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In Calabria fra grani antichi e riscoperta delle tradizioni territoriali

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Nella città, oggi unificata, di CoriglianoRossano si è svolta la prima festa della mietitura organizzata presso la Masseria Mazzei. Un evento voluto per valorizzare una delle matrici identitarie più caratteristiche del territorio.

 

Fin dall’antichità il grano ha rappresentato la fertilità, l’abbondanza e il nutrimento. Non a caso lo ritroviamo in tutti i principali miti e testi sacri: da quello greco di Demetra e Persefone, al culto egizio di Osiride, fino ai passi dei Vangeli che fanno riferimento a questo cereale, dono divino e cibo per l’anima. Un cereale in cui è racchiusa la nostra storia, anche perché indissolubilmente legato al nutrimento basilare dell’uomo, il pane. Negli ultimi anni, la riscoperta e valorizzazione dei grani antichi sembra appunto voler promuovere un ritorno agli elementi primari e ancestrali del grano.

 

I grani “cosiddetti antichi”

Le varietà di grano attualmente più diffuse sono state selezionate a fini industriali. Questo processo, iniziato negli anni Settanta (avviato dalla famosa “Rivoluzione Verde” partita dal Messico), nasce dall’esigenza di fornire all’industria alimentare delle farine forti, che si prestano a una lavorazione più rapida dando vita a impasti velocemente panificabili. La volontà di aumentare la resa produttiva porta così negli anni Settanta a variare la genetica del grano, per avere piante più basse (riducendo il rischio di allettamento) e produttive, grazie anche all’uso di raggi gamma. Con il tempo, le specie antiche sono state progressivamente abbandonate in favore di queste varietà. Negli ultimi anni, tuttavia, si assiste a una parziale inversione di tendenza, con la riscoperta e valorizzazione dei cosiddetti “grani antichi” (dall’ormai famoso Senatore Cappelli al Saragolla, la Tumminia, e poi ancora grano Monococco, Gentil Rosso, Verna, per citarne alcuni). L’importanza del recupero di questi grani non si limita tuttavia all’aspetto nutritivo e alle (presunte) minori alterazioni cui questi sarebbero sottoposti; ricordiamo che proprio il Senatore Cappelli nasce da una selezione genealogica messa in atto dal genetista agrario Nazareno Strampelli nel 1923 per migliorare il grano Rieti. Il ritorno ai grani antichi assume un grande valore anche a livello culturale e storico, recuperando abitudini, conoscenze e tradizioni fortemente legate al territorio.

 

La Masseria Mazzei

Proprio nell’ottica della valorizzazione di certa cultura rurale strettamente legata all'identità dei territori, si torna a celebrare la mietitura, con feste e appuntamenti che puntano a coinvolgere non solo addetti ai lavori ma anche persone comuni che possono, così, scoprire da vicino un momento cardine della vita agricola di cui per molto tempo si erano perse le tracce. Così è un po' in tutto il sud Italia e così è stato, il primo luglio, a CoriglianoRossano, in provincia di Cosenza. Qui, l’azienda Il Gelso – con la Masseria Mazzei e la linea di trasformazione NaturalIter – ha celebrato la sua festa della mietitura, un evento perfettamente coerente con l'approccio sostenibile dell'azienda: agricoltura biologica e preferenza verso grani italiani di origine antica, alternati a legumi per assicurare la giusta rotazione delle colture. L'azienda coltiva un grano della famiglia del khorasan, il Saragolla, grano arrivato in Italia nel V secolo, e come il Kamut coltivato per secoli in Egitto e noto come grano del Faraone.

Da antico convento ad azienda biologica

Ritornare a coltivare grano nei terreni dell’azienda agricola ha rappresentato, per la famiglia Mazzei, un ritorno alla tradizione. Una tradizione prima di tutto familiare, ma che coinvolge l’intera comunità del territorio di Corigliano Rossano. L’attuale Masseria Mazzei, infatti, nasce come la dimora di campagna della famiglia, in un antico convento al centro di un vasto podere, ereditato molto tempo fa. Sono i primi decenni del Novecento: la struttura è piuttosto diroccata, ma viva. La vita del Gelso (così si chiama la dimora) è legata ai raccolti di grano, delle olive e all'attività dei bachi da seta. In questi appuntamenti stagionali la proprietà si popola di voci e allegria, come ricorda Rodolfo Mazzei: “Nella stagione della raccolta delle olive, decine di donne arrivavano qui, a popolare il piccolo borgo di campagna. Erano giornate di duro lavoro ma anche di festa”. Nel podere della famiglia Mazzei, tra le colline e il mare, per anni si respira questa atmosfera. Il vecchio convento viene pian piano ristrutturato, si ampliano le strutture per far posto ai contadini che occupano le case intorno al corpo centrale. "Mimì, Peppino, Cataldo, gli uomini della campagna, sono stati gli eroi della nostra infanzia. Hanno animato questi luoghi e segnato la nostra formazione". L’azienda continua a svilupparsi fino a che, circa cinque anni fa, inizia a produrre farina, in particolar modo semola: una semola rimacinata, dal tipico colore giallo e dalla consistenza granulosa, e una integrale macinata a pietra. Poco dopo nasce il marchio NaturalIter, che commercializza i prodotti realizzati dall’azienda agricola biologica Il Gelso, affiancando a una linea convenzionale (comnque prodotta in armonia con l'ambiente) e una linea certificata Bio (di olive, olio extravergine e marmellate a base di agrumi). Si tratta di una piccola produzione artigianale che comprende anche confetture (fra cui anche di melograna e di more di gelso) e caramellati. Grandi protagonisti sono gli agrumi, fiore all’occhiello di questi territori, e in particolar modo un’intera linea è dedicata alle clementine, proposte sia caramellate che con farcitura al cioccolato. Fra gli altri prodotti, anche il miele (di zagara e millefiori) e l’olio extravergine di oliva estratto dall’oliva dolce di Rossano.

 

La festa della mietitura

Rodolfo e i suoi fratelli non hanno dimenticato quelle giornate, operose ma cariche di emozioni. Ed è a quell’atmosfera che oggi la famiglia Mazzei vuole tornare, rievocando, con la festa della mietitura, antichi gesti e cerimonie (come la benedizione del raccolto), e riunendo un’intera comunità attorno a questo cereale così carico di significati simbolici. Il grano, come ha ricordato il Professor Filareto durante la conferenza di apertura dell’evento, rappresenta – insieme all’olio e al vino – uno dei marcatori di identità di questo territorio. Ed è proprio per questo che Rodolfo Mazzei, con la sua famiglia, ha deciso di ripartire proprio da qui per ricostruire l'anima profonda della sua terra, così indissolubilmente legata alla sua storia familiare. La prima festa della mietitura di Rossano ha rappresentato anche un’occasione per creare nuovi stimoli e sinergie fra le varie realtà imprenditoriali locali.L’evento è stato infatti organizzato con il Patrocinio dell’Amministrazione comunale in collaborazione con l’Istituto agrario cittadino, la locale condotta di Slow food, la Coldiretti Campagna amica, oltre ad associazioni sociali, culturali e artistiche rossanesi. Mente e cuore di questa prima festa delle mietitura è appunto Rodolfo Mazzei, avvocato e imprenditore che, pur avendo investito in altri progetti fuori dalla sua regione (dal ristorante pizzeria di Roma, Exquisitaly, alla fabbrica di cioccolato Bruco nelle Marche) ha poi deciso di riportare il suo know how e la sua capacità imprenditoriale nella sua terra, nel tentativo di dare nuovo slancio a un territorio così ricco eppure ancora fortemente penalizzato.
 

Masseria Mazzei - Le Colline del Gelso - Rossano (CS) - c.da Gelso Mazzei 18 – 0983 569136 - http://www.masseriamazzei.it/


a cura di Valentina Ferraro

 


Il Forno di Volpaia nel cuore del Chianti senese. Focacce, cecina, pizza alla pala... E gelato d'autore

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L'ultimo arrivato in famiglia è il forno che recupera la tradizione del borgo senese per intuizione della famiglia Mascheroni Stianti, che a Volpaia asseconda la vocazione vitivinicola del territorio e accoglie gli ospiti in un contesto fermo nel tempo, tra case in pietra e un'Osteria di grande personalità. Da scoprire anche il forno, tra pizza alla pala, focacce e gelati. 

 

Il borgo di Volpaia. La storia e il presente

Risale al 1172 il borgo fortificato di Volpaia, oggi amena località del Chianti senese a pochi minuti da Radda in Chianti. E anzi, con molta probabilità è più antico il nucleo citato per la prima volta proprio nel documento che fa fede per rintracciarne le origini, relativo a possedimenti di epoca medievale ribattezzati “curte et castello de Vulpaio”. Molte sono le testimonianze architettoniche del passato, altrettante le tracce di una tradizione vitivinicola longeva, di particolare importanza economica a partire dal XVI secolo. La famiglia Mascheroni Stianti è dunque erede di consuetudini secolari, e sul mix calibrato tra produzione agricola e ospitalità scrive il presente e il futuro di un luogo dove si respira la storia. Dunque ci sono la solidità di una rinomata azienda vinicola, l'opportunità di soggiornare nelle case in pietra del borgo, la valida proposta gastronomica dell'Osteria Volpaia (Una forchetta e 78 punti per il Gambero Rosso), affidata alla cucina del giovane chef colombiano Juan Camilo Quintero, che si nutre del territorio per servire convincenti soluzioni contemporanee (pesano in positivo le esperienze da Arzak e Osteria Francescana) e può contare pure su una buona attitudine alla pasticceria. Ma in casa si fa pure il pane, con farina di segale e lievito madre, servito in tavola per cominciare con burro ed extravergine dell'azienda.

Il Forno di Volpaia

Non a caso, l'ultimo arrivato in famiglia (ricordando che il Castello è anche Scuola di cucina amatoriale) è il Forno di Volpaia, inaugurato ad aprile scorso con l'intenzione di arricchire l'offerta gastronomica del borgo, a fare da anello di congiunzione tra la vocazione rurale di Volpaia e la sua attitudine commerciale. L'idea recupera i locali dell'antico forno del borgo, dove la panificazione è una tradizione dal 1889: “Immaginare un nuovo forno, in un locale che in passato ha servito prodotti di prima necessità agli abitanti di Volpaia ci è sembrato importante”racconta Giovanna Stianti Specie perché questa tradizione si era interrotta, e rischiava di andare perduta”. Dunque il progetto è quello di riallacciare il legame con il passato del luogo – e quindi ogni giorno si sfornano pane, focaccia e cecina della tradizione toscana – ma anche di proiettare l'attività nel presente, con la complicità di Nicolò e Federica, ultima generazione della famiglia Mascheroni Stianti, che hanno ideato un format ispirato dal territorio e dalle sue materie prime, che potesse però essere originale e vivere nell'arco dell'intera giornata (e giovanissima è anche la panettiera al lavoro).

Cosa si mangia

Ecco perché al Forno Volpaia l'offerta spazia dai biscotti fatti in casa del mattino alle focacce farcite con i salumi dell'Antica Salumeria Anzuini di Firenze, dalle torte salate con prodotti di stagione alla bruschette, al gelato preparato in Osteria da Juan.

In abbinamento, perfetti per accompagnare un pranzo veloce, una merenda salata o l'aperitivo al tramonto circondati dalla quiete del borgo, i vini alla mescita selezionati tra le etichette di Volpaia. E poi la pizza, alla pala. In uno spazio essenziale, dalle linee moderne, col bancone in marmo, la bilancia e l'affettatrice, l'angolo dei salumi di Cinta Senese e lo scaffale con i prodotti confezionati toscani in vendita al dettaglio (Savini Tartufi, cioccolato Slitti, Pasta Martelli).

Si mangia nella corte esterna, tra alberelli di ulivo e ombrelloni bianchi che proteggono dal sole, dalle 11 alle 19 (tranne il venerdì).

 

Forno di Volpaia – Volpaia (Radda in Chianti, SI) – Piazza della Torre, 2 – www.volpaia.it

 

a cura di Livia Montagnoli

 

Uazz’America, la cucina a stelle e strisce. Cinema & cibo, una love story senza fine

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Vedere sullo schermo i protagonisti di una scena a tavola invoglia sempre ad assaggiare le prelibatezze catturate dalla cinepresa. Magari mentre si sgranocchiano caldi popcorn. Simbolo essi stessi delle serate trascorse davanti a un buon film, almeno quanto queste ricette, entrate ormai nell'immaginario degli spettatori di tutto il mondo.

 

Le suggestioni provocate dal grande schermo sono immense e irresistibili. Il buio, il riverbero del “surround”, il pubblico fremente, il profumo del popcorn… C’è qualcosa di più soddisfacente dell’affondare la mano in un bidone di popcorn caldo mentre si vede un film al cinema?

 

Popcorn

Nativo del Nuovo Mondo, il mais è il cereale americano per eccellenza, negli Stati Uniti se ne coltivano moltissime varietà, una di queste – la Zea mays everta, quella usata per il popcorn - sottoposta al calore scoppia, di questa gli Usa sono il maggior produttore mondiale, con la produzione che si concentra nel corn belt, la fascia centrale del continente formata dal Kentucky, Indiana, Iowa, Illinois e Nebraska. Ci sono circa 100 diversi ceppi di questa varietà, ognuno dei quali varia di sapore, consistenza e nel modo in cui si forma il popcorn. Ad esempio, un ceppo di popcorn si apre a fiocco di neve, un altro sembra un fungo, un altro ancora forma una sfera perfetta. Il fiocco di neve è il più popolare e quello maggiormente usato nei cinema.

Facciamo un passo indietro: gli Aztechi usavano il mais soffiato non solo per cibarsi ma anche per costruire ghirlande con cui decorarsi durante cerimonie, o per adornare le statue degli dei. I primi coloni inglesi scoprirono il popcorn grazie alle tribù indigene, ma fu Charles Cretors che per primo mostrò al pubblico della fiera di Chicago la sua invenzione, nel 1893: una macchina ambulante a vapore per preparare il popcorn. Veloce da preparare, a basso costo e incorporato da decenni nella tradizione americana degli “snack da svago”, divenne subito popolare alle fiere di paese, al circo e agli eventi sportivi. Con l'avvento del cinema, poi, iniziò un connubio che dura ancora oggi, sgranocchiare chicchi di mais scoppiati divenne una passione tale che ebbe una conseguenza diretta sul mercato: i consumatori cercavano specificamente “il popcorn del cinema”.

Si può dire quindi che la più grande storia d’amore del cinema non era solo quella tra Rossella e Rhett Butler di Via col Vento, bensì quella tra la sala gremita del cinema e il popcorn.

Pastrami sandwich

Fra le storie d’amore e d’amicizia di celluloide, una che amo particolarmente è quella tra Harry e Sally. Uno dei miei film preferiti, capolavoro anni ’80 con Billy Crystal e Meg Ryan, guidati dalla regia di Rob Reiner, Harry ti presento Sally è una pellicola dove la distanza tra l’universo maschile e quello femminile viene messa a nudo con ironia. Fra i due protagonisti c’è una scena memorabile, nella quale il cibo è protagonista... Davanti a un sandwich al pastrami del Katz Deli, il personaggio di Meg Ryan inscena un esilarante momento di piacere suscitando la curiosità degli altri avventori, tanto che la signora accanto (interpretata dalla madre del regista) si affretta ad ordinare “quello che ha preso lei!

Il sandwich protagonista della scena di “Harry ti prensento Sally” è un panino molto ricco e gustoso che affonda le sue origini nella tradizione culinaria ebraica; fra i più popolari negli USA, viene servito nei delicatessen, salumerie con cucina, imbottito all’inverosimile. L'ingrediente basilare, il pastrami, altro non è che punta di petto di manzo messa in salamoia, poi parzialmente essiccata, in seguito condita con erbe e spezie, quindi affumicata e cotta a vapore. Come altre carni conservate, è un modo per mantenere a lungo sapore e proprietà nutritive del manzo così da consentire anche ai meno abbienti (in questo caso gli immigrati ebrei) di consumare carne.

Il pastrami, arrivato a New York con gli ebrei rumeni un secolo fa, si dice sia finito in un panino grazie a Sussman Volk di New York, macellaio kosher immigrato dalla Lituania. Fu lui il primo a creare il sandwich al pastrami sul suolo americano, nel 1887, sostenendo di aver ricevuto la ricetta da un amico rumeno in cambio della custodia di alcuni suoi effetti personali nel negozio. Il panino divenne così popolare che Volk trasformò la macelleria in un deli incentrato sulla sua creazione. Il panino si compone in verticale, affettando sottilmente 200 grammi di pastrami fra due fette di pane di segale spalmate con un velo di senape e con cetrioli gurken agrodolci.

Per scoprirlo uno dei panini più famosi al mondo anche da questo lato dell’Atlantico e assaggiare un vero “mile high” pastrami sandwich – nomignolo riferito alla sua tipica altezza – mi rivolgo al mio guru-panificatore, Pierluigi Roscioli. Assaggiando il suo pastrami sandwich, non serve simulare nulla, i mugolii sono autentici.

Apple pie

Un'altra suggestione culinaria legata al mondo cinematografico è la torta americana per antonomasia, la torta di mele di Nonna Papera, la leggendaria apple pie. Il dolce nazionale degli Stati Uniti si identifica in modo così totale con questo popolo che è nata la locuzione “American as apple pie” ovvero “americano quanto una apple pie”, per definire l'appartenenza autentica agli Usa.

Per scoprire i segreti di una perfetta apple pie, mi rivolgo ad Andy Luotto, simpatico e appassionato cuoco, nonché amico di famiglia. La sua apple pie è l’autentica, vera e unica Made in USA. La prepara sbucciando e affettando prima di tutto le mele Granny Smith, condendole con succo e zest di limone, zucchero, vaniglia e cannella. Il trucco per evitare che il succo delle mele affoghi la base di pasta è qualche cucchiaio di amido di mais posto sul fondo della frolla prima di aggiungere il ripieno. Stesi due dischi di frolla, Andy mette uno dei dischi sul fondo dello stampo, cosparge l’amido di mais sulla pasta e poi vi versa sopra il ripieno di mele condite. Ricopre con il secondo disco di frolla e lo chiude sigillandone i bordi, facendo attenzione a premere bene perché l’impasto non si stacchi durante la cottura. Prima di infornare incide la superficie della torta, di modo che il vapore formatosi all’interno durante la cottura possa liberarsi. La superficie della torta si può spennellare con latte o tuorlo d’uovo spolverando infine la superficie con zucchero di canna. Andy inforna la torta per 45 minuti controllando che non si bruci durante gli ultimi 10 minuti. Nei cartoni animati Nonna Papera lascia raffreddare la torta sul davanzale, io non ho quel genere di pazienza, quindi la divoro appena sfornata, con sopra una pallina di gelato alla vaniglia.

Pomodori verdi fritti

Altra dolcissima storia hollywoodiana d’amicizia scoperta fra i fornelli è quella tra Idgie e Ruth nel film Pomodori Verdi Fritti. I fried green tomatoes sono una specialità del sud degli States divenuta famosa nel mondo grazie al celebre film tratto a sua volta dal libro Fried Green Tomatoes at the Whistle Stop Cafe di Fannie Flagg. La pellicola di Jon Avnet è un salto nei sapori e nelle atmosfere dell’Alabama anni Venti e i giorni nostri, punteggiata da una cucina tradizionale degli Stati del sud giunta fino ai nostri giorni.

Nel libro la ricetta originale prevede la frittura delle fette di pomodoro verde nel grasso di pancetta: sono sicura che il risultato sia doppiamente delizioso, ma se volete bene alle vostre arterie, evitate! Per ricreare i sapori dell’Alabama del film basterà infarinare le fette di pomodoro verde, friggerle per qualche minuto e condirle con sale e pepe.

Non sentite anche voi il fischio di un treno?

 

a cura di Eleonora Baldwin

 

Questi e altri racconti li trovate in Uazz'America, un programma che va in onda tutti i lunedì alle ore 22:00 su Gambero Rosso Channel SKY 412; in replica sabato alle 12:30; e domenica alle 19:30

 

Leggi anche le altre puntate di Uazz'America

Idee gelato, collezione estate 2018. Le proposte più originali di maestri pasticceri e maison dolciarie

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A Torino ci sono le coppette d’autore della Farmacia del Cambio, a Milano gli choux ripieni di gelato di Christophe Adam e il milkshake al panettone da passeggio. Ma alternative per un’estate golosa sono pure il gelato su stecco cremoso, il biscotto-macaron gelato, gli stecchi 3D di Starbucks. 

 

Quando il gelato è buono, non c'è stagione che tenga. Lo sanno bene gli appassionati del genere, assidui frequentatori della propria gelateria di fiducia per 365 giorni all'anno. Del resto il livello del comparto su base nazionale può contare su una nutrita compagine di maestri gelatieri, che tramandano e rinnovano la tradizione artigianale. Attenzione però a scegliere con consapevolezza, perché l'aura di artigianalità di cui si ammantano tante insegne di casa nostra spesso è infondata, e può indurre in tentazione il consumatore meno accorto. A questo è servito l'appello dei maestri riuniti nell'associazione Gelatieri per il Gelato che poco prima dell'inizio dell'estate hanno varato l'Operazione Trasparenza, mentre resta sempre valido il consiglio di consultare la guida Gelati d'Italia del Gambero Rosso, che raccoglie le migliori insegne d'Italia. L'estate, però, è un buon momento per scoprire le creazioni stagionali – golose e goliardiche – di maestri della pasticceria e maison dolciarie: variazioni sul tema che spaziano dai ghiaccioli pret a porter alle coppette d'autore da gustare in un pomeriggio di sole comodamente seduti al tavolino di un caffè. Anche per l'estate 2018, tra l'Italia e l'estero, non mancano le idee originali. Eccone qualcuna da provare.

Le coppette della Farmacia del Cambio (Torino)

A pochi metri c'è Pepino, con i suoi mitici Pinguini su stecco, che non passano mai di moda. Ma per tutta l'estate anche la squadra di Matteo Baronetto e di Fabrizio Galla si cimenta, per il secondo anno consecutivo, con una linea di gelati d'autore. Coppette golose che spesso nascondono ripieni croccanti a sorpresa e attingono a piene mani dalla tradizione della pasticceria torinese, con l'omaggio al Bicerin (però in versione gelato, con fiordilatte e caffè) o il mix nocciola, cioccolato al latte e caramello. Più esotico l'accostamento mirtillo e fava tonka, passepartout le coppette fragola e limone e pistacchio, crema al limone e amarene. Tutte ideate con il guizzo d'autore, disponibili per l'acquisto da asporto (3 euro) o la consumazione al tavolo (5 euro, fino alle 21.30). E per chi non rinuncia al drink dell'aperitivo ci sono anche le Polibibite homemade in bottiglia da 275 ml.

I bignè gelato de L'Eclair de Genie (Milano)

La collezione estiva di Christophe Adam imbandisce anche le vetrine delle tre filiali milanesi con le ultime creazioni del maestro francese dedicate al gelato. Chouglacè (dalla pasta choux che contiene il gelato) vengono definite in gergo “tecnico” le variazioni sul tema disponibili, tutte estremamente golose: pistacchio e cioccolato, cioccolato brownie, caramello e fior di sale, vaniglia e noci pecan. Novità 2018 le tre varianti alla stracciatela, abbinata con fragola, pistacchio o cioccolato. Disponibili anche al cono o in coppetta.

Affresco e Bombogelato. L'estate di Roberto Rinaldini (Rimini, Milano e Roma)

Ha appena debuttato nella Capitale (nella food hall della Terrazza Termini), mentre a Milano già ha conquistato la sua schiera di estimatori. E nel suo quartier generale romagnolo Roberto Rinaldini continua a studiare soluzioni originali per stupire grandi e bambini. L'estate è il momento migliore per scoprire le sue granite di frutta fresca in tubo da spremere – Affresco, in 4 gusti: fragola al profumo di vaniglia, melone e mango al profumo di arancia, limone e lime al profumo di menta, frutto della passione e pesca al profumo di fava tonka – e il bombolone farcito di gelato, brioche romagnola ribattezzata Bombogelato. Per i più tradizionalisti coppe e coni gelato: la scelta è molto ampia.

Il panettone ripieno di gelato di Vergani (Milano)

Ancora una variazione estiva sul tema del panettone per la maison Vergani e le sue due boutique in città, a Corso di Porta Romana e via Mercadante. Si chiama Verganino, ed è un mini panettone classico che diventa coppetta, ripiena di gelato in più gusti. L’alternativa? Il milkshake servito in bicchiere da passeggio con crumble di panettone a rendere originale un classico dell’estate.

Geloso (Roma)

Gelato su stecco naturale (in 15 gusti differenti, tra creme e frutta): è la ricetta perfezionata da Manuele Presenti il segreto di un prodotto confezionato che si caratterizza per la sua cremosità e per l’assenza di semilavorati e addensanti nel processo di lavorazione. L’idea è piaciuta ad Allegra Antinori e Francesco Trapani e presto Geloso arriverà in distribuzione su un circuito di insegne selezionate, e pure presso il punto vendita dedicato prossimo a esordire nel centro di Roma. Due i formati disponibili, Regular da 75 grammi e in versione Mini, da 40. I gusti? Dal caramello salato al kiwi, dal cocco alla pera, alla stracciatella. E una linea iperproteica pensata per le palestre, nelle varianti ciocolatte e vaniglia.

Il Panciolo, ghiacciolo con panettone (Padova e Vicenza)

In Veneto le gelaterie Ciokkolatte di Lorenzo Zambonin devono la propria notorietà soprattutto all’originalità delle idee dei maestri gelatieri al lavoro in laboratorio. La proposta per l’estate 2018 si chiama Panciolo, e somma la freschezza di un ghiacciolo di frutta fresca con la texture conferita dalla polvere di panettone Loison, aggiunta alla miscela prima di procedere a ghiacciarla. Il risultato? Una brioche gelata fresca e golosa, proposta in versione albicocche e zenzero fresco.

Macaron e gelato. L’abbinamento perfetto di Laduree

La maison parigina sinonimo di macaron affronta l’estate con una duplice variazione sul tema, proponendo un biscotto gelato racchiuso da una conchiglia di macaron (ripiena di gelato alla vaniglia o alla rosa) e le golose coppette con macaron affogati, disponibili in moltissimi gusti, dal pistacchio al lampone, al sorbetto al cioccolato.

I Dream Pops di Starbucks

Cavalca la moda del gelato vegano la catena statunitense del caffè, che (per ora) solo nei suoi punti vendita californiani lancia l’idea dei gelati su stecco 3D della startup statunitense Dream Pops, specializzata nella produzione di gelati a base vegetale che sfruttano le ricette di uno chef stellato per mettere a punto un prodotto di alta qualità con materie prime selezionate e superfood (anche in questo caso, il risultato è un prodotto confezionato su stecco estremamente cremoso). La particolarità? Le forme inconsuete distribuite sul mercato grazie all’espediente della stampa 3D.

 

a cura di Livia Montagnoli

PanB. Il panino a vapore che sfida il fast food tradizionale conquista Rovagnati. Prossimo obiettivo Milano

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Punta a replicarsi nei centri commerciali del Nord Italia e a inaugurare il suo primo flagship store a Milano il brand ideato da Adriano Continisio e Paola Sersante, fondato sull'originalità del Pan Bolla. E il progetto piace a Rovagnati, che entra in società e promette di sostenere la scalata. All'insegna del buon fast food made in Italy. 

 

PanB. L'idea

Buono e replicabile, “il prodotto potrebbe conquistare presto le principali città italiane, grazie a un format che scommette sul fast food di qualità”. Così scrivevamo a proposito di PanB due anni fa, muovendoci alla scoperta di una storia inedita nata sotto una campana di vetro, a partire dal 2007: il Pan Bolla, che allora cominciava a farsi conoscere dal pubblico del centro commerciale Torri Bianche di Vimercate, presso il punto vendita d'esordio del brand, era descritto dal suo inventore – il panificatore Adriano Continisio – come un panino al vapore cresciuto in cottura mantenendo la sua morbidezza all'interno, con cuore soffice e crosticina croccante – più simile a una pellicina dorata e impalpabile - che invita al morso. Ma solo dopo la farcitura, ad appannaggio di Paola Sersante. Un prodotto di facile replicabilità, dicevamo, perfetto per il mercato della ristorazione veloce (non richiede forni, né friggitrici, ma solo piastre calde e campane di vetro, e il pane, in un ambiente tecnicamente sfavorevole, impiega invece un terzo del tempo di un prodotto della stessa pezzatura per arrivare a giusta cottura), in contesti di grande passaggio, e per un pubblico eterogeneo, in risposta al panino farcito da fast food di dubbia qualità, con la garanzia di utilizzare materie prime selezionate, dal mix di farine per l'impasto ai prodotti stagionali delle farciture, anche in versione dolce. Dunque l'idea di allora era già quella di scalare il mercato, puntando su Milano e Roma per cominciare. E se il progetto non si è concretizzato finora (il gruppo ha aperto solo un altro punto vendita all'Oriocenter di Bergamo), adesso la probabilità che PanB cominci a farsi conoscere anche lontano da Vimercate è fondato.

 

Entra in scena Rovagnati. Le prossime aperture

Il brand di Adriano Continisio e Paola Sersante, infatti, ha attirato l'attenzione di un investitore importante come Rovagnati, che qualche giorno fa ha acquisito, in aumento di capitale, una quota minoritaria di PanB, con l'intenzione di sostenere la crescita sul mercato italiano e all'estero. Ambizioso il piano di sviluppo, che nei prossimi 18 mesi toccherà i centri commerciali del Nord Italia, ma pure il primo locale in centro città, a Milano, dove il Pan Bolla sarà protagonista del primo flagship store della sua storia (e a proposito di fast food di qualità ideati sull'alternativa al panino ricordiamo pure il recente debutto in città delle bombe di Niko Romito, per Autogrill). Tre le varianti disponibili in menu, tutte a partire da panetti da 120 grammi, una pezzatura superiore al classico panino da 80 grammi, grazie alla possibilità di sfruttare la leggerezza e la scioglievolezza dell'impasto – lievitato 48 ore – e del prodotto finale: due alternative salate, con farina di semi integrale o con l'aggiunta di farina di segale, e una dolce, il Bollicino, ripieno di creme golose. Ammontare della produzione fino a oggi: 600 pezzi al giorno. Riuscirà a farsi strada su scala nazionale e internazionale il Pan Bolla? Sicuro dei propri mezzi è Adriano, orgoglioso del nuovo partner azionario: “Siamo nati come loro clienti, ma oggi siamo molto orgogliosi del loro ingresso in società. Noi siamo ancora piccoli, ma evidentemente hanno colto nel nostro progetto le potenzialità di una iniziativa imprenditoriale innovativa che fonda sul gusto tutto italiano il suo percorso di qualità e sviluppo”.

 

www.panb.it

 

a cura di Livia Montagnoli

Primitivo e Murgia Tarantina. Le Donne del Vino tracciano una nuova rotta del turismo pugliese

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Nel numero di luglio del mensile del Gambero Rosso raccontiamo la Murgia Tarantina, un pezzo di Puglia ionica che si sta facendo strada con una sua cifra essenzialmente enogastronomica, dove le protagoniste sono le Donne del Primitivo. Qui un'anticipazione del bel racconto.

 

C'è un mare aperto e limpido, ci sono i suggestivi paesi dell'entroterra, scavati nella roccia o incollati a gravine impressionanti. Un patrimonio diffuso di arte, cultura, archeologia intrecciato all'agricoltura che tradotto vuol dire da sempre buon vino e buona tavola. La Murgia Tarantina è ancora lontana dalle rotte del turismo di massa. Ma è arrivato il suo momento: questo pezzo di Puglia ionica si fa strada con una sua cifra essenzialmente enogastronomica. Protagoniste le Donne del Primitivo.

Anfore

Il Primitivo di Manduria

Portabandiera e volano della crescita sono un vitigno e un vino, il Primitivo di Manduria, che, nemo profeta in patria, ha iniziato a raccogliere più successi all'estero che in Italia. Da noi scontava ancora l'idea di un vino surmaturo, non sempre pulito sul piano olfattivo, poco fresco, troppo alcolico. Un "vecchio" vino del Sud, per attingere da un luogo comune. Poi dieci anni fa l'inversione di tendenza: il Primitivo, tra Nero di Troia e Negroamaro, è stato definito come il frutto enologico più facilmente riconoscibile di questa regione. E così il Tarantino – con Manduria in testa che è anche la porta del Salento – ha conquistato lo status di territorio vitivinicolo. Il circuito enogastronomico segue di conseguenza, con un'accoglienza sempre più accurata (e anche sofisticata) e una cucina che si spoglia di una veste eccessivamente rustica.

Lungomare di Taranto

Taranto

È dunque un posto che ti sorprende. A cominciare da Taranto che paga pegno da decenni per la presenza delle acciaierie Ilva. Il suo destino è ancora in bilico perché a tutt'oggi non si sa se esista o meno un’alternativa all’industria dell’acciaio nella Città dei due mari: il futuro del complesso industriale deve ancora essere scritto. E se la soluzione – o una tra queste – fosse nell'orgoglio di un passato dove tutto aveva una sua coerenza e bellezza, almeno fino allo scempio dell'industrializzazione? Una visita al Marta (il Museo Archeologico Nazionale) potrebbe offrire diversi spunti. Un ri-allestimento terminato nel 2016 ha evidenziato ancor più come questo sia uno dei musei più importanti d'Europa e che l'antica Taras, città fiera e non a caso di origine spartana, era tra i centri più fiorenti della Magna Grecia. Nelle sue sale il tema del vino è sempre presente con gli splendidi vasi del V secolo a. C dedicati al simposio. I crateri (le coppe) dedicati a Dioniso (dio nato dalla gamba di Zeus) raccontano delle pratiche di speziare il vino, di come questo dovesse essere bevuto, del gioco del κότταβος, che consisteva nel colpire un bersaglio con il vino rimasto nelle coppe: Il premio poteva essere un dolce o il bacio di un giovane (la pederastia non era di certo reato). Le donne raffigurate erano solo danzatrici o suonatrici perché non era loro permesso di partecipare ai simposi da protagoniste. Ben altra storia è quella delle tarantine di oggi – di nascita o di adozione – che nel percorso di crescita legato al Primitivo si sono ritagliate uno spazio importante e poliedrico.

Nel numero di luglio del mensile del Gambero Rosso vi raccontiamo questo pezzo di Puglia attraverso il loro sguardo e il loro impegno.

 

a cura di Francesca Ciancio

foto di Pietro Amendolara

 

QUESTO È NULLA...

Anteprima dell'articolo di Donne del vino

Nel numero di luglio del Gambero Rosso,un'edizione rinnovata in questi giorni in edicola, trovate il racconto completo con le testimonianze delle Donne del vino: Anna Gennari (Produttori Vini di Manduria), Maria Teresa Varvaglione (Presidente Movimento Turismo del Vino Puglia), Simona Lacaita (Trullo di Pezza e Vinilia Resort), Simona Natale (Cantina Gianfranco Fino), Antonella Millarte (scrittrice e giornalista). Un servizio di 8 pagine che include anche un focus sulla cozza pelosa e gli indirizzi dove mangiarla, le spiagge più belle, i vini premiati con Tre Bicchieri nella guida Vini d'Italia 2018 del Gambero Rosso, gli indirizzi utili dove mangiare e dormire. E ancora il racconto del “vigneto ondeggiante” di Amastuola.

Il numero lo potete trovare in edicola o in versione digitale, su App Store o Play Store

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La pasta italiana in Abruzzo. 20 formati tipici e la ricette delle scrippelle 'mbusse

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Poche paste ripiene, tanti strumenti d'epoca per realizzare ancora i formati di una volta, condimenti saporiti e caratterizzati da una generosa spolverata di pecorino. Ecco com'è la tradizione della pasta in Abruzzo. 

 

Una terra dall'identità culinaria forte e ben definita: pochissime contaminazioni per la tavola abruzzese, un luogo che fino quasi agli anni '60 è vissuto in pieno isolamento e che, proprio per questo motivo, è riuscito a conservare un carattere autentico, a tratti aspro, ma sincero. La maggior parte dei borghi d'Abruzzo praticano una cucina autoctona, da sempre profondamente legata alla pastorizia e ai prodotti del territorio. Fa eccezione la tradizione pugliese, che tramite la transumanza è riuscita in parte ad approdare nella regione. Parliamo di una cucina robusta in cui piatti di terra, formaggi e carni succulente si alternano al pesce fresco di un litorale ancora poco battuto, ma che riserva piacevoli sorprese sul fronte gastronomico. Come tutte le regioni più radicate nel proprio passato, l'Abruzzo ha saputo conservare le tradizioni più antiche della pasta fatta in casa, ricette perlopiù povere e fatte di pochi ingredienti. Ecco quali sono i 21 formati più popolari.

Cazzellitti

Tipici di Scanno e dintorni, ma molto diffusi anche nella zona di Vasto, sulla Costa dei Trabocchi, i cazzellitti sono dei piccolissimi fusilli di semola di grano duro e acqua, talvolta preparati anche con l'aggiunta di uova. Chiamati anche cavatille o cazzarille, vengono conditi con verdure oppure sughi di agnello o pecora. Un tempo, venivano insaporiti con le verdure coltivate dai pastori vicino agli stazzi di montagna, oppure spinaci selvatici, tanni e simili. La transumanza verso la Puglia ha portato poi all'utilizzo di verdure come le cime di rapa. A Vasto, invece, è il pesce dell'Adriatico il condimento più comune.

Cencioni di fave

Condivisi anche con le Marche, i cencioni sono delle tagliatelle corte e tozze di sfoglia non tropo sottile: il nome deriva da cencio, che significa straccio, termine del Duecento utilizzato per indicare il panno per pulire il pavimento. Alla base dell'impasto, farina di grano, uova e farina di fave, molto popolare in passato nel mondo contadino, quando non sempre era possibile acquistare la farina di grano, più costosa rispetto ad altre.

Ciufolitti

Macaron dell'Alta Lagna in Piemonte, subioti in Veneto, maccheroni bobbiesi nel piacentino, ciufolitti in Abruzzo, Molise e Alto Lazio, ma anche zufoletti, sfusellati o gnocchi col ferro. E poi code di topo del barese, fusille nel foggiano, firzuliin Basilicata: i fusilli sono uno dei formati italiani più conosciuti in tutto il mondo, oggi presenti in ogni regione, ma che devono i loro natali al territorio molisano. Fatti con farina di grano duro, acqua e un pizzico di sale, vengono poi arrotolati su un filo di ferro e messi a essiccare: questa la caratteristica principale della pasta, inizialmente preparata con un ferretto in vendita dal fabbro e poi con quello da calza, o ancora quello dell'ombrello. In Abruzzo, vengono generalmente abbinati a sughi di carne oppure una semplice salsa pomodoro e basilico.

Fregnacce

Non è la prima volta che incontriamo questo formato: presenti nell'Alto Lazio, in particolare nella Sabina reatina e sublacense, e nelle Marche, le fregnacce sono una delle paste più antiche e popolari delle regioni del Centro Italia, Abruzzo compreso. Un tempo preparati con farina di grano duro e acqua, oggi realizzati anche con le uova, questi quadrati devono il loro nome al termine dialettale laziale fregnaccia, ovvero “frottola, sciocchezza”, una cosa di poco conto, che fa riferimento proprio alla semplicità della preparazione. Diversi i condimenti utilizzati per questo formato, molto spesso piccanti, solitamente a base di carni e una buona dose di pecorino grattugiato.

 

chitarra

Maccheroni alla chitarra

Probabilmente il più famoso dei formati abruzzesi, particolarmente radicato nella zona di Scanno ma presente, con nomi diversi, anche nell'alto Molise, in Lazio, nelle Marche e in Puglia. I maccheroni (o spaghetti) alla chitarra sono una delle preparazioni più antiche della regione, che prende vita dal telaio di legno di faggio (o un altro legno neutro) sul quale sono tesi dei fili d'acciaio paralleli. Uno strumento storico, la chitarra, che a seconda della distanza tra i fili può dare vita a forme e sezioni di pasta differenti. Antenato della chitarra è lu rentrocelo, inpassatoutilizzato soprattutto nel pescarese e nell'aquilano. Per realizzare i maccheroni, la sfoglia, tirata non troppo sottilmente, va adagiata sull'attrezzo e premuta con il mattarello sui fili: in questo modo, si ottengono degli spaghetti a sezione quadrata, lunghi circa 30 centimetri. Oggi vengono conditi con tanti tipi di salse, ma l'abbinamento indiscusso resta con il ragù di pecora.

Maccheroni alla pecorara

Dei cordoncini sottili, chiusi ad anello di circa 5 centimetri di diametro, a base di acqua, farina e uova: sono i maccheroni alla pecorara, storica ricetta abruzzese che prevede uno dei condimenti più golosi, un mix di pancetta, cacio e uova, nato in principio dalla fantasia dei carbonai, che rimanevano lunghi periodi sulle montagne per preparare il carbone, e che dovevano alimentarsi con piatti sostanziosi e nutrienti. Inoltre, questi ingredienti erano facilmente conservabili e trasportabili sul mulo, insieme alla pasta fatta in casa. Nonostante le origini siano ancora molto incerte, secondo molti storici della gastronomia è proprio da questo condimento “alla carbonara” che deriva l'omonima, celebre ricetta laziale.

Maccheroni alla molenara

Ci sono, poi, i maccheroni alla molenara, di forma e lunghezza irregolare, preparati con acqua, semola e farina. Diffuso soprattutto nelle province di Teramo e Pescara, si tratta di un formato quasi scomparso, un tempo preparato dai mugnai dell'Abruzzo e anche della Basilicata, dalla preparazione lunga e complessa. Per realizzarli, occorre dividere l'impasto in tante pagnottelle, fare un buco al centro di ognuna e iniziare ad allargarla, ungendosi le mani con l'olio. Si stende la pasta fin quando le braccia lo permettono, e poi la si piega in due anelli sovrapposti. Si continua assottigliando il doppio anello, allungandolo per poi ripiegarlo su se stesso, ottenendo così una matassa a quattro anelli sempre più sottili. Infine, si incidono dei tagli su due punti opposti e si separano gli spaghetti ottenuti. Questi cordoncini sottili vengono insaporiti con gli 'ntruppicc, dadini di carne ovina e suina mescolati insieme. Una ricetta nata nel Medioevo che, secondo la leggenda, è stata introdotta in Abruzzo nel XII secolo dai soldati al seguito di Ruggero il Normanno.

Maccheroni con lu ceppe

In Abruzzo, in particolare nella zona di Civitella del Tronto, con il termine ceppe si intende il bastoncino di legno usato per confezionare la pasta. È da questa parola che derivano i maccheroni con lu ceppe, strisce di pasta all'uovo (con aggiunta di olio d'oliva) avvolte intorno al legnetto in modo da ottenere dei grossi bucatini. Detti anche ciufulitti o torcinelli a Magliano dei Marsi, vengono serviti con ragù di carne e, in mancanza dell'apposito ceppe, realizzati con il ferro da calze.

'Ndrocchie

Ricordano molto i fusilli, le 'ndrocchie, pasta tipica di Cupello, in provincia di Chieti, realizzata con il ferretto dell'ombrello. Farina, uova e sale sono alla base dell'impasto, lavorato a mano con pazienza dalle massaie abruzzesi. La salsa per eccellenza in questo caso è il ragù di castrato, ideale per equilibrare la ruvidità e callosità delle 'ndrocchie. Nel paesino, la tradizione della pasta è talmente sentita che ogni anno, in agosto, viene messa in scena una sagra dedicata.

 

orecchie di prete

Orecchie di prete

Formato pugliese per antonomasia, le orecchiette sono in realtà diffuse anche in Abruzzo, dove sono conosciute come orecchie di prete. L'impasto a base di acqua e semola viene suddiviso in piccoli pezzetti, che vengono trascinati sulla spianatoia con lo sferre (particolare coltello senza manico tipico del Barese) oppure con la punta del dito, fino a ottenere la classica forma tonda concava, perfetta per accogliere i sughi più ricchi. Le origini del formato risalgono al periodo fra il XII e il XIII e, secondo una delle teorie più accreditate, traggono ispirazione da un prodotto della Francia del Sud, dove venivano preparate con farina di grano duro e vendute secche, ideali per essere conservate a lungo dai marinai durante i lunghi viaggi.

Pappicci

Specialità del Teramano, i pappicci (o pappardelle o tajarille) sono delle spesse tagliatelle lunghe circa 20 centimetri, disponibili anche nella versione triangolare o rettangolare. Vengono impiegati nelle minestre, specialmente quelle a base di lardo, pomodori e pecorino abruzzese, spesso accompagnate da legumi. Il nome è un accrescitivo di “pappa”, che un tempo indicava il pane o la zuppa. Piatto povero, se cotti in brodo di carne i pappicci erano in passato anche il cibo destinato alle puerpere: secondo le credenze popolari, infatti, questa specialità facilitava la calata del latte.

Patellette

Farina di grano duro, farina di mais, acqua e sale: sono gli ingredienti alla base delle patellette, ancora una volta tipiche della provincia di Teramo, dei piccoli triangolini conditi con un soffritto di cipolla e pancetta. La tradizione impone che vengano mangiate con il cucchiaio, e per questo la salsa deve essere piuttosto liquida; un'usanza molto comune alle paste più povere che, con un condimento brodoso, riuscivano a riempire di più lo stomaco.

 

ravioli dolci di ricotta

Ravioli dolci di ricotta

Non c'è una grande tradizione di paste ripiene in Abruzzo, ma esiste una tipologia di raviolo molto particolare, quello alla ricotta dolce. La sfoglia è la classica all'uovo, tirata sottile, farcita e poi richiusa, ma il ripieno è piuttosto insolito: ricotta di pecora, uova, noce moscata, maggiorana, cannella, scorza di limone grattugiato e zucchero. Il condimento, però, è tutt'altro che zuccherino: sugo di pomodoro semplice oppure burro e parmigiano sono le salse che accompagnano questo piatto originale, un mix di sapori unico nel suo genere. Vengono preparati, solitamente, durante il periodo di Carnevale.

Sagne

Fra i formati che più di tutti accomunano le regioni del Centro Italia, le sagne, pasta di origine abruzzese da tempo condivisa anche con Umbria, alto Lazio e Marche, con le dovute variazioni locali. Si tratta di strisce di pasta di farina, acqua e uova (alle volte anche farina di farro) spesse e varie dimensioni, in passato considerate una sorta di medicamento, come racconta Antonio de Magistris da Introdacqua nella “Biografia del Beato Bernardino da Fontavignone” del 1794: “Ritrovandosi nunzio Lucantonio di Fonte Avignone infermo di molte complicate infermità... sicché li medici ne facevano pessima stima di sua guarigione... mangiando le sagne fatte da sua moglie (medicamento lasciato a tutto il paese dal Servo di Dio) subito cominciò a migliorare e in pochi giorni restò perfettamente libero e sano che tutti ne restarono meravigliati e ne resero grazie a Dio e al suo servo Fra Bernardino”. Fra i modi più tradizionali per gustarle, l'abbinamento con i fagioli, in una sorta di zuppa gustosa e nutriente.

 

scrippelle mbusse

Scrippelle

C'è chi dice che sia stato Enrico dei Castorini, alla corte di un cuoco francese addetto alla mensa degli ufficiali di stanza a Teramo, a inventare le scrippelle 'mbusse, aggiungendo per errore del brodo di gallina alle crêpes preparate dallo chef. In qualsiasi caso, si tratta di una delle ricette più popolari della zona di Teramo, la più conosciuta al di fuori dei confini regionali, insieme agli spaghetti alla chitarra. 'Mbusse perché bagnate: arrotolate su se stesse e servite in brodo cosparse di pecorino e parmigiano; ma possono anche essere utilizzate per preparare un timballo, disposte a strati a mo' di lasagna e farcite con carciofi e scamorza oppure sughi della tradizione, o ancora fatte in forno, farcite, arrotolate e cotte in teglia.

Sorcetti

Una pasta dimenticata ma che per tempo ha rappresentato uno dei formati più popolari per i sughi di castrato: i sorcetti, piccoli rotolini di impasto tagliati in obliquo in pezzi sottili, si preparano con farina, patate, spinaci e uova, talvolta anche con farina di mais. Come spesso accade, il nome con riferimento ad animali poco apprezzati e considerati immondi è legato all'estrema semplicità e povertà di questa ricetta.

Stracci

Presenti anche nel Lazio, in Toscana e in Molise, gli stracci – o sagne stracce – sono stati per tempo un formato riservato alle occasioni speciali, conditi con cipolla, pomodoro, peperoncino e carne di maiale. Al confine tra alta Ciociaria e Abruzzo, all'impasto di farina, uova e acqua vengono spesso aggiunti borragine o spinaci selvatici, oppure foglie di cardo; la versione abruzzese è molto sottile e simile alla consistenza delle crespelle.

 

tacconi

Tacconi

Che siano di forma quadrata o romboidale, i tacconi (o tacconelle, taccozzedamuline, taccozzelle) vengono preparati con farina di mais, farina di grano, acqua e alle volte anche gli avanzi della polenta. Il nome deriva dal termine dialettale tacca (toppa), che a sua volta ha origine dal germanico tak, ovvero scheggia di legno. Naturalmente, la parola fa riferimento alla forma imprecisa del formato. Un'altra ipotesi propone invece l'associazione con l'antica tradizione di calzolai e calzature nell'ascolano: in particolare, con gli scarponi utilizzati dai contadini in campagna caratterizzati da grossi tacchi (da qui il nome tacconi). In passato, ogni taccone doveva essere grande come la mano di un neonato, e cotto insieme al pomodoro in un grande recipiente di terracotta. Molto spesso venivano (e vengono ancora oggi) conditi anche con ricotta, come recita il poeta dialettale Gaetano Passarello: “Quando i taccuna cu sarsa e ricotta/ e cu milinciana su davanti a mia/ non sacciu si mangiu la picciotta/ o un pezzo di la nona sinfunia”.

Torchioli

Già descritti nelle opere di Bartolomeo Scappi, i torchioli sono un formato tipico di Chieti, presenti anche nella Sabina reatina, in Puglia e in Basilicata. Oggi, questa pasta simile a quella alla chitarra, viene realizzata con uno strumento in legno chiamato torcolo o troccolo, mentre in passato veniva preparata con il “ferro da maccaroni”. La pasta di semola e acqua viene tirata con il matterello e poi premuta con l'apposito attrezzo scannellato, per poi essere cotta e condita con sughi di carne robusti.

Volarelle

Nella provincia dell'Aquila, nei mesi più freddi, non c'è niente di meglio della zuppa di volarelle, dei quadretti di acqua e farina fritti in olio di oliva e serviti in brodo al posto del pane tostato. Un piatto tipico delle feste di Natale, periodo perfetto per il brodo di cardi e volarelle. A Capestrano, invece, vengono preparate in minestra, con i fagioli del territorio o altri legumi. Per il brodo natalizio, si utilizzano rigaglie, carne e polpettine piccole, delle dimensioni di un pisello, oltre al cardo aquilano. L'usanza di friggere la pasta e completare poi la cottura nel brodo è molto antica e risale al tempo dei romani, che friggevano un particolare tipo di sfoglia chiamata catillus ornatus.

La ricetta: scrippelle 'mbusse

Ingredienti

1,2 l. di brodo di gallina

3 uova

2 cucchiai di latte

2 cucchiai colmi di farina

100 g. di pecorino grattugiato

1 cucchiaio di prezzemolo tritato

Noce moscata

Poco burro per la padella

Prezzemolo

Sale q.b.

Battete le uova in una ciotola, unitevi il latte, la farina setacciata, una cucchiaiata di pecorino, una grattatina di noce moscata, il prezzemolo tritato e un bel pizzico di sale. Mescolate bene per ottenere un impasto omogeneo quindi aggiungete l’acqua necessaria per ottenere una pastella molto fluida. Ungete leggermente una piccola padella antiaderente, scaldatela e versatevi un mestolino del composto. Girate subito la padella in modo che il composto si distenda su tutto il fondo, formando una crêpe molto sottile. Fatela cuocere due minuti per parte e continuate così fino a esaurimento del composto, calcolando di preparare dodici scrippelle. Quando sono pronte, allineatele sul tavolo, spolveratele di formaggio, arrotolatele e distribuitele fra quattro piatti fondi. Versate sopra il brodo bollente e servite subito completando i piatti con un pizzico di prezzemolo tritato.

a cura di Michela Becchi

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Milano. Il catering vegetariano Altatto lancia la fanzine Pinches

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“La cucina è un atto di consapevolezza”, esordiscono così le ragazze di Altatto, una realtà milanese che chiamare catering è riduttivo. E che da pochi giorni ha lanciato la sua fanzine Pinches.

 

È la storia di tre amiche - neanche cento anni in tutto! - reduci dall'Alma e da un'esperienza al fianco dello chef del ristorante Joia Pietro Leemann, che nel 2005 hanno aperto la loro società di catering Altatto “per proporre una cucina vegetariana di alta qualità in grandi eventi, per clienti esigenti” e che ora lanciano la loro fanzine Pinches. Sono Cinzia De Lauri, Sara Nicolosi e Giulia Scialanga.

Cinzia De Lauri, Sara Nicolosi e Giulia Scialanga del catering Altatto

Altatto

Fuori dalla cucina, ognuna ha il proprio ruolo. Giulia si occupa dei clienti e delle pubbliche relazioni (con lei abbiamo fatto l'intervista), Cinzia fa ricerca e scova i fornitori e Sara è l'addetta alla mise en place, “creando vassoi ad hoc, ma anche packaging o grembiuli sempre coerenti al tema dell'evento. Vogliamo, infatti, dare un valore aggiunto al nostro lavoro rendendo ciascun evento unico e rappresentativo, proponendo supporti, divise e cibi che traggano spunto dall'installazione e dallo spazio nel quale vengono fruiti”.

Ragazza che lavora per il catering Altatto

Il loro è un servizio catering a tutto tondo, tailor made lo definiscono, che vuole comunicare anche un messaggio. “Il gesto culinario ha inizio nell’istante in cui si sceglie cosa cucinare. La provenienza, l’etica nel lavorare la terra, la qualità e il rispetto di stagioni e paesaggio, sono temi imprescindibili della cucina di oggi e sono i cardini di Altatto”. La loro cucina è vegetariana, una scelta maturata con grande consapevolezza, per varie ragioni: “Alimentarsi evitando l’uccisione animale, cucinare vegetali, ridurre al minimo l’impatto ambientale. Tutte scelte etiche e sociali estremamente attuali e moderne, che dal punto di vista professionale hanno costituito un punto di partenza per il nostro progetto”. La sfida è poi quella di far comprendere a tutti, clienti onnivori in primis, quanto sia semplice rinunciare alla carne. “Riuscire a cucinare qualcosa di goloso, prezioso ed estremamente bello, servendosi esclusivamente del mondo vegetale, è per noi un grande stimolo, che ci permette di uscire dagli schemi classici in totale libertà”.

Panini vegetariani del catering Altatto

Le materie prime

Con il loro Altatto, le tre ragazze cercano anche di finanziare piccole realtà virtuose. “Non esiste alta cucina senza conoscenza del prodotto e rispetto della tradizione. I nostri produttori, selezionati con cura e attenzione, sono amici e complici fondamentali della nostra cucina”. Un discorso giusto, che in un ambiente urbano come quello di Milano è ancor più apprezzabile: “In un contesto in cui diventa sempre più difficile trovare prodotti genuini, naturali, che provengano da produttori locali, la valorizzazione della semplicità agreste diventa luogo di resistenza culturale. Oggi è doveroso valorizzare e proteggere queste tradizioni produttive, che sono tra l'altro la testimonianza di un’identità culturale fatta sì di territorio, ma soprattutto, di persone”. Tra i fornitori, Riserva San Massimo per il riso, Cascina Corbari per frutta e verdura bio, l’azienda agricola il Cascinello per le piante aromatiche. E ancora Vanifarm o il Boscasso per i formaggi di capra. “Conoscere il prodotto finale avendone seguito ogni passaggio rende sicuramente speciale quello che facciamo”, dicono, e ora è giunto il momento di far conoscere a tutti il lavoro che c'è dietro “perché la filosofia e il messaggio di Altatto sono importanti tanto quanto i piatti che ne risultano”.

Finger food vegetariani del catering Altatto

Pinches

Abbiamo lanciato Pinches per stuzzicare anche le vostre menti!”. Di che si tratta? “Di una piccola fanzine stagionale dove vorremmo raccontare posti, viaggi, chef, prodotti, ricette”. Così, con l'aiuto di Alessandro Brunetti, che ha curato anche logo e sito, hanno sviluppato un piccolo magazine, “un po' per accorciare le distanze tra noi e il pubblico, un po' per raccontarci”. Il primo numero di Pinches (che letteralmente significa “pizzicchi”) è solo in italiano, “ma già dai prossimi numeri sarà bilingue”, e contiene un omaggio a Leemann che le ha fatte incontrare. “L'intervista allo chef ci sarà sempre, così come ci saranno il focus su un prodotto (questa volta è la barbabietola), le ricette, gli abbinamenti con i cocktail, le riflessione sui vini, principalmente naturali. Ci sarà sempre spazio per parlare degli eventi e dei nostri viaggi, Sara è stata per esempio in Giappone, dove ha visto un sacco di posti curiosi che vendono oggetti particolarmente interessanti, dalle ceramiche alle pentole, e ha voluto condividerli con tutti”. Una piccola rivista, dunque, che racconta un pizzico di loro. Brave ragazze.

 

https://altatto.com

 

a cura di Annalisa Zordan

foto di Valentina Vasi

 

 

 

 

 


A tavola con i Babilonesi. La ricerca americana che riscopre le ricette di quasi 4000 anni fa

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Il filone dell'archeologia gastronomica è potenzialmente infinito e importante per interpretare abitudini sociali e culturali di civiltà scomparse. A New York un gruppo di cuochi-ricercatori si è cimentato per la prima volta con le ricette tramandate in alfabeto cuneiforme su antiche tavolette mesopotamiche. Ecco cosa mangiavano i Babilonesi. 

 

La più antica cucina del mondo

Quando ormai diversi decenni fa gli archeologi impegnati con la campagna di scavi di Larsa (odierno Iraq, un tempo parte dell'impero babilonese) riportarono alla luce tre tavolette incise con le indicazioni per preparare alcune ricette dell'epoca, si disse che provare a replicarle sarebbe stato impossibile. Una precisazione necessaria, vista l'eccezionalità della scoperta che accendeva i riflettori su quelle che ancora oggi sono considerate le ricette più antiche di cui si abbia testimonianza nel mondo, risalenti con molta probabilità al 1800 a.C, e quindi alle tradizioni gastronomiche di ben 3800 anni fa. Ricette semplici – 25 in tutto, incise in caratteri cuneiformi - passaggi ben definiti, zuppe e stufati tra le preparazioni base della dieta babilonese. Perché raffreddare gli entusiasmi, allora? Impossibile reperire molti degli ingredienti richiesti, specificavano gli studiosi, perché non più esistenti, o comunque non conosciuti. Come l'amursano, prodotto ricorrente in più ricette, assimilato dai ricercatori a una specie di piccione estinta; o il samidu, spezia diffusa all'epoca sul territorio, di cui ugualmente si sono perse le tracce.

I ricettari di pietra. Come usarli

Da qualche settimana lo scenario è cambiato. Il merito è di un'equipe congiunta che ha visto collaborare esperti di Harvard e Yale sulla possibilità di replicare le ricette in questione, a partire da una delle tavolette di Larsa, conservate presso la Yale Babylonian Collection. E così, un paio di mesi fa, l'autentica cucina mesopotamica ha imbandito la tavola degli ospiti presenti alla New York University per assistere all'esito della ricerca (nell'ambito di una giornata dedicata all'archeologia gastronomica), condotta in collaborazione con la chimica gastronomica Pia Sorensen, Patricia Gonzalez dal Basque Culinary Center e Nawal Nasrallah, storica della cucina solitamente dedita a riscoprire ricette della cucina medievale araba. L'operazione Babilonia, invece, si è rivelata più complessa sin dalle premesse: per poter stringere tra le mani il “ricettario” di pietra e seguirne passo passo le indicazioni in cucina, i cuochi-ricercatori hanno primo realizzato una copia in 3d della tavoletta, cimentandosi poi a più riprese nel Cooking Lab di Harvard – e in mancanza di indicazioni precise sulle quantità - con la preparazione di tre diversi stufati, prevalentemente a base di carne, come il Tu'hi, stufato di agnello e barbabietola, associato a un proto-borsch (la zuppa a base di carne e barbabietola originaria dell'Ucraina).

 

L'alta cucina dei Babilonesi

O il brodo di agnello, una preparazione laboriosa servita nelle occasioni speciali, che nasconde dietro a un immaginario apparentemente familiare un miscuglio di ingredienti poco rassicurante per il gusto occidentale contemporaneo, con latte e carne ovina addensati in cottura con il sangue dell'animale. Ma anche una ricetta vegetariana, una zuppa a base di porri, cipolle e grano spezzato ribattezzata dai Babilonesi stufato di “scioglimento”, probabilmente per la credenza che potesse aiutare a distendere i nervi: l'equivalente del nostro comfort food! Con buona probabilità, per varietà di ingredienti e laboriosità delle preparazioni, i ricettari furono redatti, da mani diverse, in un contesto di corte o per gli alti funzionari di un tempio, e aprono così una finestra importante sulla conoscenza dell'alta cucina mesopotamica. Sull'argomento si pronunciava, già nel 2004, lo storico francese Jean Botterò, nel testo di riferimento La più antica cucina del mondo: cucinare in Mesopotamia, ritenendo però difficilissimo interpretare le tavolette a causa di alcuni passaggi enigmatici, e per l'assenza di riferimenti certi su tempi di cottura e quantità. Ma l'alleato più importante del team che si è confrontato con l'impresa è stato proprio il gusto: un assaggio dopo l'altro, spiegano i ricercatori ripercorrendo i mesi trascorsi in laboratorio, le pietanze hanno preso forma. Che sia di buon auspicio per riscoprire l'intero corpus di ricette.

 

a cura di Livia Montagnoli

Analisi sul mondo delle food startup italiane

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Tra mille difficoltà e un ecosistema davvero poco amichevole verso il business innovativo, in Italia non si danno per vinte le startup che si occupano del domani del cibo. Nel numero di luglio del mensile del Gambero Rosso abbiamo analizzato la situazione attuale e passato in rassegna tutti i luoghi dove le aziende più all’avanguardia vengono accelerate e incubate. Qui un'anticipazione.

 

L’uso delle tecnologie applicate al cibo risale alla notte dei tempi, pensiamo all'inscatolamento di Nicolas Appert o alla pastorizzazione di Louis Pasteur. Ma a che punto sta la food technology oggi? Quali sono le realtà più innovative? Su quali ambiti si concentrano ricerca e investimenti? E c'è un reale interesse da parte delle aziende avviate di investire sul comparto del food tech e sulle startup? Abbiamo tentato un’indagine tra le startup italiane ad alto tasso tecnologico e creativo per capire in quali settori si stanno muovendo e quali sono le prospettive dell’immediato futuro. Ne è emerso un quadro interessante: prima la tecnologia applicata al food era volta a sviluppare nuove modalità di lavorazione, conservazione, confezionamento o immagazzinamento di prodotti alimentari affinché non si alterassero; oggi l'obiettivo “sicurezza” assume un significato più orientato alle prospettive FAO (Organizzazione delle Nazioni Unite per l'alimentazione e l'agricoltura), quindi indirizzato a soddisfare il fabbisogno energetico di tutti. Un obiettivo, che oggi è diventato business, condiviso da molte start up italiane.

Obbiettivo sostenibilità

La maggior parte delle innovazioni tecnologiche stanno percorrendo la rotta della sostenibilità anche perché, per dirla con le parole di Matthieu Vermersch (Founder & Managing Partner di VisVires New Protein), “l'insostenibilità non è più business”. Un dato di fatto che si evince dalla grande quantità di realtà, tra startup e aziende avviate, sensibili a questa tematica. Tra le nuove tecnologie c'è, infatti, chi si occupa di agricoltura di precisione, chi punta sui nuovi metodi di coltivazione (ad esempio l'idroponica), chi cerca di sostituire le proteine animali oppure chi riduce gli sprechi, sia a monte, quindi in campo, sia a valle, sensibilizzando i consumatori oppure trovando soluzioni facilmente applicabili e convenienti per i consumatori stessi. Un oceano virtuoso nel quale abbiamo cercato di individuare delle macrocategorie, focalizzandoci in questa ricerca esclusivamente su giovani realtà italiane.

Il futuro? L'agricoltura di precisione

Quali saranno le tecnologie del futuro? “Prima bisogna fare una precisazione: siamo all'inizio di questo processo di innovazione”. A parlare è Marco Gualtieri, Presidente e ideatore di Seeds&Chips, il summit internazionale dedicato alle aziende e startup digitali che innovano nella filiera dell'agroalimentare e nell'universo dell'enogastronomia. “Una volta appurato questo, credo che il settore che più velocemente si espanderà sia rappresentato dall'agricoltura di precisione, della quale, oggi, sfruttiamo solo una piccolissima parte dell'enorme potenzialità”. A detta di Gualtieri l'agricoltura di precisione crescerà almeno di due cifre nei prossimi anni e “chi si sta applicando, già ne coglie i benefici in termini economici”. A conferma di ciò, il fatto che un colosso come Telecom Italia si stia muovendo in questa direzione: “TIM opera da sempre nel campo della comunicazione, ma oggi più che mai si sta posizionando sui servizi digitali e l'Internet of Things”. A dirlo, Cristiano Alborè (Direzione Business & Top Clients di TIM), secondo il quale la smart agriculture rappresenta uno degli scenari dello IoT con maggiore potenziale in termini di reddito, non solo: “Con il 5G l’ecosistema dell’agrifood riuscirà a ridurre i costi di produzione e l’impatto sull’ambiente, garantendo ai consumatori un prodotto sicuro e di qualità”. Una tecnologia in fase di attualizzazione, in accordo con le richieste dei consumatori e le esigenze del pianeta: “La rilevanza socio-economica di questo settore è da ricercarsi anche nel fatto che il modello agroalimentare industriale degli ultimi cinquant’anni ha determinato lo sfruttamento indiscriminato e il deterioramento delle risorse naturali considerate erroneamente illimitate e inesauribili. I costi pagati, in termini ambientali e sociali, a causa dell’agricoltura intensiva sono stati enormi, soprattutto sotto l’aspetto dell’inquinamento, della perdita di biodiversità e della riduzione della fertilità dei suoli. Dunque, la sfida per il futuro del settore alimentare, tenuto conto anche della crescita prevista per la popolazione mondiale, si gioca proprio in questo campo”. 

 

Lo ribadisce anche l'ideatore di Seeds&Chips: “Negli ultimi anni ci siamo trovati di fronte ad una serie di campanelli di allarme, penso al batterio della Xylella o alla falena che sta distruggendo intere colture di mais in Africa, e credo che l'unica soluzione sia data dall'agricoltura di precisione, un settore che fino a poco tempo fa nemmeno esisteva”. Ma che cos'è esattamente?

Cos'è l'agricoltura di precisione

Le nuove soluzioni tecnologiche in campo sono numerose e affrontano svariati temi, dalla produttività al controllo dei fitofarmaci, dalla sicurezza nel processo produttivo alla sostenibilità. Qualche esempio: per aumentare la produttività esistono tecnologie specializzate nel raccogliere dati sul suolo e sugli aspetti meteorologici (umidità dell’aria, temperatura, intensità dei raggi solari) funzionali a fare previsioni sui raccolti e ottimizzare i piani di semina, individuando sia le aree a maggiore produttività, sia le migliori coltivazioni da produrre. Per ridurre l'impatto ambientale esistono invece sensori e telecamere che sono in grado di individuare eventuali attacchi da parte di parassiti. Così l'agricoltore userà esclusivamente i pesticidi strettamente necessari e solo lì dove serve, riducendo i costi e l’impatto ambientale. In tal senso agricoltura di precisione significa applicare il trattamento giusto, nel luogo giusto, al momento giusto, nella quantità giusta. È un nuovo modello agricolo sostenibile basato su una gestione intelligente e sulle effettive necessità delle piante presenti in un campo. Un bel passo in avanti, che però non sempre viene colto dagli agricoltori. “Il vitivinicolo e l’oleario rimangono i principali settori in cui si sperimentano tali soluzioni, a cui si affiancano applicazioni in ambito ortofrutticolo e di agricoltura controllata in serra. In ogni caso – spiega Alborè – il cliente medio non vuole parlare di tecnologia, di hardware, di piattaforme e di algoritmi, ma chiede una soluzione semplice da installare e gestire e che gli dia i benefici attesi”. Ecco perché le soluzioni devono essere immediate, facili da usare e fruibili tramite un’interfaccia web. IoT Smart Farm di Olivetti-TIM è solo un esempio, ma la sfida è stata colta da moltissime start up come eVja (specializzata nell'irrigazione e nella potatura), 3Bee che interpreta i bisogni delle api attraverso particolari sensori posti all’interno dell’alveare o Elaisian, orientato alla salvaguardia degli ulivi. Tre realtà italianissime su cui puntare secondo Peter Kruger, CEO dell'acceleratore Startupbootcamp FoodTech parte di una ramificata rete internazionale e nato a Roma nel 2016.

 

Drone che porta del cibo. Disegno di Marcello Crescenzi

Le startup anti spreco e la logica del win win

Sempre Kruger ci ha indicato un'altra realtà che gli sta a cuore, è MyFoody, una start up milanese che si batte contro gli sprechi partendo da un semplice assunto: quasi tutti i consumatori quando entrano in un supermercato preferiscono i prodotti con la data di scadenza più lontana, ma così non succede quando acquistano biglietti aerei o prenotano un albergo. Perché? Perché in questi due casi il prezzo cambia. Allora i ragazzi di MyFoody monitorano tutte le date di scadenza e sulla base di queste calibrano il prezzo, garantendo così una migliore gestione delle eccedenze a rischio spreco. Se questo meccanismo venisse applicato sempre ci sarebbe una riduzione degli sprechi: una soluzione sostenibile anche economicamente perché la riduzione degli sprechi implica un aumento dei profitti (le imprese aumentano i propri ricavi vendendo merce che altrimenti verrebbe sprecata). È la logica del win win. E l'approccio è quello dellablu economy, secondo cui ciò che solitamente viene sprecato può invece creare valore se rimesso in circolo. Un altro esempio? Tutte quelle start up che stanno lavorando sugli scarti della filiera agroalimentare. In alcuni casi per produrre nutrienti (estraendo, ad esempio dalle bucce, vitamine, zuccheri, fibre), “moltissime realtà si stanno proprio muovendo nell'ambito della nutraceutica”, spiega Marco Gualtieri. In altri producendo dei packaging particolari. “Un altro tema di fondamentale importanza per il futuro è la questione del packaging: la parola chiave è less is more”. Ma c'è di più: “alcune start up stanno studiando dei rivestimenti sostenibili, e dunque biodegradabili, che attraverso dei particolari polimeri sono anche in grado di allungare la conservazione degli alimenti. È il packaging intelligente”. Una soluzione che trasforma gli scarti in valore, aumenta la shelf life del cibo, riducendo così gli sprechi, e affronta il problema (enorme) dell'inquinamento creato dalla plastica: così “vincono” tutti.

Nel numero di luglio del mensile del Gambero Rosso continua la nostra indagine tra le startup italiane ad alto tasso tecnologico e creativo.

 

a cura di Annalisa Zordan

disegni di Marcello Crescenzi

 

QUESTO È NULLA...

Nel numero di luglio del Gambero Rosso, un'edizione rinnovata in questi giorni in edicola, trovate l'indagine completa con tutte le startup che si occupano di colture innovative (come l'idroponica) e di clean meat, ovvero carne pulita fatta in laboratorio ma identica per valori nutrizionali a quella naturale. Un servizio di 9 pagine che include anche un glossarietto per orientarsi al meglio in questo settore, il punto di vista di Sonia Massari circa le realtà che si occupano di consegna a domicilio, gli acceleratori e incubatori più importanti e le 12 startup italiane da tenere sottocchio.

 

Il numero lo potete trovare in edicola o in versione digitale, su App Store o Play Store

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Stop alle licenze di ristorazione nei centri storici. Venezia detta i limiti, a Genova guerra alla cucina etnica

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Corre ai ripari Venezia, che negli ultimi 5 anni registra il boom di attività di somministrazione tra calli e canali: ora sarà più difficile aprire ristoranti in città. Al bando i take away. Genova invece subordina il ripristino del decoro alla “selezione” delle cucine etniche. 

 

Regolamentare le licenze in città

L'estate è forse il momento migliore per prenderne coscienza, ma i centri storici di città d'arte prese d'assalto dal turismo di massa senza soluzione di continuità vivono il problema per 365 giorni all'anno. Pro e contro, intendiamoci, perché il turismo è (e deve continuare a essere) un'importante risorsa economica per l'Italia. Ma indirizzarne i flussi – decentrando l'affluenza verso mete che meritano di essere scoperte da un lato, dall'altro ripensando i percorsi cittadini nei principali centri d'attrazione all'insegna della qualità – sembra essere la sfida più ambiziosa delle amministrazioni comunali. Gioca un ruolo importante, in questo senso, anche il contrasto all'apertura indiscriminata di attività di dubbio gusto, specie in ambito gastronomico: rimodulare la qualità dell'offerta rende la città appetibile per un turismo altrettanto esigente. E insieme è conclamata la necessità di regolamentare licenze di somministrazione concesse con fin troppa benevolenza negli ultimi anni. Come i singoli Comuni hanno scelto di affrontare una materia così complessa (il rischio è sempre quello di scontentare qualcuno, i criteri di selezione non sempre sono ineccepibili) abbiamo cominciato a vederlo all'indomani dell'approvazione del cosiddetto regolamento Unesco da parte del Consiglio comunale di Firenze, all'inizio del 2016.

 

Da Firenze, a Bologna e Venezia. Come promuovere la qualità

Nella culla del Rinascimento, sempre più avviata a riscoprirsi meta gourmet, si arrivava così a formulare un disciplinare incentrato sul vincolo di identità territoriale per la concessione di licenze di ristorazione, che sarebbe diventato modello per la norma salva centri storici validi su scala nazionale, in vigore dalla fine del 2016. Basta a kebab e fast food nei centri cittadini in nome del decoro urbano, proclamava il testo lasciando ampia discrezionalità sull'applicazione della legge a sindaci e soprintendenze. Dunque Firenze, nella primavera 2017, blindava la possibilità di aprire nuove attività di ristorazione per i 3 anni a venire, Venezia approvava una delibera per arginare le attività di vendita e produzione di cibo finalizzate al consumo su pubblica via, Bologna si accodava qualche mese dopo, annunciando la volontà di correre ai ripari contro il “boom dei taglieri”. Un anno dopo a Venezia si torna a discutere sul da farsi, dati alla mano: in 5 anni (dal 2012 al 2017) sono un centinaio bar e ristoranti aperti tra i calli e canali, e la situazione impone una delibera per arginare i nuovi progetti, sulla scorta di quanto fatto in precedenza con gli hotel, quando la maggior parte dei palazzi storici sembravano destinati a trasformarsi in strutture d'ospitalità. L'idea è quella di vincolare tredici nuovi ambiti di tutela che integrano i sette già esistenti, dove per ottenere la licenza sarà necessario raggiungere 200 punti. Con fermo divieto all'apertura di take away. Tra i criteri oggetto di bonus, oltre a servizi igienici e spazi per bambini, anche una dimensione del locale tale che possa favorire il consumo all'interno, invece che in strada. Poi la valorizzazione in tavola di prodotti e tradizioni del territorio, la qualità nella progettazione degli spazi. Si voterà solo tra qualche giorno, ma la strada sembra spianata.

 

Il caso delle cucine etniche a Genova

Diversa – e potenzialmente rischiosa perché foriera di strumentalizzazioni - è la conclusione cui si è giunti a Genova, dove la delibera restrittiva approvata alla fine di giugno si concentra sulle cucine “etniche” extraeuropee, istituendo un pericoloso parallelo tra mancanza di decoro e attività che promuovono le culture gastronomiche straniere (senza distinzione di sorta, se non un mero discrimine geografico). Passi per il divieto a call center e sexy shop, e pure per il blocco di minimarket in tutto il centro storico tutelato dall'Unesco, ma perché enfatizzare la natura etnica dell'attività e non concentrarsi unicamente su criteri oggettivi e univoci di qualità (come peraltro specificato per altri versi, dalla tracciabilità delle materie prime all'uniformità di infissi e saracinesche)? A presentare il provvedimento l'assessore leghista al commercio Paola Bordilli, con l'intenzione di “qualificare e rivitalizzare il centro storico”, bloccando, per esempio, chi utilizza esclusivamente cibi precotti e surgelati (kebabbari e catene di patatine fritte in primis), e premiando invece chi fa vanto di utilizzare prodotti a denominazione protetta. Ma il vincolo di territorialità sarà applicato anche alle botteghe alimentari: pollerie e macellerie dovranno vendere carni liguri o in arrivo dalle regioni confinanti, concessione, quest'ultima, legata alla decisione di salvare Fassona piemontese e Chianina toscana. Nella cosiddetta zona rossa, inoltre, finirebbero sotto la tagliola anche i ristoranti di cucina extraeuropea, dagli indiani ai giapponesi, mentre salvo sarebbe il prestigio della cucina francese (e di tutte le attività “di comprovata tradizione europea”). Un criterio, ci sembra, piuttosto arbitrario per riconoscere la qualità, e decisamente orientato a un protezionismo che non porta da nessuna parte e che nulla ci azzecca con la qualità. È inutile spiegare – ma è utilissimo a quanto pare a Genova, città gloriosa che pare dimenticare il suo gloriosissimo passato fatto di apertura – che un ristorante eritreo o magrebino può modulare una proposta gastronomica di altissima eccellenza così come un sedicente ristorante ligure può preparare le tipiche ricette genovesi facendo ricorso a prodotti mediocri ancorché perfettamente... “europei”.

 

a cura di Livia Montagnoli

Menu delle Montagne a Courmayeur. La mostra che racconta la cucina d'alta quota dall'Ottocento a oggi

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Sono oltre 200 i menu d'epoca esposti al Museo Transfrontaliero di Courmayeur fino all'inizio di settembre. La mostra itinerante ideata a Torino approda per tutta l'estate in Val d'Aosta per raccontare costumi ed evoluzione dell'ospitalità in montagna in tutto il mondo, tra frugali pasti nei rifugi alpini e raffinati menu di prestigiosi hotel internazionali. 

 

La cucina di montagna in mostra

Si chiama Menu delle Montagne, e mai cornice si è rivelata più azzeccata del Museo Transfrontaliero di Courmayeur, rinomata località alpina della Valle d'Aosta, al confine con la Francia. Alla fine di giugno, infatti, è arrivato ai piedi del Monte Bianco un importante corpus di menu storici conservati nelle collezioni del Museo Nazionale della Montagna di Torino (già esposti a Trento, e prima proprio a Torino, dove la rassegna ha debuttato alla fine del 2017), in mostra fino all'inizio di settembre nell'elegante cittadina che vive di turismo durante tutto l'anno. La particolarità? Tutti sono dedicati alla cucina di montagna, ripercorrono la tradizione gastronomica alpina e non solo, garantendo un viaggio a ritroso tra le proposte di ristoranti e hotel di epoche diverse - dagli anni Settanta dell'Ottocento a oggi - associati alla fama di rinomate località montane. Oltre 200 carte provenienti prevalentemente da Torino, ma pure dalla collezione privata de L'Auberge de la Maison di Courmayeur, che per l'occasione ha concesso in prestito 40 grafiche che raccontano la storia della ristorazione locali e i prodotti del territorio. Del resto l'obiettivo della mostra, a cura di Aldo Audisi, è proprio quello di affascinare i visitatori guidandoli alla scoperta di un mondo estremamente raffinato e complesso, com'è quello dei menu, che per soluzioni grafiche e contenuti sono in grado di sancire passaggi epocali, e nello specifico l'evoluzione dell'arte dell'ospitalità in montagna in oltre un secolo di storia, raccontando pure l'evoluzione del costume, della grafica e della percezione della montagna a diverse latitudini del mondo (dal Giappone agli alberghi delle Canadian Rockies).

La storia dei menu alpini. Come cambiano gusti e costumi

Sono cinque le sezioni in cui si articola il percorso: gli Eventi, con menu riconducibili a cene e occasioni importanti (come i festeggiamenti per grandi imprese alpinistiche, spesso con le firme dei protagonisti in menu), Hotel e Ristoranti, con focus sull'offerta gastronomica delle strutture montane durante la Belle Epoque, i Viaggi, affascinante percorso tra i menu delle grandi tratte ferroviarie e delle compagnie aeree su voli intercontinentali, le Pubblicità che promuovono cibi e bevande legati alla montagna, di grande bellezza grafica. E un ultimo spazio dedicato a Courmayeur, grazie alla collaborazione della famiglia Garin, che all'Auberge de la Maison conserva un nucleo di menu locali di inizio Novecento, ed è tanto coinvolta nell'iniziativa da aver deciso di offrire ai visitatori un'ulteriore opportunità per calarsi nello spirito dell'epoca.

Per tutta l'estate, infatti, l'Auberge proporrà un dolce tratto da uno dei menu esposti, il gelato La Plombiere Mont-blanc citato sulla carta del giorno Flore Valdotaine dell'Hotel Mont-Blanc, in data 4 agosto 1903. Un'occasione in più per proseguire un viaggio nel tempo costellato di dettagli rivelatori. Per esempio il ricorrere di iconografie caratteristiche della cultura montana pur a centinaia di chilometri di distanza (come abiti tradizionali e rappresentazioni stilizzate dei villaggi), o la progressiva evoluzione della grafica del menu, prima un semplicecartoncino verticale non piegato e stampato su un solo verso con l’elenco dei cibi da un lato e dall’altro un’illustrazione, poi sempre più articolato, fino ad arrivare all'impaginazione attuale, che coincide con la scomparsa delle illustrazioni di un tempo (alla fine dell'Ottocento spiccano anche litografie artistiche ispirate alla pittura alpestre settecentesca).

 

Menu delle Montagne – Museo Transfrontaliero – fino al 2 settembre – 10 euro, chiuso il lunedì – info@courmayeurmontblanc.it

 

a cura di Livia Montagnoli

Cos'è il Jefta, l'accordo commerciale tra Giappone e Unione Europea

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All'indomani della firma del trattato Jefta tra Unione Europea e Giappone, facciamo il punto per capire in cosa consiste e cosa potrebbe cambiare per l'export italiano.

 

Lo chiamano “Cars for cheese” - ma il suo vero nome è Jefta (Japan-Eu Free Trade Agreement) - l'accordo commerciale tra Ue e Giappone firmato il 17 luglio a Tokyo che faciliterà gli scambi commerciali tra Sol Levante ed Europa, abbracciando diversi settori, ma soprattutto quelli agroalimentare e automobilistico. Da una parte ci sarà, infatti, la liberalizzazione del mercato automobilistico dal Giappone verso l'Europa e dall'altro quello dei prodotti agroalimentari Ue verso il Paese del Sol Levante. Il trattato si propone anche di superare gli ostacoli normativi, le differenze delle norme e dei requisiti tecnici, delle procedure di approvazione dei prodotti e dei controlli, che rendono più complicato e costoso il commercio da e verso il Giappone. In questo modo l'Europa si troverà a combattere ad armi pari con i competitor che già hanno stretto accordi simili con governo nipponico. Per esempiole birre europee potranno essere esportate in Giappone come birre e non più come bibite alcoliche e anche la tassazione sarà simile, eliminando le disparità tra una birra e l'altra.

L'accordo sul libero scambio potrebbe entrare in vigore già a fine anno, coinvolgendo un mercato di oltre 600 milioni di persone che vale un terzo del Pil mondiale. A oggi, il nostro conto dell'export da e verso il Giappone è positivo: l'Italia esporta beni per circa 6,6 miliardi di euro e ne importa per 4,2. Una voce importante riguarda proprio l'agroalimentare, con il testa carni suine, vino, carni bovine, olio d'oliva, pomodoro, pasta e aceto.

 

L'eterna diatriba dei liberi accordi

Dopo la firma del presidente della Commissione Ue Jean-Claude Juncker, del presidente del Consiglio europeo Donald Tuske il premier giapponese Shinzo Abesi aspettail lasciapassare definitivo della Dieta giapponese e del Parlamento europeo, ma senza la ratifica dei singoli Stati, il cui via libera è stato unanime. È un tema caldo, quello dei liberi accordi, in cui polemiche e conflitti non si placano. Non lo hanno fatto con il Ttip, mai approvato, e non lo fanno oggi con il Ceta – che liberalizza gli accordi con il Canada - in vigore dallo scorso 21 settembre in via provvisoria e in attesa di essere ratificato dai singoli Stati Ue; con i movimenti No Ceta in prima linea pronti a dare battaglia e tante perplessità: "vogliamo capire se realmente il Ceta è vantaggioso per il nostro Paese. Ad oggi ci sembra di no" ha detto il ministro delle Politiche Agricole Gian Marco Centinaio davanti al Consiglio agricoltura e Pesca di Bruxelles, aprendo ufficialmente il “caso Ceta”, in pieno accordo con la posizione del ministro del Lavoro e dello Sviluppo economico Luigi Di Maio che,qualche giorno fa all'assemblea Coldiretti, si era espresso contro, dicendo a chiare lettere che, una volta in Aula, l'accordo sarà respinto dalla maggioranza di Governo. Si sarebbe immaginata un'analoga posizione riguardo gli accordi con il Giappone, e invece no.

 

I punti caldi

Il Jefta regolamenta diverse questioni: appalti pubblici, servizi, investimenti, e-commerce, lavoro, sviluppo sostenibile, dazi e via dicendo, toccando, in maniera non secondaria anche il comparto agroalimentare condividendo punti caldi e polemiche con il Ceta, considerato da molti un accordo analogo a quello appena firmato e per questo da usare come pietra di paragone per alcune questioni. A partire da quelle legate al riconoscimento delle denominazioni, passando per rischio contraffazione e sicurezza alimentare, non ultimo il tema Ogm: gli oppositori del trattato denunciano che il Giappone è il paese con maggior numero di colture Ogm approvate per alimenti umani e animali e in cui la soglia per la presenza accidentale di organismi geneticamente mutati è pari al 5%, mentre in Europa il limite è dello 0,9%. C'è da ribadire che il principio di precauzione (sancito dal trattato sul funzionamento dell'Unione europea TFUE) consente all'UE di adottare misure preventive in caso di possibili rischi per gli esseri umani e per l'ambiente in caso vi siano “prove preliminari obiettive secondo cui esistono fondati motivi di temere possibili effetti nocivi sull'ambiente e sulla salute degli esseri umani, degli animali e delle piante, ma vi è incertezza scientifica in merito”. Inoltre, spiegano dalla Commissione Europea, “l'accordo non renderà meno stringenti le norme di sicurezza né richiederà alle parti di modificare le proprie scelte di politica interna su questioni quali l'uso di ormoni o di organismi geneticamente modificati”.

 

Le voci contro

Molte associazioni tradizionalmente anti-trattati - tra cui Coldiretti, Greenpeace, Slow Food, Federconsumatori - denunciano i rischi che comportano la riduzione di sovranità delle istituzioni nazionali, di controllo sull'import dal Giappone e di manovra delle piccole e medie imprese su uno scacchiere così ampio. In buona sostanza: secondo le voci che si oppongono agli accordi, questi favorirebbero ilguadagno solo di poche grandi imprese esportatrici, e spingerebbero verso un livellamento verso il basso degli standard sui metodi di produzione, sulla sicurezza (come visto nel caso degli Ogm) e la qualità, su distribuzione e consumo. Insomma: più velocità e facilità negli scambi commerciali a fronte di regole meno stringenti.

 

Dazi

Con l'entrata in vigore del Jefta verranno eliminati circa il 90% dei dazi (soprattutto su molti formaggi, carni suine, pasta, passata di pomodoro, vini) che pagano ogni anno le imprese europee che esportano in Giappone. Nello specifico l'esenzione completa riguarda la carne suina trasformata, mentre per la fresca i tributi sono quasi zero. I dazi sulle carni bovine saranno ridotti gradualmente – nel corso di 15 anni - dal 38,5% al 9%. Saranno soppressi i dazi elevati su molti formaggi a pasta dura quali il Gouda e il Cheddar (attualmente al 29,8%) e sarà stabilito un contingente esente da dazi per i formaggi freschi come la mozzarella. Per pasta, cioccolatini, cacao in polvere, caramelle, dolciumi, pomodori preparati, salsa di pomodoro e altri prodotti agricoli trasformati l'accordo eliminerà i dazi esistenti con un periodo transitorio. Saranno inoltre soppressi, da entrambe le parti, i dazi sulla pesca. E insieme ai tributi cadranno anche una serie di norme che ostacolano l'export. L'obiettivo è un considerevole incremento dell'export verso il Giappone come auspicano da Agrinsieme (il coordinamento di organizzazioni professionali che rappresenta i 2/3 delle aziende agricole) molto favorevole all'accordo.

 

Sicurezza alimentare e principio di equivalenza

L'ipotesi di un riconoscimento reciproco degli standard di valutazione tra Europa e Giappone apre ulteriori contestazioni sulla sicurezza alimentare. Secondo le voci di dissenso una possibile sostanziale equivalenza potrebbe portare a regolamenti molto meno restrittivi. L'accordo spinge per istituire un comitato di regolamentazione comune composto da rappresentanti del governo e da autorità di regolamentazione di entrambe le parti. “La cooperazione in ambito normativo”si legge “resterà completamente volontaria e non pregiudicherà il diritto dell'UE e del Giappone di definire o regolamentare i propri livelli di protezione per raggiungere obiettivi di interesse pubblico”. Il comitato non potrà modificare la normativa vigente, ma tra gli obiettivi dell'accordo UE-Giappone c'è anche quello – dichiarato - di garantire che “in futuro non si verifichino inutili divergenze normative, ad esempio facendo in modo che le autorità di regolamentazione delle due parti cooperino regolarmente, scambiando idee ed esperienze e individuando gli ambiti in cui collaborare in futuro”. Un altro tema è quello legato alla presenza di Ogm nei prodotti alimentari che in Europa deve essere sempre etichettato, mentre in Giappone l'obbligo è limitato a 33 categorie trasformate e 8 materie prime. Nel testo si legge che “il riferimento a norme internazionali renderà più facile e meno oneroso il rispetto delle norme giapponesi in materia di etichettatura”.

 

Denominazioni e contraffazioni

Una delle voci di cui si discute di più è il riconoscimento e la tutela delle denominazioni, secondo le accuse troppo poche: in Italia sono 45 tra cibo e vino (che tratteremo in un paragrafo a sé) quelle riconosciute dal Jefta (41 dal Ceta) che quindi in Giappnoe avranno o stesso livello di tutela che in Europa. Riguardo ai prodotti agroalimentari, ci sono Aceto Balsamico di Modena, Aceto Balsamico Tradizionale di Modena, Asiago, Bresaola della Valtellina, Fondina, Gorgonzola, Grana Padano, Mela Alto Adige (Sudtirol Apfel), Mortadella di Bologna, Mozzarella di Bufala Campana, Parmigiano Reggiano, Pecorino Romano, Pecorino Toscano, Prosciutto di Parma, Prosciutto di San Daniele, Prosciutto Toscano, Provolone Valpadana, Taleggio, Zampone Modena. In alcuni casi la tutela riguarda solo il nome complessivo e non quello generico: ovvero Mortadella Bologna e non, semplicemente, mortadella, che potrebbe continuare a essere impiegato anche per prodotti Made in Japan.Un precedente che potrebbe costare caro nei trattati in divenire, come quello con i paesi del Mercosur. Definizioni come parmesan&co, inoltre, potranno continuare a essere utilizzate. Il trattato aprirà gli scambi di prodotti alimentari trasformati, quali pasta, cioccolato, dolciumi e biscotti (a oggi il valore delle esportazioni di tali prodotti dall'UE in Giappone è di circa mezzo miliardo di euro all'anno).

 

Rischio invasione

Tra gli allarmi sollevati già con il precedente accordo – che utilizziamo come parametro - con il Canada, c'è la possibile invasione di prodotti in arrivo dai paesi contraenti. Un timore, quest'ultimo, che parrebbe scongiurato dai dati Istat riguardo al Ceta: sui quattro mesi del 2018 l'import italiano di prodotti agricoli canadesi (carne e grano duro compresi) è calato del 34%, a fronte di un incremento dell'export agricolo italiano verso il Canada del 4,1%. Diverso il caso del Giappone, il cui import agricolo dall'Europa è 20 volte maggiore del suo export, insomma: il Giappone compra beni agroalimentari dall'Europa molto più di quanti ne venda.

 

Il vino: dazi, pratiche e additivi

Con l'entrata in vigore del Jefta, il vino godrebbe immediatamente di dazi pari a zero. Una condizione importantissima in un mercato con cui già ci sono stretti rapporti (che potrebbero stringersi ancora di più) visto che al momento i dazi incidono per il 31% sugli sparkling, del 15% sull’imbottigliato e del 19,3% sullo sfuso (>2 litri).Si calcola che il risparmio sarà di oltre110 milioni di euro l’anno. Le nostre aziende saranno così in grado di competere alle stesse condizioni di altri paesi agguerritissimi in quel mercato, come Australia e Cile, che lo scorso anno ha superato l'Italia, oggi terzo fornitore di vino in Giappone. Un sorpasso in cui pesa l'accordo Giappone-Cile che sta gradualmente abolendo i dazi sul vino (che dovrebbero arrivare a zero nel 2019). Quarta economia al mondo, con un mercato ricco con consumatori esigenti che hanno finora mostrato grande interesse all’eccellenza del made in Italy agroalimentare, il Giappone è un paese chiave. In cui, inoltre, c'è una produzione vitivinicola interna molto bassa, intrapresa praticamente soltanto nel Dopoguerra

Tra le condizioni che entrerebbero subito in vigore con il Trattato, c'è il riconoscimento di 30 additivi e pratiche europee relative alla vinificazione, fino a ora proibite da Tokyo.Oggi, infatti, in Giappone, i vini sono soggetti alle norme della legge sulla sanità alimentare “Food sanitation law”, per cui quelli importati devono essere accompagnati da un modulo con allegata descrizione del processo produttivo e un certificato di analisi rilasciato dai laboratori registrati presso il Ministero della Sanità giapponese.In particolare, per il vino le quantità di acido sorbico e di anidride solforosa devono essere rispettivamente inferiori a 200 ppm (parti per milioni) e 350 ppm.Sui certificati, però, non basta questa dizione, ma deve essere indicato il valore esatto riportato.Problema che, con l'accordo cesserebbe, sfoltendo notevolmente le pratiche burocratiche.

 

Denominazioni e contraffazioni

Sono 26 di vini e alcolici italiani riconosciuta dal trattato, ma la lista è “aperta”, per cui, in futuro e qualora le condizioni di mercato lo ritenessero necessario, la lista dei vini Dop e Igp europei e italiani potrà essere allargata. Attualmente sono Grappa, Asti, Barbaresco, Bardolino, Bardolino Superiore, Barolo, Bolgheri/Bolgheri Sassicaia, Brachetto d'Acqui / Acqui, Brunello di Montalcino, Campania, Chianti, Chianti Classico, Conegliano - Prosecco/ Conegliano Valdobbiadene – Prosecco/Valdobbiadene – Prosecco, Dolcetto d'Alba, Franciacorta, Lambrusco di Sorbara, Lambrusco Grasparossa di Castelvetro, Marsala, Montepulciano d’Abruzzo, Prosecco, Sicilia, Soave, Toscana/Toscano, Valpolicella, Vernaccia di San Gimignano, Vino Nobile di Montepulciano.

Il rischio contraffazione, spauracchio anche nel settore enologico, è stato sollevato da Coldiretti (da sempre contraria all'accordo) a proposito del Ceta: “L’accordo di libero scambio con il Canada” ha detto “non protegge dalle imitazioni, dall’Amarone all’Ortrugo dei Colli Piacentini insieme a molti altri vini e non prevede nessun limite per i wine kit che promettono di produrre in poche settimane le etichette più prestigiose dei vini italiani”. Affermazioni smentite, però, dal direttore del Consorzio Vini della Valpolicella Olga Bussinello, che a Tre Bicchieri, settimanale di wine economy del Gambero Rosso, ha spiegato come l'intera denominazione Valpolicella sia tutelata – insieme a Amarone, Ripasso e Recioto - all'interno di un accordo con il Canada del 2004, riconosciuto e fatto proprio dal Ceta. “È vero” ha detto “che ci sono molti problemi di uso improprio del marchio in Nordamerica, ma il Canada in questo momento si sta muovendo per trovare una quadra. E per quanto ci riguarda il Ceta è un accordo strategico, in un mercato che rappresenta il primo riferimento extraUe per Ripasso e Valpolicella e il settimo per l'Amarone”.

 

 

a cura di Antonella De Santis e Loredana Sottile 

 

La pasta italiana in Abruzzo. 20 formati tipici e la ricetta delle scrippelle 'mbusse

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Poche paste ripiene, tanti strumenti d'epoca per realizzare ancora i formati di una volta, condimenti saporiti e caratterizzati da una generosa spolverata di pecorino. Ecco com'è la tradizione della pasta in Abruzzo. 

 

Una terra dall'identità culinaria forte e ben definita: pochissime contaminazioni per la tavola abruzzese, un luogo che fino quasi agli anni '60 è vissuto in pieno isolamento e che, proprio per questo motivo, è riuscito a conservare un carattere autentico, a tratti aspro, ma sincero. La maggior parte dei borghi d'Abruzzo praticano una cucina autoctona, da sempre profondamente legata alla pastorizia e ai prodotti del territorio. Fa eccezione la tradizione pugliese, che tramite la transumanza è riuscita in parte ad approdare nella regione. Parliamo di una cucina robusta in cui piatti di terra, formaggi e carni succulente si alternano al pesce fresco di un litorale ancora poco battuto, ma che riserva piacevoli sorprese sul fronte gastronomico. Come tutte le regioni più radicate nel proprio passato, l'Abruzzo ha saputo conservare le tradizioni più antiche della pasta fatta in casa, ricette perlopiù povere e fatte di pochi ingredienti. Ecco quali sono i 21 formati più popolari.

Cazzellitti

Tipici di Scanno e dintorni, ma molto diffusi anche nella zona di Vasto, sulla Costa dei Trabocchi, i cazzellitti sono dei piccolissimi fusilli di semola di grano duro e acqua, talvolta preparati anche con l'aggiunta di uova. Chiamati anche cavatille o cazzarille, vengono conditi con verdure oppure sughi di agnello o pecora. Un tempo, venivano insaporiti con le verdure coltivate dai pastori vicino agli stazzi di montagna, oppure spinaci selvatici, tanni e simili. La transumanza verso la Puglia ha portato poi all'utilizzo di verdure come le cime di rapa. A Vasto, invece, è il pesce dell'Adriatico il condimento più comune.

Cencioni di fave

Condivisi anche con le Marche, i cencioni sono delle tagliatelle corte e tozze di sfoglia non tropo sottile: il nome deriva da cencio, che significa straccio, termine del Duecento utilizzato per indicare il panno per pulire il pavimento. Alla base dell'impasto, farina di grano, uova e farina di fave, molto popolare in passato nel mondo contadino, quando non sempre era possibile acquistare la farina di grano, più costosa rispetto ad altre.

Ciufolitti

Macaron dell'Alta Lagna in Piemonte, subioti in Veneto, maccheroni bobbiesi nel piacentino, ciufolitti in Abruzzo, Molise e Alto Lazio, ma anche zufoletti, sfusellati o gnocchi col ferro. E poi code di topo del barese, fusille nel foggiano, firzuliin Basilicata: i fusilli sono uno dei formati italiani più conosciuti in tutto il mondo, oggi presenti in ogni regione, ma che devono i loro natali al territorio molisano. Fatti con farina di grano duro, acqua e un pizzico di sale, vengono poi arrotolati su un filo di ferro e messi a essiccare: questa la caratteristica principale della pasta, inizialmente preparata con un ferretto in vendita dal fabbro e poi con quello da calza, o ancora quello dell'ombrello. In Abruzzo, vengono generalmente abbinati a sughi di carne oppure una semplice salsa pomodoro e basilico.

Fregnacce

Non è la prima volta che incontriamo questo formato: presenti nell'Alto Lazio, in particolare nella Sabina reatina e sublacense, e nelle Marche, le fregnacce sono una delle paste più antiche e popolari delle regioni del Centro Italia, Abruzzo compreso. Un tempo preparati con farina di grano duro e acqua, oggi realizzati anche con le uova, questi quadrati devono il loro nome al termine dialettale laziale fregnaccia, ovvero “frottola, sciocchezza”, una cosa di poco conto, che fa riferimento proprio alla semplicità della preparazione. Diversi i condimenti utilizzati per questo formato, molto spesso piccanti, solitamente a base di carni e una buona dose di pecorino grattugiato.

 

chitarra

Maccheroni alla chitarra

Probabilmente il più famoso dei formati abruzzesi, particolarmente radicato nella zona di Scanno ma presente, con nomi diversi, anche nell'alto Molise, in Lazio, nelle Marche e in Puglia. I maccheroni (o spaghetti) alla chitarra sono una delle preparazioni più antiche della regione, che prende vita dal telaio di legno di faggio (o un altro legno neutro) sul quale sono tesi dei fili d'acciaio paralleli. Uno strumento storico, la chitarra, che a seconda della distanza tra i fili può dare vita a forme e sezioni di pasta differenti. Antenato della chitarra è lu rentrocelo, inpassatoutilizzato soprattutto nel pescarese e nell'aquilano. Per realizzare i maccheroni, la sfoglia, tirata non troppo sottilmente, va adagiata sull'attrezzo e premuta con il mattarello sui fili: in questo modo, si ottengono degli spaghetti a sezione quadrata, lunghi circa 30 centimetri. Oggi vengono conditi con tanti tipi di salse, ma l'abbinamento indiscusso resta con il ragù di pecora.

Maccheroni alla pecorara

Dei cordoncini sottili, chiusi ad anello di circa 5 centimetri di diametro, a base di acqua, farina e uova: sono i maccheroni alla pecorara, storica ricetta abruzzese che prevede uno dei condimenti più golosi, un mix di pancetta, cacio e uova, nato in principio dalla fantasia dei carbonai, che rimanevano lunghi periodi sulle montagne per preparare il carbone, e che dovevano alimentarsi con piatti sostanziosi e nutrienti. Inoltre, questi ingredienti erano facilmente conservabili e trasportabili sul mulo, insieme alla pasta fatta in casa. Nonostante le origini siano ancora molto incerte, secondo molti storici della gastronomia è proprio da questo condimento “alla carbonara” che deriva l'omonima, celebre ricetta laziale.

Maccheroni alla molenara

Ci sono, poi, i maccheroni alla molenara, di forma e lunghezza irregolare, preparati con acqua, semola e farina. Diffuso soprattutto nelle province di Teramo e Pescara, si tratta di un formato quasi scomparso, un tempo preparato dai mugnai dell'Abruzzo e anche della Basilicata, dalla preparazione lunga e complessa. Per realizzarli, occorre dividere l'impasto in tante pagnottelle, fare un buco al centro di ognuna e iniziare ad allargarla, ungendosi le mani con l'olio. Si stende la pasta fin quando le braccia lo permettono, e poi la si piega in due anelli sovrapposti. Si continua assottigliando il doppio anello, allungandolo per poi ripiegarlo su se stesso, ottenendo così una matassa a quattro anelli sempre più sottili. Infine, si incidono dei tagli su due punti opposti e si separano gli spaghetti ottenuti. Questi cordoncini sottili vengono insaporiti con gli 'ntruppicc, dadini di carne ovina e suina mescolati insieme. Una ricetta nata nel Medioevo che, secondo la leggenda, è stata introdotta in Abruzzo nel XII secolo dai soldati al seguito di Ruggero il Normanno.

Maccheroni con lu ceppe

In Abruzzo, in particolare nella zona di Civitella del Tronto, con il termine ceppe si intende il bastoncino di legno usato per confezionare la pasta. È da questa parola che derivano i maccheroni con lu ceppe, strisce di pasta all'uovo (con aggiunta di olio d'oliva) avvolte intorno al legnetto in modo da ottenere dei grossi bucatini. Detti anche ciufulitti o torcinelli a Magliano dei Marsi, vengono serviti con ragù di carne e, in mancanza dell'apposito ceppe, realizzati con il ferro da calze.

'Ndrocchie

Ricordano molto i fusilli, le 'ndrocchie, pasta tipica di Cupello, in provincia di Chieti, realizzata con il ferretto dell'ombrello. Farina, uova e sale sono alla base dell'impasto, lavorato a mano con pazienza dalle massaie abruzzesi. La salsa per eccellenza in questo caso è il ragù di castrato, ideale per equilibrare la ruvidità e callosità delle 'ndrocchie. Nel paesino, la tradizione della pasta è talmente sentita che ogni anno, in agosto, viene messa in scena una sagra dedicata.

 

orecchie di prete

Orecchie di prete

Formato pugliese per antonomasia, le orecchiette sono in realtà diffuse anche in Abruzzo, dove sono conosciute come orecchie di prete. L'impasto a base di acqua e semola viene suddiviso in piccoli pezzetti, che vengono trascinati sulla spianatoia con lo sferre (particolare coltello senza manico tipico del Barese) oppure con la punta del dito, fino a ottenere la classica forma tonda concava, perfetta per accogliere i sughi più ricchi. Le origini del formato risalgono al periodo fra il XII e il XIII e, secondo una delle teorie più accreditate, traggono ispirazione da un prodotto della Francia del Sud, dove venivano preparate con farina di grano duro e vendute secche, ideali per essere conservate a lungo dai marinai durante i lunghi viaggi.

Pappicci

Specialità del Teramano, i pappicci (o pappardelle o tajarille) sono delle spesse tagliatelle lunghe circa 20 centimetri, disponibili anche nella versione triangolare o rettangolare. Vengono impiegati nelle minestre, specialmente quelle a base di lardo, pomodori e pecorino abruzzese, spesso accompagnate da legumi. Il nome è un accrescitivo di “pappa”, che un tempo indicava il pane o la zuppa. Piatto povero, se cotti in brodo di carne i pappicci erano in passato anche il cibo destinato alle puerpere: secondo le credenze popolari, infatti, questa specialità facilitava la calata del latte.

Patellette

Farina di grano duro, farina di mais, acqua e sale: sono gli ingredienti alla base delle patellette, ancora una volta tipiche della provincia di Teramo, dei piccoli triangolini conditi con un soffritto di cipolla e pancetta. La tradizione impone che vengano mangiate con il cucchiaio, e per questo la salsa deve essere piuttosto liquida; un'usanza molto comune alle paste più povere che, con un condimento brodoso, riuscivano a riempire di più lo stomaco.

 

ravioli dolci di ricotta

Ravioli dolci di ricotta

Non c'è una grande tradizione di paste ripiene in Abruzzo, ma esiste una tipologia di raviolo molto particolare, quello alla ricotta dolce. La sfoglia è la classica all'uovo, tirata sottile, farcita e poi richiusa, ma il ripieno è piuttosto insolito: ricotta di pecora, uova, noce moscata, maggiorana, cannella, scorza di limone grattugiato e zucchero. Il condimento, però, è tutt'altro che zuccherino: sugo di pomodoro semplice oppure burro e parmigiano sono le salse che accompagnano questo piatto originale, un mix di sapori unico nel suo genere. Vengono preparati, solitamente, durante il periodo di Carnevale.

Sagne

Fra i formati che più di tutti accomunano le regioni del Centro Italia, le sagne, pasta di origine abruzzese da tempo condivisa anche con Umbria, alto Lazio e Marche, con le dovute variazioni locali. Si tratta di strisce di pasta di farina, acqua e uova (alle volte anche farina di farro) spesse e varie dimensioni, in passato considerate una sorta di medicamento, come racconta Antonio de Magistris da Introdacqua nella “Biografia del Beato Bernardino da Fontavignone” del 1794: “Ritrovandosi nunzio Lucantonio di Fonte Avignone infermo di molte complicate infermità... sicché li medici ne facevano pessima stima di sua guarigione... mangiando le sagne fatte da sua moglie (medicamento lasciato a tutto il paese dal Servo di Dio) subito cominciò a migliorare e in pochi giorni restò perfettamente libero e sano che tutti ne restarono meravigliati e ne resero grazie a Dio e al suo servo Fra Bernardino”. Fra i modi più tradizionali per gustarle, l'abbinamento con i fagioli, in una sorta di zuppa gustosa e nutriente.

 

scrippelle mbusse

Scrippelle

C'è chi dice che sia stato Enrico dei Castorini, alla corte di un cuoco francese addetto alla mensa degli ufficiali di stanza a Teramo, a inventare le scrippelle 'mbusse, aggiungendo per errore del brodo di gallina alle crêpes preparate dallo chef. In qualsiasi caso, si tratta di una delle ricette più popolari della zona di Teramo, la più conosciuta al di fuori dei confini regionali, insieme agli spaghetti alla chitarra. 'Mbusse perché bagnate: arrotolate su se stesse e servite in brodo cosparse di pecorino e parmigiano; ma possono anche essere utilizzate per preparare un timballo, disposte a strati a mo' di lasagna e farcite con carciofi e scamorza oppure sughi della tradizione, o ancora fatte in forno, farcite, arrotolate e cotte in teglia.

Sorcetti

Una pasta dimenticata ma che per tempo ha rappresentato uno dei formati più popolari per i sughi di castrato: i sorcetti, piccoli rotolini di impasto tagliati in obliquo in pezzi sottili, si preparano con farina, patate, spinaci e uova, talvolta anche con farina di mais. Come spesso accade, il nome con riferimento ad animali poco apprezzati e considerati immondi è legato all'estrema semplicità e povertà di questa ricetta.

Stracci

Presenti anche nel Lazio, in Toscana e in Molise, gli stracci – o sagne stracce – sono stati per tempo un formato riservato alle occasioni speciali, conditi con cipolla, pomodoro, peperoncino e carne di maiale. Al confine tra alta Ciociaria e Abruzzo, all'impasto di farina, uova e acqua vengono spesso aggiunti borragine o spinaci selvatici, oppure foglie di cardo; la versione abruzzese è molto sottile e simile alla consistenza delle crespelle.

 

tacconi

Tacconi

Che siano di forma quadrata o romboidale, i tacconi (o tacconelle, taccozzedamuline, taccozzelle) vengono preparati con farina di mais, farina di grano, acqua e alle volte anche gli avanzi della polenta. Il nome deriva dal termine dialettale tacca (toppa), che a sua volta ha origine dal germanico tak, ovvero scheggia di legno. Naturalmente, la parola fa riferimento alla forma imprecisa del formato. Un'altra ipotesi propone invece l'associazione con l'antica tradizione di calzolai e calzature nell'ascolano: in particolare, con gli scarponi utilizzati dai contadini in campagna caratterizzati da grossi tacchi (da qui il nome tacconi). In passato, ogni taccone doveva essere grande come la mano di un neonato, e cotto insieme al pomodoro in un grande recipiente di terracotta. Molto spesso venivano (e vengono ancora oggi) conditi anche con ricotta, come recita il poeta dialettale Gaetano Passarello: “Quando i taccuna cu sarsa e ricotta/ e cu milinciana su davanti a mia/ non sacciu si mangiu la picciotta/ o un pezzo di la nona sinfunia”.

Torchioli

Già descritti nelle opere di Bartolomeo Scappi, i torchioli sono un formato tipico di Chieti, presenti anche nella Sabina reatina, in Puglia e in Basilicata. Oggi, questa pasta simile a quella alla chitarra, viene realizzata con uno strumento in legno chiamato torcolo o troccolo, mentre in passato veniva preparata con il “ferro da maccaroni”. La pasta di semola e acqua viene tirata con il matterello e poi premuta con l'apposito attrezzo scannellato, per poi essere cotta e condita con sughi di carne robusti.

Volarelle

Nella provincia dell'Aquila, nei mesi più freddi, non c'è niente di meglio della zuppa di volarelle, dei quadretti di acqua e farina fritti in olio di oliva e serviti in brodo al posto del pane tostato. Un piatto tipico delle feste di Natale, periodo perfetto per il brodo di cardi e volarelle. A Capestrano, invece, vengono preparate in minestra, con i fagioli del territorio o altri legumi. Per il brodo natalizio, si utilizzano rigaglie, carne e polpettine piccole, delle dimensioni di un pisello, oltre al cardo aquilano. L'usanza di friggere la pasta e completare poi la cottura nel brodo è molto antica e risale al tempo dei romani, che friggevano un particolare tipo di sfoglia chiamata catillus ornatus.

La ricetta: scrippelle 'mbusse

Ingredienti

1,2 l. di brodo di gallina

3 uova

2 cucchiai di latte

2 cucchiai colmi di farina

100 g. di pecorino grattugiato

1 cucchiaio di prezzemolo tritato

Noce moscata

Poco burro per la padella

Prezzemolo

Sale q.b.

Battete le uova in una ciotola, unitevi il latte, la farina setacciata, una cucchiaiata di pecorino, una grattatina di noce moscata, il prezzemolo tritato e un bel pizzico di sale. Mescolate bene per ottenere un impasto omogeneo quindi aggiungete l’acqua necessaria per ottenere una pastella molto fluida. Ungete leggermente una piccola padella antiaderente, scaldatela e versatevi un mestolino del composto. Girate subito la padella in modo che il composto si distenda su tutto il fondo, formando una crêpe molto sottile. Fatela cuocere due minuti per parte e continuate così fino a esaurimento del composto, calcolando di preparare dodici scrippelle. Quando sono pronte, allineatele sul tavolo, spolveratele di formaggio, arrotolatele e distribuitele fra quattro piatti fondi. Versate sopra il brodo bollente e servite subito completando i piatti con un pizzico di prezzemolo tritato.

a cura di Michela Becchi

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La sfida di Starbucks e McDonald's, che si alleano per premiare progetti antispreco. Cos'è The NextGen Cup Challenge

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Dall'inizio di settembre si concretizzerà il progetto che mette insieme per la prima volta Starbucks e McDonald's per finanziare startup e aziende illuminate impegnate nel settore dei materiali riciclabili. La richiesta? Riprogettare i celebri bicchieroni da passeggio usa e getta perché invece siano riciclabili o compostabili. 

 

La sfida antispreco

Entrambi hanno contribuito a sdoganare i bicchieroni da passeggio diventati prima un fenomeno di costume e poi entrati nella consuetudine delle grandi città americane. Ora Starbucks e McDonald's fanno fronte comune per arginare lo spreco che proprio a causa della grande diffusione degli iconici bicchieri grab-and-go è diventato un'urgenza all'ordine del giorno. L'inedita partnership, che vede insieme le due catene di ristorazione veloce e caffetteria più potenti del mondo, darà vita a partire dall'inizio di settembre all'associazione The NextGen Cup Consortium and Challenge, che entrambi sottoscriveranno come soci fondatori chiamando a raccolta altre realtà interessate a contrastare lo spreco finanziando nuove soluzioni riciclabili o compostabili, applicata alla produzione delle celebri cup. Non un fulmine a ciel sereno per chi ha seguito le ultime mosse dei due colossi, impegnati da tempo, per proprio conto, a ripensare in chiave sostenibile il packaging dei punti vendita sparsi in giro per il mondo.

 

I precedenti

Starbucks, per esempio, già nel 2015 ha brevettato la sua earthsleeve hot cup, ottenuta in gran parte da materiali riciclati, con una piccola percentuale di carta, mentre l'estate scorsa ha lanciato un bicchiere speciale che permette di sorbire direttamente il contenuto senza cannuccia (ma solo per bevande fredde). E proprio di recente le caffetterie londinesi del gruppo di Howard Schultz hanno proposto ai clienti un piccolo sovrapprezzo (5 pence) per ogni bibita servita nel bicchiere usa e getta. Il risultato? In tre mesi il numero di persone inclini a portare con sé la propria tazza da casa pur di risparmiare qualcosa è cresciuto in modo significativo, e l'idea è quella di replicare presto su scala nazionale l'esperimento. Anche McDonald's, dal canto suo, annunciava all'inizio del 2018 l'intenzione di ripensare l'intero packaging dei propri fast food all'insegna della sostenibilità entro il 2025: 7 anni per rendere scatole, bicchieri e sacchetti take away biodegradabili e compostabili (attualmente circa la metà delle confezioni sono eco-friendly, e solamente il 10% dei 37mila store sparsi per il mondo mette a disposizione cestini per la raccolta differenziata).

 

The NetxGen Cup Challenge. In cerca di idee

All'iniziativa NextGen partecipa anche la piattaforma di investimento Closed Loop Partners (che opera a sostegno dell'economia circolare, finanziando progetti sostenibili), depositaria dei primi 5 milioni di dollari a disposizione della sperimentazione; a questi si aggiungono altri 5 milioni di dollari stanziati dalla catena di fast food. Ma in cosa consiste la sfida? Dal primo giorno di settembre, imprenditori, ricercatori, creativi e startup impegnate sul fronte della lotta allo spreco sono invitati a presentare le proprie idee: i progetti vincitori avranno l'opportunità di ricevere fino a 1 milione di dollari in base ai traguardi raggiunti in corso d'opera. Sette di loro – chi meglio degli altri avrà confermato le premesse – potranno accedere al programma di incubazione che per 6 mesi li aiuterà a sviluppare il prodotto su ampia scala. I numeri dell'operazione sono importanti: il progetto NetxGen (che in consiglio direttivo vede coinvolti il WWF, accademici e ricercatori, l'industria della plastica e della carta e amministrazioni cittadine), infatti, dà voce ad anni di ricerche in ambito industriale per cercare di regalare una seconda vita ai 600 miliardi di bicchieri usa e getta in carta e plastica che ogni anno vengono utilizzati (e quindi sprecati) in tutto il mondo. E la strada da percorrere comincia dagli studi pilota sui bicchieri in fibra per bevande calde e fredde, già a buon punto negli Stati Uniti. Più di mille sono le proposte già pervenute da società e singoli interessati a partecipare alla sfida.

 

Come candidarsi per partecipare alla sfida

 

a cura di Livia Montagnoli

 


Quali pesci preferire in estate nel versante Adriatico Centro. I consigli di: Gennaro D'Ignazio, Mauro Uliassi e Moreno Cedroni

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Una rubrica in cui chiediamo ai migliori interpreti della cucina di mare quali sono i pesci da preferire in questa stagione. È la volta dei consigli di Gennaro D'Ignazio, Mauro Uliassi e Moreno Cedroni (che ci regala anche una ricetta).

 

Abbiamo chiesto a tre fantastici interpreti della cucina di mare quali sono i pesci da preferire nel litorale Adriatico, durante la stagione estiva. Loro sono Gennaro D'Ignazio, Mauro Uliassi e Moreno Cedroni.

Gennaro D'Ignazio della Vecchia Marina

Gennaro D'Ignazio della Vecchia Marina

Ci sono posti il cui valore intrinseco, al di là di ogni considerazione su cucina, cantina e quant'altro, sta nella capacità di evolversi pur rimanendo popolari e con i piedi per terra. Posti, e persone soprattutto, che conquistano per il loro spirito semplice, schietto e diretto, con un legame a doppio filo alle radici della terra d'appartenenza e all'emancipazione. A Roseto degli Abruzzi c'è uno dei migliori esemplari di questa razza. Giovanni Parnanzone è in sala, mentre Gennaro D'Ignazio sovrintende una cucina di mare semplice, genuina, di materie prime eccellenti, scelte con la sapienza del pescatore e lavorate in maniera intelligente, con mano lieve e raffinata. A lui, che tutte le mattine va all'asta del pesce, abbiamo chiesto quale preferire in questa stagione. “C'è da fare una distinzione tra quelle che vengono definite “prelibatezze”, e che sono protagoniste di una ricerca spasmodica, penso per esempio al novellame di calamari che ha dei prezzi incredibili (va dai 26 ai 30€ al chilo all'ingrosso), e i pesci che in questo periodo sono buonissimi e costano poco proprio perché di stagione, come le razze o le gallinelle di media grandezza, quelle che vengono pescate a una certa distanza dalla costa”. Perché? “Perché per i marinai rappresenta il miglior connubio tra lo sforzo e la resa, così non si spingono troppo al largo ma pescano comunque delle gallinelle eccezionali, sode, toste”. Questa è anche la stagione delle mormore - “di solito iniziano a maggio, ma quest'anno sono arrivate più tardi” - e di tutto il pesce della frittura di paranza “dalle busbane, ai merluzzetti alle zanchette”. “D'estate si trovano anche gli sgombri pescati con lo strascico e gli scampi, che sono nel pieno del periodo riproduttivo, ma ancora per poco”. Se poi chiediamo a Giovanni se ci sia una cottura ideale per il pesce, non ha alcun dubbio: “Quella in umido, in guazzetto perché si riesce a centrare il tempo di cottura mettendo in sequenza i pesci”. E dunque si parte con la gallinella e poi via con la razza - “difficilissima da spellare, ma sapete quante soddisfazioni dà con il suo sapore unico?!” - e infine la triglia e i crostacei. Una sequenza che prevede anche le cozze, “che quest'anno sono particolarmente belle piene, profumate”.

Mauro Uliassi

Mauro Uliassi

Blu come il mare, così si presenta l'iconico portone d'ingresso del quartier generale di Mauro Uliassi. Come il mare (Adriatico) che lo circonda e che recita la parte da protagonista nei Lab studiati e creati per le stagioni estive. Un menù che rappresenta, anno dopo anno, l'evoluzione di una cucina semplicemente straordinaria, che colpisce per equilibrio, pulizia dei sapori, consistenze, precisione cronometrica delle cotture. Professionista come pochi, sorridente e scanzonato, Uliassi è un interprete eccezionale di materie prime di livello assoluto, compreso il pesce di questo litorale. “D'estate sono belle le rane pescatrici, le sogliole, le vongole e le cozze. Sono tantissime le alici, mentre iniziano a diminuire i rombi e le spigole. Sui banchi del mercato si trovano anche le triglie”. Ma c'è un pesce che dà più soddisfazioni di altri? “Per me sono tutti uguali, l'importante è che ne esca un piatto eccellente e che tu sia sorpreso di quello che sei riuscito a fare. Certo, se crei un grande piatto con un pesce semplice, come per esempio le alici o le grancelle, sei più contento”. Ma su un punto non transige: la freschezza del pesce. “È fondamentale imparare a riconoscerne la freschezza, anche se purtroppo è soggetto a un sacco di frodi”. Qualche dritta? “Intanto deve essere pescato nei nostri mari, che sia Tirreno, Adriatico o Mediterraneo, poi è meglio che sia intero: se sul banco viene privato della testa, qualche dubbio me lo farei, dato che è la parte più velocemente deperibile. Le branchie devono essere rosso fuoco, ma questo non basta perché a volte vengono colorate ad hoc, il corpo lucente, il profumo che emana deve richiamare il mare e l'occhio deve essere brillante e invitante, quasi a dire prendimi, prendimi, prendimi!”.

Moreno Cedroni 

Moreno Cedroni

Ha dimostrato che si può essere chef geniale e al tempo stesso imprenditore lungimirante, anticipando mode gastronomiche e inventando formule innovative. È Moreno Cedroni, che con la sua cucina dissacrante, divertente e creativa ha influenzato un'intera generazione di cuochi senza mai trascurare nessuno dei suoi tre locali: l'affascinante Clandestino, il capanno arroccato sulla spiaggia di Portonovo, la salumeria ittica Anikò a Senigallia e la primogenita Madonnina del Pescatore, diventata ormai punto di riferimento per l'alta cucina. Un posto unico, suggestivo, dove il vulcanico Cedroni propone un percorso continuamente in grado di rinnovarsi ed emozionare, ancora, dopo decenni di pluripremiata attività. Una cucina sempre in movimento, come il mare, di cui è esperto conoscitore. “A Senigallia – racconta - c’è un piccolo mercato, al porto, dove i pescatori con le loro barche, espongono il pescato. Pesce azzurro in primis, come alici, sugarelli, sgombri, e poi pesci bianchi tra cui merluzzi, sogliole, testole e qualche rombo liscio e chiodato, razze e pesci da frittura”. In questo periodo, invece, scarseggiano i crostacei e le seppie: “La stagione vera e propria è finita”. Tra tutti questi pesci, però, ce n'è uno che gli sta particolarmente a cuore, è lo sgombro. “Quando lo cucino, il ricordo va automaticamente a mia mamma, quando lo adagiava sulla griglia a carboni, aperto e riempito di molliche di pane, prezzemolo e una punta di aglio”. Ricordo che si unisce a un altro ricordo, questa volta del romanzo Tokyo Blues, dove lo scrittore scrive di aver mangiato lo sgombro al miso più buono della sua vita.“Sicuramente la ricetta che ho interpretato con più soddisfazione è lo sgombro dedicato a Murakami, ma c'è da dire che questo pesce è in grado di stimolare le doti di un cuoco, con le sue carni morbide, che possono mantenersi tali, con il suo sapore verace e mai omologato”. Qualche consiglio di cottura? “Cotto intero permette alle carni di rimanere più succose e, se posso dare una dritta, fermerei la cottura in acqua, in griglia o in forno, in anticipo e lo farei riposare per qualche minuto fuori dal fuoco; il risultato è assicurato”. Se invece volete sbizzarrirvi con una ricetta facilmente replicabile a casa, Cedroni propone il Minestrone tiepido con dadi di testola.

Minestrone tiepido con dadi di testola (mazzola o gallinella)

Ingredienti per 4 persone

250 g di patate

250 g di carote

50 g di cipolla

100 g di olio extravergine d’oliva

100 g di sedano

100 g di zucchine

30 g di spinaci

5 g di basilico

2 g di prezzemolo

200 g di datterini

100 g di piselli (solo se in stagione)

100 g di fagioli secchi (da mettere in ammollo la sera prima)

3 g di sale

500 g di acqua

3 g di sale

50 g di sedano

50 g di carote

50 g di cipolla

100 g di pomodoro

800 g di testole

Pepe bianco al mulinello

Per il brodo vegetale mettere in un pentolino l’acqua, far scaldare aggiungere il sale, poi pulire carote, sedano, cipolla e pomodoro, farle a pezzetti, far bollire e filtrare. Mettere a bagno in acqua i fagioli secchi la sera prima, tenerli in frigo, l’indomani scolarli, metterli nella pentola a pressione coperti d’acqua, un pizzico di sale e cuocere per circa 20 minuti a fuoco basso. Pulire tutte le altre verdure e tagliarle a dadini, far andare in una pentola l’olio extravergine con la cipolla tritata, poi aggiungere le patate, appena iniziano a prendere calore aggiungere le carote, poi il sedano, poi zucchine, piselli e fagioli. Aggiungere 200 g di brodo vegetale e mettere un coperchio alla pentola per racchiuderne il vapore, dopo 5 minuti aggiungere spinaci, basilico e prezzemolo a julienne e i datterini. Far bollire e regolare di sale. Sfilettare le testole, tagliare i filetti a dadi da circa 10 g e immergerli per pochi secondi nel brodo vegetale bollente.

Versare il minestrone nel piatto fondo e decorare con i dadi di testona, finire con l’olio extravergine di oliva (possibilmente della cultivar raggia) e un giro di pepe bianco al mulinello.

 

 

Vecchia Marina - Roseto degli Abruzzi (TE) – Lungomare Trento, 37 – 0858931170

Uliassi - Senigallia (AN) – via Banchina di Levante, 6 – 07165463 - uliassi.it

Clandestino Susci Bar - Ancona (AN) - Baia di Portonovo - 071801422 - morenocedroni.it

Madonnina del Pescatore - Senigallia (AN) – Lungomare Italia, 11 – 071698267

Anikò - Senigallia (AN) – Piazza Saffi, 10 - 071 793 1228

 

a cura di Annalisa Zordan

 

La mappa dei pesci estivi

Tirreno Nord. I consigli di: Enrico Marmo, Davide Cannavino e Valentino Cassanelli

Tirreno Centro. I consigli di: Luciano Zazzeri, Fulvietto Pierangelini e Gianfranco Pascucci

Tirreno Sud. I consigli di: Giorgio Scarselli, Rinaldo Merola e Martina Caruso

Adriatico Nord. I consigli di: Maria Grazia Soncini, Lionello Cera e Francesco Brutto

 

 

Colli di Luni. Vermentino di mare strappato a boschi e pietre

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Vermentino, mare, vigne strappate al bosco, nella terra dove le ostriche verdi fanno da bandiera al territorio. È la splendida costa di Porto Venere, che abbiamo raccontato nel mensile di luglio del Gambero Rosso. Qui un assaggio.

 

Un territorio strappato a boschi e sassi, colline a picco sul mare, una tradizione millenaria e una natura che a fatica si riesce a contenere e che ogni giorni si cerca di farsi amica. Il Vermentino, qui tra Liguria e Toscana, ha profumi minerali e freschi, chiama il mare e lo iodio delle ostriche che da poco sono riapparse in questi fondali, ma anche i sapori decisi eppur delicati della tradizione di terra

La storia di Luni

D’acchito diresti “ecco, finalmente, il mare nel bicchiere”. Ma ti sembrerebbe di fare un torto a entrambi: a quello scorcio di mar ligure che ti riluccica davanti, in una perpetua cantilena dagli accenti toscani che virano allo spezzino, e al vino che s’illumina nel calice, di certo sapido e minerale, fresco, teso, ma capace anche d’incarnarsi in altro e vestirsi d’altro ancora, fino a ribaltare ogni idea che ti eri messo in testa. Perché quel nettare convoglia il mare ma pure il vento, di salmastro o d’Apuane che sia. E si nutre di una terra bizzarra, ostica e meticcia, impastata di sale e sudore, d’argilla, di marmo e di sabbia, ovviamente di sole: un sole così vicino e bianco, grande, che nei giorni speciali assomiglia alla Luna.

Luni fu una città romana fondata 177 anni prima di Cristo, prese il nome da una dea chiamata altrove Selene o dalla forma del porto su cui imbastì la sua forza: da qui salpavano imbarcazioni stipate di marmo, legnami, altre eccellenze locali. Dall’aprile del 2017 è ribattezzato Luni il comune che ne conserva i resti (un tempo Ortonovo), e che insieme a Castelnuovo Magra e ai paesi limitrofi (la fortificata Sarzana è dal XII secolo il perno della Val di Magra), offre i colli a una delle Doc più giovani ed emergenti d’Italia.

La provincia è quella di La Spezia con sconfinamenti a Massa Carrara, non siamo nella Liguria più erta delle Cinque Terre ma neppure nella Toscana delle dolci colline: lasciando la pianura ogni appezzamento è strappato alla macchia, al bosco, alla pietra, e scovarne di accessibili è impresa assai ardua. “Etruriae Luna palmam habet”, ovvero “il vino di Luna ha la palma tra quelli dell’Etruria”, scriveva però il buon vecchio Plinio. Per cui, maniche arricciate e lavorare duro, muovendo da qualche certezza: è il vermentino, vitigno a bacca bianca giunto dalla Costa Azzurra francese (ma con probabili origini iberiche), a trovare in certi scampoli di terra la culla ideale per esprimersi al meglio.

Grappolo di uva

La testimonianza di Ottaviano Lambruschi

Ottaviano Lambruschi è una delle memorie storiche del territorio: ascoltare la lucidità del suo pensiero, vederlo inerpicarsi tra le vigne incontro alle sue novanta primavere, è un’esperienza rigenerante. “Eravamo mezzadri ma la guerra non ci lasciò niente, una casa bruciata e tanta necessità di lavorare”. Da Castelnuovo Magra si spostava a Carrara, nelle cave da cui si estrae il marmo più pregiato al mondo. “Per trent’anni ho fatto di tutto, dall’autista al minatore, di giorno e di notte, e per un’esplosione ci ho anche lasciato un orecchio”. E poi tornava, stremato, a costruirsi una casa. “Che poi in miniera, l’uomo, assomiglia troppo alla bestia”. Quindi l’intuizione, l’acquisto di un bosco a 220 metri di altitudine poiché “la pianura è buona per i cavoli”, e tanto lavoro, ancora, con la ruspa per sottrarre agli alberi, alle rocce assassine, l’anfiteatro che tuttora accoglie lo splendido vigneto di Costa Marina che dà il nome alla cantina. “Avevo sempre bramato un qualcosa di mio”.

Terra della Luna

Il nuovo Vermentino

Suo figlio è cresciuto in questo clima, con un padre che come diceva mamma “lassù aveva l’amante”: le viti da cui faticava a star lontano. E finita la leva avrebbe continuato nell’esercito, Fabio, ma si è ritrovato qui, con orgoglio, a tirare le fila dell’azienda familiare in costante crescita: “La filosofia è semplice: puntare all’eccellenza nel solco della tradizione. Il primo passo è portare in cantina uva bella, che si avvicini alla perfezione”. Ed è probabile che un certo rigore militare, la cura del dettaglio e della pulizia, lo abbiano aiutato nel raggiungimento del traguardo (adesso, a dargli mano, c’è pure la figlia Ylenia). Ogni vigneto dà vita a un cru, al Costa Marina si è aggiunto il Maggiore, anche questo lassù, impervio e magnifico. “I giovani hanno paura a mandare il trattore in salita – dice Ottaviano – ma non a guidare contromano nella notte”. “Avrei potuto rimanere nell’esercito – scherza Fabio – tanto sono abituato al signorsì”. Si punzecchiano, padre e figlio, e forse si dividono su qualche veduta, ma gli occhi tradiscono un affetto smisurato, una comunità di intenti.

Si chiama proprio Ottaviano il nuovo Vermentino da vendemmia attardata, con parte delle uve fermentate a contatto con le bucce. In tutto il resto, domina l’amore per il classico: vinificazione in vasche d’acciaio, lieviti selezionati, temperature controllate per circa 40mila bottiglie l’anno, ognuna con un carattere forte, identitario, vero specchio dei Colli di Luni e dei suoi interpreti. Premi e riconoscimenti, tutti meritati, si sprecano. “Ci piace un vino pulito, che mantenga alta e costante la qualità nel tempo, pur rispettando le caratteristiche d’annata”.

 

 

a cura di Emiliano Gucci

foto di Roberto Merlo

 

QUESTO È NULLA...

Nel numero di luglio del Gambero Rosso, un'edizione rinnovata in questi giorni in edicola, trovate tutto il racconto, con le testimonianze di Roberto Petacchi dell'agricola Giacomelli, Diego Bosoni di Lunae Bosoni, Andrea Luca Federici della nuova cantina di Federici - La Baia del Sole, Ivan Giuliani di Terenzuola. Un servizio di 14 pagine che include anche un bel focus sulle ostriche verdi a firma di Loredana Sottile, gli aneddoti di Claudio Mazzoni del ristorante La Posta di La Spezia, la testimonianza di Alessandro Vignali, un outsider in nome della natura. E ancora il racconto di Filippo Lubrano del collettivo di poeti performativi I Militanti, accompagnato dall'opera di Simone Pellegrino. Insomma tanta carne al fuoco, che prevede pure le migliori etichette dalla guida Vini d'Italia 2018, gli 8 street food tra Spezzino e Lunigiana, e gli indirizzi dove mangiare e dormire.

Il numero lo potete trovare in edicola o in versione digitale, su App Store o Play Store

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I formaggi italiani (made in USA) piacciono agli americani più del Cheddar cheese. E il mercato interno di mozzarella&Co. cresce

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In principio fu la mozzarella, che la sua volata l'ha lanciata già dalla metà degli anni Sessanta, assecondando il boom di pizza e catene di pizzerie. Ma anche gli altri formaggi “italian style” sono molto richiesti sul mercato statunitense, e l'industria casearia americana ha finito per “specializzarsi” nei nostri prodotti di punta. Che ora sorpassano i formaggi americani. Qualche considerazione. 

 

Mentre l'Italia combatte contro i fantasmi generati da un allarmismo che sinceramente non fa bene al comparto agroalimentare – parmigiano e prosciutto crudo dannosi come il fumo per il loro elevato contenuto di sale e quindi destinati a essere tassati? Mai giunti a queste conclusioni affrettate, ribadisce l'Onu dopo la bagarre aizzata da titoloni e dichiarazioni al vetriolo del ministro dell'agricoltura Centinaio, ma il quadro si preciserà il prossimo 27 settembre al Palazzo di Vetro di New York – dall'America arriva una fotografia dell'industria casearia statunitense che fa riflettere. Italian cheese is the new American cheese, attestano i dati di produzione e consumo di formaggio rilevati sul lungo periodo. Leggendo gli ultimi numeri sul comparto diffusi dal centro statistico del Dipartimento dell'Agricoltura americano l'affermazione non sembra peregrina: nel 2017 sono 5,3 miliardi di chili i cosiddetti “italian cheese” (vedremo più avanti di che si tratta) prodotti sul suolo USA, contro i 5,1 miliardi di chili relativi alla produzione di formaggi americani. Il merito, secondo il gastronomo e storico dei formaggi Paul Kindstedt, sarebbe da ricondurre al boom della pizza e al proliferare - pressoché ininterrotto e crescente – di pizzerie in tutto il Paese. Per dimostrare l'evoluzione del settore e tracciare una previsione per il futuro, Quartz, con l'aiuto del professore e un sistema di grafici che sistematizzano i dati raccolti dal Dipartimento Agricoltura negli ultimi decenni, parte da lontano.

 

Come i formaggi italiani hanno superato quelli americani. Il ruolo della pizza

Dalle origini di quella tradizione casearia particolarmente fiorente negli stati del Vermont e del Wisconsin, grandi produttori di cheddar: oggi il formaggio arancione è ancora il re dell'orgoglio caseario a stelle e strisce, con una produzione che supera di almeno tre volte tutti gli altri formaggi americani messi insieme. Di fatto, però, prosegue la disamina storica, dagli metà degli anni Sessanta in poi, i formaggi “italian style” hanno cominciato a essere particolarmente richiesti dal mercato, trainati dalla mozzarella: la produzione in loco, quindi, è passata da milioni a miliardi di unità, fino a sorpassare nel 2010 la produzione di formaggi americani, nel frattempo in evidente flessione (chiara è, sul grafico, la scalata intrapresa da mozzarella & co. a partire dagli anni Ottanta, e sempre più lanciata dagli anni Duemila). In parallelo, ribadisce il professor Kindstedt, è cresciuta la passione degli americani per la pizza: di nuovo la storia affonda le radici al Secondo Dopoguerra, col boom economico, la crescita dei consumi fuori casa, la necessità di intercettare formule di ristorazione veloce e versatile. La pizza rispondeva a tutte queste esigenze, la classica pomodoro e mozzarella apriva i giochi. La nascita di catene specializzate, nei decenni a seguire, ha accelerato le dinamiche, trainando la crescita del comparto caseario italiano, che oggi è ancora ampiamente dominato dalla mozzarella, seguita da ricotta e formaggi freschi, provoloni e simili, parmesan, fanalino di coda e però cresciuto con ritmo preoccupante a partire dagli anni Duemila (mentre la produzione di mozzarella, sebbene ingente, si è mantenuta più o meno costante negli ultimi 30 anni).

 

Il caso parmesan

La questione parmesan, vista dall'Italia, è piuttosto annosa, perché proprio la concorrenza sui mercati esteri di un prodotto che per nome e caratteristiche fa il verso al nostro Parmigiano Reggiano è un esempio lampante di quanto l'Italian Sounding possa danneggiare l'export di prodotti made in Italy di eccellenza (che pure, continua a crescere, con un bel +3,5% nei primi 5 mesi del 2018 rispetto allo stesso periodo dell'anno precedente). E proprio l'odiato surrogato è al centro delle polemiche sull'entrata in vigore del Ceta – l'accordo di libero scambio tra UE e Canada – che per la prima volta, sostiene allarmata Coldiretti ha autorizzato la traduzione di prodotti tricolori come il parmesan, confondendo ulteriormente le acque. Il risultato? Nel primo trimestre del 2018 sono calate del 10% le vendite di Parmigiano Reggiano e di Grana Padana in Canada, dove la produzione di Parmesan nello stesso periodo ammonta a 3 milioni di chili. Anche se la situazione è controversa: proprio negli ultimi giorni, i produttori riuniti nel Consorzio di Tutela del Grana Padano presieduto da Cesare Baldrighi hanno fatto sapere di essere favorevoli al Ceta, che favorirebbe le esportazioni e farebbe invece chiarezza sui marchi, autorizzandone la compresenza sul mercato a patto di dichiarare la provenienza ed eliminare simboli ingannevoli (come le bandierine italiane che sventolano sulle confezioni di parmesan made in Messico). Solo il tempo, probabilmente, saprà sciogliere le riserve.

Quel che è certo, e lo confermano i dati statunitensi, è che i prodotti caseari italiani piacciono sempre di più agli americani, che hanno trasformato in business vincente la produzione di latticini e formaggi stagionati ispirati alla nostra tradizione. Che sia il momento giusto - dazi e proclami di guerra trumpiani permettendo – per spingere sull'acceleratore dell'export di autentiche specialità made in Italy?

 

a cura di Livia Montagnoli

Manhatta. L'ultimo ristorante con vista e cucina francese di Danny Meyer a New York

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Sessanta piani in ascensore per entrare nella sala del nuovo ristorante con vista di Danny Meyer a New York. Un progetto ambizioso che fa affidamento sulla cucina di uno chef d'esperienza, oltre che sul panorama mozzafiato sulla città. Intanto anche la famiglia Cipriani si lancia in una nuova sfida: un gruppo di hotel, Mr. C, per conquistare l'America, da Miami a New York. Cucina compresa, alla tavola di Bellini. 

 

Ristorante con vista

Dal sessantesimo piano del grattacielo al 28 di Liberty street la vista spazia su Downtown Manhattan e verso il Manhattan Bridge in direzione di Brooklyn. È qui che ha preso forma da qualche giorno l'ultima impresa nella ristorazione newyorkese di Danny Meyer, che aggiunge al portfolio dell'Union Square Hospitality Group un ristorante decisamente fuori dal comune. Manhatta, col nome più dritto e intuitivo che si potesse associare al progetto, sorprende in prima battuta per il panorama che cattura l'occhio all'ingresso della sala, proiettati - direttamente dall'ascensore dedicato che scala veloce decine di piani - in un mondo sospeso fatto di superfici in granito, mise en place essenziale, “pareti” di vetro tutt'intorno. Indubbiamente un valido motivo per salire a dare un'occhiata, consapevoli però, che sin dall'inizio si è lavorato per conferire un valore aggiunto al classico concetto del ristorante “with a view”. E infatti in cucina la guida è quella di Jason Pfeifer, già alla Gramercy Tavern, da Maialino, Per se e al Noma di Copenaghen, che quindi ha esplorato in passato approcci molto diversi al cibo (dalla “trattoria romana” secondo Danny Meyer alla valorizzazione della materia prima di Renè Redzepi) e con Manhatta si propone di aprire un nuovo capitolo che metta insieme tutto quanto ha lasciato il segno, per presentare alla città qualcosa di nuovo, e personale. Tanta tecnica, dunque, suggestioni dal mondo (specialmente dai classici della cucina francese), ma anche comfort food.

 

La cucina di Manhatta

Il prezzo, però, tiene conto della vista, con 78 dollari per il menu degustazione obbligato da tre portate (a scelta) servito a cena. Una carta breve, con sei opzioni per portata, che cambierà secondo stagionalità, ma annovera evergreen come la mousse di foie gras - qui servita con fragole e peperoncino calabrese – il pollo arrosto e la Blanquette di vitello, inno alla Francia servita con patate, funghi e pan d'epices. Tra i dolci souffle alla vaniglia o mousse al cioccolato con meringa. Mentre al bar, ugualmente scenografico, col lungo bancone che fronteggia la città, la proposta è più informale, a base di snack per cominciare – pollo fritto con miele caldo, salsicce di maiale con aglio e salsa al burro – e una selezione di pietanze da moderno american bar, tra burger d'autore, croque madame e gnocchi di ricotta fritti. Presto il ristorante aprirà anche a pranzo, e può disporre anche di un'altrettanto scenografica sala per eventi privati (la Bay Room). Mentre in cucina la brigata si muovo sotto gli occhi dei commensali.

 

Mr. C. La nuova catena di hotel (con cucina) della famiglia Cipriani

Intanto approda proprio in questi giorni al Seaport District, all'interno dell'omonimo hotel del gruppo Mr. C, anche la cucina italiana della famiglia Cipriani (che della nuova catena di hotel, da poco presente anche a Miami, è proprietaria), che con Ignazio e Maggio (quarta generazione della famiglia) inaugura una nuova avventura oltreoceano, per raccontare le tradizioni regionali italiane. Così il menu di Bellini spazia dai bucatini cacio e pepe alla selezione di crudi di pesce, dalla mozzarella in carrozza ai tagliolini con scampi. Il set è quello classico da ristorazione senza tempo, tovaglie bianche, divanetti e boiserie. E seduti al bancone del bar la tentazione di ordinare “the original” Bellini è forte. Tutti gli elementi sono al posto giusto per avere successo col pubblico americano.

 

www.manhattarestaurant.com/about/

 

a cura di Livia Montagnoli

Il Barman e i suoi cocktail. Riscoprire le origini della miscelazione con un libro degli anni '70

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In questo caso, niente nuovi consigli per l'estate, ma una buona rilettura. Il volume dell'Aibes, Associazione Italiana Barman e Sostenitori, è ancora un valido alleato per capire a fondo l'arte della mixology. Fra illustrazioni d'epoca e foto storiche, un viaggio nel passato per comprendere il presente. 

 

L'associazione

Il Bere. Monografie, dizionari e manuali della enogastronomia. Una descrizione che oggi, nel 2018, momento storico in cui la cucina, il cibo, il vino, il buon bere stanno vivendo il momento di massimo splendore e popolarità, sembrerebbe superflua, banale, scontata. Questa, però, è la definizione di uno dei primi volumi sull'arte della mixology, una disciplina che mai come in questo periodo è tornata alla ribalta, grazie al lavoro certosino di barman di rango e locali d'avanguardia che propongono drink d'eccellenza, sapientemente miscelati con i migliori distillati in circolazione. Questa è la frase che racchiude la ricerca e lo studio di una delle associazioni più antiche d'Italia, l'Aibes, Associazione Italiana Barman e Sostenitori, nata nel '49 e ancora oggi attiva. Che nel '69, in occasione del ventennale, pubblicava il primo volumeIl Barman e i suoi cocktail, facendo luce sul panorama di liquori e distillati, spiegando tecniche e ricette d'autore, quelle dei primi grandi barman italiani, in forze negli alberghi di lusso e sulle navi da crociera, intenti a mescolare, shakerare, destreggiandosi con cobbler, cooler, fizz, parole che oggi sono all'ordine del giorno ma che al tempo, negli anni '60, erano ancora privilegio per pochi.

 

regolamento

Il libro

Una seconda ristampa, nel '74, per festeggiare i primi 25 anni. Intanto l'associazione cresce, così come il settore dei cocktail, anche se ancora appannaggio di pochi eletti. I più intraprendenti, quelli che al servizio militare e all'immaginario della famiglia italiana tipico di quel tempo, hanno preferito i viaggi, per l'Italia ma anche all'estero, lo studio continuo, l'allenamento, la ricerca delle materie prime e la promozione di un mondo che era ancora tutto in divenire. Lo si vede nelle immagini del volume, le illustrazioni antiche che rappresentano un tempo andato ma in qualche modo ancora vivo, le origini di quello che è ora la mixology, l'arte del bere miscelato. “L'acqua è fatta pe' perversi. E, se non ne siete proprio convinti, ricordatevi del Diluvio universale, una catastrofe dela quale si ha conferma da tutte le religioni, e non solo dalle Sacre Scritture”. Comincia così il paragrafo sulla Storia ed Evoluzione dei Liquori nel Mondo, con il carattere gioviale e scherzoso tipico di chi ha fatto dell'alcol, quello buono e bevuto con consapevolezza, il proprio orizzonte di vita.

 

libro

Le origini della distillazione

Un'ebrezza che ogni barman porta con sé nel lavoro e nella vita, che permea ogni parola del libro di Antonio Cendali e Luigi Marinatto ed edito da Selepress. “Ebbene, secondo la nostra tradizione, chi fu il solo uomo al quale Dio permise di salvarsi? Noè, il gran Patriarca, il fondatore della enologia e, a parte la biblica arrabbiatura nei confronti del figlio Cam che lo aveva deriso scoprendolo ubriaco, l'artefice primo di una delle poche fonti di gioia accessibili a tutti; non dimenticando che il bere deve essere fonte di gioia e non di malanni e di preoccupazioni, come capita agli smodati”. Gli autori proseguono, cominciando con il vino, ma passando poi alla distillazione, iniziata nel Seicento grazie agli studi di Jean Baptiste van Helmont, figura fondamentale per la ricerca della fermentazione, insieme ad Antoine Laurent Lavoisier, che nel Settecento illustrò per primo il fenomeno della scissione della parte zuccherina del vino in alcol e acido carbonico. E poi Louis Gay-Lussac e Louis Pasteur, a cui va il merito di aver fissato “le regole fondamentali della distillazione”.

 

libro cocktail

Le immagini e la distillazione in Italia

Si scorrono vecchie foto della copertina di un manifesto con la regolamentazione della distillazione, disegni di studi per la realizzazione di uno dei primi alambicchi, figure illustrate di tecniche di distillazione del 1555 (firmate Thesaurus Evonymi Philiatri), l'apparecchio a vapore dell'Ottocento e i torchi svizzeri del Settecento. Un percorso internazionale che ha sempre, però, un occhio di riguardo per l'Italia: “Non abbiamo nessuna intenzione di polemizzare rivendicando all'Italia il diritto di primogenitura nella produzione dei distillati e dei liquori, ma la storia, che abbiamo appena tracciato, è piuttosto categorica”. E annota il Ratafià di Torino come prima specialità in voga alla corte di Luigi XIV, molto amato anche da Madame de Montespan, che “ne beveva voluminosi calici senza dar vista di sentirne gli effetti inebrianti”. E continua l'eexcursus storico: in principio, si sa, fu l'acquavite, nata nei monasteri, e poi i liquori dolci a base di erbe officinali, prima di arrivare agli amari, il Fernet, la China, che a metà Ottocento“segnano le prime tappe della evoluzione della nascente industria liquoristica”.

 

grafiche

Regole e glossari

Un volume imperdibile per tutti gli amanti della miscelazione, che qui potranno ritrovare i primi vagiti di un settore oggi in pieno fermento. Un testo antico, sì, ma ancora valido e attuale: si leggono, infatti, le Dieci Regole Fisse per la realizzazione di un buon cocktail (numero uno, “lo shaker si usa soltanto per drinks preparati con succhi di frutta, crema di latte, uova e liquori e non va riempito – comprendendo il ghiaccio – più di quattro quinti”), un decalogo piuttosto innovativo per il tempo, che stabilisce già dei parametri standard per una produzione di qualità. C'è poi il Piccolo Dizionario, glossario che racchiude tutti i termini specifici, all'epoca ancora un mistero per molti, dalla c di cocktail alla z di zoom (“long drink: si prepara nello shaker e tra i suoi componenti principali troviamo la crema di latte o la panna”).

 

libro

Le ricette

E poi, le ricette. Quelle dei barman italiani iscritti all'Aibes (al tempo in via Baldissera, 2, Milano), segnati nell'elenco aggiornato al 1 semestre 1974. Con una breve biografia per ognuno di loro, insieme alla formula per un cocktail e un long drink concepiti espressamente per la pubblicazione. Ricette uniche, dunque, create appositamente per contribuire alla stesura del libro, dei “signature drink”, diremmo oggi, cocktail speciali nati dall'estro e l'esperienza dei professionisti del settore. Per finire con ricette da tutto il mondo, i grandi classici – 50 fra cocktail e long drink – che hanno fatto la storia della miscelazione, senza dimenticare la sezione finale dedicata alle bottiglie più iconiche, dall'amaro Lucano al Liquore Strega, con spiegazione per ogni distillato, grafiche del tempo ed etichette ormai scomparse.

 

Mauro Becchi

Le ricette: Monza e Silvestrone di Mauro Becchi

L'omonimia, in questo caso, non è una coincidenza. Mauro Becchi era mio nonno - concedetemi la prima persona - e anche uno dei primi barman iscritti all'associazione. Una scoperta fatta da poco, la sua presenza in questo libro per i 25 anni di Aibes, che ho ricevuto in dono (questa sì, è una coincidenza) proprio per i miei 25 anni. Non è facile, in casi come questi, trovare le parole giuste per scrivere qualche riga su una persona a cui sono così strettamente legata, ma che in questo caso diventa protagonista di uno dei tanti libri letti, recensiti, descritti. Un uomo che, purtroppo, non ho avuto la fortuna di conoscere, ma che in qualche modo forse mi ha plasmata più del previsto. Ecco, quindi, l'omaggio a mio nonno. Barman associato, toscano doc, di Montecatini Terme, nato a Firenze, classe '34, morto 60 anni dopo a Roma, dopo una vita trascorsa fra serate di grandi bevute e viaggi in tutto il mondo, dall'Albany Club di Londra allo Chalet Hotel di Jersey, da Le Bonaparte Night Club di Parigi all'Hotel Bristol, sempre a Parigi. Ma anche tanti alberghi romani, l'Hotel Esperia, l'Hotel Continentale e il Quirinale, il luogo dove rimase fino alla fine. Non so se la passione per il cibo, il buon bere, più in generale quella per i piaceri della tavola, si erediti o meno. Se così fosse, in qualsiasi caso, ora so chi incolpare per la mia predilezione per il gin.

Monza

Ingredienti

1/3 Bitter Campari

1/3 Martini Rosso

1/6 Martini Dry

1/6 Vodka

Mescolare e guarnire con buccia d'arancia.

Silvestrone

Ingredienti

1/4 Gin Gordon

1/8 Drambuie

1/8 Pimm's n. 1

1/2 succo di limone

Mescolare e guarnire con ramoscello di menta fresca.

Il Barman e i suoi cocktail, Antonio Cendali e Luigi Marinatto – ed. 1974 Selepress/Libri – pp. 424 – 12.000 Lire

a cura di Michela Becchi

 
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