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Vinitaly 2018. Il giudizio di cantine e consorzi

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Folkloristico ma anche professionale, tipicamente italiano ma molto internazionale, lungo ma mai abbastanza. Vinitaly piace sempre di più. Ecco i feedback di cantine e consorzi pre, post e durante la fiera. Insieme alla nostra top five (+1) delle cose che non dimenticheremo

 

Che Vinitaly è stato?

Nonostante il sistema ormai rodato, le aspettative riposte sulla Fiera di Verona sono ancora alte per produttori e consorzi del vino. E, a quanto pare non sono state disattese in questa 52esima edizione della Fiera. Obiettivo raggiunto, quindi, per il direttore generale di Veronafiere, Giovanni Mantavani: “La crescente presenza di professionisti all’edizione 2018 testimonia il consolidamento del ruolo b2b di Vinitaly a livello internazionale, con buyer selezionati e accreditati da tutto il mondo. La top ten delle presenze assolute sul totale di 32.000 buyer accreditati da 143 nazioni, vede primi gli Stati Uniti d’America seguiti da Germania, Regno Unito, Cina, Francia, Nord Europa (Svezia, Finlandia, Norvegia e Danimarca), Canada, Russia, Giappone, Paesi Bassi insieme al Belgio”.

Giro di commenti dal Padiglione Puglia

Abbiamo intercettato, nel treno di andata verso Verona l’italo-americano Adriano Pasculli De Angelis, al suo primo Vinitaly da direttore del Consorzio Primitivo di Manduria. “Il mio obiettivo è affascinare i visitatori” ci dice alla vigilia della kermesse “negli States ero abituato a eventi più ingessati e asettici, dove si punta esclusivamente alla parte commerciale con i buyer. Vinitaly, invece, è quella che in America definirebbero exhibition, quindi in questo contesto la parte emozionale gioca un ruolo importante”. Per questo il Primitivo quest’anno si è presentato con uno stand piccolo, ma del tutto rinnovato nello stile che, attraverso dei pannelli trasparenti, riproduce la mediterraneità pugliese: “Per me il vino è espressione liquida di enocultura” continua il direttore “quindi ho chiesto di non ridurci a fare la solita e semplice mescita di vini. Siamo venuti qua per accettare la sfida internazionale”.

Stanche, ma soddisfatte anche le Cantine Paololeo (San Donaci, Brindisi) all’ultimo giorno di Fiera: “Le cose sono cambiate rispetto a qualche anno fa” dice la responsabile dell’accoglienza Monica Lo Piccolo una volta i visitatori arrivavano nello stand con il solo intento di bere gratis: ‘datemi quello che volete’, era la frase più utilizzata. Adesso il livello si è molto alzato: chi arriva conosce il vino, chiede delle etichette specifiche, fa delle domande tecniche”. E c’è anche chi, passando dallo stand Paololeo, si è ritrovato “genitore adottivo” per un anno di un alberello del Salento, iniziativa di marketing, turismo e salvaguardia delle vecchie vigne, lanciata dalla cantina proprio un anno fa a Vinitaly.

Le voci delle Marche

Positivo il bilancio finale del direttore dell'Istituto marchigiano di tutela vini, Alberto Mazzoni: “Questa edizione è stata caratterizzata per tutta la sua durata da operatori e buyer molto qualificati, un successo per l'area Marche, dove la terrazza ha contato oltre 6.000 presenze. La superstar del nostro consorzio è stato il Verdicchio dei Castelli di Jesi, che a Verona ha festeggiato i 50 anni della denominazione. Per capire il livello delle presenza: la degustazione condotta da Ian D'Agata è andata in overbooking a soli 2 giorni dalla pubblicazione sul sito di Vinitaly".

Mi sento di esprimere un giudizio positivo sull'edizione 2018 per quel che riguarda la presenza di operatori professionali, buyers e ristoratori” commenta in chiusura di stand Doriano Marchetti di Moncaro (Montecarotto, Ancona) “Abbiamo aperto nuovi rapporti anche a livello internazionale, specie con operatori asiatici e dell'Europa dell'Est e portato le degustazioni anche al centro a Verona, per condividere il Vinitaly anche fuori dagli spazi della fiera". Ha ben funzionato, quindi, anche la formula Vinitaly e the City, che quest’anno ha attratto quasi 60 mila appassionati.

Per Giulio Piazzini, enologo di Tenuta di Tavignano (Cingoli, Macerata): “Tanti contatti e incontri con buyer internazionali. Ormai Vinitaly è una fiera che non ha nulla da invidiare a ProWein, con la differenza che la fiera tedesca quest'anno è stata un po' sottotono, mentre quella italiana coniuga la grande professionalità con la componente folkloristica che non guasta mai”.

Biennale e itinerante? Le proposte per il futuro di Vinitaly

Nel corso della Fiera,Angelo Molisani, l'enologo di Podere Castorani (Alanno, Pescara) azzarda una proposta: "È stata una bellissima edizione di Vinitaly, con tanti buyer stranieri, credo in relazione al fatto che quest'anno è quello di riposo per Vinexpo di Bordeaux. Una riflessione che mi fa dire che forse ci vorrebbe il coraggio di fare la fiera di Verona ogni due anni per renderla più interessante e di appeal".

Appoggia l'idea anche Angela Velenosi di Velenosi Vini (Ascoli Piceno), che anzi rilancia: "Di solito nel foglio di feedback che ci arriva a fine manifestazione, scrivo che ci vorrebbe una fiera itinerante, oltre che biennale, in modo da coprire diverse zone d'Italia. Lo ribadirò anche quest’anno".

Un Vinitaly incredibile” per Massimo Gianolli, l’imprenditore della finanza alla guida della start up vitivinicola La Collina dei Ciliegi (Grezzana, Verona), che a Vinitaly ha presentato il suo nuovo eco-resort in Valpantena. “Sicuramente è stata la fiera di Verona più importante della nostra storia. Una manifestazione che crescee di cui apprezziamo anno dopo anno le novità, i miglioramenti organizzativi e gli sforzi logistici: il nostro stand ha ospitato per quattro giorni importatori e distributori di ogni parte del mondo, dalla Cina al Giappone, dagli Usa al Canada, dalla Lituania all'Australia. E da oggi stiamo già lavorando alla prossima edizione, che vogliamo sia strepitosa e ancora più ricca di contenuti e opportunità per tutti i nostri interlocutori”.

Cosa ricorderemo di questo Vinitaly? La nostra Top five

Ma - contatti, incontri, convegni e degustazioni a parte - cosa rimarrà di questa 52esima edizione di Vinitaly nell’immaginario collettivo, o comunque solo nell’immaginario di chi scrive? Per concludere in calviniana leggerezza, abbiamo provato a compilare una parzialissima top five (+1) delle curiosità provate, viste o sentite nella intensissima quattro giorni veronese.

La passerella politica e l'alcol test a Luca Zaia

Vorremmo, ma non possiamo dimenticare il via vai politico che quest’anno, più che mai, ha segnato Vinitaly. Vale sempre il paradigma nessun ministro delle Politiche Agricole, tanti ministri: gli ex come Luca Zaia; i dimissionari come Maurizio Martina; quelli ad interim come Paolo Gentiloni; i vice come Andrea Olivero. E poi tutto il corteo di possibili premier e cariche dello Stato: Matteo Salvini, Luigi Di Maio, Maria Elisabetta Alberti Casellati. C’erano tutti a Verona, per questa 52esima edizione della fiera. Tutti improvvisamente appassionati di vino?Per fortuna (purtroppo) nessuno ha alzato troppo il gomito. Dopo otto ore di fiera, martedì alcol test per il governatore del Veneto Luca Zaia e prova del palloncino (ad opera di Striscia la Notizia) superata. Sarà lo stesso per la prova di Governo? Lo sapremo, magari, al prossimo Vinitaly.

Il vino dei vip

Dai politici ai vip il passo è breve. Ma non parliamo di semplici visitatori di questa edizione di Vinitaly, bensì di cantanti, giornalisti, attori, calciatori che sono diventati anche produttori di vino. Coldiretti ha riunito tutti i loro vini dentro il proprio stand. Tra i precursori ci sono Sting (azienda agricola Il Palagio in Valdarno), Gianna Nannini (Certosa di Belriguardo, nelle colline senesi), Al Bano (Cantine di Al Bano di Cellino San Marco), Andrea Bocelli (azienda agricola Albero Bocelli a Lajatico, in provincia di Pisa). Tra gli imprenditori, Salvatore Ferragamo (Il Borro di San Giustino Valdarno), Tommaso Cavalli (Tenuta degli Dei,vicino Panzano in Chianti), Renzo Rosso (Diesel Farm di Bassano del Grappa),Riccardo Illy (azienda Agricola Mastrojanni di Montalcino), Oliviero Toscani (az. Agricola Oliviero Toscani sulle colline di Casale Marittimo). Ci sono, poi, Joseph Bastianich(Società Agricola Cividale del Friuli), Bruno Vespa(Vespa Vignaioli di Manduria) e Gerry Scotti (azienda Giorgi di Canneto Pavese). Per lo sport: Jarno Trulli (Podere Castorani sulle colline di Alanno), Andrea Pirlo (Patrum Coller nel bresciano), Andrea Barzagli(Le Case Matte nel messinese), Francesco Moser (azienda agricola Maso Villa Warth, nel comune di Lagrein). Infine, torniamo ai politici, tra cui c’è la famiglia Berlusconi, in particolare la nipote Alessia (cantina La Contessa nel Bresciano) e Massimo D’Alema (azienda La Madeleine a Narni). Insomma, in mezzo a tutti questi volti noti, l’effetto mediatico non è di certo mancato. Attorno c’è tutto il mondo vitivinicolo. Quello che lavora anche senza telecamere puntate addosso.

Olga Bussinello e Luca GiaviOlga Bussinello e Luca Giavi

Chef negli stand

C’è, poi, un altro genere di special guest che mai come quest’anno, ha affiancato il vino nell’avventura di Vinitaly. Sono stati tantissimi gli chef chiamati a raccolta da cantine, consorzi, associazioni per omaggiare vini e visitatori con le loro creazioni culinarie. D’altronde non dimentichiamo che l’alleanza food&wine, è stata celebrata anche da Veronafiere nell’alleanza strategica con Cibus (e la nascita della newco Verona Parma Exibitions).

Ma torniamo dentro al perimetro di Vinitaly: al netto del Ristorante d'Autoreallestito al primo piano del Palaexpo (dove si sono avvicendati ai fornelli Enrico Bartolin, Marco Volpin, Daniel Canzian, Nicola Locatelli)e delle cene su invito negli eventi collaterali alla Fiera (combattute a colpi di grandi nomi, come Davide Oldaniper la serata inaugurale di Veronafiere, Errico Recanatiper l’Istituto Marchigiano di tutela Vini,Cristina BowermanperBerlucchi),sono stati tantissimi gli chef presi in “prestito” dalle cantine italiane, all’interno dei propri stand in Fiera. Come Niko Romitoche ha proposto due piatti inediti per festeggiare i 50 anni del Montepulciano d’Abruzzo; Pino Cuttaia, che ha accompagnato la degustazione di Terre della Baronia diMilazzo Vini;Matteo Baronettoassoldato da Velenosi Vini per un gemellaggio interregionale Marche-Piemonte. Tris di ospiti per la cantina pugliese Varvaglione: il pastry chef Agostino Bartoli, Vinod Sookare Felice Sgarra. Ma l’elenco potrebbe continuare, ancora e ancora …

A cucinare, però, non si sono cimentati solo gli chef. Nel mercoledì veronese è andato in scena un derby enoico tra i massimi rappresentanti dell’export vitivinicolo italiano: ai fornelli la direttrice del Consorzio Vini Valpolicella Olga Bussinelloe il direttore del Consorzio del Prosecco Doc Luca Giavi. Una sfida a colpi di risotti: quello all’Amarone, contro quello al Prosecco. Il vincitore? Il tandem vino e cibo.

Realtà virtuale e aumentata

Realtà virtuale e aumentata

Immaginiamo di indossare occhiali 3D ed entrare virtualmente dentro una cantina in cui poter interagire tramite joystick con gli oggetti presenti. È quello che è successo allo stand del Mipaaf in occasione del convegno Valoritalia sull'Internet of Things (i più fortunati hanno provato l’esperienza, compresi noi): al momento una prova dimostrativa, certo, che però sta cominciando ad avere applicazioni pratiche sul fronte della produzione e dei controlli di filiera, con tutte le semplificazioni del caso per enologi che possono, ad esempio, misurare le temperature delle vasche a distanza; agronomi che possono controllare le condizioni del vigneto senza esservi; enti di controllo che possono avere accesso virtuale alla cantina comodamente dai loro uffici. E se nel tempo la realtà virtuale venisse usata dalle cantine anche per consentire a buyer, importatori e consumatori di visitare le proprie tenute direttamente dallo stand di Veronafiera? O se addirittura proprio la Fiera un giorno si trasformasse in un evento puramente virtuale? Le vie della tecnologia sono infinite.

Adotta una vite

Lasciamo la tecnologia per tornare alle radici della viticoltura. Le Donne del Vino Puglia hanno pensato di farsi ricordare dai visitatori della fiera, regalando loro un pezzo della loro regione da portare a casa, con l’iniziativa “Adotta una vite”. In particolare una barbatella di uno degli autoctoni della regione (Primitivo, Negroamaro, Nero di Troia, Susumaniello o Verdeca) da impiantare, concimare, potare e far crescere. Un modo pratico e accattivante per far capire tutto il lavoro che c’è dietro a una bottiglia di vino. L’originale iniziativa (già sperimentata negli anni scorsi) prevedeva sorteggio del nome di un’azienda presso la postazione delle Donne del Vino, visita allo stand dell’azienda assegnata, degustazione e omaggio vitivinicolo. Nuovi viticoltori nascono.

Il vino della pompa di benzina

La chiusura di Vinitaly (ogni giorno alle 18), per chi frequenta Verona, si sa, non è mai coincisa con la chiusura dei “rubinetti” del vino. Anzi sarebbe più corretto parlare di “pompe del vino”. Perché a 200 metri dalla zona expo, c’è una stazione Agip-Eni, ormai diventata “fornitore ufficiale” di vino post-fiera. A dispetto del luogo di somministrazione, quelle che circolano da queste parti sono tutte bottiglie di pregio, da Champagne a magnum di Ferrari, da abbinare a ostriche, formaggi o salumi. Mentre i frequentatori di quest’insolita area aperitivo, spaziano da giovani bevitori seriali a rappresentanti, produttori e giornalisti che hanno tolto la cravatta e abbandonato i tacchi alti. I reduci dalla Fiera, insomma, quelli che Vinitaly non sfinisce mai.

 

a cura di Loredana Sottile

 


La rivoluzione dei gastropub a Londra. I progetti dello chef Henry Harris

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Dopo 13 anni trascorsi nella cucina del Racine, noto ristorante francese di Knightsbridge, lo chef Henry Harris decide di reinventare il concetto dei pub londinesi, recuperando insegne storiche e trasformandole in locali contemporanei con menu ricercati e moderni.

 

Lo chef

Cucina francese di stampo tradizionale, piatti robusti e dai sapori intensi, da gustare in un ambiente tutto giocato sui toni scuri del legno: nel quartiere di Knightsbridge, nel 2002 era Racine, il ristorante di Brompton Road, a far parlare di sé tra gli appassionati del genere e la critica gastronomica. A coadiuvare il lavoro in cucina, lo chef Henry Harris, che nel tempo ha saputo creare una schiera fidata di clienti fissi grazie alla sua tecnica impeccabile e all'ottimo rapporto qualità/prezzo. Dopo 13 anni di successi, nel 2015 il locale ha chiuso definitivamente i battenti, ma questo non ha impedito al cuoco di continuare il suo percorso nella ristorazione londinese.

 

harris

La rinascita dei pub

Tanti i progetti annunciati dopo la chiusura, tutti incentrati su quello che da sempre è il format di ristorazione britannica per antonomasia: il pub. O meglio, il gastropub, un locale informale, dall'atmosfera e lo spirito tipicamente inglese, fra grandi tavoli in legno e proposte di cucina semplici e del territorio, ma con un'attenzione particolare alle materie prime, alla stagionalità, alla filiera. Concetti ormai divenuti all'ordine del giorno nel mondo della gastronomia di ricerca, ma per niente scontati quando si tratta di una tradizione così antica e profondamente radicata nella cultura di un Paese. Il pub nel Regno Unito, infatti, rappresenta prima di tutto un punto di ritrovo per gli abitanti, il luogo dove rilassarsi con i colleghi dopo il lavoro, ma anche quello dove sedersi a mangiare un pasto caldo durante la pausa pranzo; una tappa imperdibile per ogni inglese che si rispetti fin dal Quattrocento, periodo in cui i primi pub (abbreviazione di Public House, case pubbliche che offrivano da bere) iniziano a fare capolino agli angoli delle strade presentandosi come delle specie di osterie, dove era possibile trovare vitto e alloggio.

 

canton arms

I gastropub oggi

Certo, Harris non è il primo ad aver intravisto nei vecchi pub quel potenziale di crescita in grado di far sviluppare un format nuovo, pur mantenendo intatta l'atmosfera del locale. Diversi i gastropub sparsi in giro per la capitale britannica, locali dove è possibile ordinare piatti caldi dal sapore autentico, preparati secondo tradizione, ma con quel tocco d'autore in più simbolo di una ricerca e uno studio approfondito. È il caso del The Brookmill, pub di epoca vittoriana completamente rinnovato da qualche anno, famoso per le sue torte rustiche e il roast beef con verdure arrosto, o ancora Anchor & Hope e Canton Arms, due insegne che hanno fatto dei piatti grandi da condividere fra tutti i commensali il proprio punto di forza. E poi The Cow, locale di apertura “recente” (oltre 20 anni) che ha saputo modificare e rinfrescare il menu più volte, restando sempre al passo con i tempi, fra English breakfast a suon di uova strapazzate e bacon e fish and chips dalla panatura invidiabile.

 

the cow

The Coach, due secoli dopo

Con un curriculum denso di esperienze e lo spirito gioviale di chi nei pub ha sempre trovato un porto sicuro dove approdare, Harris ha deciso di cavalcare a pieno questa nascente tendenza: fra le prime insegne a essere trasformate, The Three Cranes, nel cuore della City, pub storico immortalato dallo scrittore seicentesco Samuel Papys nei suoi diari, interamente rinnovato negli arredi e nell'offerta.

 

the three cranes

Ma a raccogliere l'entusiasmo del pubblico e della critica è stato il The Coach, noto pub di Clerkenwell nato nel 1790, e completamente rimodernato a inizio anno. Un'insegna che, dopo ben 228 anni di storia, cambia pelle e menu, ma senza abbandonare la propria identità. Birre artigianali, tartare di carne, filetti, coniglio alla griglia con mostarda e bacon affumicato (una vera rivoluzione per i consumatori inglesi, che da sempre considerano il coniglio un animale domestico, banditissimo dalla cucina), un fish and chips alternativo che sostituisce le classiche patate con verdure croccanti, patate al forno, insalata di zucchine e purè di melanzane con pomodoro e burro al limone. Per un mix armonico fra Francia e Inghilterra, da sempre marchio di fabbrica dei piatti di Harris.

 

coach

Dal Truscott Arms all'Hero of Maida

Dopo il The Coach, è la volta del The Truscott Arms a Maida Vale, uno di quei pub di quartiere sempre pieno, di quelli che non riservano mai cattive sorprese. Proprio per questo, negli anni si era guadagnato la fiducia di tanti clienti della zona, oltre a vincere il titolo di Miglior Roast Dinner di Londra (la tipica cena inglese a base di roast beef, patate e verdure arrosto) nel 2014. La notizia della chiusura del locale nel 2016, infatti, aveva portato con sé delusione e sconforto fra gli affezionati dell'insegna. Ma non tutto è perduto, perché il pub è pronto a tornare in auge, con la stessa passione di sempre, ma un menu tutto nuovo: “Stiamo facendo dei lavori all'interno, ma molti degli elementi di prima – come il bellissimo soffitto decorato della sala da pranzo – rimarranno invariati”, ha dichiarato lo chef al quotidiano londinese Standard.

 

maida

L'apertura del nuovo The Hero of Maida (questo il nome scelto dallo chef) è prevista per maggio 2018, ed è il frutto della collaborazione fra Harris e il suo socio James McCulloch. Ai fornelli, Steve Collins (ex Les Deux Salons e prima ancora Bellanger, dove è riuscito a portare a casa il riconoscimento Bib Gourmand della guida Michelin), chef specializzato nella cucina regionale francese, che sarà ancora una volta l'ispirazione principale per l'offerta: “Si tratta di un gastropub britannico, ma costruito sul modello dei bistrot francesi, basati sugli ingredienti stagionali dei mercati”. Per una cucina inglese che, proprio attraverso la ricerca e il cambiamento, potrà finalmente riscoprire e far conoscere al mondo il proprio carattere.

The Coach – Londra – 26-28, Ray Street - thecoachclerkenwell.co.uk/

The Hero of Maida – Londra – 55, Shirland Rd – da maggio 2018- www.facebook.com/TheHeroofMaida/

The Three Cranes – Londra – 28, Garlick Hill - threecranescity.co.uk/

a cura di Michela Becchi

In Cammino, catering migrante. Il progetto romano che porta in giro le cucine del mondo

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L'idea prende forma già da qualche tempo durante le cene organizzate nello spazio di Gustamondo, dove rifugiati e richiedenti asilo da tutto il mondo si ritrovano per cucinare le specialità del proprio Paese. 20 di loro parteciperanno ai corsi di formazione per avviare un catering di qualità, fondato sull'originalità delle ricette e sulla professionalità del servizio. 

Il ristorante multietnico di Roma

Gustamondo è un ristorante di Roma, zona Valle Aurelia. Ma anche un progetto d'integrazione sociale, che sul ruolo aggregante della cucina fa affidamento per condividere la scoperta dell'altro. E soprattutto una onlus che collabora con molti centri d'accoglienza locali per portare al lavoro, davanti ai fornelli e in sala, uomini e donne scappati dal proprio Paese d'origine, rifugiati e richiedenti asilo. Un porto gastronomico come piace definirlo a Pasquale Compagnone, ideatore del format, che diventa banchetto multietnico con la complicità di chi condivide le ricette e le tradizioni di casa propria, pure per rinnovare il legame affettivo e culturale con la propria terra. Dunque il menu cambia giornalmente, ma sempre disponibili sono i tamales preparati dalle donne della comunità latino-americana a Roma; e molti sono gli eventi tematici in calendario, dalla cena siriana con Moustafà, ospite della comunità di Sant'Egidio, a base di hummus, falafel, pollo farough alle specialità della Mauritania proposte da Coumba, per scoprire che il Galakh è un dolce a base di cocco, miglio e uvetta. I piatti che si avvicendano sono realmente uno specchio di tutte le culture gastronomiche del mondo: il baccalà con verdure (lafidi) della Guinea, la lasagna di platano e carne del Venezuela, la ropa vieja cubana, il tajin marocchino, il moi moi nigeriano (fagioli bianchi, gamberetti e sardine). Poi c'è la voglia di fare qualcosa di più, valorizzando la professionalità e la voglia di rimettersi in gioco di chi spesso ha perso tutto durante la fuga, e deve ricominciare con dignità. Si chiama In cammino – catering migrante il progetto promosso in collaborazione con Humilitas e la Congregazione delle Suore Francescane della Santissima Maria Addolorata: l'idea è quella di formare una squadra di cuochi multiculturale che possa fornire un servizio di catering originale e di alto profilo.

Il valore aggiunto del talento

Tutti sono rifugiati e richiedenti asilo, tutti hanno talento da vendere, e sono stati scelti proprio per la loro attitudine alla cucina per scacciare i dubbi dei malpensanti, che dell'operazione sarebbero portati a vedere solo un mero pietismo caritatevole. Nulla di tutto questo invece, tanto più che i precedenti dimostrano che solidarietà e professionalità possono andare a braccetto. Si veda il caso di Altrove, altra fucina gastronomica multiculturale della Capitale promossa da Cies; il progetto promosso dalla Città dei Ragazzi in collaborazione con alcuni noti pizzaioli romani per formare aspiranti pizzaioli e panettieri; o l'originale commistione curdo napoletana che ha dato vita al chiacchierato Bazar di Torpignattara, quartiere periferico di Roma ad alto tasso di multietnicità. La taverna ha esordito alla fine del 2017 con l'idea di valorizzare la diversità, come costola del progetto Curd Curd Guagliò: porta in tavola piatti curdi e napoletani, ma è anche market di prodotti realizzati da piccole realtà artigianali italiane, sala da tè e spazio eventi. Dietro c'è l'associazione fondata da Niso (Tommolillo) e Xerip (Siyabend Amed), che in Kurdistan si sono incontrati: uno napoletano, l'altro curdo, insieme hanno concepito una commistione trasversale di cucina di strada, fondata sulla contaminazione. Che è anche operazione di contaminazione e condivisione culturale.

In cammino, catering migrante

E allora anche il catering migrante di In cammino inizia il suo percorso: all'inizio di aprile è partita la prima fase di formazione per i 20 partecipanti al corso, già passati per la cucina di Gustamondo, in arrivo da Etiopia, Cina, Pakistan, Gambia, Mauritania. Palestina, Colombia. Nelle prossime settimane seguiranno lezioni di cucina e lingua italiana, di pasticceria, marketing della ristorazione, cucine del mondo. Seguirà la fase di formalizzazione dell'impresa, necessaria per avviare la start up e iniziare a lavorare. Partecipazione gratuita, col il desiderio di regalare ai cuochi migranti un futuro migliore, e calarli però in una siturazione di piena responsabilità che li porterà a essere autonomi nel contesto occupazionale italiano. Questa almeno è la speranza di tutti. Ora si comincia.

 

www.gustamondo.it

 

a cura di Livia Montagnoli

Colazioni del mondo. Egitto: ful medames, tamiya, basturma

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Variopinta, speziata, profumata: la cucina egiziana è un tripudio di aromi e sfumature diverse, fra cibi da strada venduti in ogni angolo del suk e pane arabo dal gusto inconfondibile. Cerniera fra il Nord Africa e il Medio Oriente, anche a colazione l'Egitto si presenta a tavola con tutti i suoi colori. Piatti tipici e una golosa ricetta a base di fave.

 

La colazione in Egitto

Tutto ha inizio nel Mesolitico, quando il fango fertile ricavato dalle inondazioni del Nilo permetteva a orzo, farro e legumi di crescere spontaneamente nella valle. Erano proprio questi, infatti, i prodotti alla base dell'alimentazione degli antichi egizi, che fondavano la loro dieta su grano e derivati: fu proprio la grande ricchezza cerealicola locale, infatti, fece guadagnare al Paese la fama di “granaio”. Ancora oggi, cereali e legumi sono gli elementi principali della cucina egiziana, una tavola simile a quella della Turchia e della Grecia, ma fortemente contaminata dalla tradizione mediorientale. Senza tralasciare le influenze della gastronomia libanese, fra le più ricche del Vicino Oriente, caratterizzata dall'usanza del mezze, una sorta di tapas spagnola, un piccolo assaggio di ricette locali a base di prodotti tipici. La giornata in Egitto comincia con sapori speziati e profumi avvolgenti, frutto di un amalgama di culture e tradizioni vicine.

Ful medames, la colazione alle terme

Spesso consumato all'interno dei panini, come merenda o pranzo veloce, il ful medames (chiamato anche semplicemente ful) è uno dei piatti simbolo della cucina egiziana, particolarmente comune al mattino. Si tratta di una crema di fave scure, cotte lentamente in una pentola di rame e servite sotto forma di purè, insaporito con olio d'oliva, prezzemolo, cipolla, aglio e succo di limone, e accompagnato da uova sode e pane azzimo. Una ricetta antica dalle origini incerte, che affonda le proprie radici al tempo dei faraoni. Quel che è sicuro è che il ful iniziò ad acquisire maggiore popolarità nel Medioevo, quando era consumato soprattutto nelle terme, dalle dame di corte della principessa. Un'abitudine nata per sfruttare le braci che rimanevano nel focolare utilizzato per riscaldare le gidra, i grandi vasi di acqua per il bagno. Approfittando della brace, le donne riempivano i calderoni di fave, lasciandole sobbollire per tutta la notte. Il risultato era una crema morbida che veniva consumata per colazione, prima di immergersi nuovamente nei bagni. Ma non solo: la ricetta – semplice e a basso costo – divenne così popolare che tutte le cucine del Cairo iniziarono a inviare i propri servitori alle terme per acquistare il famoso ful.

 

ful

A ogni fava la sua ricetta

Diverse le tipologie di fave presenti nel territorio, e diverse, dunque, anche le versioni della stessa ricetta: c'è la ful nābit (o nābid),con i germogli di fava, la fulakhdar, con fave fresche, il fulmadshūsh, con polpa di fave, il fulrūmī, conuna varietà più grande di fave, e ancora il fulbalādī, con le fave selvatiche di taglia media. A seconda delle dimensioni e della croccantezza, ogni fava richiede poi tempi e temperature di cottura differenti, ma la più comune resta la semplice ful, la più piccola e rotonda, spesso chiamata fulhammam, “fava delle terme”, proprio in ricordo delle antiche usanze.

 

fave

Tamiya, la versione egiziana delle falafel

Sono ancora le fave le protagoniste della tavola egiziana al mattino, con la ricetta delle tamiya, delle polpettine molto simili alle più note falafel, che sono invece a base di ceci. Oggi, le tamiya (o ta'meya) rappresentano uno dei cibi da strada più famosi del Paese, da consumare in purezza oppure come ripieno di un panino, dalla colazione al pranzo. Anche in questo caso, non è facile rintracciare l'origine del prodotto, già presente - seppur in forma diversa - nell'Antico Egitto. A far conoscere a tutti le falefel di ceci furono gli immigranti dello Yemen in Israele, a cui si deve il merito di aver eletto queste polpettine a piatto nazionale del Levante, ma soprattutto di aver esportato la ricetta anche al di fuori dei confini mediorientali. La versione egiziana con le fave, invece, è meno conosciuta, ma non per questo meno golosa: in Egitto, infatti, è uno dei cibi più consumati a tutte le ore, come spiega la parola stessa (tam “assaggio”, meya “un centinaio”, ovvero un pasto che può nutrire più persone).

 

tamiya

Basturma, la carne degli armeni

Una carne affumicata insaporita con pasta di cumino, aglio, paprika e fieno greco: è la basturma (o bastirma o pastirma), specialità speziata diffusa anche in altri Paesi ma particolarmente apprezzata in Egitto. A importarla, gli armeni, che dopo il genocidio avvenuto in Turchia nel 1915 portarono con loro in Libano ed Egitto questo prodotto sostanzioso, pratico e in grado di conservarsi a lungo. La ricetta nasce infatti per far fronte al clima rigido dell'inverno, ma soprattutto come sostentamento durante i viaggi più lunghi. Secondo la tradizione popolare, durante i viaggi la carne veniva avvolta nella pasta di spezie e lasciata ad affumicare per tutta la durata del tragitto. Un prodotto saporito e dall'aroma intenso, tanto che, secondo un'antica leggenda egiziana, in passato gli abitanti potevano riconoscere un armeno da lontano solo tramite l'odore di questa carne. Oggi è uno dei piatti tipici della colazione, solitamente arricchito con uova fritte e pane.

 

basturma

La ricetta: ful medames

Ingredienti

500 g. di fave secche

1 cipolla bianca

2 pomodori

1 spicchio d'aglio

Succo di 1 limone

Prezzemolo q.b.

Peperoncino macinato q.b.

Cumino macinato q.b.

Paprika dolce q.b.

Olio extravergine di oliva q.b.

Sale q.b.

Mettere a bagno le fave per una notte, poi farle bollire in una pentola con abbondante acqua, girandole spesso. Cuocere per almeno 2 ore, a seconda della consistenza che si vuole ottenere (per un piatto più cremoso, passarne una parte nel mixer). Spegnere il fuoco, aggiungere il sale, i pomodori e la cipolla tagliati a pezzetti, il succo di limone, il prezzemolo, l'aglio pestato e infine l'olio e le spezie a piacimento. Mescolare bene e poi versare tutto in una zuppiera. Guarnire con un po' di pomodori, cipolla e prezzemolo, e accompagnare con uova sode e pane caldo tipo arabo.

a cura di Michela Becchi

Colazioni del mondo. Francia: croissant, madeleine, crêpes

Colazioni del mondo. India: naan, upma, puttu, masala chai

Colazioni del mondo. Regno Unito: English breakfast, porridge, muffin inglesi

Colazioni del mondo. Stati Uniti: cereali, pancakes, doughnuts, bagel, French Toast

Colazioni del mondo. Brasile: açai bowl, bolo de fubà, pão de queijo, frutta tropicale

Colazioni del mondo. Grecia: baklava, loukoumade, koulouri, yogurt

Colazioni del mondo. Giappone: misoshiru, tofu, dashimaki, doroyaki

Colazioni del mondo. Italia: cappuccino e cornetto, biscotti, ciambellone, pane e marmellata

Colazioni del mondo. Australia: Vegemite, avocado con uova, lamingtons, anzac biscuits

Colazioni del mondo. Portogallo: pastel de Nata, torrada, galão, queijadas de Sintra

Colazioni del mondo. Russia: pane e kolbasa, blinis, syrniki

Colazioni del mondo. Marocco: msemen, baghrir, tè alla menta

Colazioni del mondo. Ecuador: bolón de verde, humitas, empanadas de viento

Colazioni del mondo. Olanda: appeltaart, ontbijtkoek, hagelslag w

Country Food 2018. La gastronomia romana in festa all'Agricoltura Capodarco

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Dodici artigiani del gusto del panorama romano riuniti all'aria aperta, tra gli orti biologici dell'Agricoltura Capodarco. E tanti laboratori per grandi e bambini per scoprire il mondo rurale, la coltivazione sostenibili, i prodotti del territorio.

 

L'evento

Agricoltura sociale e cucina d'autore. Con queste premesse Country Food ha tutte le carte in regola per regalare ancora una volta a tutti gli appassionati di cibo una piacevole giornata all'aria aperta. E agli organizzatori della manifestazione – i Sarti del Gusto – un grande successo di pubblico. Il 25 aprile, ospiti dell'Agricoltura Capodarco a Roma, sono attesi dodici artigiani del gusto che prepareranno in loco le loro specialità, in abbinamento a vino biologico e birra artigianale. Tutto in una cornice naturale che ben si sposa con la territorialità delle proposte, la stagionalità degli ingredienti, la valorizzazione della filiera corta e delle produzioni artigianali. Per il quarto anno di seguito, dunque, la manifestazione si propone di far (ri)scoprire al pubblico il fascino dell'agroalimentare italiano, un settore che da sempre ha fatto della sua ampia biodiversità il proprio punto di forza.

I protagonisti

A rappresentare tutto il buono della gastronomia romana, 11 realtà cittadine, da Bonci a LaGatta Mangiona, da PastificioSecondi a Pork'nRoll, più un ospite speciale dal comune di Fiumicino, pizzeria Sancho. Saranno proprio loro gli esponenti dei vari quartieri, a testimonianza del ruolo centrale della ristorazione nelle vita cittadina. Indirizzi di fiducia, che nel tempo hanno saputo imporsi come luoghi di aggregazione a tutti gli effetti, e che hanno trasformato i ristoratori in promotori della riqualificazione di un intero quartiere.

Il programma

Accanto a chef e pizzaioli, i progetti sociali delle diverse zone, come “Piccoli volti di Centocelle” della libreria L'ora di Libertà, una mostra di ritratti dei bambini di Centocelle, chiamati a raccontare il proprio quartiere, o ancora la mostra fotografica “Il Carretto Rosso”, dedicata ai luoghi pubblici destinati ai più piccoli, dagli asili nido alle ludoteche, e poi il “Centro Culturale Lepetit”, nato a Tor Tre Teste con l'obiettivo di realizzare gruppi di studio e attività per il temo libero. E ancora “Un Orto per Amico”, realizzato con le scuole del IX municipio, progetto volto a coinvolgere i bambini nel mondo dell'agricoltura attraverso al cura diretta dei giardini della scuola. Durante l'evento, non mancheranno poi attività e laboratori, concerti con canti popolari e canzoni di cantautori italiani a cura di Accordi e Note, il tavolo gioco per i più piccoli e, naturalmente, tanti assaggi guidati dagli esperti del settore.

Le realtà presenti all'evento

Agricoltura Capodarco- Prenestina
Bonci- Trionfale
Cafè Merenda- Marconi
Eternal City Brewing- Corviale
Food on the road- Trullo
La Gatta Mangiona- Monteverde Nuovo
Gelateria Da Re- Trieste
Pastificio Secondi- Alessandrino
Pizzeria Sancho- Fiumicino (Roma)
Pork’n’Roll- Portonaccio
ProCarni&Suqulento
Vale la pena- Bufalotta

Country Food – Roma – 25 aprile 2018 – Tenuta della Mistica, Agricoltura Capodarco - www.countryfoodmistica.it

a cura di Michela Becchi

Basta bistecche vegane e hamburger vegetali: niente più nomi in prestito dal mondo animale. In Francia è legge

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Sul mercato proliferano i prodotti a base di proteine vegetali destinati ai consumatori vegani. Ma la Francia non ci sta, e impone di trovare nomi alternativi per i surrogati ispirati ad analoghe specialità animali. Bistecche, salsicce, yogurt, formaggi non possono essere vegani. Pena 300mila euro di multa. 

La legge francese

All’inizio dell’anno era stata l’indagine della rivista 60 Millions de Consommateurs a sferrare un duro colpo alla causa vegana, o meglio alla cattiva comunicazione che spesso incentiva ragionamenti stereotipati sull’argomento. Analizzando le etichette dei prodotti vegani disponibili nei supermercati d’oltralpe, la rivista giungeva alla conclusione che proprio la necessità di garantire un’alternativa gustosa ai prodotti animali presentando sul mercato surrogati a base vegetale determinasse il largo ricorso ad additivi e aromi niente affatto salutari. Al posto del formaggio, per esempio, non è raro trovare in etichetta un mix di amidi e oli vegetali. E per lo stesso motivo è alta la percentuale di zuccheri che sbilancia il profilo nutrizionale dei prodotti ideati dall’industria alimentare per sostituire la carne. Ora invece, sempre in Francia, gli stessi prodotti tornano sotto i riflettori a seguito dell’emendamento proposto dal partito di Macron e approvato dall’Assemblea nazionale, che impone, per i sostituti vegetali di carne e formaggio, nomi che li identifichino come tali, senza prendere in prestito termini di pertinenza dell’universo animale. Quindi bando a bistecche di soia, salsicce e formaggi vegani, che d’ora in avanti i produttori saranno obbligati a chiamare con nomi alternativi, evidenziandone la natura vegetale, pena sanzioni fino a 300mila euro. L’accusa? Confondere i consumatori, orientandone l’acquisto in modo fraudolento. L’approvazione del provvedimento segue una recente sentenza della Corte Costituzionale europea, che nel 2017 aveva imposto di differenziare latte di soia e formaggio di tofu dai rispettivi prodotti emulati, vietando l’utilizzo di termini quale latte, yogurt o burro per i cibi vegetali venduti sugli scaffali dei supermercati.

 

I precedenti. Il caso della Germania

E certo la necessità - prioritaria secondo il deputato Jean Baptiste Moreau, depositario dell’emendamento e allevatore nella vita di tutti i giorni – è tanto più impellente davanti al proliferare di prodotti industriali che strizzano l’occhio alla moda cruelty free, che anche in Germania, un anno fa, aveva indotto il ministro alle politiche agricole Christian Schmidt a scagliarsi contro i surrogati alimentari travestiti da prodotti animali, chiedendo a gran voce una legge che vietasse alle aziende produttrici di alimenti vegani la possibilità di utilizzare parole come carne, wurstel, salame, bistecca, hamburger (ma l’elenco sarebbe ancora lungo, considerando quante possibilità offra oggi il paniere alimentare vegano). Se da un lato è assodato che vegano non sia necessariamente sano, dall’altro si moltiplicano, specie oltreoceano, le aziende che producono alimenti a base vegetale e integratori per chi non mangia carne e prodotti animali. Evidentemente il mercato li richiede.

 

La crescita del mercato

Non a caso, solo qualche giorno fa, la catena di fast food americana White Castle ha cominciato a commercializzare l’Impossible burger prodotto da Impossible foods, che l’hanno scorso fece molto parlare di sé: un hamburger vegano (ma ora in Francia sarebbe vietato chiamarlo così) che ingannerebbe anche il più incallito frequentatore di fast food, per profumo, colore, consistenza, perfino per succulenza, grazie al burro di cocco che simula il grasso bovino e alla presenza di heme, contenuta nell’emoglobina del sangue animale, ma pure nella legemoglobina, una proteina prodotta dalle leguminose. Per l’Impossible burger, l’heme viene prodotta in laboratorio, garantendo l’inganno visivo (ma sarà così anche al gusto?). E la produzione è in aumento costante, mentre molte sono le aziende concorrenti impegnate a sviluppare prodotti analoghi. Dunque le alternative vegetali alla carne proliferano, incentivando la nascita di macellerie vegane e vegetariane in tutto il mondo: la prima, a detta dei suoi fondatori, ha esordito in Olanda già nel 2010, per avvicinare alla cultura vegetariana una clientela onnivora; oggi il Vegetarian Butcher rifornisce con i suoi prodotti a base di soia biologica, piselli, legumi, oltre 3mila negozi in 16 Paesi (ma non parliamo di prodotti vegani, visto l’aggiunta di piccole quantità di siero di latte e uova). E ha fatto scuola: c’è la “carne finta” della macelleria The Herbivorous Butcher di Minneapolis, tra tacchino vegetale e muscolo di grano, la Vegi-Metzg di Zurigo che propone tofu, seitan e tempeh; e poi l’Italia, con la macelleria vegetariana di Gennaro Gagliano al Vomero, e Mimì, storica macelleria (tradizionale) di Bari, che un paio di anni fa ha scelto di dedicare un’ampia sezione del banco alla vendita di surrogati vegetali. La questione resta sempre la stessa: posto che ognuno ha diritto ad alimentarsi come meglio crede, è davvero necessario che i prodotti a base di proteine vegetali simulino forma, odore, consistenza e nome degli equivalenti di origine animale?

 

a cura di Livia Montagnoli

Cucina di casa. Le paste ripiene: Tortellini, Cappelletti e Ravioli ricotta e spinaci

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Le ricette di tre paste ripiene ideali per una cena a casa tra amici: tortellini, cappelletti e ravioli ricotta e spinaci.

 

La pasta fatta in casa richiede sicuramente tempo ma è più semplice da preparare di quanto si pensi e inoltre la soddisfazione di portare in tavola un piatto di ravioli realizzati con le nostre mani è impagabile. Dopo le ricette della pasta fresca, vi sveliamo i segreti delle paste ripiene, specie dei tortellini, dei raviolie dei cappelletti (qui, invece, trovate le ricette dei cappellacci di zucca e degli agnolotti del plin).

Tortellini

Leggenda narra che un oste spiò dal buco della serratura Venere che si lavava nella tinozza; vide il suo ombelico e andò in cucina a impastare. Così sarebbe nato il tortellino, proprio ispirato all'ombelico di Venere. Quella che vi proponiamo è una delle numerose versioni dei classici tortellini, un piatto immancabile nelle tavole emiliane in periodo natalizio, che però gli italiani in generale non disdegnano nel corso di tutto l'anno. Considerate, però, che esiste una ricetta ufficiale, quella depositata nel 1974 presso la Camera di Commercio Industria Artigianato e Agricoltura di Bologna dalla Confraternita del Tortellino in collaborazione con l’Accademia italiana della cucina. In ogni caso provateli in brodo: sono semplicemente speciali.

Ingredienti per la pasta

350 g di farina

4 uova

Per il ripieno

250 g di lombo di maiale

150 g di prosciutto di Parma affettato

200 g di mortadella affettata

100 g di parmigiano grattugiato

Olio extravergine di oliva

1 uovo

Sale, pepe, noce moscata

Preparazione: 120 minuti + 1 giorno per il riposo (facoltativo). Tagliate il lombo di maiale a fette. Scaldate un filo d'olio in una padella e rosolate la carne a fuoco vivace pochi minuti per parte. Quando ha preso un colore deciso, insaporitela con poco sale e pepe, ritiratela dal fuoco e lasciate raffreddare quindi tagliatela a pezzi e raccoglietela nel bicchiere del mixer con il prosciutto e la mortadella. Frullate fino a ottenere un composto non troppo sottile perché i tortellini sono molto più buoni se, masticando, si riesce a sentire la carne. Travasate il tutto in una terrina e unitevi l'uovo intero, una grattatina di noce moscata e il parmigiano. Mescolate, impastando con le mani, fino a ottenere un amalgama consistente. È consigliabile, ma non necessario, far riposare l'impasto per una notte.

Preparazione dei tortellini

Preparate la pasta con uova e farina lavorandola a lungo, quindi tirate la sfoglia sottilissima (se utilizzate la macchinetta, effettuate l'ultimo passaggio nell'ultimo spessore) e ricavatene dei quadrati di circa 3 centimetri di lato. Disponete al centro una piccola nocciola di composto, ripiegate a triangolo e premete un poco tutto intorno per sigillare quindi avvolgete il triangolo (con la punta in alto) attorno alla sommità dell'indice e fate combaciare le estremità stringendole. Lasciate riposare i tortellini anche per un giorno e fateli cuocere per non più di due-tre minuti. Per apprezzarli in pieno, i tortellini si mangiano in brodo, meglio se di manzo e cappone.

 

Cappelletti in brodo

Cappelletti

È uno dei formati più diffusi in tutta Italia, che muove le prime mosse dall'Italia centro-settentrionale. I cappelletti si differenziano dai tortellini per il ripieno tradizionalmente preparato con un mix frullato di carni bovine, suine o avicole (c'è chi ci mette anche il piccione). Anche se su questo punto c'è una diatriba: per alcuni romagnoli i cappelletti sono ripieni di solo formaggio e la carne è assolutamente bandita in ogni sua forma. Qui la versione per carnivori.

Ingredienti per la pasta

350 g di farina 00

4 uova

Per il ripieno

200 g di vitello

200 g di lombo di maiale

200 g di pollo

Vino bianco

Aglio, rosmarino e salvia

100 g di parmigiano grattugiato

1 uovo

Sale, pepe, noce moscata

Preparate la sfoglia come per i tortellini (vedi sopra). Quel che cambia è il ripieno: rosolate le carni insieme all'aglio, il rosmarino e la salvia; bagnate con il vino bianco. Una volta cotte, passate al tritacarne per due volte. C'è chi aggiunge al composto anche la mortadella e il prosciutto, l'importante è che sia tutto macinato. Unite al composto l'uovo, il parmigiano, il pepe e la noce moscata, e amalgamate il tutto fino ad avere un composto omogeneo.

 

Ravioli di ricotta e spinaci

Ravioli di ricotta e spinaci

Quadrati o rettangolari, piccoli o grandi, serviti in brodo o accompagnati da vari sughi, sotto il nome di “raviolo” rientrano diversi tipi di pasta ripiena. E anche in fatto di farcia, vi è totale libertà. Noi vi proponiamo la ricetta dei ravioli ricotta e spinaci.

Ingredienti per la pasta

350 g di farina 00 (oppure metà farina 00 e metà semola di grano duro)

4 uova

Acqua

Per il ripieno

300 g di ricotta di pecora

600 g di foglie di spinaci [peso netto]

2 uova

4 cucchiai colmi di parmigiano grattugiato

Noce moscata, sale e pepe

Per il condimento

80 g di burro

Parmigiano grattugiato

Setacciate la farina sulla spianatoia, fate la fontana e versatevi le uova sbattute, un pizzico di sale e un cucchiaio di acqua appena tiepida. Cominciate ad amalgamare con una forchetta quindi impastate energicamente per una decina di minuti fino a che la pasta sarà diventata elastica e liscia. Una volta pronta, raccoglietela a palla, avvolgetela nella pellicola trasparente e lasciatela riposare per circa un'ora. Mentre la pasta riposa preparate il ripieno.
Mondate gli spinaci, lavateli più volte sotto l'acqua corrente e cuoceteli per pochi minuti con la sola acqua rimasta loro aderente dopo il lavaggio. Scolateli, strizzatele fortemente fra le mani e tritatele con la mezzaluna. Unitevi la ricotta, le uova, il parmigiano, una grattatina di noce moscata, sale e pepe. Mescolate con cura gli ingredienti fino ad avere un composto omogeneo.
Dividete la pasta in quattro pezzi e, usando la macchinetta, ricavate da ognuno una striscia sottile. Disponete sul lato lungo della striscia dei mucchietti di ripieno delle dimensioni di una ciliegia alla distanza di 4 cm. Ripiegatevi sopra il lembo di pasta libero e premete con le dita intorno al ripieno in modo da far uscire tutta l'aria e sigillare bene. Formate i ravioli (quadrati o rettangolari) ritagliandoli con la rotellina dentata e, via via che sono pronti, adagiateli su di un canovaccio infarinato. Quando saranno tutti pronti tuffateli in abbondante acqua salata in ebollizione e lasciateli cuocere per pochi minuti (se li cuocete appena pronti saranno sufficienti tre o quattro minuti). Tirateli su con una schiumarola, accomodateli in un piatto da portata profondo e conditeli con il burro fuso e con il formaggio grattugiato. Prima di servirli fateli riposare per qualche minuto nel forno caldo ma spento.

 

Cucina di casa. Le basi: Pasta brisée, Pasta sfoglia, Pasta da pizza e Pasta frolla

Cucina di casa. Le salse: Besciamella, Salsa béarnaise, Pearà e Salsa verde

Cucina di casa. Le creme: Ganache al cioccolato, Crema pasticcera, Crema inglese, Panna montata

Cucina di casa. Le salse straniere: Guacamole, Hummus, Baba ganush e Tzatziki

Cucina di casa. Le paste fresche: Pasta all'uovo, Pici, Tagliatelle di farina di castagne e Pizzoccheri

Cucina di casa. Gli gnocchi: Gnocchi di patate, Gnocchi di semolino, Gnocchi di zucca e Gnocchetti di pane

 

Tre Forchette. Da Caino a Montemerano. La grande Maremma di Valeria Piccini

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Incontro con Valeria Piccini. Dal 1978 saldamente alla guida di quella che, all'epoca, era una semplice trattoria e oggi rappresenta una delle più belle espressioni della grande cucina, quella che dalla tradizione si è saputa evolvere mantenendo altissima l'asticella della qualità e della coerenza.

 

Prima mi ha messo in prova in cucina e solo dopo ci siamo sposati”. Scherza Valeria Piccini nel raccontare come la sua vita professionale sia legata a doppio filo con quella privata: il matrimonio nel 1978 con Maurizio Menichetti, la nascita del figlio Andrea l'anno successivo. Sempre in quell'angolo di Maremma che risponde al nome di Montemerano. Quando arriva, Caino è la trattoria della famiglia di suo marito, ci lavorava con i suoceri e il cognato.

 

 

A quel lavoro si appassiona presto, lei che alle spalle aveva studi di chimica e alla cucina non ci pensava proprio, né conosceva nulla di quel mondo fatto di ricette ma anche di guide e alta ristorazione. Erano gli anni '80, la Maremma gastronomica offriva piatti sostanziosi, ma poca varietà: “buglione, acquacotta, cinghiale”, in giro c'era poco altro. Insieme al marito, si mettono in testa che vogliono fare qualcosa in più, così cominciano a girare per ristoranti, soprattutto all'estero, “per vedere cosa succedeva”. In Italia la situazione è diversa: “il Gambero Rosso ancora non esisteva neanche come inserto del Manifesto” ricorda Valeria “poi, una volta, al Vinitaly, vedo una gigantografia del Gambero. C'era scritto che in Maremma, a Montemerano, c'è Caino: parlava di noi”. È il numero 32, supplemento del Manifesto del 10 ottobre 1989. In quei tempi cominciano a spingersi oltre la classica trattoria proponendo anche cose nuove, create da loro “ma con le radici della nostra Maremma”, cominciano a lavorare alla cantina, acquistata nel 1985 (poi arricchita di altre 4 stanze confinanti, riunificate nel 2009). La trasformazione è avviata, e le persone non tardano ad accorgersene: “avevamo perso tutti i vecchi clienti”.

Tortelli di cinta senese in brodetto di castagna e gallina

Verso gli anni '90

Insomma: i vecchi clienti non si ritrovano più in quella cucina, i nuovi non sono ancora arrivati. “È stato il momento più difficile della nostra storia, per fortuna avevamo le nostre famiglie alle spalle” ricorda Valeria “volevo quasi mollare, ma poi Maurizio mi ha convinto: se ci credi – diceva – e credi che quel che fai è la cosa giusta, arriverà”. Nascono allora cose come i tortelli cacio e pere o quelli di cinta in brodetto di castagna e gallina, due piatti che ci sono ancora, sempre uguali. La cosa più difficile, però, sono i secondi: “volevo fare cotture più veloci, avevo capito che le carni cotte al punto giusto rimangono più succulente, ma in Maremma chi avrebbe mangiato un cinghiale o un piccione cotto al rosa?”. La risposta non è incoraggiante: “qualcuno scrisse che il carpaccio di piccione era troppo crudo” ride ora, ma lì per lì la reazione è un'altra “mi sono arrabbiata, ma poi ci ho fatto una risata sopra e ho continuato più testarda di prima”. Aveva capito dove voleva andare: “per apprezzare i nostri prodotti dovevamo fare cotture veloci ed eliminare i fondi pesanti”. Cominciano ad arrivare, finalmente, i nuovi clienti, e tanti sono stranieri “più pronti a queste cotture”.

 

Pappardelle accoppiate farcite con formaggi di fossa e asparagi

 

I maestri stranieri e la scoperta del territorio

Nel 1991 arriva la prima Stella, e anche sul Gambero Rosso la valutazione è in crescita. I viaggi continuano, e sono fondamentali: “vedevamo quel che succedeva in Francia e in Spagna e, tornati a casa, cominciavamo a studiare il nostro territorio”. I punti di riferimento sono tanti: “ognuno mi ha dato qualcosa”. Ci sono Michel Bras per il lavoro sulla materia prima, le erbe, soprattutto, ma anche lumache e agnello, c'è Carme Ruscalleda, la ricerca di Ferran Adrià, e Andoni Luis Aduriz “per i fiori e le erbe quasi sconosciuti” e poi Baratasegui. Ne nomina tanti, Valeria: “è stato un bellissimo periodo di studio e ricerca”. Fondamentale per una come lei che non ha mai fatto scuole di cucina: “volevo fare uno stage, una volta, ma mi hanno chiesto 2 anni: ho rinunciato. Ma poco dopo è arrivata la Stella e ho capito che quel che facevo era la cosa giusta. E sono andata avanti”. Nascono negli anni '90 il piccione con le ciliegie, il cinghiale con olive servito con le patate come fosse arrosto ma cotto al momento. Oppure le pappardelle accoppiate farcite con formaggi di fossa e asparagi o al sugo espresso di faraona, in estate. È una cucina sempre più immediata, preparata al momento. “Si incominciava anche a lavorare bene, e non volevamo fermarci”. E non lo fanno. Quasi in contemporanea arrivarono le Tre Forchette del Gambero Rosso e le seconda Stella Michelin, “eravamo felicissimi”. Era il 1999. Poi la storia, con il Gambero Rosso, ha avuto un andamento incostante, con la riconquista delle Tre Forchette nell'edizione attuale, quella 2018 “per noi una grande soddisfazione” ammette Valeria. “Siamo contenti che siamo stati riscoperti, per così dire. Noi abbiamo avuto sempre lo stesso approccio, lavorando seriamente e serenamente su una grande materia prima, rispettando la nostra terra e la nostra tradizione”, riflette un po' e poi aggiunge “ma in alcuni anni, chi doveva valutarci non lo ha ritenuto allo stesso livello del prima e di oggi”. Le guide ci sono anche per questo: assumersi la responsabilità di cambiare una valutazione. “Ora speriamo venga riconfermato: siamo felici di far parte di questa èlite”.

 

ravioli_di_olio_etra_vergige_cainoRavioli di olio extra vegine di olica con colatura di alici e capperi su coulis di pomodoro. Caino

Questioni di famiglia

Il tempo passa e anche il figlio Andrea entra a far parte della squadra. È del 2003 il suo famoso (e premiato) tortello ripieno di olio. Nonostante la sua esperienza in cucina, Andrea è uomo di sala e di cantina (che oggi conta 20mila bottiglie e 2000 etichette), di cui oggi ha preso le redini, lasciando a Maurizio la cura della vigna, dell'orto e degli ulivi di famiglia. Ma solo dopo una lunga esperienza negli Stati Uniti da una parte all'altra del pass.

 

Agnello e dintorni

La materia prima

L'allevamento è tutto” risponde convinta Valeria quando le chiedi dei suoi fornitori, “chi assaggia il maialino rimane stupito e mi chiede come lo faccio” racconta “la verità è che non è buono perché lo faccio io ma perché è buono il maiale: in zona ci sono aziende biologiche che che ci danno carni buonissime”. Una è quella dei fratelli Tistarelli. E così per i formaggi e altri prodotti. Per le verdure no, perché per quelle c'è il loro orto, soprattutto in estate: in inverno cinghiali e caprioli mangiano il raccolto, ma con la bella stagione Caino è autosufficiente per gli ortaggi. “Non so se riuscirei a cucinare allontanandomi dalla nostra Maremma” spiega raccontando anche dei legumi che si trovano in questa zona stretta tra alto Lazio e bassa Toscana: lenticchie nere di Onano o i ceci, “che puliamo ancora con la cenerata, con la cenere del nostro camino”. Negli anni i piatti sono cambiati moltissimo, pur mantenendo sempre molta coerenza, quello che non è cambiato è il modo di lavorare: “non siamo abituati a ordinare per telefono un taglio di carne, quando vado da Roberto (Tistarelli ndr) prendo l'animale intero, devo riuscire a lavorarlo tutto quanto. Vengo da una famiglia di contadini, sono abituata a fare così”. In menu quindi si trovano dagli zampetti alla pancia, fino alle interiora, come in un piatto recente, Agnello e dintorni “una spirale di crema di patate arrosto e l'agnello in ogni sua parte, da quella più pregiata al cervello fritto. Un viaggio nelle diverse intensità di gusto”.

 

L'ingresso. Foto: L. Tessaro

In cammino verso la leggerezza

Nel frattempo qualcosa è cambiato, sono nate le stanze che proiettano Caino nel mondo dei Relais & Chateaux, e anche il ristorante non è più quello di un tempo, con quel salottino che ora accoglie gli ospiti per un aperitivo o il dopo cena “non ci piaceva che chi entrava si trovava davanti ad altri clienti che mangiavano”, così i tavoli dalla prima sala sono andati via come quello accanto alla cucina. E altri progetti continuano, di pari passo con il lavoro in cucina “i piatti nuovi sono fatti stando sempre con i piedi per terra” spiega, anche se tutte le tecniche moderne, “quelle apprese dalla Spagna e non solo” sono a disposizione “uso quelle che aiutano a migliorare il prodotto che abbiamo in mano, molte servono, ma quando sono estreme è il gusto che ci rimette”.

Non la solita bistecca

Ci sono twist moderni, fantasiosi nelle presentazioni, ma che mantengono stretto un legame con il territorio, come per esempio la pancia di maiale servita in una griglia insieme alle verdure “e a un sasso di fiume sbollentato su cui versiamo un'acqua al finocchietto che sprigiona un fumo profumato che ricorda quello della griglia, anche la salviettina è imbevuta in una tisana al finocchio”. Poi c'è Non la solita bistecca, un parallelepipedo di carne, il cuore del controfiletto di manzo, servito con una preparazione a base di fagioli “a ricreare l'idea della fiorentina”, delle crocchette liquide di crema di fagioli neri conditi, accompagnata dagli sfilacci di carne portati in tavola in un pentolino, un manzo proposto in due servizi “che va bene anche per i palati che non sono pronti per il piccione o altre carni”. In menu anche riletture di piatti tipici: coniglio in marinata, tortelli toscani, il panino con il lampredotto (straordinario). E poi il piccione “che in un modo o nell'altro non manca mai”.

 

 

Tagliolino canocchie cacao e pmpelmo

 

Un passo verso il mare

Oggi la cucina si sposta sempre più verso una maggiore leggerezza, i fondi di carne sono sostituiti da salse, brodi ed estratti di verdure, ed è stato introdotto anche del pesce, “dell'Argentario o di Montalto” spiega “non cappesante, per dire, ma pesce nostro: calamaro, seppia, triglia, sgombro e via così, abbiamo cominciato a mescolare carne e pesce e poi a creare piatti di solo pesce”. Cose come il tagliolino di farine antiche con canocchie, cacao e pompelmo “che incontra molto il gusto dei clienti”, come pure il cannolo con cicorietta di campo con scampi crudi ed emulsione di arancio, o la tagliatella di calamaro, gamberi crudi, salsa di patate affumicate e gelato di impepata di cozze. I clienti gradiscono. Ma come è il cliente di Caino, oggi? “Lavorare in questo momento è bello, perché tanti sono consapevoli di quel che mangiano, sono preparati e apprezzano”. Ma non è sempre stato così: “il periodo peggiore è stato qualche anno fa, quando sono cominciate le trasmissioni sulla cucina. Bastava che uno guardasse una puntata che si sentiva un superesperto che pensava di aver capito tutto”. I danni della spettacolarizzazione di certa cucina, di cui in molti hanno parlato. E Valeria Piccini che cliente è? “Sono una bella forchetta!” esclama ridendo “apprezzo tantissimo ma non sono di quelle che si mette a tavola per fare un esame. Mangio come se fossi a casa mia, poi le mie riflessioni le faccio in un altro momento”.

 

Caino – Montemerano (GR) – via della Chiesa, 4 - 0564602817- http://www.dacaino.com/

 

a cura di Antonella De Santis

 


Gabriele Bonci apre la seconda pizzeria a Chicago. Il bilancio dei primi mesi in America

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A poche ore dall'inaugurazione del secondo locale in città, facciamo il punto della situazione con il pizzaiolo romano, ragionando sull'ultimo anno trascorso con un occhio costante sull'America. Perché la pizza in teglia romana ha fatto impazzire Chicago? Cosa ha funzionato, e cosa meno? Quali insegnamenti porta a casa Gabriele? E poi l'annuncio: il terzo locale a Miami, a novembre 2018. 

 

L'esordio a Chicago. Subito un successo

Ferragosto 2017, 161 di Sangamon Street, Chicago. Folla delle grandi occasioni e facce che lasciano poco spazio all'immaginazione tra i curiosi della prima ora accorsi per l'inaugurazione di Gabriele Bonci in città. L'estate scorsa il maestro romano della pizza in teglia esordiva oltreoceano, concretizzando un progetto a lungo pianificato, in società con gli americani Rick Tasman e Chakib Touhami. Oggi che pubblico e critica celebrano unanimi i primi mesi di attività dell'insegna, Gabriele può confessarlo, “ho avuto molta paura, era una grande scommessa, fondamentale è stata la sinergia con quella che oggi considero la mia famiglia americana”. Bisogna dirlo, sulla carta le garanzie erano buone, Tasman e Touhami sono entrambi nel settore della ristorazione da molti anni, conoscono bene il mercato, sanno il fatto loro sulle strategie di marketing più efficaci, e, non meno importante, condividono con Gabriele quella filosofia che privilegia la qualità e la stagionalità della materia prima e il rapporto diretto con i produttori, tanto importante da diventare una clausola del contratto: “Non dimentichiamo che oltre ad aver fondato la celebre catena di ristoranti asiatici P.F. Chang's negli anni Novanta, loro sono proprietari del marchio True Food, un progetto di ristorazione incentrato sui prodotti organici”. Dunque poco meno di un anno fa l'avventura della pizzeria a taglio di Bonci a Chicago cominciava sotto i migliori auspici, in una città tradizionalmente legata al consumo di pizza in teglia, seppur molto diversa da quel prodotto che Gabriele sognava da tempo di esportare nel mondo, dopo avergli reso giustizia nella città in cui è nato, nel suo quartier generale di via della Meloria.

L'ultimo anno di Gabriele Bonci in America

Oggi i numeri parlano di migliaia di accessi ogni giorno, e risultati ben oltre le aspettative, che hanno portato ad accelerare i tempi per la seconda apertura in città, nel locale vista Milwaukee che ha inaugurato appena un paio di giorni fa. Gabriele non è potuto partire per qualche piccolo contrattempo di salute, ma i suoi ragazzi sono atterrati a Chicago per seguire la nuova startup, “e visto il pregresso siamo così fiduciosi che la squadra italiana resterà giusto un paio di settimane, il tempo di mettere in marcia il locale prima di lasciarlo nelle mani del team americano”.

Perché, si diceva, fin qui i feedback sono stati tutti estremamente positivi: “In America, se non vinci muori subito. Noi siamo partiti di slancio dall'inizio, anche sul versante del fatturato ci riteniamo pienamente soddisfatti. C'è stata una naturale flessione durante i mesi freddi, avevamo previsto un 50-60% in meno di accessi... E invece il calo è stato molto più contenuto. Poi c'è la critica locale, ci hanno definito la miglior pizza di Chicago, ci seguono con attenzione, quasi danno più risalto alle nostre qualità oltreoceano, che qui in Italia”.

 

La squadra, il prodotto, le strategie di marketing

Ma qualche difficoltà c'è stata? Necessità di aggiustare il tiro in corsa? “Il prodotto secondo me è rimasto eccezionale, non siamo scesi a compromessi, i ragazzi (tutti americani, ndr) vengono addestrati in modo severo, non devono sottovalutare nulla. Le persone hanno premiato il nostro impegno a mantenere l'italianità e la qualità del prodotto. Però è anche vero che siamo in evoluzione continua, per non dire rivoluzione”. Per esempio anche comunicare le nostre abitudini di consumo, la filosofia Bonci e la tradizione della pizza in teglia romana è importante: “Cerchiamo ancora di fargli capire il ruolo della bilancia, il nostro approccio al servizio. Parliamo comunque di una formula divertente, ed è giusto dare risalto anche a gesti apparentemente trascurabili: il fatto che usiamo la forbice, per esempio, li ha fatti impazzire. E la nostra strategia di comunicazione fa leva anche su questi dettagli”. A sostanziare il successo, però, secondo Gabriele è stata soprattutto la capacità di mantenere invariato un metodo di lavoro che comprende più aspetti: “Nelle nostre pizzerie proponiamo una varietà assurda di proposte, al banco usciamo con una trentina di alternative, solo con ingredienti di stagione; siamo un'azienda etica e non facciamo nero, fenomeno piuttosto diffuso tra le pizzerie a taglio”. Anzi, proprio grazie all'esempio di Chicago, dove anche da Bonci si paga solo con carta, presto Pizzarium abbraccerà tout court un nuovo metodo di pagamento, “esclusivamente con carta”. A Roma è davvero possibile? “Sarà un processo progressivo, ma è fondamentale capire questo passaggio: dobbiamo contrastare l'evasione fiscale nelle pizzerie a taglio; e insieme si riduce il rischio di rapine per i ragazzi che sono al locale fino a tarda sera”.

Il raddoppio a Chicago. Poi Miami

Intanto gli sforzi si concentrano sul nuovo locale di Chicago, a Wicker Park, “in una zona molto più commerciale della città, che probabilmente ci consentirà di stare aperti molto più a lungo, dalle 8 del mattino fino alle 2 di notte, quando c'è ancora movimento”. E in uno spazio più ampio, con tavoli sociali a disposizione, “sul modello della pizzeria aperta a Lucca”. Non cambia, invece, la proposta: pizza al taglio, fritti, vino e birra. Nelle prossime settimane Pizzarium ospiterà un gruppo di pizzaioli americani destinato a diventare squadra maestra in vista di ulteriori aperture, perché il gioco adesso entra davvero nel vivo: “Siamo molto soddisfatti, e questo ci porta ad accelerare i tempi: a novembre apriremo a Miami, abbiamo bisogno di una squadra forte che segua sul posto la nostra crescita”. I viaggi di Gabriele, però, continueranno a essere assidui, “a Chicago c'è il quartier generale della Bonci internazionale, sono spesso lì. E ora comincia una nuova fase di selezione di piccole farm e produttori nell'area di Miami: è un aspetto che mi diverte ancora molto, e seguo personalmente”. Insomma, nessun pensiero negativo? “So che in passato sono girate online foto del locale di Chicago vuoto, qualche polemica sterile. Per fortuna le cose non stanno così. Ho buoni feedback anche da italiani che vogliono provare la nostra pizza laggiù: molti inseriscono Bonci come tappa del viaggio di nozze!”. Prossima meta, quindi, Miami, e per il 2019 si preannunciano altre sorprese, “molto probabilmente non New York, una delle ultime città americane che i miei soci hanno intenzione di prendere in considerazione. Mi affido totalmente a loro su questo: conoscono bene il mercato, sanno dov'è giusto scommettere”. Finora tutto sembra dargli ragione.

 

Bonci - Chicago - 1566 N Damen Avenue - bonciusa.com

 

a cura di Livia Montagnoli

 

8 strade per una gita in moto (e relativi pit-stop)

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Le pianure, colline e i passi alpini d'Italia rappresentano perfettamente la sintesi e l'unione della natura incontaminata con l'intervento dell’uomo, dando al motociclista esperienze di viaggio indimenticabili. Per non parlare delle gustose soste lungo il percorso.

 

Da nord a sud, l'Italia riserva ai centauri percorsi indimenticabili, strade che attraversano vallate e villaggi, accompagnano paesaggi alpini o coste frastagliate. Ecco una raccolta di alcune fra le strade più ambite dagli amanti delle due ruote, con tanto di luoghi dove sostare per una golosa pausa, fra un tornante e l’altro.

Da Vipiteno a San Candido, Alto Adige

La Valle Isarco, percorsa dalla Via del Brennero, è una destinazione assai cara ai centauri. Il caratteristico villaggio di Vipiteno è circondato da meravigliosi paesaggi alpini e vanta un centro storico medievale il cui intrico di stretti vicoli acciottolati accoglie numerose botteghe artigiane a conduzione familiare. Passato Vipiteno si attraversa la porzione meridionale della Valle Isarco, la quale, nel punto più ampio, ospita vigneti e alberi di melo che lasciano gradualmente spazio a foreste di castagni che si inerpicano lungo pendici montane. Lasciata la Strada Statale SS12, i motociclisti desiderosi di esplorare la zona possono puntare la bussola a est e imboccare la Strada Statale SS49 percorrendola per intero fino a San Candido. Si passeranno paesini caratteristici quali Valdaora di Mezzo e Dobbiaco. La ricompensa per tutti i chilometri macinati sarà una specialità tipica del luogo, i pressknödel (i canederli pressati) oppure una fetta di strudel fatto in casa, magari accompagnato da un calice di bollicine all’Hotel Posta a San Candido. Aria fresca di montagna, pascoli profumati, sole splendente e trattamento a 4 stelle. Cosa si può volere di più?

 

Langhe, fra vigneti e tartufi

Sulla strada tra la zona periferica di Cuneo e Alessandria, i mototuristi possono divertirsi a cavalcare i loro bolidi attraversando le Langhe, uno degli ambienti rurali più belli d'Italia, riconosciuto come patrimonio dell'umanità dall'UNESCO. Sulla strada, passando per le città di Mondovì, Carrù, Dogliani, Neive, Barbaresco e Treiso, le dolci colline ricoperte di vigneti sono la culla di vini conosciuti in tutto il mondo. Strade dalle dolci curve e manto stradale perfettamente liscio, attraversano caratteristici villaggi e ottime cantine, offrendo panorami da sogno sulle meravigliose valli circostanti. Il luogo migliore dove far riposare la moto sul cavalletto e fare un goloso pit-stop è sicuramente La Terrazza da Renza a Castiglione Falletto. Destinazione ideale per il pranzo, questa informale trattoria vanta la migliore terrazza con vista sui vigneti nelle Langhe. A seconda di quanto trovato al mercato quel giorno, la cucina propone smisurate quantità di specialità locali, e riempirà il vostro calice di vini prodotti in zona. Potrete scegliere tra alcuni dei più famosi protagonisti delle Langhe: Barbera d'Alba, Barbaresco, Dolcetto d'Alba e Moscato d'Asti.

Le curve a gomito della Val Taleggio

Nelle Prealpi, lungo strade che offrono vedute mozzafiato della Val Taleggio, della Valle Imagna e della Valcava, motociclisti in gita potranno godere della bellezza del paesaggio alpino percorrendo la strada con più curve della Lombardia. Questo toboga su due ruote offre un panorama a 360° e splendide vedute ad ogni tornante. Dirigendosi a nord e imboccando la Strada Provinciale SP36, si passeranno località quali Osnago, Cernusco Lombardone e Merate. Passato appena 1 km dopo Airuno girando a sinistra si entrerà nella splendida Valle Imagna, una bellissima gola fiancheggiata da montagne ricoperte di foreste che sapranno emozionare anche i motociclisti più navigati. Superate Favirano e Torre de' Busi, si snoda una serie di curve a gomito che affaticheranno il polso destro a furia di cambiare marcia, l’ultima delle quali è Valcava, dove il belvedere ha un punto di osservazione a 1350 metri d’altitudine affacciato sull’intera Pianura Padana. Alle vostre spalle, la corona delle vette delle Alpi. Per riprendere fiato, e rifocillarsi dopo tanta emozione, sarà bene quindi affidarsi alle sapienti mani della chef Petronilla Frosio al suo Ristorante Posta a Sant’Omobono Terme, sulla Strada Provinciale SP21, non lontano dal ramo orientale del Lago di Como. Ordinate la sua leggendaria polenta taragna servita con spugnole e agnello, magari annaffiata da un buon bicchiere di Franciacorta. Se temete il colpo di sonno, sappiate che al piano di sopra ci sono deliziose camera nel B&B Soprailposta dove potreste schiacciare un sonnellino prima di riprendere il viaggio.

 

Appennino Tosco-Emiliano su due ruote

Non lontano da Firenze e il confine con l’Emilia-Romagna, il Passo della Colla di Casaglia collega la Valle Sieve con la Valle Lamone: abbondanza di curvoni a gomiti, salite brusche e tornanti di montagna. Borgo San Lorenzo, in provincia di Firenze, è un paesino situato a 913 metri sul livello del mare, lungo la SS302. Da queste parti il migliore pit-stop è la Locanda della Colla, un ottimo indirizzo per motociclisti e amanti della buona cucina Toscana. Qui si viene per la maestosa grigliata mista con patate arrosto, ma il menù recitato a voce dall’oste include altre specialità regionali, quali minestre e legumi. Una volta sazi, a bordo del vostro bolide potrete lasciare la strada principale e perdervi nelle colline circostanti e strade di campagna.

Abruzzo, paradiso per biker

Attraversando paesaggi montani ad alta quota su strade che si incuneano tra boschi e borghi medievali segnati da una storia secolare, curve e tornanti zigzagano all'ombra del massiccio del Gran Sasso, tagliando attraverso la piana di Campo Imperatore, a 70 km dalla città de L'Aquila. Benvenuti in Abruzzo, un vero paradiso per motociclisti. In zona, un pit-stop per gli amanti delle due ruote (e non solo) è il Ristoro Mucciante, una macelleria in località Fonte Vetica, non lontano dal borgo di Castel del Monte, che vende al dettaglio tagli di carne ovina e suina, nonché salumi e formaggi prodotti in zona. La particolarità del luogo è che tutta la carne può essere grigliata al momento sulle “fornacelle” messe a disposizione all’esterno. La specialità della casa sono ovviamente gli arrosticini, piccolo spiedini di carne di pecora che causano forte dipendenza. Qui se ne ordinano a dozzine, e vengono consumati con spesse fette di pane casereccio e brocche di vino da tavola. Ma chi lo desidera può grigliare a proprio piacimento anche pancetta, bistecche e salsicce, e portarsi a casa ogni tipo di pecorino stagionato e affettati prodotti artigianalmente dalle aziende agricole del circondario. I posti a sedere sono rustiche panche e tavoli di legno all'esterno, con vista a 360° sulle vette appenniniche, a quota 1530 metri.

 

Le mille curve della Costiera Amalfitana

Classificata come patrimonio mondiale dell'UNESCO, la Costiera Amalfitana è una serie infinita di curve a precipizio sul mare: 50 chilometri di bellezza a partire dal confine meridionale della Penisola Sorrentina. È una destinazione turistica molto frequentata, con scogliere a picco sul mare e un litorale costellato di piccole spiagge e insenature, e villaggi di pescatori dai colori pastello. L'autostrada costiera SP163 tra Sorrento e il porto di Salerno si snoda in tornanti ondulati e curve a gomito, passando magnifiche ville ricoperte di bougainville, vigneti terrazzati e limoneti. Arroccato in alto, sopra le acque cristalline di Positano - la città gioiello della Costiera Amalfitana - si trova il ristorante biologico La Terra. Nella minuscola frazione di Montepertuso, a 6 km da Positano, il locale accoglierà i motociclisti con prodotti di produzione propria e pescato del giorno. Gli gnocchi fatti in casa e le verdure dell'orto appena colte sono da non perdere.

 

Trulli e tornanti in Puglia

Dirigendosi a sud da Bari, perfino i centauri meno avvezzi godranno nel percorrere i chilometri lungo la costa fino al Salento, la punta più meridionale dello Stivale. Sulla strada si passeranno pittoresche località balneari quali Polignano a Mare, Monopoli, Torre Canne e Ostuni. Proseguendo lungo la costa fino alla Valle d’Itria si arriva finalmente in Salento. I centauri buongustai non potranno non fermarsi ad uno degli storici “fornelli pronti” pugliesi. Questa è una tradizione che va avanti ormai da secoli. Qui, le macellerie non sono semplici macellerie, bensì anche luoghi di ristoro. La carne acquistata viene grigliata al momento e servita ai tavolini apparecchiati sul marciapiede all'esterno del negozio, o in piccole salette ricavate nel retrobottega. Queste particolari macellerie sono note in zona come fornelli pronti. Il mezzo usato per grigliare le carni è un tipico forno a legna per il pane. La cottura avviene a fuoco indiretto, le carni infilzate negli spiedi, vengono appoggiate a 45° dal lato opposto in cui si trovano i carboni ardenti; in questo modo il sapore della carne non è alterato dal grasso che colando sulla brace brucerebbe, facendo fumo. A sud di Bari, a Valenzano, a pochi chilometri dal mare troviamo la Braceria da Mimmo dove si gustano soprattutto gli gnummareddi e le bombette: sottili fettine di vitello o suino, impanate e farcite con caciocavallo, prelibatezze gustate rigorosamente con le mani. Inutile dire cosa succede in cottura al caciocavallo all'interno...

 

Vigneti e dignità nelle campagne di Palermo

La produzione vitivinicola nelle terre siciliane confiscate alla mafia getta un barlume di speranza per l'economia dell'isola e per la dignità della sua gente. Questo è dovuto in gran parte grazie all'etichetta Centopassi, l'anima vitivinicola di Libera Terra, divisione creata nel 2002 da due cooperative sociali che utilizzano terreni confiscati alla mafia per coltivare una varietà di prodotti, tra cui il vino. I loro rigogliosi vigneti situati a 20 km da Palermo, coprono 93 ettari tra la periferia del capoluogo e la città di Corleone. La strada SS121 e poi la SS118 curvano tra le campagne fuori Palermo, lambendo il Bosco della Ficuzza. Lasciando la Statale e dirigendosi a ovest si attraversano panorami campestri fino a Salaparuta. Risalendo a nord verso Camporeale e San Giuseppe Jato, ci sono solo vigneti a perdita d'occhio. Un buon pit-stop in zona è l'Agriturismo Portella della Ginestra a Piana degli Albanesi, situata tra le colline e i prati della Valle dello Jato intitolata all'omonima strage del Primo Maggio 1947. Il casale del XVII secolo ristrutturato è accogliente e luminoso, l'atmosfera è informale; la cucina propone piatti semplici che impiegano prodotti esclusivamente biologici (da non perdere la loro caponata). Come il vino, l'intera gamma di prodotti utilizzati in cucina - pasta fatta in casa, legumi, olio extra vergine di oliva, prodotti in scatola e salse - provengono esclusivamente dal territorio di Libera Terra.

 

Post Hotel - San Candido (BZ) - Benediktiner Str. 10/C39038 -0474913133 - www.posthotel.it

Bottega dei Quattro Vini - Neive (CN) - piazza Italia 2 -0173677195 - www.bottegadei4vini.com

La Terrazza da Renza - Castiglione Falletto (CN) - via Vittorio Emanuele 6 -017362909 - www.laterrazzadirenza.it

Ristorante Posta - Sant’Omobono Terme (BG) - via Vittorio Veneto 169 -035851134 -www.frosioristoranti.it

Locanda della Colla - Borgo San Lorenzo (FI) - via Faentina 69 -0558405013 - www.locandadellacolla.it

Ristoro Mucciante - Castel del Monte (AQ) - Loc. Fonte Vetica - 3398855751

La Terra - Positano (SA) - via Tagliata 14 - 089811179 - www.ristorantelaterra.com

Braceria da Mimmo - Valenzano (BA) - via Piave 70 - 0802371376 - www.braceriadamimmo.it

Agriturismo Portella della Ginestra - Piana degli Albanesi (PA) - Contrada Ginestra SP34, Km 5 - 0918574810 - www.agriturismoportelladellaginestra.it

 

a cura di Eleonora Baldwin

La Cucina di Buon Gusto a Torino. Una mostra sull’arte della tavola alla Biblioteca Reale

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L’esposizione fa parte delle iniziative promosse in città in occasione del Bocuse d’Or Off 2018, e offre un interessante punto di vista sul rituale della tavola alla corte dei Savoia, ricostruendo al contempo la tradizione gastronomica piemontese, attraverso ricettari inediti datati ai Sei e Settecento. Un racconto che si snoda tra oggetti preziosi e manoscritti rari, in mostra fino a settembre 2018. 

 

Alla tavola di corte. La mostra

La cronologia scandisce un percorso che si snoda tra il Seicento e l’Ottocento, ed è quello di riferimento del regno di Savoia, visto attraverso l’arte della tavola a corte. Ed è questo il primo obiettivo della mostra appena inaugurata ai Musei Reali di Torino nell’ambito delle iniziative promosse nel circuito del Bocuse d’Or Off 2018, mentre l’appuntamento con la finale europea del premio, prevista per la prima metà di giugno, si avvicina. I Musei Reali, dunque, partecipano all’attesa con l’esposizione La Cucina di Buon Gusto, allestita nel salone monumentale della Biblioteca Reale e visitabile fino all’8 settembre 2018. Un viaggio tematico tra reperti che raccontano l’etichetta di corte a tavola, le invenzioni mirabolanti dei cuochi di palazzo per stupire gli ospiti dei banchetti, i preziosi servizi di stoviglie, anch’essi funzionali a magnificare il prestigio dei sovrani. E anche l’origine di ricette che oggi sono radicate nella tradizione gastronomica piemontese, come il bagnetto verde, o i grissini torinesi. La mostra, articolata in tre sezioni, presenta libri, disegni, documenti, oggetti preziosi: ricettari settecenteschi, porcellane, cristalli e argenti, manoscritti che portano memoria del gusto (a tavola) di un’epoca.

 

Tra stoviglie, cristalli e manoscritti

All’allestimento hanno contribuito in egual misura i Musei Reali – da cui provengono gli oggetti in esposizione, per esempio le porcellane in uso nella sala da pranzo della residenza, molte in arrivo da prestigiose manifatture europee, da Meissen a Baccarat e Vienna, senza dimenticare Richard-Ginori – e la Biblioteca, che invece ha focalizzato l’attenzione su documenti e testi delle collezioni che trattassero la produzione di cibo – dallo stato dell’agricoltura all’evoluzione delle tecniche alimentari – e l’arte della buona tavola. La prima sezione, focalizzata sugli oggetti, è stata ribattezzata Tavole Reali, e propone, tra gli altri, oltre ad alcuni pezzi scelti del servizio da dessert detto delle “Donne più celebri d’Europa di tutti i tempi”, dipinto dall’Atelier di Boyer e appartenuto a Maria Adelaide Asburgo Lorena, moglie di Vittorio Emanuele II: la particolarità del servizio è quella di ritrarre donne della Bibbia, regine, attrici, eroine, scrittrici e muse ispiratrici di opere letterarie (sulla zuccheriera c’è Beatrice, la donna amata da Dante Alighieri). Provengono invece dalle manifatture francesi di Niderviller, Sèvres e Nast il vaso e le statuine in biscuit. Completano la sezione alcuni esemplari degli eleganti argenti realizzati nel XIX secolo nelle botteghe piemontesi dai membri della Corporazione degli argentieri. Poi la visita prosegue nei caveau.

 

La visita ai caveau. All’origine delle ricette tradizionali

La seconda sezione è intitolata ai Saperi e Sapori, raccontati attraverso manoscritti inediti sulle attività agricole, la caccia, la pesca, e trattati dedicati alle eccellenze piemontesi, come il vino (c’è pure la prima traduzione italiana del trattato teorico sulla coltivazione della vite, o l’opera di zoologia più famosa del Rinascimento, Aquatilium Animalium, con la raffigurazione puntuale delle specie ittiche, realizzata a incisione). Tra questi anche un raro testo settecentesco emblematico per evocare la nascita della cultura del caffè, Lettre a m. Le Monnier sur la culture du café. La terza e ultima sezione, Invito a tavola, è forse quella più curiosa, perché ricostruisce nelle vetrine della Sala Leonardo due ipotetici menu. Da un lato il rituale di corte, attraverso la testimonianza di due banchetti serviti nel 1865, dall’altro le ricette della tradizione piemontese. Del resto la collezione di ricettari della Biblioteca è ingente: ben 53 raccontano i gusti ottocenteschi, 15 si riferiscono alla tavola del Settecento, due risalgono al Seicento, tre sono i testi che riassumono le preparazioni cinquecentesche. I curatori hanno scelto di offrirne ai visitatori uno spaccato significativo, dal celebre ricettario di Bartolomeo Scappi al manoscritto anonimo di un cuoco piemontese sulla cucina della seconda metà del Settecento (1766), che ebbe grande diffusione; dal celeberrimo testo di Brillat Savarin al Grand Dictionnaire de Cuisinedi Alexandre Dumas: anche l’inventore dei moschettieri si dedicò a lungo a censire la tradizione gastronomica francese, restituendo un ricettario enciclopedico sulla cucina e le abitudini a tavola dei suoi connazionali. Circa 150 pezzi in tutto e visita compresa nel biglietto di ingresso ai Musei Reali.

 

a cura di Livia Montagnoli

Steven Raichlen Grills Italy. Settima puntata: a caccia di anguille a Gorino

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A Gorino, in provincia di Ferrara, sono le vongole e le anguille le protagoniste della tavola. È proprio con questi due elementi che Steven Raichlen, il re del barbecue, ha scelto di sperimentare nella settima puntata del programma in onda su Gambero Rosso Channel.

 

Gorino, patria delle anguille e delle vongole veraci

Gli abitanti di Gorino lo sanno bene: non c'è niente di meglio di un bel piatto di vongole veraci, o – perché no – di un'anguilla scottata sulla griglia. Nella settima puntata di Steven Raichlen Grills Italy, il mago della griglia si lancia in una nuova avventura: la caccia alle anguille. Che possono arrivare a 4-5 etti di peso, e sono perfette da cuocere sul barbecue. Finita la pesca, l'americano si dirige a La Capanna di Eraclio, il tempio della chef Maria Grazia Soncino a Codigoro. Qui, la cuoca gli mostra come tagliarle: “Bisogna incidere la testa con un punteruolo, tagliare la lisca, ma non completamente”. Steven ascolta curioso, seguendo con attenzione ogni movimento di Maria Grazia, ponendo domande e assorbendo ogni gesto, ogni tecnica.

La ricetta della chef

Si passa alla cottura: “Aprire il pesce a metà e cuocere finché la pelle non inizierà a staccarsi da sola”. Senza dimenticare di posizionare l'anguilla dalla parte della pelle, “che così diventerà abbrustolita e croccante”. Poco condimento, quasi nessuno: “Mettiamo solo un po' di sale grosso integrale di Cervia”. 8-10 minuti, poi si gira, e si cuoce per altri 5 dall'altro lato. Una preparazione detta “in umido”, in grado di mantenere la carne morbida e succulenta, anche se “tradizionalmente, la definizione “in umido” sottintende l'utilizzo del pomodoro. In questo caso, significa solamente “carne cotta al forno””. O meglio, alla griglia. Una volta che la pelle si sarà staccata naturalmente dal resto, il piatto è pronto.

La versione di Raichlen

È poi il turno di Raichlen per “grigliare l'Italia”, ovvero reinterpretare la ricetta secondo il suo gusto. Per l'anguilla, Steven opta per una salsa giapponese, omaggio alle sue origini (il guru del barbecue è nato a Nagoya): il teriyaki, a base di sakè, salsa di soia scura e zucchero. Questa volta, però, il cuoco stellestrisce sceglie di realizzare un teriyaki all'italiana, con il vin santo al posto del sakè. Dopo aver fatto marinare il pesce con la salsa per 4 ore in frigorifero, Steven si prepara alla cottura, scegliendo un nuovo metodo: è il “grilling tray”, ovvero la teglia da griglia (come sempre firmata Weber), studiata appositamente per far passare l'aria e il fumo attraverso i fori, piatta e sottile per consentire una cottura uniforme, ma perfetta per evitare che il pesce si attacchi alle grate. “Bisogna ungere con olio extravergine di oliva sia l'anguilla che la teglia, e poi cuocerla dalla parte della pelle”. Con la marinatura avanzata, Raichlen realizza una riduzione di scalogno per accompagnare il tutto. Un piatto saporito e piacevolmente speziato, “succulento e squisito”.

La pizza con le vongole

Ma non finisce qui, perché il re del barbecue sceglie di cimentarsi anche con le vongole veraci. La ricetta è originale e insolita, soprattutto per il pubblico italiano: si tratta di una pizza cotta su griglia condita con pomodorini ciliegino, aglio, salvia, scalogno e vongole veraci (con e senza guscio). Si comincia dalle vongole, cotte in padella nel classico soffritto, e si passa poi all'impasto lievitato. “Basta mettere la pasta nella teglia, ungere bene con olio extravergine di oliva, e poi cuocere sul grill”. Una volta cotta da un lato, occorre girarla e disporre tutti gli ingredienti del topping sulla parte già pronta. Un po' di olio, sale, pepe nero e peperoncino, e poi di nuovo sulla griglia, “per terminare la cottura anche dall'altro lato”.

Steven Raichlen Grills Italy va in onda ogni lunedì ore 21.30 su Gambero Rosso Channel, Sky 412

a cura di Michela Becchi

Laurea honoris causa in Arte per Massimo Bottura. La lectio magistralis all’Accademia di Belle Arti di Carrara

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Secondo riconoscimento ad honorem per lo chef della Francescana, che l’anno scorso ritirava il diploma in Direzione Aziendale dell’Università di Bologna. A Carrara, invece, arriva per la sua cultura in campo artistico, e per la capacità di ricondurvi ogni pensiero etico ed estetico. Lui porta sul palco il suo mondo: la “bottega” modenese, i refettori, il passato che si trasforma, l’invisibile che diventa visibile. 

 

La cultura prima di tutto

In via Stella non abbiamo viste sul mare, né su una montagna. Il nostro paesaggio di riferimento è la cultura”. Sul palco dell’Accademia di Belle Arti di Carrara, che ieri ha aperto l’anno accademico in compagnia di Massimo Bottura e Maurizio Cattelan, lo chef modenese ha preso la parola da qualche manciata di secondi. E subito ribadisce perché si trova lì, a ritirare la sua seconda laurea honoris causa, un anno dopo il primo riconoscimento assegnato dall’Università di Bologna, in Direzione Aziendale. A Carrara, invece, Bottura è arrivato per meriti che esulano il puro e semplice approccio imprenditoriale, per “la sua professionalità e la sua creatività in campo culinario” e “la sua cultura in campo artistico, che si manifesta in tutte le sue attività”. Ad honorem, insignito del diploma in Arte, perché lui ha sempre creduto nella “qualità delle idee”, e la sua lectio magistralis non fa che evidenziare il concetto, tornando a più riprese sull’importanza della legittimazione culturale, che “è sempre stata più importante di qualsiasi forma di riconoscimento”. Il discorso tocca gli argomenti del mito costruito fin qui, gli occhi di un bambino aperti sulla meraviglia del mondo, quel tavolo della cucina da cui si gode di una prospettiva speciale, che sempre ritorna nella narrazione dei ricordi d’infanzia; la curiosità e il pensiero critico che spingono a proiettare il meglio del passato nel futuro, l’invisibile che diventa visibile, “compresso in bocconi masticabili”, che rivelano “le connessioni tra natura, arte e tecnologia”; il ristorante come bottega rinascimentale, dove il mestiere si apprende dai maestri, e il veicolo è sempre la cultura, lo stile prima ancora della tecnica.

Etica ed estetica per Massimo Bottura

Nell’Aula Magna di Palazzo Cybo Malaspina tutti lo ascoltano, mentre lui va avanti a raccontare come etica ed estetica possano contaminarsi nel rappresentare un orizzonte di valori sociali, oltre che culturali, artistici e gastronomici. A introdurlo c’è il rettore dell’Accademia, dietro di lui una riproduzione in gesso del Laocoonte, in sala, ad ascoltarlo, anche Maurizio Cattelan, arrivato a ritirare il titolo di professore onorario di scultura. E Bottura si lancia in un mondo di riferimenti artistici che gli è molto congeniale. Cita Ai Weiwei, le sue Forme, e l’importanza di rompere per trasformare e ricreare, partendo dal passato: “Una metafora del nostro processo creativo– dice - che rimette insieme i pezzi, riscoprendo i sogni e riordinando le idee”. Poi c’è spazio per Joseph Beuys, e l’urgenza creativa dell’opera Capri Battery, che diventa curativa: “Arte, scienza e natura possono nutrire e curare un Paese, una cultura o un individuo malato con un’energia quasi magica”, come “un pesto segreto o una salsa magica da condividere” (qui il riferimento più letterale sembra essere quel pesto inventato all’occorrenza per la mensa del teatro Greco, a Milano, con ingredienti di fortuna, quando il percorso dei refettori era appena all’inizio). E ancora Alighiero Boetti, il suo Tutto(1988) che rappresenta il possibile, “la possibilità infinita di vedere le cose”, soprattutto quelle che gli altri non vedono. Come un pezzo di pane secco, gli scarti di una cucina ancora riutilizzabili. Del resto Boetti e molti altri artisti sono protagonisti assoluti del suo nuovo celebratissimo menu in queste settimane in carta alla Francescana. È così che Bottura introduce alla platea un tema che gli sta molto a cuore, il mondo dei Refettori e il progetto Food for Soul: “Abbiamo imparato che un brodo apparentemente povero può essere più ricco di un fine consommé”. E continua: “I nostri Refettori si fondano sulla qualità delle idee tanto quanto sul valore della bellezza”; come diceva il filosofo Ludwig Wittgenstein, che lo chef modenese non si stanca di citare, “Bello e Buono sono complementari”, l’uno non può esistere senza l’altro. I refettori vogliono dimostrarlo. E nel pomeriggio di Carrara il cerchio si chiude così, con un messaggio di speranza che Bottura da anni si impegna a seminare nel mondo: “Possiamo rendere visibile l’invisibile”.

 

a cura di Livia Montagnoli

Top 100 Europa 2018 di Opinionated About Dining. In vetta la Svizzera di Caminada, ben rappresentata l'Italia. Tra le new entry Giuseppe Iannotti

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A Londra la cerimonia del Royal Hospital Chelsea ha rivelato la classifica delle migliori 100 tavole fine dining d'Europa secondo il blog di Steve Plotnicki. Sul podio Caminada, Nilsson e Arguinzoniz. Primi per l'Italia i fratelli Alajmo, al decimo posto. E gli altri italiani chi sono? 

La Top 20. Chi sale e chi scende

Dopo due anni di netta superiorità, Alain Passard e l'Arpege scendono dal podio, dal primo gradino alla medaglia di legno, un quarto posto che assicura comunque al maestro francese il primato tra i suoi connazionali. La classifica in questione è quella che annualmente mette in fila le 100 migliori tavole d'Europa a detta dei recensori del blog Opinionated About Dining, che Steve Plotnicki ha fondato nel 2004 per dare spazio a penne amatoriali ma gourmet. Dunque il risultato, bisogna ammetterlo, è una lista piuttosto scomposta degli indirizzi più riconosciuti nel perimetro del Vecchio Continente, senza presunzione di verità assoluta, ma comunque indicativa del gusto dei più assidui frequentatori di fine dining, quei clienti che ogni buon ristoratore ha imparato a tenere bene in conto, perché grazie a loro l'attività è sostenibile. Nel 2018 la vittoria spetta allo svizzero Andreas Caminada e al suo castello delle meraviglie a Furstenau (Schloss Schauenstein), medaglia d'argento nel 2017. Lo seguono, rispettivamente in seconda e terza posizione, Magnus Nilsson (Faviken, Svezia) e Victor Arguinzoniz, asador veterano alla guida di Extebarri, che negli anni è riuscito ad ammantare di un fascino mitologico la sperduta località di Axpe, nei Paesi Baschi. Il resto della Top 10 vede un'alternanza di Spagna, Belgio (rientra in lizza Kobe Desramaults, con Chambre Separée, ad Anversa), Svezia... Italia, con i fratelli Alajmo e la cucina delle Calandre ambasciatori unici della ristorazione tricolore nei primi dieci piazzamenti. L'Osteria Francescana di Massimo Bottura, al decimo posto l'anno scorso, strappa solo la quindicesima posizione, superata, tra gli altri, dalla squadra catalana – in grande spolvero – di Disfrutar e dal Geranium di Copenaghen. In vetta bel risultato anche per Hisa Franko: Ana Ros, al numero 17 con la sua casa di campagna slovena, è l'unica donna nelle prime 20 posizioni (Carme Ruscalleda la segue al numero 27).

 

Gli italiani in classifica

La compagine italiana, che l'anno scorso salutava l'ingresso in classifica di Luigi Taglienti (Best New European Restaurant 2017, come new entry al miglior piazzamento), è come sempre ben rappresentata. Riccardo Camanini e Lido84 in grande ascesa al 21esimo posto (dal 76), Niko Romito con il Reale al numero 30 (dal 42), Enrico Crippa e Piazza Duomo al 32, Taglienti e Lume al 47. Poi, ancora a Milano, Seta di Antonio Guida al 57 e Tokuyoshi al 63; Gennaro Esposito per il Sud al 69, e Villa Crespi di Antonino Cannavacciuolo al 75. Enrico Bartolini al Mudec cifra tonda al numero 80, Emanuele Scarello e la solidità del ristorante Agli Amici di Udine all'83. Ciccio Sultano, unico rappresentante per la Sicilia, al numero 96 con il Duomo. Ma allargando lo sguardo anche a chi lambisce la Top 100 (la lista prosegue fino al 200esimo piazzamento), l'Italia festeggia ancora, per esempio per il buon risultato di Marzapane a Roma (numero 104 per la cucina di Alba Esteve Ruiz), per Del Cambio e Matteo Baronetto (108), per il Caffè Quadri di Venezia (ancora team Alajmo, al 109). A scendere Davide Scabin (115), Giancarlo Perbellini (117), Mauro Uliassi (121), ma soprattutto l'unica new entry 2018 per l'Italia, Giuseppe Iannotti, che porta il Krèsios di Telese Terme al numero 111.

Giuseppe Iannotti e l'orgoglio del Krèsios

A Londra, dove la cerimonia di premiazione ha preso vita al Royal Hospital Chelsea, anche Iannotti ha partecipato all'organizzazione della cena di gala, insieme ai colleghi “nuovi entrati”: “Questa è la grande opportunità di una circostanza che riunisce chef da tutto il mondo, avere possibilità di scambio, confrontarsi con i colleghi internazionali”. Perché la vetrina conta, e Giuseppe ne è ben consapevole, ma resta con i piedi per terra, rivendicando quella concretezza che oggi gli permette di vincere la sfida con una posizione geografica che certo non lo avvantaggia: “Le liste sono un gioco, ma certo non un obiettivo di vita. Ovviamente portano visibilità, ed è una grande soddisfazione per me essere a Londra a rappresentare la mia realtà, le mie origini, Telese Terme e il progetto del Krèsios, che non è solo pensiero gastronomico, ma una sfida imprenditoriale continua, dove la creatività conta quanto la concretezza e tutti lavoriamo per dare all'ospite un'esperienza che deve ripagare il viaggio”. Per questo Giuseppe ha intrapreso un percorso controtendenza, due percorsi degustazione alla cieca, che portano il cliente a fidarsi completamente dello chef. Un'idea ambiziosa e rischiosa al tempo stesso: “Non tutti capiscono, ma sicuramente non è un approccio che ci semplifica il lavoro: lavoriamo su percorsi da 35 e 27 portate, ogni giorno in cucina girano 300 ingredienti. E la sala gira sugli stessi standard di qualità. Gli stranieri capiscono di più, vengono per divertirsi. Con gli italiani è più difficile, devi aiutarli a fidarsi”. Ecco perché, come gli eventi a cui spesso Giuseppe partecipa in giro per il mondo (“una possibilità di scoprire nuove culture, e insieme l'opportunità di conquistare nuovi clienti”), anche la vetrina di OAD diventa importante: “Oggi al Krèsios arriva un 30% di clientela campana, un 30% dall'Italia, e un 30% conquistato nel tempo, un tavolo dopo l'altro, dal resto d'Europa e dal mondo. Australia, Giappone, Spagna. Per noi è un traguardo importantissimo”. Soprattutto perché, ovunque vada, Telese è sempre nel cuore. E Giuseppe accoglie a braccia aperte chiunque abbia voglia di divertirsi sul serio.

 

La Top 100+ 2018

 

a cura di Livia Montagnoli

Cucina tipica russa. 10 preparazioni (abbinate a 10 vini italiani)

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Vi proponiamo degli insoliti abbinamenti: 10 piatti russi con 10 vini italiani. Provare per credere.

 

Dopo il periodo sovietico la Russia di oggi vuole riscoprire la sua storia gastronomica. Parola di Vladimir Mukhin,sous chef al The White Rabbit di Mosca: “Il nostro Paese è davvero pronto per fare il grande salto. Abbiamo un sacco di buoni ristoranti e c'è una nuova ondata di chef validi come Anatoly Kazakov del Selfie o Georgy Troyan del Severanye, entrambi di Mosca, o Igor Grishechkin del Cococo di San Pietroburgo, solo per citarne alcuni. Questa è la prima generazione di chef che sta studiando il proprio passato, che vuole conoscere la cucina delle nonne, di quelle ebraiche e di quelle ortodosse, perché non c'è una sola tradizione ma molte, in Russia”. Noi abbiamo individuato 10 piatti tipici (quelli più famosi) e li abbiamo abbinati ad altrettanti vini selezionati tra quelli presenti nell’ultimissima edizione della Guida Vini 2018 del Gambero Rosso. Si tratta di vini premiati con i Tre Bicchieri (la valutazione massima assegnata alle etichette eccellenti nelle loro rispettive categorie), i Due Bicchieri Rossi (vini da buoni a ottimi che hanno raggiunto le degustazioni finali) e i Due Bicchieri (vini da buoni a ottimi nelle rispettive categorie).

Borsh

Zuppa tradizionale a base di barbabietola e servita con panna acida a parte.

Montepulciano d’Abruzzo Cerasuolo Le Cincie ’16 – De Fermo. Sarà che quando c’è l’abbinamento cromatico siamo più convinti, fatto sta che un Cerasuolo col Borsch è proprio perfetto: acidità e il leggero tannino sgrassano e puliscono la bocca, mentre la struttura del vino va di pari passo con l’aromaticità della zuppa. Perfetto!

 

Insalata russa

Insalata Olivier

Più comunemente chiamata insalata russa. Esistono varie ipotesi sulla sua origine, secondo una di queste sarebbe stata creata intorno alla seconda metà dell'Ottocento da Lucien Olivier, cuoco belga di origine francese, nelle cucine del ristorante Hermitage di Mosca. La cosa certa è che nel corso degli anni la ricetta è cambiata totalmente.

Alto Adige Pinot Grigio ’15 – Kofererhof. Un vino altoatesino per un piatto conosciuto in tutto il mondo. Serve l’acidità giusta per sgrassare, ecco perché scegliamo un vino di montagna, ma anche una bella sapidità e un giusto aroma. Mai coprire le note dell’insalata, ma allo stesso tempo accompagnare per esaltare tutti gli ingredienti.

 

Aspica di carne

Kholodets

Prende il nome da kholod (in russo significa freddo) ed è una portata immancabile nelle tavole russe durante le vacanze invernali. Si tratta di una gelatina di carne.

Maremma Ciliegiolo ’16 – Antonio Camillo. Ci piace l’idea di abbinare a una gelatina di carne un vino fresco d’acidità, ma anche di temperatura (il Ciliegiolo è uno di quei rossi da servire a massimo 16°C): snello nella beva, dal tannino delicato e di buona profondità gusto olfattiva. Il piatto sarà ben accompagnato ma mai coperto.

 

insalata di aringhe

Selyodka pod Suba

Insalata di aringhe marinate con barbabietola, carote e maionese.

Trentino Gewürztraminer ’16 – Maso Cantanghel.Giochiamo tutta la partita sul contrasto: alle note affumicate mettiamo tutti gli aromi fruttati del traminer; alle note sapide delle aringhe mettiamo la dolcezza tipica del vitigno. Infine un po’ di freschezza del vino ideale per ripulire la bocca dalla parte grassa, specie della maionese.

 

polpette russe

Kotleta pojarskaya

Polpetta di vitello ripiena di burro aromatizzato poi impanata e fritta.

Dolceacqua Rossese ’16 – Terre Bianche. È una frittura (di carne) è c’è un po’ di grassezza data dal burro. Il Dolceacqua è il vino che fa per noi. Ottenuto dal vitigno rossese, è un rosso ligure di grande bevibilità. Al naso profuma di frutti di bosco, mentre in bocca ha giusta acidità, leggero tannino e un finale molto saporito. Da polpetta, in pratica!

 

Beef stroganoff

Beef stroganoff

Straccetti di manzo stufati con cipolla, panna acida e funghi.

SP68 Rosso ’16 – Arianna Occhipinti. Un vino del Sud per gli straccetti. Si, ma un rosso tutt’altro che muscoli e struttura. L’SP68 è ottenuto da nero d’Avola e frappato, è elegante, freschissimo e di grande sapidità. Riesce ad accompagnare bene le carni rosse, non le copre e, grazie all’acidità, pulisce bene dagli ingredienti con cui il piatto è preparato.

 

ravioli russi

Pelmeni

Ravioli tradizionali ripieni di carne, serviti con panna acida o con un brodo di pollo.

Lambrusco di Sorbara Radice ’16 – Paltrinieri. Non sappiamo se sia stata la pasta ripiena a farci pensare subito a un vino emiliano. Fatto sta che il Radice è perfetto con questi tipici ravioli russi: aromi di vino e piatto vanno di pari passo, la carbonica del vino bilancia bene la farcia del raviolo e, grazie alla spiccata acidità del Sorbara (è un Lambrusco molto diverso da quello di Modena, dal Grasparossa o dal Salamino) la bocca è rimane sempre molto pulita.

 

funghi gratinati

Julienne di funghi

Funghi saltati con cipolla, panna e burro quindi gratinati.

Verdicchio di Matelica ’16 – Collestefano. Niente carne o pesce per questo contorno tradizionale. Noi optiamo per un bianco snello, elegante, fresco e sapido. Il Verdicchio di Matelica sembra il vino ideale. La buona aromaticità non sfigura con i profumi del piatto e il sorso va di pari passo con l’assaggio della pietanza.

 

zuppa di pesce russa

Uxa

Zuppa di pesce tradizionale leggermente affumicata

Mendula ‘13 – Pietro Lilliu. Il Mendula è un vino bianco sardo prodotto da un vero artigiano del vino, Pietro Lilliu. Ottenuto da uva malvasia, è secco e sapido. Ottimo con i piatti di mare, specie con quelli affumicati, dove la tanta aromaticità del vino va a contrastare e a sorreggere tutti i profumi del piatto. Un abbinamento tanto particolare quanto affascinante.

 

crepe con salmone e caviale

Balik di salmone con “oladi” e caviale nero di storione

Salmone marinato e affumicato secondo la tradizione russa poi servito su piccola crepes lievitata e caviale nero di Beluga comunemente chiamato storione.

Alta Langa Brut Zero Nature Sboccatura Tardiva ’11 - Enrico Serafino. Nei nostri abbinamenti non poteva mancare una bollicina. L’abbiamo scelta per il salmone optando per un grandissimo Alta Langa, elegante e profondo. La carbonica, delicatissima, sgrassa e regala finezza al piatto, l’acidità regala pulizia alle parti grasse della preparazione e l’aromaticità della pietanza è ben supportata dai profumi che questa Sboccatura Tardiva ci offre.

 

a cura di Giuseppe Carrus

 

Articolo uscito sul Gambero Rosso di marzo. Un numero tutto rinnovato che potete trovare in versione digitale su App Store o Play Store

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FruttaInCampo, il frutteto periurbano di Milano aperto al pubblico

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Continuano i progetti dedicati all'agricoltura urbana e periurbana: a 2 km da San Siro nasce FruttaInCampo, un frutteto dove è possibile raccogliere e acquistare frutta al momento della maturazione. Scegliendo fra varietà antiche e specie particolari.

 

Agricoltura periurbana a Milano

Era il settembre 2017 quando Milano accoglieva il bando agricolo OpenAgri, un'opportunità concreta per la creazione di una nuova tipologia di imprenditorialità in campo agroalimentare: 30 ettari di terreno per sviluppare l'agricoltura periurbana della città. Con un occhio di riguardo per la sostenibilità ambientale, la valorizzazione del patrimonio rurale e del paesaggio. Un'iniziativa rivolta a imprenditori già attivi, ma anche a tutti i giovani under 40, le startup, le cooperative sociali, onlus e ong. Quello dell'agricoltura periurbana, infatti, è un settore in pieno fermento, che sta raccogliendo l'entusiasmo degli appassionati di tutta Italia che vogliono portare ai confini delle grandi città il gusto genuino della campagna. Fra orti e vivai, c'è spazio anche per i frutteti: a Quinto Romano, nel Parco Agricolo Sud, a 2 km da San Siro, a breve sarà possibile raccogliere direttamente la frutta dall'albero e pagarla secondo il peso.

Il progetto

L'agricoltura milanese e lombarda era un modello per l'Europa. Dobbiamo riscoprire il valore di questo passato; lo stiamo perdendo”, ha spiegato Sergio Pillizzoni, uno dei soci fondatori, al quotidiano Il Giorno. 23 filari di alberi alti dai 150 ai 180 metri, per un totale di 2mila piante di 60 specie diverse: questi i numeri di FruttaInCampo, una piccola oasi di biodiversità dove è possibile trovare prodotti prelibati, antichi, dimenticati. “Vogliamo dimostrare che l'agricoltura periurbana si può fare e che rappresenta una risposta possibile e forte non solo alla cementificazione ma anche al frazionamento delle terre e alla pesante riduzione della biodiversità provocata dall'agricoltura industriale monospecie”.

Agricoltura biologica e il ritorno alla terra

Un'azienda agricola biologica a tutti gli effetti, ma aperta al pubblico, nata per idea di un gruppo di soci-agronomi che si propone di far riscoprire ai consumatori il ritorno alla natura, alla frutta appena raccolta, alle passeggiate all'aria aperta. L'obiettivo? Portare nelle tavole dei milanesi “frutta fresca, maturata sulla pianta e quindi ricca di sapori, profumi e sostanze nutritive”. Niente prodotti chimici, ma solo letame e reti anti-insetto per ridurre al minimo i trattamenti: questa la filosofia di base di FruttaInCampo.

Come funziona

Albicocche, susine, prugne, pesche, mele e poi tante varietà difficili da trovare, come la pera mirandino rosso. A scovarle, il gruppo di agronomi che ha lavorato al progetto, una rete di professionisti impegnati nella ricerca delle specie migliori, le più rare e meno conosciute. Da riscoprire passeggiando fra i filari, facendosi consigliare dagli esperti, e lasciandosi inebriare dal profumo avvolgente della frutta fresca. Il frutteto è già aperto al pubblico, ma la raccolta comincerà dal mese di maggio. L'ingresso è gratuito, e per fare la spesa, basta raccogliere la frutta nei cestini, pesarla e acquistarla all'uscita. "Avevamo un sogno: creare in città un luogo bello, sano e sicuro, dove tutti, anche i bambini, potessero scoprire la bellezza dei fiori e delle piante". Un sogno che adesso diventa realtà, in una città sempre più aperta e dinamica, in grado di accogliere format e soluzioni innovative, cambiando il proprio approccio al concetto di cibo, spesa e alimentazione.

FruttaInCampo – Milano – via Caio Mario - www.fruttaincampo.it

a cura di Michela Becchi

Tre Gamberi. Il Convento di Cetara, regno delle alici della famiglia Torrente

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Le alici, qui, fanno la parte del leone: proposte in molte diverse ricette sono le protagoniste della tavola di Pasquale Torrente. Che da Cetara ha fatto conoscere in tutta Italia (e anche fuori) la grande tradizione del pesce azzurro.

 

In un ex convento del '600, il locale della famiglia Torrente oggi vive un momento felice: Tre Gamberi per la guida Ristoranti d'Italia del Gambero Rosso, si presenta all'appuntamento con la bella stagione fresco di una ristrutturazione che ne ha rinnovato la cucina e che sarà preludio, ne siamo certi, di tante belle novità. A parlarcene Pasquale Torrente – seconda generazione - istrionico e inarrestabile padrone di casa oltre che cuoco; accanto a lui il figlio Gaetano.

 

Quando ha aperto il Convento?

Il Convento l'hanno aperto i miei genitori nel 1969, inizialmente era un circolo di quelli con i biliardi e qualcosa da mangiare, cose da rosticceria. Dopo si è aggiunta la pizzeria e, verso gli anni '80 anche qualche piatto, poi abbiamo tolto i biliardi, nel 1986-7. Nel frattempo sono subentrato io con i miei fratelli e mia moglie.

 

Ora c'è anche la terza generazione con Gaetano, che oggi si divide tra Eataly Roma e Fico a Bologna

Gaetano è Gaetano, ha delle potenzialità incredibili e con Burro e Alici a Erbusco lo ha dimostrato: appena un anno e ha conquistato i Due Gamberi. Certo che è anche un po' frenato: non è facile avere una presenza come la mia accanto.

 

In che cosa differisce oggi da ieri il Convento, cosa è cambiato da una generazione all'altra?

I miei genitori sono sempre stati parte attiva al Convento, noi abbiamo cominciato a dare un po' d'ordine alle cose. Abbiamo messo il menu, che una volta non esisteva: era una trattoria vera e propria, arrivavi e mangiavi quel che c'era. Oggi c'è anche una grande cantina.

 

E come sono state prese queste innovazioni?

Bene! Mio padre farebbe cose nuove ogni anno, lui ha sempre visto avanti, sono più io che a volte ho tenuto tenuto il freno tirato. Quando è partito, nel 1969, gli dicevano che era matto, a prendere quel posto che all'epoca era abbandonato.

 

La clientela, invece, è cambiata?

Sì, anche perché siamo sempre in evoluzione, e poi il Convento è diventato un punto di riferimento per la zona, ma ci sono anche i clienti storici, ci sono persone che vengono da anni che si ricordano di quando hanno festeggiato qui la cresima o altre occasioni.

 

Ma quanto conta la location nel successo di un locale come il tuo?

Conta tantissimo: se mangi una colatura in una bella terrazza non è come se la mangi in un posto brutto. L'effetto finale è diverso. Abbiamo un locale con affreschi del '600, cerchiamo di prestarci sempre la massima attenzione, prendercene carico in prima persona, in accordo con la Sovrintendenza. Il Convento è la nostra casa madre. Dobbiamo averne cura.

 

Quanti locali avete ora?

Oggi siamo a 5, di cui 3 a Cetara (Al Convento, la Cuopperia del Convento e Pane e Coccos'), poi ci sono gli spazi dentro Eataly Roma e Fico a Bologna, in più la consulenza di tutti gli Eataly. In tutto 50-60 dipendenti.

 

Anche per te, come per molti tuoi colleghi, è difficile trovare personale?

Molto. Da una parte la tv ha dato grande risalto alla nostra professione, e se oggi riesci a lavorare anche con le consulenze e ad avere certi guadagni, lo si deve anche al fattore mediatico, non solo alla bravura. Ma i ragazzini non capiscono che questo è un duro lavoro, entri in cucina a una certa ora e non sai quando esci, che la lunga strada per il successo è la fatica. Lo dice anche Massimo (Bottura ndr): in cucina la carriera, dal lavapiatti in su, si ottiene con il sudore. Lo dice quando parla di Pane, burro e alici: “non è un miracolo tecnico e tanto meno concettuale, ma solo uno di quei rari casi in cui prevalgono verità e giustizia”,quella della fatica che c'è dietro, da quella di chi ha pescato e chi ha salato le alici in poi.

 

In cosa si discosta il vostro locale dalle insegne tradizionali?

Nei modi in cui lavoriamo le alici. È una cosa che ci caratterizza, pensa che anche chi arriva dicendo che non ama le alici poi al Convento si ricrede. Abbiamo mirato all'obiettivo: valorizzare il nostro pesce azzurro. Abbiamo lavorato su quello e continuiamo a farlo.

 

Parliamo di produttori e di materia prima

Tutto il progetto del Convento sta lì: dai produttori del San Marzano ai pescatori locali. Diamo lustro a tutto quel che c'è in questa zona, come i giardini sui terrazzamenti, perché da noi, non si può parlare di orti: sono veri e propri giardini verdi.

 

Dovendo identificare la vostra cucina con un solo prodotto, quale?

Le alici.

 

Ma c'è un piatto che vorreste togliere dal menu ma non potete perché i clienti li chiedono sempre?

Più di uno, ho un menu con poche voci e tre sono obbligate: lo scammaro, la genovese e la colatura.

 

Quale è il piatto su cui avete osato di più?

La genovese di tonno, perché siamo andati a toccare uno dei classici della nostra cucina: la genovese è una scuola di pensiero.

 

Ma in che modo ti rapporti con la tradizione?

La tradizione è tradizione, ma bisogna guardarla da 10 chilometri di distanza, come dice Massimo. Certe cose sono le mie radici, ma uno spaghetto con la colatura 20 anni fa era molto sapido e pieno di aglio, non posso farlo ancora così, e lo stesso vale per il ragù preparato con la sugna, per carità, buonissimo, ma pesante. Oggi bisogna giocare con gli equilibri, alleggerire certe ricette.

 

Siete premiati con i Tre Gamberi, la massima valutazione per le trattorie. Non hai mai pensato di spingervi più verso un altro tipo di ristorazione?

Quando abbiamo tolto i biliardi e le altre cose mi sono dato l'obiettivo di fare la grande trattoria italiana, con grandi materie prime, ma anche alleggerimenti in cucina usando strumenti, conoscenze e tecniche moderne. Poi quando era il periodo delle sferificazioni mi sono detto: “ma dove vado, io?”. Ho i piedi nella tradizione, non ho le tecniche hanno gli altri, ho l'umiltà di dirlo, magari oggi con mio figlio ci può essere un cambiamento. Le tecniche di un Bottura, Cuttaia o Cedroni non le ho. Sono un uomo da mestolo e non da pinzette.

 

Al Convento – Cetara (SA) – piazza S. Francesco, 16 – 089 261039 – www.alconvento.net

 

a cura di Antonella De Santis

 

 

Il rum è servito. Ron Zacapa in tour per l'Italia a caccia di insoliti abbinamenti con la cucina d'autore. Parma e Cetara

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Ron Zacapa e Gambero Rosso insieme per valorizzare la cultura del rum a tavola. Ecco i menu dall'ottava e nona cena della sesta stagione dell'iniziativa. Protagonisti Terry Giacomello a Parma e Pasquale Torrente a Cetara. 

Ron Zacapa significa una casa tra le nuvole delle montagne guatemalteche, dove la produzione di rum dalla distillazione di canna da zucchero è una tradizione storica. Conosciuto in tutto il mondo, in Italia da qualche anno a questa parte, Zacapa promuove insieme a Gambero Rosso l'iniziativa Il Rum è Servito, con l'obiettivo di divulgare la cultura del rum a vantaggio di un pubblico trasversale. E in contesto insolito, in abbinamento a tutto pasto con le creazioni di talentuosi chef, nel corso di serate speciali dedicate alla degustazione di menu inediti e tre varianti della gamma Zacapa (Ron Zacapa 23 (morbido e sorprendentemente dolce, dai chiari sentori di frutta tropicale, vaniglia e mandorle), Ron Zacapa Edicion Negra - Solera Gran Reserva (ampio, complesso ed un profilo severo, ma di grande equilibrio) e Ron Zacapa XO (estremamente equilibrato, dai sentori di tabacco, caramello e cannella) ). Il tour è ripreso con l'inizio della primavera, e tra qualche giorno già si appresta a tagliare il traguardo dell'ottava e nona tappa.

 

 


La cena all'Inkiostro di Parma

Il 3 maggio l'appuntamento è a Parma, per sperimentare la cucina d'avanguardia di Terry Giacomello all'Inkiostro; il suo è un menu che stupisce valorizzando la materia prima nel piatto. Quattro portate (75 euro il costo della cena con abbinamento) che spaziano oltre il territorio emiliano, con tanto mare e grande tecnica al servizio del prodotto:

 

Gazpacho di cetriolo, tonno, olio allo zenzero 

 Zacapa Gran Reserva 23

 

Risotto all’olio del Garda, gamberi e agrumi

 Zacapa Edicion Negra 

 

Trancio di baccalà, aglio nero ed infuso di pasta-sfoglie

 Zacapa Edicion Negra

 

Flan di zucchero moscovado

Zacapa X.O.

 

 

 


La cena al Convento di Cetara

Il 10 maggio, invece, ci si trasferisce in Cilento, con vista sul mare di Cetara, per beneficiare dell'ospitalità di Pasquale Torrente e della sua famiglia. La cena Al Convento parlerà rigorosamente campano, proponendo un percorso alla scoperta delle specialità locali, dalle alici di Cetara alla ricotta salata, alla pasta di Gragnano. Chiusura trionfale con il babà, che il rum ce l'ha naturalmente nel Dna. Costo della serata 40 euro a persona:

 

Aperitivo

Pane tostato con burro della Normandia e alici di Cetara dissalate

 

Parmigiana di melanzane con pesce azzurro e ricotta salata

Zacapa Gran Reserva 23

 

Pasta mista di Gragnano con gamberi “fuiut” e pomodorino

Zacapa Edicion Negra

 

Zuppa di pesce locale con pane cafone tostato all’aglio

Zacapa Edicion Negra

 

Il babà classico

Zacapa X.O.

 

Si prenota direttamente ai recapiti dei ristoranti.

 

 

Inkiostro – Parma - via San Leonardo, 124 – 0521 776047 – www.ristoranteinkiostro.it

Al Convento – Cetara (SA) – piazza San Francesco, 16 – 089261039 – www.alconvento.net

 

rosati

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1943: è questa la data cui si fa risalire la nascita del primo rosato da uve negroamaro. Un vitigno che riserva non poche sorprese per gli amanti dei vini rosé.

 

Niuro Maru dal Salento agli States

Niuru Maru lo chiamano in dialetto, perché colpisce per il suo colore nero intenso. Il negroamaro ha una storia soprattutto di compensazione: andare a colorare quei vini che colorati non erano e offrire gli zuccheri necessari per elevare tenori alcolici non altissimi. Poi con il tempo ha trovato una sua strada che è quella della sua terra, la Puglia, la zone di Brindisi Lecce e Taranto, anche se negroamaro fa spesso rima con Salento. Si gioca la partita della popolarità con il primitivo, che per ora ha la meglio, soprattutto sui mercati internazionali. Ma il negroamaro ha una carta importante da potersi giocare ed è quella del rosato. Volendo può spendersi anche una data celebrativa, il 1943, anno di nascita del Five Roses, il rosato da negroamaro e malvasia nera della cantina salentina Leone de Castris che conquistò subito gli Stati Uniti con quel color corallo acceso. Il primo rosato imbottigliato del Paese, insomma, nasceva in Puglia.

 

I rosati d'Italia

A distanza di oltre 70 anni il "tema rosato" tiene banco, anzi, scalda gli animi perché la sua identità non è definita. La diatriba è tra rispetto della tradizione - quindi un vino dal colore carico - o gusto dei mercati, etichette rosa pallido di stile provenzale. L'ultimo Vinitaly ha offerto l'occasione per riparlarne e forse prende forma una terza via, quella dei rosati d'Italia, un "dream team pink" che vuole promuovere il prodotto nazionale tenendo conto però delle differenti peculiarità dei vitigni e dei territori. Il protocollo d’intesa per i vini rosati d’Italia vede coinvolti il Consorzio di Tutela dei Vini Castel del Monte, il Consorzio di Tutela del vino Bardolino, il Consorzio Valtènesi, il Consorzio di Tutela dei Vini d’Abruzzo e il Consorzio di Tutela dei Vini Salice Salentino.

Le cinque realtà ratificano il proprio impegno per la promozione e la diffusione, in Italia e all’estero, della cultura e della conoscenza del vino rosato autoctono italiano, in tutte le sue declinazioni locali. Un progetto di respiro ambizioso, che mira alla costituzione del Centro del Rosato Autoctono Italiano: un luogo di confronto, promozione e di ricerca in cui possano essere accolte anche le altre denominazioni italiane dotate di analogo retaggio culturale.

 

L'andamento del settore

L'accordo viene siglato nel momento in cui arriva la notizia che negli Usa i rosati hanno segnato un +53% di vendite. "Al contempo però il consumo dei rosati in Italia crolla"- sottolinea Angelo Peretti, direttore del Consorzio del Chiaretto di Bardolino, durante la conferenza di presentazione dell'accordo organizzata dall'associazione DeGusto Salento a Verona - "l'attitudine a pensare in rosa non ci appartiene, anzi, per anni ce ne siamo quasi vergognati, mentre dovremmo puntare a un comparto rosé autoctono italiano".

I numeri per ora danno in testa il rosato del lago di Garda con 10 milioni di bottiglie, segue il Cerasuolo d'Abruzzo con 4 milioni, il Valtènesi chiaretto con poco più di 1,5 milioni e Castel del Monte e Salice Salentino che assieme fanno circa mezzo milione di bottiglie. Impossibile invece stimare una cifra degli Igt o dei "vini rosati" generici, perché entrano nei calcoli statistici di bianchi e rossi. "E così l'unica domanda che ancora si fa a un appassionato di vino in Italia è...più rossista o bianchista?"- continua Peretti - in Francia la domanda corretta sarebbe...preferisci il rosso, il rosé, o il bianco?Nel paese che ancora ha tanto da insegnarci sul vino, il rosato copre un terzo dei consumi".

 

Millennial Pink

Se l'Italia arranca su volumi e valore, a livello globale i dati dell'Iwsr -International Wine&Spirits Research, parlano di un vero e proprio Millennial Pink, un fenomeno che mette assieme generazioni e generi - mettendo fine al binomio rosato=consumo femminile - e che ne fa uno stile di vita. Secondole previsioni del report di Vinexpo e Iwsr, le vendite di vino rosato sono destinate a crescere fino 2021. A guidare i consumi, e quindi il business del rosato, saranno i mercati del vino più solidi, come Stati Uniti, Francia, Sudafrica, Danimarca e Australia. Ecco quindi la necessità di "fare sistema" tra i consorzi dei rosati italiani, "per crescere e non per fagocitarsi tra regioni" come ha sottolineato il senatore DarioStefano, ex Assessore alle risorse agroalimentari della regione Puglia.

 

Il negroamaro

La storia

L'origine del suo nome è ancora dibattuta. Il termine "amaro" infatti potrebbe essere riferito alla potenza dei tannini, ma lo stesso termine potrebbe derivare dalla lingua greca - "mavro" che significa negro e che unito al termine latino "nigro" rafforzerebbe il concetto di impenetrabilità del suo colore. Una terza supposizione è quella della derivazione dialettale, "niuru maru" che mette assieme i concetti di amaro e nero. Ciò che c'è di certo è che questo vitigno viene citato per la prima volta solo nell'Ottocento. In una lettera riportata negli Annali di Viticoltura ed enologia Italiana, il docente di Botanica dell'Università di Napoli Achille Bruni scrive al professore Apelle Dei "un vitigno nero di grappoli mezzani, con acini poco rari e di forma di prugna o di oliva, con eccesso di materia colorante, alcolico, saporoso e dotato di un aroma speciale".

 

Il vitigno

Il Negroamaro è uva da climi caldi e asciutti - quelli conosciuti come warm climates wines - e vien bene su terreni argilloso-calcarei. Il periodo vendemmiale va di solito dalla fine di settembre ai primi quindici giorni di ottobre. In passato coltivato ad alberello, questo sistema di allevamento resiste accanto al più moderno cordone speronato. Potremmo definirla un'uva completa per il giusto equilibrio tra acidità, sostanze coloranti e grado alcolico. Elevatissima inoltre la presenza di polifenoli. Le zone di elezione sono quelle di Brindisi e Lecce, ma non manca nell'areale di Bari e Taranto. Infatti è un vitigno che ricade in moltissime Doc pugliesi. Per lo più vinificato in purezza, si sposa bene a un altro autoctono come la malvasia nera (uvaggio tradizionale del rosato ma anche della Doc Salice Salentino)

 

Il rosato da negroamaro

Una data l'abbiamo già riportata, il 1943, anno di nascita del Five Roses, il primo rosato imbottigliato. La tradizione del rosato in Salento in verità è ben più antica, ritenuto di gran lunga più raffinato dei rossi e offerto alle persone di riguardo dalla borghesia rurale. Era il vino "Lacrima", perché ottenuto dal primo mosto che fuoriusciva dal palmento, ma anche conosciuto come il "vino della notte" per la durata del contatto del mosto con bucce e vinaccioli che durava dalle 20 alle 24 ore. Non frutto solo della tecnica enologica, tanto meno solo degli obiettivi commerciali, anche il rosato ha una storia e un grip territoriale che dovrebbero sdoganarlo dall'idea di quanti credono ancora che sia una via di mezzo tra un bianco e un rosso o che nasca per un appagamento della vista.

Il rosato del Salento ha le carte in regola per essere un vino identitario, proprio di quel territorio perché ha una vocazione storica, pedoclimatica ed enologica. Dire rosato non vuol dire necessariamente rosa e il ventaglio di tonalità che possiamo riscontrare non sono solo frutto di effetti visivi ma rispecchiano le diverse caratteristiche gusto-olfattive dei vini. Detto questo produendo un rosato da uve negroamaro è normale, oltre che giusto, aspettarsi un rosa caldo, intenso, di carattere e che racconti quella parte viticola di Sud. Accade sempre? No. Ci sono rosati salentini che hanno scelto una "vie en rose" alternativa, quella che ricorda i vini provenzali o i Chiaretto di Bardolino o di Valtènesi. La motivazione? Non solo commerciale, ma un desiderio di "contemporaneità" che non vuol dire fare tabula rasa della tradizione, ma semmai aggiungere a questa l'evoluzione, percorsi nuovi in vigna e in cantina che danno prodotti più facilmente comprensibili a un mercato che parla una lingua internazionale, spesso fortemente semplificata.

 

Gli assaggi al Vinitaly

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Santi Dimitri

Una realtà agricola al contempo nuova e antica, perché Edoardo e Carlo Vallone iniziano a occuparsi di vino nel 2014 ma lo fanno ereditando un'esperienza che parte nel 1690 a Galatina, in provincia di Lecce. 200 ettari tra vigneto, uliveto e grano, di cui 60 destinati alla viticoltura. Uve autoctone e internazionali, ma è il negroamaro a giocare la partita più importante.

Santi Dimitri Brut Rosè - Salento Igp Negroamaro Rosato. Uno charmat lungo vinificato secondo la tecnica della "lacrima" - separazione della primissima parte del mosto dalla massa d'uva diraspata - dal colore tenue "buccia di cipolla", perlage fine e una buona acidità. Naso e bocca piuttosto neutri nei profumi, ma è un vino che gioca più sulla tensione.

 

Calitro

Anche qui storia recentissima - data di ri-inizio 2017 - legata a Francesco Lonoce, under 40, che non ha voluto disperdere la fatica del nonno. Un bell'impegno dovendo occuparsi di 100 ettari di terreno, di cui 60 a vigneto divisi soprattutto tra negroamaro, primitivo e verdeca. L'azienda è a Sava, in provincia di Taranto, e i vigneti di negraoamaro sono concentrati soprattutto a Lizzano.

Negroamaro Rosato Igp Salento 2017. Un altro rosato che sceglie la via del colore scarico. Se il precedente - il 2016 - era ancora nel solco della tradizione, l'annata più recente opta per una modalità più consona al mercato. Rosa pallido, naso delicato, sprigiona la forza del vitigno maggiormente in bocca con buona vibrazione e persistenza.

 

Cantina Fiorentino

Primo anno al Vinitaly per questa cantina che porta con sé l'esperienza di una delle aziende storiche del Salento, Valle dell'Asso, confluite in un'unica realtà. Agricoltura biologica dal 1996 in zona Galatina con vigneti su terreni calcarei ricchi di piromafo, il materiale utilizzato per costruire i forni a legna e che resiste benissimo alle alte temperature. Anche per questo, in una delle zone più calde d'Italia, è possibile fare aridocoltura.

Galatina Rosato Doc 2017. Il rosa corallo che ti aspetti dal negroamaro salentino grazie a otto ore di macerazione, naso di arancia e ciliegia. Una beva vibrante e tesa, fresco e sapido su finale di bocca, vinoso al punto giusto e succulento.

 

Castello Monaci

La tenuta di Castello Monaci nasce alla fine del 1400 e il suo castello è uno dei simboli della zona di Salice Salentino, circondato da migliaia di ulivi e da oltre 200 ettari di vigna. Da 20 anni la proprietà è confluita in Giv, mentre la famiglia Serraca Guerrieri continua a occuparsi dell'attività.

Kreos Negroamaro Salento Igt 2017. Un rosato alla sua terza "vita": partito super tradizionale, ha fatto un'esperienza tra i chiaretti per poi approdare all'ultima interpretazione che vuole essere un giusto compromesso tra un rosato d'Oltralpe e uno pugliese. Il risultato è un vino dal colore intenso ma non troppo carico, dal naso elegante e dalla bocca che denota una certa struttura. Sa di roccia e minerale con un allungo marittimo

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Claudio Quarta Vignaiolo

Una delle tre tenute di Claudio Quarta, Eméra, si trova a Lizzano in provincia di Taranto ed è una bella masseria di inizio '900 concentrata sui vitigni autoctoni come negroamaro, primitivo e verdeca, ma non mancano gli internazionali come chardonnay, merlot e syrah. 50 ettari di vigneto che distano pochissimo dal mare.

Rose - Salento Rosato Negraoamaro IGT 2017. "Rose" detto alla francese e il richiamo non è solo alla lingua d'Oltralpe ma anche alla scelta stilistica di questo rosato che appare delicato nel suo colore rosa pallido. È lo stesso Claudio Quarta che lo definisce "come un bianco che va oltre". In effetti il contatto con le bucce è brevissimo ed è un vino che gioca più sulla forte salinità che sui profumi di frutta e fiori, finale persistente e con note agrumate.

 

Conti Zecca

Una delle aziende agricole più antiche in Italia - data di fondazione 1580 - profondamente familiare, anzi "fratellare" visto che i quattro proprietari sono tutti maschi e fratelli e profondamente salentina - quartier generale, Leverano - con un corpo agricolo di quasi 1000 ettari, il 40 per cento dei quali a vigneto divisi tra le quattro tenute comprese tra i comuni di Leverano e Salice Salentino.

Venus IGP salento Rosato 2017. Negroamaro in gran parte, ma con una percentuale di malvasia nera per questo rosato che ha i colori del tramonto - non più di 10 ore di macerazione sulle bucce. Un vino davvero luminoso e brillante, tradizionale nella veste visiva, ma molto moderno e vivace al gusto che richiama l'arancia sanguinella e frutti rossi di rovi. Tanto gastronomico.

 

Vetrere

Questa azienda di Grottaglie è tutta declinata al femminile: Annamaria e Francesca Bruni la portano avanti con il supporto sempre più importante delle rispettive figlie, sia dal punto di vista commerciale che da quello agrario ed enologico. La tenuta è grande, oltre 300 ettari, dove si produce anche grano Senatore Cappelli e olio extravergine di oliva. Il loro inizio vitivinicolo - anno 2002 - è con un bianco, scelta alquanto inusuale in Puglia e che suona ancora più strana se si pensa a un bianco da uva minutolo (non confondetelo con il fiano!). Man mano arriva poi tutta gamma da vitigni autoctoni

Negroamaro Rosato Igp Taranta 2017. Questo negroamaro in coppia con la malvasia nera si presenta con una bella veste rosa squillante, quasi cerasuolo. Sa essere molto floreale e al contempo appetitoso grazie alla frutta vivace. La bocca accentua le caratteristiche olfattive, rivelando un carattere quasi tannico con un finale salato e appena speziato.

 

a cura di Francesca Ciancio

 

 

Le Delizie di Leonardo alla Mostra dell'Artigianato di Firenze. Fino al 1 maggio con chef, pizzaioli, artigiani del gusto

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Per il quarto anno consecutivo la fiera dell'artigianato della Fortezza da Basso ospita una kermesse dedicata alle eccellenze enogastronomiche, con un calendario di appuntamenti che alterna cooking show, degustazioni, incontri con produttori e assaggi golosi. Maestro di cerimonie è Leonardo Romanelli. 

Il cibo come eccellenza artigianale

A Firenze, l'82esima edizione della Mostra Internazionale dell'Artigianato ha aperto battenti già da qualche giorno, e fino al 1 maggio ripenserà gli spazi della Fortezza da Basso all'insegna della valorizzazione del fare artigianale, ereditando il sapere del passato (del resto la manifestazione nasceva nel 1931 su impulso del sistema di corporazioni fiorentine) e proiettando la creatività e l'inventiva made in Italy verso il futuro, su un palcoscenico internazionale che riunisce creativi e designer in arrivo da tutta la Penisola e dal mondo, come del resto i buyer che si aggirano tra gli stand della fiera (ne sanno qualcosa a Milano, dove si è appena conclusa l'edizione 2018 del Salone del Mobile). E si rinnova ancora una volta la collaborazione con Leonardo Romanelli, che in Fortezza porta l'eccellenza artigianale enogastronomica, curando la direzione artistica e la programmazione de Le Delizie di Leonardo: oltre 80 appuntamenti in calendario al piano attico del Padiglione Spadolini, per portare sul palco artigiani del gusto, produttori di vino, cuochi, pizzaioli in rappresentanza di un settore che alla fiducia nel fattore umano deve ancora oggi la sua forza. Per il quarto anno consecutivo l'approccio è quello pop di un evento nell'evento che si propone di annullare le distanze tra protagonisti e spettatori, offrendo al pubblico delle fiera l'opportunità di confrontarsi con i professionisti del settore in un contesto informale e divertito. Lo schema è quello consueto: un'alternanza di cooking show, degustazioni, incontri con l'autore, contest di cucina come Cotto&Servito, quest'ultimo rivolto ai ragazzi di quattro Istituti Alberghieri toscani che affronteranno una sfida incentrata su cucina e servizio di sala (una bella novità, questa, per rendere giustizia alla sala), cucinando e servendo il pubblico.

 

Le Delizie di Leonardo. I protagonisti

Nei giorni scorsi sono arrivati in Fortezza, tra gli altri, Riccardo Monco dall'Enoteca Pinchiorri, il pizzaiolo Romualdo Rizzuti, Laura Peri per presentare il suo pollo valdarnese, Gabriele Andreoni da Gurdulù, Roberto Falchetti di Caffè Piansa. Ma la kermesse, ogni giorno con una ricca programmazione dal mattino fino a sera, ha ancora molto da offrire. Oggi, nella giornata di festa per la Liberazione, sarà la volta di Simone Cipriani, patron chef di Essenziale, che sul palco porterà però la cucina tradizionale di FAC, seconda insegna fiorentina che con il suo giovane team gestisce all'interno di Eataly. E alle 12 spazio per la pizza di Mario Cipriano, da Il Vecchio e il Mare; o ancora per il gelato di Vetulio Bondi, protagonista pure nei giorni a seguire. Altrettanto ricco il parterre dei prossimi giorni, da Rocco De Santis a Filippo Saporito a Marco Lagrimino e Matteo Boglione, tutti validi rappresentanti della ristorazione d'autore a Firenze. Tra gli artigiani del gusto chiamati a raccontarsi anche l'Antico Pastificio Morelli, Tartufi Savini, Fulin con i suoi dolci; ma ci sarà spazio anche per la miscelazione, con i barman Stefano Canfailla, Fabio Graffi, Lapo Guarducci e Luca Manni, e per la fotografia, con i laboratori pratici di Paolo Matteoni. Mentre sempre vivo sarà il confronto tra cucina toscana e cucine etniche. Domenica 29 aprile, alle 15.30, appuntamento con il macellaio di Panzano in Chianti Dario Cecchini, per la presentazione del libro Il Mistero della vacca intera. Maestro di cerimonie sarà sempre il padrone di casa Leonardo Romanelli. E per chi non ne avesse abbastanza c'è sempre lo spazio food della Mostra dell'artigianato, con produttori in arrivo da tutta Italia, e non solo.

Il programma delle Delizie di Leonardo

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