, il Prodotto di montagna, che identifica tutte le materie prime che provengono da zone montane e gli alimenti trasformati, stagionati o maturati in montagna. “Tutelare i prodotti di montagna vuol dire premiare il lavoro di migliaia di piccole e medie imprese che contribuiscono a tenere viva l’economia del nostro Paese”, ha spiegato il Ministro in una nota. “Questo vuol dire anche riconoscere il valore sociale, ambientale e turistico di queste aree”. E aiutare il pubblico a selezionare con consapevolezza gli ingredienti: “Con questo marchio, inoltre, sempre nell’ottica della maggiore trasparenza e tracciabilità, sarà più facile per i consumatori riconoscere e scegliere queste produzioni Made in Italy”.

Il settore agricolo montano

Il logo – verde, con una montagna stilizzata – può essere utilizzato sui prodotti previsti dal regime di qualità omonimo (attualmente, non è ancora disponibile il disciplinare per ottenere il marchio). Ma quanto conta, oggi, l’agroalimentare montano per il comparto nazionale? Secondo i dati della Fondazione Montagne Italia, il valore dell’agricoltura montana in Italia è di 9,1 miliardi di euro (6,7 miliardi negli Appennini e 2,4 miliardi nelle Alpi). Proprio in occasione della nascita del nuovo marchio, poi, l’Uncem (Unione Nazionale Comuni Comunità Enti Montani) ha rivelato i dati relativi agli occupati nel settore, che tra il 2011 e il 2016 sono aumentati del 10% nelle province alpine.

Il valore delle imprese di montagna

Numeri che “confermano quanto il comparto, con le sue filiere, sia importante”, ha commentato Marco Bussone, Presidente nazionale Uncem. E continua: “Con le associazioni di categoria, grazie al lavoro che il Ministro Centinaio e tutto il Mipaaf stanno facendo, vogliamo valorizzare e far crescere le imprese e alimentare una nuova consapevolezza culturale nel consumatore”. Secondo Bussone, il marchio permetterà ai cittadini di “riconoscere più facilmente dalle etichette le produzioni e supportare queste attività e il loro valore non solo economico, ma sociale e ambientale”. Proprio nei giorni scorsi, infatti, Uncem ha lanciato il programma “Compra in valle, la Montagna vivrà”, per invitare il pubblico a scegliere botteghe e imprese agricole artigianali delle Alpi e degli Appennini.

a cura di Michela Becchi

Rural Festival 2018. L'appuntamento con la biodiversità in Emilia

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Torna uno dei festival più attesi dagli amanti dell'agricoltura, ancora una volta nel Parmense. È il Rural Festival, fiera della biodiversità che fa luce sul patrimonio rurale dell'Emilia Romagna, la Toscana e, quest'anno, anche della Liguria. 

 

Il festival della biodiversità

A Rivalta di Lesignano de' Bagni parlare di biodiversità non è un mero esercizio di stile. Lo testimonia da cinque anni a questa parte la manifestazione che raduna agricoltori e allevatori della zona – la fertile Food Valley parmense – al Parco Barboj, nella fattoria dell'azienda Rosa dell'Angelo. E come potrebbe essere altrimenti in questa terra collinare che custodisce come un'arca di Noè la memoria di razze autoctone pregiate e varietà molteplici di uve storiche, mele antiche, fichi e pomodori, zucca Violina e pera nobile? Così anche quest'anno, l'8 e il 9 settembre, il patrimonio rurale dell'Appennino Tosco-Emiliano si mette in vetrina al Rural Festival, a breve distanza da storici centri enogastronomici come Langhirano e Traversetolo.

I prodotti

Due giorni di festa all'aria aperta per scoprire una quarantina di aziende custodi di razze animali e varietà ortofrutticole dimenticate, disseminate tra le province di Parma e Reggio Emilia. Produttori attenti che offriranno in degustazione assaggi di arrosticini di pecora Cornigliese, carne fresca di Cinta Senese, pane di grano del Miracolo e Marocca di Casola, polenta Formenton Ottofile Garfagnana, testaroli della Lunigiana con farro, gnocchi di patata Cetica, polpa di pomodoro Riccio di Parma e molto altro ancora, in quella che non è semplicemente una mostra-mercato, ma una vera esperienza di cultura gastronomica all'interno di una riserva dove uomo e natura convivono all'unisono.

La quinta edizione

Novità di quest'anno, le specialità della vicina Liguria. Il motto? Tornare indietro per andare avanti e guardare al futuro. Si potranno quindi assaggiare le prelibatezze degli stand gastronomici, confrontandosi direttamente con i produttori, ascoltando le loro storie, e recuperando quel legame innato con la natura che spesso dimentichiamo. In mostra anche modelli di trattori Landini e Lamborghini realizzati tra gli anni '30 e '50, che verranno messi in moto dagli esperti per la gioia dei bambini ma anche degli adulti. E poi un parco animale di antiche razze, come il suino di Cinta Senese, il cavallo Bardigiano, l'asino Romagnolo e Amiatino, la vacca grigia Appenninica e la gallina Romagnola, tanto per citarne alcuni. Per sottolineare ancora una volta il valore fondamentale di quell'economia sana e sostenibile che fa leva sul recupero di antiche tradizione e sulla tutela dei valori contadini. Dopo due anni di gemellaggio in terra toscana, per questa edizione il Rural non fa tappa a Gaiole in Chianti, ma presenterà comunque tante eccellenze della Toscana in terra emiliana, da gustare in compagnia all'insegna della convivialità. Inoltre, il weekend dal 25 al 27 agosto, in occasione della Festa del Perdono di Radda in Chianti (SI) si svolgerà il Rural Farmer’s Market all’interno della Rural Gallery, un’ex officina meccanica recuperata nel centro del paese e messa a disposizione dall’azienda Cipressi in Chianti, dove troveranno posto prodotti della biodiversità agricola a rotazione, con i pannelli esplicativi dei produttori e qualche esemplare di trattore d’epoca. 

Rural Festival – Rivalta Lesignano de' Bagni (PR) – 8-9 settembre 2018 - www.rural.it/festival/

a cura di Michela Becchi

Thomas Keller debutta in Florida. A Miami il ristorante ispirato dal mitico Surf Club

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Lo chef del The French Laundry, a capo di un solido gruppo di ristorazione, inaugura il suo primo ristorante a Miami, nello spazio che un tempo ospitava il celebre The Surf Club. Design e cucina in linea con la storia del luogo, con allestimenti Art Deco e classici della cucina continentale. 

 

Thomas Keller, chef e imprenditore

Si è lasciato ispirare dall’anima vintage del vecchio club di cui ha preso il posto, iconico ritrovo degli anni Trenta sulla spiaggia di Miami. E così il primo progetto di Thomas Keller in Florida è fortemente intriso dello spirito del luogo (inaugurato dal tycoon Harvey Firestone nella notte di Capodanno del 1930 e frequentato da personaggi del calibro di Frank Sinatra, Dean Martin, Elizabeth Taylor, Gary Cooper, Winston Churchill) negli spazi e sul menu. Lo chef californiano, uno dei più celebrati protagonisti della storia della cucina americana degli ultimi decenni (negli anni Ottanta fondamentale il suo passaggio in Francia), è a capo di un solido gruppo di ristorazione, dal quartier generale di Yountville (20 anni nel 2014 e una recente ristrutturazione per il mitico The French Laundry) al Per Se di New York, passando per il concept Bouchon (Bar o Bakery), replicato in California, New York e Las Vegas. E da qualche giorno il The Surf Club Restaurant di Miami (adiacente all’hotel Four Seasons at The Surf Club progettato da Richard Meier e inaugurato un anno fa, con la collaborazione di Antonio Sersale, patron del resort Le Sirenuse di Positano, che all’interno della struttura di Miami ha portato Le Sirenuse Restaurant e Champagne Bar), su Collins Avenue, si è aggiunto alla famiglia, dopo anni di anticipazioni che preannunciavano il debutto di Keller in città.

 

The Surf Club Restaurant a Miami

L’approccio che sin dall’inizio ha animato l’operazione di ripristino della vecchia allure del club è legato alla voglia di regalare agli ospiti del ristorante un contesto ideale per incontrarsi e celebrare occasione speciali, proiettandoli indietro nel tempo all’epoca del sogno americano, quando la fiducia nel futuro orientava il Paese. Dunque tra le chiavi di volta del progetto il glamour gioca un ruolo importante, negli allestimenti che omaggiano l’Art Deco – con profusione di lampadari in stile, boiserie, superfici che riflettono la luce – come sull’orientamento della cucina, che interpreta i classici della ristorazione continentale per mano di Manuel Echeverri, da tempo nella squadra di Keller. Cominciando con gli appetizer ideati per il momento dell’aperitivo – in abbinamento i classici della miscelazione del post Proibizionismo – dalla crab cake alla Caesar Salad preparata al tavolo, al cocktail di gamberi, per proseguire con i piatti principali, che dichiarano numerose influenze europee: fettuccine all’Alfredo con tartufo, aragosta del Maine alla Thermidor, filetto alla Wellington, parmigiana di melanzane, sogliola alla mugnaia, pollo arrosto per due, filet mignon e molteplici variazioni sul tema della bistecca. Tarte au citron e torta al cocco per finire. E cantina importante con referenze in arrivo da tutto il mondo.

 

www.surfclubrestaurant.com

 

a cura di Livia Montagnoli

 


Bora Kitchen Truck. La cucina su ruote che segue i ciclisti in gara

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Ancora novità nel mondo delle cucine su ruote: arriva il food truck per le corse di ciclismo, che segue gli atleti negli spostamenti durante le gare, fornendo loro piatti nutrienti, sani e squisiti. Il progetto dell’azienda tedesca. 

 

L’azienda

Era il 2008 quando la Bora Lüftungstechnik GmbH, azienda tedesca specializzata in sistemi di aspirazione per piano cottura, lanciò il metodo di aspirazione dei vapori verso il basso, determinando così il tramonto della classica cappa aspirante nelle cucine. Ma questo è solo uno dei tanti progetti innovativi del brand, che da sempre ha puntato tutto sul risparmio energetico e l’estetica funzionale. CEO di Bora è Willi Bruckbauer, amante dell’architettura, del design, della cucina ma anche del ciclismo. Non è un caso, infatti, che Bora sia sponsor di una squadra tedesca di professionisti che disputa le più grandi corse del mondo, con una squadra di 27 ciclisti di rango.

 

Il truck

Proprio dalla passione per il ciclismo, nasce il progetto Bora Kitchen Truck, una cucina su ruote alle corsie di ciclismo, che segue la squadra nei vari spostamenti durante le gare. A ideare il truck, Bruckbauer, Ralph Denk, team manager di Bora, e Robert Gorgos, nutrizionista sportivo, tre ex ciclisti che conoscono bene le piste e le esigenze degli atleti. La proposta, infatti, si basa su prodotti biologici ed eco-sostenibili, lavorati con cura e interpretati con attenzione da uno chef guidato dal medico. Merluzzo in pasta di farro alla birra al malto, asparagi verdi e mango grigliati, involtini di vitello con insalate di erbe, agrumi e manchego, wrap con avocado, cipolla rossa e bisonte arrostito: sono solo alcuni esempi dei piatti a disposizione dei ciclisti, preparati espressi nel truck.

 

Il libro di ricette

Quando la squadra è in gara, devo adattare l’alimentazione e il pasto dei ragazzi alla materia prima reperibile in zona”, ha spiegato Gorgos. “Se non sono con loro, fornisco allo chef le indicazioni per la spesa in base a stagione e territorio”. Un menu in continua evoluzione, quindi, che cambia a seconda del clima e del luogo, assecondando i ritmi della natura e delle produzioni locali. Ma non finisce qui: Bora ha inoltre ispirato il pluripremiato chef tirolese Andreas Senn a creare un ricettario sui generis, “10-10”, ovvero ricette che si preparano in 10 minuti e con 10 minuti di cottura, prendendo come esempio i piatti preferiti degli atleti, per un totale di 27 ricette, una per ogni ciclista della squadra.

 

Lo spazio per gli eventi

Il truck, inoltre, non è solo cucina: può trasformarsi anche in una location per eventi, elevandosi fino a 30 metri di altezza, per ospitare cooking show, seminari e cuochi di tutto il mondo. Un progetto curioso e originale, che sottolinea l’importanza del legame fra cibo e alimentazione, e che soprattutto fa luce su una cucina sana, sostenibile ma che non rinuncia al gusto, dimostrando che mangiare bene è possibile anche per chi è costantemente alle prese con le competizioni sportive.

www.bora.com/it/it/bora-revolution-tour/

 

a cura di Michela Becchi

Straordinario alle porte di Catania. La festa di fine estate del cibo di strada fuori dal comune

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Da un’idea di Andrea Graziano, ospite di Barbara e Marco Nicolosi alla Tenuta Barone di Villagrande di Milo, torna la kermesse che riunisce cuochi, artigiani del gusto e produttori di vino per una serata all’insegna del cibo di strada “straordinario”. Ecco chi parteciperà all’evento il 30 agosto. 

 

Il buono e il bello della Sicilia

Che Andrea Graziano non sia un imprenditore della ristorazione come tanti è chiaro a tutti quelli che, negli ultimi anni, sono entrati in contatto con l’universo di Fud. La Bottega Sicula “inventata” dal catanese mecenate del buono e del bello ha dapprima proposto sull’isola, tra il quartier generale di Catania e Palermo, un nuovo modo di fare promozione territoriale attraverso il cibo; di recente il modello è stato esportato a Milano, replicando sui Navigli la formula che così tanti riconoscimenti ed estimatori ha raccolto sul suo cammino. Il segreto? Comunicare l’eccellenza con semplicità, freschezza e modernità, fuori dagli stereotipi che spesso connotano l’enogastronomia siciliana agli occhi di chi si avvicina ai sapori dell’isola. Quindi ben venga l’adozione di un vocabolario inedito – un anglosiculo dichiaratamente goliardico – soluzioni di design, tecniche di cucina che valorizzano i prodotti del territorio, purché il focus resti sempre sulla rete di produttori locali che è cresciuta insieme al progetto. E mentre Fud seminava bene (dal 2012 a oggi sono arrivati i 2 locali di Catania, quello di Palermo, l’ultimo nato milanese), Andrea Graziano si spendeva per dare voce alla sua città: così, attorno al concept Fud Off è nato l’Off Festival, che mette in comunicazione i cuochi di diverse regioni d’Italia; così, la primavera scorsa proprio Andrea Graziano ha curato lo spazio gourmet dello Street Food Fest al suo esordio in città.

 

Cibo di strada Straordinario

E da due anni a questa parte il patron di Fud organizza pure un festival del cibo di strada che sin dal nome rivendica la sua unicità: Straordinario è una festa fuori dal comune in una regione che la tradizione del cibo di strada ce l’ha impressa nel Dna. Alla Tenuta Barone di Villagrande, ai piedi dell’Etna, il 30 agosto prenderà forma la seconda edizione della kermesse ideata da Graziano in collaborazione con Marco e Barbara Nicolosi, un modo per festeggiare la fine dell’estate e l’inizio dell’imminente vendemmia all’insegna del cibo. Nutrito il parterre degli ospiti, con 20 chef, 12 maestri dello street food, 16 cantine dell’Etna, tutti riuniti a Milo per onorare una comune visione della terra e della materia prima, fondata sul rispetto e sulla condivisioni di valori culturali. Sarà soprattutto una festa di piazza, dal tramonto e per tutta la notte, con i cuochi in arrivo da tutta Italia e dall’isola chiamati a mettere in scena un banchetto ispirato dai prodotti del territorio. A fare gli onori di casa i siciliani Giulia Carpino, Valentina Chiaramonte, Accursio Craparo, Tony Lo Coco, Gioacchino Gaglio, Angelo Pumilia, Claudio Ruta, Dario Di Liberto, Fabrizio Mantovani, Alessio Marchese, Giuseppe Raciti, Joseph Miceli, Lina Castorina, Lorenzo Ruta, Alfio Visalli. E poi gli ospiti, che saranno pure premiati per il loro impegno “straordinario” sul lavoro: Filippo La Mantia, Eugenio Roncoroni, Simone Padoan, Pasquale Torrente, Giacomo Gironi (in rappresentanza degli uomini di sala). Ma i riflettori saranno equamente condivisi con aziende agricole e artigiani dell’isola che offriranno le proprie specialità, dalla mortadella d’asino alla porchetta di suino nero cotta alla brace, al cioccolato di Modica. In abbinamento ai vini delle cantine dell’Etna. Chi saprà stupire i commensali conquisterà a fine serata il titolo al piatto più Straordinario. Appuntamento il 30 agosto, dalle 19.30 (costo del biglietto 65 euro, navetta disponibile dal centro di Milo, a pochi chilometri da Catania).

 

Straordinario – Milo (CT) – Tenuta Barone di Villagrande – il 30 agosto 2018 – www.eventostraordinario.it

 

a cura di Livia Montagnoli

MAD6 a Copenhagen. Sotto il tendone rosso con René Redzepi per cambiare il futuro della ristorazione

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Mind the gap è il tema/invito che il simposio ideato nel 2011 dallo chef del Noma rivolge a relatori e platea della sesta edizione di MAD, nella due giorni di dibattiti e conversazioni che si concluderà oggi, 27 agosto. L’auspicio è quello di prefigurare un futuro migliore, dove la diversità è valore, e tutti possono far sentire la propria voce. I protagonisti della prima giornata e come seguire la seconda. 

 

MAD. La sesta edizione

Sotto il tendone rosso di Refshaleen, a Copenhagen, il Simposio di MAD - semplicemente “cibo” in danese - è nel pieno delle sue attività. L’appuntamento ideato qualche anno fa da René Redzepi (era il 2011, presto Mad si è costituita come associazione noprofit) per offrire un terreno di confronto agli chef e ai ristoratori impegnati ad agire positivamente sulla società quest’anno va in scena il 26 e 27 agosto – dopo due anni di stop - concentrandosi sulla necessità di fare spazio alle pari opportunità. Chiedendo cioè, ai relatori coinvolti, di presentare soluzioni concrete al superamento delle barriere di genere e alla valorizzazione delle differenze culturali, per un futuro della ristorazione improntato all’accettazione della diversità. Per questo nei mesi che hanno preceduto l’inizio dei lavori l’invito a partecipare è stato rivolto a tutti coloro in grado di portare sul palco la propria esperienza di addetti ai lavori – cuochi, camerieri, sommelier, produttori, influencer del settore – guidati dalla curiosità e dalla capacità di immaginare una società aperta al contributo di tutti, immigrati e persone in difficoltà compresi. E per la prima volta talk, relazioni e confronti tra i partecipanti al simposio rimbalzano in rete grazie alla diretta streaming disponibile sul sito della manifestazione.

 

Mind the gap. La sfida

Obiettivo dell’incontro? Mind the gap, come recita il tema di MAD 2018: immaginare come ridurre la distanza tra cosa è oggi il mondo della ristorazione e cosa potrebbe essere in futuro perseguendo la strada della creatività e della condivisione. In passato il simposio ha coinvolto grandi personalità del settore in arrivo da tutto il mondo, da Alex Atala a David Chang, a Massimo Bottura, Jose Andres e Wylie Dufresne, da Michel Bras a Roy Choi; e poi scienziati, filosofi, figure istituzionali in grado di apportare il proprio contributo al cambiamento attraverso l’innovazione tecnologica e le politiche alimentari, come Carlo Petrini, intervenuto nel corso di MAD5.

 

I protagonisti

Quest’anno, nel corso della prima giornata hanno già portato la propria esperienza sul campo personalità molto diverse tra loro, dalla mitica Jay Fai, star dello street food a Bangkok con la sua celebre omelette al granchio, alla chef Kamilla Seidler, che alla platea di Copenhagen ha presentato il progetto Gustu sviluppato in Bolivia negli ultimi anni, a Tatiana Levha, chef e coproprietaria (con sua sorella) del ristorante Le Servan a Parigi. Prima ancora, l’introduzione agli interventi di MAD6 è invece affidata a René Redzepi (“grazie per essere arrivati qui da 58 diversi Paesi del mondo” esordisce lo chef del Noma aprendo le danze) e Melina Shannon Di Pietro, per sottolineare come la sfida del presente sia quella di rispondere insieme alle sollecitazioni di un cambiamento culturale in atto a livello globale, col coraggio di rivendicare la propria opinione davanti alle agitazioni degli ultimi mesi. Si avvicendano sul palco anche il professore di filosofia Vincent Hendricks e Chad Frischmann, per approfondire l’impegno contro gli effetti nocivi del cambiamento climatico. E nel pomeriggio irrompono sotto il tendone rosso anche gli scandali sessuali che hanno agitato l’ultimo anno della cronaca americana, con la testimonianza di Trish Nelson e il dibattito sul ruolo della stampa di settore nel dar voce alla vicenda. Conclusione di giornata al femminile con Rosio Sanchez e Jytte Vikkelsoe. Chi salirà sul palco oggi?

 

Per seguire in diretta la seconda giornata http://video.madfeed.co/the-sixth-mad-symposium

 

a cura di Livia Montagnoli

The Final Table. Su Netflix la sfida tra cucine del mondo: per l'Italia c'è Carlo Cracco

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Ci sarà anche Carlo Cracco al tavolo dei 9 superchef che rappresentano le cucine nazionali in sfida nel nuovo cooking show in onda su Netflix il prossimo autunno. Prima mentore, poi direttamente coinvolto al Final Table, lo chef vigilerà sul rispetto della tradizione gastronomica italiana. Ecco come funziona il nuovo programma dedicato alle cucine del mondo. 

 

The Final Table. Cosa ci ricorda

Mentre gli appassionati del genere si preparano a scoprire i nuovi protagonisti della serie Chef's Table – la quinta stagione sarà disponibile a partire dal 28 settembre – Netflix annuncia altre interessanti novità dedicate al mondo del cibo e della ristorazione per il palinsesto autunnale. E il programma che più sta attirando la curiosità in queste ore, in attesa di scoprire la data ufficiale di messa in onda del format esordiente, coinvolge da vicino anche uno dei più celebri (e mediatici) ambasciatori della cucina italiana nel mondo. The Final Table, come si è affrettato a supporre qualcuno, sembra ricordare le dinamiche del più longevo e sbandierato talent show ambientato tra pentole e casacche da chef mai apparso in tv. Come Masterchef, infatti, si propone di seguire i momenti più concitati della sfida ai fornelli tra squadre di chef rintracciate in tutto il mondo, con la supervisione di mentori d'eccezione, chiamati a interpretare il duplice ruolo di motivatori e giudici dei contendenti. Il primo cooking show della storia di Netflix, dunque, pesca a piene mani da molti format già passati sugli schermi negli ultimi anni di fervore mediatico per l'universo gastronomico e i suoi protagonisti, attingendo per esempio all'esperienza di Top Chef – nel coinvolgere cuochi professionisti – e a quella di The Taste, serie prodotta in passato da ABC, che ha visto tra i suoi protagonisti anche Anthony Bourdain. Ma la sfida tra cucine del mondo è stata salutata pure come un novello Giochi senza frontiere in salsa gastronomica.

 

Il cooking show di Netflix. Come funziona

La nuova competizione culinaria è stata creata e prodotta da Robin Ashbrook Yasmin Schackleton (già dietro alla produzione di Masterchef e Masterchef Junior) e vedrà alla conduzione delle sfide Andrew Knowlton, editore di Bon Appetit e noto critico gastronomico. Lo show si articolerà in una prima fase di nove episodi, ognuno dedicato a una cucina nazionale, sulla quale tutte le squadre di chef (12 coppie di cuochi) saranno chiamate a confrontarsi per avere la meglio sugli altri, e conquistare il passaggio alla seconda fase. A giudicarli critici gastronomici, personalità del mondo dello spettacolo e i mentori-ambasciatori di ciascuna cultura gastronomica in gara (Messico, Spagna, Inghilterra, Stati Uniti, Spagna, Brasile, Francia, India e Italia), custodi delle tradizioni del proprio Paese. Mentre ancora non si conoscono i nomi dei contendenti, i superchef che svolgeranno un ruolo di controllo nella prima fase, per poi diventare protagonisti nell'episodio conclusivo del Final Table, sono già noti. E a rappresentare l'Italia sarà Carlo Cracco, già avvezzo al ruolo di giudice inflessibile, che dopo l'addio alla televisione per dedicarsi a tempo pieno al suo ristorante in Galleria sceglie di rientrare sul set (seppur con un impegno limitato nel tempo) in compagnia di celebri colleghi internazionali. Con lui, già confermati Grant Achatz, Enrique Olvera, Anne-Sophie Pic, Andoni Aduriz, Clare Smyth, Helena Rizzo, Vineet Bathia, Yoshihiro Narisawa. Per conoscere i dettagli del format sarà necessario aspettare la messa in onda della serie, ma sembra molto probabile che ognuno di loro sarà impegnato a promuovere tradizioni e prodotti del proprio Paese, e questo garantirà una vetrina importante a tutti i partecipanti, Italia compresa. Per i concorrenti, invece, l'obiettivo sarà centrare la puntata finale, quando solo chi avrà convinto i giudici nelle sfide precedenti potrà sedere al Final Table con i superchef, e sfidarli per ottenere la vittoria. Quale cucina uscirà vittoriosa dal confronto? Lo sapremo entro l'autunno.

 

a cura di Livia Montagnoli

La food hall di Munchies a New York. Il gruppo editoriale Vice diversifica il business all'interno dell'American Dream

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Aprirà nella primavera 2019 dopo 16 anni di controversie e rinvii il colossale mall delle Meadowlands, nel New Jersey. All'interno una pista da sci, parchi a tema, oltre 100 ristoranti e due food hall. Una sancisce l'esordio di Vice nel mondo della ristorazione. Ecco perché. 

 

Il boom delle food hall a New York. Aspettando Mercado Little Spain

“Negli States impazza la moda delle food hall”, dicevamo giusto un anno fa a proposito del boom di mercati gastronomici e spazi coperti dedicati allo street food in tutta America. Il dato emergeva, incontestabile, dall'indagine pubblicata sul Wall Street Journal in merito alla crescita esponenziale del numero di food hall nel 2016 (+ 37%), con previsione di raddoppio entro il 2019 – quasi una minaccia – a detta degli esperti del mercato immobiliare interpellati. Non a caso, specie a New York, gli ultimi mesi hanno visto inaugurare molti nuovi market tematici e food court metropolitane: tra le novità più recenti l'Urbanspace at 570 Lex, che ospita anche il Trapizzino di Stefano Callegari, mentre è atteso per la prossima primavera l'esordio di uno spazio gastronomico piuttosto insolito al Garment Center, dove protagonisti saranno nove astri nascenti della ristorazione newyorkese, con altrettante proposte innovative legate allo street food. E sempre in primavera 2019 aprirà al 10 di Hudson Yards – nell'ambito del grande progetto di riqualificazione residenziale e commerciale dell'area, che dovrebbe coinvolgere anche David Chang e Thomas Keller - l'attesissimo Mercado Little Spain di Ferran Adrià e Josè Andres: una ambiziosa food hall a tema spagnolo che porta per la prima volta i fratelli catalani sul suolo americano, in partnership con uno degli chef ispano-americani più acclamati del momento, specie per il suo costante impegno sociale.

 

La food hall di Munchies all'American Dream

Ma il mercato delle food hall è talmente appetibile da aver determinato la discesa in campo di un colosso editoriale come Vice, che nel suo inedito ruolo di imprenditore della ristorazione giocherà il brand Munchies per offrire ai fan del progetto editoriale online dedicato all'universo del cibo uno spazio “per mangiare proprio il tipo di cucina che la gente desidera”, spiega la prima nota di presentazione sul sito di Munchies. La food court firmata Vice prenderà forma entro la prossima primavera all'interno del nuovo centro commerciale American Dream, in fase di realizzazione (i lavori si sono protratti per 16 anni, il mall ospiterà anche diversi parchi tematici e una pista di sci indoor) alle Meadowlands nel New Jersey, proprio accanto al celebre MetLife Stadium; e affiancherà una food hall a tema kosher, oltre a un numero ingente di ristoranti e locali dislocati nel complesso, più di cento secondo le prime anticipazioni, tra tavole d'ambizione e insegne dedicate al take away. Giro d'affari previsto ingente, soprattutto grazie alla vicinanza con lo stadio di football, e 40 milioni di visitatori auspicati ogni anno.

 

Cosa si mangia

Vice, dal canto suo, sfrutterà lo spazio a disposizione per ospitare eventi e promuovere il brand Munchies attraverso la vendita di oggetti e gadget legati al marchio. Ma il core business dell'operazione riguarderà ovviamente il cibo, con 18 box dedicati a street food e proposte informali, una scuola di cucina per ospitare lezioni e dimostrazioni di noti chef e due ristoranti pop up, a rotazione, che potranno servire fino a 400 persone. Ancora sconosciuti i nomi coinvolti nel progetto, anche se Munchies selezionerà solo proposte affini alla linea editoriale del gruppo, che con la nuova operazione segue l'esempio di altri editori gastronomici nell'individuare ottime opportunità di guadagno nella diversificazione dell'attività, specie se legate alla somministrazione di cibo. Lo slogan già risuona chiaro e forte: “We want you to eat what we want to eat”, vogliamo garantirti la possibilità di mangiare ciò che noi vorremmo mangiare. Soddisfare cioè l'appetito del pubblico che numeroso spenderà energie tra un parco tematico e l'altro del complesso con cibo selezionato dalle voci che danno vita ogni giorno al progetto Munchies sul web, “perché se è bello leggere di cibo, è molto meglio provarlo di persona”. Sapremo tra qualche mese se la Munchies Food Hall rispetterà le aspettative.

 

a cura di Livia Montagnoli

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