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Montalcino che cambia vol. III. Poggio Antico, parla il general manager Federico Trost

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L'azienda di proprietà sin dal 1984 della famiglia milanese Gloder, è stata ceduta qualche mese fa all'industriale belga van Poecke del gruppo Atlas Invest. I nuovi piani? Continuità e integrazione nel territorio. Per il futuro non esclusi nuovi investimenti

È sempre stata una delle più belle proprietà di Montalcino, da cui si gode un'eccezionale vista sull'Amiata e sulle colline del grossetano. Le calure non sono mai punitive e, se non c'è caligine, lo scintillio del Mar Tirreno all'orizzonte, non è affatto raro. Il panorama verso i rilievi, all'interno, in quei boschi impenetrabili dove cinghiali e caprioli sono padroni assoluti, non è da meno. Poggio Antico, circa 200 ettari, inizia sulla strada che da Montalcino porta a S.Angelo in Colle, subito dopo il Passo del Lume Spento (631 metri s.l.m.). È un'altitudine strategica per assicurare finezza ed eleganza ai vini, grazie a una sensibile escursione termica e alla brezza che, nemmeno in piena estate, perdona al visitatore la distrazione di aver dimenticato il maglione. Qui, dopo un lungo e sinuoso viale di alti cipressi, sono nati e continuano a nascere alcuni dei migliori Brunello di Montalcino da trent'anni a questa parte. Pluripremiati con i Tre Bicchieri sono dei must per tutti i principali critici enologici del mondo. L'azienda, gestita dal 1994 da Paola Gloder, a cui si deve il successo nazionale e internazionale, è stata ceduta al gruppo finanziario Atlas Invest del finanziere belga - ma anche agronomo - Marcel van Poecke. Ora che il passaggio è definitivamente avvenuto, abbiamo incontrato Federico Trost, il general manager, già export manager di Santa Margherita e sales director di Brancaia.

Con questa intervista, effettuata nella sede aziendale, concludiamo i tre servizi dedicati a "Montalcino che cambia”, in cui abbiamo sentito Olivier Adnot, ceo di Biondi Santi, e il gruppo Bulgheroni (a cui fanno capo Poggio Landi, Podere Brizio Tenute Vitanza solo in territorio ilcinese).

 

Chi è Marcel van Poecke

Classe 1960, sposato con sei figli. Si è laureato in gestione delle imprese agricole presso l'Università di Wageningen e ha un master in amministrazione aziendale della William E. Simon School of Management dell'Università di Rochester. Ha un'esperienza di 25 anni nel settore energetico ed è presidente di AtlasInvest, holding privata che ha fondato nel 2007, impegnata negli investimenti del comparto oil&gas. Èmanaging director di Carlyle International Energy Partners (CIEP) ed è a capo della Carlyle International Energy Partnership. Poggio Antico è il suo primo investimento nel settore dei fine wines.

 

Signor Trost, iniziamo col parlare di Marcel van Poecke e Atlas Invest. Come è maturata la decisione di investire a Montalcino considerando che sinora è stata l'energia in tutte le sue declinazioni a essere l'attività principale dell'azienda ?

In effetti è il primo investimento nel mondo del vino per Marcel van Poecke, anche se da 15 anni accarezzava l'idea. Le offerte non sono mancate ma non ha mai avuto fretta di concludere. Quando poi si è presentata l'occasione di acquistare a Montalcino, in una delle denominazioni italiane di riferimento mondiale, per lui - laureato in Scienze Agronomiche e, per di più, grande appassionato di vino - il senso diventa più chiaro. Certo, è stata una scelta innanzitutto di business, ma anche la conseguenza di una passione. L'azienda era, ed è, una cantina di riferimento per il Brunello. In più, è stata gestita in modo eccellente dai Gloder da tutti punti di vista: le condizioni per l'acquisto c'erano tutte.

 

Tenendo conto che l'azienda già esprime dei Brunello di un livello qualitativo riconosciuto a livello mondiale, su quali aspetti avete intenzione di intervenire nel prossimo futuro?

L'idea è di continuare a portare avanti il business dell'azienda ad alto livello. Nell'immediato abbiamo in programma uno studio approfondito dei suoli per capire, in modo scientifico, le nostre ulteriori potenzialità. Abbiamo già iniziato la mappatura della conducibilità elettrica, che complessivamente interesserà 40 ettari di cui 33 sono già vitati. Alla fine della mappatura, ragioneremo sui dati raccolti, incrociando i risultati con la memoria storica del personale dell'azienda. Stiamo valutando di piantare la vite nel terreno all'ingresso della proprietà, che è anche il punto più alto, quello più fresco e dove la neve rimane più a lungo. L'ipotesi, alla fine, è la possibilità di creare dei cru. Tutto ciò presuppone una riorganizzazione strutturale della cantina, a partire da vasche più piccole per la vinificazione.

 

Che impatto avranno questi cambiamenti?

Ci tengo a dire che nulla sarà fatto se non per aggiungere alla bellezza del luogo, dell'altra bellezza. In ogni caso partiremo, com'è giusto, dai vigneti e dal nostro sangiovese che per il Brunello di Poggio Antico, è fondamentale. Non vogliamo stravolgere nulla: rimarremo saldamente Poggio Antico, continuando a produrre un grande Brunello. L'idea è riuscire a fare un ulteriore passo in avanti nella qualità, nella comunicazione e nella riconoscibilità in Italia e all'estero, migliorando la distribuzione dove possibile, anche se partiamo già molto bene.

 

Per ottenere dei grandi risultati bisogna avere anche una grande squadra. Cos'è cambiato nel team che sinora ha lavorato in azienda?

Abbiamo inserito un nuovo direttore tecnico, Pier Giuseppe D’Alessandro, agronomo ed enologo, ex Terre Moretti, che mi aiuterà nella fase produttiva. Rimane Alessio Sostegni, l'enologo dell'azienda, un giovane molto promettente che ha già partecipato a molte vendemmie. Inoltre, continuerà a far parte della squadra Claudio Ferretti, che oltretutto è nato qui: è andato in pensione, ma gli abbiamo chiesto di rimanere almeno un anno, mentre abbiamo già assunto suo figlio Jacopo che poi lo sostituirà. Mauro Monicchi, invece, sarà l'enologo consulente. Per gli assemblaggi ci sarà Eric Boissenot, uno dei più quotati consultant winemaker di Bordeaux, (secondo Jancis Robinson, insieme al padre Jacques, "make the greatest wines of the world"; ndr). Il team, che già mi sta supportando è questo. Le scelte sono all'insegna della continuità e della tradizione, ma vogliamo anche porre le basi per un ulteriore balzo in avanti, grazie alla possibilità di confronto con i palati internazionali.

 

Secondo Lei, l'arrivo di nuovi investitori sta cambiando la percezione del Brunello nel mondo anche dal punto di vista del valore?

Secondo me, specialmente negli Usa, la percezione di Montalcino è già molto alta. Chiaramente in Napa Valley hanno un volume di investimenti più importante, però a Montalcino si sta andando avanti in maniera decisa e l'influsso dei nuovi investitori sta portando idee innovative. Credo che negli ultimi 30/40 anni, in Italia, abbiamo fatto dei notevoli passi avanti e anche i prezzi delle denominazioni più importanti sono interessanti, ma ci dobbiamo lavorare ancora molto, perché il riconoscimento del valore richiede una costanza di sistema di molti anni. Montalcino ha iniziato negli anni Ottanta e ha fatto dei passi da gigante: basta ricordare com'era negli anni Settanta per comprendere quanta strada è stata fatta.

 

Come pensate di interagire con il territorio? Qui è sempre esistito un legame molto stretto tra le aziende e il contesto, non solo produttivo, ma anche sociale, di un modello di vita...

Noi siamo qui per integrarci. Io stesso vivo a Montalcino: mi sono trovato molto bene e sono stato facilmente accettato. Una situazione ottimale per lavorare. I rapporti con gli altri produttori, con il Consorzio, le istituzioni, sinora sono stati ottimi. Inoltre, ci sono degli investimenti importanti nelle varie filiere, non solo del vino. La costruzione del Distretto Rurale, pur con i suoi limiti, dimostra quanta e quale ricchezza il territorio esprime oltre al Brunello: miele, olio evo, seminativa per la produzione di pasta, tartufo, ecc. Siamo arrivati da poco, ma questo tipo di contesto è assolutamente interessante per un'azienda come la nostra. Vogliamo supportare questi progetti e portare le nostre potenzialità per far crescere il territorio. Non bisogna avere paura dei nuovi arrivati, anche perché, almeno noi siamo venuti qui per investire e porteremo in giro per il mondo il nome di Montalcino e del Brunello.

 

Poggio Antico è sempre stato conosciuto anche per il suo ristorante...

Il ristorante, in questo quadro, avrà bisogno di un rinnovamento che, dal punto di vista culinario, lo chef Sossio Perrotta sta assicurando. La creazione di uno show room, del negozio aziendale e di una sala adeguata per le degustazioni prevede una ristrutturazione degli ambienti esistenti. Tutto sarà fatto anche in funzione di poter ospitare una serie di cda del gruppo Atlas Invest e, quindi, offrire ospitalità di alto livello a tutte le varie personalità che gli girano attorno. Oggi come oggi a Marcel van Poecke chiedono più notizie del Brunello, e del vino in genere, che non di tutte le altre attività, magari più redditizie, che però non richiamano la stessa curiosità. Èun aspetto che favorisce Poggio Antico, ma anche tutto il contesto. Ed è una delle conseguenze immediate dei grandi investimenti internazionali.

 

Èpossibile che ci siano altri investimenti nel settore da parte di Atlas Invest?

In questi 15 anni, sono state esaminate varie possibilità e per il futuro non ci precludiamo nessuna eventualità anche se non necessariamente in Italia

 

Leggi anche

Montalcino che cambia vol. I. Parla Olivier Adnot nuovo ceo di Biondi Santi

Montalcino che cambia vol. II. I piani di Alejandro Bulgheroni Family Vineyards

 

a cura di Andrea Gabbrielli

 

 

Questo articolo è uscito sul nostro settimanale Tre Bicchieri del 17 maggio. Abbonati anche tu se sei interessato ai temi legali, istituzionali, economici attorno al vino. È gratis, basta cliccare qui.


Vota il tuo Bar illy 2019. Il preferito dai consumatori entrerà in guida Bar d'Italia 2019

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Dalla collaborazione tra Gambero Rosso e illy nasce il contest Bar illy 2018, che chiede ai consumatori di sostenere il proprio bar preferito, votandolo online per garantirgli l'accesso alla guida Bar d'Italia 2018. Ecco come partecipare.  

 

Il prossimo autunno, come ogni anno, porterà con sé una nuova edizione della guida Bar d'Italia del Gambero Rosso, che da 19 anni racconta l'evoluzione di caffetterie e bar della Penisola, con tanti indirizzi che danno conto di un settore dinamico, informale, vivace. Concentrando l'attenzione sul luogo privilegiato di tanti momenti della giornata tipo di ogni italiano. Ecco perché, dalla partnership con illy, fedele alleato di tante edizioni, nasce il desiderio di coinvolgere chi ogni giorno frequenta i bar della sua città, offrendo a tutti la possibilità di votare l'insegna preferita. Il bar più votato sarà inserito nella guida Bar d'Italia 2019 come Bar illy più votato dai consumatori. Ma come si può partecipare?

C'è tempo fino al 30 giugno 2018 per esprimere la propria preferenza online tra i bar illy coinvolti nell'iniziativa: al link dedicato gli utenti saranno chiamati a compilare un form, indicando in quale regione e città si trova il proprio bar preferito, prima di selezionare il nome prescelto. Pochi minuti per completare la votazione, indicando pure il motivo della scelta: per l'offerta proposta, per la qualità del servizio, per la qualità dell'ambiente. Tra i consumatori che parteciperanno al contest, a chiusura della votazione, sarà estratto il fortunato che avrà la possibilità di accedere alla serata di premiazione della guida Bar d'Italia 2019. Che aspettate a votare?

 

Vota il tu bar illy preferito

 

Good Company Sicily. Il progetto di ristorazione illuminato che recupera il centro di Palermo: arriva Aja Mola

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Stefania Milano e Franco Virga sono i fautori di una rinascita gastronomica del centro di Palermo cominciata 7 anni fa a ridosso della Vucciria. Prima il Gagini Social Restaurant, poi Buatta, Bocum e il Caffè Letterario. Ora la trattoria di mare Aja Mola, e la collaborazione con Manifesta. 

 

Manifesta 12 a Palermo

La storia potrebbe cominciare da piazza Magione, Palermo, in questi giorni trasformata per l'anteprima di Manifesta 12, biennale nomade europea dedicata alla creatività contemporanea che quest'anno prende residenza proprio nel bellissimo capoluogo siciliano, capitale italiana della cultura 2018. La kermesse aprirà i battenti il 16 giugno per protrarsi fino all'inizio di novembre, irradiandosi dal quartier generale del Teatro Garibaldi in 30 spazi comunali della città, ognuno ripensato per accogliere installazioni e performance artistiche sul tema - quantomai attuale - Il Giardino Planetario. Coltivare la coesistenza. Già durante il weekend alle porte, però, circa tremila accreditati tra giornalisti e addetti ai lavori visiteranno in anteprima le esposizioni.

E lo spazio gastronomico ideato da Good Company Sicily in piazza Magione è un'occasione per accoglierli all'insegna delle specialità locali, coinvolgendo però anche i palermitani in una festa di piazza che riunisce 7 realtà gastronomiche del centro storico: Prezzemolo e Vitale, Cagliostro bakery, la Casa del Brodo (con pietanze super tradizionali come la calduma e il macco di fave), Ballarak, Sfrigola e le sue arancine, il Caffè Letterario Garibaldi e Gagini Social Restaurant.

Good Company Sicily. Gli inizi

Proprio le ultime due insegne, insieme ad altri riusciti format di ristorazione nati negli ultimi anni nel quadrilatero di Palermo compreso tra Porta Felice e Porta Nuova, sull'asse di Corso Vittorio Emanuele, fanno riferimento alla famiglia della Good Company Sicily, restaurant group made in Sicily che fa capo a Stefania Milano e Franco Virga. A loro spetta il merito di aver creduto nella rinascita culturale e gastronomica del centro storico di Palermo già sette anni fa, quando il primo locale del gruppo – quel Gagini Social Restaurant che oggi è una delle insegne gourmet più apprezzate della città, potente attrattore per il turismo straniero che affolla Palermo, Due Forchette per il Gambero Rosso – inaugurava in via dei Cassari, al civico 35.

In pochi anni la strada all'ingresso della Vucciria (dal lato del Porto della Cala) si sarebbe trasformata in un vero crocevia del gusto firmato Good Company Sicily: tre anni fa l'apertura di Bocum, regno della miscelazione (con il bartender Gianluca Di Giorgio) e primo bar dedicato al vino naturale e biodinamico in Sicilia, con cucina fusion di pesce ben calata nel contesto di un locale informale e atmosfera bohemienne, con arredi vintage e atmosfere parigine.

 

Buatta. La cucina popolana di Palermo che guarda all'Europa

Prima ancora, però, è nata la cucina popolana di Buatta, nell'ex valigeria storica Quattrocchi, direttamente sul Corso, ma a pochi metri dagli altri locali, in un contesto ispirato alle cucine antiche, con sapiente restauro di vecchi complementi d'arredo, come le vetrine della valigeria, oggi ricolmi di prodotti e specialità gastronomiche della Sicilia, molti a presidio Slow Food. Così mentre al Gagini la mano di Gioacchino Gaglio interpreta alla luce di una ricerca contemporanea le ricette del territorio, da Buatta è la cucina del passato della città a giocare un ruolo da protagonista, sotto le cure di chef Fabio Cardillo, romano trapiantato a Palermo da 30 anni, e grande conoscitore dei prodotti del territorio. L'ex valigeria, inoltre, è diventata un punto di riferimento per lo street food di qualità, che apre generoso il menu, tra panelle e crocché, sfincione, insalata di olive e acciughe, polpo bollito.

Per questo presto il format potrebbe trovare la via dell'Europa: indubbiamente dotato di una personalità spiccata, Buatta è il marchio che più si presta all'internazionalizzazione, e il recente interesse di un investitore straniero fa ipotizzare che presto qualche grande piazza europea (ma forse anche Milano) potrà godere della cucina popolana palermitana in trasferta. Intanto però il gruppo continua a consolidare le proprie radici in città, con l'idea di aggiungere nuovi tasselli di qualità a un'esperienza che prima ancora di essere gastronomica è culturale.

 

Il Caffè Letterario e la collaborazione con Manifesta

Quindi all'inizio del 2018, all'interno del Teatro Garibaldi (spazio comunale purtroppo in disuso) è nato il Caffè Letterario: un temporary wine bar che la Good Company si è aggiudicato tramite bando di gara e resterà in attività per tutta la durata di Manifesta (poi chissà). Proprio al progetto del Caffè, non a caso, si lega l'organizzazione del villaggio gastronomico all'aperto allestita in questi giorni a piazza Magione, sempre a cura del gruppo. Ma le novità non finiscono qui: il 21 giugno, ancora in via dei Casseri, inaugura Aja Mola, una trattoria di mare intitolata a un antico canto beneaugurale della mattanza di Favignana.

 

Aja Mola. La trattoria di mare

Un progetto ancora una volta con un'anima ben definita, ma coerente con l'intero sistema costruito da Stefania e Franco: circa 35 coperti e qualche posto disponibile anche al bancone affacciato sulla cucina a vista, con bel banco del pesce in marmo grigio, sul modello del mercato della Vucciria. Quindi una spiccata caratterizzazione da osteria di mare modulata sul pescato del giorno: “Avrà l'atmosfera di una pescheria con cucina, molto popolare ma curata nel dettaglio. E con noi ci sarà un pescivendolo che sfiletterà e preparerà il pesce davanti agli ospiti. Il menu chiaramente sarà improntato alla semplicità con grandi materie prime: zuppa di cozze, pasta con le vongole, polpo bollito nel pentolone com'è tradizione a Palermo”. E da bere vini naturali e champagne, con grande disponibilità alla mescita. Aja Mola nasce nello spazio di un'ex taverna e vuole mantenere l'atmosfera di una bottega di mercato anche nel design: al lavoro sul progetto Fatima Costa, che ha saputo mixare gli spunti della cultura popolare locale con richiami all'architettura araba. In luce elementi preesistenti dello spazio, come le mattonelle del vecchio locale, e poi tavoli rosso corallo alternati a tavoli blu, e ad altri lasciati a legno vivo. Mise en place ugualmente semplice, con tovagliette in stoffa e bicchieri da taverna accanto ai calici per il vino. Dunque l'appuntamento è per il weekend dal 16 e 17 giugno in piazza Magione (dalle 11 fino a sera), e dalla prossima settimana alla scoperta della cucina di mare di Aja Mola.

 

Gagini Social Restaurant – Palermo - via dei Cassari, 35 – www.gaginirestaurant.com

Buatta – Palermo – Corso Vittorio Emanuele, 176 – www.buattapalermo.it

Bocum – via dei Cassari, 6 – www.bocum.it

Caffè Letterario – Palermo – via Teatro Garibaldi, 45

Aja Mola – Palermo – via dei Cassari, 39 – dal 21 giugno

Il sito di Manifesta 12

 

a cura di Livia Montagnoli

Riapre a New York lo storico Bice Cucina. Ma i fasti di un tempo sono lontani

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A New York Bice ha fatto la storia della ristorazione italiana informale a partire dalla seconda metà degli anni Ottanta. Dietro un'attività di famiglia nata e cresciuta a Milano, a partire dal 1926. Poi l'espansione del gruppo nella capitali internazionali e il fallimento a New York, nel 2014. Ora si riapre, non molto distante dallo storico locale. 

Bice. Le origini

Nell'anno in cui sembra riaccendersi la passione per la cucina (e la pizza) made in Italy, a New York anche le operazioni nostalgia trovano terreno fertile per riallacciare con il passato mitico della ristorazione italo-americana (due mesi fa la notizia della riapertura del Coco Pazzo di Pino Luongo). Bice – dal nomignolo di Beatrice Mungai Ruggeri - è un brand che ha attraversato quasi 30 anni di storia newyorkese, dall'apertura nel 1987 ai problemi finanziari del 2011, fino alla chiusura definitiva nel 2014, dopo il cambio di proprietà che tentò di risollevarne le sorti. Le sue origini, però, sono decisamente italiane: il ristorante di famiglia, poi esportato da Roberto Ruggeri negli States, nasceva nel 1926 a Milano, dal 1939 nella sede attuale in via Borgospesso (Da Gino e Bice si chiamava all'inizio), e per decenni è rimasto fedele alla tradizione della trattoria all'italiana, poi, già nel 1978, replicata anche nel contesto esclusivo di Porto Cervo, con Bice Acquamarina, abitualmente frequentata dalla famiglia Agnelli e dai Kennedy in vacanza in Sardegna.

 

1987. Bice Cucina a New York

A New York, con suo fratello Remo, Ruggeri esportava un'idea di ospitalità cortese da perfetta tavola borghese che fece subito presa sulla scena ristorativa di allora, incline a farsi conquistare dalla cucina italiana dopo anni di grandi insegne francesi: così ben presto il locale di Midtown Manhattan cominciò a popolarsi di nomi dell'alta finanza e personalità del mondo dell'arte e del jet set newyorkese, tutti soddisfatti davanti a un piatto di ribollita (sono toscane le origini di Bice, la ricetta della casa la Pappardella al telefono) o alla cotoletta alla milanese e perfettamente calati nel gioco delle parti del “to see and be seen”. Tanto che già un anno dopo il debutto a New York il brand raddoppiava sulla West Coast, a Los Angeles e poi con un secondo locale a Beverly Hills, sviluppando anche lo spin off Bice Pomodoro, formula di ristorazione più scanzonata e contenuta nel prezzo, per dare vita a un gruppo di ristorazione di grande ambizione. All'inizio degli anni Novanta questo rese Roberto Ruggeri l'italiano con il maggior numero di ristoranti negli Stati Uniti e il primo a tentare di avere successo con una catena di cibo made in Italy che non fosse incentrata sul fast food, mentre si moltiplicavano gli avamposti nel resto del mondo, da Buenos Aires a Dubai (con Bice Mare dal 2009), a Parigi e Tokyo. A Milano Bice ha continuato a esistere, seppur lontano dai fasti di un tempo, affidata alla gestione delle nipoti di Bice, Roberta e Beatrice. La cucina è da tempo affidata allo chef Vincenzo Mazzone e il ristorante preserva la storia degli ultimi 90 anni di attività. Evidentemente, però, anche a New York il nome di Bice è destinato ancora a fare proseliti.

 

È di nuovo Bice. La riapertura a Manhattan

È quello che pensano Peter Guimaraes e i suoi partner, proprietari del brand sul suolo newyorkese quando il ristorante chiuse nel 2014 (e oggi alla guida del gruppo internazionale, ma il direttivo resta alla famiglia Ruggeri), che hanno appena riaperto l'attività non molto distante da dove si era interrotta la storia, giusto dietro l'angolo rispetto alla 54th tra la Fifth e Madison Avenue. In menu un'ampia sezione dedicata ai classici di Bice, l'ossobuco, le tagliatelle all'aragosta, i ravioli della massaia, le pappardelle al telefono, la Milanese via Borgospesso; ma anche piatti decisamente anni Ottanta (le farfalle con salmone, asparagi e salsa alla vodka o le scaloppine al Marsala) e nuove proposte che strizzano l'occhio alle moderne tendenze, come la carta delle pinse, e l'aperitivo all'italiana a partire dal tardo pomeriggio. Il nuovo spazio può ospitare fino a 175 coperti e possiede anche un patio all'esterno con bar indipendente; il design, invece, è decisamente lontano da quello che ha fatto la storia dell'originale, con l'idea di attrarre un pubblico più giovane e trasversale, anche se la speranza è quella di colpire al cuore anche i clienti abituali di un tempo. Con l'idea di tornare presto a conquistare New York, con nuovi ristoranti a Manhattan, tra l'Upper East, il West Side e Nomad.

 

Bice Cucina – New York – 62 West 55th street – www.bicegroup.com

 

a cura di Livia Montagnoli

 

FoodExp, fare ospitalità in Puglia. Chef e maitre per raccontare il futuro del settore

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Sono volti noti del settore chiamati a raccontare la propria storia su un palco d'eccezione, nei saloni quattrocenteschi della Torre del Parco, a Lecce. E sono protagonisti sul palco della prima edizione di FoodExp, appuntamento che si concentra sul valore della ristorazione per far crescere il turismo. 

Il valore dell'ospitalità

È (quasi) tempo di spiagge ed orizzonti assolati, e pure il parterre gastronomico trasloca a Sud, verso panorami decisamente estivi. Così la prima edizione di FoodExp prenderà il via il 18 giugno, per tre giornate di incontri dedicate ad addetti ai lavori e appassionati di cibo, a Torre del Parco, dimora quattrocentesca all'ingresso di Lecce. Non solo un segnale che l'estate è alle porte, ma anche il desiderio di far confluire su un territorio ancora poco consapevole delle potenzialità dell'industria della ristorazione regionale una nutrita compagine di protagonisti del settore: tra storie, aneddoti, curiosità e speranze per il futuro di chi oggi può dare l'esempio, ma anche dei giovani che si impegnano per emergere con personalità. Non solo chef, perché non di soli cuochi è fatta la cucina e mai ci stancheremo di ripeterlo, ma anche maestri di sala e professionisti dell'ospitalità tout court. Affidando la narrazione a quel gusto per il racconto che oggi sembra andare per la maggiore, con l'impegno però di portare sul palco chi davvero ha qualcosa da dire, e buone pratiche da condividere con gli altri (un buon precedente, in questa direzione, possiamo individuarlo in Meet in Cucina, congresso di cuochi per i cuochi nato in Abruzzo e quest'anno arrivato anche nelle Marche). Valorizzando l'idea di un'ospitalità diffusa che fa leva su ristorazione ed hotellerie per stimolare la crescita di circuiti turistici di qualità. In Puglia.

 

FoodExp. I protagonisti

Questo è l'obiettivo di Giovanni Pizzolante, ideatore di FoodExp, perché di fronte all'interesse crescente di turismo e investitori per la Puglia “è il momento di mettere in circolo le esperienze per alzare l'asticella della qualità”. L'evento, a ingresso gratuito previa registrazione online, prevede diversi appuntamenti tematici. Innanzitutto le masterclass, gli incontri con i protagonisti della ristorazione di cui sopra: come Antonio Guida, salentino di Tricase che la sua affermazione l'ha trovata su palcoscenici prestigiosi lontano da casa, ora saldamente alla guida del Seta al Mandarin Oriental di Milano; con lui anche Paolo Lopriore (anche lui condivide origini pugliesi) e Antonio Zaccardo, che in Puglia, a Conversano, è appena arrivato dal Piemonte di Piazza Duomo, per prendere posto nella grande famiglia del Pashà, al fianco di Maria Cicorella. A raccontarsi saranno anche Francesco Cerea in rappresentanza di una dinastia della ristorazione decisamente capace di gestire impegni ambiziosi e distribuire ruoli, e Alessandro Pipero, uomo di sala per eccellenza, dispensatore di buoni consigli per un approccio professionale e al contempo auto-ironico del maitre al servizio dell'ospite, ma con carisma da vendere. Il 20 giugno, invece, la giornata sarà dedicata a due tavole rotonde che coinvolgeranno istituzioni, università e associazioni pubbliche e private nel dibattito su formazione, tracciabilità agroalimentare, sostenibilità.

 

I giovani sono il futuro

Dalla teoria alla pratica, la formazione del perfetto professionista di sala, sin dalle prime esperienze sul campo, sarà al centro del concorso Emergente Sala di Luigi Cremona e Lorenza Vitali, con il casting per partecipare all'edizione 2019. All'esordio, invece, il Premio Emergente Chef e Pizza Chef Puglia: un'edizione regionale che vuole premiare e incentivare i giovani talenti locali. Si mangerà, anche, grazie alla collaborazione di cuochi pugliesi che si avvicenderanno nell'area FoodExp Gourmet (accesso a pagamento, ticket 20 euro).

 

FoodExp – Lecce – Torre del Parco, viale Torre del Parco, 1 – dal 18 al 20 giugno - www.foodexp.it

 

 

a cura di Livia Montagnoli

 

Apre Casa Maggiolina ai Castelli. Ristorante, pizzeria, orto e ospitalità nella villa storica alle porte di Roma

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Dietro al progetto un team già noto della ristorazione capitolina, che ha ripensato la storica Villa di Maggio di Grottaferrata come casa aperta alla condivisione e all'ospitalità. Il 17 giugno partenza con ristorante, pizzeria, picnic e cene nell'orto. Dall'autunno ospitalità in villa e nelle sistemazioni nel parco. 

Il progetto Casa Maggiolina

Un gruppo di amici con il pallino per l'imprenditoria, una dimora storica alle porte di Roma in cerca di qualcuno che voglia riportarla a nuova vita, un grande spazio verde a pochi minuti di macchina dalla città. Gli ingredienti per fare bene sono tutti in tavola, e tra qualche ora il risultato del mix sarà sotto gli occhi di tutti. O almeno di chi vorrà partecipare alla festa inaugurale di Casa Maggiolina, domenica 17 giugno, per scoprire cosa bolle in pentola a Villa di Maggio, Grottaferrata, nella residenza anni Trenta che il gruppo di amici di cui sopra ha preso in gestione dall'ordine dei preti Stimmatini (almeno) per i prossimi 18 anni: “Decisamente un tempo sufficiente per strutturare un progetto ambizioso” racconta orgoglioso e un po' emozionato Gabriele Ciocca, che insieme a Daniele ed Alessandro Marchetti e Mauro Abbondanza ha messo in piedi il format Casa Maggiolina. La base di partenza per cominciare a pensare in grande è stato proprio lo spazio: una tenuta nel Parco Regionale del Tuscolo, con settemila metri quadri di terreno a disposizione, tutt'intorno alla residenza storica, che da settembre aprirà agli ospiti 5 appartamenti completamente ristrutturati e intanto si appresta a esordire come ristorante con cucina, pizzeria, griglieria, cocktail bar. Nessun limite alla fantasia, “con l'intenzione di rendere accessibile a tutti uno spazio di grande fascino, e quindi adattare la formula di ristorazione a diversi target e momenti della giornata, con la possibilità di arrivare per un pic nic della domenica, la sera per mangiare una pizza, a pranzo per un piatto veloce”. Ma anche in occasione di un evento privato, un matrimonio o un incontro a porte chiuse di team building, perché il progetto di cohousing dispieghi per intero tutte le sue potenzialità.

Il ristorante. La cucina antica, la pizzeria, le cene nell'orto

Procedendo con ordine, a partire dall'aperitivo pomeridiano e dalla cena a buffet di presentazione di domenica 17, il primo spazio a inaugurare sarà proprio quello del ristorante: circa 60 coperti all'interno della villa, con forno a legna a vista “proprio dove un tempo c'era l'altare della cappella della residenza dell'ordine”, griglia dedicata alla cottura delle carni e cucina attrezzata per sostenere i servizi del pranzo e della cena. All'esterno, sul fronte dell'edificio, altri 250 coperti circondati dal verde, e sul retro la sorpresa dei tavoli immersi nell'orto (46 coperti in tutto), che presto comincerà a dare i suoi frutti: “Abbiamo già messo a coltura l'orto, ma probabilmente riusciremo a ricavare anche un vigneto, per produrre il nostro vino con la consulenza di un enologo: il terreno è molto vocato”. La proposta gastronomica varierà nel corso della giornata, presentando anche una sezione originale dedicata alla cucina antica: “Abbiamo voluto chiamarla così perché frutto di una ricerca che spazia dal Medioevo attraverso secoli di cultura gastronomica. Per esempio proporremo cotture interrate e in vaso di terracotta, o ancora nel lino: abbiamo un paio di fosse dedicate nella zona dell'orto, sarà una soluzione proposta specialmente durante i banchetti di matrimonio”.

Poi ci sarà la formula pic nic orto e cucina: un cestino da portare con sé nel parco della villa, con prodotti e specialità del territorio, dalla porchetta al panino con la frittata.

 

La proposta gastronomica

E in generale tutta la cucina si concentrerà sulla valorizzazione delle primizie e il recupero delle ricette locali. Qualche esempio? L'insalata di campo con albicocche, semi e vinaigrette, la pasta (fatta in casa) Maggiolina con carote, zucchine, provolone e ricotta, il galletto ruspante cotto sul mattone alla brace, ma pure i grandi classici come grigia e amatriciana, o recuperi della tradizione come gli involtini in umido alla vecchia maniera e la “maialata”. Poi il maialino in crosta cotto sottoterra (solo su ordinazione), i crostoni e le pizze dal forno a legna, dalla classica Margherita alla pizza con crema di fave, provolone e cicoria. E per la sezione cucina antica proposte come la zuppa di legumi estivi con agrumi e sfoglia di coppa, la pasta baccalà e arzilla, il timballo di capellini, finocchio e sarde, le trote sotto la cenere. Chiusura dolce con maritozzi, brutti ma buoni, biancomangiare, zuccotto. A prezzi decisamente accessibili, fino a 10 euro per una pizza o un primo piatto, 20 per i piatti più elaborati e le portate di carne.

 

L'ospitalità. Dormire nel parco

In autunno sarà operativo anche il pacchetto ospitalità: “Prima i 5 appartamenti nella residenza, poi, dalla prossima primavera, il glamping, il pernottamento all'aperto in tende attrezzate e carrozzoni in stile gitano, che popoleranno il parco. Quando abbiamo iniziato sapevamo che sarebbe stato un progetto lungo da perfezionare, entreremo a pieno regime nel giro di un anno”. Da subito, invece, sarà disponibile anche il servizio della colazioni, dalle 9 alle 11. Mentre nei prossimi mesi si cominceranno a confezionare i prodotti della casa, con quanto raccolto nell'orto e nel frutteto. Luogo di ospitalità, produzione, creatività e condivisione, Casa Maggiolina si prepara a essere, prima di tutto, una “casa aperta” per chi vuole godere di uno spazio incontaminato alle porte della città.

 

Casa Maggiolina - Grottaferrata (RM) - via Tuscolana, 289 - dal 17 giugno - www.casamaggiolina.it

 

a cura di Livia Montagnoli

Libri. La felicità ha il sapore della salute

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Coniugare salute e buona tavola è l'obbiettivo del volume firmato a quattro mani da Luigi Fontana e Vittorio Fusari.

 

Questo libro è la storia di un incontro casuale”. In questo incipit si annida l'idea alla base di La felicità ha il sapore della saluteedito da Slow Food: mettere insieme medicina e alta cucina. A firmarlo uno dei massimi esperti mondiali di nutrizione che studia da anni i segreti della longevità, Luigi Fontana, e un cuoco di lungo corso come Vittorio Fusari, da sempre attento alla materia prima e all'uso consapevole delle risorse naturali, e da sempre vicino alla filosofia di Slow Food. L'incontro cui si fa riferimento nell'introduzione è avvenuto durante il convegno Siamo quello che mangiamo: tra cibo e stili di vita, strategie per essere artefici della nostra salute, organizzato dall'Ordine dei Medici nel quale entrambi erano presenti come relatori.

 

Medicina e cucina

Slow Food – i cui valori seguono entrambi con attenzione - diventa l'anello di congiunzione di due mondi solo apparentemente lontani: la medicina e l'alta cucina. Quella che si serve di strumenti e tecniche evolute, di prodotti spesso non alla portata di tutti, ma che può declinare competenze ed eccezionalità per renderle alla portata di tutti. A partire dalla conoscenza delle materie prime, di quel che si nasconde alle loro spalle e di quel che rappresentano in termini di gusto e valori nutrizionali, oltre che dei metodi per valorizzarle e conservarle al meglio. Sono proprio queste materie prime che introduciamo nel nostro corpo e che possono interferire, in modo positivo o negativo, con il suo buon funzionamento. E questo ci riconduce direttamente al campo medico.

Così, seguendo le indicazioni di Fontana, Vittorio Fusari (oggi al Balzerdi Bergamo) ha studiato 47 ricette. Buone per il nostro organismo, e buone per il nostro gusto, che possono contribuire a quello che Fontana chiama “benessere”: sintesi di buona salute e buono stato d'animo, qualcosa che unisce corpo e spirito di cui la buona cucina è tassello fondamentale.

 

 

L'approccio scientifico

La longevità (in salute) è l'obiettivo degli studi medici di Fontana che si concentra anche sui meccanismi dell'invecchiamento, sull'insorgenza di certe patologie e la loro relazione con l'alimentazione, pur ammettendo che non esistono diete o cibi miracolosi. Ma che esiste un alleato prezioso per il benessere: la dieta mediterranea. Dopo aver passato in rassegna le principali malattie, le loro cause e le possibili relazioni con lo stile di vita, Fontana si concentra sulle conseguenze della dieta mediterranea e sulla piramide alimentare, nella versione aggiornata che si è accreditata negli ultimi anni che vede alla base non più i cereali integrali, ma le verdure. In parallelo, individua nella restrizione calorica un elisir di lunga vita che non solo rallenta l'invecchiamento cellulare, ma riduce anche l'incidenza di diverse malattie. Fontana introduce al digiuno intermittente, suggerisce strategie per ridurre l'apporto calorico, analizza i più comuni regimi alimentari e le diete che troppo spesso diventano di moda, talvolta in modo fugace, tal altra conservando una loro notorietà nel tempo. Tutto a partire da studi e analisi scientifiche.

 

Ingredienti e ricette

In questo panorama, conoscere a fondo le materie prime è un passaggio basilare per mettere a punto uno stile di vita sano, ma non punitivo, che possa collegare il regime alimentare di ognuno con il territorio nel suo complesso di ambiente e tradizioni. Per farlo, però, è necessario saperne di più di quel che cuciniamo e mangiamo: i composti fitochimici alimentari, il variare dei composti fenolici e dell'attività antiossidante con il passare del tempo, la presenza di minerali o altri elementi e così via. Ma anche i corretti tempi e modi di cottura degli ortaggi o dei cereali, la struttura dei chicchi di grano e le componenti presenti in ogni sua parte, la stagionalità di ortaggi, frutta, pesce e legumi, le loro caratteristiche organolettiche e i suggerimenti d'impiego, i consigli per la scelta del pesce, l'impatto ambientale degli allevamenti e della pesca, le indicazioni per la cottura delle carni, continuando con semi oleosi, frutta secca, latte e latticini, olio e grassi, sale, dolci e zucchero. Passando dunque in rassegna ogni categoria di ingrediente e corredando ogni capitolo con le ricette studiate da Vittorio Fusari e fotografate da Davide Gallizio.

 

Tornare in cucina

L'invito, neanche troppo velato, è quello di tornare in cucina. Riservare un po' di tempo e di spazio per cucinare, ma anche per produrre in proprio quante più cose possibili, coltivandole noi stessi, oppure preparando conserve di ogni tipo, prestando sempre la massima attenzione al prodotto di partenza, a come e dove viene coltivato. Acquistando e cucinando il giusto: la giusta quantità e il giusto prodotto, rieducando sensi e stili di vita per mettere il cibo sano e le sane abitudini al centro della nostra quotidianità. E se non credete che tutto questo sia foriero di una tavola ricca e gustosa, ve ne diamo prova con tre ricette tratte dal libro.

 

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Cialde di riso

tempo di esecuzione 40 minuti

tempo di cottura un’ora e mezza

per 4 persone

 

240 g. di riso arborio integrale biologico

0,15 g. di zafferano

200 g. di spinaci in foglie

una barbabietola

sale marino integrale

 

In una pentola capiente mettete il riso, coprite con acqua fredda, aggiungete un pizzico di sale, incoperchiate e lasciate cuocere fino a quando il cereale non avrà assorbito completamente l’acqua e risulterà stracotto.

Nel frattempo pulite gli spinaci e lavateli a lungo. Sbollentateli per due minuti in acqua bollente salata, poi scolateli.

Mondate la barbabietola strofinandone bene la superficie, per eliminare eventuali tracce di terra, tagliate la parte più lunga delle foglie e fatela bollire in acqua salata per 40- 45 minuti o fino a quando non riuscirete a infilzarla facilmente con una forchetta. Prelevatela e pelatela.

Sciogliete la polvere di zafferano in poca acqua tiepida.

Quando il riso sarà cotto suddividetelo in tre parti uguali. Trasferite la prima nel bicchiere di un frullatore, aggiungete gli spinaci e frullate fino a quando non otterrete una pasta liscia dal colore omogeneo. Se l’apparecchio dovesse fare fatica aiutatevi unendo un paio di cucchiai di acqua, ma non esagerate: il composto finale dovrà avere una consistenza tale da restare aggrappato al cucchiaio. Trasferitelo in una ciotola e procedete allo stesso modo frullando riso e barbabietola, poi riso e acqua allo zafferano.

Su una teglia, coperta da un foglio di carta forno, stendete la pasta di riso e spinaci cercando di formare uno strato uniforme di un millimetro di spessore. Ripetete l’operazione con le altre due paste su altrettante teglie. Cuocete in forno preriscaldato a 80°C per 30 minuti.

Estraete le teglie, sollevate delicatamente le cialde e spezzettatele. Servitele una volta che si saranno raffreddate.

Appetitose cialde che possono essere preparate abbinando il riso agli ingredienti più disparati. Ottimi spezzafame, possono essere conservate in scatole di latta, per essere assaporate con l’aperitivo o come entrée, ma anche costituire la base di ottime tartine.

 

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Gazpacho di pomodori, ricotta, limone e basilico

tempo di esecuzione 40 minuti

per 4 persone

 

800 g. di pomodorini di Pachino maturi

8 foglioline di basilico

germogli di pisello

un limone non trattato

100 g. di ricotta vaccina

8 cubetti di ghiaccio ottenuti con acqua di basilico

5 cucchiai di olio extravergine di oliva

sale marino integrale

 

Mettete la ricotta in una ciotola, schiacciatela con una forchetta e mescolate fino a ottenere un composto morbido, cremoso e uniforme. Unite la scorza di limone grattugiata facendo attenzione a limitarvi alla parte gialla. Aggiungete un pizzico di sale e mescolate bene fino a quando sale e scorza non saranno distribuiti in modo uniforme nella ricotta.

Dedicatevi ora al gazpacho. Lavate i pomodori e asciugateli. Metteteli, interi, nel bicchiere di un frullatore. Versate quattro cucchiai di olio extravergine, un po’ di sale e il ghiaccio. Azionate al massimo e frullate per circa quattro minuti, o fino a che non otterrete una crema liscia.

Riempite quattro scodelle con il gazpacho, adagiatevi un cucchiaino di ricotta, qualche filetto di pomodoro, che avrete tenuto da parte, quindi completate con i germogli di pisello e un filo di olio extravergine.

 

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Sgombro, latte di mandorla e scorze di limone 279

tempo di esecuzione un’ora, più la marinatura e il riposo

tempo di cottura 50 minuti

per 4 persone

 

4 sgombri da 200 g. l’uno

una cipolla rossa di Tropea

100 g. di mandorle sgusciate e pelate

un limone

50 g. di zucchero muscovado

200 ml. di latte di mandorla

50 g. di sale marino integrale

 

Sfilettate i pesci e privateli delle spine. Metteteli su una placca con la polpa rivolta verso l’alto, cospargeteli con un sottile strato di sale e zucchero, che avrete mischiato bene, coprite con la pellicola e fate marinare in frigorifero per 20 minuti. Terminato questo tempo, sciacquateli con cura, asciugateli, poi avvolgeteli stretti in un foglio di pellicola e poneteli in frigorifero fino al momento di cuocerli.

Tostate le mandorle in forno a 80°C per una mezz’ora e, una volta raffreddate, tritatele grossolanamente.

Prelevate con un pelapatate la parte più esterna della scorza del limone e sbollentatela per tre minuti in acqua, ripetendo l’operazione due volte (non gettatela). Tagliatela poi a julienne sottile. Pulite la cipolla, affettatela finemente e sbollentatela per un paio di minuti nella stessa acqua dei limoni.

Cuocete, lasciandoli nella pellicola, i filetti di pesce al vapore per 14 minuti. Lasciateli intiepidire, quindi eliminate la pelle.

Su ogni piatto versate due cucchiai di latte di mandorla, poi depositate i filetti di sgombro e completate con le mandorle tostate, la scorza di limone e la cipolla.

 

La felicità ha il sapore della salute - Luigi Fontana, Vittorio Fusari – foto ddei piatti. Davided Gallizio - Slow Food Editore – 400 pp – 19,50 €

 

a cura di Antonella De Santis

 

Dove mangiano gli chef in vacanza. I ristoranti del cuore di Enrico Bartolini e Ciccio Sultano

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Cucina di mare o di montagna, purché sia ben fatta. Per quest’estate, i migliori chef d’Italia dispensano preziosi consigli per un pasto d’autore in vacanza. Le insegne preferite di Enrico Bartolini e Ciccio Sultano. 

 

E se fossero gli chef ad aiutarci nella costruzione degli itinerari gastronomici per le vacanze? Le tanto attese ferie estive non possono essere considerate tali senza un pranzo o una cena indimenticabile. Per questo, abbiamo deciso di chiedere agli addetti ai lavori in persona quali sono i loro indirizzi del cuore, i luoghi dove vanno a rifugiarsi in cerca di tranquillità, per una pausa dal duro lavoro in cucina. A Nord, Enrico Bartolini, che spazia in tante regioni d’Italia, offrendo una panoramica ampia della ristorazione di qualità della Penisola; al Sud, Ciccio Sultano, che ci ha regalato una mappa gastronomica unica per mangiare e bere bene nella sua isola.

Il mare a Venezia

Amante del pesce e dei prodotti ittici, Bartolini, che al terzo piano del Mudec di via Tortona a Milano (ma anche al Casual di Bergamo, Castiglione della Pescaia e Venezia) si diverte a proporre una cucina contemporanea di rango, per un buon pranzo al sapore di mare si reca all’Antica Osteria da Cera di Campagna Lupia, in provincia di Venezia, tempio del pesce dove ogni prodotto – freschissimo – viene lavorato in maniera impeccabile. Un locale che ha fatto del pesce nazionale (proveniente principalmente dal Nord, ma non solo) il proprio punto di forza, insieme a un’accoglienza e un servizio familiari e professionali al tempo stesso. Per un pasto di qualità elegante ma senza fronzoli. “Non capita spesso di avere una giornata libera, ma quando posso torno volentieri qui”.

E nelle Marche…

Altra regione, altro indirizzo. Nelle Marche è il ristorante Uliassi a conquistare da sempre palato e cuore dello chef, un’insegna speciale per eccellenza delle materie prime, tecnica straordinaria nelle cotture e un servizio che rasenta la perfezione grazie alla premura di Catia Uliassi, padrona di casa che consiglia, suggerisce, pone attenzione a ogni singolo cliente, dirigendo con grazia ed eleganza l’orchestra della sala. E se questo non bastasse a rendere il locale uno dei migliori della Penisola, la cucina di Mauro Uliassi è un’ulteriore conferma: vulcanico e intraprendente, il cuoco marchigiano continua a sorprendere con piatti dalla personalità spiccata, il carattere deciso, e un equilibrio dei sapori raffinato e tecnicamente perfetto, frutto del suo talento e dei prodotti freschi che il mare gli dona ogni giorno.

Il fascino della Sicilia

Un percorso del genere, fra le grandi cucine ittiche italiane, non può che concludersi in Sicilia, terra di prodotti e chef d’eccellenza. Sulla scelta, Bartolini non ha dubbi: è La Madia di Licata, la cucina di Pino Cuttaia, una tavola solida in cui sapori del Sud, tradizioni e tecniche innovative si coniugano in maniera armoniosa creando dei piatti di grande sapore e ricerca. “Non ho il minimo dubbio: come località balneare, scelgo sempre Licata, per le specialità di Pino”. Ricette suggestive che mescolano i grandi classici siciliani a un gusto più contemporaneo e fresco. Un luogo dove rilassarsi, nell’elegante sala moderna con la vetrata che offre uno scorcio della corte interna piena di erbe aromatiche.

Ragusa, la cucina a tutte le ore

È sempre in Sicilia che si trova il secondo chef a cui siamo andati a chiedere consiglio: Ciccio Sultano, punto di riferimento della ristorazione isolana, anima e cuore del Duomo, una delle principali tavole di ricerca della Sicilia e di tutta la Penisola, che fra il 2018 e il 2019 subirà una trasformazione completa,dagli arredi alla cucina, ancora più evoluta, pensata, sofisticata. Ma lo chef è anche l’ideatore de I Banchi, bistrot polifunzionale aperto da mattina a sera, punto di ritrovo ideale a qualsiasi ora: dalla colazione, fra croissant fragranti e pane a lievitazione naturale, al pranzo, con i piatti di Peppe Cannistrà, che si diletta con prodotti di terra e di mare creando dei menu sempre diversi e golosi, perfetti per un pasto veloce o una cena completa da gustare ai tanti tavolini esterni. “Non posso non citare I Banchi”, commenta Ciccio ridendo, “vado davvero a mangiare lì molto spesso, sempre con immenso piacere”.

Cucina di mare a Donnalucata

Amante della buona tavola, conoscitore esperto della propria terra, lo chef sa bene che le tavole gourmet fra cui destreggiarsi nella sua amata isola sono tante. Fra le sue preferite per lavorazione e cottura del pesce, Il Consiglio di Sicilia di Donnalucata, frazione marittima del comune di Scicli, in provincia di Ragusa. Una cucina di sostanza, fatta di piatti semplici, puliti, dal gusto essenziale ma mai scontato, “ottima, una garanzia”. Soprattutto, un’oasi di pace e tranquillità, un luogo magico immerso in un’atmosfera senza tempo, dove poter godere a pieno di tutti i sapori e i profumi della Sicilia: “Mi piace mangiare nella terrazza esterna, sotto i carrubi. È un’esperienza gastronomica da provare almeno una volta nella vita”.

Mangiare in montagna: i sapori dell’Etna

Ma la Sicilia orientale non è solo mare: c’è anche tanta montagna, e non una qualunque. È l’Etna a rendere ancor più unici i prodotti della terra. Sulla costa nord del vulcano, l’insegna di riferimento, per lo chef ma non solo, è lo Shalai Resort, il boutique hotel dei fratelli Pennisi, che nel tempo hanno saputo valorizzare sempre di più il ristorante gestito da Giovanni Santoro, una tavola tutta incentrata sui prodotti locali. Per cui, via libera a maialino nero dell’Etna, sgombro, tonno, melanzane e una carta dei vini in grado di raccontare l’intero territorio. “Il ristorante dei Pennisi è perfetto per una giornata libera, da trascorrere in totale relax. Apprezzo molto anche la Macelleria con Cucina”, bottega di famiglia adibita a locale con griglie e barbecue.  

GLI INDIRIZZI

Antica Osteria della Cera – Campagna Lupia (VE) – loc. Lughetto via Marghera, 24 – 0415185009 – www.osteriacera.it

La Madia – Licata (AG) – c.so Filippo Re Capriata, 22 – 0922771443 – www.ristorantelamadia.it

I Banchi – Ragusa –loc. Ibla via Orfanotrofio, 39 – 0932655000 – www.ibanchiragusa.it

Il Consiglio di Sicilia – Scicli (RG) – loc. Donnalucata via Casmene, 79 - 0932938062 - www.facebook.com/IlConsiglioDiSicilia

Uliassi – Senigallia (AN) – via Banchina di Levante, 6 – 07165463 – www.uliassi.it

Shalai Resort – Linguaglossa (CT) – via G. Marconi, 25 – 095643128 – www.shalai.it  

GLI CHEF

Duomo – Ragusa – loc. Ibla via cap. Bocchieri, 31 – 0932651265 – www.cicciosultano.it

Enrico Bartolini Mudec Restaurant – Milano – via Tortona, 56 – 0284293701 – www.enricobartolini.net

a cura di Michela Becchi


Cookin' Med. La cucina etica del mare e la sostenibilità secondo Pino Cuttaia

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Il Mediterraneo con il suo carico ambientale, gastronomico e culturale è il tema della nuova manifestazione voluta da Pino Cuttaia. Che ha chiamato a raccolta chef e professori universitari per costruire una think tank di specialisti del mare nostrum. 

 

Il Mediterraneo come luogo di connessioni, di vita e di culture, di frontiera e di scambi, un ecosistema da tutelare e valorizzare. Non solo nel suo patrimonio paesaggistico e ambientale, ma anche in quello culturale. Sostenibilità è la parola chiave, che racconta di un'attitudine al rispetto e alla salvaguardia di quanto il Mediterraneo custodisce e unisce: l'ambiente naturale dentro e fuori il mare, e quello culturale e sociale che si è sviluppato sulle terre che vi si affacciano.

Cookin' Med: l'eredità estiva di Care's

Parte da questo presupposto Cookin' Med, che idealmente rappresenta il un passaggio del testimone da Norbert Niederkofler e Paolo Ferretti e il loro Care's – manifestazione dedicata alla cucina etica che oltre all'appuntamento invernale in Alta Badia ha avuto anche una summer edition a Salina – a Pino Cuttaia che a Licata, affacciata su quel Mediterraneo, vive e lavora. Nasce da un incontro tra i tre l'idea di sviluppare un progetto autonomo che andasse a fondo sul ruolo, i valori, le istanze e i beni del mare nostrum (e di quelli che condivide con altri mari), e di farlo dal punto di vista privilegiato della cucina. Interpretata nella sua complessità di attività creativa e culturale, di condivisione e scambio, di legame con il territorio e la tradizione, di piacere e conoscenza, e ancor più per il suo incredibile valore interdisciplinare capace di mettere in dialogo diversi ambiti del sapere umano: antropologia, storia, letteratura, botanica, geografia, nutrizione, biologia, e tutto quanto concerne le attività legate alla produzione del cibo (agricoltura, pesca, allevamento). La prima edizione di Cookin' Med è attesa ad Agrigento a settembre 2019, ma il primo appuntamento è prima a fine settembre 2018, quando si darà il via ufficiale ai lavori sui progetti culturali e culinari firmati Cookin' Med.

Un network di idee e competenze

Di questa multidisciplinarietà Cookin' Med impiega strumenti e intelligenze, chiamando a raccolta una think tank di sociologi, scienziati, artisti, intellettuali e chef che possa alimentare il dibattito ed elaborare un nuovo tipo di rapporto tra sostenibilità e sviluppo, etica e consumo, mare e cucina. Un network che metta in campo strategie per raggiungere obiettivi diversi ma complementari: da una parte la valorizzazione della gastronomia tradizionale siciliana (e più in generale le cucine del mare nelle loro identità specifiche) e lo sviluppo del territorio, dall'altra la connessione tra persone anche lontane geograficamente e culturalmente ma unite dal vivere il mare per sviluppare riflessioni e progetti, con l'idea, un giorno, di uscire dall'ambito del Mediterraneo per confrontarsi anche con realtà più lontane.

I temi e i nomi in ballo

A sviluppare il progetto Pino Cuttaia, Alessandra Montana, Giuseppe Ceccarelli che hanno coinvolto alcuni chef per parlare di mare e di sostenibilità, di pesce povero, pesca sostenibile e stagionalità. Tra i nomi previsti quelli di Enrico Crippa, Josean Alija, Norbert Niederkofler, Martina Caruso e molti altri. Ma non ci sono solo i grandi nomi della gastronomia, anche il mondo dell'accademia è stato chiamato in causa per cercare di decifrare la complessità del presente e di porre domande per immaginare strategie per il futuro. Per esempio: come sviluppare un'economia ambientale a partire da un approccio e un uso sostenibile del mare? In che modo la scienza e la tecnica possono migliorare i trasporti marittimi riducendo l'impatto ambientale e intervenendo sulle rotte per salvaguardare i gradi cetacei? Perché il Mediterraneo riveste (e ha sempre rivestito) un ruolo geopolitico e culturale così nevralgico? In che modo i flussi migratori incidono sulla realtà attuale? E in che modo la cucina testimonia questi scambi? A rispondere a questi quesiti, necessari per affrontare le sfide della contemporaneità, il partner scientifico di Cookin' Med: Unimed, l'Unione delle Università del Mediterraneo, che oltre a coordinare le attività storico-culturali dell'evento, lancerà un progetto di formazione per i giovani degli atenei che fanno parte del network attraverso campus estivi sui temi di Cookin' Med.

Un laboratorio permanente per un manifesto del Mediterraneo

Il cuoco, in questo contesto, diventa una figura di raccordo tra competenze, culture, tradizioni e storie diverse. Non solo, gli si assegna un ruolo di responsabilità nella società, una funzione attiva nell'innescare cambiamenti nello stile di vita, nel proporre buone pratiche e alzare il livello di attenzione sulla sostenibilità, letta in tutte le sue accezioni. L'obiettivo è creare un laboratorio permanente sui temi del Cookin' Med non solo per indagare le tradizioni culinarie dei paesi che affacciano sul Mediterraneo; ma anche per sviluppare un manifesto e alimentare un confronto continuo su territorialità, stagionalità, nutrizione, mare,'etica e tutti i temi correlati, non solo gastronomici. Il primo seme verrà lanciato a settembre 2018 perché si sviluppi nel corso dei 12 mesi successivi le riflessioni che verranno poi discusse nella prima edizione, quella di Agrigento, a settembre 2019.

 

a cura di Antonella De Santis

 

Reportage dalla Immersive Show Dinner a Roma. Cibo e spettacolo con Massimo Viglietti

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Un convivio, ma anche uno spettacolo, ma anche in percorso interattivo. È un po' tutto questo, la prima cena immersiva proposta in Italia. Dove? Alla Casina Valadier di Roma con lo chef-designer Viglietti. Il nostro report e qualche spoiler. 

Uno show interattivo

Quando si pensa all'Italia e al suo “made in”, il pensiero va subito alla sua pittura, al suo cinema, al mondo della moda e ovviamente al suo patrimonio enogastronomico. Ma cosa succede se tutte queste cose si mettono insieme? Succede che nasce la prima cena immersiva italiana, fresca di “atterraggio” in quel di Roma – le altre tappe sono state New York, Shangai e Ibiza - in uno dei luoghi più scenografici della città: Casina Valadier, avamposto di Villa Borghese che dal Pincio domina i tetti, le luci e i monumenti della Capitale. Ma la scenografia reale della Città Eterna, ha un ruolo del tutto marginale in questo grande show e scorre velocemente come una diapositiva, per lasciare posto – una volta entrati nell'immersive room – a una realtà virtuale e rarefatta. Ad accogliere gli ospiti, un manto di stelle su cielo notturno che a poco a poco evapora in un campo di grano mosso dal vento, con l'esplicito invito a tornare bambini. Il nostro spoiler finisce qui.

 

Il progetto e gli chef

A guidare ogni fine settimana questo viaggio per i soli 16 ospiti è stato chiamato “capitan” Massimo Viglietti (Enoteca Achilli al Parlamento), che fino a fine luglio andrà in scena con i suoi piatti (Discoverit – La prima di Viglietti), coadiuvato dalle assistenti-attrici e conduttrici Sara Ricci, Lorenza Veronica e Maria Vittoria Todeschini. “Tutto si svolge come un gioco” spiega lo chef-designer “È uno spettacolo dove ogni regola è messa in discussione e che punta all'aspetto emozionale, per portare il cliente al cospetto di una serata indimenticabile. Non ci sorprenderà, quindi, se il dolce viene servito direttamente sulla tavola, se una caffetteria finisce dentro un brodo o se una testa di gambero viene schiacciata su una mousse di coniglio. Per quel che mi riguarda è anche un modo diverso di interpretare il mio lavoro, a contatto con lo spettatore-cliente. Cosa che difficilmente noi chef riusciamo a fare, rinchiusi nel perimetro delle nostre cucine”.

C'è, poi, una interessante variazione sul tema: menu a quattro mani con la partecipazione, solo in alcune serate, di alcune guest star della cucina, come Stefano Marzetti (Ristorante Mirabelle dell'Hotel Splendide Royal), Giuseppe Di Iorio (Ristorante Aroma al Colosseo), Alessandro Narducci (Ristorante Acquolina) e Domenico Stile (Enoteca La Torre di Villa Laetizia).

Dopo fine luglio, avverrà, invece, il cambio della guardia, con il nuovo menu firmato Daniele Usai (ristorante Il Tino di Fiumicino).

 

La Prima di Viglietti. Il menu

Ma intanto la scena è tutta dello chef ligure, ormai naturalizzato romano. Sono, quindi, sue le scelte musicali, scenografiche e sopratutto quelle culinarie. Realizzate e pensate soprattutto per dare una summa della nostra cucina, a prova di palato estero, dove non mancano i must dell'italianità nel mondo, come la caprese (rivisitata e scomposta, con distillato di basilico a margine) o la cacio e pepe (reinterpretata, però, come secondo piatto). Il tutto abbinato a quattro temi che caratterizzano fortemente il made in Italy: moda, cinema, città d'arte e pittura.

Un esempio? Mentre sulle quattro pareti scorrono le immagini di Totò, Vittorio Gassman, Sofia Loren e Monica Vitti, accompagnate dalle note di Amarcord di Nino Rota, in tavola arriva un piatto a base di spinaci, gamberi e riduzione di Campari e arancia. Si continua, poi, con l'immancabile wine tasting che, di settimana in settimana vede l'alternarsi di diverse cantine. Partenza con Allegrini (il secondo round avrà come protagonista Frescobaldi) e i suoi vini che abbracciano quasi mezzo Stivale: Vermentino, Rosso di Montalcino, Valpolicella e Recioto.

 

La Grande Bellezza in tavola

Il resto del “viaggio” si snoda tra versi danteschi, giochi di prestigio, ospiti molto speciali, musiche di Pink Floid e Led Zeppelin, pitture di Arcimboldo e citazioni di pollockiana memoria nel piatto realizzate live dall'artista del mestolo Viglietti.

Si tratta di un progetto di food entertainment che si pone l’obiettivo di valorizzare gli chef, Roma e le eccellenze italiane che già ci contraddistinguono nel mondo” spiega l'ideatore del progetto Pier Paolo Roselli.

Un viaggio di tutta l'Italia dal Trecento ai giorni nostri, dove i confini tra raffinato e ampolloso sono molto labili, e dove si strizza l'occhio al gusto internazionale. Insomma, una Grande Bellezza servita in tavola (complice la location “a picco” su Roma): piacevole, a tratti pretenziosa, piena di effetti speciali ed onirica quanto basta. Da “vedere” almeno una volta nella vita.

 

A cura di Loredana Sottile

Apre Le Cattive di Tasca d’Almerita a Palermo. Vino, caffè e cucina per la rinascita di Palazzo Butera

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All’origine c’è il monumentale progetto di restauro avviato da Francesca e Massimo Valsecchi per ripristinare il fascino della residenza dei Principi di Butera, che presto diventerà spazio museale aperto al pubblico. E il sodalizio con Tasca d’Almerita garantirà ai visitatori di godere di una proposta enogastronomica di qualità all’interno del nuovo prestigioso polo culturale di Palermo.

 

La sinergia tra illuminati investimenti culturali e progetti gastronomici di ampio respiro sembra essere una chiave di lettura che finalmente, a rilento, comincia a farsi strada anche in Italia, dove in effetti, visto la specificità del nostro Paese, questo sodalizio dovrebbe essere pane quotidiano (ultimo, in ordine di tempo, il progetto della famiglia Cerasia Palazzo Merulana, Roma, ma il vero coup de theatre del 2018 ci porta a Firenze, in casa Gucci, con l’Osteria firmata Massimo Bottura). Specie quando si tratta di restituire alle città spazi altrimenti chiusi e destinati a essere dimenticati, e invece necessari per ritrovare quel gusto per la meraviglia che oggi rischiamo di smarrire. Palazzo Butera, a Palermo, è uno di questi luoghi straordinari, in una città che quest’anno detiene il ruolo di Capitale italiana della cultura come meglio sarebbe difficile immaginare. Città in fermento che riscopre il suo incredibile patrimonio, e vuole condividerlo con gli altri. La biennale itinerante di arte contemporanea Manifesta, che fino a novembre prossimo animerà 30 punti nevralgici di Palermo, è una buona occasione per scoprirlo con i propri occhi. E un’opportunità per curiosare tra spazi storici che hanno ancora molto da dire.

La rinascita di Palazzo Butera

All’ingresso del quartiere della Kalsa, affacciata sul mare con la terrazza che guarda sul porto e sulla Passeggiata delle Cattive, la residenza settecentesca della famiglia Branciforte (i Principi di Butera) prosperò nel corso del XVIII secolo fino ad assumere dimensioni monumentali, seconda per grandezza in città solo a palazzo Reale. Fu allora che una squadra di pittori e artisti di fama fu incaricata di decorare volte e pareti con scene figurative, quadrature architettoniche e trompe l’oeil. E di fatto il palazzo, rimasto tra le proprietà della famiglia Branciforte fino al 2015, ha finito per rappresentare, insieme all’adiacente Porta Felice, una quinta scenografica inconfondibile per chi entra in città lasciandosi il mare alle spalle. Fino a pochi giorni fa, però, l’edificio è rimasto chiuso al pubblico, e ora rivive grazie all’intervento dell’imprenditore e collezionista lombardo Massimo Valsecchi, che nel 2016 lo acquistava per sottoporlo a una ambiziosa operazione di restauro. L’obiettivo? Fare della residenza storica una galleria d’arte aperta al pubblico: uno spazio museale unico non solo per la bellezza del contenitore, ma pure per il pregio della collezione di Valsecchi e sua moglie Francesca, che riunisce opere di arte antica e contemporanea, allineando artisti da Annibale Carracci a Andy Warhol, reperti archeologici ed oggetti di design pop (e nonostante questo ha vagato a lungo prima di trovare una destinazione definitiva: è storia nota l’intenzione di donare la collezione al Mudec, mai andata in porto).

Le Cattive. Vino, caffè e cucina al museo

Ancora in corso, il restauro sarà completato solo il prossimo anno, ma in occasione di Manifesta il “cantiere” si svela per la prima volta, aderendo al circuito di allestimenti site specific della biennale. E quando il progetto affidato alla direzione dell’ingegnere Marco Giammona sarà terminato, lo spazio dispiegherà integralmente le sue immense potenzialità: 7mila metri quadri affacciati sul Foro Italico, un piano dedicato alle mostre, uno alla collezione permanente, un altro ancora alle residenze artistiche.

E pure un progetto di ristorazione museale che porta la firma di Tasca d’Almerita, promettendo grandi cose, e già alla fine di giugno entrerà in attività. Caffè, vino e cucina, con il profilo di uno spazio polifunzionale, Le Cattive (dal nome della Passeggiata che porta memoria del dolore delle vedove, le captivae, in cerca di discrezione) accompagnerà il risveglio di questo spazio dormiente destinato a diventare polo culturale simbolo per il rinascimento della città. E quindi il locale della famiglia siciliana del vino (oggi sono cinque le Tenute del gruppo, da Salina all’Etna, passando per l’isola di Mozia e la provincia palermitana, con Camporeale e il quartier generale di Regaleali) vivrà da mattina a sera, per la colazione, un pranzo veloce, un cocktail o un bicchiere di vino che racconti la Sicilia attraverso i suoi vitigni autoctoni. Del resto l’intera proposta gastronomica, affidata al giovane Daniele Olivastro (30 anni, palermitano, diplomato all'Alma e con trascorsi anche a Londra presso Heston Blumenthal, prima di tornare a Palermo per lavorare in noti ristoranti della città) si concentrerà sulla valorizzazione di un territorio e di una lunga tradizione locale che diventano fonte di ispirazione creativa, assecondando anche a tavola le velleità di uno spazio che vuole essere fucina di idee e luogo aperto al confronto. E allora l’artigianalità giocherà un ruolo fondamentale, con la selezione accurata di materie prime dell’isola e la ricerca storica sulle ricette del passato, dalla cucina di casa dei Monsù alle pietanze contadine dell’entroterra, all’ispirazione in arrivo dal mare.

All'ingresso il bancone del bar, a destra la sala del ristorante, a sinistra i tavolini per il caffè, in fondo la cantina. Il pezzo forte sarà però il dehors lungo la Passeggiata delle Cattive, dove già sta prendendo forma un orto di erbe aromatiche. Così, questo palazzo, nato concettualmente per chiudere la vista del mare alla città di Palermo, ruota in qualche misura su se stesso e torna a guardare al mar Tirreno, non più a voltargli le spalle. Non a caso l'ingresso principale del ristorante è sulla passeggiata, di nuovo restituita al pubblico, e non dal cortile del palazzo.

Di grandi dimensioni le cucine, già pensate non solo per soddisfare le necessità del ristorante, ma anche per rispondere alle esigenze di eventi e banchetti del museo. Quotidianamente, invece, il locale - soto la direzione di Luigi Pavesi, in arrivo dal Capofaro Malvasia&Resort di Tasca d'Almerita - seguirà gli orari di apertura del museo, a partire dalle 10, con la possibilità di ospitare in futuro anche degustazioni e lezioni di cucina.

Intanto, per tutta l’estate e fino alla chiusura di Manifesta, Tasca d’Almerita sarà partner della manifestazione con i suoi aperitivi per la mente: Cogito è il nome del ciclo itinerante di incontri all’ora dell’aperitivo nato da un’idea di Francesca e Alberto Tasca d’Almerita. E il prossimo 22 giugno avrà luogo proprio a Palazzo Butera, in compagnia di Massimo Valsecchi. In attesa di poter finalmente godere a pieno dello spazio quando i lavori saranno conclusi.

 

a cura di Livia Montagnoli

In viaggio. L’Arcipelago Toscano tra vino, natura, mare e chef

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Da Montecristo a Pianosa, da Giannutri all’Elba, nel numero di giugno del Gambero Rosso andiamo in viaggio tra la natura e il mare. Qui un'anticipazione.

 

È in estate che viene la voglia di tornare nell’Arcipelago Toscano: il profumo, la vista, il sole, sono elementi di fascino diretto, un colpo benefico al cuore e al sentimento. E tutte le isole hanno questo potere. Se poi ce ne sono più di una vicina all’altra, prende la voglia di visitarle tutte, per poi scegliere il proprio luogo d’elezione, la preferita dove eleggere il buen retiro, quella da cui non staccarsi, quasi fosse un tradimento divertirsi in altro luogo. Da Montecristo a Pianosa, da Giannutri all’Elba: vacanze tra natura e mare, fuori dal mondo ma proprio dietro l’angolo

L’Arcipelago Toscano

L’Arcipelago Toscano è strano: bello ma difficile da decifrare, con isole a lungo sedi di colonie penali e solo recentemente aperte al pubblico; altre abitate da sempre, ma tutte ricche di bellezza intensa e da scoprire per angoli rimasti nascosti a lungo. Pianosa, già il nome lo dice, è praticamente un disco piatto, che deve la sua fortuna naturalistica al fatto di essere stata colonia penale fino a 7 anni fa e con un turismo gestito con attenzione e misura. Albergo sovrainteso da detenuti in semilibertà, visite limitate: sembra un buon modo per abituare le persone a guadagnarsi la bellezza. Montecristo è l’isola che ancora oggi fa sognare, entrata nell’immaginario collettivo per essere quasi inaccessibile: un paradiso terrestre grazie a visite contingentate, essendo riserva naturale. In molti aspirerebbero a vivere al suo interno facendone i guardiani pur di rimanere isolati dal mondo, ma non è certo un lavoro per tutti. Giannutri, la più meridionale di queste isole, microscopica anche come numero di abitanti, si anima solamente nel periodo estivo, sarebbe forse il luogo ideale per uno scrittore in cerca di ispirazione. Ma tutte queste isole minori sono proprio isole in senso stretto e da un punto di vista economico le attività sono limitatissime se si escludono quelle legate al turismo: i visitatori le scelgono per la loro particolarità, e non è certo il settore enogastronomico a poter crescere e far da attrattore, visto che in realtà gioca solo un aspetto di “sussistenza” per chi vi transita.

PianosaPianosa

Ben diverso è invece il ruolo che hanno acquistato negli anni i produttori di vino e generi alimentari dell’isola d’Elba, di gran lunga la più grande e celebre di tutte, meta di un turismo di massa, dove si è assistito ad un vero e proprio sviluppo di attività economiche legate al settore agroalimentare, con un innalzamento della qualità non indifferente negli ultimi tempi. Stesso discorso per l’isola del Giglio che, dopo aver vissuto il suo macabro momento di celebrità legato al relitto della Concordia, oggi è un luogo del quale si parla molto per sua la rinascita viti-vinicola. Non rimane fuori da questo trend nemmeno Capraia, con una produzione enologica finalmente rintracciabile anche oltre il perimetro isolano: qui è da raccontare l’esperienza dei carcerati della Gorgona diventati vignaioli e produttori di formaggio, grazie a un’iniziativa nata dalla mente eclettica della direttrice del carcere di Volterra, Maria Grazia Giampiccolo, che coinvolse nell’iniziativa niente meno che Lamberto Frescobaldi.

Calanche in Toscana

La questione dell’Aleatico

L’Elba deve la sua fama al vitigno aleatico, croce e delizia dell'isola: in questa frase si consuma la querelle del vino-simbolo di questa terra in mezzo al mare che ha dovuto scontare la sua fama e il suo successo con le mille copie, mal riuscite, che ne hanno offuscato in parte la bella immagine. Approfittando, infatti, di una legislazione a dir poco permissiva, nel passato molti imbottigliatori hanno strumentalizzato il buon nome che aveva questo vino dolce per mettere in commercio un prodotto liquoroso che di Aleatico aveva solo la denominazione. Magari stampando in etichetta lo stemma di Napoleone, che da queste parti non guasta mai. La nascita della Doc Elba è stata salutare e i produttori si sono dovuti scontrare con pregiudizi piuttosto grossi da parte dei consumatori sulla qualità del vino isolano e sui suoi prezzi. Senza contare che, per fare un buon lavoro, sono stati cambiati in molti casi i sistemi di allevamento della vite, piuttosto antiquati e non certo rispondenti ai moderni criteri di qualità.

Uve di aleatico

L'appassimento all'aria dell'Aleatico

Da un punto di vista storico, da queste parti la coltivazione della vite ha sempre avuto un grande successo, con superfici vitate considerevoli. È del 1879 una monografia agraria sull'Elba che stigmatizza il comportamento dei coltivatori i quali, di fronte all'abbondanza di tanta buona materia prima, non adottavano dei giusti sistemi di vinificazione non traendo, in questo modo, un giusto profitto per il lavoro svolto. La tendenza era quella di non voler accettare consigli, lavorare seguendo criteri strettamente personali e senza mai mettere in discussione pratiche agronomiche adottate per anni. Il problema principale derivante dalla produzione di Aleatico “vero” era il suo costo, che risultava alto se paragonato ai vini liquorosi commercializzati sotto lo stesso nome. Nella realtà, il prezzo è proporzionato ai costi di produzione derivanti dall'appassimento e dalla conseguente bassa resa. L'appassimento all'aria, che dura almeno una settimana, è la nota dolente di alcune annate: malgrado l'accurata selezione degli acini freschi, risulta facilissimo in periodi piovosi far ammuffire tutto con risultati negativi irrimediabili. A livello colturale, è interessante notare come i biotipi di Aleatico dell'isola non abbiano avuto interferenze con cloni o altri biotipi esterni: questo grazie alla pratica tradizionale dell'innesto in campo utilizzando materiale proveniente, seppur da altre aziende, sempre dall'isola. Per la vinificazione (rischi di ammuffimento a parte) si è adottato un sistema nuovo per l'appassimento delle uve: non più cannicciati esposti al sole, che di notte dovevano essere coperti da teli per proteggerli dalla rugiada, ma speciali contenitori trasparenti con circolazione dell'aria per una migliore protezione e conseguente riduzione di lavoro manuale. La pigiatura viene effettuata in maniera soffice, fermentazione tumultuosa di 5-10 giorni, che prosegue poi tutto l'inverno e che a volte si blocca per poi riprendere in primavera. Per imbottigliare spesso non basta attendere primavera poiché è alto il rischio di rifermentazione in bottiglia, così alcune aziende aspettano che il vino sia completamente stabilizzato. Quello che si ottiene alla fine è un vino passito atipico, a volte con sensazioni lievemente astringenti, sicuramente unico.

 

a cura di Leonardo Romanelli

foto di Alessandro Beneforti

 

 

QUESTO È NULLA...

Nel numero di giugno del Gambero Rosso, un'edizione rinnovata in questi giorni in edicola, trovate il racconto completo con un focus sulla viticoltura estrema del Giglio. Un servizio di 9 pagine che comprende le specialità da non perdere nell'isola del Giglio e nell'isola d'Elba (qui c'è anche la rete dei produttori di qualità Elbataste), il punto di vista del sindaco di Marciana Marina Gabriella Allori e quello di Fabio Picchi, chef del Cibreo di Firenze. In più gli indirizzi dove mangiare nell'Arcipelago Toscano e i vini del territorio.

Il numero lo potete trovare in edicola o in versione digitale, su App Store o Play Store

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Imbottigliare il vino con vetro leggero conviene?

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Quanta CO2 si può risparmiare usando una bottiglia per il vino alleggerita? Abbiamo fatto qualche calcolo e abbiamo scoperto che sostenibilità economica e ambientale spesso coincidono. Ma non sempre il mercato premia questa scelta ...

 

Quanto “pesa il peso” di una bottiglia di vino sull'ambiente? Il calcolo è presto fatto. Per ogni chilogrammo di vetro prodotto, il consumo energetico calcolato è compreso tra 12 e 15 mj (mega joule), equivalenti ad un emissione di circa 2,7 chilogrammi di CO2. Quindi, ogni kg di vetro vale 2,7 kg di CO2 (dati BanfiVines). Non sembrerà strano, quindi, che sempre più cantine stiano optando per l'utilizzo di vetro più leggero, che consente di ridurre l'impiego di materie prime, le emissioni di ossidi d'azoto e anidrite solforosa e i costi legati ai trasporti.

Una tendenza iniziata già da qualche anno, come rileva Cantini Vetro Srl, che da oltre 60 anni lavora nel settore e rifornisce di bottiglie 1500 cantine in tutta Italia: “Sostanzialmente la tipologia di bottiglia che va per la maggiore è quella da 410 g (per 75 cl), in un intervallo di scelta compreso tra 1,2 Kg e 360 grammi” dice al Gambero Rosso il titolare Pietro Cantini “Lavorando da sempre a stretto contatto con le aziende, possiamo affermare che l'alleggerimento è un trend che si è affermato soprattutto negli ultimi cinque anni, insieme al boom delle cantine eco-friendly”.

La sostenibilità economica

Ma ad onor del vero, va detto, che non è solo una questione ambientale: ad incidere c'è anche il costo finale che, va da sé, varia in base al peso. "Da una parte c'è il concetto ecologico" conferma Cantini "dall'altro quello non meno importante del portafoglio. Si consideri che il prezzo di una bottiglia in media va da 13 centesimi fino a un euro per i formati più pesanti. Pensiamo a un grosso imbottigliatore che, invece, di 14-15 centesimi a bottiglia, ne paga 13. Sembrerebbe un piccolo risparmio, ma moltiplicato per un milione di bottiglie fa 10 mila euro in meno. Che non sono pochi. E la stessa cosa, con margini più ridotti, vale per le cantine. Dal latro vetreria, poi, si abbattono notevolmente i costi di produzione. Basti considerare che, su una bottiglia con dimensione standard da 0,75 cl, abbassando del 10% il peso, con lo stesso consumo di energia, si guadagna una bottiglia in più ogni 8”. Seguendo questa tendenza, Cantini – senza rinunciare alle bottiglie pesanti – ha incrementato questo segmento: oggi le bottiglie alleggerite rappresentano quasi il 70% delle sue vendite.

L'esempio Banfi Vines

Ha fatto i suoi conti anche Banfi Vines, che può essere considerato un precursore di questo cammino, intrapreso nel 2008, quando ha iniziato a sostituire le bottiglie da 570 grammi con quelle da 400, arrivando oggi a “convertire” circa il 75% dell'imbottigliato. Una scelta che, oltre a far risparmiare circa 200 grammi di materie prime vergini a bottiglia ed emissioni di CO2, ha anche un risvolto economico non indifferente: “Gli incentivi pubblici mirati all'uso di fonti rinnovabili vengono compensati mediamente a 0,1 euro per mega joule e ciò corrisponderebbe a 0,255 euro a bottiglia, ovvero 255 mila euro per un milione di bottiglie”.

L'industria del vetro si adatta

Dal canto suo, anche Assovetro (l'Associazione Nazionale degli Industriali del Vetro) non può non assecondare questa richiesta:"L'industria del vetro” ha spiegato il presidente della sezione contenitori in vetro di Assovetro, Marco Ravasista lavorando ad alleggerire i contenitori, a parità di resistenza, per ridurre i consumi energetici e le emissioni ambientali". L'aumento dei costi energetici è, infatti, uno dei tasselli che incide maggiormente sui conti economici dell'industria del vetro, che oggi vale 1,5 miliardi di euro. A cui si aggiunge la mancanza di materia prima che, secondo la stessa Assovetro, potrebbe portare a breve termine a un aumento dei prezzi. Insomma, tutte le strade portano nella stessa direzione: leggero conviene. Ma cosa ne pensano i mercati?

La risposta dei mercati

Sul fronte consumi ed export, vale la regola di “mercato che vai, usanze che trovi”. Ci sono Paesi dove il peso conta ancora tanto, altri dove l'uso di bottiglie poco pesanti non solo è un valore aggiunto, ma in alcun casi è addirittura una condicio sine qua non. “È il caso di quei Paesi particolarmente attenti all'ambiente” ci spiegano da Banfi “come la Svezia con il monopolio Systembolagetoil Canada con la SAQ (il monopolio del Quebec; ndr). In particolare, si pensi che nell'Ontario le bottiglie dei vini sotto i 15 dollari devono obbligatoriamente pesare meno di 420 g. E in futuro questa regola sarà applicato anche a vini di valore superiore”.

Spostandoci dall'altra parte del mondo, però, le cose possono radicalmente cambiare e spesso è ancora l'abito a fare il monaco, come ricorda l'azienda Cantini: “Nei Paesi asiatici, ad esempio, spesso il vino è considerato di alto livello in base al peso della sua bottiglia, per cui molte cantine-clienti nella loro scelta tengono conto anche di questo”.

Lo conferma anche Michele Manelli di Cantina Salcheto (la prima cantina vinicola italiana completamente off grid), che rivela come “nei Paesi emergenti, Cina in testa, la prima cosa che il cliente fa, prima di acquistare una bottiglia, è soppesarla. Ma per fortuna” aggiunge “in tanti anni di esperienza, posso dire che le cose cambiano velocemente”.

Pesante è più bello?

E in Italia a che punto siamo? “Dipende” continua Cantini “Di solito si tende ad usare le bottiglie più leggere per vini bianchi o comunque non da invecchiamento. Per le grandi riserve si continuano, invece, a scegliere bottiglie più pesanti. E c'è anche un motivo estetico: con il vetro leggero si possono ottenere sole delle forme lineari, compreso il fondo della bottiglia che tende ad essere piatto. Chi, invece, vuole personalizzare la bottiglia e avere la picura, allora opta per soluzioni più pesanti e, quindi più, costose”.

Manelli ci tiene, però, a precisare che non necessariamente per essere ecologici bisogna fare delle rinunce: “Porto il mio esempio: Salcheto propone un packaging ecologico ma, credo, altrettanto bello. Rimango, dunque, fermamente convinto, così come dimostrano i tanti studi di marketing al riguardo, che il lato etico-sociale non deve essere un trade-off con la competitività più classica del prodotto, bensì un valore aggiunto. Grazie alle moderne tecnologie, il minor peso non è assolutamente un handicap nel permettere alla bottiglia di reggere lunghi affinamenti, sia in quanto il vetro è 'scuro' a sufficienza, sia in particolare per la resistenza, anche se sovrapposto”.

Per Banfi Vines, enologicamente non ci evidenzierebbero dislivelli evidenti tra una bottiglia leggera e una pesante: “L'unica differenza che possiamo riscontrare è quella della resistenza, tenendo conto della fase di affinamento è soggetta a numerosi spostamenti e maneggiamenti. Ma non condividiamo la filosofia per cui leggerezza sia sinonimo di vini poco prestigiosi, freschi e di pronta beva. Tant'è che tendiamo a usare bottiglie più leggere anche per i vini a lungo invecchiamento”.

Il punto di vista dell'agronomo

Non si discosta dal ragionamento Banfi e Salcheto, il parere dell'agronomo Marco Tonni, che insieme a Sata-Studio agronomico si occupa da anni di sostenibilità e calcolo dell'impronta carbonica. “Purtroppo quello della bottiglia alleggerita è un tema che difficilmente viene messo in primo piano” dice Tonni a Tre Bicchieri “ma più per motivi estetici che qualitativi. Ormai, infatti, si tratta di bottiglie ben testate che garantiscono la stessa sicurezza di quelle pesanti.Non vedo controindicazione particolari, né per i vini da invecchiamento né per le bollicine, sebbene queste esercitino una pressione maggiore sulla bottiglia”. Tant'è che Tonni ha seguito in prima persona il progetto di sostenibilità del Consorzio della Franciacorta, dove molte aziende hanno deciso di optare per soluzioni più leggere. “D'altronde” ricorda l'agronomo “l'impatto ambientale del packaging è quello con le percentuali più alte: dal 40% al 69% delle emissioni prodotte dalle cantine, con almeno la metà legate al vetro”.

Ma se è così alto il suo impatto - ambientale ed economico - come mai se ne parla ancora così poco? “È tutta una questione di marketing, mode e peso del consumatore nelle scelte aziendali” conclude Tonni “ci vorrebbe un'altra campagna mediatica simile a quella dell'olio di palma, per spingere sempre più cantine a cambiare rotta. Il ragionamento è semplice: una bottiglia più spessa e imponetene si presenta indubbiamente meglio sullo scaffale agli occhi di chi deve acquistarla. Se, quindi, i grandi nomi possono permettersi di puntare più sul nome che sul packaging, le piccole e meno conosciute cercano di esaltare il prodotto come possono. A partire dal peso”. È il mercato, bellezza.

Lo standard Equalitas

L'importanza ambientale dell'argomento vetro, non poteva non coinvolgere chi si occupa in modo diretto di sostenibilità. Com'è il caso di Equalitas, il cui standard SOPD fa riferimento alle cosiddette bottiglie alleggerite pur tenendo conto degli svariati obiettivi enologici possibili, come spiega il direttore Stefano Stefanucci: “Nel protocollo del progetto a guida Federdoc non si fissa dunque un limite numerico uguale per tutti, ma si richiede ai manager della cantina di porsi il problema del peso, contestualizzandolo nel più ampio equilibrio tra le garanzie di qualità e sicurezza del prodotto e la necessità di limitare l’impatto in termini di risorse”.

Il requisito 5.3.2.1 (M) recita, infatti: “L’organizzazione definisce i criteri con cui effettua la scelta dell’utilizzo/riutilizzo della tipologia di packaging considerando la capacità di preservare nel tempo le caratteristiche qualitative del prodotto anche in funzione della sua destinazione d’uso e modalità di vendita”.

A chi aderisce” continua Stefanucci “viene, quindi, chiesto di descrivere le motivazioni alla base delle scelte della tipologia di packaging non solo da un punto di vista tecnologico e di prestazione, ma anche di nuovi criteri quali richieste commerciali di alcuni clienti o preferenze di consumatori in alcuni paesi di destinazione o modalità di uso del left over, o per scelte di marketing strategico. In pratica, si tratta di “spiegare” il motivo dell’uso del packaging, perché se non sufficientemente motivato potrebbe essere sostituito in funzione di criteri di sostenibilità più impattanti. Con cadenza almeno annuale, l'organizzazione verifica le scelte dell’utilizzo/riutilizzo della tipologia di packaging, per individuare quelli che minimizzano i consumi”.

 

a cura di Loredana Sottile

 

Questo articolo è uscito sul nostro settimanale Tre Bicchieri del 14 giugno

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Five Guys apre a Milano. Il celebre e amatissimo fast food statunitense alla conquista dell'Italia

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In America così come nel Regno Unito, Five Guys non ha bisogno di molte presentazioni: si tratta di uno dei fast food più amati dal pubblico, basato sull'offerta classica di hamburger e patatine, ma preparati con soli ingredienti freschi. Un colosso che a breve arriverà anche a Milano, prima tappa di una serie di aperture italiane. 

 

Dagli Stati Uniti a Milano

Di nuove aperture, fermento gastronomico, sorprese made in Italy e straniere per Milano, ormai, è anche superfluo parlarne. Una città abituata a vedere nascere, trasformarsi, migrare ed espandersi i format di ristorazione più disparati, scenario di ghiotte novità che hanno diviso nettamente il popolo in due, favorevoli e contrari, grandi arrivi che promettono di stravolgere il panorama cittadino e nazionale. Come quello di Starbucks in piazza Cordusio, apertura tanto attesa quanto temuta, prevista per settembre 2018. Intanto, nel mese di luglio approda ancora una volta nel cuore della città, al numero 37 di Corso Vittorio Emanuele, un altro colosso stelle e strisce, un brand che ha fatto la storia della ristorazione veloce negli Stati Uniti e non solo e che – ne siamo certi – non tarderà a conquistare il pubblico meneghino.

Five Guys

È Five Guys Burgers and Fries, catena statunitense di fast food, tutta hamburger, hot dogs e patatine fritte con sede a Lorton, Virginia, e che oltre alle tante location americane, conta oggi ben 27 punti sparsi in tutto il Regno Unito, per un totale di oltre 1500 ristoranti nel mondo. Un marchio nato nell'86 per idea della coppia Janie e JerryMurrell e iniziato a espandersi a partire dal 2001, con più di 1000 locali aperti fra Stati Uniti e Canada. Janie, Jerry e i figli Jim, Matt, Chad: sono questi gli originali “five guys”, i cinque ragazzi che hanno dato vita a un impero in continua espansione, approdato per la prima volta in Europa nel 2013, con l'apertura a Londra, e poi nella primavera 2017 a Parigi, all'interno del Parco divertimenti Disneyland e al lato est degli Champs Élysées, e ancora Germania alla fine del 2017, con una sede a Francoforte e una a Essen. Un brand d'eccezione la cui storia è costellata di successi e che nel 2012 era stato eletto da Forbes come marchio di fast food maggiormente in crescita negli Stati Uniti.

Fast food, sì, perché riprende tutti i canoni della ristorazione veloce: piatti semplici, sostanziosi e serviti in pochi minuti, l'ideale per sopperire ai tempi troppo brevi delle pause pranzo. Ma di qualità superiore rispetto alla media degli altri grandi nomi delle multinazionali più note: niente prodotti surgelati, semi-preparati, cibi precotti o pronti, ma solo ingredienti freschi e piatti preparati al momento.

L'apertura a Milano

Tipiche specialità stelle e strisce, hamburger succulenti in primis, che presto arriveranno anche a Milano, zona San Babila, negli spazi che prima ospitavano il negozio di abbigliamento di Massimo Dutti, non lontano dallo storico McDonald's di piazza del Duomo. I lavori sono già iniziati lo scorso maggio e l'apertura è prevista per le prime settimane di luglio, che inaugureranno un'estate all'insegna del gusto made in USA. Rivali da sempre, eterni nemici nel mondo del fast, nella sfida fra McDonald's e Five Guys gli italiani non hanno dubbi: sono i panini “preparati solo con carne macinata fresca”, come recita il sito, ad avere la meglio sugli hamburger del McDonald's. Sarà per la varietà più ampia dell'offerta, per le dimensioni delle “polpette” e le farciture generose, per l'abbinamento con le patatine croccanti e spesse o per la semplice voglia di novità, fatto sta che il pubblico italiano è già pronto ad accogliere con entusiasmo il nuovo locale.

Il responso dei cittadini

Molto attivo sui social, Five Guys ha già dato la notizia sulla pagina Facebook, dove la risposta dei consumatori è stata repentina e positiva: c'è chi parla di “miracolo in Italia”, che descrive i panini come “i migliori del mondo”. Un dato è certo: quella di San Babila è solo la prima di una serie di aperture previste nella Penisola. Si parla già, infatti, di un punto all'interno del faraonico Westfield Milano, il centro commerciale di lusso che aprirà a Segrate nel 2020, e poi Roma, che vedrà la nascita del fast food proprio nel cuore della Città Eterna. Nel frattempo, attendiamo il riscontro del pubblico meneghino, già chiamato a raccolta per eventuali assunzioni: a gestire il reclutamento del personale, la società di consulenza italiana Improvia, che ha aperto le selezioni sul sito online della catena. Un ulteriore esempio della capacità della buona imprenditoria della ristorazione di generare posti di lavoro e contribuire allo sviluppo della città.

Five Guys – Milano – corso Vittorio Emanuele, 37 – da luglio 2018 - www.facebook.com/fiveguys/

85 anni di Cantina San Donaci. La festa nel Salento con la Città del gusto Lecce

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Festeggia gli 85 anni di attività la San Donaci, punto di riferimento nel Salento per la viticoltura di qualità. Per celebrare l'anniversario, con il supporto della Città del gusto Lecce, l'azienda ha scelto di organizzare un evento per sabato 30 giugno e domenica 1 luglio, con degustazioni, convegni e dibattiti. 

 

La cantina

La storia della Cantina San Donaci nasce nel 1933 nell'agro salentino. Allora furono in 12 a credere nella crescita di un territorio che sull'economia vinicola avrebbe fondato parte della sua fama: 12 soci fondatori e un'idea imprenditoriale maturata nel tempo, che oggi riunisce circa 300 soci fautori di un'attività cooperativa che incamera un quantitativo di uve variabili tra i 25mila e 30mila quintali l'anno. Nel frattempo l'azienda si è evoluta, seguendo la strada di un costante ammodernamento strutturale e tecnologico, con lamacerazione in vinificatori automatici a sommersione di cappello in acciaio, il controllo della temperatura di fermentazione, le presse soffici.

L'ultimo passaggio, però, quello capace più di ogni altro di affinare i profumi esaltando le qualità organolettiche delle uve, è l'invecchiamento in botti di rovere. Questo lavoro, insieme al controllo rigoroso delle uve conferite, ha fatto della Cantina una delle realtà di riferimento per la storia agricola del Salice Salentino, dove l'azienda possiede circa 320 ettari, con una varietà di terreni e microclima, in vigneti coltivati su terrazzamenti calcareo-argillosi, ad alberello o spalliera. Le uve sono quelle autoctone del territorio: Negroamaro, Primitivo e Malvasia Nera, con quantità minori di altre varietà. Una lunga storia cooperativa di valorizzazione del territorio salentino e della sua gente, che quest'anno festeggia gli 85 anni di attività.

L'evento

Un traguardo significativo, che verrà celebrato sabato 30 giugno e domenica 1 luglio con un grande evento in cantina dedicato a tutti i soci, i clienti, ma anche gli eno-appassionati più affezionati: una festa del vino che si propone di promuovere le tante etichette dell'azienda attraverso seminari, degustazioni guidate e laboratori. Il sabato è il giorno dedicato agli interventi da parte degli esperti e dei soci fondatori, che ripercorreranno la storia della cantina dalle origini a oggi. Un evento su invito, a numero chiuso, che comincia con il convegno d'apertura delle 17,30, “un momento di riflessione sul profondo legame con il territorio e la centralità di Cantina San Donaci nel campo dell'enologia locale”, spiega Francesca Pagano, responsabile Città del gusto Lecce insieme a Fiorella Perrone, che ha scelto di supportare la manifestazione.

Ci sarà poi un video realizzato per l'occasione, con la partecipazione dell'Università di Bari e l'Università del Salento, che mostrerà il percorso dell'azienda e i tanti progetti messi a punto negli anni”. A seguire, poi, tanti golosi assaggi: di vino, naturalmente, ma anche di specialità tipiche, da gustare in abbinamento alle diverse etichette, per scoprire nuovi accostamenti e contrasti di gusti e sapori. Con musica dal vivo a fare da sottofondo per questa esperienza sensoriale a 360 gradi. Ma non finisce qui: la festa prosegue anche domenica, aprendo le porte al pubblico, ancora una volta con degustazioni guidate accompagnate da tanta buona musica.

Cantina San Donaci – San Donaci (BR) – 30 giugno – 1 luglio 2018 - www.facebook.com/events/141870833339541/


 

 

E in Sardegna esordisce la Carta dei pani. L'idea dei Panifici Calabrò di Sant'Antioco

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È una storia centenaria quella del laboratorio di panificazione della famiglia Calabrò, oggi alla quarta generazione sull'isola di Sant'Antioco. Da un paio di settimane il locale storico si è rifatto il look e vive da mattina a sera, come caffetteria, dispensa, bistrot, cocktail bar. La novità più originale? La Carta dei pani ideata da Alessandra Guigoni. 

La storia di un panificio centenario

Si può essere custodi di una lunga storia e al tempo stesso dare vita a uno spazio completamente aperto al futuro, cavalcando il cambiamento delle abitudini di consumo? Il caso di Calabrò lo dimostra: nato come primo panificio meccanico dell'isola di Sant'Antioco all'inizio del Novecento, il marchio ha saputo evolversi fino ai giorni nostri, senza perdere quell'attaccamento alle radici che nella Sardegna delle mille e più tipologie di pani tradizionali è decisamente affar serio. Dunque tutto cominciava grazie all'intuizione di Giovanni Calabrò, che all'epoca inaugurava un laboratorio dove il pane veniva prodotto con l'ausilio di macchine, mentre al negozio sua moglie Antioca si occupava di venderlo già tagliato a fette. Le ricette però sono rimaste sempre quelle della tradizione locale, come le materie prime selezionate con scrupolo sul territorio: la semola di grano duro da colture sarde, le mandorle locali utilizzate per i dolci tipici, il lievito madre (su frammentu) curato ogni giorno in laboratorio. Di generazione in generazione, la storia del panificio ha condotto fino all'ultimo ambizioso restyling degli spazi destinati alla vendita, appena qualche settimana fa, e sempre sotto la guida della famiglia Calabrò, alla sua terza generazione con le sorelle Marina e Dolores, e la figlia di Marina, Elena Cherri, che a 25 anni appena già dirige il locale.

 

La Carta dei pani

E nel progetto di rinnovamento dei Panifici Calabrò - come recita oggi l'insegna  facendo riferimento al locale nel centro della città, in corso Vittorio Emanuele, che aggiunge pure il sottotitolo bistrot e dispensa, e agli altri 3 punti vendita inaugurati nel tempo – trova spazio anche un'iniziativa singolare, sviluppata in collaborazione con l'antropologa Alessandra Guigoni per valorizzare ulteriormente il cuore dell'attività: la produzione di pane. Quello che un tempo era solo un panificio, infatti, col tempo ha finito per diventare punto di ritrovo aperto per tutta la giornata, dalla colazione al dopocena,  passando per il pranzo e l'aperitivo. E però non ha perso per strada la sua vocazione, continuando a tramandare le ricette della panificazione più tipica dell'isola e della regione. Ecco perché, d'ora in avanti, ai clienti sarà presentata anche una Carta dei pani – così come si fa per il vino, le birre, e negli ultimi anni anche per l'acqua e l'olio – con la lista delle proposte disponibili abbinate a prodotti del territorio secondo stagionalità. Un'idea originale e concreta, che diventa insieme manifesto e documento della storia centenaria del panificio, ma anche tramite per condurre chi mangia alla scoperta dei sapori dell'isola.

 

Il nuovo locale. Cosa si mangia

Nel ripensare la proposta gastronomica, tra l'altro, la proprietà ha coinvolto anche Gabriele Valdes per la formazione delle maestranze sulla pizza in teglia, la cuoca Chiara Cogotti  a firmare il nuovo menu, il bartender Antonio Varotto, ideatore del signature cocktail Sulky Tonic. Mentre il design dei nuovi spazi si deve all'architetto Antioco Angelo Marongiu, sotto la supervisione dello studio Beltrame di Milano. Ma ad attirare lo sguardo, all'interno del locale, sono soprattutto i due arazzi con disegni tipici di Sant'Antioco realizzati dalle tessitrici Assuntina e Giuseppina Pes. Dunque quali sono i pani protagonisti sul menu? Si spazia tra coccoi e civraxiu, carasau e pane di semola di grano Khorasan, presentati in accostamenti stimolanti. Per il menu d'esordio, per esempio, i culurgiones ripieni di melanzane e ricotta gentile con crema di pomodoro ed estratto al basilico vengoni proposti col pane di semola di grano Khorasan, mentre la mousse di ricotta con pere ingloba croccanti scaglie di pane carasau caramellato. Ma il pane la fa da padrone per tutta la giornata (pure in vendita al dettaglio, perché la tradizione resta): a colazione con miele e marmellata, condito con pomodoro, basilico e aglio (pani cun tamatiga) per uno spuntino goloso, d'accompagnamento per il super tagliere sociale con formaggi e salumi per l'aperitivo... La carta dei pani, infatti, sarà disponibile dalle 6.30 del mattino alla mezzanotte, esposta nel locale come un libro da sfogliare per i clienti.

 

Panifici Calabrò - Sant'Antioco - corso Vittorio Emanuele, 138 - www.panificicalabro.it

 

a cura di Livia Montagnoli

 

Lambrusco metodo ancestrale. Alle origini delle fermentazioni in bottiglia

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A lungo maltrattato e considerato come un vino di second'ordine, il Lambrusco ha oggi costruito una sua dignità. Nel numero di giugno del Gambero Rosso abbiamo raccontato tutta la storia, intervistando i diretti interessati; qui vi regaliamo un assaggio.

 

Mai ritorno alle origini fu più azzeccato. Nel Lambrusco, alla gioia delle bollicine s’aggiunge l’emozione di un sorso fresco e di sapore antico, ancor più se realizzato con il metodo ancestrale, quello alla base di tutte le rifermentazioni in bottiglia. Così, in questa terra sanguigna e amante del piacere, il percorso produttivo aderisce in pieno allo spirito del luogo. Con bei risultati, sicuramente lontani da standard od omologazioni.

Il segreto del Lambrusco

Accadeva così, spontaneamente: l’inverno scemava, le giornate allungavano e il termometro saliva, certe bestiole abbandonavano il letargo e certi lieviti si ridestavano nelle bottiglie; in quattro e quattr’otto il vino, come per miracolo, diventava brioso e frizzante, acquisendo la sua magica spuma. In fondo il segreto del Lambrusco era tutto qui: imbottigliare con gli zuccheri non totalmente fermentati, legare il tappo con lo spago affinché non saltasse e lasciare che la natura facesse il suo corso. Per poi abbandonarsi al sorso secco e fruttato, talvolta scorbutico, sghembo, sempre diverso dal precedente ma comunque festoso, avvolgente; magari adeguarsi a un residuo eccessivo sul fondo, sopportare lo schianto di qualche bottiglia che cedeva alla pressione e ritinteggiava le pareti...

Il metodo ancestrale

Si era nel Modenese o comunque in Emilia, al più a Mantova, eppure fratelli del Prosecco, cugini dello Champagne. Si era qui, contadini innamorati della buona tavola, tortellini e zampone, Parmigiano e borlenghi e una vitis vinifera che veniva da lontano, citata da Virgilio e Plinio il Vecchio e quindi raccontata da Andrea Bacci, botanico nonché medico di papa Sisto V: “Sulle colline di fronte alla città di Modena si coltivano lambrusche, uve rosse, che danno vini speziati, odorosi, spumeggianti per auree bollicine, qualora si versino nei bicchieri”. Era tutto naturale, più o meno pacifico e più o meno ben fatto. Poi arrivarono le autoclavi del metodo Martinotti-Charmat, guai demonizzarle, il successo di certo cooperativismo e di milioni di bottiglie che colonizzarono gli Stati Uniti, il mondo, con un Lambrusco che sapeva farsi più affabile e beverino, talvolta scadendo nella bibita gassata; la novella che varie volte ci siamo sentiti raccontare, che divide e allo stesso tempo unisce e ferisce un territorio, nonché il lavoro di intere generazioni. Eppure c’è chi non ha mai smarrito la bussola, chi non ha cessato le pratiche ancestrali e affina il metodo della rifermentazione in bottiglia, o addirittura spumantizza con tanto di sboccatura e aggiunta di liqueur, andando ben oltre un “ideale abbinamento con i piatti tipici locali”.

Bottiglie di lambrusco

Le uve son sempre quelle, o perlomeno le famiglie: sui colli di Castelvetro trova culla il Grasparossa (e la sua Doc), una varietà scura e fruttata, rotonda che vien da dire larga, fragrante, così lontana dal Sorbara della pianura, che letteratura vuole problematica fin dall’impollinazione (tradizionalmente ogni due filari se ne alterna uno di Salamino, il terzo vitigno storico); chiara, quasi trasparente nel bicchiere, acidula e scontrosa, è la regina di zona nonché la predestinata per chi punta all’eleganza, al sorso affilato e teso. La storia del Lambrusco passa dalla famiglia Chiarli, dall’omonima azienda avviata nel 1860, ma anche dalla cantina Paltrinieri, avviata dal chimico Achille nel 1926, e da molte altre realtà che abbiamo intervistato per il mensile di giugno del Gambero Rosso.

 

a cura di Emiliano Gucci

foto di Paolo Righi

 

QUESTO È NULLA...

Nel numero di giugno del Gambero Rosso, un'edizione rinnovata in questi giorni in edicola, trovate il racconto completo con le interviste ai rappresentanti più virtuosi del Lambrusco metodo ancestrale, dalla famiglia Chiarli alla cantina Paltrinieri, dalla Cantina della Volta a Francesco Bellei. E ancora Gianluca Bergianti, Terre Vive, Cavicchioli e Cantina Sociale di Carpi e Sorbara. Un servizio di 9 pagine che comprende anche il bellissimo racconto di Francesco Guccini, il punto di vista di Marco Sabellico e Francesco Beghi, e del maître e sommelier dell'Osteria Francescana Giuseppe Palmieri. Non solo, c'è poi un utile glossarietto per orientarsi al meglio, la spiegazione delle 4 denominazioni del modenese, gli indirizzi utili dove poter bere un eccellente Lambrusco metodo ancestrale e le note di degustazione fatte. Il tutto reso ancor più comprensibile dalle infografiche di Alessandro Naldi.

 

Il numero lo potete trovare in edicola o in versione digitale, su App Store o Play Store

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Coltivare e Custodire. Il premio alla sostenibilità ambientale in Piemonte

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Prima edizione per il premio dedicato alla sostenibilità ambientale, ideato dalle aziende vitivinicole Ceretto e l'Università di Scienze Gastronomiche di Pollenzo. Tema centrale è la rivoluzione dell'orto, filo conduttore dell'intera manifestazione. 

 

L'evento

In principio fu il Premio Langhe Ceretto, il riconoscimento per i miglior testi di cultura alimentare, ma poi le aziende vitivinicole Ceretto e l'Università di Scienze Gastronomiche di Pollenzo hanno continuato il loro percorso insieme, creando un nuovo premio, quello dedicato alla sostenibilità ambientale, presentato per la prima volta quest'anno i prossimi 22 e 23 giugno, prima a Pollenzo e poi alla tenuta Monsordo Bernardina-Alba. Un'occasione di confronto fra i professionisti impegnati nelle buone pratiche agronomiche in difesa dell'ambiente e dell'agricoltura sostenibile. Tema dell'edizione è “La rivoluzione dell'orto”, attorno al quale si incentreranno tavole rotonde, incontri, presentazioni di progetti, laboratori didattici e seminari.

Il programma

Si comincia a Pollenzo, con il conferimento da parte dell’Università di Scienze Gastronomiche di Pollenzo della laurea honoris causa ad Alice Waters, una delle più influenti figure mondiali della gastronomia degli ultimi cinquant’anni, una donna che ha contribuito alla valorizzazione dell'alimentazione biologica stagionale e alla promozione dell'educazione alimentare nelle scuole. Si prosegue poi con il dibattito fra Enrico Crippa, Stefano Mancuso, Carlo Petrini, Massimo Spigaroli, Victoria Sweet e la Waters, tenuto dal professore Andrea Pieroni circa il tema degli orti contemporanei. A cui contribuirà anche Slow Food, che presenterà l'idea di schoolyard della Waters, un progetto innovativo per inserire gli orti in tutte le scuole delle periferie di San Francisco, iniziando a fare cultura già dall'infanzia. La storica e medico Victoria Sweet racconterà l'iniziativa di Slow Food Orti in Africa, e delle proprietà benefiche delle piante, tema che verrà affrontato anche da Mancuso, botanico e autore di “Plant Revolution”, e ancora da Crippa, che ha fatto del suo orto biodinamico il punto di forza per la propria cucina.

Il pranzo

Non mancheranno, inoltre, assaggi dei piatti preparati dagli chef durante il pranzo stellato a 6 mani, in collaborazione con la Brigata delle Tavole Accademiche. Ogni cuoco porterà in tavola una sua specialità, incentrata sui prodotti di stagioni, come il carpione di galline con erbe di Po e ortaggi di Massimo Spigaroli oppure il risotto 23 giugno con 23 erbe e verdure dell'orto di Crippa. Il costo del pranzo è di 40 Euro (35 per soci Slow Food e studenti dell'Università di Scienze Gastronomiche) e l'intero ricavato sarà donato in favore di una borsa di studio universitaria.

Il premio

Infine, cuore pulsante della manifestazione è l'assegnazione del premio alla sostenibilità ambientale, che proclamerà l'autore del miglior progetto di salvaguardia, difesa dell'ambiente e valorizzazione sociale. A vincere per l'Italia è Nicola Del Vecchio, da anni un punto di riferimento per l'impresa agricola molisana, mentre fra gli stranieri è Eymundur Magnusson a distinguersi per la sua opera di rimboscamento. Premio per “La rivoluzione dell'orto”, invece, va a Mohamed Abdikadir, che è riuscito a contribuire alla nascita di oltre 100 orti in un contesto difficile come quello della Somalia, all'interno del progetto Orti in Africa di Slow Food.

Coltivare e Custodire – Pollenzo – 22 e 23 giugno 2018 - www.facebook.com/events/200188917290039/

a cura di Michela Becchi

Uazz’America, la cucina a stelle e strisce: buffalo wings e pollo fritto

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Il pollo è la carne più consumata negli Stati Uniti, più de maiale o del manzo: 35 chili a persona ogni anno. I modi per preparali sono moltissimi, oggi vi diamo i segreti per realizzare alla perfezione le due ricette più amate.

 

Per me il pollo fritto è come la madeleine di Proust. Mi riporta immediatamente alle estati della mia infanzia, quando mio papà mi portava all’Hollywood Bowl, un’arena dove a fine concerto si sparano i fuochi d’artificio, e dove i possessori di palchi si portano la cena da casa, con tanto di tavolo apparecchiato, calici di vetro e centrotavola. Le nostre cene erano sempre a base di pollo fritto, cole slaw (insalata di verza) e root beer, una bevanda analcolica dolce. Per me la musica di Igor Stravinsky ha sempre il sapore del croccante pollo fritto.

 

Un prodotto, tante ricette

La carne di pollo è la più consumata negli Stati Uniti, più del maiale o del manzo. A causa delle molte raccomandazioni di mangiare meno carne rossa e più carne bianca, “l’ossessione” per il chicken cominciata trent’anni fa non è mai finita. Oggi oltreoceano si mangiano 35 chili di pollo a persona l’anno. E le ricette americane a base di pollo sono tantissime.

Lo troviamo per esempio nella cobb salad, una classica insalata americana a base di pollo, bacon, uova, formaggio e avocado, tutto tagliato a minuscoli dadini della stessa misura. Il gumbo, poi, è una ricca zuppa tipica della Louisiana a base di pollo e gamberi. Poi i comfort food per eccellenza, il chicken casserole, o la zuppa chicken corn chowder, tutti piatti influenzati dalle radici creole, messicane e degli altri tanti colonizzatori che l’hanno attraversata. Ma se parliamo di pollo in America, parliamo soprattutto di pollo fritto! E se parliamo di pollo fritto, parliamo del pollo fritto del Kentucky. Negli States, ma anche in qualche città d’Italia, è arrivata una catena di fast food che offre pollo fritto secondo una ricetta molto segreta. Una ricetta più protetta di quella della Coca-Cola, che le leggende dicono custodita in una fantomatica pergamena scritta a mano risalente agli anni ’40, e celata in una cassaforte di 350 chili tenuta sotto controllo continuo da sensori e telecamere. Ma lasciando da parte il secchiello col faccione del Colonnello Sanders della catena, per trovare la ricetta originale del pollo fritto del Kentucky fatto in casa mi sono rivolta a un italo-americano come me.

Ma prima ho fatto una piccola divagazione, andando a farmi spiegare la ricetta per le Buffalo Wings, le famose alette di pollo piccanti.

Buffalo Wings

Le alette di pollo nascono negli anni ’60 a Buffalo, nello stato di New York, all’Anchor Bar per sfamare una grande tavolata. Oggi si consumano principalmente davanti alla tv durante le partite di football, accompagnate da immensi boccali di birra ghiacciata.

Lara, del ristorante Mama’s, mi ha fatto entrare in cucina e mi ha rivelato qualche segreto. La prima cosa da fare è la marinatura, realizzata con tabasco verde, Worcestershire sauce e una punta di aceto. C'è un ingrediente segreto, però: il bicarbonato. Ne aggiunge un cucchiaino alla marinata per rendere le alette super croccanti fuori e tenere dentro, una meraviglia non solo per il gusto, ma anche per la consistenza che prenderanno, davvero unica. Chi vuole può aumentare il “fattore fuoco” spennellando le alette cotte con burro fuso e peperoncino. In questo caso il grado di piccantezza varia in base al peperoncino adoperato. Sulla scala Scoville, gli Habanero, i Jalapeño e altri che aggiunti alla marinata cambiano la potenza delle alette. Spesso le queste vengono poi accompagnate da salsa blue cheese (a base di formaggio erborinato e yogurt) e rinfrescanti coste di sedano.

Pollo fritto del Kentucky

La mia ricerca per la ricetta segreta del pollo fritto mi porta a rivolgermi all’amico Andy Luotto. Prima attore comico in tv e al cinema, per Andy la cucina non è solo passione e arte da vivere in privato, ma un vero mestiere. Partito come autodidatta, deve il suo successo alla grande conoscenza delle materie prime italiane, un diploma conseguito presso la scuola alberghiera, programmi TV di cucina, conduzione di ristoranti, kermesse culinarie e due libri. Ma Andy, come me, non dimentica le sue origini a stelle e strisce. E allora da lui mi faccio spiegare il suo modo di preparare il pollo fritto del Kentucky. Vado a trovarlo al ristorante Sazio che ha gentilmente messo a disposizione la cucina per la preparazione del piatto.

 

Anche qui la marinatura è fondamentale. Molti negli States marinano i pezzi di pollo nel buttermilk, il latticello, ovvero il liquido derivato dalla produzione del burro. Secondo Andy questo ingrediente può essere sostituito da yogurt bianco al naturale, che dona la stessa nota acidula e rinfrescante. A questo, Andy aggiunge paprika affumicata, sale e pepe. Taglia i pezzi di pollo tutti della stessa misura per una cottura più uniforme, lascia la pelle, e li mette in marinatura per un paio d’ore. Dopodiché infarina i pezzi di pollo compattando bene per creare una sorta di guscio, e poi li lascia riposare per qualche minuto prima di friggere per dieci minuti in abbondante olio di arachide, smuovendo il meno possibile.

 

La croccantezza dell’esterno è solo il goloso preludio ad un interno perfettamente cotto ma tenero e succulento. Non le sentite anche voi le note di Stravinky in sottofondo?

 

Mama’s Roma via Bellagio 2 Tel. +39 0633614537 www.ristorantemamas.it

Sazio Roma via Cassia 466 Tel. +39 0633653581 www.facebook.com/saziopizzaristorante

 

a cura di Eleonora Baldwin

 

Questi e altri racconti li trovate in Uazz’America, un programma che va in onda tutti i lunedì alle ore 22:00 su Gambero Rosso Channel SKY 412; e in replica sabato alle 12:30; e domenica alle 19:30

 

Leggi anche le altre puntate di Uazz'America 

World’s 50 Best Restaurants 2018. Massimo Bottura e l’Osteria Francescana di nuovo in vetta

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Va in scena a Bilbao l’edizione 2018 della cerimonia officiata da William Drew (Restaurants Magazine la battezzava per la prima volta nel 2002) per premiare i migliori 50 ristoranti del mondo a detta di una giuria di esperti da tutto il mondo. Massimo Bottura è di nuovo primo.

L’attesa

Dopo tanto peregrinare da un capo all’altro del mondo, con gli ultimi due anni trascorsi tra New York e Melbourne, la cerimonia della World’s 50 Best Restaurants ritrova la strada per l’Europa e sceglie i Paesi Baschi di Bilbao per celebrare come si conviene una regione gastronomica decisamente protagonista in classifica, da anni alla ribalta delle cronache gastronomiche internazionali e ancora oggi capace di essere innovativa – qui l’avanguardia spagnola ha trovato alcuni dei suoi interpreti più fulgidi -  benché attaccata  alle sue tradizioni popolari. Non sarà un caso che l’intera settimana del countdown verso l’attesa serata di gala di Palacio Euskalduna (mille i fortunati ospiti presenti in platea) sia stata scandita da incontri e appuntamenti imperdibili per addetti ai lavori ed amanti del genere: una settimana di festa che ha coinvolto la capitale basca e i suoi pintxos bar, ma pure il Basque Culinary Center, palcoscenico per la consueta giornata di incontri 50 BestTalks, quest’anno sul tema del ciclo della vita, in compagnia di Gaggan Anand, Clare Smiyth (Best Female Chef 2018), Dan Barber, Eneko Atxa, Paul Pairet. Ma gli chef arrivati numerosi da tutto il mondo, prima ancora di ritrovarsi a rappresentare il gotha della ristorazione mondiale – almeno mediaticamente parlando, perché mai ci stancheremo di dirlo, la classifica ad oggi più acclamata dell’universo gastronomico è soprattutto affare di autorevolezza raggiunta a livello internazionale dai ristoranti premiati, e dai suoi chef – si sono fatti vedere in più occasioni, per esempio alla festa per i 20 anni del Mugaritz, concertata da Andoni Luis Aduriz, e poi al party propiziatorio della vigilia, in casa di Victor Arguinzoniz, al mitico Asador Extebarri. Tra loro anche la compagine italiana - Massimo Bottura, i fratelli Alajmo, Enrico Crippa, Niko Romito – che nei giorni scorsi sono stati al centro dei pronostici di rito. Ma com’è andata sul palco della cerimonia officiata da William Drew?

 

Il ricordo

Proprio a lui, prima di aprire le danze, spetta ricordare Anthony Bourdain, recentemente scomparso, e a seguire il maestro della cucina italiana Gualtiero Marchesi (vincitore del premio alla carriera nel 2008) – “grazie Maestro per averci aiutato a vivere un po’ di più la Dolce Vita”, dice Drew in italiano stentato, ma sentito – e poi Paul Bocuse, che il premio alla carriera della 50 Best l’ha ricevuto nel 2005: “Au revoir Monsieur Paul”. Gli applausi ripetuti della platea suggellano il momento, si può iniziare.

 

La top 10 e l’Italia. Massimo Bottura di nuovo primo

E di nuovo il primo gradino del podio porta con sé belle sorprese: dopo solo un anno, Eleven Madison Park perde lo scettro ed esce dal podio, dritto in quarta posizione. La corona d’alloro, quindi, spetta di nuovo a Massimo Bottura a alla sua Osteria Francescana: sul palco, emozionato, fa parlare prima Lara: “Abbiamo la possibilità di cambiare il futuro, tutti insieme”, dice lei; lui ricorda il suo team, lo ringrazia, ma poi parla di cambiamento, doveri e ricorda il fondamentale impegno con i Refettori nel mondo: "Stiamo dando l'esempio, è la dimostrazione che possiamo farcela". Secondi i fratelli Roca (El Celler de Can Roca), terzo un felicissimo Mauro Colagreco con Mirazur, per la prima volta sul podio. Buon risultato per Gaggan Anand e il suo ristorante di Bangkok, in ascesa costante: dopo la quarta riconferma in vetta alle top 50 asiatica, ora lo chef indiano sale in quinta posizione nella classifica generale. La squadra italiana registra piccoli passi in avanti (meriterebbe qualcosa in più?): Niko Romito e il suo Reale in salita dal 43 al 36, i fratelli Alajmo e Le Calandre di Rubano dal 29 al 23; Piazza Duomo ed Enrico Crippa, invece, perdono una posizione, seppur nella parte più alta della top 50: dalla 15 alla 16.

 

Debutti e soddisfazioni

Tra chi festeggia c’è sicuramente Disfrutar (Barcellona), del trio delle meraviglie che ha raccolto il testimone dell’avanguardia gastronomica catalana e lo porta verso nuovi orizzonti con orgoglio: il debutto in top 50 li proietta direttamente al numero 18 della lista. Ma pure Ana Ros, anche lei all’esordio in classifica con Hisa Franko (Caporetto) al numero 48 dopo il 69esimo posto del 2017, quando è stata eletta Best Female Chef. Debutto anche per la Turchia di Mikla (44) e per Lyle’s, il ristorante del giovane londinese James Lowe, che come da pronostico entra nell’Olimpo dei 50, al numero 38. E ancora Maaemo (35), indirizzo in grande ascesa della capitale norvegese Oslo. Bene anche Cosme (che in top 50 è l’insegna che scala più posizioni), avamposto newyorkese di Enrique Olvera (e sale anche Pujol, al 13, come l’altra insegna di Città del Messico, Quintonil, al numero 11), quest’anno al numero 25, e la compagine asiatica, con Odette new entry per Singapore, Ultraviolet di Paul Pairet a Shanghai, Narisawa a Tokyo. E l’Australia di Ben Shewry, che con Attica (Melbourne) sale alla posizione numero 20.

I premi speciali

Premi speciali, in parte già annunciati, a: Single Thread (California) come ristorante da tenere d’occhio (One to watch Award), Cedric Grolet Best Pastry Chef, Dan Barber come preferito dagli chef, Geranium (Copenaghen) per l’ospitalità, Gaston Acurio premiato alla carriera, Clare Smyth Best Female Chef (“Il lavoro del cuoco non ha sesso” dice lei emozionata sul palco “ma sappiamo che oggi dobbiamo incoraggiare le pari opportunità, e far sì che le nuove generazioni lavorino al meglio delle loro possibilità, senza distinzioni di sorta”).

 

La Top 50

1 Osteria Francescana, Modena, Italia

2 El Celler de Can Roca, Girona, Spagna

3 Mirazur, Menton, Francia

4 Eleven Madison Park, New York, Usa

5 Gaggan, Bangkok, Thailandia

6 Central, Lima, Perù

7 Maido, Lima, Perù

8 L’Arpege, Parigi, Francia

9 Mugaritz, San Sebastian, Spagna

10 Asador Extebarri, Atxondo, Spagna

11 Quintonil, Città del Messico, Messico

12 Blue Hills at Stone Burns, Pocantico Hills, Usa

13 Pujol, Città del Messico, Messico

14 Steirereck, Vienna, Austria

15 White Rabbit, Mosca, Russia

16 Piazza Duomo, Enrico Crippa, Italia

17 Den, Tokyo, Giappone

18 Disfrutar, Barcellona, Spagna

19 Geranium, Copenaghen, Danimarca

20 Attica, Melbourne, Australia

21 Alain Ducasse a Plaza Athenée, Parigi, Francia

22 Narisawa, Tokyo, Giappone

23 Le Calandre, Rubano, Italia

24 Ultraviolet by Paul Pairet, Shanghai, Cina

25 Cosme, New York, Usa

26 Le Bernardin, New York, Usa

27 Borago, Santiago, Cile

28 Odette, Singapore

29 Alléno al Pavillon Ledoyen, Parigi, Francia

30 D.O.M., San Paolo, Brasile

31 Arzak, San Sebastian, Spagna

32 Tickets, Barcellona, Spagna

33 The Clove Club, Londra, Inghilterra

34 Alinea, Chicago, Usa

35 Maaemo, Oslo, Norvegia

36 Reale, Castel di Sangro, Italia

37 Tim Raue, Berlino, Germania

38 Lyle’s, Londra, Inghilterra

39 Astrid y Gaston, Lima, Perù

40 Septime, Parigi, Francia

41 Nihonryori Ryugin, Tokyo, Giappone

42 The Ledbury, Londra, Inghilterra

43 Azurmendi (premio per la sostenibilità), San Sebastian, Spagna

44 Mikla, Istanbul, Turchia

45 Dinner by Heston Blumenthal, Londra, Inghilterra

46 Saison, San Francisco, California

47 Schloss Schauenstein, Furstenau, Svizzera

48 Hisa Franko, Caporetto, Slovenia

49 Nahm, Bangkok, Thailandia

50 The Test Kitchen, Cape Town, Sudafrica

 

a cura di Livia Montagnoli

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