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Cultural 2018. Il festival gastronomico che celebra la cucina italiana a Parigi

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Chef, produttori, sommelier, viticoltori, pizzaioli. Tutti italiani, tutti coinvolti nel festival che promuove i valori della cultura italiana a tavola oltreconfine. Appuntamento al Bastille Design Center dal 7 al 9 aprile, tra masterclass e cene d’autore.

 

Il festival

Quinta edizione per Cultural, manifestazione parigina dedicata alla cultura alimentare italiana, con oltre 80 ospiti d'eccezione fra chef, produttori, panificatori, pasticceri, e tanti altri protagonisti della ristorazione e gastronomia tricolore, alle prese con masterclass, seminari e degustazioni. Per una tre giorni, dal 7 al 9 aprile, all'insegna del gusto italiano negli spazi del Bastille Design Center. Il gemellaggio con la capitale francese, voluto da Mauro Bochicchio con l’organizzazione di Consortium Paris, torna così a confermare quanta stima reciproca, a dispetto degli stereotipi, corra tra due universi gastronomici diversi, ma affini: Italia e Francia unite nel segno della cucina d’autore e della filiera certificata. L'obiettivo? Trasmettere i principi della dieta mediterranea,oltre a promuovere le eccellenze gastronomiche e i nuovi mercati capaci di alimentare l'economia locale.

I protagonisti

20 masterclass e più di 400 prodotti: questi i numeri della manifestazione, che chiama a raccolta gli addetti ai lavori per presentare al pubblico francese e non solo i migliori prodotti made in Italy. Tema di questa edizione è la Ricerca, intesa come sviluppo e crescita qualitativa del settore. Michele Farnesi (Restaurant Dilia), Bruno Verjus (Restaurant Table), Mauricio Zillo (Amère), Denny Imbroisi (Restaurant Ida), Denis Matteuzzi (Café Stern), Pablo Sabariego (L'Assaggio): sono solo alcuni dei nomi dei professionisti presenti al festival, che durante la kermesse gastronomica si confronteranno sul concetto di ricerca, attraverso seminari, dibattiti e forum. E poi i pizzaioli Nicola e Emanuele Iovine della pizzeria Iovine's, Julien Serri, Vanni Mauro. E ancora, in arrivo dall'Italia, Caterina Ceraudo del Dattilo di Strongoli, Felice Lo Basso dell'omonimo ristorante a Milano, Diego Rossi di Trippa, Stefano Di Gennaro del Quintessenza di Trani, Angelo Sabatelli di Angelo Sabatelli a Putignano, Paolo Barrale del Marennà di Sorbo Serpico, Federico Sisti dell'Antica Osteria Il Ronchettino di Milano, il pizzaiolo Luigi Acciaio e Vincenzo Barreca di Regina Margherita a Napoli.

Il programma

Un'occasione unica per scoprire l'universo gastronomico italiano visto con gli occhi dei nostri cugini d'oltralpe, ma anche per imparare, assaggiare, mettere le mani in pasta. Ci saranno Molino Quaglia e Molino Magri con le sessioni dedicate all'arte bianca, durante le quali sarà possibile apprendere i fondamenti degli impasti, e poi l'area dedicata al caffè. Alta attenzione sarà riservata soprattutto al tema dell'educazione alimentare, uno degli argomenti più caldi del settore, che sarà affrontato con un laboratorio speciale domenica 8 aprile, condotto da uno staff specializzato in collaborazione con Matite Colorate – L'Italien à Paris. Un'attività dedicata a grandi e piccini, dove si parlerà di spreco alimentare, cucina, riciclo e ricette di recupero.


Cultural – Parigi – dal 7 al 9 aprile 2018 - www.culturalfestival.eu/
 

a cura di Michela Becchi


Cucina di casa. Le salse: Besciamella, Salsa béarnaise, Pearà e Salsa verde

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Quattro salse che è bene conoscere quando si cucina a casa: besciamella, salsa béarnaise, pearà e salsa verde.

 

Dopo le ricette regionali, facilmente replicabili a casa, vi sveliamo i segreti di quattro salse che è bene conoscere se si vuole iniziare a cucinare a casa: besciamella, salsa béarnaise, salsa olandese, pearà e salsa verde.

Besciamella

Nonostante l'origine francese, la besciamella è una delle salse basilari della cucina italiana. Ci sono diverse versioni, per esempio l'Artusi (che la chiamava balsamella) proponeva una variante senza spezie; in ogni caso il punto di partenza è il roux bianco, un impasto fatto con burro e farina cotti. Per quanto riguarda le dosi degli ingredienti, cambiano a seconda dell'uso che se ne vuole fare: se si utilizza la besciamella in uno sformato occorre diminuire un po' la quantità di latte per averla più densa, mentre se si intende usarla per piatti da gratinare in forno, si dovrà impiegare meno farina. Anche per fare delle crocchette di carne o di verdura la besciamella dovrà essere soda e consistente e, per legare una minestra o una crema di verdure si può sostituire il latte con il brodo di carne sgrassato.

Ingredienti

50 g di burro

50 g di farina

½ l di latte

Sale e pepe bianco

Facoltativa: noce moscata

Scaldate il latte. Fate sciogliere il burro in una piccola casseruola a fondo pesante e, mescolando, unitevi la farina setacciata. Continuate a mescolare e, dopo pochi secondi, quando il composto comincia a schiumare, togliete la casseruola dal fuoco e unite il latte caldo e il sale (durante questa operazione mescolate energeticamente per evitare i grumi). Rimettete la casseruola sul fuoco moderato e continuate a mescolare fino a che la salsa non prende l'ebollizione. Lasciate cuocere dolcemente per una decina di minuti e, infine, insaporite la besciamella con il pepe ed eventualmente la noce moscata.

 

Salsa béarnaise

Salsa béarnaise

La salsa béarnaise, uno dei capisaldi della cucina classica francese, si potrebbe forse definire antiquata e superata e, in effetti, lo è se paragonata alle salse della cucina contemporanea. Tuttavia è di straordinaria bontà che accompagna a meraviglia una bella bistecca o un filetto ai ferri.

Ingredienti

3 tuorli d'uovo freschissimi

1 dl di ottimo aceto bianco delicato

200 g di burro salato a temperatura ambiente

1 grosso scalogno

2 cucchiaini da tè di dragoncello tritato

1 cucchiaino da tè di cerfoglio tritato

Sale e pepe in grani

Versate l’aceto in una piccola casseruola di porcellana o di acciaio pesante e unitevi lo scalogno tritato, un cucchiaino di dragoncello, uno di cerfoglio, qualche grano di pepe pestato grossolanamente e un pizzico di sale. Fate bollire dolcemente fino a quando il liquido sarà ridotto a un terzo quindi lasciate intiepidire e filtrate, premendo bene per recuperare tutto il succo. Rimettete il liquido ottenuto nella casseruola e, uno alla volta, unite i tuorli mescolando con una frustina. Immergete la casseruola in un bagnomaria caldo ma non in ebollizione, senza smettere di lavorare con la frusta. Appena le uova cominciano ad addensarsi, iniziate ad aggiungere il burro, un pezzettino alla volta, senza mai smettere di sbattere, badando di non aggiungere altro burro finché il precedente non si sia ben incorporato. Se vedete che la salsa si addensa troppo, unite un cucchiaio di acqua fredda. Alla fine dovrete ottenere una salsa gonfia e cremosa e con una certa densità: completatela con un cucchiaino di dragoncello e versatela in una salsiera calda. Servitela per accompagnare l’entrecòte o il filetto alla griglia.

 

Bollito con la pearà

Salsa pearà

Tra le ricette tipiche di Verona, un posto d'onore spetta al bollito con la pearà, una salsa che vale la pena “esportare” in tutte le regioni per quanto è gustosa. Attenzione però, non è da confondere con la peverada, salsa a base di fegatini di pollo tipica della cucina della Marca Trevigiana.

Ingredienti

50 g di burro

50 g di midollo di manzo

100 g di mollica di pane tostata e grattugiata

2 cucchiai colmi di parmigiano grattugiato

Brodo di carne

Pepe

Tritate il midollo e mettetelo in una casseruolina con il burro. Fate soffriggere a fiamma moderata e, quando il midollo si sarà sciolto, aggiungete la mollica di pane. Sempre mescolando, lasciate che il pane assorba tutto il grasso quindi bagnate con qualche mestolo di brodo in modo da avere una salsa piuttosto fluida. Regolate la fiamma al minimo e proseguite la cottura per almeno un'ora mescolando spesso e aggiungendo altro brodo se necessario. A cottura ultimata regolate il sale e completate con abbondante pepe appena macinato (da qui il nome pearà che in dialetto veneto significa pepata) e con il parmigiano grattugiato. Mescolate e servite la salsa bollente come accompagnamento del bollito.

 

Barottolo di Bagnèt verd (Salsa verde)

Bagnèt verd (Salsa verde)

Il bagnèt verd è una delle salse tipiche che accompagnano il sontuoso bollito piemontese, anche se è adatta pure per insaporire le uova, l'insalata di patate, il baccalà lessato.

Ingredienti

100 g circa di prezzemolo

1 tuorlo d'uovo sodo

1 cucchiaio di capperi sotto sale

1 spicchio d'aglio

50 g di mollica di pane bianco raffermo

1/2 bicchiere di ottimo aceto

2 acciughe sotto sale

200 g di olio extravergine d'oliva

Lavate il prezzemolo, asciugatelo dentro un panno quindi mondatelo dai gambi e mettetelo nel bicchiere del mixer. Sciacquate e asciugate i capperi. Raschiate e diliscate le acciughe. Bagnate la mollica di pane con l'aceto e strizzatela con le mani. Aggiungete capperi, pane e acciughe al prezzemolo insieme al tuorlo d'uovo, allo spicchio d'aglio, privato del germoglio e grattugiato, e alla metà dell'olio. Frullate il tutto fino ad avere una salsa fine e cremosa quindi travasatela in una ciotola e unitevi il resto dell'olio. Sigillate la ciotola con la pellicola e lasciate riposare la salsa per qualche ora prima di servirla.

 

Cucina di casa. Le basi: Pasta brisée, Pasta sfoglia, Pasta da pizza e Pasta frolla

Il sistema Bartolini. 30 anni di ristorazione in Romagna, tra La Buca e le Osterie. Verso nuovi progetti

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In testa, e nel cuore, il mare, l'Adriatico dove nonno Marcello usciva in barca molti anni fa. Nel 1985 nasceva il primo ristorante a Cesenatico, sul Porto Canale, che col tempo sarebbe molto cambiato, fino a diventare la meta gastronomica (ri)conosciuta che è oggi. E alla fine degli anni Novanta l'intuizione: l'Osteria del Gran Fritto, ora anche a Bologna. Un sistema imprenditoriale che unisce numeri e qualità. Come? Ce lo raccontano Andrea e Stefano Bartolini. 

I primi passi nella ristorazione. Gli anni Ottanta

Due ristoranti e tre osterie di mare, un centinaio di dipendenti e un'attività imprenditoriale che è cresciuta senza strappi, in ascesa costante, dal 1985 a oggi. Più di trent'anni nella ristorazione romagnola senza perdere di vista il valore della famiglia, che a ben guardare forse è il vero segreto di una macchina dagli ingranaggi perfetti che gira al ritmo di un battito del cuore. Quello di nonno Marcello, in primis, che La Buca di Cesenatico ha fatto in tempo a vederla nascere, alla metà degli anni Ottanta, un avvio difficile per chi voleva fare ristorazione con un piglio nuovo, e lui era lì, a incoraggiare il cambio vita di suo figlio Stefano, laureato in economia (con tesi sui mercati ittici d'Italia) e un posto di lavoro sicuro alla Lega delle cooperative, lasciato alle spalle. Ai tempi il ristorante affacciato sul Porto Canale della cittadina romagnola era diventato la casa della famiglia Bartolini, in cucina c'era già Gregorio (Grippo, che non ha mai abbandonato la nave, e oggi è ben saldo al timone della Buca), tutta la giornata trascorreva lì: “Ricordo il nonno, seduto al tavolo, giocava a carte con Gregorio”, racconta oggi Andrea rievocando un'immagine che porta repentinamente indietro nel tempo.

Lui, classe 1983, piccolino si aggirava già padrone della situazione per la Buca, quasi nel destino fosse scritto che un giorno l'azienda sarebbe dipesa anche, e soprattutto, dalle sue decisioni. Ma nulla succede per caso, e le dinastie che hanno fatto la storia della ristorazione italiana lo insegnano: oggi la dimensione in cui si muovono Stefano e Andrea Bartolini (che insieme alla mamma, entrata in società per ultima, sono gli unici titolari dell'azienda, “ci piace muoverci senza investitori esterni”) è quella di una realtà che si muove coerente verso il futuro, ma non ha dimenticato le origini, le ricette di famiglia e l'incredibile passione per il mare di Marcello, pescatore e poi ristoratore nella Romagna del boom economico.

Valorizzare il mare

Il filo conduttore è proprio il mare, e la grande conoscenza del prodotto, che insieme assicura sensibilità per la materia prima e lucida impostazione della logistica, in una storia che intreccia senza soluzione di continuità cuore (e ci risiamo) e spirito pratico. Andrea la prima idea del mare l'ha respirata a contatto col nonno, quasi una figura mitologica: “Mi portava con lui al mercato del pesce, nel portapacchi della bici. Lì conosceva tutti, 'rubava' qualche suasino (il suaso è una sorta di rombo, più magro e delicato, ndr), poi rientravamo a casa e li cucinava per me sulla griglia. Quand'è mancato avevo 6 anni, ho smesso di mangiare pesce per tre anni. Passato il trauma ho ripreso, e non ho più smesso!”. Poi l'adolescenza e l'università a Bologna, i weekend trascorsi a servire ai tavoli, con il pensiero sempre rivolto al ristorante. La laurea in architettura, “che è stata la mia apertura mentale”, e la passione di una vita che bussa insistente alla porta: “Il giorno dopo la laurea, ero già in cucina. Mio padre mi diceva 'esci da quelle cucine Andrea, che non c'è bisogno di te'. C'ho messo un mese a capire che il mio posto in azienda non era al pass, il mio babbo mi ha dato spazio: i primi due anni ha fatto in modo che non facessi fallire l'azienda, poi quando ha capito che poteva fidarsi abbiamo cominciato a pensare all'unisono. Lavoriamo su moodboard che definiscono l'umore e lo stile del progetto, che sia un piatto o un nuovo locale da aprire. Così facciamo circolare spunti: ci capiamo perché abbiamo imparato a condividere le idee”. Nel vero senso del termine, per gestire un'attività che nel frattempo è diventata un tesoretto da gestire con parsimonia ed entusiasmo, dosati in giusta misura: nei primi anni Novanta La Buca ha cominciato a rifiatare, superato il periodo di ostilità della piazza romagnola di allora, più abituata alla mangiata abbondante e senza grandi ambizioni che alla ricerca sul prodotto che è sempre stato il cardine del ristorante, pur molto cambiato nel tempo, e oggi meta gastronomica in grado di attirare clienti da tutta Italia, “in percentuale maggiore ai romagnoli, ancora un po' restii, mentre tanti sono gli abituèe da Bologna e Modena”.

 

Il sistema Bartolini. L'Osteria

Nel '99, proprio accanto alla Buca nasceva la prima Osteria del Gran Fritto: “L'idea era nata anni prima, per necessità, quando con la Buca rischiavamo di fare la fame” ricorda Stefano “Al ristorante andavano bene il fritto e il risotto che faceva il mio babbo, sarebbero stati le colonne dell'osteria. Poi l'attività ha cominciato a ingranare, ma io mi ero messo in testa di realizzare il mio progetto. Ho ripreso un vecchio testo dell'università, Il mondo alla Mc Donald's, che analizzava il fenomeno sociale e imprenditoriale: 'Se si possono fare schifezze a livello planetario' mi sono detto ' non è forse possibile fare cose buone per grandi numeri?'”. L'Osteria ha dimostrato di sì: “Avrebbe dovuto accontentare molte persone restando ferma sui nostri standard di qualità, la scommessa l'abbiamo vinta. Nei primi anni ho subito l'ostracismo di molti colleghi, ora invece il format è sdoganato”. Così nel 2004 è arrivato il raddoppio dell'Osteria a Milano Marittima, nel 2008 la Terrazza Bartolini (secondo indirizzo gourmet della casa, sempre a Milano Marittima), nel 2010 la Buca si è trasferita nel nuovo spazio (su progetto di Andrea).

E a settembre 2016 l'ultima scommessa, la più ambiziosa, a Bologna, nel bellissimo spazio con giardino (e platano secolare) di piazza Malpighi: “Abbiamo cercato di aprire a Bologna per anni, i clienti delle Osterie al mare ce lo chiedevano. Poi l'occasione giusta, Gino Fabbri ci ha segnalato un locale troppo grande per lui, ci è piaciuto subito, anche se l'investimento è stato molto importante. E siamo felici di aver comprato le mura qualche mese fa: è il nostro primo locale di proprietà, una bella soddisfazione”.

Il debutto a Bologna

Del resto a Bologna, l'Osteria, attesissima alla vigilia, ha portato grande scompiglio: “Un vero assalto, le prime settimane facevamo 400 coperti al giorno. Abbiamo dovuto convogliare il personale del mare, a Cesenatico pulivano il pesce per portarlo qui. Sapevamo di poter fare bene, ma non così”. Il momento critico si è protratto almeno per 4 mesi, poi la situazione si è normalizzata, ma oggi i flussi sono comunque molto soddisfacenti, a pranzo e cena, con una clientela abituale che torna anche 2 o 3 volte alla settimana, facendo affidamento su un menu del giorno che quotidianamente affianca con 6 o 7 proposte inedite (secondo disponibilità del prodotto, perché è sempre il mare che comanda) la carta dei classici, risotto e gran fritto in prima linea. Tutto si regge su un'organizzazione ferrea: al mercato ittico la famiglia ha tre postazioni – per Cesenatico, Milano Marittima, Bologna – Gregorio segue personalmente l'asta 2 o 3 volte alla settimana: “Guarda il pesce negli occhi, lo seleziona con cura, si assicura di bloccare il prezzo migliore. E questo ci agevola: il pesce entra nelle cucine già ispezionato, seguiamo tutta la logistica con due camioncini refrigerati. Così manteniamo un rapporto qualità/prezzo ottimale, che nello specifico a Bologna non ha rivali”. L'altro punto di forza è la gestione del personale: “Crediamo molto nella formazione, vogliamo persone preparate e motivate, che partecipino attivamente ai progetti. Ci piacerebbe essere lungimiranti per crescere ancora, è importante creare uno staff entusiasta, soddisfatto dal punto di vista economico e del lavoro che fa. Per questo stiamo lavorando con un fondo che ci aiuta con incentivi per sviluppare la formazione, per creare sistema che ci porterà ad accogliere formatori professionisti in squadra, per formare anche sul concetto di leadership e accoglienza.” Di circa 100 dipendenti, 48 sono in organico a Bologna: “Investiamo molto sulle persone per lavorare sulla materia prima grezza, e questo facilita anche il servizio”.

Le ricette di famiglia

Gli chef di cucina dei diversi locali comunicano tra loro costantemente, attenti a passarsi informazioni sul prodotto avanzato perché possa girare dove c'è bisogno. Condividono anche le ricette, che di concerto con Andrea e Stefano vengono concepite secondo disponibilità del mercato e umore del momento, purché fedeli alla cucina di mare semplice, ben fatta e della memoria che fa brillare le Osterie: “Molte arrivano dal ricettario del nonno, cerchiamo sempre di proporre pesci poco conosciuti dell'Adriatico, ma non facciamo cose strane. Qui è il comfort food a giocare da protagonista: piatti confortevoli e golosi, non ho ancora capito se nell'era contemporanea questo sia un limite”. Quindi gli spaghetti con le poverazze (grandi vongole locali, un tempo vendute dalle mogli dei pescatori come merce di scambio ai contadini dell'entroterra, “a piedi o in bici, con sacchi di juta pesantissimi”), la crema di patate con lumachine di mare di sabbia, ingentilite da una preparazione più adatta al gusto contemporaneo, “anche se in casa era tradizione cuocerle nel guscio, col sugo, e poi 'sculettarle', succhiandole per farle uscire... Quanti pomeriggi passati così!” ricorda Stefano, che è una miniera di aneddoti per ogni piatto in menu. E ancora la baraccola (una sorta di razza, ma più gelatinosa) fritta e ripassata al pomodoro, perfetta da mangiare il giorno dopo. Piatti di recupero, come la zuppa di monfettini in brodo rosso di seppioline - “ma solo gli scarti, come si usava nelle case di un tempo” - e ingredienti sconosciuti ai più, il granchio melograno, la vongola turbo, la saraghina: “Mio padre non ha mai visto un salmone, e se trovasse uno spada sulla nostra tavola...!”.

Il prodotto, le lavorazioni

Dietro ci sono anche i fornitori – molti del territorio, come i produttori che forniscono il vino, anche se la carta si avvale pure della grande passione di Andrea per bollicine e Champagne - perché non di solo pesce si vive: “Cerchiamo prodotti che siano funzionali alle lavorazioni, ma ci piace anche seguire le storie di chi li produce”. La patate da friggere, per esempio, arrivano da un'azienda a conduzione familiare di Lugo, “abbiamo studiato con lui il prodotto, per avere un controllo sugli amidi costante, e un risultato in frittura che ci soddisfi tutto l'anno”. Del resto sulla frittura da queste parti non si scherza: quella che arriva in tavola è sontuosa, triglie, moletti, calamari, sardoncini. Moltissimi si siedono solo per questo, e infatti a Bologna 100 dei 200 kilowatt a disposizione sono impiegati per cinque macchine all'avanguardia, con vasche disegnate su misura per non avere problemi con la farina, e temperatura costante, sempre molto alta: “A Cesenatico invece le macchine elettriche non andrebbero perché abbiamo meno potenza e allora seguiamo il metodo dei tre salti, una vasca d'entrata, poi una seconda vasca con olio a 200-170 gradi e un'ultima per completare: scotti, cuoci e dai la croccantezza”, spiega Andrea sicuro, dopo anni di esperimenti sul campo.

Stessa attenzione per pane e pasta – realizzati al laboratorio di Cesenatico con maniacalità, carteggiando periodicamente i taglieri per tirare la sfoglia, rigorosamente al mattarello, perché la pasta sia sempre ruvida la punto giusto – e per i dolci, che trionfano, insolitamente abbondanti ed elaborati, sul menu delle Osterie: “Il dolce spesso è bistrattato, in Riviera trovi ancora il tartufo della Bindi! E invece pensa al costo della materia prima e al prezzo di vendita: c'è molto margine di guadagno, più lo fai buono, più è ordinabile, meglio è per tutti”. Il più ordinato? Un classico in arrivo dalla Buca d'antan: il gelato alla crema con scorza d'arancia e caramello, “non possiamo toglierlo dal menu”.

Il circuito gourmet. La continuità della Buca, il futuro della Terrazza

Intanto a Cesenatico la Buca procede sulla sua strada: merito della continuità che assicura Gregorio, della sua sensibilità per la materia prima, della capacità di valorizzarla senza ricorrere a inutili voli pindarici. “Sa il fatto suo, e per questo andiamo così d'accordo. Ormai è di famiglia”, ribadisce Stefano. Le soddisfazioni sono arrivate col tempo, l'indotto delle Osterie garantisce tranquillità, la carta racconta il mare in modo gentile, con tante suggestioni vegetali e accostamenti che non arrivano mai per per caso. C'è anche tanta Romagna - i crudi freschissimi, la pasta fresca - ma intepretata con piglio moderno, al meglio di come possa presentarsi: “I numeri non sono neanche lontanamente paragonabili alle Osterie, ma investiamo pesantemente, perché per noi è nato tutto dalla Buca. E il lavoro di nicchia ci piace”.

E allora perché non pensare in grande? Presto la Terrazza Bartolini di Milano Marittima, finora stagionale, potrebbe trasformarsi in un ristorante aperto tutto l'anno, “appena avremo i permessi per chiudere la terrazza affacciata sul mare”. L'idea? “Non una copia della Buca, ma un menu agile che giochi con piatti di materia prima presentata in forma essenziale. Servizio di sala curato, fresco, attento ai dettagli. Grande professionalità non ostentata, stoviglie classiche perché l'attenzione si concentri sul prodotto e sulla facilità di conversazione a tavola. Fascia di prezzo sui 65-70 euro. Vorremmo divertirci noi, e dare un approccio facile al cliente. Con grandi vini, tanti crudi e cotture espresse a fuoco vivo, sulla teppaniyaki di tre metri che abbiamo in dote in cucina”. Un sogno molto vicino a concretizzarsi, mentre il progetto Osteria cresce da sé: “Ci piace molto Torino, ma per ora mettiamo in sicurezza ciò che abbiamo”. Un passo alla volta.

 

La Buca - Cesenatico (RN) - corso Garibaldi, 45 - labucaristorante.com

Osteria del Gran Fritto - Cesenatico (RN) - Porto Canale - corso Garibaldi, 41 - osteriadelgranfritto.com

Osteria del Gran Fritto - Milano Marittima (RA) - via Arrigo Boito, 28  - osteriadelgranfrittomilanomarittima.com

Osteria del Gran Fritto - Bologna - piazza Malpighi, 16 - osteriabartolinibologna.com

Terrazza Bartolini - Milano Marittima (RA) - via Arrigo Boito, 28 - terrazzabartolini.com

 

a cura di Livia Montagnoli

Street food dalla Puglia. Un viaggio attraverso il cibo da strada meno conosciuto della regione

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Sesta puntata del nostro viaggio lungo tutto lo Stivale alla scoperta degli street food regionali meno conosciuti. È la volta del ricchissimo universo del cibo da strada pugliese, che rende protagonista l’arte bianca ma lascia spazio pure a carne e frittura. Ve lo raccontiamo assieme alla ricetta di un panino in pieno stile mediterraneo.

 

È una terra ricchissima, che deve la sua attuale identità a numerose contaminazioni e stratificazioni culturali susseguitesi nel corso dei secoli. Ebbene sì, parlando della Puglia è proprio il caso di ribadirlo, dato che il suo variegato patrimonio rischia spesso di essere oscurato dal facile appeal della triade “estate, spiagge salentine e feste a suon di pizzica” (ecco perché, recentemente, abbiamo scelto di raccontarvi la Murgia, destinazione perfetta pure per un viaggio invernale). Stesso discorso per quanto riguarda il fronte gastronomico, dove c’è davvero molto da scoprire oltre i “volti” più noti. Dedichiamo dunque questa puntata della nostra rubrica agli street food pugliesi meno conosciuti, per suggerirvi cosa assaggiare al di là dei classici panzerotti, taralli e focacce.

 

Il rustico “aristocratico” di Lecce

Partiamo da Lecce, la città del pasticciotto che gode anche di un suo caratteristico prodotto salato: è il cosiddetto rustico leccese, un gustoso spezza fame che va per la maggiore già come snack mattutino. È composto da due dischi di pasta sfoglia che custodiscono un ripieno di besciamella, mozzarella e pomodoro (c’è chi utilizza i pelati, chi la salsa), volendo arricchito da un pizzico di pepe: questa è la versione attualmente più diffusa, mentre un tempo veniva in alternativa farcito con besciamella, carne e piselli, specialmente in occasione di feste e ricorrenze.

Non ci sono informazioni certe in merito alla sua origine, ma sicuramente questo prodotto rappresenta un unicum nel panorama pugliese: la storia della cucina regionale, che sia di casa o di strada, è costellata perlopiù di piatti poveri, frutto dell’ingegno delle massaie nel recuperare gli avanzi e della combinazione di ingredienti facilmente reperibili pure dai meno abbienti, magari attingendo dal proprio orto o allevamento. Il rustico, invece, è a base di materie prime “aristocratiche” e ricorda il vol au vent francese (prima della cottura in forno, con un coppapasta si dà al disco superiore la tipica forma bombata al centro).

 

pitta rusticaPro Loco Cutrofiano.

Pitta rustica. Foto: Pro Loco Cutrofiano

La pitta rustica (o gattò), un tempo cotta sotto la brace

Le suggestioni d’Oltralpe, ma solo a livello linguistico, tornano in un’altra pietanza: il gattò (storpiatura dialettale della parola gâteau, utilizzata in Campania per indicare una pietanza simile), che però in Puglia è più comunemente noto come pitta rustica. Diffusa soprattutto nel salentino, è una sorta di pizza farcita il cui impasto, però, è a base di patate a pasta gialla. Queste ultime, originariamente, erano lessate nelle pignate (o pignatte, le pentole in terracotta), successivamente schiacciate e insaporite con sale, pepe, olio extravergine di oliva e formaggio, di solito a latte caprino. Si aggiungeva inoltre l’uovo, in modo da legare bene il composto ottenuto e stenderne un primo strato sulle teglie, sempre di terracotta. Si passava poi alla distribuzione del condimento (nel tempo sono nate alcune versioni alternative, ma quella classica resta la pizzaiola, con salsa di pomodoro, pomodorini, cipolla, olive, capperi e caroselle, ossia le infiorescenze del finocchio selvatico), si sovrapponeva il secondo strato di impasto e si concludeva l’operazione con un giro d’olio e una spolverata di pangrattato. La cottura, infine, era un passaggio altrettanto delicato: sopra le teglie venivano posizionati dei coperchi (abbastanza grandi da proteggerne i bordi) e poi su di essi si metteva la brace calda.

Oggi molte abitudini sono cambiate e la brace è stata sostituita dal più semplice passaggio in forno, eppure la pitta è rimasta pressoché invariata, perfetta da addentare nelle rosticcerie dove si trova già porzionata.

_sceblasti_-_Pro_Loco_ZollinoSceblasti Foto: Pro Loco Zollino

L’infinita ricchezza dell’arte bianca pugliese, a partire da pizzi e scèblasti

Le patate hanno un ruolo significativo nella gastronomia pugliese, presenti infatti nella lista degli ingredienti di svariate focacce. Non a caso, una delle declinazioni più intriganti e intricate della tradizione culinaria pugliese, fondamentale in tema di cibo da strada, è proprio l’arte bianca. Le sue espressioni sono infinite, tra forme e creazioni diverse da paese a paese, benché in alcuni casi a distanza di una manciata di chilometri.

Pizzi leccesi. Foto: Una mamma in padella

Pizzi leccesi. Foto: Una mamma in padella

A Lecce, in particolare, non c’è forno che non venda i pizzi, detti anche “pucce alla pizzaiola”. Nel Salento, infatti, l’impasto è simile – salvo le varianti che ognuno può sperimentare – a quello del noto panino locale (tendenzialmente caratterizzato dalla presenza di farina di grano duro), a cui per dar vita ai pizzi vanno aggiunti altri ingredienti, di solito cipolle, pomodorini, olive nere e peperoncino. Sotto trovate la ricetta fornitaci dallo chef di Nazionale Ristorante Marco Silvestro, indirizzo recensito dall’ultima edizione della guida Ristoranti d’Italia e della stessa proprietà di 300mila Lounge, il locale Tre Chicchi e Tre Tazzine che – in occasione della presentazione della guida Bar d’Italia 2018 – ha ricevuto il premio illy Bar dell’anno.

Chi invece si reca a Zollino, nella provincia di Lecce, potrà scoprire la scèblasti, da acquistare nei forni o da assaggiare, il 2 e il 3 agosto, durante la sagra che ogni anno la rende protagonista. Come nel caso dei pizzi, si tratta di paninetti più o meno tondi (scèblasti è una parola grika, il dialetto della minoranza linguistica greca, che significa “senza forma”): alla pasta, fatta lievitare per qualche ora, si unisce un bel ventaglio di materie prime, come olive nere, zucca gialla, zucchine, pomodori (si prediligono quelli gialli “di penda”, ossia lasciati appesi a corone di ferro dopo la raccolta), cipolle e capperi, a cui c’è chi aggiunge il peperoncino. Una ricetta che, come tante altre, affonda le sue origini nelle abitudini e ritualità sviluppatesi attorno alla produzione del pane, cadenzata da fasi ben precise: si impastava a casa, si portava il composto nei forni collettivi e così ci si assicurava il rifornimento settimanale. Le scèblasti, infatti, nacquero come pietanza da consumare sul momento: erano cotte negli intervalli di tempo tra le infornate di pucce e frise, spesso dopo essere state posizionate su foglie di vite.

 

E poi, pirilla e piscialetta

Altri tipi di panini furono ideati nelle stesse occasioni, ma con un obiettivo diverso: non sprecare gli avanzi di impasto rimasti attaccati al fondo del contenitore. Bastava raschiarli e rilavorare il tutto per ottenere un prodotto nuovo, che ad esempio a Ortelle prende il nome di pirilla e a Surbo – entrambi i comuni sono nel leccese – di piscialetta. La prima “si prepara unendo farina di grano duro, acqua, lievito e sale: dopo la cottura in forno a legna, si spacca a metà ed è buonissima condita anche solo con pomodori freschi e olio; altrimenti si può imbottire con i “pezzetti” di vitello al sugo (nel brindisino e nel leccese, per “pezzetti” si intende pure la carne equina, altrettanto utilizzata come farcia del panino, ndr)”, ci spiega Luigi Guglielmo, presidente della Pro Loco Ippocampo di Vignacastrisi (frazione di Ortelle), che dal 2013 organizza la sagra della pirilla, “quando invece la pasta viene arricchita con ortaggi di vario tipo allora prende il nome di cucuzzata”.

Una storia simile è quella della piscialetta di Surbo, creata dalle massaie unendo i resti dell’impasto semplicemente a olio e pomodoro (a cui si possono aggiungere capperi, olive, cipolle e peperoncino). “In origine, le porzioni di pasta chiusa a mo’ di tarallo erano cotte per ultime, posizionate proprio all’altezza della bocca del forno e sfornate per prime; diventavano così la merenda perfetta per i bambini, scherzosamente ribattezzati piscialetto”, sottolinea Piero Minerva, presidente dell’associazione Terra Noscia Pro Territorio Surbo, che proprio alla piscialetta dedica una manifestazione annuale, “in occasione della quale, però, ormai da tempo la realizziamo a forma di pagnottina e utilizziamo un mix di farina 0, di grano duro e integrale”.

 

Una sola parola per due prodotti diversi: la cazzateddhra di Surbo e Nardò

La sagra, in realtà, è dedicata parallelamente alla puccia: “dalle nostri parti è detta cazzateddhra e nacque come pezzo di impasto che veniva volutamente schiacciato e inserito nel forno per valutarne la temperatura”, precisa Minerva. Attenzione, però, a non confonderla con la cazzateddhra di Nardò, sempre nella provincia di Lecce: si tratta semplicemente di un pezzo di pane più piccolo degli altri, ricavato dai residui della pasta, a cui nel tempo sono stati aggiunti olio extravergine - che va precedentemente riscaldato - e pepe. Un prodotto che non può mancare nelle giornate di festa dedicate a San Francesco di Paola (dal 6 all’8 maggio), le stesse in cui la Pro Loco Nardò e Terra d’Arneo realizza la sagra dello Spizzico e della Cazzateddhra (la parola spizzico non indica una pietanza precisa, ma solo la presenza di vari assaggi).

pizza_sfoglia_e_scannateddaPizza sfoglia e scannatedda. Foto: Associazione Uria - Pro Loco di Ischitella del Gargano

Pizza sfoglia e scannatedda: a Ischitella i protagonisti sono i fiori di finocchio dolce selvatico

Ci spostiamo nel foggiano, a Ischitella, dove è facile imbattersi in pizza sfoglia (il nome potrebbe trarre in inganno, perché in realtà non c’è pasta sfoglia) e scannatedda. Due preparazioni leggermente diverse, ma che partono dalla stessa base: semola di grano duro, acqua e lievito madre, il tutto lavorato nelle tradizionali conche (in dialetto falzador) e successivamente sulle tavole di legno (dette tavler). Nel caso della pizza sfoglia, sale, olio e fiori di finocchio dolce selvatico si aggiungono all’impasto prima della lievitazione e la pasta viene arrotolata su stessa a mo’ di spirale, mentre per la scannatedda vanno uniti dopo la fase di riposo e la forma finale è quella di una treccia. Entrambe appartengono esclusivamente alla tradizione di questo comune del Parco Nazionale del Gargano, dove vennero ideate durante la prima guerra mondiale, periodo in cui bisognava ingegnarsi per creare qualcosa di buono a partire da ingredienti economici.

 

pittule_-_Pro_Loco_ZollinoPittule. Foto: Pro Loco Zollino

Pettole, pittule o popizze: la pasta lievitata fritta lungo tutta la regione

Ingegno che – in Puglia come in altre zone d’Italia – ha reso protagonista dello street food la frittura: quando nei pentoloni di olio bollente (non solo di semi, come va per la maggiore in tanti altri territori, ma spesso di oliva) finiscono le palline di pasta lievitata, ecco pronte le pettole. In dialetto sono dette anche pittule e, in particolare nel barese, prendono invece il nome di popizze: un grande classico delle friggitorie che animano il capoluogo regionale assieme alle sgagliozze, ossia i triangoli di polenta fritta che abbiamo già incontrato nel cuoppo napoletano. In tutta la regione si mangiano in purezza nel cono da passeggio, ma non mancano altre versioni: alla pizzaiola, ad esempio, quando pomodori, olive, origano e capperi vengono aggiunti all’impasto, oppure quest’ultimo può diventare il “contenitore” perfetto per custodire un cuore di baccalà o di ricotta forte.

_i_cecamariti_di_torrepaduliCecamariti di Torrepaduli. Foto: Comitato Festa San Rocco

Le frittelle delle mogli infedeli: i cecamariti di Torrepaduli

E poi c’è la variante di Torrepaduli (frazione di Ruffiano, nel leccese), sempre presente in occasione della Festa dei 40, quando la statua di San Rocco viene riportata al santuario dopo 40 giorni di permanenza nella chiesa dell’Immacolata: si tratta dei cecamariti, in origine realizzati dalle massaie impreziosendo la pastella con tutto ciò che c’era in dispensa, come zucchine, cipolline, peperoni e capperi. È curiosa l’origine del nome, frutto di una leggenda secondo cui le donne infedeli, una volta tornate a casa e avendo poco tempo a disposizione per dedicarsi alla cena, preparavano queste frittelle sbrigative ma allo stesso tempo appetitose.

Murgia e valle d’Itria, dove la regina del cibo da strada è la carne (al fornello) Infine, concludiamo il nostro viaggio con un’usanza diffusa principalmente in valle d’Itria e nella Murgia: stiamo parlando della carne al fornello, ossia il forno a legna presente nelle macellerie. Un tempo erano i clienti a chiedere che lì fossero cotti i loro acquisti, da anni invece si tratta di una pratica proposta dalle stesse insegne e amatissima da visitatori e turisti. Oltre alle più celebri bombette – involtini di capocollo, di solito insaporiti con sale, pepe e Canestrato ma di cui esistono altre varianti – vi segnaliamo la zampina e gli gnummareddi.

 

zampina_-_sagra_della_zampina_del_bocconcino_e_del_buon_vino.jpgZampina. Foto: sagra della zampina del bocconcino e del buon vino

La salsiccia di Sammichele di Bari: la zampina

La prima è originaria di Sammichele di Bari, talmente rappresentativa della tradizione locale al punto che tutti gli anni (per la precisione, l’ultimo sabato di settembre) le viene dedicata una sagra: “ogni macellaio ha la sua ricetta, ma di base si tratta di una salsiccia di bovino insaporita con sale, pepe, pomodori pelati, formaggio, basilico o prezzemolo: il tutto va poi macellato e insaccato”, ci racconta il sindaco della cittadina Lorenzo Netti, “ha una forma a spirale ed è buonissima alla brace, ma è altrettanto gustosa in versione casalinga, tagliata a pezzetti e cucinata con il pomodoro; per quanto riguarda il nome, potrebbe essere il risultato di una trasposizione linguistica, dato che la parola zampina indica il supporto dello spiedo, oppure deriverebbe dal fatto che i macellai erano soliti riciclare le parti residuali vicine alla zampa dell’animale”.

 

Tanti(ssimi) nomi per un’unica specialità, gli gnummareddi

Ed è sempre dal recupero degli scarti che sono nati gli gnummareddi, cibo da strada caratteristico pure di altre regioni. Sono involtini di frattaglie (principalmente di agnello o di capretto) come il fegato e il polmone, di solito accompagnate da foglie di prezzemolo e avvolte all’interno del budello. Si preparano alla brace, ma non mancano versioni alternative come quella di Locorotondo (nella città metropolitana di Bari): sono gli gnumeredde suffuchete, che si distinguono da quelli classici non solo per la cottura (a fuoco lento, nel tegame, con l’aggiunta di pezzetti di formaggio, aglio, verdure e – non sempre – pomodoro) ma anche perché sono a base di trippa.

Nella sola Puglia hanno nomi diversi (tantissimi) a seconda della zona: gnummareddi – dal latino glomus, gomitolo – è il più comune, ma ad esempio a Nardò e Gallipoli sono detti ‘mboti, a Brindisi e nel foggiano rispettivamente turcinieddi e turcinelli.

 

La ricetta dei pizzi leccesi di Nazionale Ristorante

 

Ingredienti

250 g di farina di grano duro integrale

25 g di farina di grano tenero

75 g di pomodorini (tipo fiaschetto)

50 g di cipolla

37,5 ml di acqua

17,5 g di olio evo (tipo leccino)

17,5 g di olive nere (tipo celline)

6,2 g di sale

6,2 g di lievito di birra

2 g di peperoncino

 

Tagliare i pomodori in 4 e la cipolla alla julienne. Su una spianatoia miscelare le farine, formare una fontana e versare l’acqua e l’olio; aggiungere poi olive denocciolate, pomodori, cipolla, peperoncino e lievito. Iniziare a impastare (è consigliabile compiere l’operazione a mano, per evitare che pomodoro e cipolla si sfaldino) e infine unire il sale. Lasciare riposare per circa un’ora; creare dei panetti tondi da 120 g, posizionarli su dei teli o assi di legno ben infarinate e far lievitare un’altra ora e mezza. Cuocere a 250° per 30-35 minuti a forno statico.

 

In copertina Rustico leccese. Foto di Silvio Bursomanno
a cura di Agnese Fioretti

 

300mila Lounge Bar – Lecce – via 140° Reggimento Fanteria (ang. piazza G. Mazzini) – 0832279990 – www.300mila.com

Nazionale Ristorante – Lecce – via 47° Reggimento Fanteria, 5 – 0832307448 – www.nazionaleristorante.it

 

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Voci dal master. Viaggio nel cuore della Scozia tra whisky e distillerie

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Un viaggio on the road sulle orme del distillato nazionale, dalla Capitale alle Highlands, attraverso paesaggi da sogno e visite guidate.

 

Cielo grigio, pioggia fine, vento sferzante e un bicchiere di whisky per scaldarsi: così la Scozia accoglie i viaggiatori, a partire da Edimburgo.

Edimburgo e lo scotch whisky

L’Old Town, centro storico medievale, si affaccia sul Royal Mile, che collega il castello all’Holyrood Palace, residenza ufficiale della regina. In questa arteria vitale della città si può entrare per la prima volta nel mondo del whisky con The Scotch Whisky Experience, il cuore attraverso cui il sangue, o meglio il whisky, si diffonde in tutto il territorio scozzese; qui si entra in contatto con malto, acqua, torba, botti, insomma tutto ciò che prepara per l'itinerario verso le distillerie. Non è un semplice museo, ma un’esperienza multisensoriale: si sale a bordo di un piccolo vagone che racconta la storia del distillato, per poi assistere alla spiegazione delle fasi di produzione e delle diverse tipologie che si degusteranno a fine tour. E non è finita: per uscire si passa in una stanza che contiene la più grande collezione di whisky del mondo. Difficile non rimanere a bocca aperta.

A parte il whisky, la visita di Edimburgo è di valore e si snoda tra palazzi, chiese e parchi. Le energie si ricaricano con un ottimo sandwich al salmone (scozzese, ovviamente) e una birra, rigorosamente spillata a pompa, al Deacon Brodie’s Tavern.

 

In viaggio verso Dufftown, tra castelli e strade spettrali

Salutata la città con un'auto a noleggio, ci si lancia verso nord attraverso le meravigliose strade di Scozia: ogni valle è stupefacente, ogni incrocio una sorpresa, gli scorci sono spesso simili, eppure sempre diversi. Tappa al Dunnottar Castle, impressionantecastello a picco sul Mare del Nord, prima di raggiungere Aberdeen, accolti da una pioggia battente. Da qui si può imboccare una delle strade più affascinanti e spettrali del paese, la A939, detta anche Old Military Road, che porta a Dufftown attraverso l’alta brughiera. La macchina macina chilometri prima di arrivare alla capitale dello Speyside, e quindi del whisky di malto, dove ci rifocilliamo al pub The Stuart Arms con una succosa bistecca di Angus. A Dufftown sembrano esserci più distillerie che abitanti: il motivo è da ricercare nel fiume che scorre nella regione, lo Spey. A detta dei produttori la sua acqua (e quella dei suoi affluenti) è unica e favorisce la produzione di whisky fruttati e delicati.

Tra le distillerie da visitare, la Glenfarclas, di Ballindalloch, non lontano dalla città. La struttura appartiene alla famiglia Grant dal 1865 ed è una delle poche rimaste a conduzione familiare. Mary, la guida, accompagna gli ospiti nel tour con degustazione finale, raccontando la storia dell'azienda e i dettagli della produzione. Emozionante il momento dell’ingresso nel magazzino di maturazione: la fitta foresta di botti che si distende davanti agli occhi fa letteralmente respirare la storia del luogo e il profumo di anni di whisky.

Forres, Inverness e l’isola di Skye l’isola di Skye

Proseguendo verso Forres, alla volta di un'altra distilleria, ci si immerge ancora una volta nelle suggestive Highlands scozzesi, con una sosta a Elgin, per una sfiziosa cena a base di haggis, piatto simbolo della gastronomia scozzese, una sorta di un quinto quarto ovino. Attraverso strade tortuose si arriva finalmente alla Benromach di Forres. Qui la visita guidata d'ordinanza è caratterizzata dalla simpatia e dalla personalità trascinante della guida, Harry, che non risparmia battute e risponde con piacere a tutte le domande dei visitatori. Si crea un’atmosfera di familiarità tra i turisti di varie nazionalità, che condividono il piacere dell'ormai classica degustazione.

Lasciato il cuore in questa distilleria, Inverness è l'obiettivo successivo. In città si visita il Castello di Urquart e ci si lascia conquistare dalla bellezza del Glen Affric, riserva naturale da cartolina. Inverness è anche il punto di partenza per l’isola di Skye: la strada costeggia il lago di Loch Ness, lo sguardo ancora bambino cerca di scorgere il celebre mostro. Dopo una tappa all’incantevole Eilean Donan Castle, si raggiunge l'isola attraversando un ponte. Un ammaliante mondo parallelo: le bellezze naturali, il profumo del mare e il vento incessante creano un’atmosfera fatata. L'avventura contempla il Kilt Rock, una cascata che si tuffa nell’oceano, il Dunvegan Castle, dimora del clan MacLeod, il Neist Point, un faro con vista unica, e infine Carbost, un piccolo villaggio, sede della Talisker.

Prima del canonico tour una breve quanto indimenticabile pausa pranzo: proprio sopra la distilleria, una piccola struttura in legno, The Oyster Shed, propone ostriche, frutti di mare, aragoste e pesce locale con una vista mozzafiato. La visita guidata, più impersonale dato l'altro numero dei partecipanti, dà comunque l'opportunità di immergersi realmente nel mondo di questo whisky “made by the sea”: l’aria salmastra è palpabile, la degustazione finale il degno coronamento dell'avventura, ultima tappa di un memorabile viaggio puntellato da tamburi e cornamuse.

 

The Scotch Whisky Experience - Edimburgo - The Royal Mile, 354 Castlehill - +44 131 2200441 - https://www.scotchwhiskyexperience.co.uk

 

Distillerie

Glenfarclas Distillery - Ballindalloch - Banffshire, AB37 98D - +44 1807 500257 - https://glenfarclas.com

Benromach Distillery - Forres - Moray, Invererne Road, IV36 3EB - +44 1309 675968 - https://www.benromach.com

Talisker Distillery - Carbost - Isle of Skye IV47 8SR - +44 1478614308 - https://www.malts.com/en-ca/our-whisky-collection/talisker

 

Mangiare

Deacon Brodie’s Tavern - Edimburgo - 435 Lawnmarke - +44 131 2256531 - https://www.nicholsonspubs.co.uk/restaurants/scotlandandnorthernireland/deaconbrodiestavernroyalmileedinburgh

The Stuart Arms Bar & Restaurant - Dufftown - Keith 22 Conval St- +44 1340 820302 - http://www.thestuartarms.co.uk

The Oyster Shed - Carbost - Isle of Skye - +44 1478 640383

 

 

a cura di Damiano Del Bianco

Prova del Master in Giornalismo e comunicazione d'impresa dell'enogastronomia del Gambero Rosso

 

Enrique Olvera apre a Los Angeles. Lo chef messicano in California con un ibrido tra Cosme e Pujol

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Negli ultimi anni è diventato l'ambasciatore della cultura gastronomica messicana nel mondo, apprezzato per la capacità di modernizzare una tradizione secolare. Dopo New York, dove possiede due insegne, il debutto a Los Angeles entro il 2018. Ma prima un pop up a Tokyo. 

Pujol. Il pop up a Tokyo

A maggio, i tacos di Enrique Olvera arriveranno a Tokyo: un'apparizione fugace, 4 giorni appena per trasferire al Mandarin Oriental della metropoli giapponese l'atmosfera di Pujol, pluripremiato ristorante di Città del Messico e quartier generale dello chef che meglio rappresenta la cultura gastronomica messicana contemporanea nel mondo. Pujol Tokyo, come si chiamerà il pop up d'autore ospitato dall'esclusivo hotel, sarà un ingranaggio a tempo progettato nel dettaglio per intrattenere gli ospiti dal 15 al 18 maggio, con un menu degustazione da 9 portate, una variazione sul tema dei tacos, contaminati però con ingredienti locali e tecniche giapponesi (da sempre motivo di grande attrazione per Olvera). E di più, un perfetto mix tra le due culture, con farciture cotte e crude ideate per l'occasione, in tavola insieme alle specialità tradizionali del Messico che da Pujol sono regolarmente in menu, servite alla maniera dello chef, come l'Enmolada (una tortilla di mais ed erbe condita con mole) o le celeberrime pannocchiette di mais con maionese al peperoncino, caffè e formiche Chicatana. Le prenotazioni sono già aperte, e il costo è tutto sommato contenuto, considerando l'eccezionalità dell'evento: circa 60 euro per il menu, 140 con il pairing. Un divertissement che Olvera ha dichiarato di prendere molto sul serio, seppur concentrato sul nuovo ambizioso progetto che si concretizzerà entro la fine del 2018: il debutto a Los Angeles.

 

Enrique Olvera e la cultura gastronomica messicana

Molto attaccato alle sue radici, ma ugualmente motivato a divulgarle per valorizzare la storia della cucina messicana, i suoi prodotti, le sue origini, gli esiti più originali della cultura gastronomica nazionale, Olvera ha fatto suo il ruolo di ambasciatore del Messico all'estero. Dimostrandosi pure imprenditore avveduto. Nel 2014 esordiva a New York, con Cosme, tavola messicana contemporanea al Flatiron District, affidata alla guida di Daniela Soto Innes, un successo di pubblico e critica: ancora in attesa della prima stella, nel 2017 il ristorante ha esordito nella World's 50 Best Restaurants (dove Pujol, recentemente rinnovato, occupa il 20esimo piazzamento) al 40esimo posto. E sempre nel 2017 l'impresa Olvera ha raddoppiato le sue insegne in città, con le colazioni di Atla, spazioso locale informale di Lafayette street che si trasforma nel corso della giornata, dal servizio dolce e salato del mattino al pranzo veloce, ai cocktail per il dopocena. Ma il tiro si alzerà a Los Angeles, dove Olvera ha intenzione di importare un format nuovo per sommare le esperienze di Pujol e Cosme: un ibrido profilato sulle esigenze della città californiana dall'anima latina, ma particolarmente incline alle contaminazioni culturali (nella China town ha debuttato qualche settimana fa Majordomo di David Chang).

 

L'esordio a Los Angeles

Dunque l'avamposto losangelino di Enrique Olvera non si chiamerà Cosme, come inizialmente ipotizzato, né replicherà in pieno la sua formula. Il locale, nell'Arts District (proprio davanti al grande spazio di Bestia, noto ristorante di ispirazione italiana) con terrazza esterna per il servizio serale, offrirà pure la possibilità di consumare al banco, offrendo agli ospiti l'opzione taco bar già consolidata al Pujol. Alla guida della cucina ci sarà Jesus Cervantes, già passato a New York, e si ordinerà solo alla carta, in via di definizione. Accanto Olvera progetta anche una taqueria essenziale, una finestra su strada per ordinare tacos take away per un pranzo veloce. Tutto in un distretto della città che rapidamente sta cambiando volto, richiamando nuovi progetti e giovani imprenditori della ristorazione. Con Los Angeles, finora forse messa in ombra dalla vivacità del panorama ristorativo di San Francisco e della Bay Area, sempre più compresa nel suo ruolo da capitale gastronomica (alla fine del 2017 è arrivata anche April Bloomfield, con Heart&Hound, mentre Humm e Guidara, da qualche mese cercano di replicare la magia del NoMad Hotel a Downtown).

 

a cura di Livia Montagnoli

Campania Stories presenta i suoi vini e apre per la prima volta alla Basilicata

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Campania Storiessi sdoppia. Quest'anno la manifestazione di presentazione dei vini campani, curata da Miriade&Partners, ha aperto per la prima volta anche alla Basilicata, quasi a voler saldare insieme questi due territori, così vicini per certi aspetti e così distanti per altri. E si lavora al progetto BioSannio. 

Campania Stories apre alla Basilicata

Sono 18 le aziende del vino lucano che si son presentate, il 4 aprile, alla stampa specializzata nazionale ed internazionale a Palazzo Caracciolo MGallery by Sofitel di Napoli. A seguire (5-9 aprile), sempre nella stessa location, in scena ci sono i vini campani (86 le aziende partecipanti), con inaugurazione d'eccezione alla Reggia di Caserta, Patrimonio Unesco dell'Umanità.

Al pubblico di appassionati sono dedicate le degustazioni di domenica e lunedì con Campania Days: due turni d’assaggio al giorno su prenotazione, postazione riservata e servizio curato dai sommelier dell’Ais Campania.

 

Basilicata

Ma entriamo nello specifico delle due viticolture regionali. Oggi, la Basilicata conta una superficie vitata complessiva di circa 2 mila ettari di vigneto (in calo rispetto al 2014, quando si registrava una superficie di oltre 4,5 mila ettari vitati), con tre quarti degli ettari regionali nella provincia di Potenza, e circa 500 in quella di Matera. Sono 5 le denominazioni di origine (Aglianico del Vulture Superiore; Aglianico del Vulture; Terre dell’Alta Val d’Agri; Grottino di Roccanova e Matera), tra cui l'unica Docg territoriale: l'Aglianico del Vulture Superiore. Parliamo di una viticoltura di antiche origini che oggi vuole finalmente presentarsi al mondo e raccontare la sua unicità. Obiettivo ancora da raggiungere, complice il fatto che fino a questo momento non ci sia mai stata una manifestazione regionale ad essa dedicata. Adesso, però, con la collettiva che si è presentata in quel di Napoli, la strada sembra tracciata.

 

Campania

È già ben incamminata su questa strada, invece, la Campania che, ormai da anni , con le sue 19 Dop e i suoi oltre 100 vitigni, si presenta tutta assieme a Campania Stories e, dall'anno scorso, anche a Vinitaly con uno stand unico, già annunciato anche per questa edizione.

Del mosaico di denominazioni campane, è sicuramente il Sannio a rappresentare la parte più strutturata e il territorio più ampio: 11 mila ettari vitati su 25 mila regionali e 400 soci per la produzione di Aglianico del Taburno Docg e Dop, Sannio Dop; Falanghina del Sannio Dop e Benevento Igp. Tra gli obiettivi del Consorzio, in prima linea figura l'export, che oggi rappresenta solo una fetta del 20% della produzione, con mercati-focus: Germania, Stati Uniti, Cina e Giappone. “La maggiore attività del consorzio è sicuramente la promozione” dice il presidente del Consorzio Libero Rillo “ogni anno realizziamo numerose attività all'estero e in Italia (masterclass, wine tasting, btob e btoc, seminari), partecipiamo in maniera collettiva alle più importanti fiere di settore, e mediamente realizziamo almeno due educational con giornalisti. La fiducia è tanta, perché possiamo contare su un’offerta particolarmente diversificata: condizione necessaria per conquistare numeri sempre più importanti”. Tra le denominazioni che si stanno rilevando dei veri passepartout per l’apertura di nuove aree di mercato, si punta soprattutto sulla Falanghina del Sannio, un grande classico, oggi molto richiesta anche dai palati più giovani.

 

Progetto BioSannio

Intanto, il Consorzio è anche molto impegnato sul fronte della sperimentazione, con progetti di zonazione del terroir, fisiologia delle viti, studio dei lieviti e classificazione dei vini: “Tutte informazioni” spiego Rillo “che andranno a confluire nella nostra banca dati e che saranno utilizzati soprattutto in ottica sostenibile”. Oggi, infatti, i cambiamenti climatici obbligano anche ad un cambio di rotta in senso biologico e biodinamico. Lo si è visto sul campo con la vendemmia 2017, condizionata da temperatura primaverili sopra la media, gelate di aprile, siccità estiva e anticipo della raccolta di almeno 10 giorni per tutte le varietà campane. Tuttavia, soprattutto per i rossi tardivi, i risultati qualitativi, secondo Assoenologi, sono stati molto superiori alla media, nonostante la perdita in termini di volume. Per essere pronti a qualunque condizione sfavorevole, la risposta non può che essere ricerca sostenibile, come ci spiega il presidente: “Come Consorzio abbiamo messo in atto uno specifico progetto denominato BioSannio: un'alleanza tra viticoltori, Università, centri di ricerca, associazioni ed enti territoriali per la gestione sostenibile del territorio e il benessere dei cittadini”.

 

 

Colazioni del mondo. Olanda: appeltaart, ontbijtkoek, hagelslag

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La torta di mele all'olandese è un amalgama avvolgente di sentori di cannella, vaniglia e limone, un dolce in grado di trasportare chi lo consuma fra mulini a vento e tulipani in fiore fin dal primo assaggio. Ma quali sono le altre specialità per la colazione? Qui la risposta e una golosa ricetta.

 

La colazione in Olanda

Colta e affascinante, eclettica e suggestiva, l'Olanda è un luogo in grado di catturare l'attenzione di ogni tipo di turista, dall'amante dell'arte, che potrà costruire il suo percorso attorno ai tanti musei e gallerie del Paese, al viaggiatore buongustaio curioso di provare sapori nuovi e autentici. La nazione, infatti, è fra i maggiori esportatori mondiali di cibo, e soprattutto ricopre un ruolo fondamentale nella ricerca di soluzioni per le sfide legate alla sicurezza alimentare e all'uso sostenibile di acqua, energia e altre risorse. I professionisti del settore, infatti, sono da anni impegnati nello sviluppo delle nanotecnologie, bio-tech ma anche dello studio del ruolo delle spezie in cucina, oltre a quello sulle proprietà nutraceutiche e curative degli alimenti. Ricerca a parte, la tavola olandese offre una serie di prodotti prelibati, a cominciare dai formaggi (un noto detto popolare ritiene che il numero di animali allevati per produrre il latte superi quello dei tulipani), per finire con l'arte dolciaria, che qui si esprime al meglio con tutti i sapori tipici del Nord Europa, dal miele alla cannella. La giornata, infatti, comincia proprio con questi sapori dolcemente speziati, fra torte e confetti di zucchero.

La torta di mele, il lascito dei monaci

Farina, burro, zucchero, una spolverata di cannella e tante mele di ogni tipo: la torta di mele è un grande classico della cucina internazionale, una ricetta antica presente in gran parte del mondo con le dovute varianti, in grado di fare gola a grandi e piccini. Perfetto per la stagione invernale, per rinfrancarsi dopo una lunga passeggiata, il dolce ha trovato proprio per questo motivo maggiore successo nei Paesi nordici, dove il clima rigido invita a soste golose di fronte a una tazza di tè fumante e una merenda sostanziosa. Fra le prime testimonianze scritte, un ricettario del Trecento del cuoco francese Guillaume Tirel, conosciuto come Taillevent, che descrive la tart aux pommes, una prelibatezza simile a quella attuale, fatta eccezione per qualche ingrediente in più che è stato abbandonato nel corso dei secoli. Si tratta di un dolce di epoca medioevale, nato all'interno dei monasteri, che ha subìto delle modifiche nel corso dei secoli. In principio, le mele venivano poste direttamente sopra l'impasto, ma col tempo i monaci presero l'abitudine di inserirle anche all'interno della torta.

 

apple pie

Appeltaart, la crostata di mele

Nel tempo, il dolce è stato reinterpretato dai vari popoli in maniera diversa a seconda delle tradizioni e degli ingredienti locali. In America l'apple pieè uno dei dolci più rappresentativi degli Stati Uniti: un guscio di pasta brisé ripieno di mele stufate e aromatizzate con la cannella, in Italia c'è invece la versione più classica, una torta morbida con fettine di mele all'interno, in Trentino Alto Adige e Austria troviamo l'apfelstrudel,un rotolo di pasta sottile ripieno di frutta, uvetta e pinoli. In Olanda, invece, protagonista di merende e colazioni è l'appeltaart, chiamata anche appelgebak, una crostata nata nel Medioevo e ripiena di mele, uva passa, zucchero, cannella, succo di limone e, talvolta, anche rum o brandy.

 

appeltaart

La pasta è molto simile alla brisé utilizzata per la ricetta americana, ma più spessa, dolce e sfogliata, e viene disposta in superficie con la tipica forma reticolare. Non è raro trovare anche la versione con il topping di crumble, impasto di farina e burro mescolati gossolanamente e distribuiti in maniera omogenea sulla torta, oppure la variante più golosa con crema inglese o panna montata. Come accompagnamento, gli olandesi optano spesso anche per un po' di gelato, soprattutto nella stagione estiva.

Ontbijtkoek, la torta speziata

Sulla tavola al mattino, poi, non può mancare l'ontbijtkoek, letteralmente “torta della colazione”, detta anche peperkoek (torta al pepe), un classico della pasticceria locale. Alla base dell'impasto, la farina di segale, che conferisce al dolce il tipico colore scuro, e poi le spezie: cannella, zenzero, noce moscata, chiodi di garofano. E ancora zucchero, miele e frutta candita. Ogni parte del Paese ha la sua ricetta locale (fra tutte, ricordiamo l'oudewijvenkoek, la “torta delle donne anziane”, aromatizzata con l'anice e particolarmente diffusa nelle regioni del Nord), ma in ogni caso sono le note speziate a caratterizzarne il sapore.

 

torta colazione

Nata come ricetta di recupero, in origine la torta - preparata nello stampo del plumcake - era realizzata con le molliche di pane e gli avanzi dei prodotti da forno, bagnati nel latte o acqua e mescolati insieme a miele e spezie fino a formare un dolce dalla pasta densa e saporita. Se consumata a merenda, può essere gustata in purezza, accompagnata da una bevanda calda, mentre a colazione viene solitamente spalmata di burro buono, come se fosse una fetta di pane. Molto simile è la torta al miele, specialità olandese preparata con il muscovado, di colore scuro e dal gusto intenso.

Vlokken e hagelslag, i topping per il pane

Ma a colazione, non può mancare una buona fetta di pane tostato e imburrato. In Olanda, la tradizione del toast assume un carattere insolito e un gusto particolare, fondato su topping originali che si sono iniziati a diffondere nel secolo scorso. Stiamo parlando del vlokken (o chocoladevlokken), riccioli di cioccolato al latte, fondente o bianco, pensati per ricoprire l'intera fetta, all'insegna di quel binomio indissolubile che è pane e cioccolato, ma in una forma più moderna e divertente, apprezzata soprattutto dai bambini. C'è poi anche l'hagelslag, mix di confettini dolci e granella di zucchero (per intenderci, quelli che solitamente si trovano sulle donuts, le ciambelle americane ricoperte di glassa) dai gusti più disparati.

 

confetti

Hagelslag, i confetti ispirati alla grandine

Oggi se ne trovano di ogni tipo, dalla frutta esotica alla nocciola, ma in principio erano aromatizzati all'anice, ed erano prodotti esclusivamente da Venco, noto marchio olandese di dolciumi specializzato nella liquirizia attivo da fine Ottocento. Secondo i documenti conservati nell'Archivio di Amsterdam, però, i confetti erano nati ben prima dell'avvento della fabbrica: sembra sia stato tale B.E. Dieperink a crearli ispirandosi alla forma irregolare e spigolosa della grandine che continuava a cadere durante l'inverno (da qui il nome, da hagelbui, che significa grandine).

 

toast

A Venco si deve comunque il merito di aver iniziato a commercializzare il prodotto nei primi decenni del Novecento, e soprattutto quello di aver inventato nuove forme, sapori e colori per gli zuccherini, che hanno così trovato spazio fra gli scaffali dei negozi, conquistando cuore e palato dei consumatori più piccoli. Alla fine degli anni '30 un altro grande brand di dolciumi, Venz, inserisce un ingrediente speciale, da quel momento immancabile in ogni confezione di hagelslag che si rispetti: il cioccolato.

La ricetta: Appeltaart

Ingredienti

300 g. di farina debole

100 g. di zucchero

1 uovo

200 g. di burro freddo a pezzi

1 pizzico di sale

1 bacca di vaniglia

1 kg. di mele Renette

100 g. di uvetta

2 cucchiai di cannella

succo di ½ limone

50 g. di zucchero di canna

3 cucchiai di amido di riso o di mais

Mescolare in una ciotola la farina e l zucchero bianco. Sbattere l'uovo e agiungerne ¾ all'insieme di farina e zucchero, tenendo il resto da parte. Unire anche il burro, il sale e la vaniglia. Mescolare il tutto formando un impasto compatto e riporlo in frigorifero coperto da pellicola per 45 minuti. Pelare le mele e tagliarle a cubetti. Metterle in una ciotola capiente con l'uvetta, la cannella, il succo di limone, lo zucchero di canna e metà dell'amido. Lasciar riposare per circa 15 minuti, rimescolando ogni tanto. Infine, imburrare una tortiera dai bordi alti, con diametro di 22 cm, e stendere sul fondo circa ¾ dell'impasto. Coprire il fondo col restante amido e versare dentro la farcia di mele, cercando di evitare il succo. Con l'impasto rimanente fare delle strisce di pasta, larghe 1 cm e sistemarle a scacchiera sulla torta. Spennellare con l'uovo rimasto e infornare in forno già caldo a 170°C per un'ora e venti minuti.

a cura di Michela Becchi

Colazioni del mondo. Francia: croissant, madeleine, crêpes

Colazioni del mondo. India: naan, upma, puttu, masala chai

Colazioni del mondo. Regno Unito: English breakfast, porridge, muffin inglesi

Colazioni del mondo. Stati Uniti: cereali, pancakes, doughnuts, bagel, French Toast

Colazioni del mondo. Brasile: açai bowl, bolo de fubà, pão de queijo, frutta tropicale

Colazioni del mondo. Grecia: baklava, loukoumade, koulouri, yogurt

Colazioni del mondo. Giappone: misoshiru, tofu, dashimaki, doroyaki

Colazioni del mondo. Italia: cappuccino e cornetto, biscotti, ciambellone, pane e marmellata

Colazioni del mondo. Australia: Vegemite, avocado con uova, lamingtons, anzac biscuits

Colazioni del mondo. Portogallo: pastel de Nata, torrada, galão, queijadas de Sintra

Colazioni del mondo. Russia: pane e kolbasa, blinis, syrniki

Colazioni del mondo. Marocco: msemen, baghrir, tè alla menta

Colazioni del mondo. Ecuador: bolón de verde, humitas, empanadas de viento


Bao, il nuovo cortometraggio della Pixar dedicato ai ravioli cinesi

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Sontuoso, colorato, in grado di far venire l'acquolina in bocca a grandi e piccini: il cibo nei cartoni animati è un elemento fondamentale, che negli ultimi anni ha acquisito ancor più importanza grazie alla crescente attenzione al mondo della gastronomia. A sottolineare l'interesse verso la cucina asiatica, Bao, il cortometraggio della Pixar che ha come protagonista un raviolo. 

 

I cortometraggi della Pixar

Quando si parla della Pixar, casa di produzione cinematografica fondata nell'86 e dal 2006 parte della Walt Disney Company, ormai da qualche anno non sono più solo le immagini dei grandi classici come Toy Story, Monters & Co., Alla ricerca di Nemo, e i più recenti Up e Inside Out ad affiorare nella mente di bambini e adulti. Fin dall'inizio, ma soprattutto dal 2010 a oggi, l'impresa si è specializzata sempre di più nei cortometraggi, brevi video animati spesso trasmessi prima di un nuovo film, molto acclamati dal pubblico e dalla critica, tanto da ricevere diversi riconoscimenti dagli Academy Awards. È il caso di Day & Night, tradotto in italiano in “Quando il giorno incontra la notte”, corto incentrato su due personaggi di fantasia, Giorno e Notte, rivali e diffidenti, che alla fine decidono di conoscersi meglio, unendosi e godendo così dei due momenti di congiunzione, alba e tramonto, che consentono loro di ribaltare i ruoli, affinché Giorno possa godere le luci della notte e la movida di Las Vegas, e Notte possa divertirsi nelle spiagge soleggiate. O ancora Piper, il successo del 2016 che racconta la storia di un pulcino timido e impaurito che non riesce a unirsi allo stormo in cerca di cibo su una spiaggia per paura dell'acqua. Finché un giorno non vede dei paguri scavare nella sabbia, e decide di imitarli, scoprendo la bellezza del mondo sottomarino, e diventando così punto di riferimento per l'intero stormo.

 

day n night

Il cibo nei film d'animazione

La lista dei cortometraggi continua, fra storie d'amore (fra tutte Lava, l'amore fra due vulcani) e di legami familiari (La Luna, 2011, racconta il rapporto fra figlio, papà e nonno). Ognuna con una morale, un insegnamento, una trama costruita per archetipi e quella buona dose di divertimento indispensabile, marchio di fabbrica della Pixar e della Disney. Tutte firmate da registi uomini. Almeno fino a oggi. Il prossimo corto di casa Pixar, infatti, rappresenta un grande traguardo per la casa cinematografica: si tratta del primo diretto da una donna, e soprattutto il primo che indaga la cultura cinese, partendo proprio dalla tavola. Certo, non è la prima volta che i piccoli telespettatori possono ammirare sul grande schermo ravioli al vapore e noodles (era il 2008 quando la DreamWorks Animation faceva gola al pubblico internazionale con i dumpling catturati al volo da Po in Kung Fu Panda), ma senza dubbio il nuovo corto animato segna una svolta nel lavoro dell'azienda. E soprattutto, conferma un interesse sempre crescente verso il mondo del cibo da parte del cinema d'animazione, e non solo quello europeo, già celebrato in Ratatouille e altri. A coinvolgere registi e spettatori sono le ricette esotiche (chi non ricorda il gumbo e i bignè creoli de La Principessa e il Ranocchio?), ma soprattutto quelle asiatiche.

 

gumbo

Bao, il raviolo magico

Niente più torta di Biancaneve, dunque (che – per inciso – è a base di uvaspina, e non di mele) o spaghetti con polpette romanticamente condivise fra Lilli e il Vagabondo; al bando il tè all'inglese di Alice nel Paese delle Meraviglie o il soufflé de La Bella e la Bestia. È tempo di cucina cinese. Dopo aver intravisto le prime ciotole di ceramica ripiene di riso nel '98, grazie al classico Disney Mulan, a breve gli appassionati del genere potranno scoprire il fascino dei ravioli, i mitici dumpling, grazie a Bao, il nuovo cortometraggio in scena in Italia il prossimo 19 settembre in occasione dell'uscita de Gli Incredibili 2. Alla regia, Domee Shi, artista figlia di immigranti cinesi cresciuta in America, che nei 7 minuti e mezzo di film racconta l'esperienza di una madre per metà cinese e metà canadese, che proprio nel cibo, un magico dumpling, trova la chiave di volta per mantenere il legame con i propri figli ormai cresciuti.

Il cibo come legame familiare

Come ha dichiarato la regista alla rivista statunitense Entertainment Weekly, il raviolo del film “acquisisce maggiore valore una volta che si realizza che la parola “bao” significa anche “qualcosa di prezioso, un tesoro””. Ed è proprio questo che la donna vuole trasmettere ai figli attraverso la tavola: “Quando mia mamma preparava i dumpling, sentivo sempre che era un suo modo per assicurarsi che stessi bene, che mi sentissi al sicuro”. È da questo ricordo familiare, da questo sentimento rimasto dentro di lei per anni, che Shi ha preso spunto per ideare la sua storia: “Volevo creare questa fiaba moderna con un personaggio magico, una sorta di omino di pan di zenzero cinese”. L'obiettivo? “Far riemergere nel pubblico quel senso di protezione e calore. Spero che tanti telespettatori si possano identificare con il personaggio della madre”. Anche la madre di Shi è stata coinvolta nella produzione del film, chiamata dalla regista a preparare i ravioli di fronte a tutta la squadra, per una dimostrazione pratica da seguire passo passo prima di essere riprodotta al computer. “Abbiamo registrato ogni singolo dettaglio della procedura. Il modo in cui mia madre impastava gli ingredienti, come tagliava e arrotolava la pasta in quella forma perfetta”. Al momento non c'è ancora un trailer, ma le prime immagini pubblicate parlano chiaro: che sia cinese, italiana, francese o americana, la cucina di casa è l'unica che saprà sempre commuovere il palato di tutti. Anche dei critici più agguerriti.

a cura di Michela Becchi

 

 

Teglie Romane. La guida digitale dedicata alla pizza al taglio della Capitale, in 46 indirizzi

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Per stilare il vademecum della pizza al taglio di Teglie Romane, gli autori hanno perlustrato la città quartiere per quartiere, con l'idea di valorizzare una specialità della Capitale. Il risultato è una guida digitale agile e gratuita, in costante aggiornamento. Ecco i 46 indirizzi d'esordio. 

Roma. Capitale della pizza al taglio

Al cospetto dell'impero della pizza napoletana, anche la Capitale ha le sue specialità da difendere. Senza entrare nel merito della disputa tra sostenitori della sovranità partenopea e difensori della causa della romana tonda (bassa e scrocchiarella come tradizione comanda, purtroppo molto bistrattata negli ultimi anni, e solo di recente “riscoperta” da talentuosi giovani pizzaioli), uno dei vanti di Roma, peculiarità gastronomica cittadina con pochi eguali in Italia, è certamente la pizza al taglio, puntualmente censita dalla guida Pizzerie d'Italia del Gambero Rosso (il simbolo di riferimento è la rotella). Ma qualcuno aveva mai pensato di dedicare una guida esclusivamente ai migliori indirizzi di pizza al taglio della città? No, almeno finora. A colmare il vuoto ci pensa il progetto Teglie Romane, nato dalla collaborazione tra le ragazze di Pizza on the Road (Luciana Squadrilli, Tania Mauri e Alessandra Farinelli) e il blog Tavole Romane: una guida digitale e gratuita per chi vuole andare a colpo sicuro in cerca di un assaggio che non deluda le aspettative. Di pizzerie al taglio è piena (invasa!) la città, ma quante meritano davvero l'assaggio?

 

Teglie Romane. La guida

Proprio così, dalla scambio di informazioni tra veri cultori della materia, sempre a caccia di novità, è nato il vademecum in 46 tappe stilato dagli autori di Teglie Romane, “con l'obiettivo di valorizzare uno dei simboli più amati della gastronomia capitolina”, selezionando locali che si distinguono per qualità dell'offerta e passione per il mestiere. Un indirizzario che si snoda tra i quartieri della città, toccando anche mete inconsuete alle porte di Roma, ma pur sempre nello sconfinato perimetro urbano (da Castel di Leva a Prati Fiscali). I 46 locali individuati si dividono in tre categorie: forno, pizzeria al taglio, pizza e cucina. Questo perché una specialità della tradizione street food come la pizza a taglio – da sempre protagonista nei forni storici di Roma -  ha recentemente conquistato anche nuovi palcoscenici, celebrata da locali di nuova concezione che la inseriscono sul menu, in abbinamento a birra, vini, cocktail (leggasi, per esempio, Osteria di Birra del Borgo).

 

Pizza al taglio in 46 indirizzi

Per ogni indirizzo la guida propone una scheda descrittiva che riassume offerta, storia, locale e pizza imperdibile, con informazioni pratiche che spaziano dal prezzo agli orari di apertura, e icone grafiche per evidenziare i servizi disponibili (delivery, posti a sedere, etc.). 18 i premi assegnati per aspetti specifici relativi all'esperienza di degustazione, dalla Miglior Rossa al Premio Sorriso, dalla Miglior Creativa al Premio Ambiente, al premio per la comunicazione social. La prefazione è affidata a un cultore della materia ben noto alle cronache gastronomiche: un omaggio di Alessandro Pipero alla pizza al taglio, e alla sua città. La guida è disponibile sul sito del progetto a partire dall'8 aprile, solo previa iscrizione via email. E si propone come piattaforma in aggiornamento costante, presto anche in lingua inglese. Intanto scopriamo i 46 indirizzi che tracciamo la mappa della migliore pizza al taglio in città.

 

Alice Pizza- Porta di Roma

Angelo e Simonetta- Nomentano 

Antico Forno Roscioli- Campo de’ Fiori

Antico Forno Urbani- Ghetto

Casa Manco- Testaccio 

Ceccacci- San Giovanni 

Delizia Pizza Gastronomica- Prati Fiscali

Eataly Roma- Ostiense

Exquisitaly- Esquilino

Farro Zero- Africano 

Forno Campo de’ Fiori- Campo de’ Fiori

Grecco Enjoy- Aurelio

Il Tempio della Pizza- Tiburtino

Insieme al Pane- Talenti

L’Osteria di Birra del Borgo- Prati 

La Focaccia- Lodi

Le Padelline- Esquilino

Le Sorelle- Castel di Leva

Lievito, Pizza, Pane...- Eur 

Mercato Centrale- Termini

Mt Pizza- Talenti

Opulentia - Pigneto / Prati

Pane e Tempesta- Monteverde Nuovo

Panificio Beti- Monteverde Vecchio

Panificio Bonci- Trionfale

Pizza Chef- Tuscolano

Pizza Gegè- Grottarossa / Corso Francia / Eur

Pizza Luigi- Ostiense

Pizza Zazà- Pantheon

Pizzarium- Cipro 

Pizzeria i Gemelli- San Paolo

Pizzeria Quattro Stagioni- Marconi 

Pizzeria Rustica Italia- Porta Pia

Pizzeria Sancho- Fiumicino

Pommidoro- Centocelle

Prelibato- Monteverde

ProLoco DOL - Centocelle

Romeo C&B Testaccio- Testaccio

Santi Sebastiano e Valentino- Trieste

Spazio Niko Romito- Parioli

Supplì- Trastevere

Trapizzino Ponte Milvio- Ponte Milvio

Trapizzino Testaccio-Testaccio

Trapizzino Trilussa - Trastevere

Trevisiol- Monteverde Nuovo

Trieste Pizza- Monti

 

www.teglieromane.it

 

a cura di Livia Montagnoli

Libri. Che mondo sarebbe. Pubblicità del cibo e modelli sociali

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Un libro ci svela come le pubblicità alimentari condizionano i nostri acquisti e i nostri stili di vita, suggerendo modelli sociali non sempre veritieri e limitando la consapevolezza delle nostre scelte.

 

Che mondo sarebbe se fossimo davvero come la pubblicità – quella del cibo – ci rappresenta? Saremmo noiosi, retrogradi, sessisti, aderenti a luoghi comuni stantii, ma anche bellissimi, perfetti, in forma, sorridenti con case lustre e sempre in ordine. Ma preda di osceni luoghi comuni.

 

Cinzia Scaffidi, nel libro edito da Slow Food, guarda alle pubblicità del cibo e analizza come queste promuovono i prodotti e, insieme, come ci rappresentano. Che è solo in parte come siamo, ma anche e soprattutto come il mercato ci vorrebbe. E come noi – in modo più o meno consapevole – stiamo abituando a vederci.

Si parte da una considerazione generale: le pubblicità, in linea di massima, riguardano prodotti processati, e mai ingredienti. Ci sono biscotti, pizze surgelate, sughi pronti, insalate in busta o pasta secca, mentre uova, farina, zucchero sono rari. Questo perché insieme a quei prodotti ci vendono del tempo: quello che non impieghiamo a prepararceli da noi, e quello (ancora più importante) che non investiamo nell'imparare come si fa, diventando così meno competenti e più facilmente manipolabili. Dunque prodotto finito, più costoso e di minore qualità (sì, c'è anche chi cucina male con ingredientacci, ma almeno sono tutti noti), in cambio di preziose ore risparmiate. Preziose perché non abbiamo tempo, ce lo dicono e ce ne convincono gli stessi spot: si esce di corsa senza riuscire a fare colazione (e poi non ci vediamo più dalla fame), si sta nel traffico dovendo fare mille commissioni in un tot. Eppure a leggere le statistiche, stiamo talmente tanto davanti ai social network e alla tv (in ogni sua versione) che il tempo ci sarebbe, eccome, di preparare il pranzo per tutta la famiglia.

 

Padri, madri, figli, nonni tra ruoli e luoghi comuni

Le famiglie-tipo in tv sono preda di luoghi comuni e di goffi tentativi di superarli, “il mercato impara più in fretta della politica” commenta argutamente la Scaffidi. Ci sono conviventi non amanti, coppie gay (in uno spot era davanti a un pranzetto a base di cibi precotti che un giovane faceva coming out con la madre), famiglie allargate, studenti, single, bambini adottati o acquisiti. Visto che tutti mangiano, tutti sono interessanti da un punto di vista commerciale. Non senza dei ruoli imposti: le nonne, per esempio, sono le custodi dell'abilità in cucina (ma il tormentone della cosiddetta cucina delle nonne c'è anche nella vita reale), quelle a cui chiedere consigli, soccorso per una ricetta o per il bucato, insomma sono gli angeli del focolare per antonomasia. Senza però considerare che le 60-70enni di oggi sono quelle che hanno vissuto il boom economico e l'ingresso nel mondo lavorativo (con il conseguente “abbandono” del ruolo domestico), quelle che hanno contribuito all'espansione dell'industria alimentare, che hanno benedetto la nascita dei cibi già pronti e ne hanno sancito il successo. A loro si demanda ogni competenza domestica, che la abbiano oppure no. Le mamme in genere sono bassa manovalanza: preparano la colazione o la cena che è immancabilmente già in tavola quando il marito torna a casa (ma loro non si vedono praticamente mai rientrare). I padri, beh, quelli riguardo al cibo si rivelano, per lo più, incapaci di mettere una cosa in fila all'altra. Se non sono imbranati completamente poco ci manca: neanche riescono a prendere una merendina per i loro figli o caricare la lavastoviglie senza l'intervento della moglie. La loro presenza è sempre poco, o pochissimo, primaria quando si parla di cibo da scegliere, preparare, comprare (alla faccia dei tanti uomini che invece sono più che competenti). Poi ci sono i figli (possibilmente due, grazie). Su di loro si concentra l'attenzione dei pubblicitari perché più suscettibili alle lusinghe della réclame e in grado di fare leva sui genitori, schiacciati dal senso di colpa di non dedicargli abbastanza tempo. Ai bambini è affidato l'onere della scelta degli acquisti da cui taluni genitori rifuggono, nella deresponsabilizzazione che è parente stretta di quella corsa alla perenne gioventù. Non ci credete? Avete presente l'asteroide che cade in testa a mamme e papà colpevoli di aver dubitato che esista una merendina come quella di cui parla la figlia?

 

Cucina sempre, cucinare mai

Le case degli spot sono meravigliose, le cucine sempre immacolate (a meno che non si debba promuovere un detersivo), e il cibo? Cucinare, quasi sempre significa tagliare le verdure. Una julienne di carote, un bel peperone colorato, una zucchina. Il pane no, forse perché fa le briciole, la carne non sia mai (poi come la mettiamo con i veg? No vorrete mica metterveli contro, e poi il sangue è antiestetico). Un bel taglio a un pomodoro distilla l'arte del preparare la cena. Che poi il più delle volte negli spot si rivela un assemblaggio di cibi già pronti, ma vuoi mettere quel bell'hamburger appena scongelato se poi accanto ha una falda di peperone? Oppure una costa di sedano impreziosita da un ricciolo di formaggio spalmabile? Quello cremoso, soffice e morbido. Caratteristiche che ai pubblicitari e all'industria alimentare piacciono tantissimo. Formaggi, pancarrè, merendine, pure il tonno è così morbido che si taglia con un grissino (peccato che non è proprio un valore nel tonno, ma tanto ormai chi lo sa più): morbido è rassicurante, una specie di confort food. All'estremo opposto, ma ugualmente desiderabile, c'è la croccantezza. Croccante equivale a gioioso, vivace, moderno. Così abbiamo insalate, snack, surgelati panati sempre più a prova di crunch. Poi c'è la sintesi di tutto: il sofficino, croccante fuori, morbido dentro. Praticamente il cibo perfetto.

 

Via via, un capitolo dietro l'altro, Cinzia Scaffidi ci offre una rilettura critica e molto arguta (oltre che divertentissima) di come siamo nelle nostre pubblicità e come – forse – diventeremo a breve, se no lo siamo già. E lo fa analizzando i vari momenti della giornata alimentare (colazione, pranzo, cena), i luoghi in cui si consuma il cibo fuori casa (scuola e lavoro), come viene rappresentata la filiera alimentare (i quasi scomparsi contadini, gli artigiani, i supermercati, i ristoranti), i testimonial più famosi (da Gassman a Favino passando per Banderas con la gallina Rosita), fino ai valori espressi nelle pubblicità. Un libro da leggere, per sorridere e riflettere.

 

Che mondo sarebbe - Cinzia Scaffidi – Slow Food editore – 192 pp. - 14,50 €

 

a cura di Antonella De Santis

Il futuro del Movimento Turismo del Vino. La ricetta del neopresidente D'Auria

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Più fondi, istituzioni e lavoro di squadra, a partire da Vinitaly. Parla il neopresidente del MTV Nicola D'Auria, eletto all'unanimità. I progetti per il futuro dell'associazione. 

Nicola D'Auria. Chi è

“Questa elezione avvenuta all'unanimità mi riempe di gioia, ma mi carica anche di grosse responsabilità”, è questo il primo commento del neopresidente del Movimento Turismo del Vino Nicola D'Auria.

Abruzzese, 53 anni e titolare dell'azienda Dora Sarchese (Ortona), D'Auria è già stato consigliere nazionale per due legislature, oltre a ricoprire il ruolo di presidente regionale per l'Abruzzo a partire dal 2014. Il suo, sarà un mandato sotto il segno della continuità, che raccoglierà il testimone del past president Carlo Pietrasanta, come dimostra, anche la conferma in blocco del consiglio d'amministrazione del precedente triennio: Sebastiano de Corato (Puglia), Stefano Celi (Valle d'Aosta), Serenella Moroder (Marche), Elio Savoca (Sicilia) e Giorgio Salvan (Veneto).

Arrivo alla presidenza in un momento particolarmente delicato e importante per il Movimento” ha detto a Tre Bicchieri il neoeletto “proseguirò sulla strada della legge sull'enoturismo, intrapresa da Pietrasanta, con la convinzione che c'è, oggi più che mai, bisogno di gioco di squadra e dell'apporto istituzionale: di turisti in arrivo in Italia, per fortuna, ce ne sono tanti, ma all'interno del Movimento abbiamo bisogno di fondi da cui attingere per poter promuovere più iniziative nazionali e intercettare una domanda in continua crescita”.

 

I progetti per il Movimento

A livello territoriale, lo stanno facendo già abbastanza bene in Abruzzo, anche attraverso investimenti privati, com'è il caso dello stesso D'Auria che, qualche anno fa, ha realizzato all'interno della sua cantina, una fontana del vino che attira ogni anno tantissimi turisti e pellegrini del Cammino di San Tommaso (il percorso che unisce Roma e Ortona). Non solo. Sempre in Abruzzo, ogni anno, Mtv regionale organizza una giornata a bordo del Treno storico del vino che da Sulmona arriva fino a Roccaraso, con diverse tappe intermedie per degustare i vini delle cantine associate. Quest'anno l'appuntamento con la “transiberiana del vino” è previsto per il mese di luglio. Ma adesso, ad attendere il presidente-fontaniere, per la prima uscita ufficiale con il Movimento Turismo del Vino nazionale, c'è Vinitaly, dove l'associazione avrà uno stand (Padiglione 10) condiviso con alcuni dei partner storici, come Città del Vino e Intesa San Paolo. E, poi, a seguire c'è lo storico evento nazionale di primavera: Cantine Aperte in tutta Italia, previsto per il 26 e 27 maggio.

 

a cura di Loredana Sottile

Fuorisalone 2018. Gli appuntamenti a tema enogastronomico della Milano Design Week. Prima tappa

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Dal 17 al 22 aprile Milano si anima per gli appuntamenti, molteplici, del Fuorisalone, che coinvolge tutta la città. E il cibo è un elemento d'attrazione che non può mancare. Ecco come orientarsi tra gli eventi a tema. La prima puntata. 

Chiamatelo Fuorisalone, o Milano Design Week, quel che conta è arrivare puntuali all'appuntamento che più movimenta Milano e le sue giornate per una settimana all'anno, in concomitanza con il Salone del Mobile che riunisce in città designer, creativi, buyer italiani e internazionali, galleristi e tanti curiosi che vogliono aggiornarsi sulle ultime tendenze del settore. O semplicemente godere del ricchissimo calendario di eventi che, parallelo, si articola tra i distretti milanesi votati al design (e non solo). Il Fuorisalone meneghino, nato come iniziativa collaterale, ha certamente saputo diventare manifestazione iconica a sé, capace di animare una piazza già dinamica di suo, specie negli ultimi anni di fermento creativo e urbanistico, con amministrazione pubblica e forze private che procedono all'unisono. E anche il cibo, alla ribalta sin da Expo 2015, vero volano della continua crescita in atto, gioca un ruolo sempre più attivo nella definizione del cartellone di eventi della Milano Design Week, quest'anno di scena dal 17 al 22 aprile. Quindi procediamo con la consueta rassegna di segnalazioni e suggerimenti utili per orientarsi nello sconfinato mare magnum di ritrovi di piazza, happening gastronomici, food market che strizzano l'occhio al design, aperitivi a tema, inaugurazioni e cene speciali che caratterizzeranno l'intera settimana. Un avvicinamento alla vigilia del Fuorisalone per tappe: raccogliendo le diverse puntate dovreste ritrovarvi con una valida guida tarata sull'offerta enogastronomica dell'edizione 2018.

 

The Diner by David Rockwell: tra le novità di Ventura Centrale, che dall'anno scorso sfrutta il bello spazio recuperato tra le volte di via Aporti (zona Stazione Centrale), c'è la macchina del tempo inscenata dall'architetto David Rockwell, che tra mille stand che indagano il design contemporaneo evoca l'atmosfera di un diner americano d'altri tempi. Attualizzandolo nella forma e nei contenuti per Surface, celebre rivista di design americana, che ha commissionato l'installazione. Ma The Diner offrirà al pubblico di Ventura Centrale una tavola operativa a tutti gli effetti, uno spazio per mangiare, rilassarsi e socializzare. Lo spazio ospiterà talk e feste notturne, ma soprattutto proporrà un servizio di ristorazione in stile, per celebrare il mito americano. L'ingresso, ispirato all'Airstream, offrirà caffè e pie della tradizione casalinga; la sala, invece, omaggia i diner dell'East Coast, per servire milkshake e classici della cucina degli States. Terzo spazio, ispirato al Midwest, dedicato al cheese sandwich.

 

EustachiOra: Vino e design in via Eustachi, zona Porta Venezia, che si attiverà all'interno di un distretto più ampio (ne riparleremo) per raccontare il mondo enologico da una prospettiva insolita, con la collaborazione delle attività allineate sui 500 metri di viale alberato. Un progetto di quartiere, dunque, che si concentra sulle qualità conviviali del vino, con la direzione artistica dello Studio Marco Piva. Protagonisti anche i designer che presenteranno oggetti creativi relativi alla cultura del bere e della tavola, animando un percorso in 7 tappe, in abbinamento alla degustazione di etichette selezionate.

 

Streeteat a Brera: Il cortile del Liceo Parini si trasforma in corte del cibo, tra street food, design e tecnologie sostenibili. Siamo nel cuore del Brera Design District, e la Food Court ideata dalla piattaforma Streeteat proporrà tradizioni gastronomiche e nuovi design degli spazi ristorativi per un confronto su temi di attualità quali la gestione e la condivisione degli spazi, l’eco-sostenibilità e la sharing economy. A guidare i visitatori e a rispondere alle loro domande saranno gli stessi alunni del liceo, ambasciatori del progetto. Tra i presenti il CucuTruck che vedrà avvicendarsi cuoche italiane e straniere, la cucina trainabile alimentata elettricamente di ev-Now, il menu della poesia degli attori di teatro che serviranno poesie ai tavoli.

 

Favole al Telefono: Nuova edizione per l'appuntamento a Letto con il design al Design Hostel di via Cosenza, zona Bovisa. Quest'anno protagoniste saranno la favole al telefono: una storia gastronomica d'Italia raccontata attraverso i suoi marchi centenari. Un classico telefono SIP permetterà di vivere l’esposizione: una voce risponde al telefono per guidare dentro una storia che tocca i diversi sapori del food made in Italy. E contemporaneamente lo spazio si anima: all'interno delle stanze del Design Hostel si accendono proiezioni che accompagnano le “favole” ascoltate al telefono.

 

a cura di Livia Montagnoli

Pianeta Verdicchio. Castelli di Jesi o Matelica?

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15 etichette per scoprire il vitigno a bacca bianca più diffuso nelle Marche: il verdicchio. Un grande bianco tra i Castellli di Jesi e Matelica.

Alcuni vini delle cantine citate in questo articolo sono acquistabili su Tannico.it, l’enoteca online partner di Gambero Rosso. 

 

Il verdicchio è la bacca bianca più diffusa nelle Marche: attualmente sono 3500 gli ettari di vigneti specializzati che danno vita all'iconico bianco simbolo dell'intera viticoltura regionale.

 

Matelica e i Castelli di Jesi

Verdicchio dei Castelli di Jesi e Verdicchio di Matelica sono le due denominazioni principali: pur avendo in comune la stessa cultivar, entrambe hanno sostanziali differenze indotte da un microclima diverso e peculiare. I vigneti jesini sono dislocati in valli che sfociano verso l'Adratico per cui svelano un timbro più solare e mediterraneo. Matelica è circondata dagli Appennini: le escursioni termiche in epoca di maturazione e un clima più fresco conferiscono quell'accento montano che poi nel vino si traduce con acidità più pronunciate e alcol più contenuto.

In ogni caso la notevole estensione dei “Castelli di Jesi” include territori difformi. A Corinaldo e Morro d'Alba i vigneti annusano il mare mentre a Cupramontana ed Apiro le altimetrie si fanno importanti e il microclima è influenzato dai freddi influssi del Monte San Vicino. Per questo sotto alcuni aspetti appare più uniforme la condizione pedologica: pur con le opportune differenziazioni, i terreni destinati alla viticoltura in genere sono composti da un tipico impasto di calcare e argilla qua e là venati da sabbia o arenaria.

 

Un vitigno plastico

Il verdicchio è un vitigno particolarmente plastico: agendo sulle epoche di maturazione riesce bene nella produzione di spumanti Metodo Classico e di vini passiti. Questa caratteristica fa sì che anche nel bianco fermo gli stili indotti dai produttori siano i più disparati: dalla verticalità salina di alcune etichette si passa alla densità strutturale di alcune versioni di particolare pregio.

Oggi riassumiamo alcune delle tante letture che si possono dare del vitigno attraverso una panoramica dei Verdicchio che in Vini d'Italia 2018 hanno ottenuto i Tre Bicchieri.

 

Poderi Mattioli – Castelli di Jesi Verdicchio Cl. Lauro Ris. '15

La filosofia aziendale è un mix efficace di sapienze tramandate e conoscenze aggiornate.Straordinario il Lauro '15: il naso finemente modulato sui descrittori più tipici del Verdicchio si accompagna a un sorso di devastante sapidità, attacco a energia motrice. Nello sviluppo al palato si mantiene sempre coeso sino a un finale rigato da lunghissime scie saline.

 

Marotti Campi – Castelli di Jesi Verdicchio Cl. Salmariano Ris. 14

Anima bifronte quella dell'azienda di Lorenzo Marotti Campi: da un lato l'amato Verdicchio che a Morro d'Alba viene declinato in bianchi di stampo moderno; dall'altro la vocazione del territorio per la lacrima nera. Il Salmariano '14 ha un complesso spettro olfattivo che abbraccia sensazioni di buccia d'agrumi canditi e pesca che si ritrovano in un palato di vibrante energia e dalla timbrica raffinata.

 

Pievalta – Castelli di Jesi Verdicchio Cl. San Paolo Ris. '15

In Pievalta l'approccio biodinamico è sempre stato una prerogativa ma senza dogmatismi. Questa visione laica, unita alla caparbietà di Alessandro Fenino, si traduce in vini di grande personalità. Come il San Paolo Riserva '15: alle tante citazioni aromatiche del naso, tutte perfettamente attinenti ai descrittori più classici del vitigno, segue una bocca di travolgente energia guidata da un nerbo acido salino definitissimo, spontaneo e profondo.

 

Fazi Battaglia – Castelli di Jesi Verdicchio Cl. San Sisto Ris. '15

La famiglia Angelini di Bertani Domains, attuale proprietaria, crede molto nel Verdicchio di qualità: grande attenzione alla parte agronomica e al concetto di cru, gamma ben differenziata in base alla maturazione delle uve, uso ragionato di affinamenti in cemento o barrique sono gli elementi centrali di un raffinato linguaggio enoico.Se amate una misura elegante, complessa e compassata la scelta dovrà cadere sul San Sisto '15.

 

Andrea Felici – Castelli di Jesi Verdicchio Cl. V. Il Cantico della Figura Ris. '13

La coltivazione della vite è parte fondante della cultura agricola di Apiro. Qui il verdicchio alligna su terreni freschi e la presenza del Monte San Vicino conferisce un terso accento appenninico.Il Cantico della Figura Riserva sfoggiaun naso magnificamente calibrato tra percezioni di agrumi, mandorla, anice e sentori minerali di grande finezza a cui fa eco un palato sinuoso, vivido, di trascinante energia sapida.

 

Bucci - Verdicchio dei Castelli di Jesi Cl. Sup. '16

Passano gli anni eppure ogni bottiglia che esce dalla storica cantina di Pongelli rafforza il ruolo che Bucci gioca per tutta la viticoltura regionale. Una sapienza produttiva che trova ispirazione nel mai ripudiato taglio artigianale dell'azienda. Il Verdicchio Classico Superiore '16 amalgama deliziosi richiami di camomilla, anice e sottili cenni ammandorlati su un palato affusolato e vitale, ricco di chiaroscuri gustativi.

 

Vicari - Verdicchio dei Castelli di Jesi Cl. Sup. Insolito del Pozzo Buono '15

Vico Vicari ha una passione rara e viscerale per il proprio lavoro. Conosce i suoi filari a menadito, passa più tempo tra le mura della cantina che in casa, non è mai stufo di provare, sperimentare, selezionare.L'Insolito del Pozzo Buono vanta un magnifico equilibrio: cristalline percezioni di erbette e agrumi si combinano in un sorso di trascinante energia e si amplificano in un crepitante finale.

 

Tenuta di Tavignano – Verdicchio dei Castelli di Jesi Cl. Sup. Misco '16

Il duro lavoro in vigna e la cura in fase di vinificazione sono delle costanti nel team capitanato da Ondine de la Feld. Nei filari a forma di anfiteatro volti verso la cantina e la valle del Musone si coltiva verdicchio. Il Misco '16 profuma di fiori, anice e pesca bianca; il sorso è lungo e continuo, armonioso, impostato su un alto concetto di bevibilità e piacevolezza.

 

Gioacchino Garofoli – Verdicchio dei Castelli di Jesi Cl. Sup. Podium '15

Il cognome Garofoli è sinonimo di "grande classico" nel panorama regionale. Merito di una storia secolare e di uno stile che non si è mai piegato alla dittatura del mercato o della moda.Il Podium '15 si presenta con una versione luminosa, chiarissima nei profumi, segnata dall'inconfondibile impasto di erbe aromatiche, tratteggi balsamici e mandorla, dalla bocca di trama elegante, coinvolgente per completezza ed espressività. 

 

Roberto Venturi – Verdicchio dei Castelli di Jesi Cl. Sup. Qudì '15

Roberto Venturi si è ritagliato per sé un ruolo da custode viticoltore. Così ama definire il suo lavoro, ereditato dal padre e atto a difendere la cultura della vite in un territorio posto sul limitare nord est dei Castelli di Jesi.Il Qudì '15 è finissimo nell'olfatto di erbette, mandorla e refoli balsamici; offre un sorso di grande progressione, flessuoso e armonico.

 

Umani Ronchi – Verdicchio dei Castelli di Jesi Cl. Sup. V. V. '15

I tanti ettari vitati di proprietà fanno capire che per la famiglia Bernetti l'impegno agricolo è un fattore determinante di qualità. Il Vecchie Vigne '15 conferma la sua cifra elegantissima, il sorso sobrio e deciso all'unisono, il finale sfumato in mille rivoli di sale e aromi chiarissimi.

 

Belisario – Verdicchio di Matelica Cambrugiano Ris.'14

Pur essendo un istituto cooperativo, l'azienda non si limita a ricevere le uve degli associati ma gestisce direttamente un consistente parco di vigneti da cui ricava un'ottima materia prima, suddivisa per cru e stadi di maturazione.La fredda annata 2014 restituisce una lettura magistrale del Cambrugiano: a un naso cesellato di reminiscenze agrumate, ginestra e un sottile fondo boisé, segue un palato spigliato, pervasivo, con un finale di prorompente sapidità.

 

La Monacesca – Verdicchio di Matelica Mirum. Ris. '15

Aldo Cifola guida con polso fermo l'azienda che ha saputo portare ai vertici della produzione bianchista italiana. Il Mirum '15 è un Matelica finissimo nei profumi di prugna gialla, mandorla, sottili tratti aniciosi, al palato svela solida struttura in un passo ritmato ed elegante, dal carattere indomito.

 

Borgo Paglianetto – Verdicchio di Matelica Petrara '16

Dalle vigne di contrada Pagliano si ricavano bianchi tersi, di gran sapore ed energia tutti a base di verdicchio in purezza.La bontà del Petrara '16 non sorprende: è sempre tra i migliori Matelica d'annata con il suo profilo chiaro, la sapidità tenace, l'indole succosa che si tramuta in bevibilità straordinaria.

 

Bisci – Verdicchio di Matelica Vign. Fogliano '15

L'azienda offre uno stile sempre più centrato sulle credenziali del territorio, ossia la ricerca di Verdicchio affilati, sapidi, eleganti ottenuti da maturazioni ben ragionate e affinamenti in tini di cemento vetrificato.Il Vigneto Fogliano '15 ha uno stile scandito da una cadenza agrumata tratteggiata da soffi minerali e di anice; la bocca ha una movenza raffinata, capace di tenere insieme mirabilmente complessità aromatica ed entusiasmante bevibilità. 
 

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La pasta italiana in Piemonte. 10 formati tipici e la ricetta dei tajarin

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La pasta all'uovo, in Piemonte, si arricchisce di tuorli, per una sfoglia dal colore giallo carico che dà vita ai celebri tajarin, ma anche agli agnolotti del plin e ad altri formati golosi e succulenti. Ecco quali sono le paste più famose della regione.

 

Una tradizione solida frutto dell'influenza francese ma anche di quella ligure, grazie al continuo passaggio di commercianti in arrivo dalla regione vicina, che oltre alle spezie portavano con loro ricette tipiche e tradizioni culinarie. Il Piemonte può quindi fare affidamento su una cucina robusta, fatta dei prodotti locali, burro, latticini e carboidrati, ma anche frutta secca legumi, cereali e tuberi. Una tavola che nasce alla corte dei Savoia, ma che prende spunto anche dalle abitudini di consumo dei ceti più poveri, pescando dalle ricette della tradizione contadina. Il risultato è dunque un accordo di sapori e piatti molti diversi tra loro, sia per la complessità delle preparazioni che per la tipologia di ingredienti utilizzati. Ruolo fondamentale lo giocano i primi piatti, dalle zuppe alle minestre (soprattutto a base di castagne), ma anche tante paste, in particolare quelle all'uovo, ripiene e non. Qui abbiamo radunato i 10 formati tipici più diffusi in tutta la regione, ma occorre ricordare sempre che per ogni ricetta esistono diverse interpretazioni e variazioni locali.

 

Agnolotti

Detti anche agnulot, angelotti, langaroli o langheroli, gli agnolotti sono fra le paste piemontesi più conosciute in tutto lo Stivale, e non solo. Nonostante siano uno dei prodotti più rappresentativi della cucina regionale, questi tortelli devono in realtà la loro nascita ai cuochi liguri, che li preparavano – di dimensione leggermente più piccola – con un ripieno a base di erbe aromatiche. In Piemonte, invece, farce e condimenti variano a seconda della zona: nel novarese si utilizza la borragine, nell'alessandrino vengono insaporiti con la Barbera, a Marengo si farciscono con cervella e animelle, mentre a Monferrato si opta per la carne d'asino. Famosi gli “agnolotti delle tre carni” dell'astigiano, preparati con tre arrosti diversi, ma anche quelli di verza delle Langhe. Fra le ricette più note, i “fagottini della Bella Rosina”, agnolotti con ripieno di fonduta creati in onore di Rosa Vercellana, moglie di Re Vittorio Emanuele II, e ancora gli “agnolotti alla Cavour”, ovvero conditi con la finanziera, tipico mix di frattaglie ed elementi di scarto della lavorazione dei galletti ideato nel 1450 dal Maestro Martino nel Monferrato. Secondo la leggenda, fu proprio il Conte Cavour a richiedere questa ricetta nello storico ristorante Al Cambio di Torino. Qualunque sia la versione, questo formato ha attraversato secoli di storia: se ne parla già ne “La Cuciniera Piemontese” del 1789, ma è solo nel “Trattato di Cucina Pasticceria moderna Credenza e Relativa Confettureria” del 1854 e poi nella “Cucina borghese di Giovanni Vialardi” del 1901 che si trovano tracce di una preparazione simile a quella attuale. La tradizione vuole che il ripieno sia preparato con carni miste, vitello e maiale in particolare, cotte a stufato e profumate con vino ed erbe, mentre come condimento viene solitamente usato il fondo di cottura delle carni.

 

Agnolotti del plin

Fra le tante variazioni di agnolotti, una nota a sé la meritano i celebri agnolotti del plin, tortelli di pasta all'uovo ripieni di vitello e maiale, talvolta disponibili anche nella versione verde che prevede l'aggiunta di spinaci, caratterizzati dal tipo di chiusura particolare, nato nelle Langhe ma ben presto diffusosi nel resto del territorio. Il “plin”, infatti, è il pizzicotto che viene dato per sigillare la pasta di forma squadrata. Solitamente vengono conditi con burro, salvia e parmigiano, oppure con sugo d'arrosto, parmigiano e tartufo, o altre salse bianche in grado di esaltare il sapore del prodotto. Fra le più antiche abitudini di consumo, c'è anche l'insolita tradizione del Dolcetto, ormai un po' in disuso, che vuole che la pasta venga affogata dentro una ciotola di buon vino.

 

Biavette

La tradizione di zuppe e minestre è talmente radicata in Piemonte che non possono mancare i formati di pasta più piccoli adatti per queste preparazioni. Fra le pastine più note della regione, le biavette, in origine a base di acqua e farina, oggi preparate con le uova: si tratta di piccoli pezzetti di pasta grandi quanto un chicco di riso lavorati fra pollice e indice per conferire la tipica forma schiacciata. Da sempre, le biavette vengono confezionate per la “minestra del battere il grano”, una zuppa di brodo di carne preparata con le rigaglie di pollo e pensata per sostenere gli uomini durante il duro lavoro della mietitura.

 

Cajettes

Una sorta di gnocchi diffusi soprattutto fra la val di Susa e la val Chisone, in particolare nella zona di Sestriere, un comune di circa 900 abitanti che d'inverno si popola a dismisura per la stazione sciistica – la più grande di tutto il Piemonte – che collega le due valli. Le cajettes sono uno dei primi piatti più popolari, si tratta di gnocchi di patate, ortica, cipolla e farina di segale, solitamente gratinati al forno. Una ricetta “povera”, profondamente legata alla tradizione agreste del luogo, che ha come protagonista uno dei prodotti più diffusi in tempi di carestia, da sempre simbolo di ristrettezze economiche: la patata. Il nome dialettale deriva dalla forma allungata degli gnocchi, e indica il fuso utilizzato in passato per filare la lana.

 

Corzetti

Un pezzetto di impasto di acqua, uova e farina, steso con il mattarello e pressato alle due estremità con i polpastrelli a forma di otto: è il corzetto, tipico formato piemontese condiviso anche con la Liguria, che trova diverse espressioni a seconda della zona. Una pasta antica, presente già nel Duecento, tanto da essere citata nel “Liber de coquina bi diuersitate ciborum docentur,” e poi, molti secoli dopo, nel “Deux traités d'art culinaire mdiéval” del 1970. I corzetti tiae co-e die (tirati con le dita) sono la reinterpretazione italiana di una storica preparazione provenzale, diffusasi dapprima in Liguria, nella Val Polcevera, e poi in Piemonte. I pezzetti di pasta devono essere grandi quanto un pollice “et cum digito sunt concauati”, ovvero incavati con il dito. Due le tipologie principali della cucina piemontese: i croset, molto simili ai cavatelli, e i crosit, a base di pane raffermo bagnato nell'acqua e mescolato con la farina, una sorta di gnocco a base di ingredienti poveri rigato in superficie con la forchetta. Ci sono, poi, anche i meno conosciuti torsellini: gnocchetti piccoli e incavati tipici della Valle Belbo. Per chi non volesse realizzare i corzetti a mano, esistono degli appositi stampini in legno, diffusi già nelle corti rinascimentali liguri, dove spesso veniva inciso lo stemma del casato oppure una croce, dalla quale – probabilmente - prendono il nome (un'altra teoria ritiene invece che la parola corzetto derivi dal croset, uno scudo d'argento utilizzato nel Seicento nella Repubblica di Genova). In qualsiasi caso, i corzetti hanno rappresentano per molto tempo la risorsa alimentare base dei marinai in viaggio, grazie alla loro capacità di conservazione e il basso costo delle materie prime, che li ha resi uno dei formati più popolari anche durante i frequenti periodi di carestia.

Gnocchi di zucca

Nonostante siano oggi parte integrante della dieta e della cultura gastronomica nazionale, le patate non sono sempre state presenti sulla tavola italiana: a far conoscere i tuberi, infatti, furono dapprima gli spagnoli (e non Cristoforo Colombo, come spesso – erroneamente – si pensa), che le importarono dalla Cordigliera delle Ande nel Cinquecento sotto la guida di Francisco Pizzarro, e poi i padri Carmelitani scalzi, dell'ordine religioso nato in Spagna, che alla fine del XVI secolo insegnò agli italiani a coltivare e cucinare le patate. Prima dell'avvento del tubero, però, erano le zucche a dominare i ripieni delle paste fresche, perfette per consistenza e capacità di conservazione. In Piemonte, la zucca divenne parte dell'impasto, insieme a uova e farina, un mix di ingredienti che dà vita a gnocchetti morbidi molto popolari anche in Friuli Venezia Giulia, Veneto e Valle d'Aosta, dove vengono gratinati al forno e ricoperti di fontina. Da sempre piatto di festa, lo gnocco di zucca per i piemontesi rappresenta da secoli un'alternativa a basso costo dei ravioli di carne, solitamente preparati nelle grandi occasioni.

 

Gnocchi ossolani

Farina di grano, farina di castagne, zucca, patate, uova e spezie: nella Val d'Ossola sono gli gnocchi ossolani a farla da padrone, pezzi di impasto morbido cotti in acqua bollente e conditi con un po' di buon burro d'alpeggio d'alta quota. L'origine di questa ricetta risale al Cinquecento, quando i montanari della zona scendevano a Intra e Pallanza, località in provincia di Verbania che per secoli hanno rappresentano i più grandi centri commerciali del Lago Maggiore, per fare scorta di ingredienti. Nel mercato che costeggiava le sponde del lago, infatti, pastori, contadini e casari trovavano tutto il meglio dei prodotti locali, facendo scorta soprattutto di grano e cereali. Al ritorno, preparavano il pasto con le materie prime a disposizione, dalla farina alle patate, aggiungendo ingredienti preziosi come le celebri castagne piemontesi, in questo caso ridotte in polvere, per conferire maggiore gusto al piatto.

 

Mandilli 'nversoi

Fra le ricette che traggono ispirazione dalla cucina ligure, i mandilli 'nversoi, in Liguria chiamati mandilli di sea, fazzoletti di seta. Si tratta di quadrotti di pasta farciti come un tortello, solitamente ripieni di salsiccia, animelle, bietola o borraggine, e insaporiti con del formaggio. Un formato che nasce nelle cucine rinascimentali, dove la sottigliezza della pasta era sinonimo di eleganza e raffinatezza. Fra le tipologie più apprezzate del tempo, infatti, i capelli d'angelo, tagliolini molto fini diffusi un po' ovunque, ma in particolar modo in Liguria e nel Lazio, descritti già nei testi del XVII secolo, e nati all'interno dei monasteri medioevali, dove le monache erano solite prepararli per gli ammalati o le puerpere. Più la pasta era sottile e il formato difficile da preparare, più si avvicinava a quell'ideale di bellezza e perfezione tanto ricercato dai commensali dei grandi banchetti delle corti rinascimentali. I mandilli 'nversoi, piuttosto piccoli ma con la sfoglia meno fine dei capelli d'angelo, rappresentavano la soluzione perfetta per i cuochi dell'epoca.

 

Raviole

Un prodotto nato fra le comunità dei Walser anticamente stanziate nelle valli dell'alto Piemonte, e legato a doppio filo alla tradizione ligure. Le raviole si sono iniziate a diffondere grazie alla via della transumanza che partiva dalle Alpi Marittime Liguri, dove si preparavano le raviore, pasta ripiena a base di farina, acqua e uova, oggi realizzata solo con uova e farina. Sono, infatti, frutto della cosiddetta “cucina bianca”, una tradizione gastronomica nata fra i sentieri della transumanza in Liguria e nelle Valli Occitane del cuneese, chiamata così per il colore chiaro degli ingredienti, dalle uova alla farina, senza dimenticare i latticini e gli ortaggi come cipolle, rape e patate. Un tempo, la farcia era a base di dadini di varie tipologie di formaggio avanzate, mescolate con le uova, mentre oggi varia a seconda della zona: ogni comune, infatti, utilizza i formaggi tipici locali. Tradizionalmente, le raviole vengono prima fritte e poi cotte nel latte, in particolare nelle valli biellesi, ma non è raro trovarle anche nella versione più semplice e leggera, lessate in acqua e poi condite con prodotti di stagione.

 

Tajarin

Una delle paste più note della cucina piemontese sono senza dubbio i tajarin, sottili tagliolini lunghi caratterizzati da un colore giallo acceso dovuto alla presenza abbondante di tuorli d'uova. Diffusi soprattutto nel territorio delle Langhe, i tajarin sono uno dei piatti simbolo locale: Massimo Alberini nel volume “Piemontesi a tavola” racconta che già al tempo di Vittorio Emanuele II, che li mangiava con un tovagliolo annodato alla divisa per proteggere il tessuto, erano uno dei piatti più in voga. A prepararli a quel tempo era Rosa Vercellana, conosciuta come La Bela Rosin, contessa di Mirafiori e moglie del re. In passato rappresentavano il pasto delle feste, spesso conditi con olio e acciughe oppure burro e funghi, come si legge ne “La cuoca di buon gusto”, un ricettario del 1901, ma oggi ogni occasione è buona per deliziare il palato con questo primo piatto goloso e nutriente. Tanti i condimenti utilizzati per insaporire la pasta, dal classico ragù di frattaglie, detto “il comodino”, al tartufo bianco nella zona di Alba. Chiamati anche ceresolini a Ceresole, nelle Langhe sono conosciuti come tajarin di meliga, e si distinguono per l'aggiunta di farina di mais. Secondo alcuni storici della gastronomia, in origine venivano aggiunti anche olio d'oliva e vino nell'impasto, ma la ricetta attuale prevede solamente farina e tuorli, solitamente nella proporzione: 20 tuorli (ma spesso anche di più) per 1 chilogrammo di farina.

La ricetta: tajarin

Per la pasta

1 kg. di farina 00

20 tuorli

 

Setacciare la farina sulla spianatoia, fare la fontana e versarvi le uova sbattute. Impastare energicamente per una decina di minuti, quindi avvolgere la pasta con la pellicola e farla riposare per circa un'ora. Stenderla con il matterello ottenendo una sfoglia molto sottile oppure, se si utilizza la macchinetta, effettuare l'ultimo passaggio allo spessore più fine. Ritagliare i tagliolini e allargarli su un panno infarinato.

a cura di Michela Becchi

 

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Cucina di casa. Le creme: Ganache al cioccolato, Crema pasticcera, Crema inglese, Panna montata

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Ganache al cioccolato, crema pasticcera (classica e al cioccolato), crema inglese e panna montata, che con l'aggiunta di zucchero a velo e vaniglia diventa una crema chantilly. Ecco le ricette delle preparazioni che costituiscono la base di moltissime preparazioni dolci.

 

Dopo la lettura non avrete più scuse per esimervi dal preparare i dolci a casa. Qui le ricette di ganache al cioccolato, crema pasticcera (classica e al cioccolato), crema inglese e panna montata, che con l'aggiunta di zucchero a velo e vaniglia diventa una crema chantilly.

Ganache al cioccolato

La leggenda narra che in Francia un pasticcere distratto versò per errore del liquido bollente sul cioccolato. Cercando di porre rimedio al piccolo disastro, gettò le basi per una delle creme più versatili della pasticceria internazionale, la ganache. Questo fortunato errore altro non è che un’emulsione di acqua (contenuta nei liquidi, più tradizionalmente panna) e grassi (contenuti nel cioccolato e nel burro). Il risultato è una crema spessa, ma lucida, che si scioglie al palato. Qui la versione più semplice, poi si possono aggiungere il miele, un anticristallizzante naturale che contribuisce a mantenere la lucentezza della preparazione, e il burro che conferisce cremosità e morbidezza.

Ingredienti

¼ l di panna liquida fresca

200 g di cioccolato fondente

Appoggiate il cioccolato su un tagliere e tagliuzzatelo finemente con un coltello robusto. Mettete la panna liquida in una piccola casseruola e portatela lentamente a ebollizione. Unitevi il cioccolato, ritirate la casseruola dal fuoco e mescolate fino a quando il cioccolato si sarà sciolto completamente. Travasate il composto in una ciotola e, quando sarà ben freddo, sbattetelo con la frusta elettrica, prima lentamente e poi aumentando progressivamente la velocità. Dovrete sbattere la crema per circa dieci minuti fino a quando sarà quasi raddoppiata di volume, diventando gonfia e spumosa ma più spessa e densa della comune panna montata. Questa crema è particolarmente indicata per farcire le torte.

 

Cannoncini con Crema pasticcera

Crema pasticcera

La miscela esatta dei suoi componenti, il giusto equilibrio e una corretta cottura, danno una crema con caratteri ben definiti: liscia, di consistenza morbida e leggermente viscosa, dolce e aromatica, di colore “giallo crema” tipico. È dunque un prodotto di assoluta semplicità nella composizione e nell’aspetto, ma richiede una notevole cura e attenzione nella sua preparazione.

Ingredienti

4 tuorli di uovo freschissimi

1/2 l di latte

150 g di zucchero

50 g di farina

Scorza di limone non trattato

Sale

Fate bollire il latte (meno mezzo bicchiere) insieme a due belle scorze di limone e a un pizzichino di sale. Raccogliete i tuorli in una terrina e, con il cucchiaio di legno, lavorateli per qualche minuto con lo zucchero e la farina setacciata. Diluite il composto con il latte freddo e, senza smettere di girare, versatevi a filo il latte caldo. Versate la crema nella casseruola del latte e rimettetela sul fuoco. Regolate la fiamma a metà altezza e, mescolando senza interruzione, fate cuocere la crema per qualche minuto, fino a quando si sarà addensata. A cottura ultimata, scartate la scorza di limone e versate la crema in una terrina per farla raffreddare. Durante il raffreddamento, mescolate ogni tanto perché sulla superficie non si formi la pellicina.

Crema pasticcera al cioccolato

Per la crema pasticcera al cioccolato, dopo aver versato il latte, unite al composto anche 100 g di ottimo cioccolato fondente, fatto fondere a bagnomaria, o nel microonde, con due o tre cucchiai di latte. Per la cottura, procedete come per la crema pasticcera normale. Se volete dare un gusto di mandorle alla crema pasticcera, sostituite la scorza di limone con due o tre foglie fresche (meglio se appena raccolte) di pesco.

 

Crema inglese

Crema inglese

A differenza della crema pasticcera è senza farina e quindi risulta un po’ meno densa. Ecco perché è la base per altri dolci (specialmente bavaresi) ed è ideale per accompagnare altri dolci o i lievitati. In questo caso, una volta fredda, potete caratterizzarne il sapore aggiungendo due o tre cucchiai di un liquore aromatico.

Ingredienti

5 tuorli d’uovo freschissimi

1/2 l di latte intero

120 g di zucchero

1 baccello di vaniglia o un altro aroma a piacere: scorza di arancia o di limone, chicchi di caffè...

Versate il latte in una piccola casseruola, unitevi il baccello di vaniglia diviso in due longitudinalmente e portatelo lentamente a ebollizione. Mettete i tuorli in una terrina, unitevi lo zucchero e lavorateli con il cucchiaio di legno per qualche minuto, fino a quando il composto comincia a sbiancare. Continuando a mescolare, unitevi a filo il latte caldo quindi versate il composto nella casseruola dove c'era il latte e fatelo addensare sulla fiamma tenuta al minimo o, meglio ancora, in un bagnomaria caldo ma non bollente. La crema infatti deve addensarsi senza raggiungere l'ebollizione perché, in questo caso, impazzirebbe formando dei grumi. Durante la cottura mescolatela continuamente e, una volta pronta, quando sul cucchiaio si formerà un velo, versate subito la crema in una terrina immersa in acqua e ghiaccio. Durante il raffreddamento, mescolate spesso per evitare che si formi la pellicola in superficie.

 

Maritozzi con Panna montata

Panna montata

Per montare facilmente la panna è indispensabile anzitutto che essa sia molto fresca e molto fredda. Deve essere perciò tenuta in frigorifero (non nel freezer) fino al momento di montarla e, in estate, è opportuno tenere in fresco anche gli strumenti necessari, cioè la ciotola e la frusta. Il calore infatti facilita la trasformazione in burro della panna stessa.

Ingredienti

Panna liquida

Inizialmente la panna va sbattuta lentamente e, quando inizia a ispessirsi formando delle piccole bolle, occorre aumentare la velocità del movimento continuando a sbattere finché la panna non sarà diventata una massa soffice e gonfia, raddoppiando di volume. A questo punto non si deve continuare a sbattere per non rischiare di trasformare la panna in granuli di burro.

Crema chantilly e Crema diplomatica

Volendo preparare la crema chantilly, aggiungete alla panna liquida i semi del baccello di vaniglia e, una volta montata, unire lo zucchero a velo facendolo scendere da un setaccino e amalgamandolo delicatamente con un movimento circolare dall'alto in basso, usando un cucchiaio di legno o una spatola di gomma. Se invece volete preparare la crema diplomatica o crema chantilly all'italiana aggiungete alla panna montata la stessa quantità di crema pasticcera densa. La ricetta ce l'avete!

 

Cucina di casa. Le basi: Pasta brisée, Pasta sfoglia, Pasta da pizza e Pasta frolla

Cucina di casa. Le salse: Besciamella, Salsa béarnaise, Pearà e Salsa verde 

 

 

Steven Raichlen Grills Italy. Quinta puntata: grigliata di pesce a Portofino

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Non c'è località migliore di Portofino, antico borgo di pescatori, per affinare le tecniche di cottura dei frutti di mare. È proprio nella splendida località della Riviera Ligure che Steven Raichlen, professionista del barbecue, si è recato per capire come si griglia il pesce in Italia.

 

Portofino

Quando i frutti di mare sono freschi – e in una località come Portofino è difficile trovarne di cattivi – qualsiasi condimento in fase di cottura diventa superfluo. È all'insegna della semplicità e purezza dei sapori la quinta puntata di Steven Raichlen Grills Italy, la serie in onda ogni lunedì su Gambero Rosso Channel (canale Sky 412) dedicata alla griglia, che ha come protagonista StevenRaichlen, esperto del barbecue a livello internazionale. Con lui, MinoPattidel ristorante Eden di Rapallo, uno chef che ha fatto di tutti i prodotti del mare il suo marchio di fabbrica. È lui a mostrare a Steven il pescato del giorno, a base di gamberi e calamari, spiegando le proprietà di ogni ingrediente: “Sapevi che i calamari sono perfetti per una dieta ipocalorica?”. Steven osserva con attenzione, chiede, si confronta, ammira il paesaggio attorno a sé: “La prima volta che sono venuto a Portofino ero con la mia ragazza. La seconda volta, era diventata la mia fidanzata; la terza, mia moglie. È proprio vero che è un posto magico”.

La ricetta di Mino

Come di consueto, è il cuoco italiano a fare gli onori di casa, cominciando ad accendere il fuoco ed elaborare la propria ricetta. Prima, qualche foglia di limone sul grill, “un'ottima tecnica per conferire aromaticità al piatto”. Protagonista è il polpo, già bollito per 7/8 minuti, e accompagnato da funghi porcini cotti alla griglia con un filo d'olio extravergine di oliva (ligure, naturalmente), aglio e rosmarino. E poi qualche gambero, cotto a parte su un'altra griglia, “il segreto dei gamberi, è cuocerli poco, altrimenti la carne diventa dura”. Un piatto semplice, essenziale, dai sapori puliti e netti, “deliziosi”, una ricetta molto legata alla tradizione ligure, basata su alcuni dei prodotti più rappresentati della regione.

… E quella di Raichlen

Per il suo piatto, Steven sceglie gli scampi: “Innanzitutto, occorre incidere il carapace sul dorso, rimuovere l'intestino e poi condire. Basta una goccia d'olio e un po' di sale, non bisogna esagerare, perché la carne degli scampi è dolce e delicata”. In abbinamento, degli spiedini di peperoni rossi, verdi e gialli, cipolla rossa e foglie di salvia, “vi svelerò un trucchetto: è meglio inserire due stecchini di legno in ogni spiedino, così possiamo girare le verdure più facilmente”. E a proposito di verdure, “grigliarle, per me, è il modo migliore per gustarle a pieno”. Ma non finisce qui: “Voglio aggiungere al piatto anche dei frigitelli, una specialità italiana da provare assolutamente. Per cuocerli, li sistemo in fila vicini e li infilzo con degli stecchini di legno, in modo da ottenere una sorta di grata, che mi consente di ottenere una cottura più uniforme”. Un consiglio per non far bruciare il legno? “Mettere un foglio di alluminio sotto la parte finale, in modo da poter sollevare gli stecchini senza scottarsi”. Anche gli scampi vengono cotti sul grill di casa Weber, azienda specializzata degli Stati Uniti, leader nella produzione di barbecue e griglie. A condire il tutto, del salmoriglio, “una salsa a base di prezzemolo, basilico, menta, olive nere, capperi, scorza e succo di limone, pepe, peperoncino, olio e sale”.

I calamari ripieni secondo Raichlen

Dagli scampi ai calamari, questa volta ripieni. “I calamari sono fra i miei prodotti preferiti. Sono perfetti per la cottura alla griglia, perché assorbono i sapori degli altri ingredienti senza mai perdere il proprio”. Per la farcia, un mix di basilico, aglio, olive nere, uva sultanina gialla, pinoli, tentacoli di calamari tritati, pangrattato “meglio se triturato fresco”, olio d'oliva, sale, pepe e scorza e succo di mezzo limone: “Se potessi portare con me una sola tipologia di aroma su un'isola deserta, porterei senza dubbio il limone, un agrume unico, dal profumo e gusto inconfondibile”. Una volta riempiti i calamari, è ora di cucinarli, ma non prima di aver pulito accuratamente la griglia, “anche per la pulizia uso spesso il limone, perfetto per disinfettare e oliare le grate”. Dopo i primi minuti di cottura, si girano i calamari di un quarto e si chiude la griglia, “per velocizzare i tempi”. Nel frattempo, la salsa di accompagnamento: una riduzione di panna mescolata a un buon pesto genovese fatto in casa. Tempo, poi, di girare il pesce, per cuocerlo uniformemente da entrambi i lati. Una volta pronto, servire con la crema di pesto: “Saporito, equilibrato, delizioso”. Un inno ai gusti sinceri e schietti, che conclude la gita di Steven sulla costa ligure. Ma non il suo tour in giro per l'Italia. “See you nex time”.

Steven Raichlen Grills Italy va in onda ogni lunedì ore 21.30 su Gambero Rosso Channel, Sky 412

a cura di Michela Becchi

 

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Il Rum è Servito a Torino. Ron Zacapa alla corte di Casa Vicina, da Eataly

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Il 20 aprile sesto appuntamento del tour Il Rum è Servito, giunto alla sesta edizione. Protagonisti in tavola i piatti di Anna e Claudio Vicina, solida famiglia della ristorazione piemontese, e i rum di Ron Zacapa. Il menu della serata. 

La cultura del rum

Una nuova tappa per il tour Zacapa Il Rum è Servito, la rassegna dedicata alla cultura del rum tra le migliori tavole della Penisola, per un insolito abbinamento a tutto pasto tra le etichette guatemalteche di Ron Zacapa e la cucina creativa di talentuosi chef italiani. Con la collaborazione di Gambero Rosso, la storica azienda guatemalteca vuole raccontare l'arte della distillazione della canna da zucchero e  insegnare come si può bere consapevolmente concedendosi il piacere di degustare un prodotto di qualità. Per farlo, da qualche anno a questa parte, propone tre delle varianti della sua gamma - Ron Zacapa 23 – gusto morbido e sentori di frutta tropicale e vaniglia – Ron Zacapa 23 Etiqueta Negra – più intenso, con note di cioccolato e spezie – Ron Zacapa XO – aroma di tabacco, caramello e cannella  - agli ospiti di cene speciali, all'insegna di The art of slow, un motto che strizza l'occhio al desiderio di rallentare il ritmo per godere dei piaceri della tavola, e del buon bere.

 

La cena da Casa Vicina

Il 20 aprile Zacapa raggiungerà Torino, ospite della famiglia Vicina nel ristorante che dal 2007 hanno trasferito all'interno di Eataly Lingotto (il primo della serie, che da subito puntò sulla cucina di Anna e Claudio). Una tavola tradizionale che guarda al futuro, e quindi si mette in gioco per la sfida lanciata da Ron Zacapa. Questo il menu della serata, che propone anche grandi classici della casa:

 

Insalata 3F (Fiori, Frutti, Fegati)      

Zacapa Gran Reserva 23

 

Riso Acquerello mantecato ai fiori di zucca con gamberi rossi di Sanremo

Zacapa Gran Reserva Edicion Negra

 

Rognone à la coque con vellutata di senape e aglio in camicia

Zacapa Gran Reserva Edicion Negra

 

Mousse di cioccolato amaro Claudio Corallo, caramello ai fiocchi di sale di Cipro e nocciole sablè

Zacapa X.O.

 

Si prenota direttamente ai recapiti del ristorante.

 

Casa Vicina – Torino – Eataly Lingotto – il 20 aprile 2018 – 011 19506840 -  www.casavicina.com

Prezzo della cena Euro 80,00

Scopri il calendario completo delle cene previste

 

10 anni per la Banca Mondiale dei Semi sulle isole Svalbard. Il caveau della biodiversità riceve 70mila nuove sementi

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Inaugurato nel 2008 sotto i ghiacci perenni dell’arcipelago norvegese, il bunker di Spitsbergen custodisce la biodiversità agricola del Pianeta, e oggi conta oltre un milione di semi donati da istituzioni che operano a livello nazionale, come la Banca del Germoplasma dell’Università di Pavia. Per il decimo anniversario della banca un regalo speciale: 70mila nuove specie da custodire. 

La banca dei semi. Perché è importante

Un milione di semi, poco meno della metà dell’intero patrimonio agricolo del pianeta. È il biglietto da visita della banca dei semi custodita nell’arcipelago Svalbard, che conserva il corredo genetico delle colture conosciute nel mondo. L’istituto è oggi finanziato e gestito dal governo norvegese, nel territorio di sua pertinenza sull’isola di Spitsbergen, dove la Svalbard Global Seed Vault è stata realizzata scavando una sorta di bunker all’interno di una montagna; ma sono molte le istituzioni internazionali (Fao compresa) che ne alimentano i depositi, contribuendo alla salvaguardia della biodiversità agricola globale. Specie quest’anno, in occasione del decimo anniversario della struttura, progettata per resistere alle calamità naturali – dai terremoti ai cambiamenti climatici, alle alterazioni biologiche – e umane, come le guerre che imperversano ancora in molti Paesi del mondo. Tra gli effetti collaterali di un conflitto armato, infatti, la distruzione del territorio, con le sue tradizioni rurali e la sua storia, è certo la conseguenza meno eclatante nell’immediato, ma quella che lascia i segni più profondi nel lungo periodo. Non a caso, nel 2015 la banca dei semi si è attivata per restituire ad Aleppo 130 esemplari di specie autoctone che il Centro per la ricerca agricola locale non aveva più modo di reperire, a causa della guerra in Siria: unico caso di “prelievo” nella storia della banca. Ma la conservazione dei semi è una pratica necessaria anche di fronte alla tentazione di abusare delle moderne tecnologie che sostengono gli esperimenti genetici e l’agricoltura intensiva: la banca, infatti, conserva anche i semi delle 21 colture ritenute le principali fonti alimentari agricole per l’umanità, dal mais alla patata, dai fagioli al frumento, al riso. E poi manioca, mele, noce di cocco, soia.

Nel cuore della montagna. Com’è il bunker

Del bunker, scavato a partire dal 2006 e inaugurato nel 2008 a una profondità di 120 metri nel cuore di una montagna di arenaria (ex miniera di carbone) ma a 130 metri sopra il livello del mare, si intravede dall’esterno solo l’ingresso; ma al riparo da sguardi indiscreti la banca si articola in 3 sale protette da sistemi di sicurezza imponenti, che mantengono temperatura costante a -18° C, per inibire la germinazione dei semi, conservati in pacchetti speciali, a loro volta inseriti in casse sigillate.

Nessun problema di sovraffollamento, dunque, dal momento che lo spazio è stato progettato per accogliere 4 milioni e mezzo di sementi, il doppio delle specie conosciute attualmente, anche se il governo norvegese si impegna costantemente per migliorare la struttura, e per questo ha stanziato di recente 12 milioni di euro per raccogliere progetti innovativi, che portino alla realizzazione di centrali elettriche di emergenza per il mantenimento del freddo (ma i lavori di manutenzione “ordinaria” comprendono pure impermeabilizzazione degli ambienti e aggiornamento dei sistemi di controllo).

Il regalo per i 10 anni

Il decimo anniversario del centro è stato festeggiato il 26 febbraio scorso, quando il deposito delle Svalbard ha ricevuto 70mila nuove tipologie di sementi da 23 istituzioni di tutto il mondo (per l’Italia l’Università di Pavia, con la sua Banca del Germoplasma Vegetale, che dal 2011 è l’unico ente italiano a inviare semi alle Svalbard): nuove varietà di riso, mais, grano, ma anche colture meno conosciute, come le arachidi di Bambara, legumi dell’Africa sub-sahariana in grado di crescere anche in regime di siccità. Dall’Italia sono arrivati in questa occasione il mais ottofile, la cipolla rossa precoce di Breme e un grano spontaneo delle colline dell’Oltrepò. Negli ultimi anni l’esempio delle Svalbard ha trovato diffusione nel mondo, dove oggi si contano circa 1770 banche genetiche che operano a livello nazionale, preservando i semi importanti per l’agricoltura locale. Ma il compito del bunker norvegese è quello di fungere da backup unit conservando duplicati delle sementi di tutto il Pianeta (o almeno questo è l’obiettivo, quando il centro arriverà a possedere almeno una copia di tutti i semi conosciuti): in caso di necessità, i semi delle Svalbard potranno essere utilizzati per ripristinare una coltura andata persa.

 

seedvault.no

a cura di Livia Montagnoli

Toscana Resort Castelfalfi. Storia, numeri e progetti futuri

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C'è un resort tra Firenze e Volterra che coinvolge un intero borgo medievale e che fa girare l'economia dei villaggi limitrofi. Si tratta del progetto virtuoso della tedesca TUI, un colosso del turismo con più di 65.000 dipendenti, che a Castelfalfi ha investito qualcosa come 250 milioni di euro per ristrutturare il borgo e farsi carico di mille ettari di terreno, tra vigne, oliveti, boschi.

 

Quanti abitanti ha Castelfalfi? Diciotto. Lo dice Wikipedia, ma senza tener presente che oggi in questo borgo medievale ci vivono, fisse, più di trecento persone. Sono gli “abitanti” del Toscana Resort Castelfalfi, il progetto del colosso del turismo tedesco TUI che ha salvato il paese dallo spopolamento.

Toscana Resort Castelfalfi

A partire dagli anni Sessanta il borgo ha subìto un processo di spopolamento durato decenni”. Ci racconta Gerardo Solaro del Borgo, Ceo di Toscana Resort Castelfalfi. Un fenomeno che purtroppo nei piccoli borghi è spesso fisiologico: nonostante il legame tra abitanti e territorio sia saldo e antico, e il senso di appartenenza e di identificazione non sia un concetto vano, capita spesso che i giovani emigrino per studio e per lavoro, e che inesorabilmente la popolazione invecchi e progressivamente il borgo si spopoli. Un destino scritto anche per questa piccola frazione di Montaione fino a che, nel 2007, il tour operator TUI decide di acquistare la proprietà per ridare nuova vita a un’area che comprende più di 1.100 ettari suddivisi tra vigne, oliveti, boschi e una riserva di caccia. “Il Toscana Resort Castelfalfi è all’interno di un borgo medievale attentamente ristrutturato per mantenere le caratteristiche originarie”. Un diktat messo nero su bianco nel 2011: “Dopo un'ampia consultazione pubblica dei cittadini e delle associazioni ambientaliste, TUI ha potuto avviare i lavori solo dopo l'approvazione dell'Amministrazione comunale di Montaione”.

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Gli investimenti

L'investimento iniziale è stato di 250 milioni di euro, ma la cifra è destinata a crescere. “Nel 2014 abbiamo inaugurato dopo due anni di restauro il Castello (fondato nel 700 dal longobardo Faolfi, ndr), abbiamo poi costruito il nuovo hotel Il Castelfalfi e stiamo continuando la ristrutturazione dei casali”. All’interno della Tenuta si trovano infatti molti casali, disponibili per la vendita o l’affitto, che vengono ristrutturati secondo le indicazioni e i desideri dei futuri proprietari, sempre però seguendo il preciso piano urbanistico del 2011 che impedisce la costruzione di edifici più alti della Tabaccaia, l'altro hotel della proprietà che ha ridato nuova vita a un vecchio essiccatore di tabacco. Un piano di ristrutturazione che all'inizio ha coinvolto lo studio Spadolini di Firenze, ma ora vuole avviare una collaborazione con l'Università di Siena per premiare i giovani e le idee più innovative. A quando il raggiungimento del break even economico? “Difficile fare una previsione, dato che TUI continua ad investire. Penso per esempio all'impianto di teleriscaldamento e climatizzazione rinnovabile e a chilometro zero, che consente alla struttura di essere alimentata con cippato ricavato dalla manutenzione delle aree boschive della tenuta stessa e dai sottoprodotti agroforestali provenienti dal territorio, come gli scarti di potatura”. Una scelta di efficienza energetica, nel segno di un modello di economia circolare, che darà i propri frutti a lunga gittata ma che per ora ha richiesto ulteriori investimenti.

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I frutti degli investimenti e i progetti futuri

In ogni caso gli introiti derivano dalla vendita dei casali, ma anche dagli ospiti degli hotel e dei ristoranti, dalla vendita del vino e dell'olio e dagli iscritti al golf club, che costituiscono un rendimento immediato. A oggi sono 70 i proprietari dei casali, un centinaio i renters, circa duecento i golfisti iscritti, altrettanti gli ospiti giornalieri degli hotel. Non solo, abbiamo tra i 200 e 250 dipendenti, a seconda della stagione: siamo il primo datore di lavoro della Valdelsa e della Valdera, se contiamo anche tutti i fornitori che lavorano con noi e gli agricoltori della tenuta”. Una grossa operazione immobiliare che diventa un formidabile attore economico e sociale.Un indotto notevole per una realtà che più ibrida non si può. Da una parte resort, con due hotel, tre ristoranti (La Rocca con i piatti dello chef Michele Rinaldi, Il Rosmarino e La Via del Sale gestiti dallo chef Francesco Ferretti), altrettanti bar (il pool bar Giglio Blu, Ecrù e la Limonaia con cocktail ispirati agli anni '20) e una spa, tutto studiato nel dettaglio: persino il profumo degli ambienti è stato creato appositamente da Bugetti ispirandosi ai profumi del territorio.

Dall'altra tenuta agricola con 10.000 piante di olivo che consegnano due tipi di olio, entrambi biologici, e 23 ettari di vigneti con una produzione di sei etichette di vino: San Piero, Cerchiaia, Cerchiaia Riserva, Poggionero, Poggio alla Fame e Poggio I Soli; tutti presenti nella nostra guida Vini d'Italia 2018. Ma la struttura è anche campo da golf biologico, organizza corsi di cucina, wine tasting, spedizioni alla ricerca di tartufi e vendemmie esperienziali, che ne fanno un vero parco giochi per i turisti stranieri. E sta diventando con il tempo un punto di aggregazione per tutti gli abitanti dei paesi limitrofi grazie agli eventi che regolarmente organizza. Il prossimo sarà a fine giugno e vedrà coinvolti artisti, musicisti e tutti i loro fornitori. “Da Paolo Parisi (allevatore, tra i più conosciuti d'Italia) all'azienda Poggio di Camporbiano, che rifornisce gli chef di formaggi, ortaggi, frutta, carne e farina, anche se in futuro vorremmo iniziare ad autoprodurcela”.

Se questi sono i risultati, benvengano dunque gli investimenti stranieri di questo tipo in Italia a patto che vengano ben iscritti in una programmazione pubblica e che le amministrazioni locali sappiano costruire insieme ai grandi capitali internazionali una visione comune di sviluppo da promuovere e non da subire. A Castelfalfi – così come in altre realtà non solo in Toscana - l'esperimento sembra funzionare.

 

www.castelfalfi.com

 

a cura di Annalisa Zordan

 

 

 

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