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Dove mangiano gli chef in vacanza. I ristoranti del cuore di Andrea Berton e Roy Caceres

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In città o nelle mete di villeggiatura, l'estate invita al relax e a godere di tempi più rilassati da dedicare anche alla tavola. Per questo, insieme ai grandi chef italiani, abbiamo deciso di tracciare una mappa gastronomica delle tavole migliori della Penisola. Ecco cosa ci hanno consigliato Andrea Berton e Roy Caceres.

 

C'è chi, in estate, rimane in città a lavorare, chi approfitta delle vacanze per visitare capitali e luoghi d'arte, chi invece non rinuncia a qualche giornata di mare. Per tutte queste persone ci siamo fatti suggerire alcuni indirizzi imperdibili, chiedendo ai maggiori chef italiani quali sono i loro ristoranti del cuore. Questa settimana ne abbiamo coinvolti due, uno di stanza a Milano, l'altro a Roma.

Partiamo da Milano, con Andrea Berton. Difficile ritagliarsi del tempo dal lavoro, per lui che – spiega – quando non è impegnato nel ristorante che porta il suo nome, al quartiere Porta Nuova Varesine, va spesso a visitare gli altri ristoranti che fanno parte del suo gruppo: Dry, Pisacco, “avendo diversi locali di solito vado in questi, seguirli occupa una bona fetta del mio tempo libero, poi diventa difficile andare dagli altri” spiega, e poi aggiunge: “è un momento a metà tra il tempo libero e il lavoro, soprattutto per i locale sul lago di Como, all'hotel Sereno: andarci in estate è un piacere anche se è lavoro, e così per gli altri, per esempio la pizza la mangio da Dry non solo perché è un posto mio, ma perché penso che sia molto buona”. Da Milano passiamo poi diritti a Roma. Senza tappe intermedie visto che Roy Cacereschef colombiano del ristorante Metamorfosi, una delle più belle espressioni di una cucina libera da vincoli e confini del panorama capitolino, ci racconta le sue mete preferite in città.

L'etnico meneghino

Quando ho voglia di giapponese, a Milano, vado da Wicky” dice Berton. Wicky Priyan, origini in Sri Lanka, studi in Giappone, esperienze nel mondo, firma qualche anno uno degli indirizzi più interessanti di cucina nipponica sotto la Madonnina, in cui non rifiuta suggestioni mediterranee. Ma non chiamatela fusion, la sua è – semplicemente – la cucina di Wicky, wicuisine. “È l'espressione massima della cucina giapponese in Italia” racconta Berton “ricordo un giorno che non avevo voglia di carne né di pesce, mi ha fatto dei rolls vegetariani che sono stati i più buoni in assoluto che abbia mangiato”.

Cucina di campagna

Per una tavola più genuina e semplice, Berton si sposta a Milano Marittima, dove consiglia Camì. “È un posto in campagna, molto bello”, spiega. Un agriturismo in cui gran parte dei prodotti usati in cucina vengono coltivati da loro stessi e lavorati con competenza e rispetto per portare in tavola piatti buoni, sani, ricchi di sapore. “Vincenzo Cammerucci fa delle conserve di frutta buonissime, così come dei piatti molto particolari che trovi solo da lui, preparati con la sua frutta, per esempio le pesche”.

Il mare di Sicilia

C'è poi un posto scoperto di recente durante i suoi viaggi a Cefalù, dove Berton segue una parte della ristorazione del nuovo resort Club Med, “si chiama Cortile Pepe” dice “mi è piaciuto molto e già ci sono stato un paio di volte”. Per via della bellezza di quello spazio “mi ha colpito per l'achitettura, il design” spiega “ma anche per la cucina semplice, tipicamente siciliana ma con uno spunto nuovo, moderno”.

 

A un passo da Milano

Se poi voglio fare un'esperienza gastronomica, a Milano, vado da Davide Oldani” dice ancora. E non solo per l'amicizia che lo lega allo chef del D'O, da un paio di anni trasferitosi nel nuovo locale, sempre a Cornaredo “ma perché da lui sto sempre bene ed è sempre una bellissima esperienza”.

 

D'autore, ma senza formalismi

Vado spesso dai ragazzi di Retrobottega” dice sicuro Roy Caceres, che ci porta dritti a Roma “secondo me sono sempre più bravi”. Il locale di Alessandro Miocchi e Giuseppe Lo Iudice ha recentemente riaperto dopo una ristrutturazione che ha cambiato spazi e atmosfera. “Oggi c'è ancora più comfort, si sta proprio bene” dice Caceres, che spiega: “mi piace l'ambiente, non sembra neanche di essere a Roma, una città in cui non è facile trovare in po' di modernità” e la cucina? “È una cucina di gusto che cerca la tecnica e non stravolge troppo. Sempre migliore”.

Il Giappone a Roma

Li mette insieme, Caceres, i suoi due locali preferiti per quanto riguarda la cucina etnica: “sono due i ristoranti giapponesi in cui mi piace andare: Kiko e Sushi Sen  diversi per stile e ambiente, sono due indirizzi di riferimento per gli amanti della cucina nipponica capitolini “il signor Kiko è veramente molto bravo e la materia prima che usa è ottima” ci spiega “da Sushi Sen ho assaggiato anche dei piatti originali, diversi dal solito sushi”, una cucina più moderna, la chiama lui “ho fatto poco tempo fa una sorta di menu degustazione con grande materia prima, pesce crudo ma anche cotto; molto interessante”.

 

GLI INDIRIZZI

Wicky’s - Milano - corso Italia, 6 – 02 97376505 - www.wicuisine.it
Camì - Savio di Ravenna (RA) - via Argine Sinistro, 84 - 39 0544 949250 - http://www.camiagriturismo.it/
Cortile Pepe -
Cefalù (PA) - via Nicola Botta, 15 - 0921 421630
D’O - Cornaredo (MI) - loc. San Pietro all'Olmo - p.zza della Chiesa, 14 - 02 9362209 - www.cucinapop.do
Retrobottega - Roma - via della Stelletta, 4 – 0668136310 - retro-bottega.com
Kiko – Roma – piazzale del Verano, 90 – 06 94849822- http://www.kikosushibar.it/#sushibar
Sush sen – Roma - Via Giuseppe Giulietti, 21 - 06 5756945 - https://www.sushisen.it/

GLI CHEF

Ristorante Berton – Milano - via Mike Bongiorno 13- 02 67075801 - http://www.ristoranteberton.com/
Dry – Milano - Via Solferino 33- 02 63793414- viale Vittorio Veneto 28- 02 63471564- http://www.drymilano.it/
Pisacco – Milano - vVia Solferino, 48 - 02 91765472 - http://pisacco.it/
Berton al Lago - Hotel il Sereno - Torno CO - via Torrazza, 10 - 031 547 7800 - https://www.serenohotels.com/it/property/il-sereno/restaurant/
Metamorfosi – Roma – via G. Antonelli, 30 - 068076839 - https://www.metamorfosiroma.it/?v=cd32106bcb6d

 

 

Pokeia Milano. L'alleanza tra Flavio Angiolillo e il Milanese Imbruttito per cavalcare la moda del poke. Ecco cos'è

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Sarà il trend gastronomico dell'estate 2018: è questa la sentenza che sollecita la curiosità sul poke hawaiano. Cos'è, perché piace, dove è possibile assaggiarlo. Sicuramente, da qualche settimana, sui Navigli di Milano, dove una squadra inedita ha aperto Pokeia. Ma gli indirizzi cominciano a diventare davvero tanti. Quanto durerà? 

 

Poke. Dalle Hawaii nel mondo

Se anche Flavio Angiolillo ha ceduto al fascino del poke, qualcosa vorrà pur dire. Ma il bartender-imprenditore che ha contribuito negli ultimi anni a far crescere la scena della miscelazione meneghina è solo uno dei soci che hanno scommesso di recente sul trend arrivato da oltreoceano e pronto a rivelarsi la moda gastronomica più in voga dell'estate 2018. Qualche avvisaglia, per dir la verità l'avevamo già registrata in passato. A Milano, per esempio, i primi a intuire le potenzialità di questa specialità hawaiana, in tempo davvero non sospetti, erano stati i ragazzi di The Botanical Club, che nell'estate 2016, in occasione del raddoppio in via Tortona, esordivano con una carta di marinature a crudo servite in bowl da abbinare a gin e cocktail della casa. A distanza di un paio d'anni la tendenza è decisamente esplosa, specie in poli gastronomici come Milano e Roma, e qualcuno già etichetta il poke come sushi dei tempi moderni. Ma cosa finisce, esattamente nella ciotola protagonista delle “pokerie” in salsa italiana? La specialità, tipica delle Hawaii, è in realtà già alle origini frutto di contaminazioni tra culture gastronomiche del Pacifico – Polinesia e Giappone – Cina e Corea.

Cos'è il poke

La ricetta è semplice, conta sulla freschezza delle materie prime e sulla capacità di assemblarle perché siano armoniose nel gusto e piacevoli alla vista, e la possibilità di personalizzare le marinature rende il gioco più divertente per chi sceglie di cimentarsi con l'impresa (in questo, come per le potenzialità di replicare facilmente il business, la pokemania ci sembra decisamente più affine al boom delle temakerie che all'avvento del sushi in Italia). Alla base, un piatto di riso – in origine integrale -  sopra pesce crudo marinato (ma c'è anche che ripensa la formula con tartare di carne o tofu e seitan per i vegani) e arricchito di volta in volta con frutta tropicale, specie l'avocado, verdure crude o cotte, alghe, semi, salse, dalla teriyaki alla salsa ponzu. Tutto presentato nella caratteristica bowl, funzionale anche al servizio d'asporto, con i cubi di pesce (da qui il nome poke, che in lingua hawaiana significa “tagliato a tocchi”, in riferimento alla necessità dei pescatori locali di consumare rapidamente il pescato, in prevalenza tonno e polpo) che fanno bella mostra di sé, e diverse affinità con il ceviche peruviano che ha impazzato negli ultimi anni.

Pokeia a Milano

Dalla fine di giugno, dunque, gli appassionati del genere e i curiosi che vogliono sondare il terreno possono contare su un nuovo indirizzo in zona Navigli, Pokeia, che mette insieme un'accoppiata inedita: Flavio Angiolillo (Mag Cafè, Backdoor 43, 1930, Iter) e Marco De Crescenzio, co-fondatore del celebre blog Il Milanese Imbruttito, che per la prima volta si confronta col mondo della ristorazione. Il format, ideato nello specifico da Stefania Giotta, sfrutta un'altra peculiarità molto apprezzata dei poke shop, offrendo ai clienti la possibilità di comporre da sé la propria ciotola, scegliendo tra gli ingredienti di giornata al banco. In alternativa si ordina dalla carta dei signature della casa, che propone pure snack in tema per iniziare, dal pokè toast al pokè taco, o smoothies serviti in bowl, a base di frutta e verdura. In cucina c'è Vincenzo Mignuolo, già chef di Iter. Mentre ad Angiolillo spetta la selezione dei drink di ispirazione tropicale, serviti in bicchieri di carta compostabile take away. Una trentina i coperti disponibili in loco sul soppalco, servizio delivery già disponibile. L'ispirazione, in questo caso, arriva filtrata da New York, dove nell'ultimo anno si è registrato un boom di poke shop: lì Stefania e Marco hanno tratto spunti per replicare l'idea a Milano. La scelta dei Navigli, invece, non fa altro che confermare la familiarità di Flavio Angiolillo e del suo team con il quartiere. Ma da via Magolfa l'insegna potrebbe velocemente replicarsi in nuovi corner in città, dedicati al take away.

 

Pokemania. Quanto durerà?

Integrando una rete già capillare, tra insegne dedicate come Maui Poke, la Pokeria, I Love Poke (uno dei primi a Milano, avviato a trasformarsi in catena internazionale), e realtà affini come il Macha Cafè, che però propone una variante giapponese sul tema, con alghe wagame ed edamame. A Roma il buon momento dei poke shop ha generato solo di recente un interessamento più evidente degli imprenditori locali. Quindi al momento solo poche insegne tengono alta la bandiera del poke in città, e nei quartieri  più favorevoli alla ristorazione veloce: Mama Poke a Prati, Ami Poke a Monti, con la sua proposta da “hawaiian bar” che non disdegna sushi-burrito, pronto ad aprire anche a Firenze e Napoli se la passione degli italiani per il poke non dovesse rivelarsi un fuoco di paglia. Ma il format è già arrivato anche al mare, sulla Riviera romagnola, con il Waikiki Poke di Rimini. I fautori del nuovo trend, così com'è stato qualche mese fa per la moda degli avocado-bar, annoverano tra i punti di forza del poke anche il suo profilo nutrizionale, in riferimento specialmente agli acidi grassi Omega3 del pesce crudo (ma di quante preparazioni italiane potremmo dire la stessa cosa?). Di sicuro le bowl hawaiane sono molto fotogeniche. E di questi tempi il successo passa anche e soprattutto da Instagram...

 

Pokeia - Milano - via Magolfa, 25-27 - www.facebook.com/PokeiaMilano/

 

È morto Jonathan Gold, il Pulitzer della critica gastronomica

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Oltre 30 anni trascorsi a raccontare le cucine di Los Angeles, i suoi protagonisti meno noti, venditori ambulanti e tavole etniche altrimenti destinate a restare nell’ombra. Così ha sempre concepito il suo lavoro da critico gastronomico Jonathan Gold, che attraverso il cibo raccontava le persone. Scompare a 57 anni. Nel 2007 aveva conquistato il Premio Pulitzer. 

 

Los Angeles e le sue cucine

Per le strade di Los Angeles molti possono dire di averlo visto girare a bordo del suo pickup verde, per anni fedele alla causa: facile riconoscerlo, per quel look che è sempre stato uno dei suoi marchi di fabbrica, i capelli lunghi fin sulle spalle, i baffi folti, lo sguardo serafico e curioso, sempre in cerca di nuovi posti da scoprire. In strada, per le strade della sua Los Angeles, Jonathan Gold era un cicerone perfetto. Più di 30 anni trascorsi a sperimentare ogni cucina della città – dov’era nato il 28 luglio del 1960 – a questo sono serviti: del suo lavoro, il critico gastronomico del Los Angeles Times aveva fatto una missione cui dare un senso ogni giorno sul campo, raccontando soprattutto quello che difficilmente sarebbe finito sulle colonne di un quotidiano di prestigio prima che lui sdoganasse un nuovo approccio alla critica. Da sempre la sua curiosità verso il cibo era legata all’opportunità di entrare in contatto con culture e costumi diversi, convinto che dietro alle specialità di un food truck latinoamericano o nella cucina di un modesto ristorante coreano in qualche zona remota della città potessero nascondersi chiavi di lettura immediate per stimolare il confronto, e la conoscenza dell’altro. “Scrivendo cerco di convincere le persone a non avere paura dei propri vicini” disse una volta a proposito della sua ricerca incessante tra pizzerie e sushi bar, pit master e venditori di noodle, taco bar, bistrot e ogni altra tavola che potesse attirare la sua attenzione per la capacità di raccontare una storia calata in un contesto autentico.

 

Il Premio Pulitzer

Fu questo suo approccio antropologico alla critica gastronomica a fare di Gold un precursore del genere, in quell’Olimpo che annovera tra gli altri Anthony Bourdain, forse più popolare a livello internazionale per la sua lunga carriera in tv, ma pure lui agli inizi ispirato proprio dal critico losangelino, non a caso primo e unico vincitore di un Premio Pulitzer al giornalismo gastronomico, nel 2007, quando scriveva sulle pagine di LA Weekly. All’indomani della sua scomparsa – repentina e senza prova d’appello, pochi giorni prima del suo 58esimo compleanno, per un tumore al pancreas diagnosticato un mese fa – l’America rende omaggio al suo critico più celebre e stimato: lo fa Pete Wells, eminenza del New York Times, con un lungo articolo che sancisce l’importanza del metodo Gold, impegnato sul campo sin dal 1986, quando in arrivo dal mondo della critica musicale (bravo suonatore di violoncello e grande conoscitore della scena punk degli anni Ottanta) Jonathan cominciava a scrivere di cibo e ristoranti, una passione coltivata da sempre (Counter Intelligence si chiamava la sua prima rubrica su LA Weekly).

 

La gioia di un mangiatore erudito

E lo ricorda pure Ruth Reichl, sua editrice ai tempi di Gourmet: “Molto prima che le persone considerassero seriamente le cucine etniche, lui fece in modo che il cibo potesse raccontare le persone e avvicinarle tra loro. Scriveva delle persone ancor prima che del cibo, e di questo ha fatto un importante strumento di comprensione dell’altro”. Per questo era più facile trovarlo a spasso nella Los Angeles multietnica – dove però le diverse comunità continuano a non comunicare tra loro, diceva, e raccontare le tavole di quartiere contribuisce a stimolare la curiosità – che seduto in qualche ristorante blasonato del gotha internazionale, che pure ha visitato senza risparmiarsi in tutta la sua carriera, offrendo a i suoi lettori recensioni altrettanto puntuali. Però non si è mai preoccupato di accostare l’una e l’altra narrazione, dando uguale dignità al venditore di burrito e al Noma. Nel 2015 il documentario City of Gold ripercorreva le tappe della sua carriera e le sue passioni, seguendolo a bordo del suo pickup per mostrare le infinite relazioni tra il cibo e le culture che convivono a Los Angeles. E oggi lo ricorda anche il sindaco della città, Eric Garcetti: “Era l’anima di questa città e di tutti i suoi sapori”. Il suo impegno, del resto, è stato limpido e costante, ben riassunto più di 10 anni fa nelle parole della giuria che gli assegnava il Pulitzer, “per la capacità di raccontare con le sue recensioni la gioia di un mangiatore erudito”.

 

a cura di Livia Montagnoli

A Taormina tra grandi hotel e ristoranti d'autore

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Taormina tra trattorie, pop up e tavole d'autore che, nella città, si concentrano soprattutto all'interno delle grandi strutture alberghiere.

 

Da roccaforte greca a meta esclusiva del Grand Tour e simbolo della dolce vita siciliana degli anni Cinquanta, Taormina, nonostante si sia lasciata alle spalle gli anni ruggenti da capitale glam, non tradisce la sua vocazione internazionale e il suo spirito esclusivo. Colonia di espatriati, artisti e scrittori, la sua fama sembra oscurarsi dalla fine degli anni '60 per poi tornare a splendere in tempi più recenti, soprattutto lo scorso anno, quando è stata scelta sede del G7, incantando con la sua bellezza i potenti della terra.

 

Taormina, tra trattorie e tavole d'albergo

Non solo paesaggi mozzafiato, l’Etna, il teatro greco-romano, il mare cristallino: i capi di stato, al G7 a Taormina, sono stati conquistati anche dalla cucina locale. Che a Taormina può contare su ristoranti d'autorecome La Capinera (Due Forchette sulla guida Ristoranti d'Italia del Gambero Rosso) o tavole più semplici come Tischi Toschi, da diverse stagioni nella top list delle trattorie italiane, che da un paio d'anni ha bissato a Roma portando anche all'ombra del cuppolone i sapori pieni della Trinacria. Ma è la ristorazione d'albergo che riserva maggiori sorprese, con chef di lunga esperienza e location mozzafiato. Ne sia un esempio il Principe Cerami dell'Hotel San Domenico (Due Forchette sulla guida Ristoranti d'Italia del Gambero Rosso) con la terrazza che offre una vista indimenticabile sul golfo di Taormina e gli arredi sontuosi, e una cucina che, pur pienamente immersa nella tradizione siciliana, non rifugge sunti creativi, come pureil St. George Restaurant del The Ashbee Hotel, l'esclusivo albergo – bellissimo il giardino da cui si può ammirare lo stretto - che ha da poco affidato la supervisione della sua cucina ad Heinz Beck. E poi ci sono i ristoranti del Belmond, che a Taormina conta ben due indirizzi a testimoniare il buon momento della scena gastronomica della città.

Il Belmond Grand Hotel Timeo di Taormina

È un nuovo rinascimento gastronomico di cui fa parte anche Roberto Toro, executive chef del Belmond Grand Hotel Timeo di Taormina, l’albergo che incarna, dal 1873, l’anima colta ed elegante della perla del Mediterraneo, dove hanno soggiornato e soggiornano ancora regnanti, intellettuali, vip di Hollywood e scrittori, come Truman Capote, che scelse il Timeo come residenza per due anni. È Toro - siciliano di Palagonia - che si è occupato della cena di gala per i Capi di stato del G7 e che ha inaugurato lo scorso anno la Settimana della Cucina Italiana negli Stati Uniti, presso l’Ambasciata Italiana a Washington. Nel suo primo libro, Piacìri,invita al viaggio e alla scoperta delle località meno note della Sicilia attraverso i profumi, i colori e i sapori degli ingredienti autoctoni.

Nella sua cucina elabora i sapori contadini dei piatti dell’infanzia, quelli legati al suo territorio, per poi allargare gli orizzonti con esperienze di respiro internazionale: dalle cucine del Comwell Hotel a Sonderborg ai ristoranti stellati Herman ed Era Ora a Copenaghen. Ed infine in Francia, con l’esperienza formativa presso il Relais Louis XIII, altro indirizzo blasonato.“Dalla Danimarca” dice Roberto“ho imparato le tecniche innovative di cottura del pesce, nonché a sfruttare la creatività per creare piatti interessanti anche senza avere a disposizione le materie prime eccezionali che ha l’Italia. Quella danese è una cucina che sfrutta vari elementi semplici per esaltare i sapori come le erbe selvatiche o alcuni aromi. Dalla Francia invece” continua “ho appreso il metodo rigido e la propensione al sacrificio, nonché la dedizione al lavoro”.

Pop up d'autore

Oggi Roberto è pronto per una sfida che porta il nome di Otto Geleng, il ristorante pop up dell’Hotel Timeo, aperto solo a cena fino al 15 settembre: cento giorni per un’esperienza esclusiva, un viaggio nel cuore dei sapori e della storia siciliana. A partire dall’ambiente, riproduzione fedele dell’eleganza tipica delle ville siciliane di una volta. Solo otto tavoli disposti in un terrazzo fiorito di buganvillee e affacciati sulla baia di Naxos, arricchiti con preziosi dettagli, come il tovagliato in sfilato siciliano realizzato a mano dalle discendenti della scuola di ricamo Mabel Hill di Taormina o i lumi a olio in ceramica bianca, che richiamano l’illuminazione di un tempo, realizzati a mano dai fratelli Iudici, artigiani siciliani tra gli ultimi eredi della tradizione decorativa tipica di Caltagirone.

Con questo nuovo ristorante” dice Toro“vorrei regalare un'esperienza da ricordare tramite i sapori che mi riportano alla mia infanzia, quando mi emozionavo a sentire l’odore del pane fatto in casa da mia madre”. Inizia il viaggio nell’Isola, con il menù degustazione elaborato per raccontare questa terra nei suoi odori e sapori: tonno rosso con olive e cipolla di Tropea, baccalà sfogliato con capperi, pomodoro, olive e patate. E poi ci sono i famosi tortelli al basilico, pecorino, gambero rosso di Mazara di cui il presidente americano Trump ha chiesto il bis e il piatto Otto di Mare, con otto tipologie di pesci e crostacei. Dal mare si passa alla terra con il maialino nero dei Nebrodi, con mandorla pizzuta di Avola e misticanza. Si chiude con la ricotta servita con mela cola dell’Etna, cioccolato bianco e arancia. Se gli chiedi di raccontarti il menu, nessuna incertezza: “Vincono la tradizione delle antiche ricette siciliane realizzate in chiave creativa contemporanea e l’esaltazione delle migliori materie e dei prodotti genuini stagionali. Lavoriamo con tanti piccoli produttori che ci forniscono le materie prime più fresche, dall’ortofrutta, ai latticini al pesce”.

La Sicilia nel bicchiere

Oltre 400 le etichette di vini, con le eccellenze autoctone, i piccoli produttori di nicchia ma anche le grandi etichette nazionali e francesi, tutte suggerite dalla sommelier Simona Di Goro. C'è molta Sicilia anche nella selezione dei cocktail preparati esclusivamente con ingredienti siciliani, e pure negli infusi e tè digestivi creati con prodotti locali e biologici selezionati dal Museo dell’Erboristeria di Catania. “Ogni zona della Sicilia ha delle materie prime peculiari e delle ricette tipiche che cambiano da un paese all’altro” spiega “dalpunto di vista culinario la zona del ragusano si è evoluta molto negli ultimi anni, soprattutto in termini di alta cucina, mentre Taormina, anche grazie alla grande visibilità ottenuta lo scorso anno con il G7, è ormai la meta più visitata da tutti i viaggiatori che arrivano sull’isola” questo riguardo i flussi turistici, ma per quanto riguarda l'enogastronomia? “Anche da questo punto di vista stiamo crescendo, e lo si vede anche dalle molte manifestazioni che ottengono sempre più consenso, come ad esempio Cibo Nostrum”. Si può parlare di un movimento culinario nell’Isola? “Sicuramente ci sono molti chef che stanno lavorando bene in Sicilia e che stanno portando alla luce una cucina che valorizza molto le materie prime della nostra terra”.

Villa Sant’Andrea: sicilianità cosmopolita

Altra strada quella scelta dal ristorante Oliviero del Belmond Villa Sant’Andrea, guidato da Agostino D’Angelo. Trapanese, D’Angelosceglie l’autenticità e la semplicità della cucina siciliana lasciandosi contaminare dagli influssi internazionali, quelli arabi tipici della tradizione trapanese e quelli francesi, indiani e asiatici scoperti durante le esperienze all’estero (come quella all’hotelFour Season di Londra) reinterpretati in piatti che suscitano emozioni ed elaborano i suoi ricordi di bambino, come la preparazione del cous cous di pesce incocciato a mano dalla nonna, la cui ricetta viene fedelmente proposta dallo chef, che ha scelto una cucina veloce, pratica, legata al territorio ma in sintonia con la vocazione cosmopolita di Villa Sant’Andrea. Unacucina siciliana nell'essenza con un'apertura contemporanea e piccole contaminazioni che non ne stravolgono l'identità.“Un connubio perfetto tra tradizione e l'innovazione”la definisceD’Angelo. La prima si rintraccia nel legame con il territorio, in primis le materie prime locali (pesce fresco, frutta, formaggi locali) la seconda nelle tecniche: ad esempio quelle giapponesi per il taglio di alcuni tipi di pesce; le cotture a bassa temperatura delle carni, le affumicature di carni e pesci; o alcune materie prime prese in prestito da altre culture, come le spezie dall’Oriente o l’avocado dall’America centrale. Ne sono un esempio la battuta di tonno su letto di avocado siciliano, ilfiletto di dentice a beccafico e la cheesecake con gelsomino, meringa dorata e spugnoso al tè verde matcha.

Centro nevralgico e luogo di inizio e fine pasto è il Bar della Villa Sant’Andrea, guidato dal catanese AlfioLiotta,(Food&Beverage Manager) e Stefano Chiavetta (Head Barman). “Nelnostro bar” dice Liotta “abbiamo respinto la classica filosofia della mixology perché i nostri drink vengono preparati con frutta fresca e ingredienti stagionali che rendono omaggio al territorio dell'Etna”. Proprio come l'Etna Spritz, interpretazione in chiave siciliana di un classico del bere, l’unico drink italiano ad essere incluso nella classifica dei migliori cocktail al mondo stilata da Condé Nast Traveler USA.

 

Taormina, “il più grande capolavoro dell’arte e della natura”, come Goethe l’aveva definita, si prepara a definire un’identità nuova in linea con la tradizione di elegante ospitalità a vocazione cosmopolita, partendo (anche) dall’identità culinaria. Quella di un territorio che offre materie prime di qualità e un patrimonio gastronomico forte, capace di offrire una visione moderna e dinamica, in linea con il movimento culinario che negli ultimi anni sta attraversando l’isola.

 

Belmond Villa Sant'Andrea - Taormina Mare (ME) - ia Nazionale 137 - +39 0942 627100- https://www.belmond.com/it/villa-sant-andrea-taormina-mare/

Belmond Grand Hotel Timeo - Taormina (ME) - via Teatro Greco 5 - +39 0942 6270200- https://www.belmond.com/it/grand-hotel-timeo-taormina/

 

a cura di Liliana Rosano

Ristoranti d'estate. Tre nuove idee d'autore per cenare all'aperto, al mare o in campagna

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Sarà aperto per tutta l'estate il rifugio estivo di Pietro Parisi a Villa Giudy, per cenare sotto le stelle con vista sul Vesuvio. Mentre in Versilia, per la prima volta, debutta Giacomo Bulleri in versione marinara, con Giacomo Pietrasanta. Nel Piemonte di Tigliole d'Asti, invece, un bistrot d'autore da scoprire, fuori dalle rotte più turistiche. Lo firma Massimiliano Musso. 

 

Il principio è lo stesso per cui all'inizio dei mesi più caldi, chi può, fa armi e bagagli e si trasferisce nella casa fuori città. Mare, montagna, le serate frizzantine in campagna, purché sia più facile respirare, godendo al meglio della bella stagione. Così pure diversi ristoranti si riscoprono in versione estiva: c'è chi sfrutta terrazze e giardini, quando ha la fortuna di possederne uno; chi sceglie di traslocare in spazi nuovi e più richiesti per una cena d'estate; chi risponde alla chiamata di strutture turistiche in cerca di un nome – e del suo talento in cucina – da proporre ai viaggiatori in cerca di una vacanza gourmet. Dell'ultimo casoci siamo occupati qualche settimana fa, sulle coste più belle della Sardegna al seguito di Claudio Sadler e della coppia Negrini/Pisani, ma pure tra le vette delle Dolomiti e in gita sul lago di Mergozzo, per un insolito picnic d'autore in barca. Di novità gastronomiche che valgono il viaggio (o comunque diventano utile riferimento per chi sta programmando vacanze in Italia), però, l'estate 2018 è particolarmente generosa.

Era Ora Summer a Palma Campania

Così a Palma Campania la cucina di territorio di Pietro Parisi trasloca a Villa Giudy per tutta l'estate (ma a pranzo resta operativo anche il quartier generale di via Trieste), in veste di Era Ora Summer. Mille metri quadri di spazio all'aperto con vista sul Vesuvio per godere dei piatti del cuoco contadino circondati dal verde di un set inedito, dove la brace acquista grande importanza, valorizzando le verdure dell'orto, la carne, il pescato locale. Villa Giudy - spazio solitamente dedicato agli eventi, con bella piscina panoramica circondata dalla campagna partenopea – da tempo fa parte del gruppo di ristorazione creato da Pietro Parisi, ma solo da qualche giorno lo chef ha deciso di sperimentare le inedite cene d'estate all'aperto (anche a pranzo, sotto al pergolato). Disponibile anche la carta delle pizze.

Giacomo Pietrasanta

Più a Nord, ancora sulla costa tirrenica, da qualche giorno è arrivato in Versilia anche Giacomo Bulleri, o meglio l'insegna che il longevo imprenditore meneghino ha saputo portare al successo in decenni d'attività a Milano (a quota 7 sono arrivate le insegne in città, l'ultima la Rosticceria di via Sottocorno). Non un temporary restaurant per l'estate, quello inaugurato a Pietrasanta, ma una valvola di sfogo dalla frenesia della città con tutti i crismi del ristorante stanziale (e non stagionale): Giacomo Pietrasanta. Del resto il patron dell'impero Giacomo vanta natali toscani (è nato a Collodi 93 anni fa, e il suo compleanno l'ha festeggiato proprio in occasione dell'inaugurazione del nuovo locale), e del ritorno “a casa” si dice particolarmente orgoglioso. Il ristorante, già aperto al pubblico, ha preso il posto del ristorante Salani e accoglie gli ospiti nella sala all'interno o nella piacevole corte- giardino all'esterno, sotto le stelle, tra piante, divanetti e cocktail. La cucina, invece, è quella di mare che tutti si aspettano in Versilia, con il banco del pesce fresco a vista, in sala. “È la prima volta che apriamo un ristorante con la griffe Giacomo fuori da Milano e abbiamo deciso di puntare sulla Versilia, e più in particolare su Pietrasanta, perché parliamo di una realtà, culinaria e turistica, di altissimo livello” spiega Marco Monti, genero di Bulleri che oggi gestisce il gruppo accanto a sua moglie Tiziana, figlia del patron.

Il Bumbunin a Tigliole

Si cambia scenario per raggiungere Tigliole d'Asti, poco meno di duemila abitanti per l'antico feudo a 13 chilometri da Asti, circondato da vigneti (qui si produce la Barbera d'Asti) e allevamenti di razza bovina piemontese. Un borgo tranquillo da scoprire senza fretta, per una vacanza alternativa tra le colline piemontesi e le sue eccellenze gastronomiche. Il nuovo ritrovo all'aperto, nel cuore di Tigliole, si chiama il Bumbunin (la bomboniera), e nasce dall'idea di Massimiliano Musso, classe 1981, erede di una lunga tradizione di famiglia in cucina al ristorante Albergo di Ca' Vittoria (Due Forchette, 86 punti per il Gambero Rosso). All'interno di uno storico palazzo ottocentesco che affaccia sulla piazza della cittadina, Musso ha impostato una linea di ristorazione accessibile a tutti, un bistrot concepito per esaltare la tradizione del territorio, tra agnolotti ai tre arrosti e bollito, aperto però a suggestioni sempre diverse, con i plin di faraona, pomodori confit e melassa di cipolle, o l'animella di vitello con crema di liquirizia. Il must per l'estate? Il dehors per cenare sotto le stelle, con vista sul campanile di piazza Regina Margherita. Anche per l'aperitivo, con bollicine e taglieri gourmet.

 

Era Ora Summer – Palma Campania (NA) – via provinciale per Castello – www.pietroparisi.it

Giacomo Pietrasanta – Pietrasanta – via del Marzocco, 19 – www.giacomomilano.com

Il Bumbunin – Tigliole d'Asti (AT) – piazza Regina Margherita, 3 – la pagina Fb

Vendemmia 2018. Dalla Valle D'Aosta alle Marche, le previsioni per il Centro-Nord

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Seconda parte del nostro sondaggio sul periodo pre-vendemmiale. Le previsioni sul raccolto confermano la risalita anche se il maltempo insiste in Pianura Padana e sta creando danni e disagi. Barolo e Brunello appaiono in buona salute, Lambrusco in ripresa e ci sono le condizioni ideali per il Prosecco Docg e per il Collio.

 

L'analisi dei principali territori vitati del Centro-Nord Italia certifica le impressioni ricavate dal sondaggio di Tre Bicchieri di una settimana fa al Centro-Sud. Ovvero, il netto recupero produttivo per l'Italia nel 2018. Dalla Toscana alla Valle d'Aosta, dalle Marche al Friuli, ci si aspetta un raccolto di segno positivo nelle quantità. Per la qualità è ancora prematuro pronunciarsi. Mentre, l'alternarsi frequente anche a luglio di piogge, accompagnate da grandine, soprattutto in Pianura Padana, non fa dormire sonni tranquilli ai viticoltori.

 

Valle d'Aosta

Il clima estremo del 2017, tra gelate di primavera e siccità estiva, ha lasciato i segni sui 500 ettari vitati di quest'area del Nord Ovest, che ha perso metà della produzione. Nel solo paese di Morgex, culla dell'apprezzatissimo "vin blanc", si è raccolto appena il 5% dei grappoli. Il 2018, invece, sarà un anno di risalita. "Dovremmo rientrare nelle medie storiche della Valle d'Aosta", riferisce Stefano Celi, presidente dell'associazione viticoltori Vival (che rappresenta l'85% del totale regionale) "e anche a Morgex si dovrebbe arrivare al 50% della capacità produttiva". Buon segno. "Le vigne si sono riprese, sono belle" spiega Celi "anche se le piogge di maggio e giugno hanno favorito la peronospora, fitopatia molto rara dalle nostre parti". Vendemmia al via intorno al 10 settembre, con muller thurgau e chardonnay; autoctoni da ottobre, con il cornalin.

 

Piemonte

Piogge frequenti e grandinate stanno interessando i vigneti del Piemonte a luglio. La grandine è la vera preoccupazione per i viticoltori. Il clima generale, comunque, è di ottimismo considerato l'andamento delle fasi fenologiche del vigneto. Il grande comprensorio dell'Asti Docg (9.700 ettari, 4 mila aziende e 85 milioni di bottiglie) stima una produzione 2018 "in linea con un'annata normale, con rese intorno ai 100 quintali/ettaro, che saranno 85-90 quintali/ettaro per esigenze di mercato", come spiega il direttore del consorzio Giorgio Bosticco. Certamente di più delle scarse rese del 2017 con 77 quintali/ettaro. La vendemmia potrebbe partire a fine agosto nell'Acquese, ma occorrerà fare attenzione alla grandine, dal momento che da inizio luglio sono diversi i violenti episodi registrati nel Cuneese e nell'Alessandrino, in particolare a Neive, Mango, Castel Boglione.

L'area della Langhe, dove opera il Consorzio di tutela Barolo Barbaresco Alba Langhe e Dogliani, ha archiviato un 2017 col -7% di raccolto, limitando i danni rispetto al resto d'Italia. Andrea Ferrero, direttore consortile, riferisce che le uve Nebbiolo "appaiono in buona salute, anche se non in quantità straordinaria, il che ci fa stimare un'annata che tornerà nella norma. Abbondante la produzione di Dolcetto grazie a un maggio piovoso. Nessun problema con la peronospora". Mentre si contano i danni da grandine a Barbaresco. Nei 10 mila ettari vitati (con 500 soci che producono circa 60 milioni di bottiglie, di cui 14 milioni a Barolo), la vendemmia dovrebbe partire nella seconda metà di agosto. Non molto distante, tra i vigneti delle Doc gestite dal Consorzio Barbera d'Asti e vini del Monferrato (distretto da 11 mila ettari, con 12 Dop e 500 mila ettolitri imbottigliati nel 2017), l'auspicio è recuperare quel 20% perso un anno fa: "La 2018 è un'annata precoce, in ritardo sul 2017 ma in anticipo sulle medie storiche, che finora non ci ha dato problemi legati alle malattie", sottolinea Filippo Mobrici al suo secondo mandato da presidente. Siamo stati messi a dura prova dalle piogge di maggio e giugno, ma ne siamo usciti bene. È normale attendersi un recupero", aggiunge ricordando che gli sbalzi di temperatura estivi sono rischiosissimi perché spesso ai temporali segue la grandine.

 

Liguria

L'annata 2017 ha significato una produzione poco sotto i 40 mila ettolitri, per questa regione in cui la viticoltura è quasi interamente di tipo eroico. Lo sanno bene nel comprensorio della Doc Cinque Terre dove l'omonima cantina cooperativa riunisce 200 soci per 80 ettari vitati: "Annata in anticipo vegetativo, con uva di eccellente qualità e raccolto che si profila abbondante", riferisce il presidente Matteo Bonanini che sottolinea come la stagione sia "eccezionale", con piogge regolari che non hanno provocato danni e, soprattutto, senza la grandine. Il raccolto 2018 è previsto superiore a 1.500 quintali, in aumento sullo scorso anno e soprattutto su uno sfortunato 2016 (1.200/1.300 quintali soprattutto per la grandine ai danni dello sciacchetrà).

 

Lombardia

Il nostro sondaggio prosegue verso est, passando per la Franciacorta, una delle zone più colpite un anno fa da una gelata così intensa come non si vedeva da 50 anni. Il vice presidente del Consorzio, Silvano Brescianini, ricorda l'eccezionalità climatica del 2017, capace di determinare un -49% di produzione. "Quest'anno la situazione è totalmente diversa: le piogge abbondanti ci hanno fatto tribolare ma l'annata è generosa, l'uva c'è e la siccità non è un problema. Il rischio si chiama grandine, che ha già danneggiato alcune aree, seppure piccole". Difficile recuperare quella metà del prodotto perso, ma si stima che nei 3 mila ettari vitati le rese potranno superare i 90 quintali/ettaro. "A metà agosto, con lo chardonnay, saremo in vendemmia" conclude Brescianini "come regolarmente accaduto negli ultimi dieci anni".

 

Trentino

La media produttiva provinciale del 2017 è stata inferiore al 15% ma il 2018 dovrebbe consentire ai viticoltori rappresentati dal Consorzio vini del Trentino, presieduto da Bruno Lutterotti, di raggiungere quota 1,1 milioni di quintali di uve (certificate col protocollo di produzione integrata "Sqnpi"). "La situazione sanitaria è ottimale, le uve sono perfette. Ovviamente, nei nostri 11 mila ettari vitati, fino a Ferragosto c'è bisogno di più ore di sole e caldo, per favorire la maturazione e sviluppare gli aromi, soprattutto nei vigneti di medio-alta collina. Preoccupa un po'" rimarca Lutterotti "questo decorso piovoso e umido, così come qualche grandinata in Val d'Adige, dove stimiamo che la raccolta prenda il via tra un mese, con lo chardonnay base spumante, seguito dal pinot nero".

 

Alto Adige

Per i 5mila viticoltori altoatesini, scendere ai 70 quintali di resa media nel 2017 rispetto ai consueti 90 non è stato facile. Il gelo primaverile che ha colpito soprattutto Valle Isarco e Val Venosta ha determinato una diminuzione del raccolto del 20-25 per cento. "Quest'anno" dice Max Niedermayr, alla guida del Consorzio Vini Alto Adige "è un'annata con buone quantità, le piante hanno reagito, sono cariche di uva; abbiamo registrato un maggio instabile ma le riserve idriche ci sono e riteniamo di poter tornare a livelli vicini al 2016".Sui 5.400 ettari vitati provinciali, la raccolta dovrebbe iniziare ai primi di settembre con chardonnay e pinot grigio. Qualche grandinata, anche con danni sensibili, si è registrata in zona Lago di Caldaro, Terlano e Val Venosta "ma si tratta di aree limitate", precisa il consorzio.

 

Friuli Venezia Giulia

Situazione ideale per la vendemmia nell'area del Collio. Annata regolare per precipitazioni e temperature: "Il verde delle viti denota un ottimo stato di salute. Inizialmente sembrava un'annata abbondante ma ora possiamo definirla regolare", riferisce il presidente del Consorzio tutela vini Collio, Robert Princic: "Nei nostri 1.400 ettari a denominazione d'origine, lo scorso anno abbiamo raccolto il dieci per cento in meno. Quest'anno abbiamo un'ottima situazione, anche grazie all'assenza di fitopatie. L'inizio della raccolta di sauvignon e pinot grigio è previsto tra il 20 e il 25 agosto, lievemente in anticipo".

 

Veneto

È la prima regione produttrice d'Italia, che per il 2017 conta 9,67 milioni di ettolitri di vino (dati Agea). I segnali che arrivano dalle varie zone produttive sono ottimistici. Partendo dalla Doc Soave, dove le temperature sopra la media e le piogge abbondanti hanno accelerato le fasi fenologiche determinando un anticipo vegetativo soprattutto per l'uva garganega. Stagione impegnativa sul fronte fitosanitario, con frequenti interventi in vigna per preservare le uve, prevenendo situazioni critiche; previsti anche diradamenti per rispettare i limiti produttivi del disciplinare, considerando che la "vegetazione è lussureggiante, con una carica di grappoli superiore alla media". Secondo il consorzio, non si andrà oltre il carico atteso di 600 mila quintali di uva "per una produzione di 420 mila ettolitri tra Soave e Soave classico, in linea con le richieste del mercato". Sandro Gini, alla sua prima vendemmia da presidente, sottolinea: "Ogni stagione porta esperienze e sorprese, ma date le premesse siamo convinti che ne uscirà un'ottima annata".

Grandi attese anche per la macro Doc delle Venezie Pinot grigio (25 mila ettari nel Nord Est) e per il neonato consorzio, condotto da Albino Armani: "L'inizio della vendemmia è previsto nella terza settimana di agosto, nelle pianure tra Venezia, Treviso e Padova. Ci aspettiamo una produzione maggiore dell'anno scorso, tra 10 e 15 per cento. Non parlerei di annata abbondante, considerando che la peronospora ha fatto un po' di danni.Il mercato sta andando bene", fa sapere Armani, ricordando che per la vendemmia 2018 è prevista la messa a stoccaggio del prodotto ottenuto da vigneti con rese/ettaro tra 150 e 180 quintali. Novità dal 31 luglio: tutto il pinot grigio sarà rivendicato a Doc, non più anche a Igt (tranne nel caso Igt Delle Dolomiti, in Alto Adige, perché fuori dalla Doc interregionale).

Veniamo al Prosecco. Per il Conegliano Valdobbiadene, la fase fenologica è in anticipo di almeno una settimana sulle medie: "Un'annata di assoluta qualità per quanto riguarda l'apparato vegetativo e fogliare, con uve ben sviluppate e piante in equilibrio", riferisce il presidente del consorzio, Innocente Nardi. Nel 2017, il calo produttivo del distretto è stato limitato a 35 mila quintali sugli 800 mila complessivi, anche grazie all'ingresso in produzione di oltre 50 nuovi ettari. "Stimiamo" afferma Nardi "un incremento produttivo tra 3 e 5 per cento sul 2017". In vigna, le uve glera si staccheranno a partire dal 10 settembre, se il clima non farà le bizze. Per il Prosecco Doc, l'annata 2018 si prospetta buona: "Il carico produttivo" fa sapere il consorzio guidato da Stefano Zanette "risulta coerente con le rese del disciplinare ed è ben nutrito da un apparato fogliare vigoroso con limitata diffusione delle fitopatie. La fase di invaiatura sta iniziando e la vendemmia è stimata per la prima settimana di settembre". Sul fronte quantitativo, la stima (in condizioni climatiche favorevoli) è di 3,6 milioni di ettolitri, a cui si aggiungono 450 mila ettolitri di riserva: "Sono 23,5 mila gli ettari produttivi e i 3,6 milioni di ettolitri rientrano nel nostro piano per garantire l'equilibrio domanda-offerta. Inoltre, l'annata è favorevole a prevedere una riserva vendemmiale", sottolinea Zanette che aggiunge: "Raccoglieremo tra fine agosto e primi di settembre. Naturalmente, prima di cantare vittoria occorre aspettare".

 

Emilia Romagna

Clima favorevole, fresco e senza afa, per il Lambrusco Dop, se si escludono temporali e grandine che di recente hanno interessato le zone di Scandiano, la Bassa Reggiana e il Modenese. Per il gruppo di denominazioni emiliane, le escursioni termiche giorno/notte stanno garantendo condizioni favorevoli allo sviluppo della fragranza e degli aromi: "Sul fronte quantitativo dovremmo rientrare negli standard, dopo che nel 2017 abbiamo perso il 23%, toccando i 2,5 milioni di quintali", come rileva Ermi Bagni, direttore del Consorzio marchio storico dei lambruschi modenesi. Le previsioni per l'areale di Modena stimano "un raccolto di 1,6 milioni di quintali, mentre per Reggio Emilia si va a 1,7 milioni di quintali".

Crisi di siccità superata anche per i vini di Romagna. Il consorzio di tutela, che conta 16 mila ettari (di cui 7.200 a Sangiovese) e che vede ai vertici Giordano Zinzani, dopo il -25% del 2017, guarda con fiducia alla seconda decade di agosto: "Torneremo ai livelli produttivi di un anno medio. I vigneti danneggiati dal gelo si sono ripresi in maniera evidente. Le precipitazioni sono state abbondanti in primavera, i viticoltori sono stati impegnati contro la peronospora, qualche caso di mal dell'esca".L'invaiatura delle uve rosse è iniziata in questi giorni. Si prevede il via alla raccolta con lo chardonnay dopo Ferragosto.

 

Toscana

Partiamo da Montalcino. Patrizio Cencioni, presidente del Consorzio del Brunello, non poteva essere più chiaro: "Gli acini, nel 2017, avevano un peso medio di 1-1,2 grammi mentre quest'anno dovrebbe andare sui 1,5-1,8 grammi". Basterebbe questo dettaglio per capire le differenze tra la 2018 e la 2017 che, se ha segnato un -25% in quantità, da un punto di vista qualitativo ha ricevuto quattro stelle su cinque. La buona ventilazione delle colline ilcinesi garantisce ridotti attacchi di oidio e peronospora, provocati da piogge consistenti. I viticoltori, nei 3.500 ettari (di cui 2mila a Brunello), stanno lavorando sulla chioma. Potrebbe essere un'annata nella media, anche se il problema più grave non arriva dal cielo. "A causa dell'eccessivo numero di ungulati" ricorda Cencioni "il territorio si sta trasformando in un lager. Le recinzioni sono sempre più frequenti e necessarie per difendere le uve da cinghiali, daini e caprioli".

Sembra essere la grandine, invece, la preoccupazione maggiore nei 15 mila ettari a Chianti Docg, dove il consorzio di tutela, con Giovanni Busi, dopo il -40% di un anno fa, stima un calo produttivo del 10% sulle medie storiche per due motivi: il primo, le conseguenze della siccità del 2017 che hanno costretto a potature invernali dei tralci più corte del solito per non mandare in stress la pianta; il secondo, l'eccesso di umidità in primavera che ha costretto i produttori a combattere a lungo la peronospora. "Detto questo, ora il vigneto è a posto" dice Busi "siamo in anticipo fenologico. Ci aspettiamo un'ottima qualità delle uve e speriamo non arrivi la grandine, perché da ora al 20 agosto si entra nelle fasi decisive".

Super lavoro per la cura di un vigneto vigoroso per il consorzio del Gallo nero. Sergio Zingarelli, descrive così la situazione nel Chianti Classico: "Un inverno con pioggia e neve, e le piogge abbondanti in primavera, hanno riequilibrato la situazione generale. Oggi il vigneto è ricco e con una abbondante vegetazione. Sui quantitativi, è difficile ripetere il -25/-30 per cento di un anno fa, che ha significato per noi la vendemmia più scarsa di sempre. Mentre, nel 2018, dovremmo attestarci un po' sotto la media dei 280 mila quintali di uve, per gli effetti della siccità 2017. Siamo in recupero e c'è ottimismo".

Nel grossetano, dove si collocano i 150 ettari della Doc Bolgheri, il presidente del consorzio Federico Zileri dal Verme, parla di "vigneto in salute, nel quale è stato necessario intervenire molto spesso coi trattamenti antifungini dopo i 150 millimetri d'acqua caduti tra 1 e 15 maggio". Un anno fa, la raccolta fu in calo del 25% con rese uva/vino al 62% invece che al 70%: "Quest'anno riassorbiremo il gap" afferma Zileri "e anche se non siamo di fronte a un'annata ricca siamo tranquilli perché le piante stanno molto bene e il caldo sta facendo maturare l'uva". Si raccoglie a cavallo tra agosto e settembre.

 

Umbria

Spostandoci verso est, in Umbria, il sondaggio Tre Bicchieri tocca i territori della Doc Montefalco. Il neo presidente Filippo Antonelli fa il punto: "Lo scorso anno abbiamo perso tra il 30 e il 40 per cento, mentre quest'anno la produzione di uve in pianta è generosa e contiamo di tornare ai livelli del 2016". L'umidità ha favorito la diffusione della peronospora su parte dei 1.200 ettari a Dop, colpendo in particolare le uve sagrantino, più suscettibili rispetto a grechetto e sangiovese, e facendo fare gli straordinari soprattutto alle aziende con metodi di coltivazione biologici.

 

Marche

Ultima regione sondata, custode del Verdicchio attraverso l'Imt diretto da Alberto Mazzoni, che conta 8mila ettari. Qui, nel 2017, la produzione è scesa di un terzo, con 900mila ettolitri. "Quest'anno dovremmo tornare a livelli normali, un po' più del 2015 ma meno del 2016 che è stato un anno abbondante. Ci riavvicineremo al milione di ettolitri". Buone le riserve idriche (ben 800 millimetri d'acqua da novembre), peronospora sotto controllo, mentre si lotta contro l'oidio: "La nostra macchina di tecnici è al lavoro, e gran parte delle aziende è preparata. In questo contesto, chi è biologico riesce a difendersi meglio. Ed è la strada che vogliamo percorrere" conclude Mazzoni "per tutto il nostro territorio".

 

a cura di Gianluca Atzeni

 

Questo articolo è uscito sul nostro settimanale Tre Bicchieri del 19 luglio

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I nuovi piatti 2018 di Massimo Bottura all'Osteria Francescana

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Le mele di New York e le ciliegie di Vignola. I dessert di cacciagione e il riso che oscilla tra l'anatra all'arancia e l'anatra alla pechinese. I nuovi piatti di Bottura per capire se sono davvero ancora definibili “piatti”.

 

Il nuovo menu di Massimo Bottura all'Osteria Francescana di Modena, la nuova combinazione di piatti inediti messa a punto a cavallo tra 2017 e 2018, è un'esperienza che ogni appassionato dovrebbe fare almeno una volta. Considerato tuttavia che gli impedimenti sono parecchi (dal costo, non affrontabile per tutti, fino alla quasi-impossibilità di riuscire a prenotare), è opportuno scriverne il più possibile: ovviamente non sarà come esserci stati, ma qualche concetto può passare, qualche pezzetto di storia può rimanere e contribuire ad insegnare.

Che si tratti del suo miglior menù di sempre non è una notizia. Anche se lo fosse stata, Bottura per primo l'avrebbe “bruciata” affermando lui stesso il primato assoluto di questi piatti. “Sono il top che io abbia mai fatto” ha sentenziato più volte in questi mesi. Il punto, dunque, non è questo. Il punto è capire cosa sia questo meglio, da quali elementi sia composto, in funzione di che si sia generato. Il punto è capire come si possa gettare a tal punto il cuore oltre gli ostacoli della creatività culinaria quando, oltre al cuoco, si sta facendo il testimonial dell'italian lifestyle (moda, arredamento, auto veloci, orologi e altri lussi grazie ai quali il nostro sistema produttivo si tiene in piedi), il pivot di una poderosa operazione di solidarietà (i Refettori), il format maker di nuovi concetti gastronomici (Gucci Osteria) e mille altre cose ancora.

Massimo Bottura

Uno chef che ha tanti impegni può essere ancora cuoco?

Quando hai tutti questi impegni solitamente la cucina ne risente, non c'è niente da fare. Le giornate durano 24 ore perfino per Bottura. E ogni tanto devi pur riposare perché hai 55 anni suonati, non 30. Però nulla di tutto questo è avvenuto alla Francescana. Il livello di creatività ma anche di equilibrio; di rischio e insieme di consapevolezza; di profondità e al contempo di leggerezza e sicurezza di sé sono esplosi proprio nei mesi di super lavoro, di super impegni, di super distrazioni. Proprio nei mesi in cui vai in giro per il mondo senza fermarti praticamente mai e ovunque sei osannato - tu e il tuo team - manco atterrassero i Rolling Stones.

Ecco appunto, il rock. Anzi la musica, tutta. Poi c'è l'arte visiva. E ancora la performance, l'alto artigianato, la tradizione, la memoria. E i viaggi (anche se in forma misurata, perché l'osmosi arriva principalmente dall'Italia, quella contemporanea e quella di cinquecento anni fa). Tutto questo viene mescolato su stratificati livelli di lettura nelle nuove preparazioni barocche, cariche, cucinate, dense, anti-minimal di MassimoBottura. “Preparazioni”, non piatti. Non cucina. Lo vuoi provare a teorizzare tu questo concetto, ma è un'illusione perché anche qui (come per il giudizio sul menù “migliore di sempre”) ti anticipa lui. Fa le cose e se le giudica da solo (vedi alla summenzionata voce “sicurezza di sé”). E allora ecco: “E se non fosse cucina questa qui? Se non lo fosse più? Se fosse una performance, un'esperienza, se fosse teatro?” si domanda simulando un'improvvisa ispirazione.

Quella di Bottura è ancora “cucina”?

C'è probabilmente molto di vero in una risposta affermativa a questa domanda. Ma il punto è che è vero anche il contrario. I nuovi “pezzi” di Massimo Bottura grondano senso, ambiscono a essere prodotto culturale, non cibo. Ma riescono nell'intento di non cadere nella trappola. Il carico intellettuale che si portano dietro grava solo su chi ha voglia e intenzione di leggerlo, non necessariamente su tutti. Potrete, insomma, godervi tre ore di infinito racconto transitando attraverso le Corti Estensi e casa di nonna passando da New York City; potrete parlare senza sosta di arte contemporanea passando dai grandi maestri del Novecento fino ad arrivare ai giovani artisti di super moda oppure potete godervi una dozzina di piatti strabilianti dal punto di vista del gusto, dell'intensità, della – vivaddio – piacevolezza, godibilità, perfino leggibilità e golosità. E questo si badi bene è un messaggio, è una apertura, è un superare certi cliché dell'alta cucina. Un po' come accadde alla fine dei Settanta – questo è un parallelo che a Bottura piacerebbe – quando dopo troppi anni di concettuale durante i quali prendere un pennello era considerata cosa da negletti, si tornò a una pittura ancestrale, colta ma primigenia, carica e volendo comprensibile anche a un pubblico più vasto. Non è un caso che la premiatissima ditta Massimo Bottura & Lara Gilmore (ben poco di quello che raccontiamo in questo articolo sarebbe stato possibile senza la sua presenza) stia arricchendo ultimamente la propria collezione d'arte proprio con molte opere firmate dagli artisti che in quel periodo nacquero professionalmente.

Cucina italiana come made in Italy d'eccellenza

Insomma la golosità, il dente, il morso, il sapore (ancor prima, anzi molto prima, della bellezza dei piatti); e dall'altra parte il supporto concettuale che non è impalcatura meramente gastronomica, ma è stimolo produttivo che connota quella culinaria come un'arte esattamente alla stregua delle altre. L'Italia eccelle in maniera indubitabile su alcuni campi (pochi, purtroppo, ma buoni). Moda, design, arte e patrimonio, industria di precisione. Se la creatività culinaria si pone in sintonia con questi ambiti e ci lavora assieme, l'equazione è presto fatta: così come la moda di Gucci, la produzione di Maserati o il design di Ginori, la cucina italiana può anzi deve ambire ai vertici mondiali. Punto. Eccola con ogni probabilità la costruzione corticale che sta dietro a questo nuovo approccio “olistico”, trasversale tra discipline, che si può sperimentare all'Osteria Francescana. È del tutto evidente dunque che qualsiasi riflessione tipo “Massimo Bottura s'ispira all'arte contemporanea”, può tranquillamente essere derubricata a sciocchezza. Non è il problema di ispirarsi a un'altra disciplina, il problema è servirsene, metterla a sistema, utilizzarla come trampolino.

Ma Bottura non c'è mai in Francescana!

Un'altra sciocchezza bella e buona è la diffusa preoccupazione sulla presenza o sull'assenza dello chef in cucina. Davvero dopo tutto quello che abbiamo snocciolato fin qui, il vostro pensiero va al fatto che Bottura debba starsene ai fornelli? Allora non ci siamo spiegati bene. Come dice lui stesso (perché, come abbiamo ribadito, lui si fa le domande e si dà le risposte da solo, semplificando il ruolo del cronista) “le Ferrari che uscivano da Maranello erano tutte perfette, ma mica le faceva Enzo Ferrari con le sue mani una a una”. Ecco, così vale per i piatti. Anzi auguratevi che quando andrete in Francescana lui proprio non ci sia, perché quando non c'è è da qualche parte nel pianeta o a far del bene all'immagine dell'Italia o a far del bene alla sua stessa creatività così come accade per quasi tutti gli chef a questo livello. È vero, incontrare Bottura in Francescana è un privilegio, ma lo è soprattutto per l'apporto narrativo che la sua presenza conferisce all'esperienza di un pasto. Apporto narrativo, sì, perché questa è una proposta che ha bisogno di un bel po' di racconto. E Bottura in questi anni è diventato un narratore affascinante. Ma anche qui la sua eventuale assenza è superabile, perché se in cucina c'è un team che dà garanzie sulla perfetta esecuzione dei piatti, il sala c'è un team che dà garanzie sull'impeccabile storytelling attorno agli stessi. A Beppe Palmieri – tra i più dotati maître del mondo – il compito di rendere l'esperienza difficilmente dimenticabile sulle ali dell'ormai celebre motto “basso profilo, altissime prestazioni”. Più la proposta è fitta semanticamente più la mediazione verso il cliente è decisiva e strategica. Per cui possiamo parlare quanto vogliamo dei piatti di Bottura, ma dobbiamo farlo avendo la convinzione che negli equilibri del ristorante in cui vengono serviti, la sala conta perfino di più di lui.

La cucina di Massimo Bottura lancia dunque delle sfide a voi che dovete provarla, a noi che proviamo a raccontarla e a lui stesso che deve superarla e davvero questa volta non sarà facile. Una cucina che non è più cucina pur non essendo mai stata così profondamente cucina come oggi. Una carriera che non è mai stata globale come oggi e che eppure mai come oggi è stata così radicalmente italiana. Con la costante di quell'espressione stampata sul viso un po' come a volerti dire: “ueh vecchio, pare totalmente impossibile, ma è proprio così!”.

E visto che è proprio così ed è tutto vero, concludiamo con una carrellata dei piatti aggiungendo qualche commento per ciascuno.

I piatti

Si parte con una serie di stuzzichini. Sono degli stuzzichini nel vero senso della parola. Servono a dare i primissimi suggerimenti e ad aprire la mente predisponendosi anche al gioco (Macaron di coniglio alla cacciatora, sublime - borlengo di parmigiano reggiano, poi frittura di albarelle con gelato di carpione, poi la cialda di pane che è una finta anguilla) e sollecitando, ebbene sì, l'appetito. Talvolta sono suggerimenti anche fuorvianti, non a caso.

Corn on the Cob di Massimo BotturaCorn on the Cob

Ad esempio Corn on the Cob è una meringa che ricostruisce una pannocchia e dentro c'è ceviche e guacamole che ti viene subito da pensar male: Bottura ci sta per somministrare un menu international style per raccontarci tutti i suoi mille viaggi attorno al mondo? Ma dopo il rischio viene scongiurato e il prosieguo si rivela un omaggio, un'ode, una canzone, una preghiera all'Italia.

Insalata di mare di Massimo BotturaInsalata di mare

L'insalata di mare è assai simbolica di questo menù. Prende un po' il posto della mitica Cesar Salad in bloom ed è esteticamente meno affascinante, meno piaciona, meno scenografica. Ma più pregnante. Anche più divertente. Il cuore resta di lattuga ma poi ogni foglia è una chips derivante da una insalata o da un elemento ittico (qualcuno ha detto che c'è tanto mare in questo menu di Bottura. Ebbene no: anche tra il pesce e la terra l'equilibrio alla fine risulta perfetto): polipo, gamberetti, ostriche, impepata di cozze. Acidità, iodio, consistenze, morso, rumore, mare in tempesta spruzzato sopra.

La Sogliola di Massimo BotturaSogliola in tre cotture

La foglia d'acqua essiccata copre la sogliola in tre cotture (cartoccio, crosta di sale, mugnaia) e fa pensare al katsuobushi. Ancora un richiamo alle cucine del mondo? Non proprio: piuttosto un richiamo concettuale al cartoccio con la stagnola bagnata che tutti abbiamo fatto in campagna e poi, a livello visivo, un richiamo alle plastiche combuste di Alberto Burri.

Burnt di Massimo BotturaBurnt

Burnt ha un compito importante: preparare lo stomaco e il palato all'impegnativo lavoro che lo aspetterà nei quarti d'ora successivi. C'è un brodo di calamari, c'è tanto aspro e tanto citrico, c'è il sentore di agrume bruciato che ritornerà poi tra non molto nel risotto. La cialda, fatta di farina al nero di seppia, è ripiena di una crema nera seppia e pesce bianco. Qui la dedica è all'artista del Bronx Glen Ligon. 

Clam chowder di Massimo BotturaClam chowder

La pie di pasta brisé è coperta da un tappo di pelle di pollo. Il contenuto rimpalla tra Adriatico (per la materia prima) e il New England per le origini di questo clam chowder. Dentro lumachine, cannolicchi, ma anche giardiniera di cavolfiori e tartufo tutto coperto da una salsa topinambur.

Autumn in New York  di Massimo BotturaAutumn in New York

Autumn in New York è il piatto feticcio dell'attuale Bottura, forse l'unico piatto non nuovo. Un piatto versatile e adattivo che cambia a seconda delle stagioni o perfino a seconda dei luoghi in cui viene fatto; autentica sliding door del menu, è un piatto che ha un gusto familiare, accettabile per tutti, come quello della mela. Un piatto che dalla mela (anzi dalle tante diverse declinazioni della mela) prende la parte dolce, avvolgente, umami. E poi patate, barbabietole e affumicature. Ma Autumn in New York – ovviamente dedicato a Billie Holiday – non può essere compreso se almeno una volta non si è transitati al greenmarket di Union Square a New York, Grande Mela appunto.

In campagna di Massimo BotturaIn campagna

Si parlava di piatti golosi e godibili (pur essendo puliti e praticamente tutti privi di grassi aggiunti, leit motiv di tutto il menu). E questo lo è moltissimo. In campagna: ravioli ripieni di piccione e foie gras, erbe aromatiche a coprire tutto, qualche goccia di civet di lepre e lumache. Sul fondo c'è una emulsione di prezzemolo. Freschezza e intensità insieme boccone dopo boccone. 

Riso tra un'anatra all'arancia e un'anatra alla pechinese di Massimo BotturaRiso tra un'anatra all'arancia e un'anatra alla pechinese

Altro piatto indimenticabile: Riso tra un'anatra all'arancia e un'anatra alla pechinese. Il riso è cotto in brodo di anatra e arancia, scorze d’arancio e crema di zucca arrosto. Alla base, sotto come una sorpresa, anatra in stile Peking Duck, rifinita con olio di sesamo e cubi di rapa bianca e coriandolo. Sopra generosa grattugiata di scorza bruciata d'arancia dell'Etna. Piatto simbolo della cucina orientale sdrammatizzato con l'abbinamento a un piatto icona della superata&ripescata cucina degli anni Settanta. Barocco di pienezza e golosità già nel riso, e poi quando si arriva all'anatra si accentua la goduria. I piatti Ginori, qui come altrove, danno un compendio visivo fondamentale e convalidano l'approccio olistico che abbiamo detto sopra. 

Piccione camouflage e meatballs di pernice di Massimo BotturaPiccione camouflage e meatballs di pernice 

Piccione camouflage e meatballs di pernice, ovverodove il piccione (cotto nel foie gras) ha una cottura e un colore incredibile, la polpetta è carne di pernice battuta al coltello e poi riassemblata in un finto cosciotto, e fritta. Le verdure fanno sfoggio di tecnica: sono sempre le stesse in tre consistenze per le varie aree del piatto: a fette sopra al piccione, in salsa nel piatto e in polvere attorno alla pernice. Pensando ad alcune mappe di Alighiero Boetti. Con questo piatto inizia una mitragliata di quelli che di fatto sono una serie di “dessert di selvaggina” uno più sorprendente dell'altro.

Per forza poi la cucina di Bottura fatica a trovare una chiusura dolce all'altezza di tutto il resto: perché il dessert già c'è, la parte dolce è già stata declinata. Dopo il piccione e la pernice ci sarà una tarte tatin di germano e una torta al cioccolato e beccaccia: che diamine di dolce vuoi mangiare dopo? 

Tarte Tatin di frattaglie di germano, piccione e pernice di Massimo BotturaTarte Tatin di frattaglie di germano, piccione e pernice

Ecco la Tarte Tatin di frattaglie di germano, piccione e pernice. Pasta sfoglia con impasto di cacciagione, mele caramellate e brodo di anatra che racchiude un ripieno di germano e foie gras, coperto da pickles di zucca. Siamo al sontuoso.

Con Cioccolato e beccaccia (foto in apertura) Bottura conferma le nostre ipotesi sulla “New Ancient Cuisine”: sguardo alla grande cucina nobile italica, potremo essere a palazzo in qualche ricevimento estense, in Modena, cinque o seicento anni fa. Tortino di paté di beccaccia e volatili, ricoperto da una salsa di fondo di frattaglie con cioccolato e caffè.

Vignola  di Massimo BotturaVignola

Emilia, terra di ciliegie da celebrare con questo dolce che prova con un apporto di acidità a fare l'impossibile: ovvero superare il fuoco di fila dei tre “dolci” di cacciagione di cui sopra. Vignola è pomodorini marinati, succo marasche, pane croccante, caffè macinato, sale alla vaniglia coperto da spuma di ricotta con latte di mandorla, sorbetto di marasche e ciliegie.

Si chiude con una piccola pasticceria che richiama, in miniatura e in chiave dolce, alcuni piatti storici della Francescana come ad esempio il Magnum di Foie Gras. “Ce li chiedevano sempre, così per lo meno li vedono in versione mignon” dice Palmieri strappando un sorriso.

E poi pensi che in realtà hai sorriso per tutto il pranzo.

 

Osteria Francescana - Modena – via Stella, 22 – 059223912 - osteriafrancescana.it

 

a cura di Massimiliano Tonelli

 

Forno Collettivo a Milano. Sourdough bread e vini naturali per il team di The Botanical Club

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Laboratorio di panificazione, forno collettivo, nat-wine bar, cucina e caffetteria. Con un team internazionale, sarà tutto questo la bakery con cucina firmata The Botanical Club che aprirà in via Lecco, zona Porta Venezia, alla fine di agosto. Ve la raccontiamo. 

 

Il polo gastronomico “socialista” di via Lecco

L'estate scorsa Champagne Socialist arrivava a consolidare i progetti del team che qualche anno prima aveva esordito in città con i 2 cocktail bar-distilleria The Botanical Club. L'ennesimo tassello di una strategia d'impresa del duo Davide Martelli Alessandro Longhin, fondata sulla ristorazione sociale e sulla costante ricerca di nuovi linguaggi, che proprio nella vineria (naturale) di via Lecco ha trovato la sua anima più autentica, superando con ironia gli stereotipi e mettendo in campo una proposta di grande qualità (a buon prezzo), che è valsa al locale il premio per la proposta al bicchiere al wine bar della guida Milano 2019 del Gambero Rosso. Dunque si va avanti in questa direzione, e per giunta sulla stessa strada per consolidare il polo di via Lecco, con il Forno Collettivo che alla fine di agosto aprirà i battenti al civico 15, nei locali lasciati liberi dal trasloco dello spagnolo Albufera. Quello che si preannuncia è un  nuovo format che strizza l'occhio alle bakery californiane e scandinave, sourdough bread, vino naturale e cucina, anch'essa pensata per valorizzare il pane. La nuova sfida, tutta concentrata sulla panificazione perché in fondo sempre di fermentazioni parliamo, inizia con la consulenza di Laura Lazzaroni, esperta del settore e autrice del libro “Altri grani, altri pani”, che oltre al supporto sulla selezione di grani e farine e sul pane ha fornito i contatti giusti per intraprendere il progetto nel migliore dei modi. Un unicum a Milano, che pure negli ultimi anni ha visto evolversi rapidamente la scena della panificazione locale, con grandi risultati incentivati dai veterani del settore  - Davide Longoni in primis – e sostenuti dall'impegno delle nuove generazioni (tra tutti, citiamo il minuscolo laboratorio di Aurora Zancanaro, Le Polveri, premiato pure come Bottega dell'anno nella nostra Guida;  Pavè; il Panificio Italiano di Giuseppe Zen; la boulangerie di Alain Locatelli alla Bicocca).

Simone Bonvicini e Carol Choi

Il Forno Collettivo. Il sourdough bread di Carol Choi

L'approccio del Forno Collettivo, però, sarà ancora diverso, e si concentrerà sul recepire quel vento di sperimentazione legata alle cotture “spinte”, nata oltreoceano ma oggi molto attraente anche per i nostri maestri panificatori: “Cominceremo vendendo solo 2-3 tipologie di pane a lievitazione naturale” spiegano i ragazzi “un sourdough base e un pane da degustazione che cambierà ciclicamente, in omaggio alle diverse varietà di grano che selezioneremo sul territorio, miscugli evolutivi e vecchie varietà, inizialmente italiane e poi anche da Francia, Spagna e Nord Europa”.

Grande attenzione alla materia prima, quindi, con l'idea di raccontarla dal campo al mulino, e altrettanta competenza tecnica in laboratorio, affidato alle cure della head baker Carol Choi, anello di congiunzione tra il mondo della panificazione internazionale e Milano. Americana (di origini coreane) trapiantata in Italia, Carol vanta un curriculum d'eccezione: pastry chef da Per Se, a New York, e poi al Noma di Copenaghen, dal 2010 al 2012; poi head baker per Christian Puglisi, al Relae, e ancora in città alla guida del team della Mirabelle Bakery, fino al 2016. Per chiudere con un anno di esperienza a Torino, dopo il trasferimento in Italia, nel team di pasticceria di Piano35 (fino alla primavera 2017). Costante l'attitudine al viaggio e la curiosità di trovare nuovi stimoli, tra stage in ristoranti stellati e consulenze in giro per il mondo (tra le più significative, l'avvio della boulangerie Ten Belles Bread a Parigi, nel 2016).

Dalla fine di agosto il suo posto sarà al laboratorio di via Lecco, “per produrre un pane profumato e digeribile, e nella struttura ispirato al modello Tartine, mollica fondente, crosta decisa, grande piacevolezza, che forse è quello che manca ancora a molta della panificazione italiana, con poche eccezioni, come Niko Romito. Circa 60 chili al giorno per cominciare, con l'idea di raggiungere i 150-200 chili e distribuirlo anche alla ristorazione milanese. E poi i dolci per la colazione: apriremo con una sola tipologia di croissant, per controllare al meglio produzione e qualità, e altri due tipi di lievitati dolci che stiamo ancora perfezionando”.

Il babka

Laboratorio, forno collettivo e cucina

All'ingresso del locale (diviso in due ambienti) il banco per la vendita del pane e la somministrazione del vino, qualche tavolo, una piccola cucina sul fondo, che ospiterà anche il forno per la cottura del pane. Sopra, il laboratorio, che più avanti potrebbe traslocare in uno spazio più grande. L'insegna, però, lascia presagire intenzioni ancor più ambiziose: “Da settembre proporremo un paio di volte alla settimana, nel pomeriggio, il servizio di forno collettivo. Sarà sufficiente prenotarsi in anticipo, portare con sé le proprie forme da cuocere negli orari prestabiliti, affidarle al resident baker. E nell'attesa, perché no, spizzicare qualcosa bevendo un buon bicchiere di vino naturale: un'opportunità in più per creare una comunità intorno al pane di qualità”. Stessa filosofia dietro all'idea di organizzare frequentemente incontri con i protagonisti della panificazione, “chiamando guest baker dall’Italia e da tutto il mondo a collaborare con noi: ci piacerebbe molto ospitare per esempio Pam Yung (ex Semilla, New York, ndr) e Richard Hart (già al Noma, in procinto di aprire la sua Hart Bakery a Copenaghen, ndr). Resteranno con noi qualche giorno ciascuno, impasteranno e si racconteranno ai nostri clienti”. Ma non è finita qui, perché anche la cucina avrà la sua personalità spiccata: “Pochi piatti, pensati anche per essere condivisi, molto lavoro sul vegetale, su griglia e plancha, e suggestioni dall'area mediterranea e mediorientale nel proporre una serie di flatbread in abbinamento alle pietanze. Ma non vogliamo mettere limiti, la nostra ispirazione sarà il mondo”. In menu anche open faced sandwich e toast sempre disponibili (anche a colazione), mentre la cucina entra in azione dal pranzo fino a chiusura. Si apre alle 8 del mattino (con servizio di caffetteria, miscela Lavazza Colombia in anteprima e caffè filtro), lo spazio evolverà nel corso della giornata, con la bottigliera a parete protagonista dell'aperitivo, “gemello di Champagne Socialist”. Per mangiare (anche a cena), invece, una trentina di posti in tutto, e una finestra su strada per comprare il pane o qualche sfizio grab and go.

 

Forno Collettivo - Milano - via Lecco, 15 - dal 30 agosto 2018

 

a cura di Livia Montagnoli


San Giorgio a Roma. Menu e prezzi del nuovo ristorante di Andrea Viola

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Tanta gavetta alle spalle, il corso alle scuole del Gambero Rosso, il ristorante a Maccarese (la sua terra) e poi l'arrivo a Roma, da Eit. Infine, la voglia di dedicarsi a un progetto suo, nella Capitale. Ora lo spazio c'è e Andrea Viola ha le idee chiare: San Giorgio a Roma apre a settembre. Vi raccontiamo il progetto.

 

Andrea Viola, dopo aver lasciato il Castello di Maccarese e aver transitato per qualche giorno nella cucina di Eit (ristorante dell'Hotel Rex, ex Pipero al Rex), al posto di Luigi Nastri, scopre finalmente le carte e ci racconta il suo nuovo progetto nella Capitale.

San Giorgio, da Maccarese a Roma

San Giorgio a Roma, così si chiamerà. “Un ristorante con soli 35 coperti, più altri cinque nel dehors, che rappresenterà la coerente continuazione di quello che abbiamo costruito a Maccarese”. Ovvero un progetto ambizioso (e coraggioso) dove Andrea, insieme alla sua brigata, comunicava in primis il territorio, rielaborando prodotti della zona di assoluta qualità, ovvero verdure bio, carni e pesce dai migliori fornitori del circondario. “Siamo sempre stati legati profondamente alla nostra terra, e l'avventura al San Giorgio è nata principalmente da cuore e passione, da quello slancio romantico legato alle radici antiche e semplici del nostro territorio, dei produttori e delle magnifiche materie prime che ne fanno parte. Un progetto puro e ambizioso, che negli anni ci ha regalato moltissime soddisfazioni, ma non ci si poteva fermare qui. Ora è tempo di nuovi obiettivi”. Ed eccolo dunque (ri)approdare nella Capitale, per un brevissimo periodo nella cucina di Eit, e da settembre al numero 20 di Viale del Vignola, a pochi passi dal Maxxi.

Lo chef e il ristorante

Ma chi è Andrea Viola? Classe 1980, di Maccarese ovviamente, Andrea ha uno stile personale e un significativo bagaglio tecnico, costruito dapprima frequentando i corsi del Gambero Rosso e poi al fianco del suo mentore Giulio Terrinoni, sia al Convivio che da Acquolina, dove è rimasto fino alla nascita di sua figlia Anita. Il resto è storia recente: nel 2015 rileva il San Giorgio insieme alla moglie (e sommelier) Noemi Apollonio e all'allora socio Valerio Romani - “Valerio ora mi darà una mano solo all'inizio perché anche lui ha delle bellissime novità” - per poi ritornare a Roma con, tolta la breve parentesi da Eit, un ristorante tutto suo.

Piatti di Andrea Viola

Pochi coperti, dicevamo, tinte chiare tendenti all'avana, cucina a vista, tavoli tondi e quadrati in legno di ulivo, niente tovaglie e un piccolo salottino all'entrata per dare il benvenuto agli ospiti. “Per questo progetto ho voluto alzare l'asticella, anche grazie al socio Valerio Zaccarelli, sbizzarrendomi con cose che a Maccarese non avrei mai potuto fare. Per esempio ho ideato una linea di piatti di vetro di Burano e pietra proveniente da una piccola cava laziale”. Ma brigata, fornitori e menù rimangono in linea col passato. “Porterò con me i fornitori di Maccarese, Rinaldo Silvestri in primis, e ci saranno ovviamente sia il menù alla carta che i degustazione, il più lungo da 8 portate più il dolce, a 80€”. Qualche anticipazione? “Dal raviolo di spigola ripieno di stracciatella all'estrazione di alghe con cialda di riso, gel di mapo e bottarga”. Ci saranno anche dei piatti direttamente from Maccarese come la Tartelletta con coda alla vaccinara e patè di fegatini o l'Omaggio a pasta e patate con gamberi bianchi, harissa e tartufo nero.

Andrea si va così ad aggiungere alla sempre più fiorente compagine di giovani chef che puntano tutto su un concetto di ristorazione classica (pensiamo a Federico Delmonte con il suo Acciuga o Antonio Ziantoni con il ristorante Zia). Niente format complicati, solo un rassicurante ristorante dove mangiare bene.

 

San Giorgio a Roma – Roma - Viale del Vignola, 20 – dall'inizio di settembre 2018

 

a cura di Annalisa Zordan

 

 

 

A Modena, Massimo Bottura padrone di casa per il Basque Culinary World Prize

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Oltre la cucina, il mestiere dello chef oggi non può prescindere da un ruolo attivo nelle trasformazioni sociali. Su questo tema il confronto che ha riunito a Modena il gotha dell'alta cucina internazionale, con il conferimento del Basque Culinary World Prize a Jock Zonfrillo.

 

Può il cibo cambiare il mondo? Più che una domanda un'affermazione da esplorare in ogni sua implicazione. È questo l'oggetto della sessione di lavori che ha trasformato per una giornata Modena nel punto di ritrovo dell'alta cucina internazionale. Quella che mira a capire in che modo il cibo può incidere sulla società. Del resto l'occasione è l'ottavo meeting del board del Basque Culinary Center, durante il quale si nomina il vincitore del Basque Culinary World Prize, che premia progetti sociali legati al cibo. Al centro di tutto, dunque, il ruolo della gastronomia, che con la grande capacità di agire e influire, può affrontare le sfide del presente e del futuro per migliorare la società.

 

Basque Culinary Center

Cultura e senso di responsabilità

Il punto di partenza è un modo nuovo di pensare il cibo e – soprattutto – il ruolo di chi con il cibo lavora: “La cultura è l'ingrediente più importante per il cuoco del futuro” asserisce Massimo Bottura, padrone di casa che apre la giornata di lavori. Nella sua prospettiva la figura dello chef si raccoglie intorno alla triade inscindibile “cultura, conoscenza, coscienza” che oggi si arricchisce di un altro cardine: “senso di responsabilità”. Un obiettivo che si può raggiungere mettendo insieme consapevolezza, visione, intuizione. E qui delinea la figura del cuoco di oggi, che sa creare connessioni tra natura, tecnologia, arte. Così preconizza una terza rivoluzione dopo quella della nouvelle cuisine e quella tecnoemozionale: la rivoluzione umanista. Nella quale il cuoco ha il coraggio di frantumare il passato per costruire il futuro a partire proprio da quei brandelli, non rinnegati ma elaborati. In questo passaggio l'esperienza dei Refettori è stata fondamentale per la sua riflessione sul cibo, che non può più essere solo alimento per il corpo: “dobbiamo ristorare corpo e anima” dice Bottura “quello con i Refettori è un progetto culturale, non solo gastronomico, un progetto in cui recuperiamo spazi e persone, gli diamo accoglienza”.

Basque Culinary Center. I punti salienti della designer Ilse Crawford

Arte, bellezza e riflessione

Creare una vera cultura dell'accoglienza è uno dei nuovi mantra, per fare questo: “abbiamo bisogno di luoghi che riuniscano le persone”, luoghi belli, perché la bellezza non sia solo patrimonio di pochi, luoghi in cui anche l'arte trova un suo spazio, nella duplice funzione estetica e di stimolo per sviluppare un pensiero nuovo, un cambiamento di prospettiva, per vedere il mondo da un altro punto di vista. Lo dimostra JR nel suo intervento, le cui installazioni fotografiche, a partire dall'inatteso e dallo spaesamento, suscitano un corto circuito estetico, emotivo, intellettuale. A lui il compito di un intervento decorativo al Refettorio di Parigi. “Quando mi hanno chiamato per il refettorio di Londra” dice la designer Ilse Crawford “mi hanno chiesto che fosse bellissimo. Una qualità sempre poco considerata nei progetti sociali. Per una volta concetti come buono e utile non erano più sufficienti, serviva anche il bello”. Così la Crawford racconta la grande partecipazione che ha permesso di raccogliere 100mila sterline di materiali per creare uno spazio a funzionalità diffusa, affittato per eventi e usato per corsi e attività che contribuiscono così a creare valore e a sostenere il progetto, ma soprattutto a costruire una comunità, rivolgendosi all'umanità delle persone. Del resto, lei, da sempre si occupa di “creare spazi pubblici e privati in grado di far sentire bene le persone” e lo fa a partire da una sorta di manifesto programmatico di punti chiave (nella foto). Il suo sguardo è quello, tutto umanistico, di ciò che serve agli uomini per vivere nei luoghi, seguendo non tanto il lusso, quanto l'esigenza di cura e attenzioni, “di avere qualcuno che si occupa di noi”.

L'educazione alimentare e la cucina di casa

Un'esigenza fondamentale per l'uomo, essere oggetto di cure. Ne parla, a suo modo, anche Daniele De Michele, aka Don Pasta, quando dice “tutti abbiamo bisogno della parmigiana di mia nonna” che incarna - in quella ricetta e in quei gesti - la storia, le tradizioni, la cura che si annida nella trasmissione del cibo. De Michele, pasionario della cucina contadina, si spinge in un viaggio verso le radici. “Un lavoro antropologico del cibo” lo definisce, quello che individua proprio nella cucina un sistema di relazioni umane e legami con il territorio, di risposta alle necessità - “in queste ricette si lavora per la comunità, per offrire tutto quel che si ha, e meno si ha più si offre” - un lavoro che parte dalla sua storia e dalle sue origini, si allarga a quelle di tutta Italia e oltre, quando dice “milioni di nonne hanno lo stesso atteggiamento della mia riguardo al cibo”. E torna al ruolo tutto domestico della cucina come veicolo di trasmissione del sapere attraverso un metodo didattico empirico, che si basa sull'osservazione e la vicinanza, in un passaggio generazionale che è parte di un sistema sociale, agricolo, economico, politico, di valore. "Serve un approccio critico", ammonisce, "uno sforzo di tutti per mantenere in vita la memoria gastronomica, che è parte integrante della nostra cultura". Almeno quanto lo è l'approccio al cibo. Perché, spiega Bee Wilson assaggiare una cosa per la prima volta è un atto di coraggio”, quello necessario per superare l'istintiva diffidenza verso gli alimenti che non si conoscono, retaggio ancestrale. Occorre trovare il modo per suscitare nei bambini curiosità verso il cibo, per spingerli ad assaggiare, anche a sputare, nel caso, ma comunque ad aprirsi al cibo, “perché il cibo può cambiare le persone e la società” e influenza in modo determinante la salute nostra e dell'ambiente. Questo cambiamento è quello verso cui bisogna orientare i giovani, sempre più affetti da malattie collegate alla cattiva alimentazione. La Wilson se ne occupa con un progetto di charity che mira a formare il gusto dei più piccoli, contribuendo a formare consapevolezza e conoscenza.

Basque Culinary Center.  Massimo Bottura a Modena

Oltre la cucina, l'unione fa la forza

Precursore andino delle lotte sociali per la crescita delle comunità indigene, Gaston Acurio fa una vera e propria chiamata alle armi ai colleghi in sala. "Non dobbiamo restare concentrati sulle nostre creazioni, sul piatto in sé", dice il fondatore di Astrid y Gaston, "bisogna andare oltre, creare un vero e proprio movimento fatto di cuochi, ma anche di giornalisti ed esperti del settore". E ancora: "Vengo da un paese che alla gastronomia deve molto. I peruviani si sono liberati dal giogo del colonialismo ritrovando sapori, tradizioni, ricostruendo la propria identità". Cogliere l'opportunità offerta dal momento storico favorevole in cui si trova la cucina è essenziale: "Oggi i cuochi hanno potere, il potere di costruire qualcosa per creare integrazione, comunità, per oltrepassare i campanilismi e unire mondi e mercati". Secondo Acurio quando i cuochi si uniscono attraverso lo strumento meraviglioso rappresentato dal cucinare l'impossibile diventa possibile, le persone si interessano a temi importanti, seguono il percorso tracciato dagli chef. Che non devono solo occuparsi di ristorazione: è arrivato il momento di riportare il cibo vero nella quotidianità, di far riflettere sull'impatto che abbiamo quando mangiamo, cuciniamo e facciamo acquisti. I cuochi sono l'anello forte della catena del mercato del cibo: "Dobbiamo sforzarci di adattarci alle esigenze di contadini, pescatori, artigiani".

Stesse conclusioni sull'enorme responsabilità del cuoco nel discorso di Andoni Luis Aduriz. Basco, chef del Mugaritz (che ha appena festeggiato i 20 anni di attività), Aduriz è conosciuto e stimato per l'essere sempre un passo avanti su ricerca e sperimentazione in cucina. Avvolge il pubblico del Collegio San Carlo con un discorso storico e antropologico sull'evoluzione del corpo (e della bocca) dell'uomo nei secoli, in relazione all'evoluzione delle abitudini alimentari. "Sei come mangi" recita la sua presentazione, che si concentra sul cibo come espressione contingente delle società. Dal culmine dell'epoca romana, in cui la cucina era ricca di prodotti provenienti da tutte le parti dell'Impero, all'autarchia dei monasteri; dalla luce rinascimentale alla Francia del Re Sole, con la sua lussuosa e ostentata cucina di palazzo; dalla rivoluzione francese, con l'evoluzione della figura del cuoco, all'interesse tutto novecentesco per le pratiche culinarie del futuro. Nel discorrere argomentato da slide e dati del cuoco di Errenteria, emergono degli elementi di rottura che hanno portato profondi cambiamenti nel tessuto sociale: l'invenzione della stampa, nel '500, e oggi la diffusione dei social network, che influenzano il nostro modo di comunicare, di relazionarci e anche di mangiare. Sui social basati sull'uso delle immagini, come Instagram e Youtube, l'enogastronomia spadroneggia sia nei numeri che nelle tendenze, come se fosse diventata affare più virtuale che reale. Milioni di persone fotografano il cibo (il formato delle immagini di Instagram influenza ormai nel profondo anche il design dei piatti), il mondo social ci fornisce una sorta di specchio rispetto ai cibi più consumati e cucinati (stravince la pizza).

In un futuro in cui le previsioni parlano di un'urbanizzazione crescente e di una crescente produzione di cibo, consapevoli del fatto che non ci sono abbastanza risorse naturali (in primis terra e acqua) e che 1/3 della produzione mondiale di cibo va a finire tra i rifiuti, i cuochi che possono fare? La risposta di Andoni ancora una volta parla di rete, di unire le forze, perché no, anche sui social. Approfittando della visibilità di ogni chef ed elaborando strategie collettive, si può divulgare, a milioni di persone, la necessità di un cambiamento culturale, per incentivare nuovi modelli produttivi, per diffondere buone pratiche e conoscenza.

 

L'importanza delle storie

Ruth Reichl è un nume tutelare della critica gastronomica americana. Direttore del mitico (e defunto) Gourmet, esordisce sul palco di Modena con una domanda che pone a se stessa (e ai suoi colleghi), dopo 50 anni di carriera giornalistica. "Abbiamo adempito al nostro dovere? No, non tutti. Spesso abbiamo elogiato qualcosa che in realtà non era da elogiare, siamo stai manipolati negli studi diffusi sul cibo; le brutte notizie non dovevano compromettere gli affari e non interessavano il grande pubblico, quindi le abbiamo ignorate". Qui l'inevitabile, commosso, ricordo di Jonathan Gold, giornalista statunitense scomparso nei giorni scorsi, premio Pulitzer, precursore e innovatore della critica gastronomica. "La missione del Basque Culinary World Prize è di usare la gastronomia come strumento di cambiamento", afferma la Reichl. "In questo Gold è stato un campione, poche persone hanno capito come lui, prima del tempo, il potere enorme del cibo e delle parole, che possono essere utilizzate come armi. Jonathan ci ha insegnato a essere curiosi, ad assaggiare il cibo degli altri senza paura, perché è il miglior veicolo per conoscere gli altri. In questo modo ha cambiato se stesso, la sua città, Los Angeles, e l'intero settore". È sulle storie, al di là dei meri fatti, che la giornalista si sofferma: "Qui facciamo la differenza. Jonathan ci ha mostrato che sono le piccole storie a lasciare il segno: quelli che vogliono cambiare il mondo dovrebbero partire da questo assunto".

Dalla stampa allo schermo, lo storytelling sembra essere centrale anche nell'ossatura del lavoro di David Gelb, regista di Jiro e l'arte del sushi e di Chef's Table, documentari gastronomici che hanno avuto successo planetario su Netflix. Un viaggio in Giappone fatto durante l'infanzia fornisce l'ispirazione per Jiro, racconto del lavoro di Jiro Ono, maestro ineguagliato del sushi giapponese: "Volevo girare un documentario sull'arte del sushi, poi tutto è cambiato. Jiro è diventato un film sulla ricerca della perfezione, non volevamo mostrare come si cucina un piatto, volevamo raccontare le persone che stanno dietro a quella storia". Così Chef's Table, serie di approfondimento, iniziata dal racconto di grandissimi chef (come Massimo Bottura) poi evolutasi, con un approccio rinnovato, a cucine ed esperienze gastronomiche di tutti i livelli. "Abbiamo la responsabilità”ritorna ancora una volta il termine, ndr “di mostrare ai giovani che le grandi storie accadono quotidianamente in luoghi di tutte le estrazioni sociali. Tutti possono cucinare, tutti possono cambiare le cose".

 

Il cibo per l'anima di Lara Gilmore

Perfetta padrona di casa, modenese d'adozione da ormai 25 anni, Lara Gilmore, moglie e braccio destro di Massimo Bottura e fondatrice di Food for Soul, chiude l'intensa mattinata di lavori, ripercorrendo i punti salienti degli interventi, ringraziando uno a uno gli attori di questo incredibile evento che ha portato il mondo a Modena. Lara ripercorre dal principio l'avventura dei Refettori, dalla domenica mattina in cui Bottura le comunicò dell'idea di una mensa sociale.

"Ero terrorizzata", confessa. La sfida poteva essere un grosso salto nel vuoto, la fine di tutto ciò che la coppia aveva costruito insieme negli anni all'Osteria Francescana. "Invece oggi siamo più consapevoli di quello che siamo come cuochi, come ristoratori, come persone. Abbiamo trasferito tutto ciò che abbiamo imparato in un'esperienza culinaria completamente diversa dai percorsi noti". Bellezza, dignità, benessere le parole chiave già presentatesi più volte nel corso della mattinata: prendersi cura delle persone, ristorarle nel corpo e nell'anima il senso ultimo della fondazione dei Refettori.

Dalla partenza tentennante e piena di cambi di programma del Refettorio Ambrosiano, nato per lanciare un messaggio contro lo spreco alimentare all'Expo di Milano, pian piano tutto è divenuto più chiaro e sono nate le altre strutture, da Rio a Londra, fino a Parigi. "Ai refettori vogliamo trasferire i valori della Francescana, la qualità delle idee, la forza della squadra e della bellezza". La bellezza, l'abbiamo capito, in questo progetto non può essere considerata un accessorio, un valore secondario: è fondamentale per produrre altra bellezza. Da qui il coinvolgimento di artisti, designer e architetti. E dei cuochi, attori fondamentali: "Partecipano, sono appassionati, coinvolti, vogliono tornare". Ma la grande sorpresa sono i volontari che si offrono per qualunque ruolo, dal servizio al lavaggio: creano opportunità, diffondono il messaggio del Refettorio, fanno crescere la voglia di esserci (a Parigi con una lista d'attesa di tre mesi). La partecipazione, nelle parole della Gilmore, si allarga come nei cerchi concentrici, che si dipanano dai sassi buttati nell'acqua: si sovrappongono, si allargano, si contaminano, cambiano per ricominciare, in un'energia senza sosta.

 

Cuochi in trincea

Vincitrice uscente del Basque Culinary World Prize, Leonor Espinosacon la sua fondazione Funleo è in prima linea per lo sviluppo delle comunità colombiane attanagliate da povertà e narcotraffico. Un progetto pilota, il suo, per dare lavoro e creare cultura, in un paese che importa il 40% delle risorse che consuma. Perché complicarsi la vita, le chiedono? "Sei parte di un paese e ti devi impegnare per il tuo paese. Credo sia un obbligo anche per gli artisti. La Colombia è un paese magico, multiculturale. Non puoi voltare la faccia e non partecipare". Anche quando si parla di emergenza idrica e di sicurezza alimentare: “Riuscire a produrre in alcuni regioni con progetti di fertilità, avere accesso a ingredienti e alimenti è una sfida per gli chef, che devono trovare il modo di cucinare usando meno acqua". Sfida raccolta, ad esempio, da Enrique Olvera, del Pujol di Città del Messico, che nelle lotte ambientali e nell'impegno alla tutela della biodiversità vede la vera chiave per recuperare il vero sapore dei prodotti.

Problematiche ambientali e difficoltà di accesso alle risorse le ritroviamo anche nel gigante sudamericano, il Brasile in cui lavora Manu Buffara, patronne del Manu di Curitiba. "I cuochi devono pensare alla comunità, non solo al proprio ristorante". Così, in questa metropoli del sud, povera e agricola, eccola in azione in un progetto che ha visto la creazione di 89 orti urbani in aree abbandonate, con una relativa rete di commercio per sostenere i piccoli contadini. "Il governo ci ha aiutato per terra, sementi e prodotti, abbiamo dato lavoro, sostenuto lo sviluppo rurale, e cominciato anche un percorso di educazione alimentare nelle scuole pubbliche". Grande vittoria in un paese in cui manca la sicurezza alimentare, si spreca una gran quantità di cibo e si classifica come secondo al mondo per numero di casi di obesità infantile.

 

Basque Culinary Center.  Il vincitore Zonfrillo

 

Il Basque Culinary World Prize

Nell'assegnare il premio di 100mila euro, il Basque Culinary Center vuole dare visibilità a chi fa un lavoro utile per la società. Una decina di anni fa, quando è cominciata la riflessione su questo riconoscimento, la sua prospettiva è stata discussa e appoggiata dal governo dei Paesi Baschi, che oggi lo organizza e lo promuove nel quadro della Strategia Euskadi-Basque Country. Lo spiega Joxe Mari Aizega, direttore del Basque Culinary Center, che indica come l'obiettivo sia sviluppare il potenziale culturale della gastronomia nel mondo. Tre mesi di lavoro per selezionare i candidati tra gli chef segnalati dai professionisti del mondo della gastronomia, chef che dimostrino come “la gastronomia possa essere una forza di trasformazione in ambiti quali l’innovazione, l’istruzione, la salute, la ricerca, la sostenibilità, l’imprenditorialità sociale, la filantropia e la salvaguardia delle culture locali”. 140 nomi da 42 paesi nel mondo. “Ogni anno scopriamo che c'è tanta gente che sta facendo molto per la sua comunità”. E non necessariamente sono chef famosi. “Quest'anno per la prima volta ci sono finalisti dai cinque continentiaggiunge con orgoglio.
“Siamo un fenomeno molto forte”
gli fa eco Dominique Crenn (Atelier Crenn – San Francisco) “le nomination di quest'anno hanno una portata incredibile” e lancia anche lei un monito sul ruolo degli chef, che devono essere sempre più degli attivisti del cibo, capaci di un impegno a favore dell'ambiente, della società, delle persone. 

Jock Zonfrillo

 

Joan Roca, presidente della giuria, sottolinea che questo non è un premio allo chef migliore, ma a chi può promuovere iniziative che possono cambiare le cose, seguendo la direzione suggerita dalle Nazioni Unite come obiettivi del nuovo millennio. È lui a introdurre il vincitore del 2018: “Una persona che ha fatto un passo indietro per portare avanti e far conoscere nel mondo la gastronomia e le tradizioni della terra in cui ha deciso di lavorare”. Parla di Jock Zonfrillo, scozzese, di origini italiane, dal 2000 residente in Australia, premiato per il suo impegno a difesa della cultura delle popolazioni indigene australiane e la salvaguardia della tradizione gastronomica aborigena. In quasi 20 anni Zonfrilloha visitato centinaia di comunità in ogni parte dell'Australia per conoscere le materie prime locali, censendone con la sua Fondazione Orana più di 1.200 , indagandone il valore culturale e gastronomico, inserendole nel menu del ristorante Orana (Adelaide), ma non solo: attraverso programmi tv come Nomad Chef e un Database degli Alimenti Autoctoni (che sarà disponibile online gratuitamente) vuole diffondere la conoscenza di questi prodotti, creare nuove opportunità commerciali per le comunità indigene produttrici. Quelle comunità da cui lo stesso Zonfrillo dice di aver imparato che “occorrerestituire più di ciò che si è ricevuto" e che, per 60mila anni, ha vissuto su una terra da cui ora sembra essere esclusa. Lo chef gli vuole restituire il suo ruolo, anche nella cultura gastronomica: “Gli indigeni australiani sono i veri cuochi e inventori di cibo di queste terre”. Ai cuochi il dovere di restituire qualcosa: “Dobbiamo essere impegnati oltre la semplice gastronomia nella società e nel nostro tempo”. A tutti il compito di condividere questa energia e farla germinare.

 

a cura di Antonella De Santis e Pina Sozio

 
 

Pokeia Milano. L'alleanza tra Flavio Angiolillo e il co-fondatore del Milanese Imbruttito per cavalcare la moda del poke. Ecco cos'è

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Sarà il trend gastronomico dell'estate 2018: è questa la sentenza che sollecita la curiosità sul poke hawaiano. Cos'è, perché piace, dove è possibile assaggiarlo. Sicuramente, da qualche settimana, sui Navigli di Milano, dove una squadra inedita ha aperto Pokeia. Ma gli indirizzi cominciano a diventare davvero tanti. Quanto durerà? 

 

Poke. Dalle Hawaii nel mondo

Se anche Flavio Angiolillo ha ceduto al fascino del poke, qualcosa vorrà pur dire. Ma il bartender-imprenditore che ha contribuito negli ultimi anni a far crescere la scena della miscelazione meneghina è solo uno dei soci che hanno scommesso di recente sul trend arrivato da oltreoceano e pronto a rivelarsi la moda gastronomica più in voga dell'estate 2018. Qualche avvisaglia, per dir la verità l'avevamo già registrata in passato. A Milano, per esempio, i primi a intuire le potenzialità di questa specialità hawaiana, in tempo davvero non sospetti, erano stati i ragazzi di The Botanical Club, che nell'estate 2016, in occasione del raddoppio in via Tortona, esordivano con una carta di marinature a crudo servite in bowl da abbinare a gin e cocktail della casa. A distanza di un paio d'anni la tendenza è decisamente esplosa, specie in poli gastronomici come Milano e Roma, e qualcuno già etichetta il poke come sushi dei tempi moderni. Ma cosa finisce, esattamente nella ciotola protagonista delle “pokerie” in salsa italiana? La specialità, tipica delle Hawaii, è in realtà già alle origini frutto di contaminazioni tra culture gastronomiche del Pacifico – Polinesia e Giappone – Cina e Corea.

Cos'è il poke

La ricetta è semplice, conta sulla freschezza delle materie prime e sulla capacità di assemblarle perché siano armoniose nel gusto e piacevoli alla vista, e la possibilità di personalizzare le marinature rende il gioco più divertente per chi sceglie di cimentarsi con l'impresa (in questo, come per le potenzialità di replicare facilmente il business, la pokemania ci sembra decisamente più affine al boom delle temakerie che all'avvento del sushi in Italia). Alla base, un piatto di riso – in origine integrale -  sopra pesce crudo marinato (ma c'è anche che ripensa la formula con tartare di carne o tofu e seitan per i vegani) e arricchito di volta in volta con frutta tropicale, specie l'avocado, verdure crude o cotte, alghe, semi, salse, dalla teriyaki alla salsa ponzu. Tutto presentato nella caratteristica bowl, funzionale anche al servizio d'asporto, con i cubi di pesce (da qui il nome poke, che in lingua hawaiana significa “tagliato a tocchi”, in riferimento alla necessità dei pescatori locali di consumare rapidamente il pescato, in prevalenza tonno e polpo) che fanno bella mostra di sé, e diverse affinità con il ceviche peruviano che ha impazzato negli ultimi anni.

Pokeia a Milano

Dalla fine di giugno, dunque, gli appassionati del genere e i curiosi che vogliono sondare il terreno possono contare su un nuovo indirizzo in zona Navigli, Pokeia, che mette insieme un'accoppiata inedita: Flavio Angiolillo (Mag Cafè, Backdoor 43, 1930, Iter) e Marco De Crescenzio, co-fondatore del celebre blog Il Milanese Imbruttito, che per la prima volta si confronta col mondo della ristorazione. Il format, ideato nello specifico da Stefania Giotta, sfrutta un'altra peculiarità molto apprezzata dei poke shop, offrendo ai clienti la possibilità di comporre da sé la propria ciotola, scegliendo tra gli ingredienti di giornata al banco. In alternativa si ordina dalla carta dei signature della casa, che propone pure snack in tema per iniziare, dal pokè toast al pokè taco, o smoothies serviti in bowl, a base di frutta e verdura. In cucina c'è Vincenzo Mignuolo, già chef di Iter. Mentre ad Angiolillo spetta la selezione dei drink di ispirazione tropicale, serviti in bicchieri di carta compostabile take away. Una trentina i coperti disponibili in loco sul soppalco, servizio delivery già disponibile. L'ispirazione, in questo caso, arriva filtrata da New York, dove nell'ultimo anno si è registrato un boom di poke shop: lì Stefania e Marco hanno tratto spunti per replicare l'idea a Milano. La scelta dei Navigli, invece, non fa altro che confermare la familiarità di Flavio Angiolillo e del suo team con il quartiere. Ma da via Magolfa l'insegna potrebbe velocemente replicarsi in nuovi corner in città, dedicati al take away.

 

Pokemania. Quanto durerà?

Integrando una rete già capillare, tra insegne dedicate come Maui Poke, la Pokeria, I Love Poke (uno dei primi a Milano, avviato a trasformarsi in catena internazionale), e realtà affini come il Macha Cafè, che però propone una variante giapponese sul tema, con alghe wagame ed edamame. A Roma il buon momento dei poke shop ha generato solo di recente un interessamento più evidente degli imprenditori locali. Quindi al momento solo poche insegne tengono alta la bandiera del poke in città, e nei quartieri  più favorevoli alla ristorazione veloce: Mama Poke a Prati, Ami Poke a Monti, con la sua proposta da “hawaiian bar” che non disdegna sushi-burrito, pronto ad aprire anche a Firenze e Napoli se la passione degli italiani per il poke non dovesse rivelarsi un fuoco di paglia. Ma il format è già arrivato anche al mare, sulla Riviera romagnola, con il Waikiki Poke di Rimini. I fautori del nuovo trend, così com'è stato qualche mese fa per la moda degli avocado-bar, annoverano tra i punti di forza del poke anche il suo profilo nutrizionale, in riferimento specialmente agli acidi grassi Omega3 del pesce crudo (ma di quante preparazioni italiane potremmo dire la stessa cosa?). Di sicuro le bowl hawaiane sono molto fotogeniche. E di questi tempi il successo passa anche e soprattutto da Instagram...

 

Pokeia - Milano - via Magolfa, 25-27 - www.facebook.com/PokeiaMilano/

 

50 Top Pizza 2018, la cerimonia finale a Napoli. E vince ancora Franco Pepe. Tutti i premiati

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I migliori pizzaioli d'Italia riuniti per una notte al Teatro Mercadante di Napoli, dove va in scena l'atto finale della seconda edizione di 50 Top Pizza, che quest'anno dispensa anche premi alle pizzerie nel mondo. Sul podio le diverse facce della Campania: Franco Pepe, Francesco Martucci, Ciro Salvo. 

 

50 Top Pizza 2018. Franco Pepe e il mestiere del pizzaiolo

Sale sul palco per ultimo, a chiusura di una cerimonia delle grandi occasioni. In platea e sui palchi del settecentesco Teatro Mercadante di Napoli tutti l'ascoltano. E Franco Pepe, per il secondo anno consecutivo in vetta alla 50 Top Pizza, ringrazia e dispensa consigli, con la semplicità di chi racconta quello che ha costruito in anni di lavoro, a Caiazzo: “È stato un anno intenso (vedi l'ultimo progetto sul menu funzionale, ndr), ho ascoltato il cliente, il mio consiglio è quello di leggersi dentro, creare senza copiare, lavorare sulla creatività e sulla continuità. Sono queste le parole chiave del nostro mestiere, ma spero si riesca sempre di più a lavorare su una formazione seria del pizzaiolo. Io ringrazio tutti i miei ragazzi, i 37 che sono a Caiazzo, la squadra di Erbusco”. L'ultimo appello è per la coesione: “Noi siamo riusciti a portare a Caiazzo il turismo internazionale, e approfitto per ricordare Jonathan Gold, una grande persona, di poche parole, che ha capito quello che facciamo. Però il mondo della pizza deve essere unito: dobbiamo stare insieme, superare l'invidia. Così rappresentiamo la pizza italiana nel mondo”. Del resto la serata si era aperta all'insegna dell'internazionalità: alla sua seconda edizione, la guida online ideata da Barbara Guerra, Albert Sapere Luciano Pignataro si apre all'orizzonte internazionale - “tutto il mondo è pizza” recita lo slogan, anche se sul palco sfilano prevalentemente pizzaioli italiani - restituendo una classifica di 1000 pizzerie (recensite da 100 ispettori anonimi con il contributo di 20 esperti nazionali, per qualità del prodotto, servizio di sala, carta dei vini e delle birre, ricerca gastronomica, ambiente) progressivamente svelata fino alla serata conclusiva, dedicata alla top 50 e ai premi speciali, compresi quelli assegnati nel mondo, ai migliori rappresentanti di categoria (il modello è quello che abbiamo imparato a conoscere con la 50 Best Restaurants, e tempi e modalità della cerimonia ne ricalcano le orme).

 

La classifica. Top 10

Dunque al primo posto si conferma Pepe in Grani, in una top 10 ampiamente dominata dalla napoletanità, da Starita a Materdei a Enzo Coccia (con ben due piazzamenti importanti, ottavo per La Notizia 53, quinto con La Notizia 94), dai fratelli Salvo Gino Sorbillo – che si aggiudica anche il Premio del Cuore, per l'impegno nel sociale – a Ciro Salvo, che sale sul terzo gradino del podio con 50 Kalò e vince per la Pizza dell'anno, la sua Margherita, “modello della nuova pizza napoletana, con gli ingredienti che raggiungono l'equilibrio perfetto”. Sul podio, medaglia d'argento e Novità dell'anno, anche Francesco Martucci - tra i più acclamati della serata – con il reboot de I Masanielli a Caserta. Esce dalla top 10 per un soffio il giovane Ciro Oliva, con Concettina ai Tre Santi in discesa al numero 11. L'onnipotenza campana è spezzata, nelle prime dieci posizioni, dalla Gatta Mangiona di Giancarlo Casa (che ritira anche il premio alla carriera, “per aver rivoluzionato per primo il concetto di pizza a Roma”) al settimo posto, e da I Tigli di Simone Padoan, quarto e Pizzaiolo dell'anno. Ma sul palco sfilano tutti, veterani e nuove leve: ritirano il diploma, si scatta la foto di rito. E avanti il prossimo.

 

Premi speciali

Abbastanza ben distribuiti su base nazionale i premi speciali, dalla miglior carta delle birre di Framento (Pierluigi Fais a Cagliari) al premio Innovazione e sostenibilità per Percorsi di Gusto (Marzia Buzzanca a L'Aquila), dal miglior servizio di sala per In Fucina (Edoardo Papa a Roma) ai migliori fritti di Isabella De Cham, a Napoli. Tra i premi internazionali, Spaccanapoli di Jonathan Goldsmith, a Chicago, vince come Miglior pizzeria napoletana nel mondo.

 

La 50 Top Pizza 2018

  1. Pepe in Grani, Caiazzo

  2. I Masanielli di Francesco Martucci, Caserta

  3. 50 Kalò, Napoli

  4. I Tigli, San Bonifacio

  5. Pizzeria La Notizia 94, Napoli

  6. Gino Sorbillo ai Tribunali

  7. La Gatta Mangiona, Roma

  8. Pizzeria La Notizia 53, Napoli

  9. Francesco e Salvatore Salvo

  10. Pizzeria Starita a Materdei, Napoli

  11. Concettina ai Tre Santi, Napoli

  12. Lievito Madre al Duomo, Milano

  13. ‘O Fiore Mio, Faenza

  14. Casa Vitiello, Caserta

  15. Dry, Milano

  16. Sforno, Roma

  17. Pizzeria Da Attilio, Napoli

  18. Patrick Ricci, San Mauro Torinese

  19. L’Antica Pizzeria Da Michele, Napoli

  20. Saporè, San Martino Buonalbergo

  21. Berberè Castel Maggiore

  22. Tonda, Roma

  23. La Masardona, Napoli

  24. Santarpia, Firenze

  25. 10 Diego Vitagliano, Napoli

  26. Grigoris, Mestre

  27. Le follie di Romualdo, Firenze

  28. Piccola Piedigrotta, Reggio Emilia

  29. Seu Pizza Illuminati, Roma

  30. In Fucina, Roma

  31. Carlo Sammarco Pizzeria 2.0

  32. La Sorgente, Guardiagrele

  33. Carmnella, Napoli

  34. O Scugnizzo, Arezzo

  35. Pizzeria Apogeo, Pietrasanta

  36. Le Parùle, Ercolano

  37. Fandango Racconti di Grani, Filiano

  38. Lievito 72, Trani

  39. Pizzeria Da Zero, Milano

  40. Osteria Pizzeria Perbacco, La Morra

  41. La Braciera, Palermo

  42. Percorsi di Gusto, L’Aquila

  43. Mistral dal 1959, Palermo

  44. Pizzeria Mamma Rosa, Ortezzano

  45. I Masanielli di Sasà Martucci, Caserta

  46. Enosteria Lipen, Triuggio

  47. Marghe, Milano

  48. Fresco Caracciolo, Napoli

  49. Framento, Cagliari

  50. La Divina Pizza, Firenze

 

I premi speciali

Miglior pizzaiolo: Simone Padoan, I Tigli, San Bonifacio

Miglior pizza: Margherita di Ciro Salvo, 50 Kalò, Napoli

Novità dell'anno: I Masianelli Francesco Martucci, Caserta

Premio alla carriera: Giancarlo Casa, La Gatta Mangiona, Roma

Premio del Cuore: Gino Sorbillo, Napoli

Premio Innovazione e sostenibilità: Percorsi di Gusto, L'Aquila

Miglior comunicazione web: Vincenzo Capuano, Napoli

Miglior fritto: Isabella De Cham, Napoli

Miglior servizio di sala: In Fucina, Roma

Miglior carta delle birre: Framento, Cagliari

Miglior Identità territoriale: La Braciera, Palermo

Valorizzazione del made in Italy: Ribalta, New York

Premi per la valorizzazione dell'olio extravergine: Fratelli Salvo, San Giorgio a Cremano

 

Miglior pizzeria napoletana nel mondo: Spaccanapoli, Chicago

Miglior pizzeria in Nord Europa: Luca, Helsinki

Miglior pizzeria in Giappone: Da Isa, Tokyo

Miglior pizzeria in Asia: Ciak Concept

Miglior pizzeria in Sudamerica: Guerrin, Buenos Aires

Miglior pizzeria in Oceania: 400 gradi, Melbourne

 

Tutta la classifica su www.50toppizza.it

 

a cura di Livia Montagnoli

Bibendum a Modena. 20 anni di storia per il catering che ha scommesso sulla food experience (in tempi non sospetti)

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Sabrina Lazzareschi e Marta Pulini sono le due anime complementari di Bibendum, una creativa, l'altra chef. Insieme, 20 anni fa, hanno iniziato un percorso originale nel settore del catering, scommettendo sull'esperienza gastronomica tout court. Ripagate da molti successi, oggi si ingrandiscono e traslocano in un nuovo spazio. Ecco com'è cambiato e cosa significa fare catering. 

 

L'importanza dell'esperienza

Era il 1998. A Modena Sabrina Lazzareschi e Marta Pulini iniziavano il loro percorso nel mondo del catering. E bisogna immaginare la prospettiva di una città della provincia italiana di 20 anni fa per capire quanto l'idea delle due socie, così distante da quello che si vedeva all'epoca sui tavoli dei buffet concorrenti, fu coraggiosa, e lungimirante. “Abbiamo deciso di vestire Bibendum in modo originale sin dall'inizio” racconta oggi Sabrina “Avevamo negli occhi una concezione di catering poco diffuso in Italia, suggestioni captate a New York che da subito ci hanno spinto a destrutturare i canoni tipici, con l'idea di fornire un servizio nuovo a una clientela in cerca di originalità e professionalità; e prima ancora, di divertirci dando sfogo alla creatività”.

Sabrina Lazzareschi

Marta chef d'esperienza, Sabrina impegnata a costruire la scenografia, curando tutto ciò che ruota intorno al cibo, trovando soluzioni inedite per valorizzarlo, inscenando set in grado di appagare la vista, oltre al gusto. In nuce, insomma, quel concetto di food experience che oggi ha decisamente preso il sopravvento, a scapito spesso della sostanza. In casa Bibendum, però, le due anime del progetto hanno sempre lavorato all'unisono.

L'evoluzione di Bibendum

E così, 20 anni dopo, in occasione del cambio di sede, il gruppo si riscopre cresciuto – e non solo numericamente – pronto a esplorare nuove idee, desideroso di aprirsi alla città dove tutto è cominciato, “che resta il nostro centro, una base operativa che non abbiamo mai pensato di abbandonare, pur avendo molti clienti a Milano, dove le cose continuano a girare più veloci. Ma la nostra fonte di ispirazione è sempre qui, e Modena si è rivelata anche un'ottima base logistica per raggiungere comodamente tutta l'Italia. Ci piace considerarci un catering nomade”. I clienti, di certo, sono stati motivo di evoluzione costante: “Abbiamo avuto il merito di intuire in anticipo l'evoluzione del mercato, ci siamo avvicinate da subito al mondo della moda, del lusso, del design, affascinati dal binomio buon gusto ed estetica”. Il portfolio è cresciuto in fretta, Bibendum si è imposta come punto di riferimento per gli eventi di grandi realtà internazionali di tutti i settori: la moda – da Prada a Max Mara, Tommy Hilfiger e Jimmy Choo – l'automotive – Audi e Maserati, Porche, Ferrari, BMW – il design – Hermes Home, Natuzzi, Wallpaper – e molte altre realtà del mondo della finanza, della tecnologia, del lusso. Sono arrivate le collaborazioni importanti, da Tom Dixon ad Arabeschi di Latte, e la squadra si è progressivamente ampliata, con l'intenzione di coinvolgere un team giovane e preparato: chef, sicuramente, ma ancor prima creativi, food e flower designer, addetti alla logistica e al customer care, un food manager, “indispensabile per la gestione dei costi, perché più è alta l'aspettativa, più risorse si hanno a disposizione e più è facile esagerare. Occorre anche rigore”. Quindi da un lato l'azienda ha scommesso sull'energia di nuove leve – per esempio collaborando con l'Università di Faenza, che oggi vanta un valido indirizzo in Food Design – dall'altro Sabrina e Marta hanno deciso di assecondare la crescita coinvolgendo nuovi partner. Così si è unita al gruppo Gaia Lupini, oggi general manager di Bibendum, ed è arrivato il momento di traslocare in un nuovo spazio, più grande e funzionale: “Finora ci siamo sempre arrangiate nel nostro spazio in centro città” racconta Marta “il nuovo quartier generale di via Ginzburg finalmente asseconda la nostra evoluzione”. 1250 metri quadri in tutto, per seguire l'intero ciclo prima di procedere con l'allestimento presso il cliente, “quando tutto dev'essere già pianificato al dettaglio, ogni portata ha i suoi accessori, il suo set, la sua storia. E lo sforzo logistico è impressionante”.

Marta Pulini

La cucina di Marta

Al centro c'è sempre la cucina, l'executive è Marta, con lei altri 6 chef e giovani in arrivo da Pollenzo e Alma. Il passato di Marta è lungo e affascinante: “Sono cresciuta da autodidatta, mi piaceva stare in cucina, ho conquistato mio marito con una pasta e fagioli e una parmigiana di melanzane”. Tutt'altro che appagata dalla dimensione amatoriale, però, all'epoca scelse di frequentare il Cordon Bleu a Milano, poi aprì il primo ristorante nella sua città: “A Modena la Brasserie era qualcosa di fin troppo avveniristica per quei tempi. Ma si stava bene: si mangiava fino a tardi, io mi concentravo sull'ingrediente, una costante di tutto il mio percorso. Avevo già una selezione di extravergine, e prodotti mai arrivati prima in città. Era il 1983”. Poi gli anni passano, il lavoro la porta a New York: nell'89 cura l'apertura di Bice, “facevamo 600 coperti al giorno, io arrivavo dalla mia piccola dimensione, è stato un salto importante, mi è piaciuto moltissimo”. E la città l'ha catturata, “ci sono rimasta 16 anni, ho anche preso la cittadinanza lì, sempre in cerca di nuovi stimoli, alla scoperta di prodotti e cucine nuove. Dopo Bice ho cominciato con Pino Luongo, prima Le Madri, un posto bellissimo, poi Tosca Square, Coco Pazzo, Centolire nel 2001, con l'idea di interpretare in chiave moderna il cibo degli emigranti. Mi sono sempre divertita molto, lì ho cominciato a pensare fuori dagli schemi, restando sempre attaccata alla mia idea di cucina, semplice e diretta”.

Cucinare per un catering

Così, quando si è trattato di rientrare in Italia, Bibendum è arrivato con naturalezza: “Doveva essere una piccola dimensione, cibo a domicilio, cene per pochi commensali. E invece ci siamo fatte prendere la mano. Chiaramente c'è stato molto studio dietro, non bastano le idee: non è detto che uno chef sappia fare catering, l'approccio è diverso. Per esempio complicare troppo le preparazioni non è mai la scelta giusta, lo studio preliminare del menu è fondamentale”. Specie se lavori da Bibendum: “Al cliente dobbiamo presentare il cibo più adatto a valorizzare un setup studiato, e viceversa. Proprio a partire dalle sue richieste, ma cercando di essere sempre originali”. Per questo il nuovo quartier generale di Bibendum ha spazio per un grande magazzino: “E non pensate di trovare solo piatti e bicchieri, parlerei piuttosto di oggetti di scena, allestimenti che trattiamo come se fossero scenografie teatrali, invenzioni di food design, come piatti per tenere in caldo il cibo che però siano esteticamente gradevoli, punti luce necessari per creare il set”, racconta orgogliosa Sabrina. E in cucina, qual è stata l'evoluzione nel corso degli anni? “Siamo rimaste fedeli all'idea di comfort food, sempre aggiornate sulle tecniche moderne, ma dando precedenza all'anima. Marta è una persona immediata, ha avuto il merito di restare sempre coerente e connessa con le sue idee. Oggi, dopo anni di contaminazioni e sperimentazioni ardite che ci hanno insegnato anche a padroneggiare lo strumento del service coinvolgendo grandi chef (come a Casa Italia, in occasione delle Olimpiadi di Londra, ndr), il ciclo si sta chiudendo, i clienti tornano a chiederci semplicità e schiettezza. Ne stiamo beneficiando”.

Il futuro qual è?

Eppure le richieste particolari non sono mai mancate, “come quando per il debutto di Daredevil su Netflix, la casa di produzione ci ha chiesto un catering a tema nero e rosso, con molte cotture sul fuoco. L'importante è lavorare senza mai snaturare il cibo: spesso ci capita di doverci ispirare a colori e temi delle nuove collezioni di moda, il gusto non deve mai essere penalizzato”, spiega Marta. I lavori più divertenti? “Ricordo un party per Hermes, in Galleria Vittorio Emanuele, con una ricostruzione di inizio Novecento e tante isole tematiche con trionfi di cibo. Un'idea vincente nella sua semplicità, e molto suggestiva per il contesto. Poi mi piace molto la cucina storica, la ricerca sulla ricette degli antichi Romani per il Museo Archeologico di Modena, la cena dei nobili e dei contadini toscani a New York. Ma anche gli allestimenti futuristici per un buffet del futuro dove ci sbizzarriamo con tecniche di cottura differenti”. Dopo 20 anni nel settore è anche facile prevedere dove porterà il futuro: “Oggi è interessante lavorare sui temporary per modulare un diverso approccio all'evento; non più 600 invitati in una sola volta, ma uno spazio che viva nel tempo, una vetrina in cui il cliente può scegliere come regolare gli accessi. Penso per esempio al Tommy Garden di Tommy Hilfiger che abbiamo allestito a Milano per Expo. Tom Dixon lavora molto così, con i suoi temporary bar, sempre molto riusciti”. Ecco perché oltre allo spazio per gli uffici creativi, il nuovo Bibendum potrà disporre anche di uno spazio eventi modulare, con cucina a vista, di 250 metri quadri, il Convivio, per ospitare eventi culturali gastronomici, feste e cene private: “Ci piacerebbe diventare un laboratorio aperto allo scambio di culture, con la collaborazioni di cuochi internazionali. E presentare tutto questo alla città. A Natale, per esempio, allestiremo un bosco norvegese dedicato alla Nordic Cuisine, per vivere un'esperienza gastronomica complessiva”. Ma il calendario degli eventi sarà costantemente work in progress. E ci sarà anche uno spazio Ristoro, per 15-20 persone al massimo, attiguo alla cucina: una sorta di ristorante privato per eventi più intimi. Per ricordarsi sempre che Modena resta il centro, anche se l'orizzonte di Bibendum è diventato il mondo.

 

Bibendum Group – Modena – via Ginzburg, 39 – www.bibendumgroup.it

 

a cura di Livia Montagnoli

 

Uazz’America, la cucina a stelle e strisce: le migliori torte Made in USA

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Le torte americane sono infinite, ma fra tutte spiccano per tradizione, originalità e popolarità la cheesecake e la red velvet cake. Scopriamo cosa le rende così amate.

 

 

Quando si entra in una pasticceria in America, scegliere un dolce può essere difficile. Le torte della tradizione dolciaria statunitense sono tantissime, e molto diverse: dalla carrot cake alla black forest sheet cake, dalla soffice ed eterea angel food cake alla sua controparte al cioccolato - la devil food cake, passando per la peach cobbler, tipica degli Stati del sud, o le scenografiche bundt cakes, ciambelloni che prendono il nome dalle bellissime forme scolpite; oppure i crumble di mele o di ciliegia; senza dimenticare le crostate ripiene: pecan pie, pumpkin pie, apple pie, lemon meringue pie, e la leggendaria Key lime pie – resa famosa grazie al personaggio autobiografico di Nora Ephron in Affari di cuore, per non parlare delle cupcakes, moderne mini-torte decorate divenute ormai di fama mondiale.

Ma fra le torte americane per eccellenza, quella considerata più buona di tutte, vincitrice di concorsi, approdata con successo anche in Italia è una sola: la cheesecake.

Cheesecake

Per trovare la ricetta originale non serve andare a New York. Ma non si pensi che preparare questa torta sia cosa da poco: occorre, prima di tutto, scegliere “quale” cheesecake fare. Esistono infatti diversi modi di eseguire questa torta e diverse scuole di pensiero. La prima distinzione da fare è quella tra cheesecake con cottura e quella senza cottura.

Nella cheesecake versione “raw” ovvero cruda, si lavora il formaggio con zucchero a velo e una punta di vaniglia. C’è chi, per alleggerire aggiunge panna montata, o per addensare usa gelatina in fogli. La crema così ottenuta si versa nello stampo e si passa semplicemente in frigo a rassodare. Con questa variante si ottiene una sorta di budino più che una torta. Nella versione infornata invece, la cheesecake si arricchisce di uova sbattute. Una volta versata sulla base, la torta si cuoce in forno non troppo caldo, fino a leggera doratura. Ma la differenza più sostanziale è la composizione dell’impasto cremoso. Mentre la New York cheesecake ha come particolarità l’uso della panna acida e della crema di latte, la versione più diffusa negli States prevede l’uso del famoso formaggio spalmabile “cream cheese” molto usato nella pasticceria d’oltreoceano. Ma su questo torneremo

Un'altra grossa differenza la fa la base (crust, in inglese) costituita da uno strato compatto di biscotti sbriciolati e legati da burro fuso. I biscotti usati nella ricetta originale sono i graham crackers, biscotti dal gusto unico a base di farina bianca, miele e germe di grano. Molti, come valida sostituzione usano biscotti secchi tipo digestive oppure frollini, o sablé.

Formaggio bianco spalmabile

Apriamo una parentesi sull’ingrediente principe della cheesecake: il formaggio. Non un formaggio qualsiasi. Quello originale nasce nel 1872, quandoun lattaio americano di nome William Lawrence, nel tentativo di ricreare in America il formaggio francese Neufchatel, inventò un prodotto fresco spalmabile pastorizzato che poi prese il nome Philadelphia Cream Cheese. Già nel 1880 iniziò la sua grande diffusione e il suo utilizzo per la preparazione della moderna cheesecake, tanto che oggi èimprescindibile per la ricetta originale. Naturalmente, però, esistono formaggi spalmabili meno industriali che si possono usare al posto di quello prodotto dalla nota multinazionale.

Ma per quanto goloso sia il formaggio, c’è bisogno di altro per un'ottima cheesecake. La maggior parte delle ricette usa crema di latte o panna acida per ammorbidire la consistenza aggiungendo un po' di umidità all'impasto. Le uova, sia intere che tuorli, servono a tenere insieme la torta e per esaltarne la consistenza cremosa.

La ricetta (infornata)

Per preparare una perfetta cheesecake, partiamo dalla base. Una volta ottenuta una “sabbia” mescolando parti uguali di burro fuso e biscotti sbriciolati, la si versa nella tortiera e, lasciata un po' raffreddare, si compatta con il dorso di un cucchiaio o il fondo di un barattolo. La base deve poi rassodare in frigo per almeno trenta minuti. È bene usare una tortiera con cerniera, e - trucco importante - imburrate o foderate la tortiera con carta forno per una facile estrazione.

Mentre la base si rassoda in frigo, nella planetaria si incorporano formaggio spalmabile, zucchero, un pizzico di sale, panna acida ed estratto di vaniglia, frullando delicatamente. A questo punto si possono aggiungere le uova - una alla volta - fino a ottenere una crema abbastanza lenta e soffice che va versata nello stampo. Chi desidera una cheesecake ancora più compatta può aggiungere anche una punta di amido di mais al composto. L’errore che molti commettono è nella fase di cottura. Il trucco è il bagnomaria! Basterà posizionare la tortiera con il composto all’interno di una teglia più grande e dal bordo alto, riempita con qualche centimetro d'acqu,a e mettere il tutto nel forno. È importante avvolgere la tortiera con fogli di alluminio per evitare che possa penetrare acqua nelle fessure. A seconda del forno, la cheesecake solitamente cuoce per un’ora circa a 175 gradi.

Gli errori più frequenti

Ci sono due motivi fondamentali che causano le spaccature sulla superficie della cheesecake: cottura eccessiva e raffreddamento troppo veloce. Entrambi sono facilmente evitabili. È importante quindi non stracuocere la torta, un buon sistema è cuocerla fino a quando il bordo più esterno è appena rigonfio e abbastanza sodo, mentre la parte interna, se si scuote delicatamente la tortiera, resta della consistenza del budino. Come si nota la formazione di piccole spaccature sulla superficie, è bene passare immediatamente alla fase di raffreddamento. Quando si raffredda una cheesecake, bisogna farlo gradualmente! E qui il secondo trucco: come prima cosa, si lascia riposare la cheesecake nel forno spento con lo sportello aperto di poco per un'ora circa. Poi si rimuove delicatamente dal bagnomaria e la lascia raffreddare la torta completamente sul piano di cottura. Prima di servire la cheesecake – con una leggera spolverata di zucchero a velo, o con un coulis di frutta – la torta va obbligatoriamente raffreddata in frigo.

Red velvet cake

Se la cheesecake rappresenta la torta della tradizione, la modernità è costituita dalla red velvet, che ha vissuto un'esplosione di popolarità negli ultimi anni: oggi esistono red velvet in forma di cupcake, pancake, biscotto, gusto gelato e quant'altro. Ma le sue origini, benché poco note, sono più antiche: la red velvet cake si produce infatti sin dal 1800. La grande novità era l'uso di cioccolato e non di cacao in polvere, cosa che dava a questa torta una consistenza meno grossolana. Questa struttura più liscia ha dato a questi dolci il nome di torte di velluto, ovvero "velvet". Nei primi anni del 1900 nacquero ricette per torte velvet al cioccolato e altre varianti, inclusa una velvet rossa. E si di pur avendo guadagnato popolarità nel XX secolo,

Origine della red velvet

Quando, durante la Seconda Guerra Mondiale, gli ingredienti per torte (nello specifico, zucchero e burro) vennero razionati, alcuni panettieri iniziarono ad aggiungere alle loro torte altri ingredienti, tra cui barbabietole o succo di barbabietola. Questo si faceva per una serie di motivi. Il rosso del succo di barbabietola rendeva le torte più gradevoli all’occhio, e le barbabietole cotte fungevano anche da ripieno e mantenevano umidi i dolci. Nonostante questa abitudine si fosse diffusa (al punto che alcuni sostengono che la red velvet sia nata negli Stati del sud proprio durante il secondo conflitto mondiale), la paternità di questo dolce è contesa tra la società di estrazione Adams, che si prende il merito di aver realizzato "l'originale" negli anni '20 e l'hotel Waldorf Astoria Hotel di New York City che rivendica per sé la paternità della torta che contribuì a rendere popolare negli anni '50, anche se un'importante menzione della ricetta risale al 1943, nel volume The Joy of Cooking di Irma Rombauer (il libro che ispirò la carriera di Julia Child). Quindi, anche se non esiste una risposta chiara, sappiamo che tra il 1920 e il 1950, la red velvet prese piede negli Stati Uniti.

La ricetta

L'attuale red velvet cake si produce più con il colorante alimentare rosso che con la barbabietola, ormai quasi completamente eliminata dal processo produttivo, soprattutto quello industriale. Ma invece di gustare una torta al cioccolato con colorante rosso, perché non seguire questa ricetta originale con purea di barbabietole?

Il primo passo è cuocere le barbabietole al cartoccio nel forno a microonde, riducendole in poltiglia con l'aggiunta di succo di limone, che dona una necessaria punta di acidità e aiuta a mantenere vivo il colore rosso. Alle barbabietole ridotte in purea si aggiunge olio e latticello mescolando con una frusta. Poi s’incorporano le uova, una alla volta. In un'altra ciotola si uniscono gli ingredienti asciutti: farina, zucchero, cacao, lievito, sale e bicarbonato. In questa si unisce la miscela di barbabietole e si frulla il tutto nel robot fino a ottenere un composto liscio e appunto vellutato. La torta si cuoce in uno stampo imburrato per 20 minuti in forno caldo a 180 gradi. Una volta completamente raffreddata, la red velvet può essere finalmente decorata con il cream cheese frosting, ovvero una ghiaccia a base di formaggio spalmabile montato con burro fuso e zucchero a velo.

Non a caso le mie due torte preferite impiegano formaggio spalmabile. Giuro, non l’ho fatto apposta…

 

a cura di Eleonora Baldwin

 

Questi e altri racconti li trovate in Uazz'America, un programma che va in onda tutti i lunedì alle ore 22:00 su Gambero Rosso Channel SKY 412; in replica sabato alle 12:30; e domenica alle 19:30

 

Leggi anche le altre puntate di Uazz'America

 

Estate 2018. Le acque toniche da non perdere

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Indian e Botanical, artigianali e industriali, gourmet e “base”, da bere assolute e da miscelare. Con cosa? Gin prima di tutto, ma anche con alcolici e liquori per drink classici e di ricerca. Ecco 5 acque toniche da non perdere, che completano la top 16 pubblicata sul mensile del Gambero Rosso di giugno.

 

La classifica completa della regina delle bibite analcoliche estive e della mixology,

la trovate nel numero di giugno del Gambero Rosso (e qui trovate l'anticipazione delle prime 3), ma l'argomento ci ha così appassionati che abbiamo deciso di continuare, complice la calura di questi giorni, con le degustazioni. Ecco le 5 acque toniche che abbiamo assaggiato per voi

Acqua tonica Thomas Enry. Foto di Alberto Blasetti

Thomas Henry (Tonic Water)

Prende il nome da Thomas Henry, il farmacista inglese che nel 1773 cominciò a commercializzare un’acqua sodata di propria invenzione. Il suo ritratto – un signore alla lord Byron con i capelli spettinati e l'abbigliamento stile post rivoluzionario inizio '800 – domina l'etichetta delle bevande, oggi prodotte da un'azienda tedesca e distribuite in Italia dal gruppo Campari. La Tonic Water (etichetta e tappo di colore giallo) è la più classica del quartetto di toniche, prodotta con chinino e aromi naturali, uniti ad acqua, zucchero, anidride carbonica, acido citrico e acido ascorbico. Secca, tipica e leggera, assolve il compito sia di dissetare che di supportare i mixologist. Trasparente, bolla grossa e leggera, naso delicato in cui prevalgono note citriche fresche e pulite, dolce/amaro in equilibrio, ritorni agrumati briosi e dissetanti al palato, media intensità e persistenza. Godibile sia come bevanda che come compagna di G&T (con London dry gin) e long drinks.

Bottiglia di vetro 20 cl, prezzo 1,70/2,80euro

Thomas Henry - Berlino - Bessemerstrasse, 22 - +49 (0)30 757657950 - thomas-henry.de

 

Acqua tonicaKinley. Foto di Alberto Blasetti

Kinley – Coca Cola Italia (Acqua tonica)

È l'acqua tonica della Coca Cola Company, prodotta su autorizzazione della maison statunitense da oltre 16 imbottigliatori nel nord e centro Italia legati a Coca-Cola HBC Italia, che ne cura la distribuzione sul territorio nazionale. Una tonica mainstream di tipo industriale (ingredienti: acqua, zucchero, anidride carbonica, acido citrico, aromi compreso il chinino), senza difetti, non particolarmente espressiva al naso e in bocca, piuttosto dolce, poco amara, appena una accento citrico, vagamente rinfrescante, ma versatile e precisa. Da bibita o da gin tonic immediato e senza troppe pretese.

Bottiglia PET 1 litro, prezzo 1,20 euro

Kinley – Coca Cola Italia - Sesto San Giovanni (MI) -piazza Indro Montanelli, 30 – 02262461 - coca-cola.it

 

Acqua tonica Cedral Tassoni. Foto di Alberto Blasetti

Cedral Tassoni (Tonica Superfine)

Chi non conosce la cedrata Tassoni, con aromi naturali di cedro (calabresi di Diamante), che hanno reso famosa l'azienda di Salò? Nel catalogo bevande analcoliche (oltre alle esclusive Fior di Sambuco e Mirto in Fiore) anche l’acqua tonica secondo lo stile maison, con le note agrumate date soprattutto dall’aroma naturale di cedro, la spinta amaricante regalata dal quassio invece che dal chinino e la base costituita da acqua demineralizzata con aggiunta di anidride carbonica e acido citrico. Leggermente torbida, perlage evanescente, ha un delicato profumo citrico, floreale ed erbaceo con ricordi lontani di pane e cereali. Il sapore non è centratissimo e risulta poco caratteristico, dolce e poco amaro per una tonica. Si presta al ruolo di ingrediente per G&T e long drink, o come bevanda per chi ama toniche delicate.

Bottiglia in vetro da 18 cl, prezzo 1 euro

Cedral Tassoni - Salò (BS) - v.le M.E. Bossi, 5 – 036541735 – cedraltassoni.it

 

Acqua tonica Fava. Foto di Alberto BlasettiFava (Dry Bitter Tonic linea Imperdibile)

Nella classifica delle 16 acque toniche da non perdere pubblicata sul mensile Gambero Rosso di giugno sono entrate aziende italiane che per la produzione delle proprie bevande si appoggiano alla maison comasca, tra le quali J.Gasco arrivata seconda, tanto per citarne una (le altre: Abbondio e Bevande Futuriste). Perché la tonica prodotta a marchio non si è classificata nella rosa delle top? Forse perché Fava segue un processo di lavorazione artigianale partendo da materie prime naturali, senza aromi di sintesi, quindi le sue bevande potrebbero avere tutte le vibrazioni e le incertezze che ciò comporta. Soprattutto nella nuova linea Imperdibile, una gamma di 14 bibite analcoliche con un bel set di 5 toniche: dalla classifica Dry Bitter Tonic alle Wild Botanical (mirto selvatico e alloro lucano), Superior Italian (agrumi siciliani), Bergamotto Francy (bergamotto calabrese), Oakwood (estratto di legno di quercia), con la nota amaricante data dall’estratto naturale di corteccia di china del Sud America. La Dry Bitter Tonic, appena velata, colore tendente al giallo, micro perlage, è molto delicata, forse troppo, con le sensazioni olfattive e aromatiche pacatamente citriche ed erbacee, ma decisamente fresche e centrate, e un sapore dove prevale un amaro che l'avvicina a una soda. Più bevanda che ingrediente.

Bottiglia in vetro da 20 cl, prezzo 1 euro

Fava - Mariano Comense (CO) - via per Novedrate, 111 – 031745282 - favabibite.it

 

Acqua tonica East Imperial. Foto di Alberto Blasetti

East Imperial (Burma Tonic Water)

Etichette classiche e austere per le sette sorelle analcoliche East Imperial, ciascuna di colore diverso, distribuite in Italia dalla Compagnia dei Caraibi. Ispirate a una ricetta del 1903, sono prodotte tramite un processo a freddo con ingredienti di qualità di provenienza asiatica: acqua di sorgente neozelandese, zucchero di canna, acido citrico, china da Java ottenuta in modo artigianale, aromi naturali (erbe ed estratti) dall'Asia sud orientale (Indonesia, Birmania, Thailandia, Filippine). Senza aromi artificiali, dolcificanti e conservanti. Nel poker di toniche quella classica è la Burma Tonic Water (etichetta color rosso lampone). Leggermente torbida, buon perlage, al naso e al palato è un mix di tante cose, forse troppe: prugna matura, tè freddo, caramella alla frutta rossa, confettura di pomodori verdi, agrumi, rabarbaro, intense sensazioni dolci e acide, amaro estrattivo persistente, leggera punta sapida, astringenza, note vagamente medicinali. Difficile da usare sia come bevanda che come ingredienti per la mixology.

Bottiglia in vetro da 15 cl, prezzo 1,75/2 euro

East Imperial - Nuova Zelanda - 10 Anson Road, 26-04 - +64 (0) 27 233 6583 - eastimperial.com

 

a cura di Mara Nocilla

foto di Alberto Blasetti


Appetitosamente e Sustainable Gourmet Festival. La Sardegna che si racconta col cibo, buono e sostenibile

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Dal 27 al 29 luglio torna a Siddi il festival del cibo regionale che coinvolge un paese intero della Marmilla, storicamente legato alla produzione di pasta. Tema: cibo e felicità. In Costa Smeralda, invece, debutta il festival gourmet organizzato dal Petra Segreta Resort, con tre appuntamenti per 7 chef. 

 

La prima è una manifestazione longeva, che tra qualche ora celebrerà la sua tredicesima edizione, espressione di tutto il buono del territorio della Marmilla, nell'entroterra sardo del Medio Campidano. La seconda, invece, è una rassegna al debutto, nel contesto ben più mondano della Costa Smeralda, sulle colline di San Pantaleo all'interno del Petra Segreta Resort & Spa. Entrambe però, pur con prospettive differenti, raccontano la Sardegna che vuole aprirsi all'esterno, parlare all'Italia e al mondo di eccellenza gastronomica, sostenibilità, cultura, cibo per il palato e per la mente.

Appetitosamente a Siddi

Precedenza ai veterani, anche per scansione temporale, iniziamo da Siddi, dove dal 27 al 29 luglio si ripete la festa di Appetitosamente, il festival regionale del buon cibo. Si parlerà di felicità (legata al cibo) e consapevolezza, cultura alimentare e specialità tradizionali, in casa di uno degli chef che più ha rappresentato l'isola e la sua storia gastronomica negli ultimi anni, Roberto Petza, come sempre tra gli animatori più attivi della rassegna. Il calendario è ricco di appuntamenti, tra degustazioni e cene in strada, concerti e laboratori, mostre, incontri (sul cibo e la felicità) e mercati contadini. Scandito da attività che si ripetono ogni anno - come la colazione all'alba della domenica alla tomba dei giganti Sa Domu de S'Orcu, che il 28 luglio sarà pure cornice del concerto al tramonto di Nina Zilli – e assaggi, in collaborazione con Slow Food Sardegna e con il paese intero, storicamente legato alla produzione di pasta, che per tre giorni si mobilita per accogliere i visitatori. Sarà aperto anche di sera il Museo Casa Steri, con il cortile seicentesco trasformato in banchetto estemporaneo, in collaborazione con il maestro panificatore Stefano Pibi, per celebrare i sapori tradizionali della Sardegna. Mentre l'ex pastificio Puddu ospiterà la mostra fotografica su feste, riti e antichi mestieri legati al cibo, e sabato 29, dalle 22, saranno le case del centro storico ad aprire le porte imbandendo tavoli e pietanze. Domenica sera, in piazza Leonardo Da Vinci, chiusura con l'assaggio delle paste e dei cibi tipici di Siddi.

 

Sustainable Gourmet Festival a Petra Segreta

All'inizio di agosto, invece, prende il via l'inedito Sustainable Gourmet Festival del Petra Segreta Resort, con tre appuntamenti che si avvicenderanno nell'arco del mese per celebrare i prodotti dell'isola interpretati da 7 chef (non solo sardi): Bobo Cerea, Enrico Bartolini, Luigi Pomata, Achille Pinna, Leonildo Contis, Roberto Serra e il resident chef Luigi Bergeretto. L'accento è posto sulla sostenibilità delle materie prime e delle produzioni locali, buone e rispettose dei ritmi naturali, ma ognuno degli appuntamenti svilupperà un tema specifico. Si comincia il 2 agosto, con 5 grandi chef per 5 grandi cucine. Il racconto di una Sardegna gourmet che vedrà all'opera il gruppo dei cuochi sardi, ognuno alle prese con un prodotto simbolo del proprio territorio, per una cena spettacolo con vista su La Maddalena: spazio ai fagioli bianchi del Sulcis, al tonno di Carloforte, alla manzetta di razza bruno sarda di Abbasanta. Il 23 agosto sarà la volta di Exquisite Fish, serata dedicata al mare e al pescato locale, in collaborazione con Enrico Bartolini e in partnership con Ethic Ocean. Ultimo appuntamento, il 30 agosto, con Tre stelle a chilometro zero, con la partecipazione di Bobo Cerea, che cucinerà insieme a Bergeretto i prodotti dell'orto e della fattoria del resort.

 

Appetitosamente – Siddi (SU) – dal 27 al 29 luglio - www.facebook.com/appetitosamente/

Sustainable Gourmet Festival – Petra Segreta Resort & Spa – San Pantaleo (OL) – ad agosto – www.petrasegretaresort.com

 

a cura di Livia Montagnoli

foto d'apertura: Petra Segreta Resort

Carbonara. Storia, origini e aneddoti di una ricetta mitica

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Sulle origini della carbonara ci sono molte leggende più o meno fantasiose e le circostanze della sua nascita sembrano perdersi in un passato tanto lontano quanto misterioso. In realtà è possibile ricostruirne la storia partendo dalla prima ricetta pubblicata (che non è italiana!).

 

Sfatiamo subito un mito: non esistono antichi progenitori della carbonara. Il racconto di umili e operosi pastori (o carbonai) che dalla notte dei tempi riempiono la gavetta di spaghetti conditi con uova, guanciale e pecorino è tanto affascinante quanto antistorico. Con tutte le cautele del caso, si può affermare che le cose siano andate diversamente

L’origine di un piatto si evince dai ricettari

Partendo dai ricettari storici, si può incontrare il primo esempio di associazione tra uovo e pasta ne “Il cuoco galante” del napoletano Vincenzo Corrado,stampato nel 1773, seguito dalla “Cucina teorica-pratica” del conterraneo Ippolito Cavalcanti. In questi due casi l'uovo viene utilizzato unicamente come addensante per la pasta in brodo, le polpette di pasta fritte o i timballi di pasta, preparazioni molto lontane, non solo dalla carbonara, ma anche dalla concezione stessa di pastasciutta. A compiere un deciso passo in avanti è invece Francesco Palma, un altro napoletano, che descrive ne “Il principe dei cuochi” del 1881 i Maccheroni con cacio e uova, in cui riunisce formaggio, uova e sugna, in un piatto di maccheroni.

L'utilizzo di lardo o guanciale come condimento per la pasta viene invece registrato dai ricettari solo molto più tardi.Ricordiamo la ricetta degli Spaghetti al guancialepubblicata ne “Il piccolo talismano della felicità” di Ada Boni nel 1949. Purtroppo in nessuna delle ricette è presente l'uovo per cui possono al massimo essere considerate i primi esempi di gricia, anche se questo nome gli sarà imposto solo molto tempo dopo. E a proposito di nomi: quando si sente parlare per la prima volta di carbonara? Strano ma vero, il nome compare in un film.

La ricetta della carbonara arriva dagli Stati Uniti

In “Cameriera bella presenza offresi…” del 1951 durante un insolito colloquio di lavoro con la cameriera Maria, interpretata da Elsa Merlini, il datore di lavoro chiede:“Scusi un momento, senta un po’, ma lei sa fare gli spaghetti alla carbonara?”. Anche nella finzione del film la ricetta non doveva essere così diffusa, poiché la cameriera non la conosce (mentre sa preparare gli spaghetti all'amatriciana). Nello stesso anno una seconda citazione appare nel libro “Lunga vita di Trilussa” di Mario dell’Arco: “È difficile che il nostro poeta muova all’assalto degli spaghetti 'alla carbonara' o 'alla carettiera'...”. Ma tornando alle ricette, la prima ricetta della carbonara pare sia stata pubblicata nel 1952 negli Stati Uniti in una guida dei ristoranti di un distretto di Chicago dal titolo “An extraordinary guide to what’s cooking on Chicago’s Near North Side” di Patricia Bronté. Nella recensione del ristorante "Armando's" l'autrice ne riporta una ricetta piuttosto precisa e non ci si può sbagliare: è proprio la carbonara che tutti conosciamo. La comparsa della prima ricetta italiana (ma non come la conosciamo oggi) è invece datata agosto 1954, quando appare sulla rivista La cucina italiana. Qui gli ingredienti sono: spaghetti, uovo, pancetta, gruviera e aglio.

La ricetta comparsa ne “La cucina italiana”

La presenza dell'aglio e soprattutto del gruviera possono destare più di una perplessità, ma sono coerenti con una ricetta ancora poco conosciuta a livello nazionale e in pieno corso di definizione. L'anno successivo la carbonara entra per la prima volta in un ricettario vero e proprio, “La signora in cucina” di Felix Dessì in una versione più simile a quella odierna, con la presenza di uova, pepe, parmigiano (ma se si preferisce il piccante, un buon pecorino lo può sostituire)e pancetta.

Lardo

L'introduzione del guanciale

Ma la definitiva consacrazione a ricetta nazionale avviene con la pubblicazione nel ricettario di Luigi Carnacina “La grande cucina” del 1960. Per la prima volta viene introdotto il guanciale di maiale, in sostituzione della pancetta, e la panna che sarà spesso presente nella ricetta fino allo scadere degli anni '80 con quantità anche importanti (come nella versione di Gualtiero Marchesi del 1989 che ne consiglia un quarto di litro su 400 g di spaghetti). Nei suoi primi quarant'anni di vita, oltre alla panna, altri ingredienti trovano il proprio spazio nella ricetta, come vino, aglio, cipolla, prezzemolo, peperone, pepe e peperoncino, dimostrando un'estrema variabilità della composizione. Nelle versioni della carbonara degli anni '90 tutti questi ingredienti verranno eliminati consentendo l'affermazione lenta, ma costante, dei tre ingredienti classici che oggi tutti conoscono: uovo (con una netta prevalenza del tuorlo), pecorino e guanciale con l'aggiunta più o meno abbondante del pepe.

Origini del piatto

Per quanto riguarda le circostanze della nascita di questo piatto, è plausibile che la disponibilità delle razioni militari statunitensi nell'immediato dopoguerra abbia fornito l'impulso decisivo per la costruzione della ricetta. La combinazione del tipico gusto americano uova & bacon con la pasta condita con il formaggio ne ha decretato l'immediata fortuna su entrambe le sponde dell'Oceano Atlantico. Ma a chi dobbiamo questa invenzione? Le ipotesi sono diverse, ma su tutte prevale il racconto, mai smentito, di Renato Gualandi. Questo giovane cuoco di origine bolognese fu ingaggiato il 22 settembre 1944 per preparare un pranzo in occasione dell’incontro tra l’Ottava Armata inglese e la Quinta Armata americana nella Riccione appena liberata. Facendo di necessità virtù, creò inconsapevolmente un piatto destinato a diventare famoso in tutto il mondo: “Gli americani avevano del bacon fantastico, della crema di latte buonissima, del formaggio e della polvere di rosso d’uovo. Misi tutto insieme e servii a cena questa pasta ai generali e agli ufficiali. All’ultimo momento decisi di mettere del pepe nero che sprigionò un ottimo sapore. Li cucinai abbastanza “bavosetti” e furono conquistati dalla pasta”. In seguito Gualandi divenne cuoco delle truppe alleate a Roma dal settembre del '44 all'aprile del '45 e questo periodo fu sufficiente per diffondere la fama della carbonara nella Capitale. Ovviamente il racconto della carbonara inventata a Riccione nel 1944 da un cuoco bolognese usando le razioni dell’esercito americano, può generare qualche perplessità nei puristi (talvolta autentici talebani senza giustificazione storica) della tradizione romana, ma ciò non rende la faccenda meno veritiera o plausibile. Ci piace invece pensare che sia frutto della grande capacità, tutta italiana, d’improvvisazione culinaria che ha creato un capolavoro in uno dei momenti più difficili della propria storia.

 

a cura di Luca Cesari

L'America in difesa dei lemonade stand. Perché i banchetti della limonata sono così importanti per i bimbi americani (e per i loro genitori)

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Da questa parte dell'oceano l'abbiamo più volte visto in film e serie tv, ma non è una leggenda. Negli Stati Uniti sono moltissimi i bambini che onorano la tradizione del banchetto della limonata fai da te, che ha origini antiche ed è diventato simbolo dell'intraprendenza imprenditoriale. Sin dai primi anni di vita. Ora scoppia la protesta contro le leggi che vietano i banchetti per mancanza di licenza e violazione delle norme igieniche. 

 

Il mito dei banchetti della limonata

Da un lato l'ormai celebre storia di Mikaila, baby imprenditrice in ascesa che ha conquistato i riflettori – e una foto col presidente Obama, nel 2015, che ha fatto il giro del mondo – grazie alla ricetta di famiglia di una limonata irresistibile. Dall'altro la polemica che in queste ore dilaga in molti stati del Paese dopo l'episodio che a Denver, Colorado, ha coinvolto tre fratellini di 6, 4 e 2 anni alle prese con il proprio banchetto delle limonate, multato dalla polizia per mancanza di permessi. Come Mikaila Ulmer e i fratelli Guffey, moltissimi sono i bambini americani che rinnovano un gioco diventato costume nazionale, tanto da trasformare il caratteristico stand fai da te - con i bicchieroni di carta impilati, il dispensatore di limonata fresca e il listino dei prezzi scritto con l'aiuto di mamma e papà in bellavista - in un feticcio (che piace molto al cinema e alla tv) dell'America che sa prendere di petto la vita, e celebra l'intraprendenza come valore da coltivare sin da piccoli. La storia dei cosiddetti “lemonade stand” statunitensi, del resto, è tanto familiare quanto longeva: in auge da più di un secolo, agli anni Cinquanta risale l'illustrazione di Norman Rockwell che immortala la tradizione, fotografando una consuetudine sulle cui origini gli stessi americani hanno finito per smettere di interrogarsi, tanto è radicata in modo capillare.

 

Dove comincia la storia

Una tradizione che unisce il mondo - origini arabe, larga diffusione in Europa, dove già nel XVII secolo i limonadiers parigini si costituiscono in una corporazione - e in America trova modo di resistere anche dopo l'avvento delle bibite frizzanti, che invece in Europa mandano in crisi il mercato della limonata già alla metà dell'Ottocento. Ma come questo business si trasformi in un'attività ad appannaggio dei bambini americani si comprende leggendo le memorie di Edward Bok, popolare editore newyorkese (e premio Pulitzer) del primo Novecento, che racconta nel libro il suo arrivo a 6 anni (immigrato dall'Olanda) e i primi lavoretti, compreso l'esordio da venditore di limonata a Brooklyn, sdoganando quel mito dell'intraprendenza americana di cui sopra. E legandolo a doppio filo ai lemonade stand: semplici da replicare, divertenti e istruttivi, i banchetti cominciano a moltiplicarsi, e con loro i giovanissimi commercianti in erba, aiutati e sostenuti dai propri genitori.

 

Il caso di Mikaila

Il caso più celebre degli ultimi anni, dicevamo, è quello di Mikaila Ulmer, oggi 13enne, che il sogno americano l'ha realizzato sul serio, e in età molto precoce: a 4 anni ha iniziato a vendere limonata in strada, nel vialetto di casa, per pochi spiccioli. Con una variante inedita – l'aggiunta di miele da ricetta della bisnonna – che è stata il segreto del suo successo. Nominata tra le 30 teenager più influenti d'America nel 2017, Mikaila è riuscita a far appassionare l'America alla sua storia, ha iniziato a studiare apicoltura, destina il 10% dei proventi alle associazioni di tutela delle api. E il suo marchio Me & the Bees oggi è distribuito anche da Whole Foods.

 

I divieti e le campagne in difesa dei lemonade stand

Tutt'altra storia quella dei fratellini di Denver, che ha scatenato negli ultimi giorni la battaglia delle limonate. I ragazzini sono stati multati al parco pubblico dalla polizia locale un paio di mesi fa, solo di recente il Wall Street Journal ha reso nota la loro vicenda, dopo che mamma Jennifer, scioccata dal provvedimento, ha deciso di fondare il gruppo Lemonade Stand Mama, dando voce alla protesta per cambiare la legge a riguardo, in difesa dei lemonade stand. C'è voluto poco per accendere altri focolai di protesta, suscitando un'indignazione popolare che parla alla pancia di un Paese tanto moderno quanto (molto di più) attaccato alle sue tradizioni. E così è stato chiaro a tutti che i casi di multe e chiusura forzata dei celebri banchetti per violazione delle norme igieniche o mancanza di licenza sono molti, e diffusi. In Missouri c'è già chi ha cominciato a mappare i casi, per diffondere una mappa a sostegno del movimento di protesta, che si consolida ogni giorno di più, coinvolgendo non solo i genitori, ma associazioni di categoria e personalità politiche.

Persino il gruppo Kraft Heinz, che negli Stati Uniti distribuisce la limonata Country Side, cavalca l'onda con un video che affronta la vicenda con sarcasmo e lancia la campagna Legal-Ade, per rimborsare i piccoli venditori di limonata multati (quanto questo sia vero è tutto da confermare). Ma per ora, ben più sicuro per chi vuole agire nei limiti di legge è partecipare all'iniziativa Lemonade Day, che in determinati giorni dell'anno garantisce ai bambini di ritrovarsi in luoghi specifici (e autorizzati) con il loro banchetto delle limonate. Qualcuno intanto già si appella alla Costituzione: che i lemonade stand amatoriali siano davvero un diritto inviolabile degli americani?

 

a cura di Livia Montagnoli

Cannonau o Grenache. Un vitigno, mille nomi

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Cannonau, grenache, garnacha, guarnaccia... C’è un’uva che da secoli (o forse millenni) caratterizza la viticoltura del Mediterraneo occidentale: dalla Sardegna alla Catalogna, dal Roussillon alla Corsica. E che oggi ha conquistato tutti i continenti, Australia inclusa. Un’uva capace di dare rossi eleganti, adatti all’invecchiamento; un vitigno rustico, resistente a siccità e avversità, ormai fra i tre rossi più diffusi nel mondo. Ma è davvero sempre la stessa varietà? Abbiamo cercato di scoprirlo...

 

Fino a qualche anno fa si diceva che il cannonau venne importato dalla Spagna, dove è tutt’ora chiamato garnacha, intorno al 1400. Recenti scoperte hanno invece dimostrato che il vitigno sardo vive in Sardegna dal 1200 a.C. e che proprio da lì si sarebbe diffuso in tutto il bacino del Mediterraneo. Studiosi ed esperti sono d’accordo nel dire che, dal punto di vista genetico, il cannonau coincide per l’80% con la garnacha spagnola e il grenache francese (che invece sono totalmente sovrapponibili geneticamente tra loro). Una cosa è certa: se consideriamo il grenache come una grande famiglia dove convivono tutte le varietà citate, questa è presente nel mondo con qualcosa come più di 200mila ettari vitati. E il numero è destinato a crescere. Un successo in forte ascesa che, per molti, rappresenta una valida terza via tra i prestigiosi vini di Bordeaux da una parte (capitanati dal cabernet sauvignon e dal merlot che hanno dato origine ai tagli bordolesi nel mondo) e i vini della Borgogna che in tanti sognano di poter imitare coltivando il prestigioso pinot noir.

Grappolo d'uva. disegno di Marcello Crescenzi

Il successo della grenache. I motivi

Le motivazioni del successo della grenache sono diverse. Da un lato parliamo di varietà che si adattano molto bene ai climi caldi; dall’altro parliamo di vini che – se vinificati con esperienza e tecniche moderne – riescono sempre più a regalare finezza, eleganza, grande bevibilità e un’aromaticità fresca e fragrante, di frutto croccante, fiori e spezie. “Il bello del cannonau è l’originalità aromatica – ci dice Lorenzo Landi, importante enologo-consulente che da diversi anni segue il viticoltore Giuseppe Gabbas, a Nuoro – Dà vita a un vino molto nitido, che sa di rosa rossa, carnosa, ha un tannino delicato, che chiude morbido e vellutato, succoso ma non dolce, e con note mediterranee evidenti. È un vitigno isoidrico – prosegue– quindi mantiene lo stesso potenziale idrico in diverse condizioni e quando il grappolo va in stress non perde acqua. Ecco perché è adatto ai climi caldi. Non è ricco né di polifenoli né di colore, la buccia è sottile, regala un vino delicato ed elegante, più che potente e strutturato”.

Per molti è il perfetto vitigno glocal. Capace quindi, attraverso il suo adattamento, di crescere in tante zone del Mondo dai climi più o meno miti, come hanno fatto in passato alcune varietà internazionali; ma in grado anche di acclimatarsi a tal punto da riuscire a regalare nel bicchiere molta territorialità, trasmettendo clima, microclima e le caratteristiche del suolo in cui sono coltivate le piante. In Sardegna, ad esempio, i terreni a disfacimento granitico sono molto adatti per il cannonau; le coltivazioni antiche vedono l’allevamento ideale ad alberello, capace negli anni – con l’invecchiamento delle viti – di rese per ettaro molto basse. La Barbagia e l’Ogliastra sono senza dubbio le subregioni dove il vitigno trova massima diffusione e all’interno di queste troviamo aree minori capaci di trasmettere particolari micro-territorialità: parliamo di Mamoiada, ad esempio, così come di Oliena, Jerzu o Dorgali. Ma in Italia la varietà la troviamo anche in Umbria: qui viene chiamato gamay del Trasimeno o perugino. In Veneto il nome della grenache è tai rosso; in Toscana c’è l’alicante, in Liguria la guarnaccia e nelle Marche il bordò. Ed è proprio sui nomi che si concentrano le perplessità degli studiosi: non tanto sulle accezioni italiane (dove la nomenclatura è stata viziata talvolta da inflessioni dialettali e talvolta da errori di confusione con altre varietà), ma dal loro confronto con il nome, oramai diffuso a livello internazionale, di grenache.

disegno di Marcello Crescenzi

Le origini del termine grenache

Gianni Lovicu, ricercatore Agris (agenzia della Regione Sardegna per la ricerca scientifica nel settore agricolo e forestale) e studioso di diverse varietà di uva in Sardegna tra cui il cannonau ha una sua idea: “Mentre dal punto di vista genetico ci sono delle similitudini e anche sotto il piano ampelografico è difficile trovare differenze, è però difficile spiegarsi il perché di un nome così diverso: il termine grenache deriva da vernaccia e compare per la prima volta in documenti medioevali associato esclusivamente a vini bianchi, come moscato e malvasia, vini in genere aromatici, dolci e alcolici. Il cannonau quindi, almeno dal punto di vista linguistico avrebbe una storia tutta sua. Ma, nonostante ciò – prosegue Lovicu – sarebbe ideale sfruttare il veicolo del successo della grenache-garnacha nel mondo e allo stesso tempo far valere le peculiarità dei nostri territori che danno, evidentemente, prodotti diversi e molto spesso frutto di vinificazioni in purezza (o al massimo con aggiunte di piccole percentuali di altre uve) a testimoniare la vocazione di alcune aree per quest’uva”.

 

a cura di Giuseppe Carrus

disegni di Marcello Crescenzi

 

Articolo uscito sul Gambero Rosso di aprile. Un numero tutto rinnovato che potete trovare in versione digitale su App Store o Play Store

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COSA TI SEI PERSO

Nel numero di aprile del Gambero Rosso trovate anche un'intervista illuminante ad Attilio Scienza, professore di Viticoltura all'Università di Milano, a firma di Marco Sabellico, i consigli di lettura per approfondire il tema e gli appunti di degustazione di Antonio Boco, Giuseppe Carrus, Nicola Frasson, Pierpaolo Rastelli e Paolo Zaccaria.

Agosto 2018 del Gambero Rosso, numero 319. Ferran Adrià, 20 anni dopo

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Davvero tante interessanti storie da leggere sotto l'ombrellone nel nuovo numero di Gambero Rosso in edicola dal 27 luglio. Mangiare bene ad agosto a Roma e Milano, si può? Sì, e la mappa degli indirizzi aperti per ferie è nutrita. Ferran Adrià è entrato nella storia della gastronomica mondiale: quale il suo futuro? E poi viaggi, storie di imprenditoria, ricette, ingredienti insoliti come l'acqua di mare. 

Agosto in città

È una domanda che solo in apparenza implica una scelta obbligata – non è affatto una gara - quella che apre il numero di agosto 2018 del Gambero Rosso. Il dualismo tra due città, Roma e Milano, raffrontate in un confronto d'agosto che invita a scoprire le tavole migliori che restano “aperte per ferie”. E il bilancio è decisamente a favore di due capitali gastronomiche estremamente vivaci, in grado di offrire format inediti, trattorie moderne, enoteche con cucina e valide alternative street food (soprattutto Roma). Ma pure ristoranti d'autore e tanto design (e il peso maggiore in questo senso spetta a Milano). Antonio Paolini dipana il racconto, accompagnato dai disegni di Maurizio Ceccato, che firma pure la copertina, giocando con i tratti della grafica del secolo scorso. Il risultato è un generoso compendio di indirizzi utili e suggerimenti per chi trascorre l'estate in città, con il coinvolgimento degli esperti del settore chiamati a pronunciarsi sul confronto gastronomico tra le due "sfidanti". Giocano con noi Enzo Vizzari, Luigi Cremona, Albert Sapere, Paolo Marchi, Alfredo Tesio, Roberta Schira, Eleonora Cozzella, Carlo Ottaviano. Ma il numero d'agosto, lungi dall'impigrirsi per i caldi estivi, è ricco di storie da approfondire.

Ferran Adrià. 20 anni dopo

È Raffaella Prandi (ex firma storica del Gambero Rosso) a condurci nel mondo di Ferran Adrià, 20 anni dopo quella copertina con cui il Gambero Rosso, per primo, sanciva il genio dello chef catalano, indicandolo come il cuoco del XXI secolo. Con le foto di Paolo della Corte, l'articolo è anche un'intensa intervista a un protagonista lucido degli ultimi 20 anni della storia gastronomica internazionale, in attesa di scoprire cosa sarà 1846, la nuova avventura di Roses, che nel 2019 aprirà sulle ceneri di El Bulli. Ma ci sono anche le voci degli altri, di tutti quelli che dal genio di Adrià sono stati inevitabilmente ispirati, come Mauro Uliassi. E l'analisi dei critici gastronomici (anche quando sono voci fuori dal coro, come Edoardo Raspelli), oltre al glossarietto per sciogliere i tecnicismi della cucina molecolare.

Heinz Beck e il genio imprenditoriale in cucina

Si torna a Roma, con Federico De Cesare Viola, per ricominciare a ragionare di business della ristorazione con Heinz Beck. Prosegue così la nostra indagine nel mondo dell'imprenditoria gastronomica raccontata dagli chef che meglio hanno saputo mettere a frutto il talento in cucina per costruire solide attività economiche. Una storia a due, in questo caso, che vede al fianco dello chef tedesco della Pergola sua moglie Teresa, che con lui ha dato vita, nel 2005, alla Beck & Maltese Consulting, e oggi si muove dietro le quinte per tenere insieme tutta la parte amministrativa, gestendo diversi modelli di business che fanno capo allo chef. Le foto sono di Alberto Blasetti, la linea del tempo accompagna la narrazione, dal 1983 a oggi.

L'acqua di mare in cucina. I viaggi tra Lisbona e il Sudafrica

Altro giro, altra storia, con Alessandra Guigoni (e i disegni di Marcello Crescenzi) alla scoperta dell'acqua di mare, da una prospettiva inedita: ingrediente utilizzato da tempi antichissimi, oggi vive una seconda giovinezza nelle cucine dei grandi chef e sono una decina le aziende che la commercializzano già sanificata. Si viaggia con Gualtiero Spotti alla volta di Lisbona: Lisboom è l'esclamazione che sorge spontanea al cospetto del fermento gastronomico che agita la cucina lusitana, concentrando nella capitale portoghese idee, tendenze, giovani talenti. Qual è il futuro della nuova cucina portoghese?, si chiede Pina Sozio. E chi sono i protagonisti della ristorazione locale? Con indirizzi e consigli di viaggio, le infografiche di Alessandro Naldi, le foto di Stefano Borghesi. Con Giovanni Angelucci, invece, si vola in Sudafrica, a 100 anni dalla nascita di Nelson Mandela. Cosa offre il Paese a chi sceglie di visitarlo con occhi curiosi? Grandi vini, culture diverse mixate tra loro, clima mediterraneo e città moderne, con quel pizzico di esotismo che affascina lo sguardo europeo. Si parla di vino, dunque, ma anche di grandi cucine e specialità da non perdere a tavola, passando dalle tavole gourmet di Cape Town al foraging di Kobus van der Merwe, agli indirizzi utili per mangiare a Pretoria.

 

Ricette, classifiche, miniguida di Lecce

Passiamo in cucina con le ricette di Stefano Ciotti, Pasquale Torrente e Ritu Dalmia, protagonista della ricetta illustrata da Valentina Scannapieco, con i suoi samosa indiani. E ancora la classifica di Mara Nocilla, che ad agosto ci conduce tra creme, sorbetti e granite di 9 gelaterie d'Italia. La miniguida di Valentina Marino, invece, è dedicata a Lecce, cuore delle estati salentine, con tanti indirizzi da scoprire per viaggiatori gourmet.

 

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a cura di Livia Montagnoli

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