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Alciati. La storia dell'impero della ristorazione piemontese

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Nel numero di giugno del Gambero Rosso raccontiamo una delle più entusiasmanti storie della ristorazione piemontese e italiana. È quella della famiglia Alciati. Qui un assaggio.

 

 

Loro hanno per certi versi inventato tutto: il marketing della ristorazione, l'alta cucina dove non andare se non si ha preventivamente prenotato, le grandi tavole dentro ai grandi alberghi e perfino gli agnolotti al plin. Ma oltre a questo gli Alciati sono un modello gestionale, organizzativo, economico. L'ennesima dimostrazione che eccellenza, ricerca e imprenditorialità profittevole possono andare d'accordo in Italia.

Ogni giorno c’è un cliente che evoca un ricordo o un aneddoto legato ai miei genitori e allora capisco quanto sono vivi nella memoria di tante persone. Hanno creato qualcosa di veramente grande in un periodo pionieristico della ristorazione, sono stati degli autentici precursori. Mi rendo conto che non smetto mai di imparare da loro, è come se avessimo sempre una mano sopra di noi”. Andrea è il più giovane (classe 1971) dei tre fratelli Alciati. Con Ugo (1967) e Piero (1962) continua a scrivere ogni giorno i tanti capitoli di una delle più entusiasmanti storie della ristorazione piemontese e italiana, iniziata con papà Guido e mamma Lidia a Costigliole d’Asti, a metà degli anni Sessanta, con il Bar Centrale e poi con il ristorante Guido.

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L'origine dell'agnolotto del plin e della prenotazione

Prima di questa coppia immortale, l’agnolotto era quello quadrato, tipico del Monferrato. Poi, grazie a Lidia, si comincia a parlare solo dell’agnolotto del (o al) plin: quello del pizzico tra indice e pollice con cui si chiude la pasta sul ripieno di carne e verdure. Prima di loro, al ristorante si entrava e basta, senza particolari procedure, quasi solo per occasioni speciali o per cene aziendali perché non c'era ancora il turismo enogastronomico. Poi, su idea di Guido, fuori la porta compare un cartello: “Il ristorante lavora solo su prenotazione”.

Due piccole, grandi rivoluzioni. Due (delle tante) intuizioni da marketing ante litteram. “Mio padre era un visionario – ricorda Piero, enologo ed esperto uomo di sala – e ha sempre avuto ben chiaro quale sarebbe stato il suo posto: il suo obiettivo era quello di creare un desiderio che la gente non sapeva ancora di avere. Andava a Samboseto, a trovare Peppino Cantarelli, oppure ai 12 Apostoli a Verona o alla Santa a Genova, da Nino Bergese, tutti luoghi straordinari, una sorta di summa di quella che sarebbe diventata l’alta ristorazione. Non c’era ancora l’interesse dei media, se la cantavano e se la suonavano, erano dei grandi affabulatori. Io accompagnavo spesso mio padre, mi sono fatto due palle così da piccolo…”.

Lo staff di sala e cucina

Gli Alciati bros (tre come altre fratellanze perfette, dai Cerea ai Roca) curano oggi un complesso network di insegne e attività da 30mila coperti ogni anno, per un fatturato di 5 milioni di euro...

Il racconto dell'impero Alciati continua nel numero di giugno del Gambero Rosso.

 

a cura di Federico De Cesare Viola

foto di Davide Dutto

 

QUESTO È NULLA...

Nel numero di giugno del Gambero Rosso, un'edizione rinnovata in questi giorni in edicola, trovate la storia completa con tutti gli indirizzi degli Alciati, i ricordi di famiglia, la collaborazione con Oscar Farinetti iniziata già nel 2006, agli albori di Eataly, e il racconto del nuovo progetto di consulenza a Parigi. Un servizio di 8 pagine che comprende anche le 8 regole della sala secondo Piero Alciati (con le infografiche di Alessandro Naldi), un bel ritratto degli Alciati firmato dal produttore di vino Angelo Gaja e una timeline con tutte le tappe fondamentali di questa incredibile storia.

 

Il numero lo potete trovare in edicola o in versione digitale, su App Store o Play Store

Abbonamento qui

 

 

 

 

 


Domus Casei, il portale dedicato ai formaggi e l'arte casearia

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Ruminantia è una rivista online specializzata sui ruminanti, dalle vacche alle capre, dalle pecore ai cervi. Che ora si arricchisce di una nuova rubrica, una sezione dedicata ai formaggi e nata in collaborazione con l'Accademia del Latte Italiano.

 

 

Il successo inarrestabile dei formaggi

Fra festival, manifestazioni, convegni e nuovi format ristorativi, il mondo dei formaggi di qualità sta cominciando sempre più a raccogliere l'entusiasmo del pubblico italiano. Una tradizione antica, quella casearia, le cui origini si perdono nella notte dei tempi: da sempre uno dei fiori all'occhiello dell'agroalimentare italiano, che può fare affidamento su produttori di alto livello, dalle malghe alle isole, il formaggio è fra i simboli principali della cucina tricolore, celebrato in tutte le sue sfumature. Basti pensare a Cheese, evento di Bra, in provincia di Cuneo, in scena da 20 anni per riunire casari, affinatori, selezionatori, un esercito di addetti ai lavori e appassionati chiamato a raccolta per presentare, scoprire e assaggiare i migliori formaggi del mondo. O ancora al neonato Forma, cheese bar di Cagliari, format molto diffuso nei paesi anglosassoni (The Cheese Bar a Londra, con tanto di cheese truck, tanto per citarne uno), ispirato ai bar à fromage francesi, una finestra sui formaggi di qualità in arrivo da tutta Italia e dalla Francia, pensata per avvicinare appassionati e curiosi in cerca di specialità altrimenti introvabili in città.

Il portale

Insomma, l'universo caseario, fra formaggi a latte crudo, pastorizzato, a pasta molle o dura, erborinati o d'alpeggio, è sempre più al centro dell'attenzione di gastronomi e non solo. Proprio per questo nasce Domus Casei (letteralmente, “Casa del formaggio”), un nuovo portale dedicato al settore dei caseifici, in particolare ai caseifici agricoli, che si propone di raccogliere tutte le notizie e le informazioni tecnico-scientifiche e legislative relative alla produzione e commercializzazione dei latticini. A ideare il progetto, Ruminantia, rivista online specilizzata sui ruminanti, dai bovini alle pecore, in collaborazione con l'Accademia Italiana del Latte di Spilamberto, scuola che da anni si impegna a tramandare l'arte della trasformazione del latte.

L'obiettivo

Grande rilievo verrà dato al mondo dei caseifici agricoli, ovvero a coloro che trasformano e vendono (direttamente o meno) il latte dei propri animali”, ha dichiarato Alessandro Fantini, direttore di Ruminantia. Che aggiunge: “Questo settore rappresenta una larga detta del mercato dei formaggi/latticini ed è in crescita e sempre più attrattivo per i cittadini, che lo associano ai temi della sostenibilità, della qualità e valorizzazione dei territori e delle culture locali”. Argomenti che coinvolgono una fetta sempre più ampia di consumatori, maggiormente attenti alla provenienza, la tracciabilità della filiera, il rispetto dell'ambiente e le coltivazioni a basso impatto ambientale. “Per queste ragioni”, aggiunge Domenico Ferrari, Presidente di Accademia Italiana del Latte, “i casari agricoli vanno supportati e affiancati con informazioni, formazione tecnica e commerciale, con momenti di confronto e crescita”.

I contenuti

E in Domus Casei, rubrica del sito Ruminantia, i professionisti del settore potranno trovare “un riferimento certo per intraprendere il percorso che li porterà a diventare veri e propri imprenditori del latte”. Grazie ai consigli degli esperti sul marketing e la comunicazione, tasselli fondamentali per lo sviluppo di un'azienda, due temi che verranno approfonditi con cura nel tempo attraverso il portale. Una rubrica che verrà arricchita anche con il contributo scientifico di CREA ZA, Consiglio per la Ricerca in Agricoltura e l'Analisi dell'Economia Agraria, e delle università italiane e internazionali. Ci saranno poi i riferimenti agli eventi e gli incontri nei vari territori, i convegni, i seminari da non perdere, le manifestazioni e tutti gli appuntamenti da segnare in agenda, oltre ai corsi programmati dall'Accademia Italiana del Latte. Uno spazio rivolto agli addetti ai lavori che vogliono migliorare e affinare le proprie conoscenze, ai neofiti che intendono aprire un loro caseificio, ma anche a tutti i consumatori più curiosi che vogliono essere aggiornati sul settore.

www.ruminantia.it/category/domus-casei/

a cura di Michela Becchi

Esprit Bocuse (d’Or). Prima giornata fra chef e supporter all’Oval di Torino

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10 per turno, gli chef che si sfidano alla finale europea del Bocuse d’Or si ritrovano in queste ore a Torino. Aspettando il verdetto finale, ecco cos’è successo nella prima giornata. 

Oval Lingotto, 11 giugno, ore 9.30. Le prime 10 squadre scendono in campo (la metafora sportiva è quanto mai opportuna, come vedremo), il Bocuse d’Or comincia davvero.

L’anima di Monsieur Paul è dappertutto, naturalmente, compresi i gadget ufficiali (in verità pochi e carucci, ma la spilletta pins con l’effige di Bocuse stile oscar è imperdibile), e, se non bastasse, fra i quattro presidenti della giuria, quattro moschettieri della cucina di bianco vestiti e con regolamentare toque in testa (mai visti tanti inamidati cappelli da chef tutti insieme come qui) c’è pure il figlio Jérôme, in buona compagnia con Carlo Cracco, Enrico Crippa (bonariamente soprannominati Crip&Crac) e l’ungherese Tamás Széll. Nella prima giornata ha gareggiato la Francia, la favorita per antonomasia, insieme alle favorite imprevedibili, come L’Islanda (il parallelo del gusto sale sempre più a nord) e l’Ungheria: così almeno assicura Luciano Tona, il braccio destro di Crippa all’Accademia del Bocuse.

I protagonisti, va da sé, sono loro, gli chef (per la cronaca di Polonia, Belgio, Islanda, Ungheria, Germania, Olanda, Spagna, Francia, Svizzera, Regno Unito), tutti abbastanza tesi e nervosi come si conviene, concentrazione al massimo e poca voglia di parlare, e ci sta.

Tifo da stadio? Di più

Ma non potrete mai dire di aver vissuto il Bocuse d’Or 2018, quello “per la prima volta nell’Europa del Mediterraneo” e nella fattispecie in Italia, se non siete entrati nel padiglione Oval del Lingotto di Torino. Enorme (alle Olimpiadi 2006 ospitava la pista di pattinaggio e al salone del gusto vecchia versione Terra Madre), evoca uno stadio da sfida fantascientifica, roba da battaglia nell’arena di Star Wars o Mad Max con le gabbie d’acciaio. Perché qui, accanto alle squadre ai fornelli, ci sono altri protagonisti. Agguerriti, chiassosi, passionali: i supporter. Tifo da stadio? Di più. Perché allo stadio si urla durante un’azione, dopo un goal. Qui il rumore è totale, assordante, assoluto. Ti chiedi come riescano gli chef a concentrarsi sui piatti, devono aver fatto corsi intensivi di mindfullness.

Le tribune destinate al pubblico si dividono spontaneamente in settori di supporter delle varie nazionalità. I più determinati e numerosi sono i belgi, colori nazionali dipinti in faccia, bandiere ovunque, urlano tutto il tempo, incitando la loro squadra. Gli inglesi hanno lasciato la proverbiale flemma a casa, qui sono arrivati con tromba, trombone e grancassa e alternano una beneaugurale When the saintsal francofilo e sessantottino Ce n'est qu'un débutcontinuons le combat.

E oggi arriva l’Italia

I Francesi, che arrivano per lo più dall’Est del Paese, dalla Mosella, da cui arriva il loro candidato Matthieu Otto, intonano a squarciagola la Marsigliese (che, diciamolo, incita anche i più pigri) e qualcuno più vestito che nell’originale dipinto di Delacroix La libertà che guida il popolosventola con lo stesso impeto una gigantesca bandiera rossa bianca e blu.

Non troppo numerosi e sorprendentemente più tranquilli i fan della Spagna (ma sul bancone della squadra un gattino cinese porta fortuna tutto d’oro agita la zampa e promette vittorie), idem per gli altri Paesi. E tutto si mescola in un enorme boato che ti impedisce di parlare, di sentire… Fede Quaranta di Decanter e Paolo Vizzari (in un perfetto inglese) faticano non poco a sovrastare il rumore nonostante microfoni e tecnologie varie.

Un po’ di calma quando entra la giuria, che assaggia i piatti in religioso silenzio, non traspare praticamente nulla. Già, perché la prima giornata si conclude, dopo qualche problema tecnico per le cucine della Gran Bretagna e della Francia, travolte dallo stesso insolito destino nonostante l’eterna rivalità, senza vincitori dichiarati: solo oggi, a conclusione della seconda giornata, sapremo i nomi dei 10 finalisti che andranno a Lione. E potrebbe capitare che siano 3 della prima giornata e 7 della seconda: il totale deve essere 10 ma il giudizio è su tutte le squadre, non “batteria per batteria”.

Il primo giorno finisce con noi tutti quasi sordi, svariati buffet (il Piemonte che accoglie ha fatto le cose in grande, prodotti tipici e grandi vini), la notizia che gli spaghetti n.3 delle prove di ieri saranno n. 7 oggi.

E oggi arriva l’Italia (insieme ai favoriti Norvegia, Danimarca e Svezia) e si attendono orde di supporter dalla Puglia a sostenere Martino Ruggieri. Visto che non andremo ai mondiali di calcio il nostro palcoscenico internazionale si gioca qui. Vedremo come va la giornata, ma il tifo da stadio è assicurato.

 

a cura di Rosalba Graglia

foto di Dario Bragaglia

Granita, sorbetto, cremolata, grattachecca. Storia e ricette dell'arte fredda italiana

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Sono i cugini ancor più freddi del gelato, le alternative “ghiacciate” in cono o coppetta, perfette per far fronte al clima caldo dell'estate italiana: granite, sorbetti e simili rappresentano la pausa ideale nelle ore più calde. Ecco la storia dei prodotti e le loro varianti.

 

Che si tratti della granita per la colazione alla siciliana, della grattachecca romana da gustare passeggiando per i vicoli della Città Eterna, la cremolata per i più golosi amanti della frutta o di un sorbetto rinfrescante per concludere un pasto d'autore, le specialità della tradizione dolciaria italiana più fredda sono uno dei capisaldi gastronomici dell'estate tricolore. Da assaporare come street food o dessert, purché siano ben fatti e realizzati con prodotti freschi. Dallo sherbet arabo ai chioschi dei grattacheccari, abbiamo ripercorso la storia delle ricette, adatte per le ore più torride ma da provare anche in inverno, come finale fresco e rigenerante dopo una cena sontuosa.

 

granita

La granita siciliana: lo sherbet islamico

Madre di tutta l'arte del sottozero, la granita siciliana, ideale per la prima colazione se accompagnata dall'immancabile brioche col tuppo. Una preparazione divenuta oggi simbolo della Sicilia più dolce ma che affonda le sue radici nella dominazione araba; un composto di acqua, zucchero e frutta che viene ghiacciato lentamente e mescolato di continuo, fino a ottenere una sorta di pasta fredda densa e cremosa dalla consistenza inconfondibile. Primo antenato di questo prodotto è lo sherbet, una sorta di succo di frutta aromatizzato con acqua di rose e poi ghiacciato, una bevanda molto in voga ai tempi del dominio islamico, che molti storici della gastronomia identificano come versione originale della granita moderna.

La neve dell'Etna

Simbolo per antonomasia di Catania e zone limitrofe, la granita è stata per tempo realizzata a partire dalla neve raccolta sull'Etna (ma anche sui Nebrodi, i Peloritani o i Monti Iblei) dai “nivaroli”, conservata nelle “niviere” in pietra all'interno delle grotte naturali del territorio, in modo da mantenere la sua bassa temperatura. Una tradizione medioevale portata avanti per secoli: stoccata in questo modo peculiare, la neve si trasformava in ghiaccio che veniva grattato via e addizionato di sale, prima di essere riposto in un contenitore di acciaio. Mescolando di continuo ghiaccio e miele, i siciliani riuscivano a ottenere una consistenza pastosa e morbida, perfetta per essere assaporata a cucchiaiate, con spremute di limone fresco o arance. Nel Cinquecento nasce il pozzetto, un secchiello di zinco posto all'interno di un tino di legno, nuovo strumento utilizzato per il rimescolamento della granita, con tanto di pale per impedire la formazione dei cristalli di ghiaccio. Bisogna attendere il Novecento, con l'avvento delle nuove tecnologie, perché il pozzetto venga sostituito dalla gelatiera e la neve dall'acqua.

 

granita e brioche

La granita oggi

Parliamo dunque di un dolce al cucchiaio che ha attraversato secoli di storia, imponendosi fin dall'inizio come uno dei prodotti più popolari dell'isola, che oggi viene declinato in tante sfumature diverse. I gusti, infatti, non sono più solo quelli classici: pasticceri e artigiani si divertono a creare sapori nuovi abbinando fra loro gli ingredienti più disparati, impreziositi con aromi e spezie. I veri amatori della granita siciliana, però, contemplano solo pochi gusti, quelli tradizionali: mandorla, pistacchio (molto spesso anche abbinati fra loro), gelsi bianchi e gelsi neri, agrumi. Ma c'è anche quella al caffè, al cioccolato, al mandarino, al fico d'India, al limone, alla fragola o alla pesca.

Il sorbetto, dal Medioevo al caffè parigino

C'è poi il sorbetto, alternativa senza lattosio al gelato, ormai presente in tutte le gelaterie della Penisola. Molti storici della gastronomia ritengono che anche in questo caso l'etimologia del termine sia da rintracciare nello sherbet arabo, ma c'è anche ci sostiene che il nome derivi dal turco sharber, “sorbire”, oppure ancora dal verbo latino sorbere. In qualsiasi caso, stiamo parlando di una bevanda che ha iniziato a diffondersi durante il Medioevo, ancora una volta realizzata con la neve. Nel Cinquecento, poi, la tradizione dei sorbetti ha cominciato ad affermarsi sempre di più nelle corti italiane, soprattutto quelle dei Medici, grazie ai nuovi strumenti messi a punto, stando ad alcune testimonianze, dall'ingegnere Bernardo Buontalenti. Un uomo che, come si legge nel “Del vitto e delle cene degli antichi” di Giuseppe Averani, “fabbricò per primo le conserve del ghiaccio”. L'apice del successo del dessert, però, arriva in Francia, nel locale parigino Café Procope, fra i più antichi d'Europa, inaugurato nel 1686 da FrancescoProcopiodeiColtelli, emigrato a Parigi da Acitrezza. È lui a diffondere il consumo dei sorbetti presso l'alta borghesia europea, tanto da guadagnarsi l'esclusiva alla corte di Luigi XIV per la fornitura di acque gelate, fiori d'anice e fiori di cannella.

 

sorbetto

La composizione

Acqua, zucchero e polpa di frutta: questi gli ingredienti che costituiscono la struttura del sorbetto, solitamente contenente almeno il 50% di frutta e al massimo il 25% di zucchero. Un dolce a grana fine, che ha bisogno di incorporare molta aria: l'acqua viene trasformata in zucchero e a mano a mano che i cristalli di ghiaccio si separano dalla soluzione, lo zucchero si concentra e le temperature vengono ulteriormente abbassate per formare nuovi cristalli. In assenza delle proteine e i grassi del latte, che nel cugino gelato aiutano le bolle d'aria a stabilizzarsi, nel sorbetto è la soluzione zuccherina a inglobare aria, raffreddandosi e diventando sempre più viscosa. In passato, per facilitare questa operazione veniva aggiunto spesso l'albume d'uovo parzialmente montato, una pratica poi abbandonata nel tempo.

 

cremolata

La cremolata, una granita con frutta a pezzi

Più simile alla granita ma con un quantitativo maggiore di frutta è la cremolata (o gramolata), un composto di acqua, zucchero e circa l'80% di frutta. In questo caso, la frutta viene prima frullata grossolanamente e poi ghiacciata, per essere infine grattata e ridotta in piccoli cubetti e mescolata. Caratteristica fondamentale della cremolata sono i pezzi di frutta ben visibili nel bicchiere, di dimensioni più o meno grandi a seconda del gusto del pasticcere o gelatiere che la prepara. Dalla consistenza granulosa più fine rispetto alla granita, la cremolata più celebre è quella pugliese a base di fichi, anche se è ancora piuttosto diffusa anche in Sicilia, dove però resta al secondo posto rispetto alla granita.

 

grattachecca

La grattachecca, l'arte del ghiaccio a Roma

Nella Capitale, invece, è la grattachecca a dominare la scena: emblema delle estati romane, questa bevanda è composta da ghiaccio “grattato” da un singolo blocco di grandi dimensioni e sciroppi di frutta. Il nome deriva dal verbo grattare e dalla parola checca, con cui un tempo, prima dell'avvento dei frigoriferi, si identificava il blocco di ghiaccio usato per refrigerare gli alimenti. I primi chioschi dei “grattacheccari” hanno iniziato a diffondersi fra i vicoli trasteverini all'inizio del Novecento, periodo in cui i romani hanno preso l'abitudine di passeggiare per la città sorseggiando la bevanda fresca, una pratica che continua ancora oggi. Una sorta di street food da bere, ben presto divenuto popolare in tutti i quartieri e anche nel resto della Penisola, dov'è conosciuto come ghiacciata (grattatella a Palermo, granatina a Napoli, grattamarianna a Bari).

 

chiosco grattachecca

Oggi è molto raro trovare dei chioschi che realizzano ancora la grattachecca nella maniera tradizionale, partendo da un unico blocco di ghiaccio grattato manualmente, un'usanza che è andata perduta nel tempo in favore di metodi più pratici e veloci come l'utilizzo di un tritaghiaccio elettrico, in grado di triturare il ghiaccio in piccoli pezzi, ai quali vengono poi aggiunti succhi di frutta o sciroppi.

Granita e brioche

Indecisi sul gusto della granita, abbiamo deciso di fornire tre ricette diverse per realizzare una granita al caffè, una classica alla mandorla e una più semplice e veloce al limone. Tutte accompagnate dalla brioche.

Per la brioche

400 g di farina

20 g di lievito di birra

8 uova

200 g di burro

30 g di zucchero

Qualche cucchiaio di latte

Per la granita di caffè

500 g di caffè espresso

150 g di zucchero

50 g di panna fresca

Per la granita di mandorla

100 g di pasta di mandorle

250 g di acqua

Per la granita veloce di limone

2 limoni non trattati

150 g di zucchero

400 g di cubetti di ghiaccio

Per le brioche

Impastare 100 g di farina con il lievito sciolto nel latte tiepido. Far lievitare il panetto fino al raddoppio. Nel frattempo far ammorbidire il burro e tenere le uova a temperatura ambiente. Unire al panetto lievitato 300 g di farina, incorporare le uova, lo zucchero e il burro. Impastare fino a ottenere un impasto liscio e ricavare delle pagnottelle e altrettante palline da posizionare in cima a ognuna. Mettere a lievitare per almeno due ore. Infornare per 35 minuti circa a temperatura media fino a quando le brioche saranno gonfie e dorate.

Per la granita al caffè

Sciogliere lo zucchero nel caffè caldo, mescolare e congelare nel portacubetti. Al momento di servire tritare i cubetti spatolando a lungo per rendere morbida e setosa la granita. Guarnire con un ciuffo di panna appena montata senza zucchero.
Per la granita di mandorla

Frullare la pasta di mandorle con l’acqua, versare il latte ottenuto in un contenitore basso o nel portacubetti di ghiaccio e congelare. Al momento di servire tritare i cubetti spatolando a lungo per rendere morbida e setosa la granita.

Per la granita di limone

Con l’apposito rigalimoni ottenere dei fili di scorza e tenerli da parte. Pelare a vivo i limoni eliminando tutta la parte bianca. Inserire nel mixer lo zucchero e metà della scorza di limone e portando tutto ad alta velocità rendere lo zucchero “a velo”. Unire i limoni (eventualmente tagliati a pezzi per eliminare i semi) e i cubetti di ghiaccio e frullare tutto spatolando. Servire subito con la restante scorza come guarnizione.

Sorbetti misti fatti in casa

Anche per i sorbetti, tre diverse opzioni, per scoprire nuovi abbinamenti e contrasti di sapori: pera e fave di cacao, fragola e pomodoro, yogurt, ananas e finocchio.

Per il sorbetto alla pera e fave di cacao

500 g di pere mature

150 g di zucchero

il succo di 1 limone

50 g di fave di cacao tostate

Per il sorbetto alla fragola e pomodoro

500 g di fragole mature

2 pomodori maturi

150 g di zucchero

il succo di 1 limone

Per il sorbetto allo yogurt, ananas e finocchio

500 g di ananas già sbucciato

1 finocchio lessato;

150 g di yogurt intero

150 g di zucchero

il succo di 1 limone

Per il sorbetto alla pera e fave di cacao

Portare ad ebollizione lo zucchero con 250 g d'acqua, ottenere uno sciroppo e lasciar raffreddare. Frullare le pere sbucciate con il succo di limone, unire lo sciroppo e le fave di cacao e mescolare. Versare il composto in un contenitore largo e basso e far congelare. Al momento di servire tagliare a pezzi e mantecare nel mixer. Servire subito o conservare in freezer.

Per il sorbetto alla fragola e pomodoro

Portare ad ebollizione lo zucchero con 250 g d'acqua, ottenere uno sciroppo e lasciar raffreddare. Frullare le fragole mondate con il succo di limone, unire i pomodori spellati e tagliati in pezzi e frullare ancora. Aggiungere lo sciroppo di zucchero e mescolare. Versare il composto in un contenitore largo e basso e far congelare. Al momento di servire tagliare a pezzi e mantecare nel mixer. Servire subito o conservare in freezer.

Per il sorbetto allo yogurt, ananas e finocchio

Portare a ebollizione lo zucchero con 250 g d'acqua, ottenere uno sciroppo, unire il finocchio tagliato a cubetti e lasciar raffreddare. Frullare l'ananas con il succo di limone e lo yogurt, unire lo sciroppo e il finocchio e mescolare. Versare il composto in un contenitore largo e basso e far congelare. Al momento di servire tagliare a pezzi e mantecare nel mixer. Servire subito o conservare in freezer.

a cura di Michela Becchi

Spazio 7: a Torino il ristorante giovane tra arte contemporanea e bella cucina

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Classe 1984, Alessandro Mecca è da tre anni lo chef del ristorante della Fondazione Sandretto Re Rebaudengo, Spazio 7. Siamo tornati a provare la sua cucina.

 

Era un caldo luglio del 2015 quando la famiglia Sandretto Re Rebaudengo partì da Torino verso le colline di Villanova d’Asti. Avevano sentito di un giovane chef e volevano conoscerlo per capire se poteva fare al caso loro. Da bravi talent scout e collezionisti d’arte di primissimo piano, i Sandretto Re Rebaudengo dopo la cena capirono di aver trovato quello di cui avevano bisogno e proposero allo chef di trasferirsi nel loro ristorante di Torino. È così che è nata la collaborazione tra il ristorante Spazio 7 e Alessandro Mecca, un incontro che è stato subito felice e che oggi, dopo 3 anni, si rivela più solido che mai.

Emilio Re Rebaudengo foto vannucchiEmilio Re Rebaudengo

Sarà la giovane età dello staff, da Emilio Re Rebaudengo, figlio di Patrizia Sandretto e manager del ristorante, allo chef Alessandro e la sua brigata, quel che è certo è che le affinità elettive sono il catalizzatore che rendono questa realtà decisamente interessante. Perché il fattore “giovinezza” è il filo conduttore che connette Spazio e le persone: la location, nel quartiere San Paolo di Torino, in un capannone completamente ristrutturato adibito a galleria di arte contemporanea, sede principale della Fondazione Sandretto, che dal 2002 organizza qui esposizioni ed eventi dalla portata mondiale.

Fondazioone re rebaudengo foto vannucchiSala espositiva

Gli spazi

Giovinezza che letteralmente rima con consapevolezza, anche nelle scelte di Emilio Re Rebaudengo, che con i suoi 29 anni ha creato una realtà ristorativa dentro la Fondazione, divisa in due aree, la caffetteria al piano terra, per colazioni, light lunch e aperitivi, e Spazio 7, il ristorante al primo piano aperto a cena. Un grande contenitore in cui arte e cibo si incontrano e dialogano in ogni momento e in ogni dettaglio, nei dettagli d’arredo che nei decori e nelle tovagliette all’americana ci ricordano le opere delle sale adiacenti o nelle opere d’arte site specific che abbelliscono gli ambienti del ristorante. Contaminazione, armonia e apertura mentale sono le parole d’ordine che dominano il luogo.

Ma questa contemporaneità in progress, questi spazi che come l’acqua mutano a seconda del contenitore assumendo le forme delle esposizioni che accolgono – a seconda degli artisti che espongono, le sale della Fondazione vengono ampliate o ridotte per meglio adattarsi agli allestimenti – trova il suo contraltare e il suo miglior alleato nella personalità dello chef Alessandro Mecca che ha sostituito Simone Breda.

Carpaccio di vitella spazio 7 fondaizone rebaudengo foto vannucchiCarpaccio di vitella

Alessandro Mecca

Classe 1984, è quello che si potrebbe definire un ragazzo d’altri tempi: temperamento timido e riservato, nei suoi modi di antidivo si annida un passato tutto dedito alla cucina. Cresciuto nel ristorante dei genitori, ha vissuto da piccolo la grande epopea di certi ristoranti che correva sul binario parallelo dello sviluppo industriale di Torino, per cui l’immigrazione ha portato con sé un bagaglio culturale e gastronomico.

Ecco che negli anni 60 e 70 a Torino sono fiorite trattorie e osterie i cui nomi ancora oggi echeggiano o continuano a far parlare di sé. Ne sono un esempio Il gatto nero (che ha ottenuto Due Forchette del Gambero Rosso), oppure La Smarrita, ma anche il Crocetta stesso, il ristorante dei genitori originari di Altopascio, nella provincia di Lucca. Alessandro ricorda quando da bambino vedeva arrivare il furgone del macellaio che da Altopascio portava due volte a settimana carne di vacca, salumi e pane sciocco. Cresciuto con il retaggio dell’importanza delle materie prime, lo chef ha sviluppato naturalmente una sensibilità verso il territorio, radicandosi nelle tradizioni piemontesi cui si sente legato in maniera viscerale. Gli anni dell’adolescenza sono stati fondamentali per approfondire la cultura gastronomica piemontese, e per l’opportunità di fare stage in alcuni tra ristoranti storici, come al Sorriso di Soriso, la Ciau del Tornavento di Treiso e la magnifica esperienza con gli Alciati da Guido da Costigliole a Santo Stefano Belbo, di cui ricorda quanto fosse severa la signora Lidia, ma che resta l’insegnamento che ha segnato il passo del suo percorso.

Spazio 7 fondazione rebaudengo lido vannucchiSpazio 7

Dagli stage a Spazio 7

Da sempre appassionato di grande cucina, da piccolo imparava la geografia associando a ogni luogo il ristorante più importante, e si faceva raccontare le esperienze dai clienti dei genitori. Invece di collezionare figurine di calciatori come la maggior parte dei bambini della sua età, Alessandro collezionava guide, testi, ricette e riviste di cucina, con i suoi idoli, Giaccone, Vissani, Pierangelini, Scabin, Chapel. “Ammiro certi chef, in particolare quelli che hanno ottenuto le Due stelle Michelin, è a loro che guardo. Le Tre Stelle sono troppo perfette, mentre le Due sono quelle che preferisco perché racchiudono in sé quell’imperfezione che è elemento tipico dell’essere umano” spiega lo chef “sono le Stelle che definisco imperfette, quelle che hanno quel difetto che le rende umani e quindi geniali, perché l’imperfezione apre una breccia da cui può entrare la luce”.

E dopo sei mesi al D.O.M. di Alex Atala, a San Paolo del Brasile, Alessandro torna nella sua terra e con grande motivazione apre il proprio ristorante a Villanova d’Asti, l’Estate di Sa Martino, lontano dal trambusto cittadino. Sono anni in cui le lezioni dei maestri – e quella del padre in primis, sull’ossessione per la materia prima – si rivelano decisive per forgiare il suo personale pensiero sulla cucina, che è lo stesso che oggi troviamo a Spazio 7, con l’aggiunta dell’ingrediente artistico, un elemento che stimola continuamente lo chef: “Mi piace girare per i corridoi della Fondazione, osservare le opere e scoprirne i dettagli, poi torno in cucina. Non è mio intento riprodurre un piatto a partire da quanto ho visto, mi interessa piuttosto indagare il pensiero di un’artista da cui scaturisce l’opera, perché è la chiave che mi permette di dare continuità tra le sale del museo e il ristorante”.

capretto al forno spazio 7 foto vannucchiCapretto al forno

Il menu

La struttura del menu si spoglia dei criteri classici, a partire dal supporto: non più un fascicolo da sfogliare, ma una tavoletta in forex, proprio come le didascalie accanto alle opere della Fondazione. E decade anche la scansione antipasti-primi-secondi, in nome di una suddivisione che gioca sulle sensazioni, proprio come quando si percorrono le sale del museo, che non contengono solo un’opera di un artista, ma parte del suo excursus creativo. In menu tre raggruppamenti emozionali e temporali: Contrasto-Percezione contemporanea, Equilibrio-Creatività controllata, Classici- Comfort Food, oltre ai due menu degustazione a mano libera (da 5 portate a 60 euro, e da 8 a 70 euro). “Prima immagino un piatto e poi lo posiziono in una delle caselle del menu” racconta Alessandro, che da 3 anni guida con disinvoltura il ristorante, e si occupa anche della linea della caffetteria e degli eventi della Fondazione Sandretto. “Ogni 3-4 mesi cambiano le mostre, esattamente come il mio menu. Qui è tutto in continuità, non c’è cesura di pensiero tra ciò che accade nel museo e l’andamento del ristorante”. E anche dal punto di vista architettonico il fil rouge è evidente: la sala del ristorante è il prolungamento in verticale della Fondazione, con opere d’arte alle pareti – notevole l’opera site specific di Amedeo Martegani, che raffigura lapislazzuli di luce che filtra da una siepe vista di notte – e le originali creazioni in silicone dell’artista biellese Alessandro Ciffo, sui tavoli.

 

Dentice all’acqua pazza. spazio 7 fondaizone rebaudengo foto vannucchiDentice all’acqua pazza

I piatti

Se si parla di arte, il primo grande maestro che ha dato dignità artistica al cibo è stato indiscutibilmente Gualtiero Marchesi, omaggiato più volte da chef Mecca, come nel Dentice all’acqua pazza, la cui estetica ricorda in tutto e per tutto il Dripping. Su una base di dentice marinato in ceviche, viene adagiato un concentrato di passata di pomodoro, basilico e aglio, tutti in estrazione, per un piatto molto fresco, estivo, che dal trampolino della tradizione nostrana spicca il volo verso il Sud America, passando per la Spagna nel ricordo del gazpacho.

E sempre dalla dimensione casalinga prende le mosse il Carpaccio di vitella, con crema di corallo di capasanta e tartufo, su fondo di cottura emulsionato con burro, caviale di salmerino e pesce volante. Un carpaccio di carne all'albese che in bocca si scioglie rilasciando il sapore di una scaloppina al burro in perfetto stile anni '80, in un pensiero che corre parallelo alla cotoletta baronettiana del menu Nel Tempo.

 Asparagi bottarga

Ottima mano anche sui vegetali che si fanno protagonisti nel primaverile Asparagi bottarga, con l’asparago cotto a vapore e avvolto in una panure di bottarga (usata come condimento per dare sapidità all’ingrediente protagonista, come nel precedente carpaccio), pane e aromi e servito su una crema di asparagi bruciati che aggiungono il giusto gradiente di aromaticità e freschezza.

Ma lo chef è un piemontese che sa ben interpretare un piatto tipicamente romano, gli Spaghetti alla Puttanesca, con gli spaghetti di Emidio Pepe saltati con acqua di polpo, acciughe, olive e capperi, per un piatto dai sapori pieni e rispettosi, decisamente goloso.

L’omaggio a Marchesi si fa dichiarato e riguardoso nel Riso giallo e Ossobuco, con burro acido, parmigiano e una cottura in acqua leggermente più al dente del classico milanese, che fa risaltare la gremolata dell’ossobuco.

Anguilla in carpione. spazio 7 fondaizone rebaudengo foto vannucchiAnguilla in carpione

Tra i secondi bandite le basse temperature in favore della fiamma alta, come nell’Anguilla in carpione, pompelmo e giardiniera, e nel Capretto al forno, caglio affumicato e insalate amare, nel ricordo dello spiedo di Cesare Giaccone – immortale il suo capretto cotto nel caminetto – e il B.B. Bue con lattuga disidratata (foto in copertina), per cui usa un taglio solitamente usato per i bolliti, marinato in mammella sciolta per renderlo più morbido – alla maniera sudamericana appresa da Atala – cotto sulla griglia e condito quindi con salsa bbq agrodolce disidratata e amalgamata con jus di vitello. Una menzione merita la Faraona alla Marengo, piatto tipicamente piemontese le cui origini risalgono alla vittoria di Napoleone contro gli Austriaci nella battaglia di Marengo nel 1800. Il napoleonico pollo condito con funghi, gamberi di fiume e vino Madera portato dall'esercito francese, è qui omaggiato con uovo, fondo di gamberi, asparagi e taccole.

Golosi anche i dessert, con un Tiramisù in forma di éclair con la pasta choux a fare le veci dei savoiardi, la Panna cotta al latte di capra e cioccolato bianco a ricordare un dulce de leche, e Pere e cioccolato a base di biscotto al cioccolato cotto al vapore, corallo di pera e brodo di fava tonka. Grande attenzione a dolci e lievitati, prerogativa piemontese e passione per lo chef che ci si dedica anche al di fuori del lavoro: la domenica mattina, prima del servizio, ognuno dei ragazzi della brigata a turno porta un vassoio di paste delle migliori pasticcerie torinesi, una sorta di terzo tempo che è piacere e conoscenza insieme, anche in considerazione del fatto che Alessandro ha costruito un team di ragazzi affiatati come una famiglia, che lavorano insieme da anni e in cui tutti si alternano nelle varie partite.

Oltre

Cocktail e vino

Lo spazio della caffetteria, al piano terra, progettata dall’artista italiano Rudolf Stingel, aggiunge un tocco creativo a un momento di pausa con tavoli e sedie argentate e le pareti decorate con motivi modulari retroilluminati. È il luogo ideale per caffè (selezione Illy), anche se nessuno specialty e nessuna estrazione alternativa all'espresso, per ora, ma confidiamo in un cambio di passo nel comparto caffetteria per allinearsi al livello del ristorante. L'offerta include anche tè e infusi in foglia bio della sala da tè torinese Camellia, il tempo del tèe della Harney & Sons, magari in abbinamento a pasticcini, croissant, muffin disponibili anche in versione vegan e per celiaci. Nessuno specialty e nessuna estrazione alternativa all'espresso, per ora, ma confidiamo in un cambio di passo nel comparto caffetteria per allinearsi al livello del ristorante. Ma è anche lo spazio ideale per un pranzo veloce, con una formula ristorativa che propone piatti semplici ma mai banali, e trova infine un ottimo punto fermo nel momento dell’aperitivo e del dopo cena, grazie a una drink list molto originale. Tra gli altri Una notte a Torino, a base di distillato di Zoppi, liquore al lampone di Quaglia, sciroppo di rosa homemade e frutti di bosco; il DolceStilnovo,a base whisky torbato e bitter e servito in un gioco divertente con zucchero filato e caramello bruciato; il Bubusan,a base di sake Katori 90, whisky, chicco di pepe sancho, e Oltre,a base di gin, Campari, bitter al cardamomo e scorza d’arancia: tutti cocktail pensati in abbinamento ai dessert, ma anche degni sostituti. La sala è il territorio del maître Gianluca Calandra, con cui Alessandro ha lavorato da Atala, uomo di sala di grande esperienza, e del sommelier Marco Masera che ha approntato una carta dei vini che racconta in maniera profonda del Piemonte e della vicina Francia, con una particolare attenzione per piccoli produttori e incursioni preziose tra vini orange e macerati e la nouvelle vague dei vini naturali.

Siamo andati per testare i piatti, abbiamo trovato un luogo in cui arte, cucina e fattore umano trovano il miglior punto d’incontro, una realtà da tenere d’occhio per la crescita costante di uno chef con una mano matura e un pensiero profondo.

 

Spazio7 - Torino .- Via Modane 20 - ingresso anche da Via Millio 15/B - 011. 3787626 338. 8166510 - http://www.ristorantespazio7.it/

 

a cura di Sara Favilla

fotografie di Lido Vannucchi

Idea18. Il boutique hotel che nasce sulle colline teramane con la cucina di Francesco Germani

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Si prefigge di valorizzare un territorio per molti aspetti ancora vergine il progetto di Anna Illuminati a Mauro Scaramucci, che nel piccolo borgo di Controguerra inaugurano un boutique hotel di grande ambizione. 5 suite, due orti e un ristorante gastronomico affidato alla guida di Francesco Germani. Ecco come sarà. 

Un boutique hotel a Controguerra

Come nasce un boutique hotel nelle campagne dell’entroterra teramano ancora così legate all’idea di un turismo tradizionale tutto locande, agri-ristori e trattorie? Dalla voglia di offrire uno spunto in più per scoprire una regione di confine (tra Abruzzo e Marche) ancora vergine, ma incredibilmente ricca di risorse. Siamo a Controguerra, nella provincia di Teramo che dopo qualche chilometro cede il passo al saliscendi del subappennino marchigiano. La fama del piccolo borgo che conta circa 3mila anime si lega al disciplinare della Doc vinicola Controguerra, e in particolare al nome della famiglia Illuminati, che da più di un secolo produce vini sul territorio. Resa celebre e moderna dal patron Dino (130 gli ettari di vigneti a regime sulle colline teramane), oggi il turnover familiare lascia spazio anche alla quinta generazione Illuminati, Lorenzo, Stefano e Anna.

E proprio ad Anna (insieme a suo marito Mauro Scaramucci) fa capo il progetto Idea18, moderno concetto d'ospitalità fondato sull'interpretazione di un boutique hotel calato in un contesto rurale da cui non potrà prescindere per l'approvvigionamento dei prodotti più tipici del territorio: “Vogliamo valorizzare il lavoro degli altri, aggiungendo il nostro contributo” si legge tra le righe di una mission aziendale ben definita. Chiaro che l'attitudine familiare e la possibilità di attingere a un paniere di prodotti enogastronomici tra i più ricchi a livello nazionale influenzerà in modo marcato i criteri di ospitalità su cui spingere l'acceleratore.

Hotel con cucina

Quindi non solo albergo, ma stanze e cucina: 5 suite di design - tra arredi decò e inserti contemporanei, con ampie vetrate affacciate sul paesaggio e personalizzazioni spiccate, dai palloncini in vetro di Murano al telescopio per guardare le stelle - e un ristorante gastronomico ambizioso, che lavorerà al servizio degli ospiti dell'hotel, ma soprattutto con l'obiettivo di attrarre una clientela diversa a Controguerra. Viaggiatori in cerca di un rifugio inaspettato per godere di un'esperienza gastronomica creativa e di territorio insieme, appassionati di vino, stranieri a caccia di valide alternative alle rotte turistiche più gettonate, che si fermano tra le colline del Chianti e i monasteri dell'Umbria.

Il ristorante aprirà ufficialmente le porte al pubblico il 18 giugno, a guidare la cucina una vecchia conoscenza del panorama meneghino, Francesco Germani, che per seguire personalmente il nuovo progetto ha lasciato l'impegno al Balthazar di St. Moritz (mentre resta saldo alla guida della Maniera di Carlo, a Milano, di cui è pure patron, dal 2009; Una Forchetta sulla guida Milano 2019 del Gambero Rosso). Classe 1978, Germani ha abituato chi lo conosce a una cucina particolarmente incline al mondo vegetale (del resto nel suo passato si segnala l'alunnato presso Pietro Leemann, oltre che al fianco di Enrico Bartolini): “La mia è una cucina fresca, leggera, tante marinature e cotture veloci, acida grazie al lavoro sulle verdure e le erbe spontanee. Qui però mi farò ispirare molto dai prodotti del territorio: è incredibile come in mezz'ora di macchina si passi dal ritirare le alici appena arrivate in porto alla pecora appena macellata in campagna. Il mare è a 10 chilometri, tutt'intorno abbiamo piccole realtà di grande interesse. E poi c'è l'ispirazione dei prodotti abruzzesi e marchigiani, dalle lenticchie di Santo Stefano di Sessanio alla carne bovina marchigiana”.

Il ristorante di Francesco Germani

In Abruzzo, prima d'ora, Francesco non aveva mai lavorato. Eppure ha sposato subito con entusiasmo il progetto di Anna e Mauro: “Hanno realizzato una struttura bellissima, puntano in alto e questo è molto stimolante”. Con sé Francesco ha portato quattro ragazzi, lui si dividerà tra Milano e Controguerra, “ma a luglio e agosto probabilmente sarò sempre qui”. Nei mesi scorsi ha avuto modo di intervenire sull'assetto delle cucine - “sono due, una per il ristorante, l'altra a uso esclusivo del piano interrato, che sarà utilizzato per eventi, degustazioni e inverno riusciremo a sfruttare molto” - intanto nei terreni di proprietà che circondano la struttura si stanno mettendo a coltura due orti: “Uno tradizionale, l'altro in collaborazione con l'Università di Bari per micrortaggi ed erbe spontanee e medicinali, che da sempre utilizzo molto in cucina”.

Ma arriveranno anche prodotti dal resto d'Italia e dall'estero, “materie prime pregiate di cui non voglio privarmi, dal caviale alle ostriche, perché è giusto lavorare su entrambi i fronti”. E infatti la proposta prevede tre menu degustazione, un percorso per il Territorio, uno per l'Orto, l'ultimo, a mano libera dello chef, ribattezzato Idea (dai 60 agli 80 euro), “dove spingerò di più sugli abbinamenti inediti”. Più avanti si lavorerà anche alla definizione di una carta breve, per chi non vuole intraprendere un percorso, e su un'offerta più agile per il pranzo. In più la brigata seguirà anche il servizio della colazione per gli ospiti.

In cantina, per ora, circa 200 referenze, le etichette di casa Illuminati, le proposte regionali e nazionali, gli champagne. E 35 coperti all'interno che nella bella stagione raddoppiano, con lo spazio sotto il portico esterno. Qualche suggestione particolare dopo le prime settimane di lavoro? “Sono affascinato dal culto locale dell'ovino, ho amato da subito le lenticchie di Santo Stefano di Sessanio; mentre mi ha sorpreso l'utilizzo che fanno qui della gassosa, servirla con il vino è praticamente un'abitudine familiare! Noi lavoreremo con la Gassosa di Campli di Vittorio G, è un prodotto che mi affascina. Ma in generale ho trovato gente molto innamorata di quello che fa, così si lavora molto volentieri”.

 

Idea18 – Controguerra (TE) – Contrada San Fedele – dal 18 giugno – www.idea18.it

 

a cura di Livia Montagnoli

Uazz’America, la cucina a stelle e strisce: l'hamburger perfetto

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È il cibo simbolo della cucina Made in Usa, il famoso panino che rappresenta per antonomasia lo street food a stelle e strisce. Ecco tutti i segreti per realizzare anche in Italia un perfetto hamburger.

 

L’icona del cibo americano è così popolare che negli USA se ne consumano 38 milioni al giorno. Certo, in questo conto rientrano sia hamburger gourmet che prodotti abitualmente reperibili nei fast food, dove la qualità è media, se non scadente. Ma se parliamo del vero hamburger di manzo americano, le cose cambiano. Per farlo alla perfezione, ci sono regole precise, ferree.

Prima di andare al sodo e parlare di ciccia però, è bene sapere che la polpetta (o patty, osvizzera) del perfetto burger ha due importanti comprimari: la salsa e il pane.

Il ketchup

Il condimento preferito d'America, presente nel 97% delle cucine del mondo, è un simbolo statunitense. Ma se vi dicessi che la più famosa salsa di pomodoro Made in USA nasce in Asia e originariamente non conteneva pomodoro? La parola ketchup deriva infatti dal termine cinese ke-tsiap, che si riferisce a una salsa di pesce in salamoia. Facendosi strada in Malesia il nome del prodotto diventa kechap, e poi ketjap in Indonesia. I marinai inglesi del diciassettesimo secolo scoprirono per la prima volta le delizie di questo condimento asiatico e lo portarono in occidente. S’inizia a parlare di ketchup per la prima volta sui giornali intorno al 1690, chiamandolo anche catsup o catchup.

La salsa nel tempo subisce varie modifiche anche nella ricetta, in particolare con l'aggiunta del pomodoro nel 1700. Ma le prime versioni di ketchup al pomodoro erano molto più liquide, con una consistenza più simile a una salsa di soia o alla Worcestershire.

L’azienda originaria di Pittsburgh F. & J. Heinz Company iniziò a commercializzare il ketchup al pomodoro nel 1876. Verso la fine del diciannovesimo secolo, questa divenne la varietà principale di ketchup negli Stati Uniti, e la specifica "tomato ketchup" fu gradualmente abbandonata.

Per fare in casa la salsa ketchup servono pochi ingredienti, e solo un po’ di pazienza per ridurre il composto per due ore a fuoco bassissimo. Il risultato è golosissimo e sano. E vuoi mettere la soddisfazione di gustare un buon ketchup fatto in casa? TROVIAMO LA RICETTA

Il bun di Roscioli

Il bun

Non dimentichiamoci però che per un perfetto burger, il pane non è secondario, ma ha la stessa importanza della carne. Dev'essere morbido e friabile - per una facile masticazione - senza una crosta troppo spessa e senza troppa mollica; ma deve anche essere in grado di sostenere strati di verdure e condimenti, nonché la carne, senza sbriciolarsi. La ricetta tradizionale del bun contiene nell’impasto anche l’uovo; nascendo come alimento campagnolo, l’aggiunta di uovo rendeva il pane più conservabile e forniva proteine e nutrimento.

Il consiglio è di andare a comprare i vostri bun in un forno di fiducia, che sicuramente offre soluzioni migliori di quelle industriali confezionate, spesso piene di conservanti quali alcool etilico. Io mi sono rivolta ad un esperto, Pierluigi Roscioli. Ultima generazione di una storica famiglia di fornai, nella sua attività sforna ottimo pane italiano, ma anche eccellenti bun per hamburger. Pierluigi conferma che la tostatura è importante, ma anche la dimensione, il suo bun non è eccessivamente alto, con forellini in superficie. La lievitazione e la cottura avvengono con le pagnottelle attaccate una all’altra, che una volta cotte si staccano rivelando zone più cotte e meno cotte. I bun di Roscioli possono essere insaporiti in superficie con semi di sesamo, semi di papavero o “plain”, semplici: ottimi co-protagonisti del nostro piatto-simbolo statunitense.

Il burger di Galli

La patty di carne macinata

Finalmente parliamo di carne, la protagonista del burger. Il perfetto burger deve essere succulento, tenero e saporito. Ma come ricreare il sapore e la struttura della tenera e succosa svizzera di manzo, rappresentante per eccellenza del classico mangiare nordamericano? Sta tutto nella composizione del macinato e nella cottura.

Me lo sono fatto spiegare da Fabio Galli, al nuovo mattatoio di Roma, dove si trova la sua azienda – anche in questo caso un nome storico nel panorama capitolino - che si occupa di macellazione, distribuzione e commercio della carne. L’azienda lavora la carne dal 1951 e oggi prepara, fra le altre cose, hamburger da manuale, serviti nei punti vendita TBSP – The Barbecue Smoke Project.

 

Il segreto, mi conferma Galli, sta tutto nella composizione e nella proporzione di diversi tagli di manzo, contenenti grasso endogeno, ovvero nella marezzatura (mai grasso aggiunto!). Dei 226 grammi circa della perfetta patty, la percentuale di grasso è pari al 20%, il resto è composto da un misto di chuck (collo), brisket (punta di petto) e shortribs (costato). I vari tagli danno ciascuno una caratteristica diversa al macinato: il costato dona al blend forte sapore di carne; il petto dona succosità; e il collo regala dolcezza. Macinando i tre diversi tagli (con proporzioni segrete) si ottiene il blend perfetto. I burgers degni di questo nome non sono mai sottili, bensì misurano 4x1 pollici, ovvero 10 cm con uno spessore di circa 2,54 cm. L’eccessivo maneggiamento della carne quando si formano le patty, rende i burgers duri, quindi le svizzere vanno formate senza massaggiare troppo il macinato.

 

La cottura

La cottura ideale è hot and fast, ovvero veloce e caldissima, per ottenere una crosticina detta bark (corteccia) che racchiude un interno tenero e succulento. Una cottura perciò sulla griglia, o su una piastra infuocata, per pochissimi minuti. Bisogna resistere all’impulso di schiacciarle con una spatola durante la cottura. Questo infatti ne estrae i preziosi succhi, facendo seccare la carne.

Dopo aver unto le facciate della svizzera e condito con sale e pepe, si procede alla cottura alla griglia. In questo caso è bene appoggiarla sulla griglia ben infuocata e girarla una volta sola. Osserverete come la griglia di metallo lascia bellissime striature sulla carne. La deliziosa crosticina che si forma è provocata dalla reazione di Maillard, una serie complessa di fenomeni che avviene a seguito dell'interazione di zuccheri e proteine durante la cottura. La cottura ideale è al sangue. E su questo sono intransigente!

L'hamburger perfetto

Questo che segue è un mio personale suggerimento per una composizione a strati dell’hamburger perfetto:

 

Bun top tostato (io preferisco il bun di Roscioli)

Senape gialla (io ne uso una varietà insaporita al miele)

Anelli di cipolla rossa (questa è la stagione delle cipolle rosse di Tropea!)

Fetta di pomodoro maturo (io uso il cuore di bue)

Cucchiaiata facoltativa di guacamole (ho vissuto un periodo della mia gioventù in Messico)

Una macchia di maionese (sempre fatta in casa, con le uova del contadino)

Fetta di formaggio cheddar (vi ho già detto che sono nata nel Vermont?)

2 fettine sottili di cetrioli gurken (un must! Dona quella punta di acidulo)

Hamburger di manzo da 226 g (blend Galli)

Foglia di lattuga iceberg (per un po’ di freschezza)

Ketchup fatto in casa (la ricetta la racconto nella seconda puntata di Uazz’America.... stay tuned)

Bun bottom tostato

 

Voi come la componete la vostra hamburger dei sogni?

 

Antico Forno RoscioliRomaVia dei Chiavari 34Tel. 066864045www.anticofornoroscioli.it
TBSPRomaPiazzale di Ponte Milvio 12/A – Via Aldo Manuzio 66/F (Mercato di Testaccio)www.tbsp.it

 

a cura di Eleonora Baldwin

 

Questi e altri racconti li trovate in Uazz’America, un programma che va in onda tutti i lunedì alle ore 22:00 su Gambero Rosso Channel SKY 412; e in replica sabato alle 12:30; e domenica alle 19:30

 

In Puglia c’è Grani Futuri. Un pane buono ed economicamente sostenibile è possibile

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Seconda edizione per il festival nato l’anno scorso da un’idea del fornaio economista Antonio Cera, che nella sua San Marco in Lamis riunisce addetti ai lavori e chef, con l’idea di valorizzare l’intera filiera del pane. Dal 16 al 18 giugno tavole rotonde, assaggi, visite sul territorio. 

Grani Futuri. Il movimento

È un movimento culturale, economico, sociale, dicono gli organizzatori dell’incontro che un anno fa seminava le premesse per la crescita di Grani Futuri. Non semplicemente un festival del pane, dunque, ma un momento di riflessione sulla consapevolezza degli addetti ai lavori, e un invito a fare circuito per valorizzare ogni tassello della filiera, dal contadino che può vendere il grano al giusto prezzo al mugnaio che paga la farina per il suo valore, al fornaio, che per ultimo, a propria volta, aggiunge valore al prodotto finale di una delle più significative produzioni alimentari d’Italia. Non solo per interessi economici, ma pure per la valenza antropologica e sociale che porta con sé la gestualità del pane e la sapienza artigiana di chi lo produce. Quest’anno l’appuntamento replica dal 16 al 18 giugno, ancora una volta in Puglia, prima regione produttrice di grano duro in Italia, con il 22% del totale nazionale, e ben dotata di mulini per la trasformazione (se ne contano oltre una ventina dislocati sul territorio regionale).

 

Antonio Cera e il manifesto del pane

E proprio in Puglia nasce il movimento sollecitato da Antonio Cera, ideatore del festival e fornaio di San Marco in Lamis (provincia di Foggia), dove ha preso in mano l’attività familiare ed ereditato sin da bambino la passione per farine e panificazione. Prima, però, un fondamentale passaggio a Milano, per la laurea in economia alla Bocconi, che oggi gli vale l’appellativo di fornaio economista: alla luce dei suoi studi, infatti, Antonio è riuscito a trasformare la piccola azienda di famiglia in un’attività di panificazione impegnata a valorizzare le realtà virtuose del territorio, al centro di una rete di mutuo soccorso che ottimizza le risorse per far crescere la qualità. E tutti ne beneficiano, proprio a partire dal forno Sammarco, che ancora oggi trova i suoi pilastri nel Tridente al femminile che ha cresciuto Antonio: mamma Rachele e le zie Maria e Tanella, 250 anni in tre nel 2018. Un anno fa, Grani Futuri esordiva con un manifesto futurista del pane che dettava le regole per i panificatori decisi a impegnarsi: così la prima edizione del forum sulla panificazione in grado di riunire a San Marco in Lamis addetti ai lavori da tutta Italia si annunciava al mondo, decisa a raccontare il pane non tanto (non solo) nella sua dimensione più folcloristica, ma stimolando un sistema integrato di cultura, ambiente e territorio. Per il pubblico della manifestazione, chiamato a intervenire numeroso, tutto ciò si traduceva in una bella festa di piazza, con laboratori di approfondimento, incontri, assaggi di prodotti regionali e visite guidate alla scoperta dei circuiti turistici locali. Tra qualche giorno, la seconda edizione replica con il sostegno di nuovi partner: le detenute di Made in carcere per realizzare magliette e grembiuli di Grani Futuri, il progetto Terracolta nato a partire dal manifesto di cui sopra per lavorare su un particolare impasto da farine di grani riscoperti, Ecofesta e i suoi packaging compostabili.

 

Il programma

Il programma, nuovamente, è ricco di appuntamenti. Sabato 16, dalle 19, la Via del Gusto si anima coinvolgendo panificatori e chef insieme, con 40 diverse interpretazioni dello stesso prodotto: il pane. Partecipano alla festa i fornai Pascal Barbato, Domenico Carlucci, Luca Scarcella, Michele Vigilante e diversi chef della zona. Domenica 17 giugno, invece, ci si muove di prima mattina alla scoperta del Parco Nazionale del Gargano, prima dell’apertura, alle 12, della Gara del pancotto. Dalle 19, di nuovo in scena sulla Via del Gusto, ma con nuovi protagonisti: Petra Antolini, Matteo Paparelli, Francesco Arena, Fabrizio Franco, e un rinnovato parterre di chef pugliesi. L’appuntamento con l’approfondimento scientifico, invece, è in programma per lunedì 18, intorno al tavolo di Sustinere Itinere; in serata Cena di Pane di beneficenza alla masseria Calderoso, in collaborazione con i produttori locali e chef in arrivo da tutta Italia, da Corrado Assenza a Viviana Varese e Angelo Sabatelli, da Luca Lacalamita a Pietro Zito e la messicana Zahie Tellez. Perché “l’Italia è terra, è pane. È grano”. E un prodotto di qualità economicamente sostenibile è possibile.

 

Grani Futuri - San Marco in Lamis (FG) - dal 16 al 18 giugno - www.granifuturi.com

 

a cura di Livia Montagnoli


Bocuse d’Or Europa 2018. La finale: l’Italia di Martino Ruggieri passa per un soffio

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Passaggio di turno con l’amaro in bocca per l’Italia, ripescata dalla dodicesima posizione grazie alla wild card per la nazione ospite. E invece all’Oval di Torino trionfano i Paesi Scandinavi: sul podio Norvegia, Svezia e Danimarca. Prossima tappa la finalissima di Lione 2019. 

Il podio dei Paesi Scandinavi

Come sarebbe andata a finire lo si poteva intuire fin dal mattino, entrando nell’arena dell’Oval. Tifo se possibile ancora più duro del primo giorno, e i più agguerriti i Paesi Scandinavi, con i supporter della Finlandia che avevano in faccia una maschera dalle fattezze del proprio candidato Ismo Sipelainen, con tanto di baffetti all’insù (stessa foggia di quelli di Crippa, deve essere la nouvelle vague degli chef baffuti), i danesi che sparavano bandierine di carta a mo’ di coriandoli, svedesi e norvegesi urlanti e sventolanti le rispettive bandiere nazionali. Noi meno, meno di noi solo i turchi (che però avevano belle magliette di squadra con la scritta Keep calm and cook).

Dieci ore dopo o quasi, il podio del Bocuse d’Or Europa 2018 decretava l’oro per la Norvegia, l’argento per la Svezia, il bronzo per la Danimarca, seguite a ruota dalla Finlandia.

 

Lo stellone italiano si chiama wild card

L’Italia a Lione ci andrà, sì, ma grazie alla wild card concessa a una squadra che non avrebbe raggiunto il punteggio (siamo finiti dodicesimi dopo la Spagna, prima grande esclusa, e molto prima di noi c’erano Islanda, Ungheria, Svizzera…).

D’accordo, Curtis Mulpas, della squadra del nostro Martino Ruggieri si è aggiudicato il (meritatissimo) premio per il Miglior comis, ma il premio per il miglior piatto lo ha vinto la Francia e quello per il miglior vassoio la Finlandia.

Insomma bene ma non benissimo, tanto che Ruggieri era livido, e i sostenitori arrivati dalla Puglia che avevano scandito inni alla vittoria ammutoliti.

Che cosa non ha funzionato? Forse un vassoio un po’ audace come concezione, per quanto all’insegna della sostenibilità e del no allo spreco? Forse lo spirito di un piatto creato per rappresentare l’Italia “in difficoltà in questo periodo” (uguale tirarsela)? Se ne riparlerà a bocce ferme. Enrico Crippa fin dal mattino tamburellava nervoso sul bancone della cucina italiana, pulendo e ripulendo il piano con un tovagliolo (“sono teso come una corda di violino”), Ruggieri eseguiva gesti con rapidità e precisione e sembrava molto compreso dal ruolo.

 

La travolgente onda del Nord

La verità è che l’onda del Nord ha ancora un passo in più. Non avendo potuto assaggiare nulla, giudichiamo da immagini e parole. E certo i Danesi, per fare un esempio, con il geniale escamotage dello chef Kenneth Toft-Hansen che lo spaghetto n.7, obbligatorio, l’ha essiccato e grattuggiato su un asparago - aggirando l’ostacolo di una cottura che poteva non essere perfetta e riportando il tutto alla cultura del suo territorio - hanno creato un piatto verde e fiorito che era quasi un viaggio in un bosco danese e pareva uscito da un racconto di Karen Blixen.

E gli ingredienti tutti nostrani – Castelmagno, Fassona…- alla fine li hanno saputi utilizzare meglio gli chef del Nord. Almeno secondo la giuria, tutta al maschile, tra l’altro (ma questa è un’altra lunga storia).

 

Curiosità a margine

Note di colore a margine: giù i tatuaggi (pochi gli chef che li esibivano), su le scarpe ginniche (e Marco Sacco ha osato persino degli zoccoli relax). Bravi i ragazzi e la ragazze del Giolitti, scuola alberghiera, che hanno servito i piatti alla giuria con impegno e professionalità. Bello l’omaggio a Bocuse in un filmato ricordo che ha commosso il figlio Jérome. Che oggi compiva gli anni (49), ma ha dichiarato che non era la sua festa, piuttosto quella del cibo di qualità.

Resta un po’ di amarezza, certo l’Italia si aspettava di più. A gennaio 2019 intanto si va a Lione, speriamo nel miracolo italiano.

 

a cura di Rosalba Graglia

(in apertura il vassoio dell'Italia)

World's 50 Best Restaurants 2018 51-100. Aspettando Bilbao, chi sale e chi scende

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Nessun italiano nella parte bassa della classifica, fatta eccezione per Umberto Bombana e Christian Puglisi, entrambi al lavoro oltreconfine, entrambi in forte discesa. Assente Scabin (risale in top 50 o esce definitivamente?), le più alte scalata arrivano dall'Asia, con Suhring e Florilege. Debutta Enigma, rientra Fat Duck. 

 

Aspettando la 50 Best

World's 50 Best Restaurants 2018, coming soon. Ancora una volta si avvicina il momento di scoprire come si pronuncerà la classifica (by William Drew) più mondana e charmant nel panorama dei premi dedicati alla ristorazione internazionale. L'appuntamento è a Bilbao, nella prima serata di martedì 19 giugno, quando la capitale dei Paesi Baschi si prepara ad accogliere gli chef più influenti del mondo riuniti per conoscere la propria posizione nella Top 50: chi alzerà quest'anno lo scettro che Massimo Bottura ha dovuto cedere sul palco di Melbourne alla coppia d'oro di New York, Daniel Humm e Will Guidara? Scalerà nuove posizioni il Reale di Niko Romito balzato nel 2017 in 43esima posizione? Quali rotte gastronomiche, a patto che si staglino all'orizzonte nuovi protagonisti e Paesi emergenti, disegneranno le posizioni più alte della classifica?

 

51-100, i primi tra gli “esclusi”

Per ora, a una settimana dalla cerimonia ufficiale, dobbiamo accontentarci della consueta anteprima sui piazzamenti dal numero 100 al 51, che come sempre, tra le righe, suggerisce i primi pronostici. E anche qualche amara sorpresa: che fine ha fatto, per esempio, il Combal.Zero di Davide Scabin? Nel 2017 era uscito dalla top 50, piazzandosi al numero 59. Stavolta il suo nome non c'è, neppure nella parte bassa della lista: che possa aver nuovamente rosicchiato qualche posizione a salire? E se invece lo chef piemontese dovesse accontentarsi di un nulla di fatto? Non ci sono dubbi, intanto, sulla cattiva stella di un altro italiano: Christian Puglisi, e il suo Relae di Copenaghen scendono dalla posizione 39 alla 71 (ma la capitale danese vede l'ingresso in top 100 di 108, nato sulle ceneri del vecchio Noma, mentre il nuovo Noma, aperto all'inizio del 2018, salterà il giro anche quest'anno), mentre si muove ancora tra la 51 e la 100 Umberto Bombana, comunque in calo netto con il suo 8 ½ di Hong Kong, dalla 60 alla 93 (riscende, di fatto, alla posizione 2016).

Lasciata da parte l'Italia, che comunque dovrebbe fare affidamento, oltre che sull'Osteria Francescana, sui fratelli Alajmo (Le Calandre), Enrico Crippa (Piazza Duomo) e Niko Romito (Reale), sono altre le dinamiche da studiare.

 

Chi sale. New entry e ritorni

Per esempio il bel risultato della new entry che si aggiudica il miglior piazzamento e ci porta a Bangkok, anche se per celebrare una cucina di ispirazione tedesca: Suhring debutta direttamente al numero 54. Bel piazzamento anche per Frantzen, da Stoccolma, ugualmente al debutto al numero 65). La Gran Bretagna, invece, spera nel salto di qualità di Lyle's, insegna londinese del giovane James Lowe, nel 2017 al numero 54 e al momento sparito dai radar; sempre per l'Inghilterra, si riaffaccia in classifica il Fat Duck di Heston Blumenthal, fermo però al 74 con la sua insegna storica, mentre confermata dovrebbe essere la presenza in top 50 del suo indirizzo più smart (Dinner a Londra). L'altra significativa scalata ci porta dall'altra parte del mondo, per scoprire l'ottimo stato di forma (almeno a detta dei giurati interpellati) di Florilege, insegna filofrancese di Tokyo, dal 99 al 59 nel giro di un anno.

 

SingleThread: un indirizzo da tenere d'occhio

Dagli Stati Uniti l'esordio di Le Coucou di New York (85) e di SingleThread (91), dalla California di Healdsburg, che si aggiudica pure il premio One to Watch (un indirizzo da tenere d'occhio), che l'anno scorso ha portato fortuna al trio del Disfrutar: il ristorante di Barcellona, l'anno scorso al numero 55, con molta probabilità si appresta a esordire tra pochi giorni nell'Olimpo della top 50, rafforzando la presenza spagnola nella parte alta della classifica. Prima apparizione in top 100 per la Colombia di Leonor Espinosa, al numero 99 con Leo (Bogotà). Poco più su, al 95, debutta anche il chiacchierato Enigma di Albert e Ferran Adrià, mentre a difendere l'orgoglio spagnolo esordisce anche Elkano (77), che gioca in casa tra i vicoli di Getaria, nei Paesi Baschi. Diversi sono anche i nomi in uscita dalla top 50 che ritroviamo ai piani bassi della classifica. Questo significa che ci saranno da registrare molte novità anche in ascesa: con molta probabilità, per esempio, l'insegna londinese di Clare Smyth, Best Female chef 2018, che dovrebbe esordire in top 50 con Core, a nemmeno un anno dal debutto solista. Comincia il conto alla rovescia.

 

Tutta la lista dalla 51 alla 100

 

a cura di Livia Montagnoli

Le occasioni mancate della cucina italiana

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La recente storia della cucina italiana è piena di avventure che potevano finir bene e che invece sono andate nel verso sbagliato. Nel numero di giugno del Gambero Rosso le abbiamo passate in rassegna. Ecco qualche esempio.

 

Non esiste la cucina al congiuntivo, quella fatta di rimpianti e coincidenze mancate sul tabellone della storia. Ma se è vero che a fine millennio si sono concluse epopee entusiasmanti (non sempre seguite dalle pratiche ereditarie del caso) anche gli ultimi vent’anni hanno infilato una sequenza di occasioni mancate. Persone innanzitutto, ma anche ristoranti, sinergie, piste culinarie smarrite. Rovesci in certi casi un po’ provvidenziali, se è vero che nei musei abbondano i dipinti sbagliati. “Tu ridi; fai attenzione e capirai che ho ragione”, ammoniva Picasso. “Ciò che consideriamo sempre come opere modello sono quelle che più s’allontanano dalle regole dettate dai maestri dell’epoca”. Opere fallite, insomma, che continuano a influenzare il presente. E quindi: sono davvero fallite? Una riflessione opportuna in un momento in cui la cucina italiana sembra sempre di più una potenza mondiale. Una riflessione in cui abbiamo invitato intellettuali, docenti ed esperti a dire la loro. Una riflessione che ci può anche aiutare a pensare ai nostri errori di osservatori, di clienti, di giornalisti. E alla nostra tendenza a macinare tutto, ad archiviare, a non dar tempo.

Il significato di occasioni mancate

Viviamo ai tempi del downshifting stilistico e professionale degli chef, quando è all’ordine del giorno migrare verso format popolari da parte di chi è volato sempre in alto: un po’ per la crisi, un po’ per scelte squisitamente personali. Cosicché non si contano i talenti che han fatto parlare di sé per poi prendere altre strade o sparire.

Ma attenzione, quando parliamo di “occasioni mancate” non parliamo solo di chef. Parliamo anche di grandi tematiche e di importanti filiere dell’agroalimentare che invece di portare a profonde riflessioni e cambiamenti per il futuro, si sono impantanate in paludi ancora confuse o hanno preso vicoli ciechi. A proposito di opportunità perse, già all’inizio dell’anno, parlando degli anni ’70 in Italia, il giovane chef Matteo Lorenzini buttava lì quella che stata secondo lui una grande occasione mancata: “Credo che la vera occasione in Italia l’abbiamo persa quando Fulvio Pierangelini ha chiuso il ristorante Gambero Rosso: lui poteva davvero fare la Nuova Cucina Italiana. E l’ha fatta, per un periodo, ma non l’ha portata fuori dal suo ristorante. Quella era una cucina classica, pensata e libera allo stesso tempo, con riferimenti forti sia al territorio che alla cultura e alle radici. Forse la Passatina di ceci e gambero rosso è l’ultimo piatto della Nouvelle Cuisine italiana nel solco degli anni ’70”.

Gli chef: qualcuno manca all’appello

Di Paola Budel, esponente di punta della Generazione Marchesi (quella di Crippa, Cracco e Lopriore), dopo l’esperienza al Venissa si sono perse le tracce: pare lavori in un negozio di abbigliamento. E Roberto Fiorini del Saraghino di Numana ve lo ricordate? Oggi sta al Mulia Senayan Hotel di Jakarta. Titolato mentore di giovani talenti, Marco Milani ha disertato una promettente carriera sul côté gastronomico in favore del gruppo di Baccano e La Zanzara, a Roma; e i fratelli Gianluca e Marcello Leoni (uno di quelli del Trigabolo, tanto per dire)? Dopo la chiusura del loro sfarzoso ristorante nella sede Unipol di Bologna ora servono pesce freschissimo in quella che è una semplice osteria, Casa di Mare a Forlì. Sempre da Bologna è partito Marco Fadiga, chef di La Pernice e la Gallina e di Noir ed ex promessa dei Marchesi Boys, per indossare le vesti di executive chef Moët & Chandon a Épernay. Si è invece ritirato dalla cucina professionale Pier Bussetti, brillante creativo di Locanda Mongreno e del Castello di Govone, che dopo un’avventura moscovita ha scelto di insegnare full time all’alberghiero. A volte tuttavia ritornano: è il caso di Mauro Buffo, bulliano (da El Bulli di Adrià) passato per gli insegnamenti di Marchesi e Alajmo, oggi a capo delle cucine dei 12 Apostoli di Verona dopo diversi anni di stop. Eppure proprio l’inventore della Cucina Pop, Davide Oldani – anche lui allievo talentuoso di Gualtiero Marchesi – ha invece fatto un bel salto in avanti partendo dalla cucina pop e tornando invece a una tavola non proprio popolarissima e anzi molto gastronomica. Ma del resto, cosa è “gourmet”? E cosa è la cucina?

Il ristorante: il Canto della Certosa di Maggiano

Nel cielo del terzo millennio non sono mancate le meteore: dalle Tre Lune di Calenzano – proprio con Matteo Lorenzini, poi per qualche anno al Sesto on Arno di Firenze e ora di nuovo a progettare nuove avventure – che chiuse dieci minuti dopo aver la conquista lampo della stella, al peculiare progetto romano di Vino Garage. Ma a un lustro dalla sua chiusura, è giunto soprattutto il momento di compiere una riflessione sul Canto della Certosa di Maggiano a Siena, ristorante che dopo anni e anni continua a ispirare un’intera generazione di cuochi. Non è perduto il talento di Paolo Lopriore, allievo prediletto di Gualtiero Marchesi, fra i pochi creativi autentici della cucina italiana. Con una svolta tanto imprevedibile quanto repentina, presso il Portico di Appiano Gentile non serve più il suo trobar clus, ma piatti conviviali di nuovo conio, che rinunciano all’estetica in favore della personalizzazione del gusto e della condivisione a centro tavola. Gli 11 anni trascorsi a Siena tuttavia non sono mai finiti: nella memoria di chi è passato in brigata, come Matteo Monti, appena uscito da Rebelot dopo averne fatto la tavola più spettinata e folle di Milano (occasioni mancante, nelle occasioni mancate), e Gianluca Gorini, che dopo Le Giare ha oratrovato casa a San Piero in Bagno; soprattutto in una ramificata discendenza più o meno immaginaria, che infila tanti giovani talenti, fra cui brilla Donato Ascani, folgorato al tavolo del Canto e poi spalla ai Tre Cristi di Milano.

Perché il Canto è stato così importante?

Ma perché il Canto è stato così importante (e perché, dunque, è stata una significativa occasione mancata non averlo valorizzato, non avergli dato tempo, non essersi sforzati a capirlo)? Negli anni in cui si compiva il putsch di Adrià, mentre si profilava la reazione scandinava, è stato il Canto, chiuso per una passività veniale, l’epicentro della rivoluzione italiana, grazie anche alla Greenstar, estrattore di succo feticcio che si è disseminato come una bomba a frammentazione, letale nei margini di un amaro purissimo. A contraddistinguerlo sono state inoltre una naturalità indomabile, senza infingimenti né tecnicismi, e una spontaneità quasi nevralgica, in simultanea con René Redzepi; composizioni scevre di qualsiasi lusinga, come ossificate, spesso ispirate al repertorio regionale italiano, così sottratto ai tradizionalisti; last but not least la de-tabuizzazione dello squilibrio gustativo. Un’occasione mancata per ascoltare il Canto del futuro, non certo quello già intonato, visto che Lopriore, come ogni avanguardista vincente, ha già creato la sua scuola. Insomma: alla fine è stata più per il ristorante l’occasione perduta che non per il cuoco! Anche se probabilmente lo chef deve ancora ri-trovare un suo centro propulsivo vero. Quella che però è mancata davvero intorno alla vicenda di Lopriore al Canto è stata un’approfondita riflessione su quell’esperienza. Era il 2009, l’anno in cui la Michelin gli tolse la terza stella. E poteva essere l’occasione (mancata) per una vera riflessione sul senso e l’identità della cucina italiana. Nel frattempo, un altro decennio è passato…

 

a cura di Alessandra Meldolesi

disegni di Marcello Crescenzi

 

QUESTO È NULLA...

Nel numero di giugno del Gambero Rosso, un'edizione rinnovata in questi giorni in edicola, trovate la riflessione completa con altri due focus, uno sulla cucina molecolare italiana e l'altro sulla cucina della selvaggina da penna.Un servizio di 7 pagine che comprende anche le 3 occasioni mancate per gli addetti al settore: Davide Enia, Alfonso Isinelli, Nicola Perullo, Igles Corelli, Marino Niola, Andrea Petrini, Edoardo Raspelli, Allan Bay, Paolo Marchi e Fabio Parasecoli.

 

Il numero lo potete trovare in edicola o in versione digitale, su App Store o Play Store

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Origine, storia e ricette delle polpette

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Originarie della Persia, le polpette hanno in un certo senso unito i popoli, viaggiando per tutto il Medio Oriente e arrivando in Europa. Ognuno ha la propria versione - ed è anche questo il bello - noi vi suggeriamo 3 ricette: le polpette di lesso, di melanzane e di polpo.

 

Chi ha inventato le polpette? No, non è stata vostra nonna. L'origine di queste palline di carne macinata (o verdure, o pesce) è sconosciuta, ma la lingua, come spesso accade, può darci qualche indizio.

Le origini

La teoria più accreditata le vede nascere in Persia: kofta (polpette tipiche del Medio Oriente) deriva probabilmente dalla parola persiana koofteh che significa “carne pestata”. Dalla Persia, poi, si diffusero in tutto il Medio Oriente, e con l'occupazione araba della Persia avvenne quello che è successo ai Romani dopo la conquista della Grecia: i vinti conquistarono culturalmente i vincitori. Anche sul fronte gastronomico. Le tradizioni culinarie dei persiani hanno, infatti, segnato la cucina araba in modo profondo e duraturo. Un esempio concreto sono giustappunto le polpette, che sono sopravvissute con il nome di bonâdiq. Ma il viaggio delle polpette non poteva non arrivare in Europa, specie quando gli arabi hanno conquistato la Spagna. Albondigas vi dice qualcosa? Significa polpette in spagnolo e il nome deriva dall'arabo al-bonâdiq.

La diffusione

Si conoscono diverse ricette nella cucina del Medio Oriente e della Spagna musulmana, dove la carne veniva tritata e pestata al mortaio. In “Storia dell'alimentazione” di Jean-Louis Flandrin e Massimo Montanari si legge: “Le bonâdiq entravano anche nella composizione di una farcia o di preparazioni come la famosissima harissa: si tratta di una mistura di carne grassa pestata e di frumento ammollato e spezzato, lungamente cotta a calore moderato. Molto spesso si fa bollire la carne in una pentola con sale, cipolla, aromi e spezie. Si aggiungono poi altri ingredienti vari, e le verdure sono aggiunte in momenti diversi, secondo la qualità e l'effetto desiderato. Frequentemente si aggiunge un pugno di ceci ammollati e sbucciati, a volte lenticchie oppure fave”. Si sa anche che le polpette venivano preparate a Roma, Apicio le chiama esicia omentata, ma non sono altro che polpette fatte con vino rosso, bacche di mirto e garum, avvolte nell'omento (la rete di maiale). Mentre Maestro Martino nel “Libro de arte coquinaria” usa proprio la parola “polpette”: “Per fare polpette di carne de vitello o de altra bona carne, in prima togli de la carne magra de la cossa et tagliala in fette longhe et sottili et battile bene sopra un tagliero o tavola con la costa del coltello, et togli sale et finocchio pesto et ponilo sopra la ditta fetta di carne. Dapoi togli de petrosimolo, maiorana et de bon lardo et batti queste cose inseme con un poche de bone spetie, et distendile bene queste cose in la dicta fetta. Dapoi involtela inseme et polla nel speto accocere. Ma non la lassare troppo seccar al focho”.

Le polpette oggi

Attraverso i secoli, diventano così comuni che Pellegrino Artusi ne “La scienza in cucina e l'arte di mangiar bene” prima di proporre la sua ricetta (le polpette di lesso), fa una premessa inequivocabile: “Non crediate che io abbia la pretensione d'insegnarvi a far le polpette. Questo è un piatto che tutti lo sanno fare cominciando dal ciuco, il quale fu forse il primo a darne il modello al genere umano”. Certo, individuare le radici o la ricetta originaria forse è meno significativo che riconoscerne la popolarità globale. Le polpette, infatti, sono democratiche (sono un piatto accessibile, semplice ed economico) e ubique. Ci sono le albondigas spagnole, le bitterballen olandesi, le shi zi tou cinesi; pure il futurismo, con il carneplastico, le ha fatte proprie. Insomma, le polpette sono uniscono i popoli e le ideologie: sono l'impasto perfetto (e libero) di culture, tradizioni, ricette di famiglia, gusti personali. Ma vediamo 3 ricette facilmente replicabili a casa.

Polpette di lesso

Polpette di lesso

Ingredienti

400 g circa di carne di manzo lessa

500 g di patate non novelle e con la polpa farinosa

2 uova

50 g di parmigiano grattugiato

1 spicchio d'aglio

Prezzemolo

Poca scorza di limone grattugiata

200 g di pangrattato

Sale e pepe

Olio di oliva o di arachide per friggere

Lavate le patate e, senza sbucciarle, lessatele mettendole in acqua inizialmente fredda. Ripulite la carne dalle parti grasse e dalle cartilagini e tritatela con il macinacarne o con il mixer (in questo caso non frullate troppo: il trito deve essere un po’ grossolano). Private l’aglio del germoglio interno e tritatelo finissimo con una manciatina di prezzemolo. Quando le patate sono pronte, pelatele e passatele dallo schiacciapatate, raccogliendole in una ciotola. Unitevi la carne tritata, il formaggio, la scorza di limone, il trito di aglio e prezzemolo, le uova intere, sale e pepe. Lavorate l’impasto con le mani per qualche minuto in modo che risulti liscio e ben amalgamato. Prendetene un pezzo e rotolatelo fra le mani dandogli la forma di una polpetta e rotolatela nel pangrattato in modo che se ne rivesta bene. Friggete le polpette cinque o sei alla volta in abbondante olio ben caldo (180° C) e scolatele dopo pochi minuti, quando saranno ben dorate. Via via che le scolate, passatele su un doppio foglio di carta da cucina e infine accomodatele sul piatto da portata dopo averle spolverate leggermente di sale.

 

Polpette di melanzane

Polpette di melanzane

Ingredienti

3 o 4 melanzane di forma piccola e allungata del peso complessivo di circa 6-700 g

2 uova

50 g di mollica di pane casareccio raffermo

3 cucchiai di pecorino grattugiato

1 grosso spicchio d'aglio

Prezzemolo

80 g di caciocavallo fresco

Sale e pepe

100 g di pangrattato

Olio di oliva o di arachide per friggere

Sbucciate le melanzane, tagliatele a dadini e scottatele per quattro o cinque minuti in acqua salata in ebollizione. Scolatele e, quando si saranno intiepidite, strizzatele fortemente dentro un canovaccio in modo da asciugarle il più possibile. Mettetele in una terrina e unitevi le uova intere, la mollica di pane grattugiata, il pecorino, il pepe, una cucchiaiata di prezzemolo tritato e l'aglio passato dallo schiaccia aglio. Mescolate bene, impastando con le mani e lasciate riposare il composto per una mezz'ora. Ungetevi leggermente le mani con poco olio, formate con il composto delle polpette ovali delle dimensioni di un'albicocca e introducete all'interno un dadino di caciocavallo. Rotolate le polpette nel pangrattato e friggetele in abbondante olio caldo. Dopo quattro o cinque minuti, quando saranno dorate, scolatele e passatele su un doppio foglio di carta da cucina. Spolveratele di sale e lasciatele leggermente intiepidire prima di servirle.

 

Polpette di polpo

Polpette di polpo

Ingredienti

1 kg di polpo

2 uova

200 g di pane raffermo

Latte

Pangrattato

1 bicchiere di vino bianco secco

Prezzemolo

1 spicchio d’aglio

Olio di oliva o di arachide per friggere

Sbattete il polpo sciacquatelo e lessatelo in abbondante acqua per 10 minuti. Spegnete la fiamma e lasciatelo raffreddare nell'acqua. Tagliatelo a pezzetti e passatene una parte al mixer. Ammollate la mollica di pane nel latte, scolatela e strizzatela bene. Unite le due parti del polpo e il resto degli ingredienti, ottenendo un composto morbido ma compatto. Ungetevi leggermente le mani con poco olio, formate con il composto delle polpette e rotolatele nel pangrattato. Friggetele in abbondante olio caldo e scolatele dopo pochi minuti, quando saranno ben dorate. Passatele su un doppio foglio di carta da cucina e spolveratele di sale.

 

a cura di Annalisa Zordan

 

 

 

Alessandro Servida apre la sua Alta Pasticceria a Milano. Esordio in città per il pasticcere rock

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Nel laboratorio di Pantigliate ereditato da papà Giancarlo si è fatto conoscere per il talento e la creatività applicata all’ideazione di dolci moderni, colorati e molto golosi. Ora apre il suo primo negozio a Milano, aperto da mattina a sera, per colazione, pranzo, aperitivo. 

A Milano è boom di pasticcerie?

Qualche mese fa, le prime voci di conferma che anche Alessandro Servida fosse pronto a inaugurare il suo primo negozio a Milano contribuivano a rinsaldare l’idea di una città sempre più indirizzata a diventare una roccaforte della pasticceria d’autore. Non che mancassero validi attori protagonisti – dal veterano Ernst Knam a Davide Comaschi alla Martesana, ai dolci di Pavè, fino all’arrivo scaglionato dei maestri francesi – ma la concomitanza ravvicinata di aperture eccellenti in centro città certo rincarava la dose: prima Iginio Massari, poi Roberto Rinaldini, entrambi a un tiro di schioppo dal Duomo. Ma anche Carlo Cracco in Galleria, con il nuovo spazio dedicato alla caffetteria bistrot e tanti prodotti di pasticceria, dai lieviti per la colazione alle praline al cioccolato. Boom delle pasticcerie, dunque, come da qualche anno a questa parte sta succedendo in città con la pizza? Non ancora, forse, ma la strada è tracciata.

Anche perché Alessandro Servida, forte dei successi maturati nel laboratorio di famiglia a Pantigliate (Due Torte sulla guida Pasticceri&Pasticcerie del Gambero Rosso), alla fine è arrivato.

Alessandro Servida. Alta pasticceria

La sua prima pasticceria milanese ha inaugurato qualche ora fa in viale Piave, un po’ più defilata rispetto al cuore della città, in un grande spazio affacciato su strada con una grande porta a vetri che invita a curiosare tra le creazioni esposte dietro ai banchi: uno per la pasticceria mignon, le torte, le monoporzioni, alcune soluzioni salate; l’altro, interamente dedicato alla colazione.

Sì, perché il locale potrà accogliere fino a una ventina di persone sedute al tavolo – ma a breve potrà disporre anche di una decina di posti nel dehors – e aprirà sin dalle prime ore del mattino. Lo stile è quello moderno e creativo che ha fatto conquistare al pasticcere riconoscimenti e attestati di stima a livello nazionale e internazionale: un percorso di evoluzione cominciato sulle orme del padre Giancarlo (che nel 1981 apriva la pasticceria di Pantigliate, semplicemente Alex, ispirandosi con lungimiranza al nome del figlio, oggi guidata da Alessandro con sua moglie) e concentrato verso una personalizzazione sempre più spiccata della proposta, che ad Alessandro è valsa il soprannome di pasticcere rock.

L’offerta. Dalla colazione all’aperitivo

Un gioco che non sembra affatto dispiacere al pasticcere lombardo – che nel frattempo è diventato anche amato volto televisivo – ed entra visibilmente anche nella progettazione del nuovo spazio: sotto l’insegna Alessandro Servida. Alta Pasticceria il locale ideato insieme a sua moglie Donatella si caratterizza per uno stile urbano piuttosto lineare, che fa largo uso di materiali caldi come il legno e il metallo anticato. Dunque da Alessandro Servida si potrà bussare per una merenda veloce, una torta da portare a casa, ma anche per il pranzo o l’aperitivo: si apre dalle 8 alle 20, e da settembre anche la domenica sarà disponibile il servizio brunch.

Tra le proposte salate panini gourmet, focacce, insalate e piatti freddi. Più conosciute le creazioni dolci diventate signature della casa, dalla torta Donatella alla Melita, al tiramisù in tartelletta. E poi panettoni in vasocottura disponibili tutto l’anno, praline al cioccolato, biscotti secchi, la brioche tostata servita con confettura o crema alle nocciole per la colazione.

 

Alessandro Servida. Alta Pasticceria – Milano – viale Piave, 9 – www.alessandroservida.com

 

a cura di Livia Montagnoli

Estate romana 2018. Giardini segreti, cocktail, street food, cucine dal mondo: Domina, Butterfly, Parterre e Be Pop

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L'estate romana è alle porte e già si moltiplicano le occasioni per trascorrere una piacevole serata all'aria aperta, all'insegna di musica, buon cibo, cocktail, letture e racconti di piazza. Quattro consigli per orientarsi. 

 

La celebrata estate romana, con le sue terrazze nel centro della città e gli appuntamenti nel verde, si appropinqua a grandi passi anche quest'anno. E nella Capitale si rinnova la corsa ad animare le serate sotto le stelle all'insegna di intrattenimento, musica, buon cibo. Facendo leva sull'effetto sorpresa di giardini segreti e spazi inconsueti.

Domina 2018

Già da qualche settimana operativo il giardino di Borgo Ripa, struttura alberghiera inaugurata un anno fa dal gruppo internazionale Eitch negli spazi che furono di Donna Olimpia Phamphilj, di fronte all'antico Porto di Ripa Grande, a Trastevere. Dopo l'avvio non proprio convincente dell'estate 2017, quest'anno il pacchetto si rinnova nel segno di Domina 2018, dal lunedì al sabato, dalle 19 alle 2. Ricco il cartellone di spettacoli e serate musicali, l'offerta gastronomica abbina secondo una delle tendenze più in voga pizza e cocktail d'autore. I drink sono firmati Argot, cocktail bar capitolino nascosto tra i vicoli che gravitano intorno a Campo de' Fiori; la pizza, invece, è quella alla pala (da forno elettrico), alla romana, di Luca Belliscioni, alias Lucabì, pizza chef di Greccio Enjoy a via Gregorio VII: in carta la regina dei Castelli ripiena di porchetta di Ariccia e marmellata di arance, la Ripagrande con melanzane, sugo di datterini, cipolla e capperi, la Domina con fior di latte, datterino giallo e rosso,  bufala di Amaseno, basilico, e proposte che variano secondo stagionalità. Impasti da farine 0, tipo 2, farro e 72 ore di lievitazione. Disponibile anche l'aperitivo a buffet.

Butterfly a Villetta Ruggieri

Vecchia conoscenza della scorsa estate,  il Butterfly che nel 2017 aveva trovato residenza tra i padiglioni dell'ex caserma di via Guido Reni trasloca al Foro Italico: opening party il 14 giugno e formula che non cambia, con 100 notti di musica, cibo e cocktail sotto le stelle. Ancora una volta un giardino segreto che prende forma al calar del sole, animato dalle performance della Compagnia della Farfalla, aperto al pubblico dalle 18 alle 2. Lo spazio è quello della Villetta Ruggieri, alle pendici di Monte Mario, non distante dal Ponte della Musica, che per la prima volta mette a disposizione i suoi giardini per la trasformazione estiva firmata Butterfly (e Giancarlino, storico animatore delle serate romane e ideatore del progetto). Ma cosa si mangia? Nel parterre dell'area destinata ai concerti, un grande bar circolare che vedrà alternarsi dietro al banco i protagonisti del bartending capitolino: Patrick Pistolesi e Livio Morena, Emanuele Broccatelli, Roberto Artusio, Daniele Gentili, oltre al resident bartender per una proposta alla carta che spazia dal Lady Butterfly con vodka, liquore al lampone, lime e sciroppo al passion fruit, al New Hemigway con rum scuro, rum bianco, apricot brandy, lime e succo d'arancia. Lo spazio dedicato alla cucina, invece, sarà circondato dal giardino e proporrà crudi di carne e pesce, e focacce, scommettendo sulla qualità della materia prima. Ma anche i classici dell'estate, dalla parmigiana di melanzane servita tiepida ai gelati serviti in carrettino vecchia maniera. Tutto calato in un'atmosfera retrò che strizza l'occhio agli anni Cinquanta.

 

Lo street food di Parterre

Non molto distante, e sempre dal 14 giugno, esordisce Parterre (a cura di Arte2o): Farnesina Social Garden il sottotitolo, 8 settimane di concerti, cinema all'aperto, teatro, yoga e attività per bambini in programma. La proposta gastronomica, invece, attinge da un genere che non passa mai di moda, lo street food: nel giardino della Farnesina, tra Ponte Milvio e lo Stadio Olimpico, si avvicenderanno diversi protagonisti del cibo di strada della Capitale, da Pastella a Bottega Gamberoni, da Raro a Pret a Porpett e The Gipsy Market. Ricordiamo pure, che, dal 15 al 25 giugno la pineta della Farnesina saluterà pure il ritorno di Vinoforum, che ogni anno inaugura l'estate romana mettendo sul piatto divertimento assicurato per gli appassionati di vino e cucina, seppur solo per una decina di giorni (seguirà Birroforum).

Be Pop al Caffè Nemorense

L'ultimo appuntamento da segnare in agenda, al suo debutto assoluto, non è propriamente incentrato sul cibo, anche se ci gira intorno: Be Pop (senza perdere l'amore) è il ciclo di incontri di scena al Parco Virgiliano all'ora dell'aperitivo, nato sulla scia dell'ottimo lavoro di cooperazione sociale e mediazione culturale in atto al Caffè Nemorense (vicenda molto tormentata, e finalmente andata in porto da un anno a questa parte, con Grandma Bistrot e Barikamà insieme nella gestione del chiosco nel parco). Il calendario si protrae fino al 3 luglio, alterna presentazioni di libri a dibattiti con la leggerezza tipica delle conversazioni da bar, nonostante le tematiche siano quelle tristemente al centro delle cronache degli ultimi giorni (parte degli appuntamenti si collocano all'interno della Refugee Week). Tra gli appuntamenti a tema gastronomico, il 21 giugno spazio alle cucine dal mondo nella Giornata Mondiale del Rifugiato, il 24 la Cucine dal carcere con Lorenzo Leonetti, Sandro Bonvissuto, Vincenzo Mancino e il birrificio Vale la Pena.

 

Domina 2018 – Roma – Giardino di Borgo Ripa – dalle 19.30 alle 2, chiuso la domenica

Butterfly – Roma – via dei Gladiatori, 68 – dal 14 giugno, 7 su 7 – dalle 18 alle 2

Parterre Farnesina Social Garden – Roma – viale Antonino di San Giuliano – dal 14 giugno – www.parterrefarnesina.com

Be Pop - Roma - Caffè Nemorense, Parco Virgiliano - fino al 3 luglio - www.facebook.com/BePOP.Roma/

 

a cura di Livia Montagnoli

 

Sa Laurera. Aridocoltura e sostenibilità nel cuore della Sardegna

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Dal 2013 a oggi Sa Laurera ha recuperato circa 80 varietà di antichi grani sardi, ceci, fave e pomodori autoctoni. Ecco come nasce questo progetto radicato nel core della Marmilla.

 

Laureraè un termine che in dialetto sardo indica tanto il raccolto e la coltivazione che il bagaglio di conoscenze, degli strumenti materiali e culturali necessari per ottenere quel raccolto;un termine il cui significato si sta perdendo. E che Marianna Virdis e Francesco Mascia – che hanno chiamato la loro azienda agricola proprio Sa Laurera – hanno voluto recuperare. Così come stanno facendo per semi, territori, colture, pratiche agricole. Hanno cominciato nel 2010, con una ricerca sulla tradizione agricola locale e su un patrimonio che stava scomparendo. Interviste, tante, con gli anziani che avevano storie, ricordi e memoria di sapori e paesaggi da condividere. Insieme ai racconti sono arrivati i primi semi, appena una manciata, eredità di colture che ormai quasi estinte, tenute in vita in fazzoletti di terra coltivati per nostalgia.

Marianna Virdis e Francesco Mascia. Foto Alessandro Lisci

 

Dopo qualche anno questo interesse più antropologico che agricolo ha acquisito forza e progettualità, forti di studi in restauri dei beni culturali, lei, di botanica, lui: “ho applicato un metodo di indagine scientifica ai terreni”. Così quei semi recuperati e passati di mano in mano sono giunti in terra e la memoria storica di quel mondo agricolo ha dato i suoi frutti e creato una miniera di biodiversità. Le prime sperimentazioni, su una decinadi semi, hanno mostrato una natura molto generosa, che ha permesso di individuare – nel 2013 - la strada da intraprendere: quella di un'agricoltura che si muove nell'ottica di un recupero di competenze, colture e conoscenze. Nel tempo sono arrivati altri semi, anche daistituti di ricerca che stringono dei contratti internazionali di tutela del germoplasma: “loro danno i semi, noi ci impegniamo a moltiplicarli, coltivarli, e un po' li ridiamo indietro”.

 

trigu_arrbiu_arista_nnieddaTrigu arrbiu arista niedda

L'agricoltura storica

Un'agricoltura storica, la chiamano, e spiegano “Per noi è l'arte dell'agricoltura tradizionale, quella che abbiamo deciso di riproporre privandoci degli stimoli dell'agricoltura moderna e degli aiuti degli strumenti di oggi”.L'obiettivo? “Continuare a proporre un prodotto come si faceva un tempo, ma”aggiunge “con la consapevolezza attuale e gli accorgimenti di ora, quelli legati alle conoscenze botaniche. E con la volontà di valorizzare questi prodotti e questo tipo di agricoltura che abbiamo scelto con consapevolezza e non per mancanza di alternative”. Per rinsaldare quell'anello di congiunzione tra vecchie e nuove generazioni che va progressivamente sfaldandosi. Intercettando, proprio nella produzione agricola, il punto di connessione tra saperi antichi e modernità: prodotti e metodi di ieri con standard qualitativi e consapevolezza di oggi.

Lenticchie e cicerchie

Gli orti diffusi

Senza un terreno da cui partire, però, perché nessuno dei due aveva alle spalle una storia familiare agricola. E allora come fare, se non lavorando piccole parcelle abbandonate? Terreni concessi a uso gratuito perché troppopiccoli o di difficile accesso che richiedono quindi una lavorazione manuale (proprio come quella scelta da Marianna e Francesco), cui poi sono seguiti alcuni in affitto, e – solo quest'anno – uno di proprietà: 15 ettari complessivi che chiamano Orto degli Audaci, nei quali hanno piantato i vari semi e trasformato anche in fattorie didattiche. Ma solo dopo uno studio attentissimo del ciclo biologico delle piante e di ogni terreno, sfruttando la vocazione specifica di ogni parcella così da individuare, per ognuno, la coltivazione più adatta. Un'agricoltura tagliata su misura per ogni seme e per ogni terreno. Siamo in Marmilla, una zona fertile e storicamente vocata alla coltivazione di cereali, legumi, vite e ulivi. Anche una zona arida, però, per la mancanza di pozzi e di corsi d'acqua in cui si è sviluppata una pratica agricola caratteristica cui si richiama Sa Laurera. Una prassi sicuramente più faticosa, ma pienamente immersa di quel genius loci che – in più - permette di dare seguito a una sorta di manifesto programmatico dell'azienda: Sovranità alimentare, Orto diffuso, Ecosostenibilità, Aridocultura, Biodiversità. “Per noi è un codice etico e, insieme, una promessa che facciamo ai nostri clienti” racconta Marianna che punta a mettere in campo un modello di sviluppo (anche) economico in questa zona della Sardegna.

Pomodori costoluti

L'aridocoltura e le altre pratiche tradizionali

Agli antipodi dell'agricoltura intensiva, la strada intrapresa da Sa Laurera è il rispetto del territorio: inteso come ambiente (mediante pratiche sostenibili), come coltura (con la tutela delle tradizioni storiche), e come paesaggio. Le siepi, per esempio, che fanno parte del panorama tipico della regione, rappresentano corridoi ecologici per gli animali, e – insieme contribuiscono all'equilibrio di un ecosistema che riesce a tenere a bada gli insetti indesiderati. L'alternanza delle colture è la chiave di volta per terreni sani e ricchi, così come il rispetto di un periodo di riposo (che con la crescita di piante selvatiche costituisce una sorta di riserva di ulteriore biodiversità), la lavorazione superficiale della terra, due o tre volte l'anno per ortaggi e legumi, ostacola la crescita delle infestanti. “Per i grani antichi, invece, nessun problema: sono piante alte che soffocano le altre erbe indesiderate”. Insomma, un sistema che si autoregola e che trova il proprio equilibrio. Nessun trattamento fitosanitario, né chimica, diserbanti e pesticidi. E neanche irrigazione. La loro è aridocoltura, una tecnica che spinge le piante a trovare da sé l'acqua necessaria. Non si irriga, insomma, ma si lavora continuamente il suolo perché rimanga morbido, così che la pianta attraverso le radici superficiali possa sorbire la rugiada e l'acqua che si deposita sul terreno. “È una tecnica diffusa in tutto il bacino del Mediterraneo” e tipica di questa cultura rurale. Il risultato? “Rese più basse, perché è una zona siccitosa” spiega “ma di una qualità molto alta. C'è meno prodotto e una crescita lenta, ma i frutti sono molto più succosi e saporiti”. E nel 2017, con il caldo torrido che c'è stato, come è andata da voi? “Meno prodotto ma molto buono. Con i grani antichi non perdi mai il raccolto, per le lenticchie, invece, c'è stata una perdita dovuta a una gelata tardiva le fave, invece, sono state di altissima qualità”.

Meloni serbevoli

La produzione

Abbiamo tre filoni produttivi, quelli necessari per rispettare la rotazione delle colture: grani antichi, legumi e ortaggi, sempre in aridocultura”. Oggi complessivamente sono 80 le varietà di grani antichi, molti per ora solo in moltiplicazione. Lo scorso anno erano 3 in produzione, quest'anno 6, tra duri e teneri; per esempio Trigu arrùbiu arista niedda e Trigu murru. Poi ci sono ceci e fave locali, queste ultime di grande pezzatura coltivate in terreni che li rendono altamente cuocibili, ovvero riducendo di molto i tempi di cottura. Diverse varietà antiche di pomodori e meloni serbevoli, che tradizionalmente si conservano dai 6 agli 8 mesi legati con il giunco nei sottotetti “per i quali creiamo dei cestini, saranno pronti a fine settembre”. E poi la cicerchia, che è valsa un premio della fondazione SAVE (Safeguard for Agricultural Varieties in Europe). È una varietà sviluppata a partire da semi che appartenevano alla famiglia di Marianna, che è arrivata fino al sito ufficiale dell’Anno Internazionale dei Legumi, voluto dalla FAO nel 2016. Un riconoscimento che premia non solo il recupero di un legume in termini di conservazione statica, ma anche lo sviluppo di un'economia sostenibile per il territorio proprio a partire da quel prodotto. Perché l'obiettivo di Sa Laurera è di dare vita a un ecosistema florido.

 

Fror' 'e faa, antica razza locale di galline

Fare rete

Stiamo stringendo delle collaborazioni perché per noi è importantissima la filiera” dice Marianna per spiegare come, per rispondere alle molte richieste senza snaturare il loro modus operandi, hanno cominciato a collaborare con altri agricoltori: “noi gli diamo il grano e loro lo coltivano nei loro terreni secondo il nostro modo di produzione; poi riacquistiamo il prodotto”. Oggi i grani – come tutti gli altri prodotti - sono in vendita direttamente all'azienda o sul loro sito, e alcuni forni (PBread Natural Bakery di Stefano Pibi a Cagliari, il panificio Porta ad Ales e il gruppo di panificatrici casalinghe Impasti Urbani) li impiegano per il loro pane. In progetto, però, c'è di metter su anche un laboratorio di pasta fresca nell'azienda agricola. Ma tra i vostri clienti ci sono anche dei ristoratori? “Alcuni a Cagliari (Claudio Ara del Su Tzilleri 'e su Doge e Paola Sanna del Rifugio dei Sapori) e qualcuno anche all'estero (il Fontanarosa a Parigi). E poi c'è una collaborazione di lunga data con lo chef Alberto Sana di Samassi da cui è nato anche il progetto di recupero di un'antica razza locale di galline, la Fror' 'e faa”. È un piccolo allevamento familiare, per ora: appena una trentina di galline. Un'enormità al confronto di 10 semi. O no?

Angurie coltivate in arido

 

Sa Laurera - Villanovaforru VS- via Vittorio Emanuele III, 41– 348 0339233 - https://salaurera.weebly.com/

 

a cura di Antonella De Santis

 

 

Nasce Tacocina, locale messicano di Brooklyn. Danny Meyer e il progetto di riqualificazione urbana

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Poche presentazioni per Danny Meyer, imprenditore che negli anni ha saputo creare una serie di catene e locali di successo nella Grande Mela e non solo. Fra le ultime iniziative, Tacocina, ristorante messicano che si inserisce all'interno di un grande progetto di riqualificazione a Brooklyn.

 

L'instancabile Danny Meyer

Shake Shack, Union Square Cafe e poi il wine bar dei suoi sogni, Vini e Fritti, ispirato alla cucina romana e ai suoi costumi, una vineria in stile italiano che, con il nuovo Caffè Marchio, completa il polo della gastronomia made in Italy firmato Meyer, insieme all’adiacente pizzeria Marta. L'impero creato dal genio di Danny Meyer non conosce confini: dopo la cucina internazionale e quella tricolore, l'imprenditore si dedica ora alla gastronomia messicana, con un nuovo locale tutto incentrato sui tacos, street food sudamericano per eccellenza ormai presente a tutte le latitudini.

Il locale

Si chiama Tacocina e ha aperto da pochi giorni i battenti a Williamsburg, Brooklyn, nello spazio (ri)creato dallo studio James Corner Field Operations nell'area in disuso dell'ex raffineria di zucchero Domino. Due ettari e mezzo di verde fronte mare completamente abbandonato, che ora rinasce grazie al gruppo di project design, trasformandosi in un'oasi naturale con area per prendere il sole, un parco giochi e la nuova creatura di Meyer. Uno stand che sarà guidato da Barbara Garcia, ex sous chef dell'Union Square Cafe di origini messicane: “Io, come tanti altri americani, mangio tacos da una vita. Ho voluto, però, coinvolgere qualcuno che fosse cresciuto con questo prodotto”, ha dichiarato l'imprenditore a Eater. “Amo ogni tipo di cucina, ma i tacos saranno sempre nel mio cuore”, ha commentato Garcia.

 

Tacocina

L'offerta

Sei diverse proposte di tacos, dal maiale e mango ai gamberetti e zucca siamese, passando per manzo e salsa negra. Con due opzioni vegetariane: funghi e salsa di mais, e taco al cotija, formaggio vaccino messicano. E poi patatine, guacamole, chicharrones (cotica di maiale fritta) al formaggio, cocktail di gamberi, gelato alla vaniglia e molti altri accompagnamenti e dessert per completare il pasto. In abbinamento alle specialità latine, cocktail di diverso tipo, fra cui un mezcal negroni che promette di diventare il drink di punta del locale, calici di vino e birre artigianali.

La sede

Ma il vero punto di forza di Tacocina è la location d'eccezione: “Ciò che più di tutto mi entusiasma è la vista. Lo stand, inserito nell'ampio ambiente industriale con una grande insegna di metallo, fa parte di un progetto di riqualificazione nato sulle rovine della vecchia raffineria, punto di riferimento del quartiere fin dall'Ottocento”. Un nuovo percorso per Meyer, che si ritrova a far fronte a un nuovo pubblico, destreggiandosi con una zona diversa da quelle a cui era abituato: “Vivo a New York ormai da molto ed è una città che riesce ancora a sorprendermi. Qui si scoprono in continuazione nuove aree della metropoli, quartieri che esistono da sempre ma sui quali non ci si sofferma. E poi ci sono quelle zone che nascono dal nulla, create a partire da zero”. Ed è proprio ciò che il Domino Park si propone di fare: “Questo luogo nuovo di zecca è un dono alla città di New York”. Insieme al locale di tacos, unico polo gastronomico dell'intero spazio. Che, considerando la capacità imprenditoriale di Meyer, potrebbe presto espandersi anche in altre zone. Intanto, confidiamo nella qualità dei prodotti e il fascino dell'offerta perché il progetto di riqualificazione acquisisca il successo che merita. Anche grazie al cibo.

www.heytacocina.com/

a cura di Michela Becchi

Geloso è il gelato cremoso su stecco che piace a Francesco Trapani. E si prepara a conquistare l’Italia

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Un punto vendita in apertura a Roma, temporary in tutta Italia, distribuzione presso hotel esclusivi, palestre, circuiti di qualità. È questo il futuro prossimo di Geloso, il gelato naturale su stecco ideato da Manuele Presenti, ora che in società è entrato Francesco Trapani. Dopo la pizza di Briscola, l’azionista investe sul gelato. 

 

Da Bulgari alla pizza…

Un anno fa, in piena estate, Francesco Trapani -  volto noto dell’alta finanza, napoletano, laureato in economia e commercio, ex Ceo di Bulgari (figlio di Lia Bulgari), poi Ad per Lvmh della divisione orologi e gioielli, azionista di Tiffany e Tages Holding – investiva sul mercato del cibo, diventando azionista di maggioranza di Foodation e sancendo così il suo ingresso nel mondo del casual dining. Piccolo passo indietro per capire di cosa stiamo parlando: ideata da Riccardo Cortese e Federico Pinna, in comune il pallino per marketing e comunicazione, Foodation è la start up specializzata nel lancio di format gastronomici informali e orientati alla replicabilità che negli ultimi anni ha dimostrato decisamente di sapersi far valere. Basti pensare, per chi conosce la scena della ristorazione meneghina, al successo del kebab di Mariù, di Burbee e della pizza di Briscola. Proprio sull’ultimo brand, e sulle sue concrete possibilità di lanciare la sfida a catene internazionali già affermate sul mercato europeo, si concentrava allora la sfida di Trapani, ingolosito - lui che è nato a Napoli - dalle potenzialità di un format fondato sul gusto di condividere la pizza in un contesto informale. Una formula agile, economica e giustappunto replicabile su larga scala. Ad oggi l’obiettivo annunciato di inaugurare a Londra entro il 2018 non ha ancora trovato conferma e probabilmente si concretizzerà nel 2019. In compenso la “confraternita della pizza” – come amano identificare il progetto i suoi creatori – ha inaugurato proprio in questi giorni due nuovi punti vendita a Milano, rispettivamente in zona Duomo e Porta Nuova, portando così a 4 il numero dei locali in città. E Francesco Trapani lascia intendere che presto saranno raggiunti nuovi traguardi: "Abbiamo approfittato delle nuove aperture per ripensare la formula. Al design degli spazi ha lavorato Fabio Novembre, abbiamo ampliato il menu con l'aggiunta di antipasti e dolci e privilegiato il servizio al tavolo. Un'evoluzione del format con cui si prepariamo ad affrontare le prossime aperture, probabilmente anche una quinta a Milano". Bilancio del primo anno? "Abbiamo fatto tanto lavoro, anche se finora non si è visto. L'estate sarà il momento per tirare le somme, ma siamo molto soddisfatti". 

 

… Al gelato

Forse proprio questo ingresso positivo nel mondo dell’industria della ristorazione ha spinto Francesco Trapani a raddoppiare gli sforzi: l’investimento, stavolta, punta dritto su un altro comparto del casual food apprezzato in tutto il mondo, il gelato. Ancora una volta tramite Argenta Holding, che aveva mediato pure la precedente trattativa, Trapani acquisisce il 51% di Geloso, società italiana specializzata nella produzione di gelato naturale su stecco. Obiettivo, come consuetudine, stimolare la crescita aziendale tramite un aumento di capitale, agevolando una politica di espansione che sarà immediatamente visibile in termini di retail.

 

Geloso. Cos’è

Ma di nuovo, partiamo dall’inizio: Geloso è una realtà fondata da tre giovani soci, che alle porte di Roma (siamo a Formello) hanno da poco inaugurato il laboratorio di produzione che controllerà tutta la filiera, dalla materia prima grezza al prodotto finito: "I ragazzi si sono rivolti a me per sottoportmi il progetto" spiega Trapani "Mi è sembrato subito molto interessante, e innovativo: altissima qualità, prodotto buonissimo, concept del punto vendita molto efficace". Per perfezionare il prodotto, non a caso, Jacopo Mattei, Lasya Vorona e Fabrizio Pirro si sono rivolti allo chef Manuele Presenti, patron della gelateria Chiccheria a Grosseto (Tre Coni sulla guida Gelati del Gambero Rosso) e fondatore della Gelato Naturale Academy, nata nel 2013 dall’esperienza ben più longeva della Scuola Gelato Naturale, in attività dal 2008. Completa il quadro societario Allegra Antinori. Da sempre sostenitore di un prodotto lavorato senza l’ausilio di addensanti, coloranti, conservanti e semilavorati, Presenti ha applicato questa filosofia anche all’ideazione di un gelato cremoso su stecco, che potesse rappresentare un unicum sul mercato delle proposte su stecco proprio per la sua specifica consistenza. Sull’attrattività del prodotto e la sua innovatività, ancora una volta, fa affidamento Trapani per portare a casa un buon affare: “Così come la pizza, il gelato è un simbolo riconosciuto del food Made in Italy, ma nel nostro Paese, a eccezione di quelli confezionati, sono rari i casi di brand riconosciuti di gelato. L'innovatività della proposta di Geloso e il suo stile raffinato, la grande qualità del prodotto e l'approccio di alta gamma, consentiranno di fare di Geloso, un marchio con una forte personalità e riconoscibilità”, ha dichiarato presentando l’operazione.

 

Apertura a Roma. E poi…

Ne beneficiano i fondatori della società, che potranno rafforzarsi con l’ausilio di nuove forze finanziarie e manageriali. Il primo passo? Imminente: l’inaugurazione di un punto vendita nel centro di Roma alla fine di luglio ("in posizione molto favorevole" aggiunge Trapani), per testare il prodotto su una piazza affollata. E intanto lo sviluppo di una serie di temporary da replicare in tutta Italia. Mentre sul mercato all’ingrosso l’idea è quella di distribuire non solo presso bar e ristoranti, ma anche in hotel esclusivi, campi da golf, palestre (con una linea iperproteica dedicata). Ma anche delivery ed eventi privati, oltre che nei circuiti in cui è già presente Antinori. Insomma, si punta in alto, scommettendo anche su un packaging accattivante. Dunque il futuro è degli investimenti nel food? "Il settore ha acquisito grandissima visibilità, sono molto contento di seguire due realtà di grande potenziale e mi sento di escludere, al momento, di lavorare su altri progetti. Ora l'importante è lavorare con costanza per lanciare Briscola e Geloso". 

 

a cura di Livia Montagnoli

Radici del Sud 2018 report. I vini e gli oli meridionali

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Oltre 300 vini in concorso e una degustazione alla cieca per decidere i migliori vini prodotti con uve autoctone del meridione. A valutarli, una duplice giuria di critici e buyers italiani e stranieri.

 

Si è chiusa con la premiazione del Concorso Internazionale e con la giornata finale dedicata al pubblico, la XIII edizione di Radici del Sud, il Salone dei Vini e degli Oli Meridionali. Dal 5 all’11 giugno, lo splendido Castello Normanno Svevo di Sannicandro di Bari, ha ospitato le varie attività legate alla manifestazione: sessioni di degustazione delle giurie, incontri B2B e banchi d’assaggio con oltre 300 vini in degustazione, provenienti da Puglia, Basilicata, Campania, Calabria e Sicilia. A corollario del Concorso, visite guidate alla scoperta del territorio: cantine, vigneti, ma anche bellezze paesaggistiche e artistiche. E poi il convegnoAutocotoni e ristorazione: l’identità per sfidare i mercati internazionali, sul ruolo strategico che il mondo della ristorazione può avere nella conoscenza e diffusione dei vini più identitari.

Radici del Sud rappresenta un momento importante per approfondire la conoscenza del panorama dei vini del nostro Mezzogiorno e per cercare di capire verso quali tendenze si sta muovendo il mercato, con particolare attenzione al ruolo dei vitigni autoctoni e alla valorizzazione dei singoli territori.

 

Autoctoni: il valore della tipicità

La parola chiave dell’edizione di quest’anno di Radici del Sud è stata la tipicità. La capacità di un vino d’esprimere le caratteristiche varietali tipiche del vitigno e le peculiarità del luogo di produzione sono i valori da portare in primo piano per valorizzare il patrimonio degli autoctoni del nostro Meridione. L’Italia è il paese che può vantare il più alto numero di uve autoctone, molte delle quali possiedono un elevato potenziale qualitativo. In un panorama enologico sempre più globalizzato, con la diffusione dei principali vitigni internazionali in tutti i continenti, sarà sempre più importante lavorare sulle tipicità territoriali. L’unicità dei terroir e dei vitigni, le tradizioni e la storia sono gli elementi fondamentali su cui costruire valore per il futuro. Un processo lungo e paziente, che rappresenta però l’unica strada per creare un’identità e una riconoscibilità unica e irripetibile. Il livello dei vini presente a Radici del Sud cresce di anno in anno e i vitigni autoctoni sono sempre più consapevolmente valorizzati, come vera ricchezza espressiva del territorio. Una risorsa importante, che deve assumere il ruolo di cifra distintiva di ogni singola area di produzione, per instaurare un legame sempre più profondo con la storia e le antiche tradizioni. Un orizzonte che si sta delineando in modo sempre più preciso e che bisogna continuare a perseguire in modo coerente, per creare un virtuoso percorso di crescita. Il vino e l’olio, visti come prodotti che esprimono la vera tipicità di un luogo, possono essere volani di sviluppo per progetti di enoturismo, che possano coinvolgere itinerari artistici, storici e naturalistici nelle terre del nostro sud.

 

Luci e ombre di una produzione di grandi potenzialità

Seguendo questa prospettiva, bisognerebbe resistere a certe tentazioni commerciali di piegare il profilo dei vini alle richieste dei nuovi mercati, spesso snaturandone la tipicità. Troppo spesso capita d’imbattersi, ed è successo anche quest’anno a Radici del Sud, in bianchi autoctoni che tendono ad avvicinarsi al profilo aromatico dei vini di maggior successo internazionale, scegliendo la strada di una seducente scorciatoia interpretativa. Così come, soprattutto per quanto riguarda il Primitivo, troppi vini “amaroneggiano” con bouquet surmaturi, note di appassimento, aromi di confettura e alti residui zuccherini, che rendono i vini spesso stucchevoli. Tuttavia la maggioranza dei produttori sembra ormai consapevole del potenziale che potrà esprimere il Sud nei prossimi anni. È un territorio ancora giovane da un punto di vista della produzione di vini di alta qualità e i margini di miglioramento sono ampi. In attesa della XIV edizione di Radici del Sud, dal 4 al 10 giugno 2019, l'organizzazione sarà già in moto dal 28 giugno di quest'anno per Aspettando Radici del Sud con i 50 Rosati del Sud della XIII edizione, degustazione e confronto tra i diversi areali del Sud vocati al rosato che si terrà a Fano presso l’Osteria del Pisello.

 

Il Concorso

A giudicare gli oltre 300 i vini in concorso, divisi in varie categorie a secondo della tipologia e dei vitigni, sono state chiamate quattro giurie. Due composte da giornalisti italiani e esteri e due da buyer provenienti da Stati Uniti, Cina, Brasile e altri paesi europei. Le giurie di Wine Writers, presiedute da Betty Mezzina e Chiara Giorleo e le due giurie di Buyer, presiedute da Pasquale Porcelli e Andrea Terraneo, al termine delle sessioni di degustazione hanno decretato i migliori vini della XIII Edizione di Radici del Sud.

 

Spumanti bianchi da uve autoctone

Giuria Wine Writers

Ex Aequo

Metodo Classico Pas Dosè - D'Araprì

Metodo Classico Leggiadro 2014 - Produttori di Manduria

Giuria Wine Buyers

Metodo Classico Pas Dosè - D'Araprì

 

Spumanti rosé da uve autoctone

Giuria Wine Writers

Metodo Classico Centocamere Rosé 2016 - Barone Macri'

Giuria Wine Buyers

Spumante Dry Rosé Galetto 2017 - Colli Della Murgia

 

Falanghina

Giuria Wine Writers

Puglia Falanghina IGT 2017 Elis - Elda Cantine

Giuria Wine Buyers

Campania Falanghina IGT 2017 - San Salvatore 1988

 

Grillo

Giuria Wine Writers

Sicilia Grillo DOC Grillo Parlante 2017 - Fondo Antico

Giuria Wine Buyers

Terre Siciliane Grillo IGT Rocce Di Pietra Longa 2016 - Centopassi

 

Greco

Giuria Wine Writers

Greco Di Tufo DOCG 2017 - Fonzone

Giuria Wine Buyers

Greco Di Tufo DOCG Claudio Quarta 2016 - Sanpaolo Di Claudio Quarta

 

Malvasia

Giuria Wine Writers

Puglia Malvasia IGT Donna Johanna 2017 - Cantine Tre Pini

Giuria Wine Buyers

Basilicata Malvasia IGT Verbo 2017- Cantina Di Venosa

 

Fiano

Giuria Wine Writers

Puglia Fiano IPT Clara 2016 - Giancarlo Ceci

Giuria Wine Buyers

Irpinia Fiano DOC Sequoia 2016 - Fonzone

 

Nero Di Troia

Giuria Wine Writers

Augustale Castel Del Monte Nero Di Troia Riserva DOCG 2013 - Grifo

Giuria Wine Buyers

Augustale Castel Del Monte Nero Di Troia Riserva DOCG 2013 - Grifo

 

Primitivo

Giuria Wine Writers

Salento Primitivi IGT Nivvro 2016 - Cantina Fiorentino

Giuria Wine Buyers

Gioia del Colle Primitivo DOC Sellato 2015 - Tenuta Viglione

 

Aglianico

Giuria Wine Writers

Cilento Aglianico DOC Vigna Dei Russi 2013 - Tenuta Cobellis

Giuria Wine Buyers

Colli di Salerno IGT Massaro 2015 - Viticoltori Lenza

 

Minutolo

Giuria Wine Writers

Puglia Minutolo IGT Tufjano 2017 - Colli Della Murgia

Giuria Wine Buyers

Valla d’Itria Minutolo IGP Alture 2016 - Cantine Paolo Leo

 

Rosati Da Vitigno Autoctono Del Sud Italia

Giuria Wine Writers

Puglia IGT Terra Cretosa Aleatico 2017 - Borgo Turrito

Giuria Wine Buyers

Puglia IGT Faragola 2017 - Placido Volpone

 

Gruppo Misto Vini Bianchi Da Vitigni Autoctoni

Giuria Wine Writers

Asprino d’Aversa DOC Civico 44 2017 - Tenuta Fontana

Giuria Wine Buyers

Sicilia Adènzia Bianco DOC 2017- Baglio Del Cristo Di Campobello

 

Negroamaro

Giuria Wine Writers

Salento Negroamaro IGT Campo Appio 2016 - Cantine San Pancrazio

Giuria Wine Buyers

Salento Negroamaro IGT F 2015 - Cantine San Marzano

 

Gruppo Misto Vini Rossi Da Vitigni Autoctoni

Giuria Wine Writers

Salento Susumaniello IGT Somiero 2015 - Le Vigne Di Sammarco

Giuria Wine Buyers

Lamezia Rosso IGT 2017 - Statti

 

Nero d’Avola

Giuria Wine Writers

Terre Siciliane Nero d'avola IGT Magaddino 2017 - Magaddino

Giuria Wine Buyers

Ex Aequo

Sicilia Nero d’Avola DOC Alto Nero 2015 - Tenuta Rapitala'

Sicilia DOC Lu Patri 2015 - Baglio Del Cristo Di Campobello

 

Aglianico Del Vulture

Giuria Wine Writers

Aglianico Del Vulture DOC Michelangelo 2013 - Cantina Del Vulture

Giuria Wine Buyers

Aglianico Del Vulture DOC Quarta Generazione 2013 - Quarta Generazione

 

Taurasi

Giuria Wine Writers

Taurasi DOCG 2012 - Sertura

Giuria Wine buyers

Taurasi Riserva DOCG Scorzagalline 2011 - Fonzone

 

Vini Biologici

Giuria Wine Writers

Salento Primitivo IGT Nivvro 2016 - Cantina Fiorentino

Giuria Wine Buyers

Gioia del Colle Primitivo DOC Sellato 2015 - Tenuta Viglione

 

 

a cura di Alessio Turazza

 

Le migliori gelaterie di Bergamo e dintorni: 4 insegne da provare

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Estate è sinonimo di gelato. Per scegliere gli indirizzi migliori della Penisola, c'è la guida Gelaterie d'Italia del Gambero Rosso, che da due anni rappresenta una fonte preziosa di informazioni e un punto di riferimento su tutta Italia. Ecco quali sono gli indirizzi migliori della provincia di Bergamo.

 

La gastronomia bergamasca beneficia di prodotti e lavorazioni radicate nella tradizione locale, dai formaggi ai salumi, dalle farine per la polenta al miele, dalla grappa all’arte dolciaria. Protagonista dolce assoluto dei mesi più caldi è il gelato, quello artigianale, realizzato a regola d'arte, saporito ed equilibrato. Nell'elegante cittadina lombarda non mancano gli indirizzi sicuri a prova di buongustaio: qui, abbiamo radunato le insegne migliori segnalate dalla guida Gelaterie d'Italia 2018 del Gambero Rosso, con una new entry nell'olimpo dei Tre Coni (massimo riconoscimento), l'Oasi American Bar di Fara Gera d'Adda. Purtroppo, una delle 4 gelaterie della zona ha chiuso da poco (temporaneamente) i battenti, ma l'artigiano ci ha assicurato che riaprirà la bottega a breve.

 

La pasqualina

La Pasqualina – Almenno San Bartolomeo

Riccardo Schiavi è un artigiano consapevole, appassionato, che nel suo gelato esprime la propria idea di prodotto sano, piacevole e naturale. Un professionista molto attento all'ambito della formazione, che periodicamente apre il suo laboratorio alle scuole e a tutti gli aspiranti gelatieri. La sua insegna è fra i migliori bar e pasticcerie della Penisola, uno di quei locali da frequentare a qualsiasi ora, dalla colazione alla merenda. È nel gelato, però, che Riccardo concentra tutto il suo amore per il gusto, selezionando attentamente le materie prime da ogni regione, e lavorando gli ingredienti nella maniera tradizionale. Un gelato setoso, autentico, squisito nei gusti alla crema, dal pistacchio al mascarpone, così come in quelli alla frutta, che variano di continuo a seconda della stagionalità. Da non perdere l'Isola che non c'è, con mandorle italiane e zucchero caramellato, e poi il Sogno di Maya, felice combinazione di cacao e nocciole di Piemonte Igp. Gli appassionati di gelato in Sardegna hanno inoltre la possibilità di gustare le specialità della casa nella sede di Porto Cervo.

La Pasqualina – Almenno San Bartolomeo (BG) – via Papa Giovanni XXIII, 39 – 035540040 - www.lapasqualina.it/

 

pandizuccher

Pandizucchero – Almè

Un punto di riferimento lungo la statale che collega Bergamo alla Val Brembana, un chiosco semplice e curato che da sempre raduna golosi della zona grazie al suo gelato cremoso e declinato in vari gusti. La regia è quella di Ronald Tellini, maestro gelatiere che gestisce l'insegna insieme ai genitori, deliziando il palato degli abitanti e dei tanti clienti di passaggio. Cioccolato, mandorla, pistacchio e torrone sono i grandi classici intramontabili sempre presenti in gelateria, ma ci sono anche il mascarpone con noci di Sorrento, il Bloody Mary con pomodori datterini, centrifuga di sedano, sale della Slovenia, tabasco e Worcestershire sauce, lo zucca e amaretti e il lampone di Albenza e rosmarino da provare. Non manca il comparto di ghiaccioli e granite, tutti realizzati con frutta di stagione.

Pandizucchero – Almè (BG) – via A. Locatelli, 32 – 035639415 - gelateriapandizucchero.it/

 

aldmangiami

Al d.mangiami – Bergamo

L'impiego dell'azoto liquido per la produzione di un buon gelato è oggi una tecnica piuttosto diffusa fra diversi artigiani della Penisola. Il primo a introdurlo nella propria gelateria, però, stato Marios Gerakis, greco di nascita ma bergamasco di adozione, che nel suo laboratorio coniuga artigianalità e innovazione realizzando prodotti di alto livello. Solo ingredienti naturali al 100%, senza l'aggiunta di alcun tipo di conservante o grassi vegetali e idrogenati, compongono il gelato liscio e cremoso di Gerakis. Purtroppo, l'insegna è attualmente chiusa e l'artigiano sta facendo lavori di consulenza per altre gelaterie e pasticcerie della zona. Ma promette di tornare presto in campo.

Al d.mangiami – Bergamo – via Zambonate, 51 – 0350606273 - www.aldmangiami.it/

 

Oasi American Bar

Oasi American Bar – Fara Gera D'Adda

Nella scorsa edizione, quella del 2017, Candida Pelizzoli dell'Oasi American Bar si era aggiudicata il premio speciale per il binomio Gusto&Salute. Fra i suoi gelati, infatti, spiccano quelli funzionali, ovvero realizzati combinando fra loro frutta e verdure con proprietà nutraceutiche ben definite che, una volta congiunte, possono rappresentare un valido alleato contro diversi disturbi. Un'imprenditrice e artigiana con le idee chiare, che sceglie accuratamente ogni ingrediente e che, insieme a ColombanoMariana, gestisce il suo bar a tutto pasto, in cui il gelato fa la parte del leone, fra dolci e caffè. Da quello alla frutta, saporito e intenso, a quello alle creme (ottime le variazioni di cioccolato), ogni gusto qui è preparato con la massima cura e un rispetto assoluto per le materie prime, sempre fresche e di stagione. Fra gli abbinamenti più insoliti, lo spinacino, a base di spinaci e kiwi, e poi quello con carota e violetta, e ancora pomodoro datterino e lampone, tutti riconoscibili sin dall'impatto cromatico, segnaletica golosa che suggerisce sapori e proprietà.

Oasi American Bar – Fara Gera D'Adda (BG) – via Treviglio, 3641 loc. Badalasco – 0363399977 - www.facebook.com/gelateriaoasi.badalasco/

a cura di Michela Becchi

Gelaterie d’Italia del Gambero Rosso 2018 – pp. 240 – 8,90 euro – disponibile anche on line

Guida Gelaterie d'Italia 2018 del Gambero Rosso. La classifica e i premiati

Food Film Fest Bergamo 2018. 29 finalisti in gara per il titolo di miglior pellicola gastronomica

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Quinta edizione per la rassegna cinematografica aperta alle produzioni di tutto il mondo, purché dedicate al cibo e alla cultura alimentare, tra reportage di viaggio, documentari impegnati e film d'animazione. Appuntamento dal 12 al 17 giugno: ecco chi c'è.

 

Il festival

Una nuova edizione, la quinta, per il festival del cinema gastronomico che ha trovato casa a Bergamo grazie all'impegno dell'Associazione Montagna Italia, con il patrocinio della Camera di Commercio della città. Una rassegna che riunisce corti, lungometraggi, documentari e film d’animazione legati a temi come gusto, arte culinaria, corretta nutrizione, ma anche produzione di cibo, biodiversità e memoria gastronomica come patrimonio collettivo da preservare. Una kermesse di pellicole golose che ha preso coraggio un anno dopo l'altro, forte di una partecipazione sempre più numerosa, di pubblico, ma soprattutto di candidati: sono 29 in tutto i film finalisti al concorso, lavori di registi di tutto il mondo, dagli Stati Uniti alla Svizzera, dal Mozambico alla Gran Bretagna, dal Venezuela alla Germania, dall'Italia alla Spagna.

Gli italiani in concorso

Le tematiche sono le stesse – cibo, cultura e sostenibilità alimentare – tutte presentate all'interno del Palazzo dei Contratti e delle Manifestazioni di Bergamo, per una sei giorni – fino al prossimo 17 giugno – di gusto, arte e cultura. Film, documentari e film d'animazione sono le tre categorie del concorso, che vede la partecipazione di ben 6 pellicole italiane. Come Quarume – Mai arritornare indietro di Arturo Merelo, italiano nato in Spagna e cittadino del mondo, instancabile viaggiatore che nel suo film racconta la storia di Ulises, da poco vedovo, che decide di intraprendere un viaggio insieme al suo amico Angelo: una volta approdati a Palermo, i due provano tutto il cibo da strada locale, prodotto tradizionale fortemente legato al territorio, che aiuterà Ulises a elaborare il lutto. O ancora il film documentario Ritratti di Malga di Michele Trentini, la descrizione di un gruppo di casari di formaggi a latte crudo nelle piccole malghe delle Prealpi Trevigiane, simbolo della resistenza artigianale del Paese. E poi Seed of Renaissance di Flavia Casella, un'indagine sul ruolo dell'agricoltura, quella sana e sostenibile, per la nostra salute, che fa luce sui punti in comune fra l'arte contemporanea e il campo agroalimentare. Tante per citarne alcuni.

Le pellicole straniere

Molti titoli interessanti anche da altre parti del mondo: Tina Krüger, antropologa, fotografa, graphic designer e regista del Mozambico, presenta Kitchen's Orchestra, cortometraggio di un minuto che offre uno sguardo intimo e potente sulla musicalità della cucina, fra lo sfrigolio del cibo in padella e il tintinnio delle posate durante la preparazione del makhofu, tipico piatto mozambichese. Dal Canada, invece, Alan Poon porta Nets of Gold, un viaggio attraverso i cibi più costosi del mondo, mentre lo spagnolo Manuel Reyes Halaby si dedica ai film d'animazione, con il suo Nouvelle Cuisine, il racconto di uno chef d'alta cucina che si trova a dover stravolgere per il proprio menu per degli ospiti molto speciali. E ancora The Curse of Don Scarducci dell'americano Chris Fondulas, la storia di un gangster che un giorno si scopre intollerante al glutine, The Wild Chef di Ross Harvey, dal Regno Unito, sul cibo selvatico e le erbe spontanee, Dinner without Joe del duo svizzero Machereel e Schaad, corto d'animazione che vede il protagonista costretto a inventare un amico immaginario a tavola in assenza del suo commensale.

www.foodfilmfestbergamo.com/

a cura di Michela Becchi

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