Quantcast
Channel: Gambero Rosso
Viewing all 5335 articles
Browse latest View live

Enrico Bartolini lascia Fico. Chiude il ristorante Cinque all'interno di Eataly World

$
0
0

Dopo 5 mesi di attività si conclude l'esperienza del ristorante frutto della collaborazione tra l'associazione Le Soste e il parco del cibo ideato da Oscar Farinetti alle porte di Bologna. Finisce così l'avventura di Enrico Bartolini, e del suo chef Salvatore Amato, da Fico. Ma come lavora la ristorazione fine dining all'interno del parco? 

Cinque chiude. L'addio di Bartolini a Fico

Dal 25 aprile, Peppe Barone e la sua cucina siciliana debuttano da Fico Eataly World. Arriva quasi in sordina il comunicato che annuncia l'esordio della Fattoria delle Torri tra i ristoranti che movimentano l'offerta gastronomica del grande parco del cibo di Oscar Farinetti, alle porte di Bologna. La proposta dello chef modicano, in realtà, sarà solo la prima tappa di un tour tra le insegne che rappresentano la cucina italiana d'autore e di territorio, in tutta la Penisola, che a rotazione si alterneranno nella piazza di Fico. La notizia vera, però, è quasi nascosta tra le righe, ma ineluttabile: i ristoranti italiani selezionati si avvicenderanno negli spazi finora occupati da Cinque, che qualche giorno fa ha prestato l'ultimo servizio, e chiude definitivamente battenti dopo cinque (amara coincidenza) mesi di attività. Il ristorante di Enrico Bartolini all'interno di Fico (11 tavoli disponibili a pranzo e cena, 7 su 7, al lavoro 12 persone; 90 euro la degustazione da 7 portate, prezzo medio dei piatti tra i 25 e i 35 euro) era stato salutato dall'inizio come la punta di diamante dell'offerta gastronomica all'interno di Eataly World: ambasciatore per l'associazione Le Soste – che con Eataly aveva sottoscritto il suo primo sodalizio per disporre di una vetrina attraente per il pubblico internazionale – Bartolini aveva assunto l'impegno con l'idea di tenere alta la bandiera dell'italianità, affindando la direzione della cucina al fidato Salvatore Amato, che fino a qualche ora fa ha condotto la nave, con il supporto costante dello chef.

Una scelta ponderata. Le parole di Bartolini e Sadler

All'indomani delle prime indiscrezioni, che parlano principalmente di scarsa affluenza ai tavoli e “aspettative del pubblico rivolte ad altre esperienze di cucina” (così il Corriere della Sera, che per primo ha dato la notizia), Enrico Bartolini si sente di smentire fraintendimenti e conclusioni affrettate: “Ho scelto di affidarmi all'ufficio stampa per non dare adito a pettegolezzi. È una vicenda lineare, e ben ponderata, non mi sta bene siano scritte falsità. Io sono un cuoco, penso a cucinare e mi concentro sui miei ristoranti”. Le dichiarazioni ufficiali le affida a un comunicato che sottolinea il valore di “un'esperienza significativa”: “Fico è un bellissimo progetto ed è giusto che altri cuochi abbiano l'opportunità di farsi conoscere a livello internazionale. L'alternanza a mio avviso è sempre positiva”. È chiaro che le premesse (e le aspettative) qualche mese fa fossero ben altre. E certamente i numeri non proprio esaltanti dell'avvio – molti sottolineano la difficoltà di avviare la macchina nel periodo invernale, specie per le condizioni metereologiche avverse dell'inizio 2018, altri il fatto che la posizione isolata non favorisca l'affluenza – devono aver pesato sulla scelta di Bartolini e dell'associazione Le Soste, che oggi, tramite il presidente Claudio Sadler, si dice disponibile a proseguire la collaborazione “per continuare a diffondere e valorizzare la migliore tradizione culinaria italiana”. Lo chef milanese, allineato alla comunicazione ufficiale, sottolinea l'importanza di favorire il rinnovarsi della proposta gastronomica, come del resto l'associazione aveva previsto nell'articolare un calendario di pranzi e cene speciali con chef che avrebbero dovuto affiancarsi, da marzo a novembre, a Salvatore Amato, per raccontare la filosofia de Le Soste. Ora i piani cambiano necessariamente, e vedremo che futuro avrà la collaborazione di Fico con l'associazione.

 

I primi mesi di Fico. I numeri

Ma chi resta che dice dei primi mesi di attività? Gli ultimi numeri sulle presenze diramati da Fico parlano di un milione di visitatori raggiunto alla metà di marzo (ma il computo è già cresciuto di 200mila unità); con il supporto di Nomisma il dato è stato scorporato per risalire alla provenienza di chi ha scelto di trascorrere una giornata al parco: l'8% delle presenze arriva dall'estero, il 52% da fuori città. Mentre supera il 50% il numero dei visitatori arrivati a Bologna appositamente per scoprire il parco. Numeri buoni o cattivi? L'ad Tiziana Primori, qualche settimana fa, si è detta soddisfatta (il fatturato, alla fine di marzo, ammontava a 18 milioni di euro), stimando che entro l'anno sarà possibile raggiungere i 4 milioni di presenze, complice la bella stagione alle porte (Oscar Farinetti, invece, punta ai 6 milioni in tre anni). Ma se sul banco degli imputati sale l'impossibilità di conciliare ambizioni e competenze della ristorazione fine dining con i gusti e le esigenze del pubblico del parco (che, in alternativa, può disporre di moltissime soluzioni economiche e informali, tra street food e stazioni gastronomiche nelle fabbriche contadine), la domanda va posta a chi quel tipo di ristorazione continua a proporla sotto l'egida di Fico.

Che pubblico mangia da Fico? La stima dei fratelli Raschi, da Guido

Come i fratelli Raschi, che sul lungomare di Rimini conducono con competenza e creatività Guido, e da Fico cercano di portare il mare di Romagna nella sua accezione più autentica (con Il Mare di Guido). Gianluca Raschi affronta il discorso col piglio del ristoratore navigato, abituato tra l'altro a confrontarsi con la piazza di Miramare, che non sempre porta al ristorante un target in cerca dell'esperienza gastronomica d'autore: “Parto dal presupposto che è ancora presto per fare i conti, valuteremo il discorso più a lungo raggio, perché in gioco entrano moltissimi fattori. Certo dal flusso importante del parco tutti aspettavamo una percentuale interessata anche alla proposta di fascia alta, un po' abbiamo dovuto rivedere il profilo, all'inizio non è stato facile, complice anche la brutta stagione, ma sono molto fiducioso”. Specie perché Fico offre comunque una vetrina importante, e il segreto sta nella flessibilità: “Non è escluso che qui si possa fidelizzare un certo tipo di cliente: i bolognesi che già venivano a Rimini, e ora tornano qui. O anche le piccole e medie aziende dell'area emiliana, che spesso portano clienti stranieri a mangiare da noi. Sono i coperti che portano lo scontrino medio sui 55-60 euro. Il turista medio, invece, spesso non è interessato, e se entra dopo aver spizzicato qua e là magari vuole ordinare solo un piatto. Noi dobbiamo fornirgli lo stesso servizio, con la nostra professionalità”. Il tiro però un po' è stato aggiustato: “Portiamo la filosofia di Guido, con gli stessi prezzi che abbiamo al mare, ma abbiamo rivisto un po' il menu: tolto qualche proposta più di nicchia, puntato sulla semplicità e sulla grande materia prima del mare. Altrimenti rapportarsi con l'utente medio del parco diventa difficile. Per fortuna siamo abituati a questo flusso trasversale, lavoriamo a Rimini!”. E di Bartolini che pensa? “Mi dispiace molto, Enrico è molto bravo, si era stretta una bella intesa. Ora restiamo quelli che puntano al target più alto, non so dire se cambierà qualcosa”.

Alberto Bettini e i primi mesi di Amerigo

Ma c'è anche chi si pone nel mezzo, come Amerigo, che da Savigno ha portato a Fico il modello della trattoria emiliana di tradizione. Alberto Bettini, che è l'anima dell'insegna, si dice soddisfatto dell'avvio: “Ragioniamo su altri numeri, il nostro coperto medio da Fico si aggira sui 20 euro. Chi viene da noi prende un piatto di pasta, un dolce, un bicchiere di vino: così riusciamo a lavorare bene. E compensiamo un'affluenza serale sotto le aspettative con le cene aziendali: riusciamo a ospitare fino a 150 persone. Così siamo in perfetto business plan, considerando che al lavoro ci sono 20 persone, e altrettanti stipendi da garantire”. Sulla scelta di Bartolini non entra troppo nel merito: “Sono stato a mangiare da Cinque, la qualità era indubbiamente quella del ristorante madre, come del resto da Guido. Forse si era pensato che un grande flusso di persone potesse comunque garantire una fetta di pubblico interessato all'esperienza. Sono convinto che col tempo il ristorante sarebbe partito bene, ma certo avranno fatto i propri calcoli.” E in generale Bettini è particolarmente fiducioso sul futuro: “Finalmente stanno arrivando più stranieri, anche gruppi di persone che con  la bella stagione di sicuro aumenteranno. E questo ci fa ben sperare”.

 

a cura di Livia Montagnoli


La pasta italiana in Molise. 12 formati tradizionali e la ricetta dei cavatelli

$
0
0

Una cucina robusta frutto dell'antica tradizione agricola e pastorale del luogo, una tavola ricca fondata sulle tante eccellenze locali e sulle usanze pugliesi importate grazie alla transumanza: la gastronomia molisana è un inno ai sapori autentici, di montagna, forti e sinceri. Fra questi, i primi piatti, realizzati con paste eccezionali, dalla storia antica e il fascino intramontabile.

 

Questa provincia è stata sempre riguardata come il granajo di Napoli”. Così Giuseppe Maria Galanti, letterato ed editore napoletano, descrive la grande produzione di cereali molisana. Foriero di eccellenze gastronomiche di ogni tipo, dai salumi ai formaggi, dal mais agli ortaggi, il Molise ha saputo conservare intatto quello spirito orgoglioso e il carattere schietto tipico della gente del luogo: pastori, contadini, casari, artigiani che hanno reso unica la cucina locale, imprimendo un marchio distintivo su ogni prodotto. Gusti sinceri e sapori intensi caratterizzano la gastronomia molisana, molto spesso dimenticata in favore delle cucine limitrofe del Centro e Sud Italia. Eppure, il territorio molisano è sfaccettato e selvaggio, si snoda fra tratti di natura incontaminata, fazzoletti verdi incastonati fra i monti e spiagge che si estendono lungo la cosiddetta Costa Verde. Un'oasi di tranquillità dove i piaceri della tavola incantano con la loro atmosfera antica, ferma nel tempo. Fra mais Agostinello – antica varietà recuperata negli ultimi anni – patate, farina di grano tenero e farro, il Molise non poteva che sviluppare una tradizione florida di primi piatti golosi e invitanti. Tanti i formati di pasta, molti dei quali condivisi con più regioni, come i quadrucci e le sagne. Qui, abbiamo voluto raccontarvi quelli che meglio di tutti rappresentano la tavola locale, dai più conosciuti (cavatelli e fusilli in primis) ai meno noti.

Cavatelli

Uno dei formati più rappresentativi della regione, presente anche in Puglia e oggi diffuso in gran parte della Penisola. Cazzarille, ciufele, cavatielle 'ncatenate: qualsiasi sia il nome, sono sempre loro, i cavatelli, una pasta di semola di grano duro e acqua dalla caratteristica forma allungata. Si narra che furono inventati sotto il regno di Federico II, anche per soddisfare le esigenze gastronomiche del re. Sono fatti a mano “incavando” - come si dice in dialetto locale - la pasta (talvolta arricchita con patate lesse) con la pressione dell’indice e del medio. Solitamente si condiscono con ragù o sugo a base di carne di maiale, oppure con verdure tipo cardoncelli o broccoli, che in Molise tutti chiamano“spigatelli”. A Montenero di Bisaccia il piatto tipico del paese sono i cuzzutilli con la Ventricina di Montenero, salume a base di cosce, lombo, spalle e anche una parte di grasso duro, mescolati insieme e conditi con sale, finocchietto selvatico, polvere di peperone e pepe. Diversi sono invece i cecatelli, scavati con un solo dito anziché due. Ci sono poi le vredocchie, gnocchetti cavati con due dita tipici di Santa Croce di Magliano, dove vengono conditi con broccoli, olio e peperoncino.

 

cavatelli

Cappellacci dei briganti

Una ricetta che appartiene tanto al comune di Formello, in provincia di Roma, quanto al basso Molise. Il nome trae ispirazione dai cappelli a forma di cono con falda rivoltata verso l'alto tipici che indossavano i briganti, che per molti secoli, fino alla seconda metà dell'Ottocento, hanno percorso il territorio molisano e laziale. Le origini di questo formato sono sconosciute, quello che è certo, però, è che la variante laziale è molto diversa da quella molisana. La prima è una sorta di crespella a base di farina di grano duro, uova, acqua e sale, ripiena di ragù, solitamente di agnello, mentre la seconda, diffusa soprattutto nel territorio di Jelsi, è una pasta di grano duro, uova, acqua e sale avvolta su se stessa a forma di cono.

Fusilli

Macaron dell'Alta Lagna in Piemonte, subioti in Veneto, maccheroni bobbiesi nel piacentino, ciufolitti in Abruzzo, Molise e Alto Lazio, ma anche zufoletti, sfusellati o gnocchi col ferro. E poi code di topo del barese, fusille nel foggiano, firzuli in Basilicata: i fusilli sono uno dei formati italiani più conosciuti in tutto il mondo, oggi presenti in ogni regione, ma che devono i loro natali al territorio molisano. Fatti con farina di grano duro, acqua e un pizzico di sale, vengono poi arrotolati su un filo di ferro e messi a essiccare: questa la caratteristica principale della pasta, inizialmente preparata con un ferretto in vendita dal fabbro e poi con quello da calza, o ancora quello dell'ombrello. Esistono molte varianti dei fusilli: quelli avellinesi, per esempio, sono più allungati e stretti, in altre zone si aggiungono spinaci, barbabietole o nero di seppia per colorarli. Una tipica ricetta regionale sono i fusilli alla molisana, conditi con un sugo di carne d’agnello o con un sugo di carni miste (agnello, vitello e salsiccia di maiale). In qualsiasi caso, si tratta di una ricetta creata in Molise ma messa a punto a New York dai fratelli Guido e Aurelio Tanzi, che nel 1924 crearono un dispositivo tecnologicamente più avanzato e preciso per la realizzazione del fusillo perfetto. Chiamata busiata in Sicilia e busa in Sardegna, la pasta cela anche una matrice araba, dal termine “bus”, che indica la tipica canna arundo aegyptica sulla quale gli arabi erano soliti avvolgere l'impasto. Antenati dei fusilli sono gli strangolapreti, già presenti nel Quattrocento in tutta l'Italia merdionale e in Carnia.

 

fusilli

Graviuole

Le graviuole molisane sono una delle migliori espressioni dell'antica tradizione contadina e montanara locale. Fortemente legata alla pastorizia, la regione nel tempo ha saputo creare piatti squisiti, oggi simbolo della propria cucina, partendo da materie prime povere e facilmente reperibili, quelle che hanno rappresentato per secoli il pasto tipico dei pastori. Un tempo, infatti, per rinfrancarsi dopo il duro lavoro fra i monti, si trovava ristoro nei caseifici della zona, piccole botteghe spartane ben diverse dalle strutture attuali, dove gli allevatori lavoravano il latte munto al mattino. Nasce così l'abitudine di aggiungere ai formaggi le erbe spontanee di montagna, per un amalgama di sapori decisi da abbinare alla pasta fatta in casa, per una pausa pranzo golosa e nutriente. È proprio questo, infatti, il mix di ingredienti alla base delle graviuole, quadrati di farina di grano duro, uova e sale ripieni di ricotta o altri formaggi a pasta molle, ortaggi e spezie. Oggi ne esiste anche una versione più succulenta che prevede l'aggiunta del maiale nel ripieno, ma in qualsiasi caso il condimento tradizionale resta il ragù d'agnello.

Laianelle

Farina di grano duro, uova, sale: un impasto classico per un formato insolito e spesso dimenticato, le cui origini si perdono nella notte dei tempi. Le laianelle sono il piatto per eccellenza del territorio di Monteroduni e Montorio dei frentani, delle golose lagane quadrate ripiene di ricotta di pecora, pepe, noce moscata e chiuse a triangolo. A insaporirle, ancora una volta è il ragù d'agnello, un sugo popolarissimo in ogni zona del Molise, accompagnamento perfetto per queste paste dal gusto pieno e robusto. Il nome deriva dal mattarello utilizzato per assottigliare la pasta, chiamato in dialetto locale “laganature” o “laianature”. La sfoglia, infatti, va lavorata molto finemente per essere poi farcita con il formaggio fresco, vero protagonista del piatto.

Lenzolere

Dette anche cuscnènere, le lenzolere sono delle strisce di sfoglia spesse, larghe e tagliate trasversalmente in maniera disomogenea, chiamate così per via del colore chiaro dato dall'albume, che conferisce all'impasto un aspetto candido come quello delle lenzuola e cuscini. La sfoglia, infatti, si prepara con semola di grano duro, albumi d'uovo e sale, e una volta cotta viene condita con sughi semplici e leggeri, come il classico pomodoro e basilico. Oggi diffuse in varie zone, le lenzolere sono tipiche di Castelbottaccio, dove in passato le massaie avevano l'abitudine di aggiungere gli albumi avanzati agli ingredienti della pasta fatta in casa.

Maccheroni crioli

I crioli molisani sono un formato di pasta tipico delle feste. Il nome deriva dai lacci delle scarpe che i pastori utilizzavano durante l’inverno. Fatti di semola di grano duro, uova e acqua, sono molto simili ai maccheroni alla chitarra, ma a sezione quadrata. Vengono consumati con il sugo di maiale, il ragù di carne di pecora o di papera muta. Un tipico piatto natalizio in Molise sono invece i crioli con il baccalà e le noci, versione più ricca riservata alle occasioni speciali.

 

crioliCrioli molisani con tartufo del ristorante Miseria e Nobiltà

Menuzze

Mai come nel caso delle menuzze (o tretarielle) si può parlare di ricetta di recupero, ovvero di un piatto nato per riciclare gli avanzi, evitando sprechi di cibo e costi ulteriori. La tradizione delle menuzze nasce a partire dagli anni '50, periodo in cui la pasta secca veniva venduta sfusa, esposta in grandi cassette di legno, una pratica durata per decenni prima dell'avvento delle confezioni industriali. Un'abitudine che, però, portava i proprietari delle botteghe a ritrovarsi sempre con tanti rimasugli di pasta di vari formati, venduti per questo motivo a prezzi stracciati. Stesso problema si presentava anche nei grandi pastifici, che con i tanti avanzi rotti e spezzettati delle varie tipologie di pasta erano costretti ad abbassare i costi per venderli. Inizia così a diffondersi fra la popolazione molisana l'usanza di raccogliere tutti i fondi dalle cassette e utilizzarli per zuppe e brodi, specialmente di pesce, creando quella che a Napoli venne poi definita “munnezzaglia”. Oggi, le menuzze sono dei mix di varie paste, cotti insieme per accompagnare brodi e minestre.

Paccozze

Dei rombi grandi come il palmo di una mano a base di grano duro, uova e sale: sono le paccozze (da pacca, ovvero mano), delle sfoglie sottili tradizionalmente cotte nel latte e accompagnate da un ragù di carne e pecorino. Un formato che nasce a Castelbottaccio ma che si diffonde ben presto in tutti gli altri comuni, tipico della festa dell'Ascensione, celebrazione durante la quale, in Molise, è vietato lavorare. Come recita un antico detto popolare: “Pe l'Ascenza, 'nze chiante né se schiante, 'ne mette 'u file a l'aghe, né 'u pettene a la cape”.Unico lavoro consentito è la mungitura: il latte, a patto, però, che sia regalato oppure utilizzato per preparare i piatti della festa, da condividere con amici e parenti. È proprio il latte il simbolo delle celebrazioni, un prodotto fortemente legato alla vita cittadina, tanto che a Isernia, fino agli inizi del Novecento, in occasione dell'Ascensione veniva messo in piazza un grande secchio di latte fresco a cui tutti potevano attingere, come buon augurio per le vacche e le pecore di ritorno dalla transumanza in Puglia.

Raviolo scapolese

A Scapoli, piccolo comune in provincia di Isernia, sono i ravioli a farla da padrone fra le varie paste ripiene della regione. Quello scapolese è un involucro di pasta all'uovo farcito con salsiccia, bieta, patate, uova e parmigiano, ma ne esiste anche una versione con la pancetta e un'altra ancora con la carne macinata. Come condimento, si opta solitamente per un classico sugo di pomodoro, talvolta arricchito con lo spezzatino di carne. Oggi è fra i prodotti più in voga della provincia, tanto da avere una sagra dedicata ed essere presente a tutte le feste dei vari paesini.

Taccozze

In Molise, poi, non possono mancare i maltagliati, formato comune a tutte le regioni del Centro Italia, dove è presente con nomi diversi. La versione molisana è chiamata taccozza, ed è un rombo di acqua e farina (alle volte anche uova), cotto in acqua bollente e condito con i fagioli. Un piatto che affonda le sue radici nella tradizione contadina, per diverso tempo quasi scomparso ma oggi tornato alla ribalta grazie al grande interesse verso la gastronomia del territorio. In qualsiasi caso, non è difficile trovarlo nel menu delle trattorie più caserecce, nella versione originale oppure, meno frequentemente, quella mare e monti.

Zengarielle

Già ai tempi dei romani, nelle ville dell'Ager Larinum (attuale territorio di Larino), uno dei cereali più coltivati e diffusi era il farro, ancora oggi fra le specialità agroalimentari della regione, coltivato a circa 700 metri di altezza. Bisogna attendere l'epoca medioevale affinché il grano inizi a prendere il posto del farro nelle coltivazioni locali fino a sostituirlo, quasi del tutto, a fine Settecento. Le varietà più tenere del grano hanno trovato spazio nelle campagne di Campobasso, Casacalenda, Montagnano e San Giovanni, mentre a Iseria e Larino è stato il grano duro a prevalere sugli altri. Le zengarielle sono fra i pochi formati di pasta a base di farro presenti attualmente nella cucina locale. Caratterizzati dal tipico colore bruno, questi spaghetti spessi e dal diametro ampio vengono preparati solitamente in occasione della Vigilia di Natale, conditi con olio, acciughe e briciole di pane tostato, “che la mollica”, in dialetto.

 

zangarielle

La ricetta: cavatelli

Come ricetta abbiamo scelto quella dei cavatelli, formato simbolo della regione, interpretato dallo chef Simone Rugiati in due varianti: con i frutti di mare, oppure con porcini, rucola e taleggio.

a cura di Michela Becchi

La pasta italiana in Veneto. 6 formati tipici e la ricetta dei bigoli

La pasta italiana nel Lazio. 16 formati tipici e la ricetta dei quadrucci

La pasta italiana in Campania. 11 formati tipici e la ricetta degli scialatielli

La pasta italiana in Piemonte. 10 formati tipici e la ricetta dei tajarin 

Londra, dal 2008 a oggi è diventata capitale gastronomica

$
0
0

Dalla Brexit indietro fino al 2008, l'anno della crisi. Come è riuscita Londra a diventare capitale gastronomica del mondo? Lo raccontiamo nel numero di aprile del mensile del Gambero Rosso, in questi giorni in edicola. Qui un'anticipazione.

 

Con oltre 10 milioni di abitanti e 40.000 punti di ristorazione, Londra è una città che non riesce a fermarsi. Proiettata da un’economia possente e da un gruppo di cuochi, ristoratori e imprenditori, la città ha trovato una propria identità gastronomica frenetica da cui il mondo trae ispirazione. Un'identità che si è consolidata e non indebolita in anni complessi, compresi tra la grande crisi finanziaria del 2008 e le incertezze causate dalla Brexit.

L'evoluzione di Londra

Guardando la mappa una domanda aleggia: quanto è grande questa città? L’evoluzione che ha avuto la ristorazione a Londra negli ultimi anni è legata alla sua espansione urbanistica, un progetto che non si è mai fermato. Quando pensi di averla capita, ecco che è già cambiata, quartieri una volta considerati periferia, come Hackney o Peckham, sono oggi le zone più in espansione.

Tante città vengono considerate “capitali mondiali” della gastronomia, ognuna per un motivo diverso e attraverso un suo proprio modello: Hong Kong per il suo street food; Parigi per i suoi stellati e i neo bistrot; New York per i suoi ristoranti creati da gruppi d’investimento milionari e Tokyo per gli izakaya e sushi bar immutati nel tempo. Londra ha un po’ di tutto questo messo assieme e ancora di più, negli anni è diventata la destinazione per tanti cuochi e la culla di parecchi nuovi ristoranti. Una tendenza che però è cominciata comunque recentemente e che si è intensificata nell'ultimo decennio topico, stretto tra la crisi finanziaria di Lehman Brothers e la Brexit. Benché debba molto della sua fortuna economica alla finanza, la Londra della ristorazione non ha subito le conseguenze della crisi post-2008, semmai ha colto l'occasione per ripensarsi e ri-costruirsi una nuova identità che arriva fino a oggi, ai mesi complicati in cui la Brexit ridefinisce il ruolo continentale della metropoli.

Dettagli di Rochelle Canteen a LondraDettagli di Rochelle Canteen 

Nuova cucina inglese e gastropub

Non tutto naturalmente è partito dieci anni fa, beninteso. Sebbene i concetti di “ristorazione” e di “Londra” siano considerabili insieme solo in epoca assai recente, i semi erano stati gettati comunque un po' prima. A rendere consapevole Londra dei propri mezzi furono già ad esempio nell’ottobre del 1994 Fergus Henderson, Trevor Gulliver e Jon Spiteri con l’apertura del St. John, davanti al mercato della carne di Smithfield. Un magazzino adibito a ristorante in cui c’era tutta l’essenza di Londra: dalle ales alla spina, ai piatti tipici, come la pork pie o la beccaccia arrosto. La rinascita della cucina inglese tradizionale andò di pari passo con un’altra tendenza, quella dei gastropub, che dall’inizio degli anni ‘90 ridisegnarono lo spazio dei pub, rendendoli ristoranti. Una ristorazione intermedia che a Londra non esisteva. È da qui che non si torna più indietro. Londra non era più solo una città con ristoranti importanti, come Le Gavroche della famiglia Roux, o La Tante Claire di Pierre Koffmann (chiuso nel 2004) ma una città in cui era nato un modo di mangiare non replicabile.

L’idea di ristorazione perpetrata da Fergus Henderson insieme alla moglie Margot è diventata per i cuochi di Londra un motivo d’orgoglio, l’intento di ricreare l’atmosfera di un pub dentro a un ristorante non era follia, ma il sale necessario perché la gastronomia inglese utilizzasse il potenziale di raccogliere le sue diversità per trasformarle in energie.

Margot e Fergus Henderson hanno il grande merito di aver semplificato il senso gustativo ed estetico di una cucina decadente. Negli anni, i loro Rochelle Canteen e St. John Bread & Wine sono diventati il punto di riferimento per clienti e cuochi curiosi di scoprire l’essenza del “Nose to tail eating” (dal grugno alla coda), non solo nei princìpi di cucina, ma anche di servizio.

{gallery}Locali Londra - Rochelle Canteen e Spring{/gallery}

Il prodotto come alta cucina

Un po' di geopolitica della ristorazione londinese. Se a East London un primo movimento gastronomico ha glorificato la cucina povera, a ovest, un gruppo di cuochi ha invece ridefinito l’alta cucina. Un progresso lento, che ha dovuto fare i conti con la cucina francese e le consulenze di grandi chef mondiali. Brett Graham ha aperto The Ledbury nel 2005, quando aveva solo 25 anni, nell’allora popolare quartiere di Notting Hill. Da subito un ristorante importante, dove Brett ha sostituito foie gras e aragoste con brassicacee, solanacee e pescato del mare inglese, nella creazione quasi inedita di un ristorante gastronomico forse possibile solo a Londra.

In tutt’altro contesto, un anno prima, nel 2004 una cuoca di estrema sensibilità e tocco per il vegetale, Skye Gyngell, ha aperto un ristorante nella serra Vittoriana delle Petersham Nurseries, un vivaio nel quartiere di Richmond. Un ristorante lontano dal centro di Londra, non solo fisicamente ma anche per le idee, che adattava la sua cucina ai colori delle stagioni inglesi, mettendola in un contesto rurale. Dopo aver ottenuto la stella nel 2011, Skye lasciò il ristorante per portare la sua cucina in centro città; nel novembre 2014 apre all’interno della Somerset House. Spring è fornito quasi interamente dalla fattoria biodinamica di Fern Verrow, nell’Herefordshire, e da un anno a questa parte, è anche possibile cenare con uno “scratch menu” di 3 piatti a soli 20 pound, in cui sono servite le parti meno belle, ma ugualmente buone, delle materie prime.

Fra i cuochi che celebrano il Regno Unito attraverso i suoi prodotti, Mickael Jonsson è il più eclettico. Un avvocato svedese con una passione infinita per l’alta cucina e gli ingredienti, che ha deciso di lasciare la sua professione per aprire un ristorante nel quartiere di Chiswick nel 2011, Hedone. E siamo in piena crisi finanziaria. Desiderosa di imparare e scoprire lati prima sconosciuti dell’alta cucina, Londra non ha impiegato tanto a celebrare il lavoro di un cuoco di grande gusto e tecnica, ma anche con un temperamento proprio a un avvocato svedese di mezza età. Hedone è oggi il ristorante dove mangiare i migliori prodotti della città.

Skye GyngellSkye Gyngell, cuoca e proprietaria di Spring

Live fast, die east

La rinascita gastronomica londinese, nella modulazione e declinazione dei suoi vari modelli, nasce però durante il mitico biennio 2009 - 2010. Due anni strani, in cui il fermento di East London per l’arrivo dei giochi olimpici ha coinciso con l’esplosione del talento di numerosi chef che, dopo essersi messi in mostra nelle cucine in cui lavoravano, hanno saputo mettersi in luce con dei ristoranti pop up.

Ancora ventenni, James Lowe e Isaac McHale lasciarono le cucine del St. John Bread & Wine e del Ledbury per creare il collettivo degli Young Turks e rinnovare la cucina inglese tradizionale alleggerendo, rinfrescando e ingolosendo i piatti.
Isaac e James aprirono un pop up rimasto impresso nella memoria di tanti, al primo piano del pub Ten Bells di Shoreditch. È con l’Upstairs Ten Bellsche i due cuochi espressero tutto il potenziale, trovando degli imprenditori che gli dessero fiducia. Chiuso il pop up ad aprile 2012, l'Upstairs riaprì in forma stabile nel giugno dello stesso anno, e nel collettivo entrarono a far parte , tra gli altri, Johnny Smith e Giorgio Ravelli.

Jyiotin Sethi, cuoco imprenditore a capo del gruppo di ristoranti JKS, decise di puntare su James per l’apertura, nel 2014, di uno dei suoi ristoranti, Lyle’s. Un ristorante emblematico a Londra per tanti aspetti: i volumi da loft, i tanti piatti serviti per essere condivisi, una carta dei vini con ampio spazio dato a piccoli produttori biodinamici. Ecco che la nuova cucina londinese si andava conformando. Isaac invece aprì il Clove Club nel 2013, insieme ai due amici Daniel Willis e Johnny Smith. Un ristorante dall’atmosfera elegante, in cui, ancora una volta, viene servita una cucina inglese dalla fibra rinnovata: il brodo della cacciagione da piuma viene servito in un bicchiere di vino con un goccio di Madeira del 1906...

{gallery}Locali Londra - Taberna do Mercado{/gallery}

Se in quegli anni James e Isaac erano cuochi in divenire, il personaggio sulla bocca di tutti era Nuno Mendes, cuoco portoghese con un passato da cantante punk rock. Dopo aver lasciato le cucine del Bacchus, gastropub in cui lavorava (oggi chiuso), aprì nel 2010 un ristorante dentro il Town Hall Hotel di Bethnal Green, molto a East e relativamente vicino alla allora riqualificanda area olimpica di Stratford, il Viajante, mettendo insieme una brigata talentuosa, fatta da tanti cuochi che hanno aiutato a cambiare la ristorazione londinese. Ma soprattutto, per circa 2 anni, Nuno aprì le porte di casa sua a cuochi emergenti di tutto il mondo, in una serie di cene eventi chiamato Loft Project. Da lui sono passati anche Magnus Nilsson del Faviken Magasinet, in Svezia, e Matias Perdomo oggi in grande spolvero al Contraste di Milano.

Nonostante la chiusura del Viajante nel 2014 (il crowfounding per riaprirlo non è andato a buon fine), Nuno ha continuato a lavorare su diversi progetti, sia con l’apertura del Taberna do Mercado nel mercato di Spitalfield sia con il suo ruolo di al lussuoso ristorante Chiltern Firehouse. Sempre alta l'attenzione per lo street food da parte dello chef lusitano: ad esempio col recente progetto del Mare Street Market a Hackney ma anche, proprio nel mercato di Spitalfield che ospita la Taberna, col suo contribuito a rinnovare la struttura assieme all'architetto Norman Foster. Sono lui e il suo team oggi a curare la selezione di venditori e bancarelle gastronomiche, ridando vigore a una parte della città che aveva perso parte del suo fascino. Non solo, il suo nuovo ristorante, un luogo che riprende i concetti di ristorazione esplorati con il suo Loft Project, ha aperto a inizio aprile sotto il nome di Mãos.

 

a cura di Tokyo Cervigni

foto di Arianna Lago

 

QUESTO È NULLA...

Nel numero di aprile del Gambero Rosso, un'edizione rinnovata in questi giorni in edicola, trovate il racconto completo con le ultimissime tendenze, dal nuovo etnico alla riscoperta del ristorante di quartiere. Un servizio di 13 pagine che comprende anche gli indirizzi da non perdere e la mappa per localizzarli, le 11 letture consigliate per conoscere meglio la ristorazione inglese degli ultimi dieci anni e i racconti di 5 professionisti italiani che a Londra ci vivono da tempo.

Il numero lo potete trovare in edicola o in versione digitale, su App Store o Play Store

Abbonamento qui

 

Novità a Roma. Giulietta Vino e Cucina, Santo Trastevere, Parole in Libertà, ER Dopolavoro, Salvatore Di Matteo, Banchina 63, Profumo e Barnaba

$
0
0

La rassegna delle novità gastronomiche che animano la scena capitolina parte dal centro storico della città, per salutare il ritorno in pista di Alessandro Pistoia. Poi il giro prosegue verso Trastevere e Prati, tra pizze napoletane, tavole fusion e cucina di mare. Più insolito il format di Profumo; si beve bene da Barnaba e Co.So. 

Giulietta Vino e Cucina

È una primavera romana insolitamente poco indulgente quella che ha contraddistinto la prima parte di aprile. La voglia di riuscire all'aria aperta, di godere di una passeggiata serale nel centro della città, però, torna puntuale a scandire l'appuntamento con il cambio di stagione. La scena gastronomica capitolina, che di fatto non conosce requie, asseconda l'inclinazione di una città che ama il cibo come l'opportunità di godere di spazi unici per contesto storico o respiro paesaggistico. Allora cominciamo la nostra ricognizione in cerca di novità nel cuore rinascimentale di Roma, sul rettilineo che corre parallelo al lungotevere dei Tebaldi: si chiama Giulietta Vino e Cucina in omaggio alla via Giulia di papa della Rovere (peccano un po' di scarsa originalità i ristoratori dell'area, si veda Giulia's Restaurant, che poco meno di un anno fa ha esordito un po’ più in là) il progetto che vede tornare in campo Alessandro Pistoia. Un nome noto della ristorazione capitolina, fondatore e patron per diversi anni dell'Osteria Pistoia a Monteverde, e poi proiettato in una serie di esperimenti imprenditoriali che non hanno avuto gli esiti sperati. Perché in fondo il suo desiderio è sempre stato quello di mettere le mani in pasta, e stare in cucina più che fare il manager, curando personalmente il rapporto con i clienti. E così dopo due anni di stop, lasciate alle spalle le precedenti avventure, Alessandro ricomincia nel laboratorio gastronomico che ha preso forma dove un tempo c'era una filiale del Monte dei Paschi di Siena, all'altezza dell'Accademia d'Ungheria, “in un contesto privilegiato per posizione e fascino, con travi in legno lasciate a vista e l'atmosfera informale che volevo avesse il mio spazio, pensato come un salotto dove ritrovarsi per condividere buon cibo”. Alla mancanza di canna fumaria Giulietta rimedia con una proposta di gastronomia fredda con prodotti selezionati sul territorio laziale e piatti cucinati altrove, mantenuti in Atm e rigenerati sul posto: “Una cucina semplice, fatta di grande materia prima, che si articola tra piattini da condividere, primi piatti della tradizione, secondi di carne, dolci al cucchiaio”.

Una novantina di metri quadri in tutto per il laboratorio a vista sulla sala, arredata con tavoli e sedute più bassi del consueto (nel rispetto della licenza), con cucina operativa no stop dalle 10 alle 23, e uno scontrino medio piuttosto contenuto: “In due si sta tranquillamente sotto i 50 euro, presentiamo i piattini a 8.50 euro, i primi di pasta fresca a 9 euro, con punte che arrivano a 12 euro per la tartare di fassona o i gamberi del Gargano”. Dal menu baccalà mantecato e burratina con alici del Cantabrico, gelato di rapa rossa con foie gras o al gorgonzola con tarte tatin di cipolle. E poi cacio e pepe, carbonara, polpette di vitella. In abbinamento una piccola selezione di vini laziali, da cantine che lavorano in biologico, proposte che Alessandro scova sul territorio regionale, come gli affettati che produce insieme al norcino Fausto Minori, in Ciociaria. Con tanti nuovi stimoli e la voglia di rimettersi in gioco in prima persona: in cucina, per ora, Alessandro ha scelto di essere solo, “è una cosa terapeutica, ora la mattina mi sveglio felice”.

Palermo, Venezia, Napoli di Santo

Santo a Trastevere. Il nuovo format

Ancora in centro città, ma dall'altra parte del Tevere, in via della Paglia, Santo Trastevere si riscopre ristorante. Il locale nato nel 2016 con velleità da cocktail bar – oggi a firmare la carta dei drink è la bartender Ilaria Sbal – si è ora dotato di una proposta gastronomica di più ampio respiro, affidata allo chef Edoardo Meuti. Aperto solo di sera (da maggio anche per il brunch della domenica), l'aperitivo comincia all'insegna dei cicchetti, ma è il menu alla carta la vera novità del locale, che punta su prodotti del territorio e aperture a suggestioni internazionali, tra un Calamaro asiatico con salsa di edamame e cracker di riso soffiato e un tataki di fassona marinata con worchester e soia con maionese alla Guinness e funghi chiodini, ma pure amatriciana e Aio, ojo e baccalà.

Il bistrot Parole in Libertà

A pochi passi dai Fori, invece, dopo alcuni mesi di ristrutturazione ha inaugurato al piano terra del Fortyseven Boutique Hotel, il bistrot Parole in Libertà. Un progetto ispirato al Futurismo italiano, che invita gli avventori “a compiere quei gesti atavici che permettono la completa e appagante fruizione del cibo”, spiega Gabriele Enrico, chef e mente del concept. E dunque si mangiano con le mani - come il Manifesto della cucina futurista di Marinetti comanda - piatti ispirati alla tecnica letteraria “Parole in libertà”, dove le parole nel testo non hanno alcun legame sintattico-grammaticale, ma badano solo alle emozioni provate dall'autore. Si comincia con Ezzicchete Ezzacchete (topinambur, uova, sedano, acciughe, olio extravergine della Sabina); Baccapatate (baccalà dissalato, patate, peperoni dolci, prezzemolo); Dal pizzicagnolo (prosciutto crudo Ruliano 24 mesi, pecorino di Amatrice, olive Belle della Daunia); Una battuta...sul manzo (carne cruda, maionese di nocciole, croccante di patate). E ancora tonno di coniglio o faraona con ceci e timo. Niente pasta e un unico strappo alla regola, se proprio non ci si vuole “sporcare” le mani: la speciale focaccia che all'occorrenza si trasforma in presina. Il consiglio, però, è di lasciarsi andare, magari con l'aiuto  dei cocktail, anch'essi di ispirazione futurista, creati da Francesco Papa. Si mangia anche sul roof dell'albergo, con splendida vista sulla città.

Pizzicagnolo di Parole in Libertà

Prati: da Callegari a Federico Delmonte, a Di Matteo

In zona Prati il bottino è come sempre ricco: il quartiere si conferma da un paio d'anni a questa parte tra le zone più ambite da chi sogna di sfondare nella ristorazione. Dei burritos di Maybu, street food messicano firmato Diana Beltran abbiamo già parlato. Non troppo distante, da qualche giorno è operativo l'ennesimo progetto capitolino che coinvolge Stefano Callegari e le sue pizze: ER Dopolavoro è la trasformazione dell'ex pub The Old Cottage, in piazza Santa Maria delle Fornaci, sotto l'egida di Birrificio del Ducato, Massimo Gabriele e Alfonso Iampieri, con la partecipazione del pizzaiolo romano ed Enrico Venafra, elemento di continuità dietro al bancone. ER è l'acronimo di Emilia Romana, e riassume il gemellaggio tra le due regioni che orienteranno la proposta gastronomica: al Dopolavoro le pizze di Stefano, servite in spicchi, vengono condite e riscaldate, con l'idea di una pizza tonda che diventa al taglio. Ma la specialità del locale sono i cosiddetti Baci, tasche di pizza farcita con affettati emiliani e laziali, parmigiano reggiano, ingredienti secondo estro del maestro. E poi insalate, panzanella, sfizi da condividere con una bottiglia di vino, tra le proposte di una cantina già molto nutrita, circa 200 etichette a disposizione. Un bar senza cucina dove il cibo non manca, e l'atmosfera è un po' quella delle osterie di una volta. A pochi passi da piazza Cavour, lo ha anticipato Repubblica, tutti attendono l'arrivo di Salvatore Di Matteo, pizzaiolo napoletano tra i più noti della scena partenopea, che a Roma aprirà un'astronave della pizza da 800 metri quadri, dove un tempo c'era Splendor Parthenopes: l'inaugurazione di Salvatore Di Matteo Le Gourmet è prevista per l'inizio di maggio (nella speranza che i bellissimi spazi disegnati da Roberto Liorni non vengano troppo modificati), e si accoda alla serie di incursioni napoletane che stanno animando la piazza capitolina delle pizzerie (recente è il raddoppio dell'Antica pizzeria Da Michele in via dei Lucchesi, a Fontana di Trevi, in autunno si attende Gino Sorbillo). A fine aprile/inizio maggio scatterà anche l'ora x per Federico Delmonte e il suo primo progetto solista in città: Acciuga, in via Vodice, sarà la sua tavola di mare al quartiere Della Vittoria.

Pacchero B63 di Banchina63

Ma il pesce è protagonista nello stesso quadrante della città anche da Banchina 63, che scommette sul format fish(e cocktail)bar nel locale di via Emilio Faà di Bruno: ostriche di Corrado Tenace, plateau di crudi, cucina di mare pop, a pranzo, aperitivo, cena, per 50 coperti in sala.

Profumo caffè sensoriale

In via di Villa Laucli, con giardino di 10mila metri quadri di pertinenza del Parco di Veio, un deciso cambio di set ci porta a scoprire la formula originale di Profumo Caffè sensoriale, che fa capo alla figura decisamente conosciuta alla mondanità romana di Roberto Fantauzzi, in qualità di ideatore del concept e art director. Con lui una squadra composita: Simone Braghetta (ex General Manager di Panella), Marco Morello a curare la proposta gastronomica, il bar manager napoletano Flavio Esposito (di stanza a Milano), la maestra profumiera Fernanda Russo, perché le fragranze, e il nome non ne fa mistero, sono filo conduttore di un progetto estramamente articolato, viste anche le potenzialità dello spazio (sulle ceneri di Caio Funky Trattoria). Profumo apre dalle 18 alle 2, e offre un'anima da cocktail e tapas bar, dove cucina e miscelazione procedono in sinergia, sulla traccia di 4 diversi percorsi olfattivi che orientano la scelta degli ingredienti e degli abbinamenti: floreale, agrumato, marino e speziato sono i profili proposti in menu. Quattro famiglie di sapori e profumi che il giovane Davide Figliolini (già con David Munoz da Diverxo a Madrid) declina con personalità in proposte di cucina fusion perché divertente e aperta a molteplici suggestioni.

La cucina delle fragranze

L'ideazione dei piatti è frutto del confronto costante con Morello, ogni categoria olfattiva ispira un crudo, un primo piatto a base di pasta (le fresche di Mauro Secondi), un secondo, una pinsa con salumi e formaggi selezione Dol (come quella con carne salada marinata al Cointreau per l'agrumato, o caciotta ai fiori di camomilla per il profilo floreale). Tra i piatti in carta (serviti in piccole porzioni, da condividere, prezzi tra i 10-14 euro) il polpo alla gallega con fiori di rosmarino, i ravioli ripieni di baccalà con salsa beurre blanc e mirto, il cosciotto di coniglio con salsa di peperoncini dolci e latte di cocco, il ceviche di orata e butterfish con lime e peperoncino, il sashimi di ombrina con miso e yuzu ponzu. Disponibili anche un percorso degustazione tra le fragranze.

Si mangia all'interno tra tavoli e divani, nel dehors e presto anche in giardino. Il sabato e la domenica il giardino fa da cornice al brunch, organizzato per stazioni di “eccellenze”: la pasticceria di Cristalli di Zucchero, la pasta di Mauro Secondi, la carne selezionata di High Quality Food, i fritti del Mercato Testaccio (dove Marco Morello è proprietario di Foodbox). E da domenica prossima parte anche il servizio picnic per godere a pieno del giardino, con l'idea di offrire anche un kit da barbecue per la grigliata fai da te se la formula piacerà al pubblico. Grande parcheggio a disposizione e una nota di colore che anima il sabato mattina, quando prende vita il mercato dei fiori, con il supporto di una flower designer.

Barnaba e Co.So.

Chiudiamo con qualche valido – nuovo o rinnovato – indirizzo per mangiare bevendo (o bere mangiando) all'insegna della qualità. Apre oggi Barnaba, spin off di Remigio, in zona Piramide: il nuovo locale di Fabrizio Pagliardi potrà contare su più spazio, su due livelli, un dehors esterno e la cucina che manca al Tuscolano. Da copione, invece, la ricca e originale proposta di bollicine francesi (e non solo) a buon prezzo. Mentre al Pigneto si rinnova il cocktail bar fondato da Massimo D'Addezio, che passa il testimone di Co.So alla fidata bartender Giulia Castellucci (con lui in scena nella puntate di Spirits, su Gambero Rosso Channel): con lei Riccardo Bucci, proprietario del locale. E la cucina conquista nuovo peso accanto alla drink list di Giulia. Un po' di pazienza in più, invece, per chi non sa resistere alle tentazioni della pasticceria: alla fine di giugno, alla Stazione Termini, arrivano i dolci di Roberto Rinaldini.

 

Giulietta Vino e Cucina - Roma - via Giulia, 169 - www.facebook.com/GiuliettaVinoeCucina/

Santo Trastevere - Roma - via della Paglia, 40 - 0658377020 - www.santotrastevere.it

Parole in Libertà - Roma - via Luigi Pietroselli, 47 - 066787816

ER Dopolavoro - Roma - piazza di Santa Maria delle Fornaci - 333 381 3314

Salvatore Di Matteo Le Gourmet - Roma - via Vittoria Colonna, 32 - da maggio 2018

Acciuga - Roma -  via Vodice, 25 - dalla fine di aprile 2018 - www.acciugaroma.it

Banchina 63 - Roma - via Emilio Faà di Bruno, 63 - 066941 2199 - www.banchina63.it

Profumo Caffè sensoriale - Roma - via della Villa Lauchli, 1 - 351 276 7173 - la pagina Fb

Barnaba - Roma - viale della Piramide Cestia, 45-51 - 3930584057 - la pagina Fb

Co.So. - Roma - via Braccio da Montone, 80 

 

 

a cura di Livia Montagnoli

In apertura Polpo arrostito, vellutata di porri e curry, scorzonera croccante e cavolfiore viola di Santo

Alibaba in cerca di nuovi vini tra gli stand di Vinitaly

$
0
0

Delegazione di buyer cinesi a Verona per il colosso delle vendite online, che da poco si è lanciato nell’avventura di New Retail, con l’acquisto di Hema: una grande catena di supermercati fisici, dove si acquista con un solo click. E se l’e-commerce puro fosse già il passato? 


Il futuro dell'e-commerce? Tra qualche anno sarà morto”. Parola di Jack Ma, il fondatore del colosso di vendite online Alibaba. Ovviamente questa vuole essere una paradossale provocazione, ma dietro le parole dell’uomo piu ricco della Cina si può leggere una certa lungimiranza, come in ogni cosa fin qui predetta e fatta da questo genio del commercio. Non a caso, l’ultima novità dell’universo Alibaba è il concetto di New Retail, che vede l’e-commerce e il retail fisico funzionare all’unisono con l’obiettivo di creare un più profondo brand engagement e una migliore esperienza di acquisto. 

 

New Retail, come funziona

Ci spiega meglio il concetto Manfredi Minutelli, il senior business development manager di Alibaba, che si occupa del settore vino per l’Europa. Lo abbiamo incontrato tra gli stand di Vinitaly,  la fiera scelta due anni fa Jack Ma per lanciare la giornata del vino di Alibaba, meglio conosciuta come il 9/9. Quest’anno, però, bolle in pentola un nuovo progetto – il New Retail, appunto -  che si andrà ad affiancare a quelli già rodati. La presenza a Verona di Alibaba ha, quindi, come obiettivo principale quello di trovare nuove cantine da rappresentare in Cina. Non online – non soltanto – ma nella nuova catena acquistata da Alibaba lo scorso anno: Hema. “Si tratta di una catena di supermercati che è una via di mezzo tra l'americano Whole Foods e l'itlaiano Eataly”, ci spiega Minutelli, mentre accompagna per la fiera una delegazione di buyer cinesi. Ma il valore aggiunto non è nei prodotti - tutti prodotti selezionati di fascia medio alta - è piuttosto nel modo di venderli. “Hema prevede un sistema integrato” continua il nostro interlocutore “il cliente entra nel negozio fisico, vede i prodotti, li compra tramite codice Qr ed entro mezz'ora (i tempi variano in base alla distanza fisica; ndr) si ritrova il prodotto a casa. Ecco perché il nostro fondatore parla di fine dell’e-commerce. Il sistema è destinato ad evolversi, anzi lo sta già facendo: si andrà sempre più verso l’integrazione tra online e offline. Se dal lato cliente risulta un sistema molto più comodo, dall’altra parte è un modo per conoscere i gusti del consumatore e fidelizzarlo”. Nello specifico, nei negozi Hema tutti gli acquisti vengono fatti esclusivamente tramite alipay, il sistema di pagamento online di Alibaba. Oggi la catena registra 35 punti vendita, ma l’obiettivo è arrivare a 2 mila in cinque anni. Per iniziare, nel corso del 2018, saranno 30 i punti vendita previsti nella sola Pechino. “Siamo qui a Verona” dice Minutelli “perché il vino i Hema è ancora sottosrappresentato e vorremmo che diventasse sempre più importante. Ad oggi, quello italiano è presente, ma con le stesse percentuali di mercato rispetto a quello francese. L’obiettivo è, quindi, portare i vini italiani in Cina, ma senza cedere alla battaglia di prezzo”.  

 

Alibaba Italia

Una battaglia che vale per l’online come per l’offline. Sono passati poco più di due anni da quando la cantine italiane hanno iniziato a fare la propria apparizione sulla grande vetrina cinese, grazie all’apertura di Alibaba nel nostro Paese: l'Italia è stata la prima nazione dell’Europa continentale in cui il Gruppo ha aperto una controllata, operativa dal 25 ottobre 2015. La missione ultima di questo gigante del commercio online è infatti, in un’ottica di globalizzazione, quella di “make it easy to do business anywhere”: consentire a tutti di fare business in modo semplice, ovunque. Oggi sono 12 i flagship store italiani aperti sulle due piattaforme B2C Alibaba, Tmall e Tmall Global: nove sono quelle aziendali; tre fanno capo a degli aggregatori, ovvero l’enoteca online Vino75 (che è ormai diventata il riferimento dei vini italiani di fascia medio alta su Alibaba); il negozio food&wine e-Marco Polo; il contenitore rappresentato dallo stesso Tmall director import, all’interno del quale si comprano e vendono direttamente i vini italiani. 

 

I consigli per vendere in Cina

L’appuntamento in rete con la giornata dedicata al vino è ancora una volta per il 9/9, ma prima, per tutti i prodotti rappresentati da Alibaba, ci sono almeno altre due date da segnare nell’agenda virtuale: il 18/6, la  promozione di mezzo anno, e l’8/8 la giornata promozionale di Tmall. In vista di questi eventi, bisogna prepararsi per tempo, cercando di capire come risultare incisivi ed emergere in questo oceano di offerte. “Bisogna prima di tutto tenere presente che i consumatori di vino in Cina sono sì i Millennials, ma sono soprattutto i ragazzi della generazione  successiva, oggi appena ventenni” è il consiglio di  Minutelli “sono coloro che hanno viaggiato e vogliono sentirsi simili ai coetanei del mondo occidentale. Ciò che li contraddistingue è, poi, che acquistano soprattutto tramite mobile. Quindi, la dritta per le aziende è di saper catturare l’attenzione con parole e immagini accattivanti e immediate”. Secondo punto: “Non dimenticare che in Cina sono due le maggiori leve di mercato: il prezzo e la marca. L’Italia, però su quest’ultimo elemento ha molto da fare, perché i suoi brand non sono ancora forti come quelli francesi”. Ma non basta investire solo sull’online (e ritorniamo qui al concetto dell’inizio): “Bisogna  investire sulla marca attraverso attività multicanale che riguardino, allo stesso modo, social media e influencer cinesi”. Online e offline insieme, insomma. Perché, mentre l’Italia stenta ancora a stare dietro all’e-commerce, il mondo (sicuramente il mondo cinese) è già al livello successivo. E in quel livello, l’e-commerce, come insegna Jack Ma, è solo una parte del tutto: quello che potrebbe sembrare un modello futuristico, nel Paese del Dragone è già realtà.

 

a cura di Loredana Sottile

Ricavi e ottimismo in crescita. L'indagine Mediobanca sul vino italiano

$
0
0

Il rapporto 2018 certifica la migliore performance degli ultimi 5 anni. Aumentano fatturati, investimenti e occupazione delle principali società. Sul podio dei big si confermano Riunite-Giv, Caviro e Antinori. Record di crescita per La Marca. E sono Veneto e Toscana le regioni più performanti.

 

Per il vino italiano, quello registrato nel 2017 è il maggior incremento degli ultimi cinque anni in termini di fatturato. Con un +6,5% rispetto al 2016, per l'ottavo anno consecutivo il comparto aumenta il proprio valore, grazie alla performance delle esportazioni (+7,7%) e, allo stesso tempo, del mercato domestico (+5,2%), con una sensibile crescita dell'Asia ma con l'Europa prima destinazione. L'indagine sul settore vitivinicolo italiano realizzata dall'Area studi di Mediobanca restituisce un'Italia del vino complessivamente in salute, grazie alla buona performance degli spumanti (+9,9% sul 2016) che fanno meglio dei vini fermi (+5,6%). Ilrisultato generale è paragonabile a quello dell'intera manifattura nazionale (+6,8%) ed è migliore di quello dell'industria alimentare nel suo complesso (+2,5%).

Il buon momento del comparto nazionale si riflette anche nell'incremento degli investimenti (+26,7%) e degli occupati (+1,8%), con proiezioni abbastanza positive per il 2018 da parte delle principali società vinicole intervistate nel rapporto (le prime 155, con fatturato sopra i 25 milioni di euro), nonostante un contesto internazionale caratterizzato da incertezze e grossi punti interrogativi sui principali mercati di destinazione.

 

I top player

Cantine Riunite-Gruppo Italiano Vini si conferma la prima società italiana per fatturato (594 milioni di euro, +5,1% sul 2016), seguita da Caviro (+3,9% a 315 milioni) da Antinori (+0,4% a 221 mln) che è il primo gruppo non cooperativo. In quarta posizione, è stabile Zonin1821 (+4,2% a 201 mln) a cui si stanno avvicinando sia la Fratelli Martini (+13,3%, 194 mln, che passa dalla sesta alla quinta posizione) sia Mezzacorona (185 mln). Settimo posto per Cavit (+2,6% a 183 mln) poi Botter (+9,5% a 180 milioni); con 169 milioni al nono e decimo posto si trovano Enoitalia (+14,5%) e Santa Margherita (+7,4%).

Come un anno fa, il record di crescita per il 2017 è della cooperativa La Marca (da 101 a 131 milioni con +30,7%) che passa dalla 19esima alla 13esima posizione. Seconda migliore performance sui ricavi per Farnese: dalla 33esima alla 26esima posizione.Poi Ruffino (+15,5%), Enoitalia (+14,5%), Contri (+14,1%), Fratelli Martini (+13,3%) e Mezzacorona (+13,1%). Per quanto riguarda la presenza all'estero la Botter è quella con la maggiore percentuale (96% del proprio fatturato), seguita da Ruffino (93,3%), Fratelli Martini (89,9%), Mondodelvino (85,4%) e Zonin (85,1%). Se si guarda alla redditività, ovvero al rapporto dell'utile sul fatturato, Antinori fa segnare il 25%, seguito da Frescobaldi (20,5%), Santa Margherita (17,2%) e da Ruffino (15,7%).

 

I canali di vendita

Nel 2017, prevale la Gdo, che interessa il 38,2% della produzione, seguita dai grossisti e intermediari (16,8%), dall'Ho.Re.Ca. (16,5%) e dalla rete di vendita diretta (12,6%). All'estero prevale l'intermediario importatore (74,5%). Considerati i grandi vini (sopra 25 euro), la quota più elevata è del canale Ho.re.ca (37%), seguito da enoteche e wine bar (23,6%); con una vendita diretta al 18,8% e Gdo con appena 3,3%.

Guardando all'offerta commerciale, tra 1996 e 2018 si registra un aumento di oltre 4.900 etichette (+159,2%): il 10,2% dello stock di etichette riguarda vini comuni (erano 13,6% del totale nel 1996), mentre è cresciuta la fascia alta della produzione (grandi vini, Docg e Doc) con un'incidenza passata dal 45,4% del 1996 al 54,6% del 2018. "Variazioni" scrive Mediobanca "che confermano la tendenza a privilegiare la crescita qualitativa in presenza di un mercato fortemente influenzato dalla Gdo". Fenomeno particolarmente evidente per le cooperative che, su grandi vini, Docg e Doc, sono passate dal 41,3% del 1996 al 55,3% del 2018 (quasi stabili, invece, per le non cooperative, tra 52% e 54%).

 

Le regioni più performanti

Analizzando i bilanci del 2016, Mediobanca elabora un indicatore di sintesi sulle performance economiche e patrimoniali. E tra le prime dieci società inserisce ben sei produttori veneti, tre toscani e uno piemontese. I migliori punteggi sono per Villa Sandi, Mionetto, Vinicola Serena e Botter, seguite da Masi, Ruffino e Santa Margherita. Relativamente al 2017, le aziende toscane e quelle venete si confermano in testa per redditività: Antinori al 25%, Frescobaldi al 20,5%, Santa Margherita al 17,2%, Ruffino al15,7%, Botter (8,6%), Mionetto (5,7%) e Villa Sandi (5,5%).

Le società venete primeggiano sotto il profilo reddituale (roi-return on investment al 9,4% contro il 6,8% nazionale; roe-return on equity all'11,4% contro il 7,9%). Le toscane vantano un roi all'8,7% e roe all'8,4%), sono solide dal punto di vista patrimoniale, con debiti finanziari al 33,2% dei mezzi propri (contro il 63,4% nazionale), efficienti (costo del lavoro per unità di prodotto al 44,4% contro 58,6%) e vocate all'export (64,4% contro 51,4% nazionale).

 

Gli investimenti e gli occupati

Vivace il mercato degli investimenti materiali delle italiane del vino. Nel 2017, la crescita in un anno è del 26,7%, percentuale media tra il +41,6% delle cooperative e il +17,3% delle spa. e srl.; gli spumanti primeggiano (+37,2%), seguiti dai non spumanti (+24%). Sul fronte investimenti pubblicitari si registra un aumento del 5,9%, molto più della spesa pubblicitaria nazionale (+0,4%). Contestualmente, il 2017 segna, secondo l'Ufficio studi Mediobanca, un +1,8% di occupati. E, anche stavolta, gli spumanti fanno meglio (+6,7%) dei non spumanti (+1,1%). E le cooperative (+3,8%) fanno meglio di spa. e srl (+0,2%).

 

Le attese per il 2018

L'atteggiamento generale delle aziende nei confronti del 2018 risulta "positivo ma prudente nella formulazione delle previsioni, in un contesto che permane condizionato da grande incertezza”, scrivono gli esperti dell'Area studi Mediobanca. Il 93% degli intervistati (oltre nove aziende su dieci) prevede di non subire un calo delle vendite (meglio le spa rispetto alle società cooperative). Gli imprenditori ottimisti (chi stima aumenti sopra il 10%) sono solo il 17,4%. Rispetto al 2012, mancano gli exploit che caratterizzarono quell'anno, che registrò aumenti a due cifre numericamente oltre il doppio rispetto a oggi. Solo il 7% del campione attende una flessione dei ricavi. Considerando il solo export, le attese 2018 sono simili a quelle generali. Da segnalare che tra i produttori di spumanti "non c'è traccia di pessimismo".

 

La Borsa fa bene al vino

"Investire nel vino quotato in Borsa continua a essere un ottimo affare" rileva Mediobanca. La capitalizzazione dei titoli che compongono l'indice mondiale di Borsa del vino è aumentata del 12,2% tra marzo 2017 e marzo 2018. Rispetto al gennaio 2011, l'indice del settore vinicolo in versione total return (comprensivo dei dividendi) è cresciuto del 719,6%, al disopra della media delle Borse mondiali (+148%). Al netto delle dinamiche delle borse nazionali, la migliore performance è delle società del Nord America (+744,6%), dell'Australia (+163,5%) e della Francia (+100%). Andamento opposto in Cile (-40,1%) e Cina (-73,4%), dove le società vinicole hanno reso meno della borsa nazionale. Le italiane quotate restano due (Italian wine brands e Masi Agricola). "Se le non quotate scegliessero la Borsa" conclude Mediobanca "vedrebbero il proprio equity valorizzato in media il 70% in più".

 

 

a cura di Gianluca Atzeni

 

Questo articolo è uscito sul nostro settimanale Tre Bicchieri del 12 aprile

Abbonati anche tu se sei interessato ai temi legali, istituzionali, economici attorno al vino. È gratis, basta cliccare qui..

 

 

Il Rum è Servito a Campobasso. Ron Zacapa al ristorante Miseria e Nobiltà

$
0
0

Il 26 aprile protagonisti in tavola del tour Il Rum è Servito, giunto alla sesta edizione, saranno i piatti di Mariassunta Palazzo e Luca Emanuele del ristorante Miseria e Nobiltà di Campobasso. Con gli immancabili rum di Ron Zacapa. Il menu della serata. 

La cultura del rum

Il tour de Il Rum è Servito continua, e fa tappa a Campobasso. La rassegna dedicata alla cultura del rum tra le migliori tavole della Penisola non si ferma, e continua le sue sperimentazioni con un insolito abbinamento a tutto pasto tra le etichette guatemalteche di Ron Zacapa e la cucina creativa di talentuosi chef italiani. Con la collaborazione di Gambero Rosso, la storica azienda vuole raccontare l'arte della distillazione della canna da zucchero e insegnare come si può bere consapevolmente concedendosi il piacere di degustare un prodotto di qualità. Tre le varianti della gamma Zacapa presentate in degustazione (Ron Zacapa 23 – gusto morbido e sentori di frutta tropicale e vaniglia – Ron Zacapa 23 Etiqueta Negra – più intenso, con note di cioccolato e spezie – Ron Zacapa XO – aroma di tabacco, caramello e cannella), con la complicità degli chef che hanno accettato la sfida. Cena dopo cena, il motto dell'iniziativa – The art of Slow, elogio ai piaceri della vita – si rispecchia nelle serate organizzate dai locali selezionati dal Gambero Rosso tra le migliori insegne presenti sulla guida Ristoranti d'Italia.

 

La cena da Miseria e Nobiltà

Il 26 aprile Zacapa approda a Campobasso, ospite di Mariassunta Palazzo e Luca  Emanuele del ristorante Miseria Nobiltà. Un indirizzo in pieno centro, da sempre approdo sicuro per un pasto di qualità, che ha fatto della cucina tradizionale molisana il suo punto di forza. Prodotti del territorio reinterpretati con gusto e personalità: questa la chiave del successo di un'insegna di riferimento per tutti i buongustai della zona. Che ora ha scelto di mettersi in gioco, provando nuovi accostamenti per un percorso degustazione unico nel suo genere:

 

Filetto di trota salmonata del Matese affumicato con legno di quercia, sua ventresca marinata a secco con camomilla e menta ed espressioni del carciofo

Zacapa Gran Reserva 23

 

Agnolotti con ripieno di alici e scarola al burro di manteca podolica del Molise, finocchietto, salsa di prezzemolo e colatura di alici

Zacapa Gran Reserva Edicion Negra

 

Costoletta di agnello in cacio e uova, zabaione salato, fave e carrube

Zacapa Gran Reserva Edicion Negra

 

Tramezzino di ricotta, fichi e noci su crema inglese al sigaro toscano

Zacapa X.O.

 

Si prenota direttamente ai recapiti del ristorante.

 

Miseria e Nobiltà – Campobasso - Via Sant'Antonio Abate, 16 - 087494268 -www.facebook.com/miseriaenobilta.rist/

Prezzo della cena: Euro 40

Gustoria. Il progetto che unisce il cibo all'archeologia

$
0
0

Un viaggio a tappe alla scoperta degli etruschi e dei romani dove la curiosità (e il cibo) sarà la chiave per accedere ai segreti di questi due popoli. È il progetto Gustoria di Laura Pinelli, ideatrice dell'associazione culturale Pachis, che vede coinvolti diversi chef. Per ora vi sveliamo le prime quattro tappe.

 

Le espressioni della creatività umana offrono un vasto campionario da esplorare, ma Laura Pinelli, archeologa e ideatrice dell'associazione culturale Pachis, ha selezionato delle vere chicche per lanciare il suo progetto Gustoria. A dire il vero il lancio ufficiale sarà il 13 maggio nella Sala Convegni di Villa Giulia a Roma, che rappresenta anche la prima tappa di un tour dedicato a esplorare gli esiti più ingegnosi e curiosi della creatività artistica degli antichi popoli etruschi e romani, senza dimenticare le loro tradizioni gastronomiche.

Piatto di Davide Del Duca nel museo di Vulci

Gustoria, un'opera e un piatto

Ho lavorato per 20 anni come archeologa all'interno dei cantieri, ma sono sempre stata affascinata dal cibo e da tutto quello che gli ruota attorno, così ho deciso di coltivare questa passione a tempo pieno. Ho iniziato a leggere e a studiare, il che mi ha portato a incontrare Giancarlo Casa (Pizzeria Gatta Mangiona, Roma)e Claudio Gargioli (Armando al Pantheon, Roma)grazie ai quali ho cominciato ad organizzare degli appuntamenti tematici. Nel 2015 con Giancarlo abbiamo ideato una cena con un menu ispirato all'antica Roma, doveva essere un evento goliardico, ne è uscita una cena grandiosa anche grazie alla partecipazione di Arcangelo Dandini e Gianfranco Pascucci”. Gli appuntamenti si sono fatti sempre più frequenti, nel mezzo è nata pure l'associazione culturale Pachis, ma oggi Laura ha deciso di fare le cose in grande, sviluppando una serie di tappe che coniugano le sue due passioni, il cibo e l'archeologia. “Gustoria nasce dal desiderio di fare qualcosa di un po' più grande, dove vengono coinvolti luoghi d'arte, chef e personaggi che fanno da tramite tra questi due mondi che in fin dei conti sono molto simili. Ho scelto luoghi d'arte non perché siano "location" ma perché facciano da trama alla storia del progetto”.

Laura Pinelli e Davide Del DucaLaura Pinelli e Davide Del Duca

I primi due incontri culturali sono legati agli etruschi, il 13 maggio a Villa Giulia e successivamente al Parco di Vulci. “Sono due tappe collegate. Al Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia ci concentreremo sulle sale dedicate alla produzione di Vulci e, ovviamente, al Parco Archeologico Naturalistico di Vulci toccheremo con mano i luoghi da cui provengono questi reperti”. Il cibo è il filo conduttore: “In ogni tappa ci sarà uno chef al quale chiedo di preparare un piatto ispirato alla storia e al luogo d'arte in questione, da un'opera in particolare all'autore dell'opera, dai materiali utilizzati ai colori”. Da qui il claim “un'opera e un piatto”.

Davide Del Duca mentre impiatta

Villa Giulia e il piatto di Davide Del Duca

A Villa Giulia sono esposti tutti quei materiali che testimoniano la vivace attività commerciale lungo il Tevere e il mare Tirreno in epoca etrusca, con anfore olearie, quelle dedicate a Dionisio, specchi, braceri. Già perché gli etruschi, oltre ad affumicare, cuocevano alla brace ogni sorta di carne (che ovviamente era destinata a pochissimi), dunque bovini, suini, cinghiali o volatili, specialmente l'anatra. “Quando ho coinvolto Davide Del Duca (Osteria Fernanda, Roma) per la prima cena gli ho semplicemente spiegato il progetto, dandogli un'unica limitazione: doveva utilizzare l'anatra, che spesso ricorre figurativamente nelle opere etrusche. Il resto l'ha fatto da solo, studiando, guardando i resti etruschi, facendosi ispirare dai colori e dalle funzionalità degli utensili visti”. Da qui il piatto ispirato a una tomba dove sono stati ritrovati diversi oggetti. “I nobili si facevano seppellire con ricchi corredi contenenti strumenti da banchetto, ceramica, specchi e vasellame in bronzo, spiedi per arrostire le carni, anfore panatenaiche e anfore destinate a contenere il vino, che pare venisse “arricchito” con del formaggio grattugiato. E non mancavano di portare con loro alcuni cibi, come per esempio le uova”. Il 13 maggio, dopo la visita al museo, la giornata si conclude all'Osteria Fernanda per provare, tra gli altri piatti,“l'anatra ricoperta di sesamo nero affumicato, con una spugna verde che richiama gli specchi, il guscio del pecorino, l'olio sferificato e l'aria di vino rosso. Un piatto – ci spiega Davide Del Duca - che si lega al museo sia esteticamente che concettualmente”.

Piatto di Davide Del Duca ispirato agli etruschi

Le altre 3 tappe

Un piatto nero, rosso e verde che potete analizzare nella foto di Andrea Federici, dove la creazione è immortalata di fianco all'opera che l'ha ispirato. Dopo Villa Giulia con la cena da Osteria Fernanda, gli altri appuntamenti dove saranno? “Al Parco di Vulci organizzeremo un pranzo proprio nel ristorante che vi è all'interno, il Casaletto Mengarelli, ma i piatti saranno sempre di Davide. Verso fine settembre ci spostiamo ad Ostia, non Ostia Antica ma nella Villa della Palombara, erroneamente detta Villa di Plinio il giovane, nella pineta di Castel Fusano”. In questa occasione lo chef coinvolto è il giovane Marco Claroni dell'Osteria dell'Orologio a Fiumicino e quindi si prospetta un menu dedicato al mare, al commercio, alla pesca. Per la quarta tappa si ritorna a Roma “in un luogo particolare, nei sotterranei dell'Insula di San Paolo alla Regola”. È qui che il risultato di stratificazioni edilizie si riassume nel suggestivo confronto tra l'imponenza dell'antica architettura romana e l'elegante palazzo rinascimentale che la sovrasta. “È uno di quei luoghi sconosciuti di Roma in cui arriva proprio il custode ad aprirti con la chiave! Vi si accede da una porticina e dopo qualche rampa di scale si viene catapultati in epoca romana”. Lo chef che si dovrà fare ispirare è Claudio Gargioli, “glielo dovevo, perché quando l'ho portato in questo luogo se ne è letteralmente innamorato”.

 

Tutte le info e le prossime tappe: www.pachis.roma.it

 

a cura di Annalisa Zordan

foto di Andrea Federici

 

 

 

 

 

 


Cucina di casa. Gli gnocchi: Gnocchi di patate, Gnocchi di semolino, Gnocchi di zucca e Gnocchetti di pane

$
0
0

Quattro ingredienti principali per quattro tipi di gnocchi. Qui i trucchi e le ricette per preparare gli gnocchi di patate, di semolino, di zucca e gli gnocchetti di pane.

 

Sono pur sempre un cult, ma oggi molto spesso si comprano di già confezionati perché considerati troppo difficili da fare da soli. Eppure non è poi così complicato prepararli a casa, poi volete mettere la soddisfazione?

Diversi tipi di gnocchi

In Italia, da nord a sud, se si parla di gnocchi, è sottinteso che si parli di quelli di patate. Conditi in tutti i modi, a seconda delle abitudini gastronomiche della zona: con sugo di pomodoro, con il ragù di carne, con il pesto al basilico, con la fonduta di formaggio, con pomodoro e mozzarella o semplicemente al burro e salvia. Ma, anche se sono i più conosciuti, non sono gli unici. In Toscana, per esempio, sono molto comuni gli gnocchi di polenta, piatto squisitamente familiare dove gli gnocchi non sono altro che delle cucchiaiate di polenta semi densa condite con ragù di carne o sugo di salsicce. In Friuli si mangiano gli gnocchi di susine (fresche o secche), conditi con zucchero, cannella e pangrattato rosolato nel burro; hanno un sapore spiccatamente dolce anche se si mangiano come primo piatto. In alcune zone dell’Emilia, si preparano gli gnocchi di riso. Il riso, cotto a lungo nel brodo fino ad avere la consistenza di un risotto denso, viene amalgamato con pangrattato, grana grattugiato e uova. Questi gnocchi, una volta lessati, si condiscono con burro fuso e grana grattugiato. O ancora, ci sono i canederli friulani solitamente a base di pane, latte, uova e formaggio. Noi vi sveliamo le ricette dei classici gnocchi di patate, di quelli tipicamente romani di semolino, di quelli di zucca e degli gnocchetti di pane.

Preparazione degli gnocchi: il taglio

Gnocchi di patate

Ingredienti

1 kg di patate a pasta farinosa

250 g circa di farina

1 tuorlo d'uovo

Lessate le patate, fatele freddare (non mettetele in acqua fredda perché perderebbero troppo amido), pelatele e passatele allo schiacciapatate. Impastatele con il tuorlo e la farina (la quantità dipende dalla capacità di assorbimento delle patate) e, quando l'impasto è pronto, fatene dei bastoncini e tagliateli a pezzetti lunghi circa due centimetri e passateli sul retro della grattugia.
Tuffate gli gnocchi in abbondante acqua ben salata in ebollizione e quando affiorano, tirateli su con la schiumarola e conditeli a piacere.

 

Gnocchi di semolino alla romana

Gnocchi di semolino alla romana

Ingredienti

200 g di semolino

3/4 l di latte

2 tuorli d'uovo

100 g di burro

100 g di parmigiano grattugiato

Sale q.b.

Preparazione: 30 minuti + 2 ore per il raffreddamento. Portate a ebollizione il latte con il sale e versatevi a pioggia il semolino mescolando continuamente prima con una frusta e poi con il cucchiaio di legno. Fate cuocere a fuoco moderato per circa un quarto d'ora senza smettere di mescolare quindi, fuori dal fuoco, aggiungete una noce di burro, due cucchiai di parmigiano e i tuorli d'uovo. Amalgamate con cura quindi rovesciate il composto su un piano di marmo bagnato di acqua. Stendetelo in uno strato regolare di circa un cm aiutandovi con un largo coltello bagnato quindi coprite con un canovaccio e lasciate raffreddare per almeno un paio d'ore. Con un tagliapasta rotondo (4 centimetri di diametro), ritagliate dei dischi dal semolino. Imburrate una pirofila, disponete sul fondo i ritagli dell'impasto e spolverateli di parmigiano. Fate un secondo strato con i dischi di semolino, accavallandoli leggermente e cospargeteli di parmigiano e di fiocchetti di burro. Continuate fino ad esaurimento degli ingredienti facendo attenzione a restringere il perimetro di ogni strato in modo da formare una specie di cupola. Mettete gli gnocchi nel forno già caldo a 200° C per circa un quarto d'ora, fino a quando la superficie avrà preso un bel colore dorato. Lasciateli leggermente intiepidire prima di servirli.

 

Gnocchi di zucca

Gnocchi di zucca

Ingredienti

1,2 kg circa di zucca

200 g circa di farina

1 tuorlo d'uovo

Noce moscata

Sale q.b.

Tagliate la zucca a spicchi e, senza sbucciarla, privatela dei semi e dei filamenti e sistemateli in una teglia con la buccia in basso. Mettetela nel forno già scaldato a 180° C e lasciate cuocere per circa un'ora fino a quando sarà tenera. Quando la zucca è cotta, lasciatela intiepidire, scartate la buccia e passatela al passaverdure con il disco più fine lasciandola cadere in una ciotola (se fosse rimasta troppo acquosa, mettetela in una padella antiaderente senza condimento e fatela asciugare un po'). Unitevi il tuorlo, quasi tutta la farina setacciata, una grattatina di noce moscata e un pizzichino di sale. Mescolate quindi mettete il composto sulla spianatoia infarinata e lavoratelo come si fa comunemente con gli gnocchi. Quando l'impasto sarà diventato liscio, omogeneo ed elastico, staccatene circa un terzo e, rotolandolo con le mani sulla spianatoia infarinata, formate un lungo rotolino del diametro di circa 1 centimetro. Ritagliate dei pezzetti di un paio di centimetri e rotolateli sulla spinatoia infarinata. Formate una piccola scanalatura in ogni gnocco passandolo sui rebbi della forchetta o sul retro di una grattugia. Quando gli gnocchi sono tutti pronti, fate bollire l'acqua in una casseruola ampia e quando l'acqua bolle, salatela e tuffatevi gli gnocchi. Fateli bollire per pochi minuti a fuoco moderato e, quando saranno venuti tutti a galla, tirateli su con la schiumarola, metteteli nel piatto da portata e conditeli a piacere. Noi suggeriamo il classico burro, salvia e parmigiano.

 

Gnocchetti di pane

Gnocchetti di pane

Ingredienti

400 g di pane bianco raffermo

2 bicchieri di latte

50 g di prosciutto crudo

200 g circa di farina

50 g di parmigiano grattugiato

2 uova

Prezzemolo

Sale e pepe q.b.

Tagliate il pane a dadini, raccoglietelo in una ciotola, bagnatelo con il latte e lasciatelo così per una mezz’ora mescolando ogni tanto in modo che si imbeva completamente. Trascorso il periodo di riposo, strizzate il pane fra le mani, raccoglietelo in una terrina e unitevi il prosciutto tritato, le uova sbattute, il formaggio grattugiato, un cucchiaio di prezzemolo tritato e la farina necessaria per ottenere un impasto consistente. Insaporite con sale e pepe e lavorate l’impasto con le mani fino ad averlo ben amalgamato. Prendendo poco impasto alla volta con le mani infarinate, formate degli gnocchi rotondi delle dimensioni di una grossa ciliegia. A lavoro ultimato, tuffate gli gnocchi in abbondante acqua salata in ebollizione e, via via che vengono a galla, tirateli su con la schiumarola e accomodateli in un piatto da portata caldo. Conditeli a piacere o con sugo di pomodoro e ricotta grattugiata.

 

Cucina di casa. Le basi: Pasta brisée, Pasta sfoglia, Pasta da pizza e Pasta frolla

Cucina di casa. Le salse: Besciamella, Salsa béarnaise, Pearà e Salsa verde

Cucina di casa. Le creme: Ganache al cioccolato, Crema pasticcera, Crema inglese, Panna montata

Cucina di casa. Le salse straniere: Guacamole, Hummus, Baba ganush e Tzatziki

Cucina di casa. Le paste fresche: Pasta all'uovo, Pici, Tagliatelle di farina di castagne e Pizzoccheri

 

Mascarpone e savoiardi. I migliori d'Italia

$
0
0

I migliori mascarponi, artigianali e industriali, e i più buoni savoiardi d'Italia: nel numero di aprile del mensile del Gambero Rosso trovate le classifiche complete, qui i prodotti arrivati nel gradino più alto del podio.

 

Nel numero di aprile del mensile del Gambero Rosso ci sono ben due classifiche. La prima riguarda i mascarponi: una top ten divisa fifty-fitty tra prodotti artigianali e industriali. I primi emozionanti, da esperienza gastronomica, reperibili nelle botteghe di super-nicchia e nella zona di lavorazione del mascarpone: la Pianura Padana, soprattutto nell’area di Lodi, luogo di origine. I secondi dal gusto standard ma diffusi ovunque sul mercato, dall’alimentari sotto casa alla grande distribuzione. L'altra è la classifica dei savoiardi, comprimari insieme al mascarpone nel classico tiramisù. Qui vi anticipiamo i vincitori di ciascuna categoria.

La storia del mascarpone

Si trova da Livigno a Lampedusa, nella botteguccia come nella grande distribuzione. Non c'è scaffale del supermercato che non abbia, tra il burro e lo yogurt, diverse referenze di mascarpone. Talmente diffuso, sempre e ovunque, da sembrare un prodotto internazionale, privo di identità e di storia, senza profondità culturale. E così legato al tiramisù da dare l'impressione di non poterlo usare in altro modo, tant'è che sul coperchio di quasi tutte le confezioni campeggia l'immagine del famoso dolce al cucchiaio. In realtà il mascarpone è e offre molto di più. Questo spalmabile derivato del latte, ottenuto dalla coagulazione acido-termica della panna (o crema di latte) attraverso aggiunta di acido citrico e lavorazione per alcuni minuti ad alta temperatura, fino a sfiorare i 95°, ha una patria (il profondo nord della zona di Lodi) e una data di nascita (il XII secolo, nel “buio” Medioevo). Ha una storia: il nome proviene da mascherpa, termine dialettale lombardo di origine celtica che significa crema di latte o ricotta, o dall’espressione màs que bueno, più che buono, usata da un alto dignitario di corte durante la dominazione spagnola della Lombardia. Ha un impiego che spazia nella cucina dolce e salata: ricette codificate nella gastronomia lodigiana (pasta al mascarpòn, faraùna al mascarpòn) e bolognese (tortelloni di pasta verde ripieni di ricotta e mascarpone). E ha anche una stagionalità. “Oggi il mascarpone è un prodotto industriale, fatto tutto l'anno e distribuito in tutto il mondo – spiega Giampaolo Rossi, direttore di stabilimento Sterilgarda, azienda mantovana leader nella produzione di mascarpone e ricotta – ma una volta era lavorato dai caseifici soltanto nei mesi freddi, soprattutto nel periodo che precedeva il Natale in previsione del crollo dei consumi dopo la festività: alla fine dell'anno, quando ormai gli affari erano fatti, si faceva il mascarpone come riempitivo, per utilizzare la panna in eccesso”. Oggi la catena del freddo e la tecnologia hanno spostato la produzione a tutto l’anno, allungato la shelf life fino a 60 giorni, contro i pochi giorni di quello di una volta e del mascarpone artigianale, “e consentito l’esportazione grazie al controllo delle cariche microbiche, e anche alla diffusione del tiramisù” ammette Giampaolo Rossi.

Il mascarpone artigianale

Così come il famoso dolce al cucchiaio ha contribuito da una parte alla fortuna del mascarpone ma dall'altro ne ha ghettizzato l'uso, la lavorazione industriale lo ha reso un prodotto internazionale, onnipresente e più duraturo, ma a scapito delle caratteristiche organolettiche: struttura densa, compatta e liscia, sentori lattici lievi e non sempre puliti, grasso contenuto (intorno al 35%) e talvolta non precisissimo, scarsa intensità e persistenza per un prodotto ottenuto spesso con il metodo UHT da panne di affioramento (e talvolta aggiunta di latte) e come correttore di acidità acido lattico anziché acido citrico (succo di limone).

Per fortuna esiste ancora il mascarpone artigianale, prodotto agroalimentare tradizionale PAT della regione Lombardia, fatto all'antica maniera: da panna fresca di centrifuga, alta percentuale di grasso, oltre il 50%, sgrondo naturale in teli di lino, spesso confezionato a mano nella carta pergamena anziché in vaschette con coperchio chiudibile. Una candida nuvola materna dal gusto ricco e fresco, delicatamente dolce con una codina acidula e un bel grasso pulito, senza tracce di ossidazioni o fermentazioni. A differenza di quello industriale, la texture non è liscia e compatta ma morbida, cremosa e fioccata simile a quella del gelato: tende a fare il ricciolo. Al naso e al palato tutte le buone sfumature lattiche (latte appena munto, burro di affioramento, panna, crème fraîche francese), più note tostate di frutta secca, sentori erbacei e animali gentili che richiamano l’ambiente di provenienza della materia prima (fieno, vacca, stalla pulita).

Mascarpone Carena

1 Artigianale - Carena

Soave. Vince a mani basse superando i 90/100. Tutto è artigianale e tradizionale: da panna di centrifuga (lombarda) e acido citrico, lavorazione solo in inverno, fra novembre e marzo, e a bagnomaria, spurgo del siero in teli di lino appesi, percentuale di grasso 52-53%, incarto a mano con pergamena. Aperto il morbido panetto appare una nuvola pannosa di un luminoso bianco avorio e con una sensuale struttura fioccata umida e cremosissima. Naso intenso di panna e “latte della nonna”, crème fraîche, frutta secca leggermente tostata (nocciola e mandorla dolce), lievi sentori animali che ci ricordano l’origine della materia prima (sana stalla montanara). Gusto pieno e materno con perfetto equilibrio di dolcezza e sapidità, coerenza naso/bocca, persistenti ritorni di frutta secca, grasso precisissimo. Immediato ed emozionante, semplice e da meditazione: impossibile non innamorarsene. Reperibile in Lombardia e in botteghe gourmand italiane.

1 kg prezzo 23/24 euro

Carena - Caselle Lurani (LO) - via Pozzo Bonella, 7 - 0371944228 – 037196054 - caseifcarena.it

Mascarpone Delberg

1 Industriale - Delberg

È un marchio primo prezzo di Mila - Latte Montagna Alto Adige, cooperativa agricola altoatesina che raccoglie il latte delle vallate regionali, con stabilimenti a Bolzano e a Brunico. Qui è prodotto il mascarpone, presente nella gdo, soprattutto in Esselunga. Ingredienti: panna e latte (di Paesi UE, «ma per lo più altoatesina » assicurano), acido lattico. Grassi: 35%. L’aspetto è di mascarpone industriale, denso, compatto e lisciato, un po’colloso, anche se al palato la struttura è morbida, fondente e non finta. Ma le sensazioni naso/bocca suggeriscono la provenienza del latte: i pascoli di montagna del Südtirol con gli evocativi richiami alla stalla pulita e alle balle di fieno che ricordano le vacanze sulle Dolomiti. Alle note primarie (latte scaldato, yogurt, burro, panna cotta, crème fraîche), espresse con freschezza e precisione fanno eco lievi sentori tostati e caramellati, e ricordi di latte di cocco. Sapore pieno, molto dolce ma anche sapido.

1 kg prezzo 4,50/5 euro

Delberg – Bolzano - via Innsbruck, 43 – 0471451111 – mila.it

 

savoiardi

I savoiardi

Appartengono alla famiglia allargata dei biscotti. In realtà i savoiardi sono anti-biscotti per definizione. Questi dolcetti semplici e leggeri a forma di ditone tozzo e pacioccone, con la faccia pallida e schiacciata spolverata di zucchero, hanno come formidabile punto di forza una soave sofficità aerea e spugnosa ma non cedevole, che resiste piacevolmente al morso. Friabili sì ma non croccanti. Nessuna traccia della struttura rigida, asciutta, che scricchiola sotto ai denti tipica del dolce cotto due volte: bis-cotto, appunto. I savoiardi più vicini alla tradizione e a una lavorazione artigianale sono fatti solo con tre ingredienti: farina di grano tenero 00, zucchero e uova, tantissime, fino alla metà del composto in alcuni casi. Nei prodotti industriali con l’aiuto di agenti lievitanti (carbonato acido d'ammonio, carbonato acido di sodio, difosfato disodico).

Gli inglesi li chiamano ladyfingers (dita di dama), i francesi biscuit à la cuillère (biscotti a forma di cucchiaio). Il nome italiano invece è collegato alle loro origini, la Savoia appunto, la regione incuneata tra Francia, Italia e Svizzera dove sono nati, nel tardo Trecento, presso la corte di Amedeo VI, pare inventati dal cuoco del Conte Verde in onore di una visita del re di Francia. Da qui la loro diffusione in tutte le terre sotto il dominio o nella sfera d’influenzadi Casa Savoia: in Piemonte ovviamente, dove i savoiardi figurano tra i prodotti agroalimentari tradizionali della regione (come pure nell’elenco PAT dell’Emilia Romagna e Molise), ma un po’ ovunque in Italia. Soprattutto in Sardegna, prima dell’unità d’Italia possedimento sabaudo per quasi un secolo e mezzo, dove sono chiamati pistokeddoso savoiardi di Sardegna (Fonni, nel Nuorese, è considerata un po’ la capitale). La loro particolarità: dimensione oversize (più o meno 3 dita di larghezza per 10 di lunghezza), consistenza straordinariamente soft ed eterea, presenza importante di uovo.

I savoiardi sono impiegati soprattutto nei dolci: al primo posto il tiramisù, a seguire zuppa inglese e charlotte. Sono spaziali pucciati in tutte le declinazioni del caffè, compreso il bicerin, la storica bevanda torinese a base di caffè, cioccolato e crema di latte per un binomio territorialmente perfetto. Ma si prestano anche a usi nella cucina salata in preparazioni agrodolci di ricerca.

 

Savoiardi Esca Dolciara

1 - Esca Dolciaria (Savoiardi e Reginette)

Due prodotti, un’unica posizione condivisa da tutto il panel. A chi piace il savoiardo morbido ma non troppo, che resiste al morso, preferirà i savoiardi tout court, con il 44% di uova. Per chi ama la variante più soffice e leggera, che si scioglie in bocca come neve al sole, apprezzerà le reginette, con il 45% di uova. In entrambi solo quattro ingredienti (oltre alle uova fresche, farina di grano tenero, zucchero e miele, di provenienza italiana e regionale) e una distribuzione in botteghe e gdo (Auchan, Carrefour). Due fuoriclasse, perfetti, di pezzatura grande secondo lo stile sardo, delicati e caratteristici, con note di uovo e farina puliti e fragranti, una dolcezza non sparata, una bella persistenza. Più paciocconi i savoiardi classici, sopra solo un leggero strato di zucchero, con una morbidezza un po’ spugnosa. Più snelle ed eleganti le reginette, con decorazione ondulata lungo la faccia e una sofficità più rarefatta come un lievitatissimo pan di Spagna.

Savoiardi 400 g prezzo 4/5,30 euro

Reginette 300 g prezzo 4/4,20 euro

Esca Dolciaria- Dorgali (NU) - zona PIP Iriai - 078494472 – 078496271 - escadolciaria.it

 

 

a cura di Mara Nocilla

foto di Francesco Vignali

 

QUESTO È NULLA...

Nel numero di aprile del Gambero Rosso, un'edizione rinnovata in questi giorni in edicola, trovate le classifiche complete. Un servizio di 9 pagine ricco di spunti. Dai 15 impieghi del mascarpone oltre al famoso dolce al cucchiaio: nella cucina dolce e salata al posto di burro, panna, ricotta e crème fraîche, con i suggerimenti del gelatiere Marco Radicioni (Otaleg!, Roma) e dei pasticcieri Corrado Assenza (Caffè Sicilia, Noto), Isabella Potì (Bros, Lecce) e Alessandro Comaschi (Martesana, Milano). Agli 8 modi per impiegare i savoiardi in cucina, suggeriti dallo chef Giulio Terrinoni (cuoco e patron di Per Me e Roma), il gelatiere Radicioni e dai pasticcieri Assenza, Potì e Comaschi.E poi un focus sui biscottini di Novara, gli antenati dei Pavesini.

 

Il numero lo potete trovare in edicola o in versione digitale, su App Store o Play Store

Abbonamento qui

Orto Vulcanico La Lupa. Le eccellenze orticole italiane in un nuovo vivaio a Bolsena

$
0
0

Piante di ortaggi di semi antichi da tutta Italia, radunate grazie alla collaborazione con colleghi agricoltori e vignaioli. Oltre 50 varietà di pomodori e altrettante tipologie di peperoni del Sud Italia. Questo e molto altro nell'Orto Vulcanico La Lupa, un orto sui generis realizzato da Jonathan Nossiter e Massimiliano Petrini.

 

Gli ideatori

Maggio 2004. Il 57esimo festival di Cannes assegna la Palma d'oro a Mondovino, film documentario incentrato sulla grande industria del vino, volto a far conoscere i pregi dei produttori più piccoli che lavorano in maniera sostenibile. È in questo momento che il nome del regista Jonathan Nossiter inizia a circolare nel settore enologico, facendosi largo fra la schiera degli amatori dei vini naturali e non solo. Sunday, Mondovino, Resistenza Naturale, e poi il libro Insurrezione culturale: il curriculum di Nossiter è punteggiato di progetti alternativi impegnati nella promozione e valorizzazione delle produzioni artigianali, con un occhio di riguardo per il legame con il territorio e il rispetto per l'ambiente circostante. Ma il regista è prima di tutto un amante del gusto, uno studioso appassionato che negli anni ha saputo specializzarsi in vari campi, interessandosi sempre di più al mondo agricolo a tutto tondo. Per il nuovo progetto, al suo fianco non poteva che esserci un esperto di permacultura come Massimiliano Petrini: diplomato presso l’Accademia Italiana di Permacultura, insieme ad Anna Satta e Anna Benzoni della Libera Scuola di Agricoltura Sinergica Emilia Hazelip, nel 2016 crea Gli Orti di Bolsena, orti e coltivazioni sperimentali di cereali su circa 3500 metri quadrati di terreno. Una fucina di idee dove lo studio e la ricerca per la perfetta sinergia tra agricoltura e natura non finiscono mai.

Il progetto

È proprio questa, infatti, la chiave della permacultura: riuscire a stabilire un equilibrio in grado di soddisfare il fabbisogno della popolazione senza intaccare gli ecosistemi naturali. All'insegna di questo legame armonioso fra uomo e natura a Bolsena nasce Orto Vulcanico La Lupa, un luogo unico nel suo genere che raduna eccellenze orticole da tutta Italia. “Ripristino della biodiversità dell'agroecosistema”: così recita lo slogan del progetto La Lupa, frutto di un anno di ricerca da parte di Jonathan e Massimiliano, con la collaborazione di Giulia Bartoccini. Un vivaio di piante e ortaggi nella provincia di Viterbo, un orto sinergico, con alberi di frutti antichi e file di grani ancestrali: tutto questo e molto altro è Orto Vulcanico, un polo imperdibile per gli amanti dell'agricoltura e per i gastronomi più appassionati. Ma ancor prima un'idea, un concetto, un punto di ritrovo per confrontarsi sulle ultime novità in campo, scambiarsi opinioni e scoprire colture sconosciute, antiche e spesso dimenticate.

La rete di agricoltori

Un progetto tutto in divenire, pronto ad aprire i battenti il prossimo 28 aprile, ma con dettagli ancora da definire: “Ci piacerebbe anche organizzare delle giornate di formazione”, racconta Massimiliano, “ma non vogliamo che diventi una scuola. Questo luogo nasce e rimarrà un orto, un insieme di eccellenze orticole che vogliamo far tornare alla ribalta, e soprattutto un punto di ricerca sui sementi locali”. Per realizzarlo, è stato necessario l'aiuto di tanti grandi nomi del panorama agricolo nazionale, “amici vignaioli e agricoltori che hanno contribuito a realizzare la banca semi, colleghi che ci hanno permesso di ampliare le nostre conoscenze. Orto Vulcanico è prima di tutto un progetto fondato sulla fiducia, sull'ascolto, sul confronto e l'aiuto reciproco”. Il risultato del lavoro di un'intera rete di produttori e contadini sparsi in tutta la Penisola, specializzati in diversi settori, ma tutti con la stessa filosofia di base. Grazie all'unione delle conoscenze, tecniche e competenze di ognuno, a breve nel viterbese 4 ettari di terreno fra seminative e boschi potranno essere visitati tutti i giorni dai consumatori più curiosi, che potranno acquistare dal vivaio e dai campi, facendosi consigliare dal team dell'Orto.

I prodotti

150 alberi da frutto di Vivai Belfiore di Pistoia, grani antichi recuperati con l'aiuto di Jean-François Berthollet, “a breve anche qualche capra con quattro corna dell'Aspromonte”, scoperta grazie al calabrese Antonello Canonico. E ancora 50 varietà di pomodoro (rosso a punta,
rosa di Rofrano, S. Marzano, giallo di Cerreto, insalataro auletta, datterino paesano, leccese tondo, regina, fiaschetto quintino, tanto per citarne alcune), altrettante di peperone, dal friarello nocerese al rosso quadro, dal pupanetto al papacella napoletano rosso, e poi cavolo verza S. Michele, anguria paesana, cicoria variegata Castel Franco, melanzana rossa di Mormanno, pastinaca S. Ippazio e tante specialità da tutta Italia, varietà uniche che fanno della nostra Penisola un patrimonio di biodiversità tutto da scoprire.

La lista continua, ma soprattutto è in costante aggiornamento, fra cereali ancestrali e varietà particolari. Così, fra cipolla di Montoro e cicorie otrantine, meloncella paesana e zucca costoluta tonda, dal prossimo 28 aprile sarà possibile passeggiare fra filari di ortaggi e semi, alberi da frutto e colture in via di sviluppo. Con una grande festa di inaugurazione da mezzogiorno a mezzanotte, con i vini naturali di Ajola e i formaggi a latte crudo de Il Secondo Altopiano. Per immergersi in un “mondo del futuro” attraverso un tuffo del passato, riscoprendo le proprie radici nel cuore della Tuscia.

Orto Vulcanico La Lupa – Bolsena – loc. La Lupa, 86 01023 – dal 27 aprile 2018 www.facebook.com/Orto-Vulcanico-La-Lupa-159216404757723/

a cura di Michela Becchi

Il miele di Zavattarello. I progetti dedicati all'apicoltura nell'Oltrepò Pavese

$
0
0

 

Paese del miele, paese delle api. È stato definito così Zavattarello, piccolo comune dell'Oltrepò Pavese dove la produzione di miele rappresenta da oltre un secolo una delle principali attività della zona. Per valorizzare questa specialità sono nati una serie di progetti e associazioni dedicate. Tutti i dettagli.

 

Zavattarello, il paese del miele

Un piccolo borgo medioevale dell'Oltrepò Pavese nell'Alta Val Tidone, uno di quei paesini immersi nella natura dove il tempo sembra essersi fermato. Un luogo dal fascino antico, dove le antiche tradizioni artigianali sono sopravvissute all'innovazione tecnologica, e dove i ritmi di vita lenti lasciano spazio alle attività di una volta. È Zavattarello, comune in provincia di Pavia meglio conosciuto come “il paese del miele”. A dominare la scena, infatti, è un apicoltore, Alfredo Chiesa, che porta avanti il lavoro iniziato dal conte Luigi Dal Verme a metà Ottocento. È proprio il conte – il cui castello domina il paesino – a vincere i primi premi nazionali di miele già nel 1869. Bisogna attendere il 1920 perché il nipote Luigi fondi ufficialmente la società, stabilendo inoltre un decalogo dell'apicoltura moderna.

La stazione di Ape Ligustica

Una tradizione portata avanti oltre un secolo, che nel 2015 ha portato alla creazione di Miele di Zavattarello - Associazione Apicoltori Oltrepò Montano, una realtà voluta dall'ex sindaco Enrico Baldazzi, che oggi raduna 46 soci sotto un unico disciplinare rigido. Sono 350 le arnie in gestione dell'associazione, che può contare anche su una stazione di fecondazione dell'Ape Ligustica, ovvero l'ape italiana, sottospecie dell'ape mellifera fondamentale per l'ambiente e l'intero ecosistema. A creare la stazione, l'Associazione italiana allevatore di api regine, mentre a curare le varie arnie sono i fratelli Matteo e Marco Veneroni, insieme al biologo Raffaele Dall'Olio. Al controllo qualità, Marco Morone, che svolge test periodici per garantire uno standard elevato e costante. L'obiettivo? Stabilire una rete solida fra gli apicoltori, per aumentare la produttività, ma soprattutto la qualità del miele del paese, già conosciuto in tutta Italia grazie al lavoro certosino svolto negli anni e la storia unica del conte.

Il disciplinare

A novembre il Comune ha deciso con un’ordinanza di vietare l’ingresso nel territorio comunale, e per un raggio di tre chilometri, alle arnie con regine diverse dalla Ligustica”, spiega Simone Tiglio, sindaco di Zavattarello. Che nel 2015 presentava il progetto dell'associazione con entusiasmo e speranza: “Il nostro è un territorio incontaminato, ricco di essenze arboree e floreali, ideali per la produzione del miele. Anche se si chiamerà “Miele di Zavattarello” il marchio è esteso a tutti quei produttori dell’alta valle che seguiranno il disciplinare, che prevede: l’assoluta purezza del miele, l’utilizzo di essenze locali e una lavorazione rispettosa del ciclo di vita delle api e dell’ambiente che circonda l’alveare”.

Progetti correlati

Ma non finisce qui, perché in cantiere c'è anche l'idea di creare il Parco delle api, proprio all'interno del castello Dal Verme, dove tutto ha avuto origine, e poi un premio letterario, L'Oro di Zavattarello, per i racconti inediti sul mondo delle api (il giorno di chiusura per inviare la propria storia è fissato per il prossimo 31 maggio). Per incentivare ancora di più i consumatori all'acquisto di questo prodotto, dal 2015 si svolge ogni anno a settembre la Sagra del Fungo e del Miele, una festa all'insegna dei sapori del territorio, dove le eccellenze del sottobosco si mescolano armoniosamente al gusto dolce del nettare degli dei.

a cura di Michela Becchi

Vinitaly 2018 report. Conoscere il pinot nero dell'Oltrepò Pavese in tre cantine

$
0
0

Una zona di chiaroscuri, l'Oltrepò Pavese, che insieme a grandissimi vini, produce questioni ancora da dirimere. Oggi ci occupiamo dei primi, mettendo in fila le bollicine di tre cantine da conoscere assolutamente.

 

Metodo classico da pinot nero

L’Oltrepò Pavese è qualcosa di veramente speciale. Nel bene e nel male, nei suoi tratti più belli come nelle sue dinamiche più oscure. Tra i pochi denominatori comuni c’è una straordinaria propensione al litigio. E il pinot nero. Mai come nell’ultima edizione del Vinitaly, è stato così centrale nel padiglione dell’Oltrepò il tema delle bollicine di pinot nero rifermentate in bottiglia, tanto nell’intenzione di chi esponeva che nelle scelte chi si accomodava dall’altra parte del banchetto. Cosa viene davvero bene in Oltrepò? Le nostre valutazioni per la Guida lo sbandierano da 10 anni: il metodo classico da uve pinot nero.

Ancora oggi, ne sono convinti forse di più i produttori della Franciacorta o dell’Alta Langa che per anni sono venuti qui, alcuni continuano in vero, per comprare le migliori uve. Suoli calcarei, acidità naturali scintillanti, ph bassi, prezzi delle uve molto contenuti - c’è chi fa davvero di tutto per mantenerli tali – ci sarebbero tutti i presupposti per una crescita sostanziale della denominazione.

Ma i numeri parlano di 360mila bottiglie con la fascetta della DOCG (in Franciacorta sono 16 milioni, per dire) a fronte di una produzione complessiva di circa un milione e mezzo di bottiglie: la maggior parte dei produttori decide di uscire come vino spumante di qualità perché si vergogna della menzione Oltrepò. Non la vuole in etichetta. “È come un autogol, preferiamo promuovere il brand aziendale”, continuano a ripeterci da anni i produttori. Ce l’hanno ripetuto anche nei giorni di fiera. Ma nascondersi dal proprio territorio, vuol dire nascondersi da se stessi. Non ci riuscirebbe neanche Eddy Merckx. Semmai, quello che manca è proprio un lavoro su cuvée figlie di singole vigne, mettendo a frutto un lavoro di zonazione che è stato fatto nel tempo ma nessuno ha ancora valorizzato. 

Torneremo presto con un’inchiesta sul fattore ‘vergogna’, sul ruolo delle cantine sociali nel consorzio, sul perché delle tante false ripartenze. “Peggio dell’Oltrepò” non può e non deve diventare un modo di dire. 

La qualità nel bicchiere è molto più alta di quella percepita; ribaltiamo la prospettiva: la stragrande maggioranza delle bollicine metodo classico in Italia sono peggiori di quelle che nascono in Oltrepò. Ecco alcune cuvée per sintonizzarsi su questo discorso. 

 

Bruno Verdi

L’Oltrepò Pavese ha un bisogno disperato di persone come Paolo Verdi. Un vignaiolo che parla poco e lavora sodo, uno che non si lamenta ma fa. Non è mai sceso a compromessi in nessuno dei vini proposti, piuttosto continua a saltare le annate meno felici. Così i suoi Riesling, Bonarda o Barbera sono sempre ai vertici del comprensorio, ma il suo vero punto di forza è il Vergomberra, il suo metodo classico prodotto dal 1983. Netto, sferzante, con quel timbro di mentuccia che è il vero marchio di fabbrica di Canneto Pavese. Pinot nero, con saldo di chardonnay e pinot meunier (non è l’unico ad averne una parcella in Oltrepò). Il Vergomberra ’12 è il biglietto da visita dell’Oltrepò, teso, cremoso e profondissimo. Con un ritmo sapido che lo piazza tra le migliori cuvée italiane. È stata tra le etichette più apprezzate dai giornalisti internazionali durante l’evento Tre bicchieri del Gambero Rosso di domenica. La versione 2013 è ancora più sferzante nel tono agrumato e balsamico, meno universale nel fraseggio e più graffiante ed elettrico della ’12, dall’energia travolgente (sui 22 euro in enoteca). Buona prova anche della Jeroboam del 2006, 120 mesi sui lieviti. Noi, però, rimaniamo convinti che il meglio delle cuvée in Oltrepò sono quelle prodotte in una fascia tra i 30 e 50 mesi. Di pari passo, siamo anche convinti che oltre il 50% delle bollicine italiane sosti troppi mesi sui lieviti visto il vino di partenza. Ma rimaniamo sul pezzo.

Francesco Montagna & Bertè Cordini 

Il passaggio generazionale sta cambiando il volto di diverse realtà in Oltrepò. Matteo Berté è sicuramente uno dei giovani più talentuosi sul terreno del metodo classico. Ha ben chiari i punti di forza e di debolezza del suo territorio, è ambizioso e molto curioso. Da anni porta avanti un progetto che è sempre più a fuoco e ben articolato. I numeri sono ancora fermi a 15mila bottiglie, vista la qualità speriamo che le relazioni produttive rispetto ai vini fermi siano invertite nel lungo periodo. Sugli scudi la Cuvée Nero d’Oro, non dosata come tutte le etichette proposte, da uve pinot nero ovviamente. Sosta 32 mesi sui lieviti, offre un naso intenso e freschissimo, piccoli frutti rossi e anice. La bocca è molto netta e ritmica, una scossa di sapore tutta da bere. 20 euro sullo scaffale.

Ballabio

Da quest’anno l’azienda gestita da Filippo e Mattia Nevelli ha deciso di puntare interamente sul metodo classico. Specializzarsi è una mossa vincente, una scelta che speriamo sia da esempio per molte aziende oltrepadane impegnate spesso a perdere energie su un universo di vitigni, dal muller thurgau al cortese. Ma perché? La cantina di Casteggio vanta un centro spumantistico all’avanguardia, alla quale si appoggiano diverse cantine, e la consulenza enologica di Carlo Casavecchia. Invertiamo la preferenza dello scorso anno: al Farfalla Extra Brut, più morbido, preferiamo un raffinato Farfalla Zero Dosage. Le uve pinot nero, molte delle quali arrivano dall’alta Valle Versa, autentica zona d’elezione, sostano 48 mesi in bottiglia. Ha una texture elegantissima, un registro che mostra consapevolezza, giocato più sul dettaglio che sulla potenza. Il frutto rosso acceso, un ritmo rilassato, sussurrato, una concentrazione e densità fruttata molto aggraziata. Finale lungo di liquirizia e anice. In enoteca sui 25 euro. 

Speriamo vivamente che dalla prossima vendemmia queste cuvée non si vergognino più di riportare in etichetta la loro origine, portando in giro per l’Italia, e per il mondo, il nome Oltrepò Pavese.

 

 

a cura di Lorenzo Ruggeri

Franciacorta. I suoi primi 50 anni

$
0
0

Era il 1961 quando l'enologo Franco Ziliani imbottigliò il primo spumante in Franciacorta; da allora sono cambiate moltissime cose. Nel numero di aprile del mensile del Gambero Rosso ripercorriamo i primi 50 anni di un territorio che intorno al vino ha fatto sistema, e oggi è meta di turismo enogastronomico qualificato. Qui un'anticipazione.

 

Il Modello Franciacorta racconta un territorio che si è stretto intorno all’idea visionaria di un enologo e che da lì ha costruito una delle realtà più interessanti e innovative in Italia, a partire dalla sostenibilità (il bio è la quasi totalità). Oggi si pensa al territorio globalmente, si punta a un turismo qualificato, si cerca di raddrizzare brutture che negli anni hanno accompagnato la crescita della qualità in cantina. Ma intanto la realtà spumantistica italiana più dinamica va avanti dopo aver festeggiato i suoi primi 50 anni.

L'intuizione dell'enologo Franco Ziliani

I cinque minuti (reali) in auto dalle Porte Franche a Cà del Bosco spiegano più di mille saggi l’unicità della Franciacorta. Sembra impossibile che il centro commerciale per eccellenza della zona – bruttino, per usare un eufemismo – sia prossimo alla cantina che più delle altre ha portato la Docg bresciana nel mondo, partendo da zero. Contrasti così se ne incontrano parecchi: chi giunge qui pensando a un Eden resta immancabilmente sorpreso, talvolta perfino deluso dall’ambiente. Salvo riprendersi immediatamente assaggiando capolavori piccoli e grandi in giro per cantine. Ma su una cosa non si discute: formidabili i primi 50 anni, che nel 2017 sono stati festeggiati a più riprese senza indulgere a retorica e reducismo. L’unico a cui è permesso di ricordare e alimentare la leggenda è Franco Ziliani, quasi novantenne: l’enologo che dopo tre anni di prove, errori, disastri, imbottigliò il primo spumante in Franciacorta nel 1961. Era riuscito a convincere Guido Berlucchi, gentiluomo d’altri tempi che lo aveva assunto per curare la sua cantina di vini bianchi. “Non voleva, ho insistito. Se funziona in Francia, possiamo farlo anche in Italia, gli dicevo – racconta Ziliani – alla fine ha ceduto ma non sapevamo nulla, manco come si facesse una catasta di bottiglie. Ho imparato tutto da solo, copiando quello che vedevo in Francia”. Intuizione, studio, lavoro, visione: quello che permise a Berlucchi di vendere ben 120mila bottiglie nel ’70 e oltre un milione nell’80 – entrando nella grande distribuzione: evento epocale – è il marchio di fabbrica di un territorio che per molti aspetti continua a lasciare stupefatti. Perché i numeri di produzione restano e resteranno sempre limitati per motivi congeniti (ma anche di marketing) e solo i nescinon perdono l’occasione di fare stucchevoli paragoni con lo Champagne.

Vigne in Franciacorta

Franciacorta, da zona di frontiera a territorio vocato al vino

Ma il Franciacorta può esibire una prima parte di carriera da applausi. Dice Oscar Farinetti: “Da piemontese e uomo di vino, sono ammirato da quanto è stato fatto, considerando che sulla spumantistica sono partiti dopo le altre zone. Penso alla mia Langa dove Gancia ha iniziato 150 anni fa e oggi prende i bresciani a modello. E poi questo non era un territorio vocato solo al vino come Trentino e l’Oltrepò Pavese: le cantine franciacortine sono state eccezionali nel raggiungere rapidamente una qualità eccelsa, tanto più apprezzata in tutto il mondo”.

Probabilmente è stata la coscienza di dover costruire tutto da zero, unita all’intraprendenza lombarda, che ha fatto bruciare le tappe. “Era una zona di frontiera, anonima e coltivata in piccoli appezzamenti sino agli anni ’60 quando i capannoni la peggiorarono, allontanando anche quei pochi turisti non amanti del Garda – racconta Massimo Tedeschi, editorialista de Il Corriere della Sera di Brescia – il vino ne ha cambiato la storia ed è stata una sorpresa, perché a parte Berlucchi che faceva corsa a parte, la crescita è maturata in piccole aziende, grazie a imprenditori di provincia tosti e coraggiosi. Il salto di qualità vero, per me, resta comunque la presenza all’Expo sul Decumano con il brand Franciacorta a gestire insieme le cantine: migliaia di persone hanno scoperto lì ‘quel’ vino”.

 

a cura di Maurizio Bertera

foto di Matteo Zanardi

 

QUESTO È NULLA...

Nel numero di aprile del Gambero Rosso, un'edizione rinnovata in questi giorni in edicola, trovate l'articolo integrale con l'intervento del professor Domenico De Masi, autore di una recente analisi del fenomeno di “socialismo enoico”su commissione del Consorzio Franciacorta, e un focus sul PTRA, il Piano Territoriale Regionale d’Area approvato dalla Regione Lombardia, che tutela il territorio e i cittadini della Franciacorta. Un servizio di 11 pagine che vede coinvolti i protagonisti della storia della Franciacorta, da Leonardo Vizza, presidente di Terre di Franciacorta, a Roberta Bianchi, titolare di Villa Franciacorta. E ancora: Arturo Ziliano (Ad ed enologo Berlucchi), Silvano Brescianini (vicepresidente Consorzio Franciacorta), Vittorio Moretti (presidente Consorzio Franciacorta), Maurizio Zanella (presidente Ca' Del Bosco), Vittorio Fusari (chef). Non solo, nel servizio potete trovare gli indirizzi utili, compresi i ristoranti da provare, la preziosa infografica di Alessandro Naldi, il bel racconto di Michele Masneri e un utile glossarietto per orientarsi meglio sul tema.

Il numero lo potete trovare in edicola o in versione digitale, su App Store o Play Store

Abbonamento qui

Voci dal Master. Suoni e sapori dal mare di San Benedetto del Tronto

$
0
0

Ritmi dilatati, piatti antichi: inscindibile dal suo Adriatico la cittadina marchigiana regala emozioni fuori dal tempo, anche a tavola.

 

Dalle colline dorate si scorge la spiaggia di San Benedetto del Tronto cittadina di pescatori. Stupende barche da pesca che solcano il mare Adriatico, barche con vele dipinte con soggetti religiosi o con antichi emblemi, esse vanno cullate dalle onde di un mare sempre vivo sempre nuovo e sembra che il murmure delle acque costituisca una lene musica”. È così che Franz Liszt, noto compositore ungherese, descrisse la città marchigiana. Un luogo la cui bellezza, da sempre, viene tratteggiata dalle sue melodie: quelle delle saracinesche del mercato del pesce, che vengono alzate all'alba, del campanello delle biciclette che percorrono la ciclabile del lungomare, dei racconti delle vecchie signore di via Laberinto, sedute davanti al portone di casa, del campanile della Torre dei Gualtieri che autorevolmente si fa portavoce del tempo. Suoni che, su questo lungo pentagramma, trovano un dolce contrappunto nel silenzio; quel silenzio che detta le sue regole in spiaggia, al molo o nella riserva naturale della Sentina.

Il brodetto

Il brodetto

In questa molteplicità di sfumature del paesaggio marittimo anche la gastronomia gioca la sua partita tra i numerosi e validi motivi per raggiungere la città. La cucina tipica nacque in mare, sugli antichi pescherecci, nei quali la decisione su quando e cosa mangiare spettava solo ed esclusivamente al capitano. A bordo non esisteva il cuoco, bensì una figura che si occupava dei pasti dell'intero equipaggio e si faceva aiutare dal mozzo o da un marinaio più giovane. Chi cucinava prendeva la “quartarola”, ossia un quarto di parte in più del pescato rispetto agli altri membri. L'alimentazione a bordo era sempre a base di pesce, in tutte le varianti: dalle minestre all'arrosto, fino ad arrivare al famoso brodetto.Piatto povero lu “vrudètte” (nel dialetto locale), realizzato con il pescato non destinato al mercato, che veniva cucinato con la “masa”, un mix di acqua e aceto di vino. Preparato spesso, in quanto capace di mantenersi per più giorni, non ne esiste una ricetta codificata e proprio per questo risultano diverse le variazioni sul tema. Nel corso dell'Ottocento a terra iniziarono ad arricchirlo con verdure della vicina campagna, in particolare pomodori verdi, peperoni e cipolle.

Dove mangiarlo oggi? Sicuramente all'Osteria Caserma Guelfa. Il locale era una vecchia dogana pontificia, legata a Papa Sisto V, un luogo caldo e raffinato dove il tempo sembra essersi fermato alle tradizioni di una volta. Qui Federico Palestini propone linguine al battuto di pescatrice, rombo al forno con le patate, grigliata con sogliole, panocchie e sgombri, con la missione di far conoscere ai propri clienti le caratteristiche e le differenze dei pesci che vengono serviti.

Se alla Caserma Guelfa i piatti rievocano il passato, alla Degusteria del Gigante vengono stravolti con rigoroso rispetto. A reinterpretare il patrimonio sambenedettese è Sabrina Tuzi, ex allieva di Niko Romito. Contadina, creativa e fortemente territoriale: la cucina di questo ristorante - ricavato nell'antica dispensa di una residenza nobiliare ottocentesca – è il risultato vincente di un dialogo ben riuscito con gli agricoltori della zona. “Preferisco il sapore del mare” è un antipasto composto di gelato di alici a scottadito, crumble di mais tostato e camomilla, concepito per unire i sapori della costa a quelli dell'entroterra.

La frittura di paranza

La frittura di paranza e il caffè del marinaio

Chi transita da San Benedetto del Tronto, oltre al brodetto, non può non assaggiare una frittura di paranza, composta prevalentemente da pesci di piccole dimensioni, quali naselli, triglie, ghiozzi e sogliole. La si gusta da Lelii, una tipica trattoria di mare caratterizzata da piatti abbondanti, semplici e genuini, oppure al Circolo Nautico, cuore pulsante del porto, un regno di quiete dove gli alberi delle barche a vela trafiggono il cielo. Non esiste luogo più giusto di questo per assaporare, inoltre, il caffè del marinaio, antica ricetta marinara, tramandata di generazione in generazione, ottenuta dall'infusione di caffè con anice e rum. Viene gustato caldo, ideale come arricchimento del gelato o come digestivo a fine pasto. Il retrogusto di alcol, spezie e aromi di cambusa rende questo prodotto semplicemente unico.

Le olive alla sambenedettese

Altra specialità della “perla dell'Adriatico” sono le olive alla sambenedettese, che si distinguono da quelle ascolane – famosissime in tutto il mondo – per il ripieno di pesce. Impossibile non trovarle nel menu di un qualsiasi indirizzo della cittadina, ma chi cerca il massimo del piacere e desidera una carezza genuina può recarsi da Olive Più, la rosticceria a pochi passi dal mare ideale per una sosta all'insegna del gusto. Il lavoro di Lorena, cuoca e proprietaria, è un inno alla delicatezza e al ricordo legato ai piatti delle nonne, che - proprio come i vecchi marinai sfidavano il mare verso mete sconosciute - gettavano l’occhio verso il futuro senza il timore di costruirlo. E dietro a ogni sapore la “lena musica” catturata da Liszt.

 

Osteria Caserma Guelfa - Via Caserma Guelfa, 5 - San Benedetto del Tronto (AP) - 0735 753900 - osteriacasermaguelfa.it

Degusteria del gigante - Via degli Anelli, 19 - San Benedetto del Tronto (AP) - tel. 0735 588644 - degusteriadelgigante.it

Lelii - Via Roma, 81 - San Benedetto del Tronto (AP) - 0735 587320

Circolo nautico sambenedettese - Via Tiziano Moletto Parasabbia 1 - San Benedetto del Tronto (AP) - tel. 0735 592163 – circolonautico.info

Olive più - Via dei Laureati, 2° - San Benedetto del Tronto (AP) - 0735 751811 - olivepiu.it

 

a cura di Elisabetta Gnani

Prova del Master in Giornalismo e comunicazione d'impresa dell'enogastronomia del Gambero Rosso

 

 


Enkai a Firenze. La nuova bottega del sushi (e cocktail) di Fiesole

$
0
0

Manca poco all'esordio di un nuovo locale che promette di movimentare le serate di Fiesole, con una proposta di sushi creativo e miscelazione d'autore che inneggia allo spirito conviviale. Dietro al progetto il sushi chef Silvio Tempesti e il bar manager Michel Granpasso Orlando. 

Enkai. La bottega del sushi alle porte di Firenze

Una bottega del sushi con vista su Firenze, da quel balcone naturale che è il borgo di Fiesole, più conosciuto per trattorie e bisteccherie della tradizione toscana che per spirito avanguardistico. La sfida di Enkai, invece, è riassunta dallo slogan “sushi e bevi”, un'idea molto personale di abbinamento che sulla miscelazione scommette per rinnovare l'idea del sushi bar. E all'idea di convivialità, con la voglia di lavorare bene ma senza prendersi troppo sul serio, inneggia pure l'insegna: in Giappone, enkai è il banchetto che sfugge dalla rigida etichetta del kaiten, interpretando il rituale del pasto – che nella cultura nipponica assume particolare rilevanza – in modo più scanzonato. Si celebra la festa del cibo, dunque, e si beve bene, in uno spazio che strizza l'occhio all'informalità e invita il commensale a divertirsi insieme a chi sta dietro al banco. Il progetto prossimo al debutto (inaugurazione prevista per il 29 aprile) unisce le competenze di Silvio Tempesti – sushi chef in arrivo da esperienze in Italia (Momoyama a Firenze) e all'estero (Londra, Monaco, Berlino, Copenhagen) – e Michel Granpasso Orlando, restaurant e bar manager, che da Enkai miscelerà i drink e si preoccuperà dell'accoglienza in sala. Milanese, ma fiorentino d'adozione, Michel vanta diverse esperienze di bartending in giro per il mondo, dallo Scarlatto di New York all'Hotel Continentale di Firenze, dove fino a gennaio è stato l'anima del Fusion Bar, presentando un'originale idea di mixologia in dialogo costante con la cucina d'autore. Proprio questa sua versatilità – forgiata pure dal periodo trascorso al Baest di Copenaghen, nel team di Christian Puglisi in qualità di restaurant e bar manager, e al fianco di Francesco Gasbarro alla Loggettina – sarà la chiave di volta di un'esperienza fondata sulla scoperta di abbinamenti nuovi e rivisitazioni inconsuete, sul versante della miscelazione come tra le proposte nel piatto.

Stile giapponese, prodotti del territorio

Dietro c'è la disponibilità di materia prima di grande qualità. A cominciare dal pesce, di provenienza mediterranea, selezionato tra piccole realtà di filiera corta: specifica, questa, che determinerà un'impostazione molto flessibile del menu, in base alla disponibilità delle catture, rinnovando l'immaginario del sushi oltre ai grandi classici (salmone, tonno, branzino), con proposte come gamberi di Mazara, molluschi, scampi. Accanto procederà l'offerta di terra, con carpacci, nigiri, tartare di carne Wagyu allevata in Emilia Romagna. Stessa attenzione al prodotto sul fronte della miscelazione, tra incursioni nella territorialità – la vodka biologica del Mugello VKA o il Vermouth bianco di Prato - e carta dei sake, whisky giapponesi e distillati di nicchia, come la vodka della Kamchatka aromatizzata allo snow crub. 28 coperti in tutto, ripartiti tra tavoli e banco, in uno spazio modulato sugli stilemi degli izakaya tradizionali di Osaka, ma con piglio contemporaneo.

Il menu, la miscelazione

Preparazioni a vista e voglia di trascinare gli ospiti in un'esperienza cha lascia spazio all'improvvisazione (la chiave in più per spingersi fino a Fiesole, finora poco attraente per chi è in cerca di emozioni gastronomiche, e anche questa sarà la sfida di Enkai), da vivere senza fretta. Si potrà ordinare alla carta, ma anche optare per una degustazione di portate proposte in sequenza secondo estro di barman e chef e disponibilità della materia prima, con prezzo variabile dai 35 ai 90 euro. Tutto giocato sulle declinazioni del crudo, come del resto le proposte in menu, che si presenta al debutto con nigiri di anguilla di Comacchio, teryiaki e mandorle; roll di asparagi e rapa rossa con corazzato di carne wagyu flambé; tartare di scampo reale, lamponi, pinoli, olio essenziale di agrumi di Sicilia; tartare di wagyu tagliata a punta di coltello con uova di quaglia.

E una sezione speciale ribattezzata Sushi e bevi che darà respiro all'inclinazione di Michel, giocando sulla commistione tra cocktail e cibo e sulle loro consistenze. Un esempio? Il sashimi di dentice con gelatina frizzante di gin tonic insaporita al timo. Tra i signature cocktail d'esordio il Sonic (VKA, acqua tonica, shiso e salsa di soia) e l'Oni Po, che mixa i prodotti di punta dell'Opificio Nunquam di Prato: OnlyJu gin, amaro e vermouth rosso. In alternativa una wine list altrettanto dinamica e divertente, breve ma ricca di spunti selezionati sul territorio italiano (con l'unica eccezione dello champagne Bruno Paillard), tra bollicine metodo classico, produzioni di nicchia, orange wines. Anche per l'aperitivo o il dopocena – si apre alle 18 e si va avanti fino all'1, per ora 5 giorni alla settimana – in accompagnamento a una proposta di sfizi crudi ideati giorno per giorno. Spesa indicativa per l'aperitivo tra gli 8 e i 20 euro.

 

Enkai Sushi e Bevi – Fiesole (FI) – piazza Mino, 12 – 055 0462784 - dal 29 aprile, dalle 18 all'1 - www.enkai.it

 

a cura di Livia Montagnoli

È morto Toni Salcuni della Tenda Rossa. La grande famiglia della ristorazione di Cerbaia perde una parte di sé

$
0
0

Insieme ai fratelli Maria e Michele negli anni Settanta fondava il ristorante di Cerbaia in Val di Pesa, diventato punto di riferimento delle grande ristorazione a conduzione familiare d'Italia. Precursore della pizza gourmet con il pallino della panificazione, al ristorante curava anche l'orto e per una vita si è preoccupato dell'approvvigionamento della materia prima. Scompare a 83 anni. 

 

Il clan della Tenda Rossa

La Tenda Rossa è un progetto di vita familiare. Lo è oggi, era così all'inizio degli anni Settanta, quando nel piccolo borgo di Cerbaia – San Casciano in Val di Pesa, nella provincia fiorentina fatta di colline, vigneti, aria buona e relax – i fratelli Salcuni davano inizio all'avventura di un ristorante legato a doppio filo all'albero geneologico di tre famiglie che intrecciano destini e passioni da oltre 50 anni. Maria, chef dal 1972, sposata con Silvano, sommelier, capostipite della “dinastia” Santandrea, che oggi prosegue con Cristian a Natascia, rispettivamente sommelier e pasticcera (lei è anche volto della comunicazione dell'insegna negli ultimi anni); Michele, sposato con Fernanda, chef a sua volta: la figlia Cristiana è anche lei diventata sommelier; e Antonio, una vita passata in cucina, sposato con Paola, una figlia, Barbara, pure sommelier. Ma anche Maria Probst, tedesca di grande personalità, che dal 2004 è in cucina alla Tenda Rossa (l'altra Maria, che ai fornelli c'è stata dall'inizio, è però ancora lì a supervisionare), e della grande famiglia allargata è entrata a far parte dopo il matrimonio con Cristian Santandrea. Questo significa far parte di un progetto di vita che nei decenni è diventato approdo sicuro della grande ristorazione italiana. Merito della perfetta ospitalità di chi conduce la casa, con fare rassicurante e benevolo, e pure di quella cucina che ha saputo rinnovarsi sulla traccia della tradizione rurale toscana (e non solo, visto l'ntreccio di provenienze del clan), forte dell'esperienza di un team al femminile che attraversa la storia della Tenda Rossa.

 

Addio ad Antonio Salcuni

Antonio, Toni per tutti, se n'è andato qualche ora fa, all'età di 83 anni, all'ospedale San Giovanni di Dio di Firenze. E oggi la famiglia della Tenda Rossa piange una colonna della sua storia, da sempre impegnato a sostenere l'attività con progetti che ne raccontano le molteplici inclinazioni: alle prese con la pizza “gourmet”, di cui è stato un precursore, già negli anni Settanta; affascinato dal mondo della panificazione; anima dell'orto del ristorante, di cui si è a lungo occupato: “Nei momenti liberi, mi divertivo a curare il mio orto, passione per la terra insegnatomi da mio padre! dove è possibile trovare tutt’ora vari tipi di erbe aromatiche, insalate di varie forme e colore, rigogliose zucche, zucchine con fiori, cetrioli ma soprattutto i pomodori, che possono arrivare a pesare anche quasi 1 kg”, ricorda sul sito del ristorante la breve scheda biografica che raccoglie le impressioni di Antonio sulle giornate trascorse per far crescere la Tenda Rossa. Con le sue incursioni al mercato di Novoli, di notte, per procacciarsi i prodotti più freschi: “Mi divertivo ad andare a Novoli al mercato centrale a scegliere frutta e verdura da acquistare. Almeno 5 notti alla settimana le dedicavo alla ricerca del pesce fresco al mercato: mi sono imbattuto più di una volta con pesci molto “arrabbiati” che mi scappavano da tutti le parti!”, prosegue il racconto. “Ci ha lasciato il nostro caro Toni”, scrive semplicemente su Facebook la famiglia della Tenda Rossa. E con loro molti lo ricordano con affetto.

Bordeaux En Primeur 2017. Appunti di degustazione

$
0
0

La semaine des Primeurs organizzata dall'Union des Grands Crus de Bordeaux (9-12 aprile 2018) è stata l'occasione per assaggiare in anteprima la produzione enologica del 2017. Ecco le nostre note di degustazione.

 

Si presenta in grande spolvero l’annata 2017 a Bordeaux: la semaine des Primeurs, organizzata dall'Union des Grands Crus de Bordeaux conferma la perfetta organizzazione e un rito che si rinnova con il coinvolgimento di addetti al settore e giornalisti che devono dare un giudizio su quella che sarà l’annata.

L'annata 2017

Riduzione della produzione a causa della siccità e clima non dei migliori, l'annata 2017 non è immensa, d’accordo, ma nemmeno tragica. Tanti vini saranno pronti prima del previsto, altri acquisiranno maggiore eleganza in mancanza di spessore. In certi casi, quando il corpo è più debole, gli eccessi di legno si fanno sentire ma quando si è lavorato senza strafare (nella maggior parte dei casi) siamo di fronte a vini bevibili. Per quanto riguarda i prezzi, non saranno stratosferici e dunque sarà l’occasione di bere indubbiamente bene a prezzi “umani”.

Graves

Château Ferrande - 90

Porpora impenetrabile, ovviamente, frutto molto espressivo, qui la prugna si unisce alla mora, ma il tocco di erbe aromatiche è invitante. Bocca succosa, fresca, di bella stoffa, emotivamente intrigante, rotondo e dolce sul finale

Château Rahoul - 89

Sommesso al naso, arriva docile alle narici la macchia mediterranea, poi al gusto si allarga senza eccessi, con un bilanciamento acido non indifferente. Non lunghissimo al gusto, trova al centro inusuale sapidità.

Graves Bianchi

Château De Chantegrive - 89

Non limpidissimo, d’accordo, ci può stare. Poi il naso citrico (o citrino?) , quindi le note di erba tagliata, la freschezza della mela verde. Insomma bello perché in bocca è sapido e convincente.

Château Ferrande - 86

Bello, limpido, luminoso: un paglierino con riflessi verdi mica male! I profumi variano tra tè e camomilla, poi esce la vaniglia. In effetti in bocca appare un po’ dolcione. Corretto rotondo, fresco, il suo lavoro lo fa.

Château Rahoul - 85

Limpidissimo, pallidissimo, con cenni verdi: non è grave si riprenderà! Perché il naso è intenso e vario, qui l’erba si mescola alle note di frutto bianco, a cenni appena mentolati. Bocca semplice.

Pessac Leognan

Château Bouscaut - 89

Lieve limpidezza alla vista, non così impenetrabile. Per il minerale, bisogna dirlo, qui ci siamo, con cenni di mirtillo e ribes che non sono proprio sgradevoli, poi quel tocco di tostato ci sta bene. Bella spinta in bocca, buona freschezza, invitante: senza offesa, anche beverino. E poi la durata conta.

Château Carbonnieux - 87

Porpora as usual, quindi note olfattive pulite, ovvero nitide con note di ciliegia, prugna e qualche cenno mentolato ben combinato. L’entrata lo trova cartonato (esatto, la sensazione del cartone), non subito espressivo, poi però si adatta e adegua. Diciamo che è ancora ritroso e dimostra potenza, i muscoli si devono sciogliere ma poi...

Domaine De Chevalier - 90

Porpora chiaro, si scorge bene un po’ di limpidezza. Un po’ caramella al naso, anche note di confetto, poi la vaniglia, qualche cenno di lampone: variegato insomma. L’ingresso è molto fluido, il tannino accennato, scorrevolissimo, poi prosegue nel ricordo gusto-olfattivo a lungo.

Château De France - 86

Porpora bello vivace. Ecco che il naso si sveglia per note spiritate: ciliegia sotto spirito ovviamente, poi qualche cenno tostato, anche un tocco di caffè. Al gusto è curioso, non consueto, fresco e nervoso, tannino appena eccessivo: ne risente un po’ il finale.

Château Larrivet Haut Brion - 91

Impenetrabile e poi, senza offesa, all’inizio sembra quasi di sentire la salamoia delle olive. Solo un accenno perché dopo si innalza, tira fuori un frutto notevole, si arrampica su erbe aromatiche come timo e alloro. La bocca è scorrevole, gustosa, invitante, il vino cerca la gola ma si posa…

Château Latour Martillac - 90

Sempre il porpora abituale, al naso sentori di caffè, a cui si uniscono la cioccolata e la frutta fresca ben calibrata. Bocca fluida, ingresso gentile e poi prende spazio, senza strafare. In bocca si mostra ben caratterizzato, agile e tranquillo.

Château La Louviere - 92

Sulla tonalità porpora la vista, il tormentone: un esame olfattivo che parte da note fresche mentolate balsamiche, poi il frutto si fa strada quasi fossimo in una macchia: more, ribes, mirtillo. Solo alla fine la prugna. Il gusto è moderato, impostato, calibrato. Chiude appena veloce ma con tannini rimarchevoli (in francese viene meglio: remarquables).

Château Malartic Lagraviere - 87

Non si fa scoprire, né alla vista perché impenetrabile, né all’olfatto perchè un po’ scontroso. Fatica la frutta a emergere, così come il mondo vegetale. La bocca segue la scia, appena ostica ma promette tante belle cose per il futuro.

Château Olivier - 87

Luminoso alla vista, poi si esprime bene al naso: fruttato regolare, composto, preciso, dai frutti di bosco alla ciliegia. Al gusto tende a trovare la gola, fresco, appena diluito, non fugace però: chiude con grande tranquillità.

Château Pape Clement - 92

Alla vista, che mostra una fittezza di colore incredibile, si unisce un bouquet non solito: quindi fiori (sì, fiori!) come viola, erbe aromatiche come la menta, quindi frutti di bosco come il ribes, nero of course. Al gusto si allunga e si allarga, diverte, fresco e delicato, vivace e integro. E non finirà qui..

Château Picque Caillou - 90

Vedere si fa vedere bene, anche attraversare. Poi le note olfattive sono riconoscibili e quindi si mostra nella sua interezza: il lampone, la ciliegia la fragola pure, con qualche tocco speziato non indifferente. Gentile la morbidezza in bocca, succoso al gusto. Si comporta bene fino in fondo.

Château Smith Haut Lafitte - 91

Colore bello tosto, che al naso si traduce con note vivaci. La carne fa capolino appena, poi la terra con fiori di campo e qualche bacca sparsa. Bello il tannino che tiene unito il tutto senza aggredire la bocca. Finale in crescendo.

Bianchi

Château Bouscaut - 86

Pulito e pallido, un po’ velato. Poco espressivo al naso, si nasconde eccome, per poi far scorgere qualche elemento vegetale come la camomilla e un tocco di miele. Finisce morbido e divertente.

Château Carbonnieux - 86

Sempre velato ma è il momento. Poi spara una serie di idrocarburi ma non in maniera troppo violenta, quindi il limone. In bocca un po’ la freschezza si fa sentire. È caldo e succoso, sodo. Chiude bene, solo un po’ freddo.

Domaine De Chevalier - 89

Bello pulito, luminoso, insomma gradevole. Naso floreale e fruttato, poi il tè speziato, quindi la camomilla, il miele e che diamaine, la confettura di limone! In bocca: caldo e morbido, avvolgente, cremoso. Dura, eccome se dura.

Château Larrivet Haut Brion - 90

Se il colore verdolino significa qualcosa, il naso deve essere divertente. E in effetti lo è: vivace, chiaro, potente, netto. In bocca dimostra gradevole sapidità e inarrivabile freschezza.

Château Pape Clement - 89

Pallido ma di carattere. Stile invitante al naso, vuoi non avere felce erba e limone combinati? Bocca sapida, larga godibile e lunga. Il finale è in progressione, bella sparata.

Château Picou Caillou - 88

Pallidissimo, naso vivace e pieno, qui le note delicate di fiori bianchi (forse margherite) e di lici, poi albicocca. Bocca calda e succosa. Finale medio.

Château Smith Haut Lafitte - 90

Pallido alla vista ma il naso conquista. È caldo, pieno, sodo, complesso, ci sono elementi speziati ma anche tanto verde. Bocca piena e gustosa. Finale lungo.

Saint Emilion

Château Balestard La Tonnelle - 91

Se il porpora è abituale, non lo è di certo il profumo: qui impera il salmastro, lo iodato. È davvero divertente. Solo dopo arriva la macchia mediterranea e qualche frutto d’ordinanza come la prugna. In bocca si sostiene allegramente, è fresco e potente, si fa bere volentieri e a lungo.

Château Berliquet - 86

Se il porpora vira al bluastro, è quasi naturale attendersi tanto vegetale al naso. Erbaceo ma anche qualcosa di peperone. Il corpo è leggero, esile, un po’ marcato l’elemento tannico, la freschezza però domina. Chiude senza urla, non male.

Château Canon - 89

Bello e accogliente il colore porpora vivo, accomodante il profumo di frutti di bosco, poi la ciliegia e la prugna a completare. Spezia solo accennata, con chiodi di garofano a farsi appena sentire. In bocca si espande senza strafare, tranquillo e composto al suo posto.

Château Canon La Gaffeliere - 90

Porpora bluastro e note di cetriolini sottaceto…solo per partire, poi quella nota di mare che si fa strada diverte, perché da spazio anche al sentore vegetale di alloro. In bocca è ampio, succoso e vivo. Il finale s’inerpica in piacevolezza.

Château Cap De Mourlin - 85

Porpora vivace e al naso, se si chiudono gli occhi, sembra di stare casa della nonna: cassapanca lucidata da poco, frutti di bosco, vaniglia, cocco. Un po’ tanto per un corpo che fatica ad accettare tutto questo. Finale lungo.

Château La Couspaude - 85

La vista corrisponde all’olfatto: pienissimo e denso, concentrato nei profumi di confettura già evidente, dalle more alle prugne, con qualche tocco speziato un po’ in risalto, come vaniglia e cannella. Corpo cicciotto, freschezza presente, si sviluppa un po’ con fatica ma regge.

Château La Dominique - 85

Il viaggio si fa scuro..oppure oscuro? Selva del bosco, legno tostato e caffè a completare. In bocca è complementare, quindi denso, pieno, rilassato e largo. Si chiude con tranquilla levità. Finale un po’ alle corde.

Clos Fourtet - 85

È un percorso in montagna: prima un colore acceso, poi il ricordo del muschio, quindi del ginepro, poi anche un solitario casuale cenno di tabacco, ma è più sottobosco. In bocca è succoso e ampio, una freschezza che bilancia, un finale un po’ esile.

Château Franc Mayne - 88

Se il colore è intenso, lo sarà anche il profumo? Qui il peperone verde fa capolino, poi però si mescola in maniera creativa al cioccolato e al caffè, poi c’è il frutto fresco. In bocca è succoso, caldo e articolato, tannino si fa sentire sul finale. Piacevole e gustoso.

Château Grand Mayne - 89

Bel colore potente e deciso. Naso intenso e vivace, dove i frutti neri si fanno strada: ribes e mirtillo sono protagonisti. Poi la felce, sì quella del bosco, un po’ di mentuccia, quella da mettere nei carciofi. Al gusto si mostra ampio e morbido, appena cremoso. Finale rilassatissimo.

Château Larcis Ducasse - 89

Colore bellino e composto. Naso “perfettino” e ben congegnato: al frutto si abbina il caffè e il tostato. In bocca: caldo, ampio, largo e succoso. Il finale è gradevole e lungo.

Château Pavie Macquin - 91

Già potente e deciso alla vista. Naso fresco, invitante, pieno dove il potpourri floreale domina sia nei fiori che nei frutti. Poi la spezia emerge. In bocca è caldo e sodo, succoso, largo e denso. Finale in crescendo.

Château Soutard - 85

Bel viola intenso. Non è molto chiaro cosa voglia dire al naso: si nasconde, si chiude, poi prova a far venire fuori l’erbetta di campo, quindi la terra. Insomma, si rende piacevole in bocca ma non riesce ancora a fare l’ingresso in società.

Château Troplong Mondot - 88

Il viola impenetrabile fa da trampolino alla parte verde del frutto. Al naso è caldo con i sentori di peperone grigliato, ma anche la prugna un po’ acerba, quindi caffè e tostato. In bocca si dimostra saldo e succoso. Finale medio e invitante.

Château Trotte Vieille - 89

Il colore della normalità (il porpora); il profumo della consuetudine (i frutti di bosco, la parte fresca erbacea e qualche cenno di spezia). La bocca lineare, succosa, tannini lievi, è il finale che conquista nella sua semplicità.

Château Valandraud - 90

Porpora di bella intensità. Poi il naso fruttato da manuale, quindi ribes, lampone e fragola in primis, spezie da drogheria come vaniglia, chiodi e cannella. In bocca morbido e sereno, rilassato. Finisce un po’ veloce ma soddisfa.

Château Villemaurine - 88

Porpora fittissimo. Naso tostato, caffè, cuoio, sembra cupo ma in realtà risulta espressivo. In bocca: caldo lo è, morbido pure, solo il finale lo trova appena affaticato ma è solo un attimo.

Pomerol

Château Beauregard - 86

Se il colore significa qualcosa per il naso: all’impenetrabile si associa il caffè appena tostato, poi il peperone verde, quindi la frutta fresca. In bocca tutto si combina in maniera un po’ variegata. Cicciotto e appena stucchevole. Appena affaticante sul finale ma gradevole.

Château Le Bon Pasteur - 91

Intenso al colore ma il naso non risulta eccessivo. Fresco e vivace, delicato, perché il frutto si combina alla spezia. Erbe aromatiche variegate, qui timo e rosmarino, poi una bocca articolata e divertente. Finale in crescendo bello.

Château La Cabanne - 85

Colore deciso, bella evidenza, al naso frutti amalgamati alle spezie, confetture assortite, con una bella varietà di aromi. Solo che la bocca si stanca di questa concentrazione, della pienezza. Buono ma da gustare con calma.

Château Clinet - 87

Porpora, fittissimo e pieno. Naso di bella freschezza, qui la parte olfattiva si dimostra corretta e agevole ma non così varia: erbe e fiori, con il frutto che arriva dopo. In bocca: caldo, corretto, piacevole. Finale medio.

Château La Croix de Gay - 90

Porpora, fittissimo. Naso bello e ampio, con il caffè ben bilanciato dal tostato del legno. Bocca soda e succosa, elegante e piena. Finale in crescendo notevole, invitante.

Château Gazin - 85

Porpora fittissimo. Naso di grande intensità, fruttato, ampio, armonioso, caldo. In poche parole statico. Finale medio.

Château Rouget - 90

Porpora, intenso. Naso di bella freschezza, peperone, erbaceo, note olfattive particolari fruttate, ma simpatiche (anche loro possono esserlo). Bocca calda avvolgente, tannini piccoli. Finale in crescendo.

Listrac Medoc

Château Clarke - 86

Porpora come si conviene. Vinoso - parola antica che riappare - adeguata al contesto, che integra poi frutti neri e qualche elemento erbaceo. Bocca fluida, vivace in freschezza, tannini sempre ben levigati. Il finale è docile e sereno.

Château Fonreaud - 84

Se il porpora ti mette in testa elementi freschissimi, il naso ti riporta a caffè e cioccolato. Poi il frutto scompare. In bocca l’apporto del legno è notevole, un po’ invadente, nonostante trovi larghezza risulta un po’ stucchevole. Il finale è piccolo e sereno.

Château Fourcas Dupre - 87

Porpora e naso fresco di un bel fruttato, nitido, con prugna e ciliegia in abbinamento. In bocca: sereno all’ingresso, fluido, tannino accennato, sottile con grazia. Finale non immenso.

Château Fourcas Hosten - 88

Qui il colore corrisponde al profumo: vivace e allegro, naso di frutti piccoli speziati, elegante, intrigante, ben amalgamato. In bocca: soffice, delicato, ben integrato il tannino a un corpo solido ma non imperioso. Finale in crescendo.

Moulis en Medoc

Château Chasse Spleen - 89

Porpora che mostra un mondo olfattivo particolare, dove il minerale si unisce alla terra, al cuoio e al mondo vegetale. Solo sul finale compare il frutto come ribes. In bocca lieve e succoso, docile, sottile ed elegante. Finale lungo e disteso.

Château Maucaillou - 86

Sul colore ondivago tra bluastro e porpora si innalza un profumo dove i frutti di bosco sono i dominatori in un ambito però di confettura, appena maturo. Infatti la bocca è appena stancante, poco fluida. Finale medio

Château Poujeaux - 87

Un po’ ombroso, non ha voglia di parlare subito al naso: già il colore lo faceva presagire. Poi arriva il sottobosco, le erbe fini, qualche cenno fruttato, in maniera equilibrata. Bocca saporita, molto acidula, brillante ma sottile. Finale medio.

Château La lagune - 89

Sul porpora elettrico si innesta un odore di minestrone: solo un attimo però il mondo vegetale domina, con un frutto che è in via di formazione. Bocca calda e succosa, fresca e lieve. Finale invitante e pieno.

Château La Tour Carnet - 90

Qui si impara il sentore del peperone verde per quanto domini il bagaglio olfattivo. Poi il resto arriva, con calma e senza fretta, soprattutto arrivano i frutti di bosco. È in bocca che convince di più: gustoso, valido, pieno, regala un finale ricco di speranza.

Château La Tour de By - 82

Entrare nel bosco quando ha smesso di piovere da poco: questo è il profumo dominante, un vegetale terroso notevole. Poi la bocca si dimostra iperdiluita, scorrevole, dai tannini poco setosi, anzi, pesantini. Peccato che il tutto risulti frenato.

Margaux

Château Brane Cantenac - 90

Intrigante quel profumo misto di lamponi fragole e ribes al naso: corrisponde al colore porpora lieve. E poi la bocca soffice e leggera, beverina ed equilibrata, lunga e succosa Insomma: invitante.

Château Cantenac Brown - 90

Porpora deciso. Naso fresco, speziato e invitante, composto ed equilibrato, con vaniglia e chiodi di garofano in egual misura. Poi il frutto deciso, la struttura morbida e lieve, che consegna il piacere della beva. Un finale elegante e leggero.

Château Dauzac - 91

Se il viola indica gioventù, il naso conferma: intensità incredibile di fiori e frutta fresca, poi il mondo vegetale. La bocca è ricca e piena, è succosa, acidula quanto basta, con tannino integro e calibrato. Il finale è appetitoso.

Château Desmirail - 82

Un viola denso che presuppone una botta di legno? Sì, capita. Vaniglia e tostato dominano, a dire il vero sono un po’ troppo prevalenti. Poi la bocca: morbida ma piaciona, poco intrigante. Finisce fresco e delicato.

Château Durfourt Vivens - 91

Il colore è bilanciato, non un porpora smaccato; il naso è elegante, fine, senza eccessi. Note minerali, poi pietra, poi cuoio, poi frutti di bosco. In bocca saldo e succoso, elegante e pieno. Termina piacevole e in crescendo notevole.

Château Ferriere - 90

Porpora deciso. Naso dove la pietra si fa viva, la terra le fa compagnia, la macchia mediterranea accenna la sua presenza. Poi il corpo: delicato e fluido, solo un po’ ritroso sulla parte tannica. Il gusto è delicato e armonico. Finale corretto.

Château Giscours - 90

Occhieggia bene sul lato porpora: frutto delicato e fresco, invitante. Al naso è semplice, con ribes, lampone e la ciliegia ovviamente. Poi tocchi di profumo speziato: cannella soprattutto. Agevole al gusto, delicato ma bello. Finale invitante.

Château Kirwan - 90

Bello il colore luminoso porpora. Intrigante la parte fruttata, che poi spazia in una macedonia di frutti neri: buoni. Ma la bocca è particolare: densa ma fresca, tannini regolati con cura, il finale la porta a un bel successo.

 

a cura di Leonardo Romanelli

 

BCC Innovation. Il Basque Culinary Center si candida a diventare il primo centro tecnologico di gastronomia nel mondo

$
0
0

Sulla formazione e la ricerca gastronomica il Basque Culinary Center ha puntato sin dal 2011, quand'è stato fondato alla periferia di San Sebastian. Un moderno centro concentrato sull'avanguardia gastronomica, che ora battezza una sezione completamente votata all'innovazione alimentare. 

Basque Culinary Center. Un centro d'eccellenza gastronomica

È il primo centro tecnologico di gastronomia nel mondo quello inaugurato nel Paesi Baschi un paio di giorni fa. E dove, se non nella fucina del Basque Culinary Center di San Sebastian? Terreno fertile per la sperimentazione, riconosciuta nel mondo tra le regioni che più hanno influenzato l'avanguardia gastronomica negli ultimi 20 anni, la comunità basca ha visto nascere proprio a San Sebastian il primo congresso gastronomico internazionale ideato come spazio di confronto tra gli addetti ai lavori (era il 1998); tra un paio di mesi, invece, Bilbao ospiterà per la prima volta la cerimonia di premiazione della World's 50 Best Restaurants. Nel frattempo i riflettori si concentrano ancora una volta sul centro di ricerca e formazione fondato nel 2011 alla periferia della celebre località costiera conosciuta per la suggestiva spiaggia della Concha, per i suoi ristoranti gourmet, per l'incredibile varietà di pintxos bar del centro storico, affollati a ogni ora del giorno. L'ultimo traguardo raggiunto dal centro, da anni promotore di iniziative e attività che favoriscono l'innovazione e lo scambio di conoscenze tra professionisti in arrivo da tutto il mondo, si chiama BCC Innovation, e vede al lavoro una squadra di 25 persone che investiga sulle priorità della scienza gastronomica del XXI secolo, attenta alla sostenibilità, alla qualità e alla sicurezza alimentare, alla salute e al benessere, ma pure allo sviluppo economico. La progettualità del centro è stata ufficializzata solo qualche giorno fa, anche se, all'interno dell'istituto – conosciuto finora soprattutto per le sue attività formative – un settore dedicato alla ricerca tecnologica è esistito sin dall'inizio. Ora però c'è il desiderio di essere riconosciuti a livello internazionale e istituzionale, al pari di altri centri tecnologici dei Paesi Baschi, ma con specifico indirizzo sull'innovazione gastronomica.

 

BCC Innovation. Ricerca e sostegno alle imprese

Il sostegno alle imprese che investono nell'innovazione gastronomica è solo uno degli obiettivi del centro (espletato anche tramite l'acceleratore Culinary Action), le cui attività saranno ora integrate nella rete basca di scienza, tecnologia e innovazione, in collaborazione con la Facoltà di Scienze Gastronomiche dell'Università di Mondragon. E la strada è già ben tracciata dal lavoro fatto sin qui: nel 2017 il Basque Culinary Center ha collaborato con 40 realtà d'impresa e istituzioni per sviluppare progetti innovativi sostenendo il settore dell'industria alimentare e della ristorazione basca (tra le operazioni più riuscite il perfezionamento di un hamburger di soia che per sapore e struttura ricorda da vicino la carne). Poi c'è l'indagine più pertinente all'operatività di cucina, la ricerca sulle fermentazioni, lo sviluppo di nuove tecniche di cottura, il lavoro sugli usi alternativi degli ingredienti, il fondamentale discorso sul riuso di scarti alimentari. O il lavoro sulla percezione e i gusti del consumatore, inclusa l'indagine sui ricordi gustativi. L'intenzione è quella di incrementare gli sforzi, per favorire la crescita di un settore che il direttore del BCC Joxe Mari Aizega non esita a definire “fondamentale per l'economia basca e spagnola”. Al tempo stesso il Centro punta a proporsi con forza sempre maggiore come punto di riferimento internazionale per la ricerca gastronomica, interpretando un concetto più ampio di scienza gastronomica, fondato sull'integrazione di più discipline. A questo scopo , già nel 2016, è nata la piattaforma condivisa Project Gastronomia (che coinvolge anche il Mit e il ristorante basco Azurmendi), che qualche giorno fa ha portato a Londra 10 esperti da tutto il mondo per discutere sugli scenari del cibo nel 2050; e molte sono le sfide che vengono prese in considerazione per migliorare il futuro dell'alimentazione.

 

a cura di Livia Montagnoli

Il Diploma d'Argento. Pandolea e Gambero Rosso insieme per l'extravergine degli istituti agrari

$
0
0

Un concorso che premia l'olio prodotto dagli istituti agrari italiani: in 15 hanno superato le selezioni di Oli d'Italia del Gambero Rosso. Ci raccontano l'esperienza. 

 

Abbiamo un patrimonio ma lo conosciamo poco. La squadra dei circa 300 istituti agrari - di cui oltre un centinaio sono storiche realtà ben radicate sul territorio e nella tradizione - formano una compagine sempre più attenta alla formazione dei futuri agricoltori (ma anche tecnologi alimentari, veterinari ed enologia) e alla sostenibilità delle pratiche agricole. Uno spaccato abbastanza rappresentativo di questa realtà l’abbiamo toccata con mano alla consegna dei premi per il concorso Diploma d’Argento, voluto da Pandolea-donne dell’olio in partnership con Gambero Rosso e Re.N.Is.A. Rete Nazionale degli Istituti Agrari.



Diploma d’Argento

Il concorso è dedicato agli oli extravergine prodotti dagli istituti agrari italiani: sono stati in 15 a superare le selezioni (lo scorso anno sono stati 11) del panel di degustazione della guida Oli d’Italia del Gambero Rosso. Ad accogliere prof e studenti dei 15 istituti c’era il Direttore Generale del MIPAAF (ministero dell’Agricoltura) Felice Assenza che li ha accolti nella preziosa sala Cavour. Un gesto importante da parte del “padrone di casa”: un gesto simbolico, ma anche ben concreto. Infatti il direttore ha voluto fare un saluto sintetico, ma pieno di sostanza: ha toccato i principali nodi cruciali del settore agricolo e dell’olivicoltura in particolare evidenziando l’importanza dell’aumento di produzione (perché in sostanza – per il fabbisogno interno e per la produzione industriale – ne importiamo una quantità pari a quella che produciamo), dell’attenzione e della presenza sui mercati esteri e – quindi – della necessità di fare massa, di mettersi insieme, di fare fronte comune da parte degli agricoltori, partendo dalle organizzazioni di categoria che devono puntare ad unirsi e non a frammentarsi.

 

Olivicoltura: la lezione del Mipaaf

A questo proposito basta pensare che le circa 900mila aziende agricole italiane hanno circa 1,3 ettari di superficie a disposizione in media: una realtà che fa pensare all’artigianato e che per diventare influente deve saper aggregarsi. Poi, e non ultimo, il tema della qualità: fondamentale per affermare il made in Italy.

È proprio sul fronte della qualità che gli istituti agrari hanno accettato la sfida partecipando al concorso Diploma d’Argento: prof e studenti (ma anche presidi e tecnici) hanno scelto di sottoporsi al giudizio di un panel terzo e di accettare il verdetto; ma anche di confrontarsi con gli altri colleghi da tutt’Italia. Un passo importante verso l’aggregazione e lo scambio, che ben fa sperare per il futuro dei nostri agricoltori. A guardarli da vicino, questo istituti agrari non sono delle “semplici” istituzioni scolastiche: sono realtà piene di storia e di spessore, che gestiscono importanti aziende agricole e in cui l’obbligo dell’alternanza scuola-lavoro sembra trovare una dimensione idilliaca.

 

La prima scuola agraria d’Italia a Todi

Stefania Muti, insegnante di matematica al Ciuffelli Einaudi di Todi, spiega come lavorano: “Quest’anno abbiamo voluto incrementare molto le attività di laboratorio basate sulla scelta dei ragazzi e ciò ha avuto molto successo e partecipazione”. Gli fa eco uno dei ragazzi, Emanuele Colopardi, 19 anni, ospite del convitto, venendo lui da Caprarola (VT), terra di nocciole oltre che di olivi: “Sono felice di questa scelta. È il modo migliore per approfondire l’attività manuale che a me interessava. Quest’anno poi la riduzione dell’ora di lezione da 60 a 50 minuti ci ha permesso di inserire 3 ore in più al giorno per fare laboratori ed esperienze in campo: io ho scelto la potatura sia della vite che dell’olivo”. Questa di Todi è un’esperienza importante in Italia. Giampiero Scassini, docente di scienze e tecnologie, è orgoglioso dell’istituto: “Abbiamo un piccolo frantoio sperimentale. E facciamo fare ai ragazzi esperienza su tutta la filiera: dalla cura delle 500 piante d’olivo fino alla produzione di extravergine. E curiamo all’interno della scuola anche la parte chimica, con un piccolo laboratorio di analisi”. Non è un caso, quindi, che abbiano vinto il primo premio con un punteggio di 92: Tre Foglie piene se fossero stati in guida! Ma la realtà di Todi non è solo in campo. “I ragazzi sono stati coinvolti anche nella commercializzazione del nostro olio– sorride Gilberto Santucci, responsabile dell’azienda agraria dell’istituto umbro – Nel nostro frantoio si moliscono anche le olive prodotte da una fattoria sociale, anch’essa legata alla scuola, e di una fattoria didattica annessa: così anche gli olivi che abbiamo in cura aumentano. Si tratta di situazioni complesse e varie cui i ragazzi partecipano nell'alternanza scuola-lavoro. Hanno partecipato anche al progetto di recupero di un grande oliveto sequestrato nel corso di indagini per corruzione, i cui proventi sono andati a organizzazioni che lavorano nel sociale. Grazie al MIUR, poi, partecipiamo anche al recupero di un’antica corte contadina in cui faremo 900 metri quadrati di laboratori per la trasformazione agroalimentare: un progetto territoriale perché è aperto anche alle aziende agricole della zona e a corsi di professionalizzazione e specializzazione per adulti e non solo per gli studenti dell’Istituto”. Così lavorano nell’azienda agricola del Ciuffelli-Einaudi di Todi che scopriamo essere la prima scuola agraria dell’Italia unitaria: nasce infatti nel 1863.


A scuola di qualità e sostenibilità

Esce fuori, insomma, un racconto di esperienze importanti da questa piccola graziosissima sala-parlamentino del Mipaaf, tutta affrescata in stile Liberty e dalle calde luci e boiserie che fanno pensare davvero a uno spazio del periodo in cui all’agricoltura del Paese ci pensava Camillo Benso Conte di Cavour. Ma se allora erano i Sabaudi a tirare il carro italiano, ora le diverse realtà hanno assunto coscienza dei propri tesori e i ragazzi cominciano ad apprezzarli, a conoscerli e a lavorarli nelle scuole. Così fanno a Roma, presso l’Itas Garibaldi. “Noi abbiamo un bell’oliveto che si compone di diversi pezzi dove gli olivi sono stati messi a dimora fin dalla metà dell’800 – spiegano Attilio Ferraiolo e Franco Monti, rispettivamente insegnante di biotecnologie e coltivazioni vegetali e direttore dell’azienda agricola dell’Istituto – Oltre a Frantoio e Leccino, abbiamo diverse varietà particolari coma la Marina e altre cultivar piccole e molto verdi, tarde a maturare e ad annerirsi, che dobbiamo ancora verificare di che tipo siano: quest’anno, per esempio, ci hanno salvato proprio queste olive che hanno dato ai 20 quintali di extravergine che abbiamo prodotto degli importanti profumi e caratteristiche organolettiche fresche e vitali. I ragazzi nell’alternanza scuola-lavoro seguono tutte le fasi della lavorazione: il prossimo anno dovremmo riuscire a realizzare anche dei silos di stoccaggio delle singole moliture per poter fare lezione sui blend, sugli oliaggi. E abbiamo vinto un progetto per l’innovazione grazie al quale avremo a breve un nuovo frantoio in cui poter sperimentare la frangitura a ultrasuoni e particolari tipologie di gramole”.

L’accento sull’importanza delle nuove tendenze “verdi” lo mette Valentina Guarnieri, insegnante di chimica e trasformazione dei prodotti all’Iis Bettino Ricasoli di Siena: “I ragazzi sono molto motivati e molto sensibili ai temi della sostenibilità sia ecologica che energetica. Oggi, poi, rispetto a 20-30 anni fa, abbiamo molti più studenti: sono circa 400, rispetto al centinaio degli anni ’80. E sono giovani molto motivati che in larga parte provengono da famiglie di agricoltori del Senese, di Firenze e del Grossetano: ragazzi molto attenti e che hanno in casa propria un ulteriore laboratorio in cui fare esperienza. ma anche qui a scuola facciamo tanta attività in campo. E oggi, poi, non è più un classico istituto professionale dei vecchi tempi: oggi si boccia se non si studia! Le classi al primo anno sono di 30 persone e alla fine ne restano una ventina. Solo 4 su 20 studenti sono donne ed è un peccato! Ma il mondo legato alla terra si sta trasformando e sta crescendo molto”. Lo speriamo anche noi. E fanno ben sperare sia le parole del direttore generale del ministero, sia le storie di questi ragazzi e dei loro prof: parlano di un’altra agricoltura possibile, sulla strada della qualità e della sostenibilità, con l’occhio ben attento alla tradizione ma anche molto curioso verso il futuro.

 

Gli extravergine “promossi”

Gli istituti che hanno partecipato al concorso Diploma d’Argento e hanno superato il giudizio di Oli d’Italia del Gambero Rosso: i loro oli e le loro aziende sono il filo conduttore della prossima rubrica di giugno del mensile Gambero Rosso in edicola a fine maggio.

 

 

Il podio


Monte Cristo - Iis Ciuffelli-Einaudi - Todi (PG) - isistodi.it

 

Olio Extravergine di Oliva - Ipaa Benito Ferrarini - Sasso Marconi (BO) - istitutoserpieri.gov.it

 

Tenuta San Paolino - Isis Paolino d’Aquileia - Cividale del Friuli (UD) - paolinodaquileia.gov.it

 

Gli altri classificati

Iis Stefani Bentegodi - Isola della Scala (VE) - stefanibentegodi.gov.it

Itas Giuseppe Pastori - Brescia - itaspastori.gov.it

Itas Dionisio Anzilotti - Pescia (PT) - agrariopescia.gov.it

Iis Giuseppe De Gruttola - Ariano Irpino (AV) - iisgdegruttola.it

Itas Giuseppe Garibaldi - Roma - itasgaribaldi-roma.gov.it

Iis Bettino Ricasoli - Siena - iisricasoli.it

Ita Nicolao Brancoli Busdraghi - Mutigliano, Lucca - politecnico.lucca.it

Iis Fanfani–Camaiti - Pieve Santo Stefano (AR) - isiscamaiti.it

Isiss Scorciarini-Coppola - Piedimonte Matese (CE) - isissmatese.it

Istituto Principi-Grimaldi - Modica (RG) - issgrimaldi.gov.it

Iiss Presta–Columella - Lecce - istitutocolumella.it

Iis Riccardo Lotti–Umberto I - Andria (BT) - iislotti.gov.it

 

a cura di Stefano Polacchi

 

Viewing all 5335 articles
Browse latest View live