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Anteprima Chiaretto 2018 report. I nostri migliori assaggi

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Presentata in anteprima alla Dogana Veneta di Lazise, l'annata 2017 di Chiaretto: 65 aziende e 140 vini in degustazione delle due versioni, la bresciana della Valtènesi e la veronese di Bardolino.


Le due sponde rosé del Lago di Garda si sono presentate per la prima volta insieme all’Anteprima Chiaretto, che si è tenuta alla Dogana Veneta di Lazise domenica 11 e lunedì 12 marzo. Presenti all’appuntamento 65 aziende, con 140 vini in degustazione, in rappresentanza della riva bresciana della Valtènesi e di quella veronese di Bardolino. Un primo passo per unire le forze e creare una sinergia di comunicazione, con l’obiettivo di elevare il rosé a vero simbolo del territorio del Garda. Il Chiaretto rappresenta un’eccellenza nel settore dei vini rosati, non solo da un punto di vista qualitativo, ma anche economico. Nel panorama storicamente non del tutto entusiasmante dei rosé italiani, l’area gardesana viaggia spedita, con un incremento annuale in doppia cifra, una produzione complessiva di circa 11 milioni di bottiglie ed esportazioni in crescita, soprattutto verso Germania, paesi Scandinavi, Usa e Canada.

La Rosé Revolution

Le giornate dell’anteprima sono state anche l’occasione per fare il punto sui risultati della Rosé Revolution del Chiaretto. Un cambiamento iniziato nel 2014, quando i produttori del Garda hanno deciso di mettersi in discussione e cercare di creare un nuovo stile, più omogeneo e riconoscibile. Abbandonati i colori troppo carichi, e le derive gustative verso un frutto esageratamente ricco, morbido e “caramelloso”, il nuovo corso del Chiaretto ha puntato su un colore dalle sfumature più tenui e delicate, che vanno dal petalo di rosa al rosa cipria. Non si è trattato solo di un maquillage estetico, anche il profilo dei vini si è orientato verso una maggior finezza espressiva, con prevalenza di note floreali, agrumate e una maggior ricerca di freschezza e sapidità. Una tappa importante nel processo di rinnovamento, che nel corso degli anni aveva già condotto a sostituire quasi del tutto la pratica del salasso con macerazioni brevi a basse temperature. Un cambiamento nella tecnica produttiva, che non ha tardato a mostrare i suoi effetti anche in campagna. Oggi circa il 70% del Chiaretto nasce da una progettazione agronomica, con vigne destinate a produrre solo uve da rosé. Una scelta che premia la qualità, grazie alla selezione delle parcelle più vocate per questa tipologia di vini, anche in funzione dell’andamento climatico dell’annata. Le uve del Chiaretto sono vendemmiate in leggero anticipo, con grado zuccherino più basso e acidità più alte.

 

Un lago, un nome e due vini

Se il Garda, con l’abbraccio del suo mite respiro mediterraneo, unisce le due sponde del lago in un'unica espressione territoriale, i vitigni marcano, invece, le differenze tra il Chiaretto della riva bresciana e quello veronese. La Valtènesi è la terra del groppello, un’uva povera di antociani e dal profilo delicato, ideale per realizzare rosati di qualità. Il blend è spesso completato da altre varietà a bacca rossa: in particolare barbera, sangiovese e marzemino. I vini hanno un profilo floreale e fruttato piuttosto armonioso, che li rende particolarmente piacevoli e immediati. Nella zona di Bardolino, invece, dominano incontrastate le uve della Valpolicella: corvina, rondinella e molinara. Varietà dalla spiccata acidità e dal poco colore, che tendono a portare in primo piano aromi di mandarino, cedro, fiori bianchi, una vivace freschezza e un finale sapido, con una lieve sfumatura tannica. Questa duplice veste espressiva è sicuramente una ricchezza da valorizzare, nel segno di una maggiore identità di terroir, attraverso vini dal carattere sempre più riconoscibile.

Annata 2017 e i migliori assaggi

L’annata 2017 è stata tra le più difficili degli ultimi anni. Ha visto un susseguirsi di fenomeni estremi, che hanno condizionato il naturale e armonioso sviluppo della vite. A una primavera calda, con un germogliamento precoce, ha fatto seguito la gelata di aprile e per finire un’estate secca e siccitosa, che ha costretto a vendemmie anticipate. Nella zona di Bardolino si calcola una perdita d’uva di circa il 20%, mentre in Valtènesi le cose sono andate meglio e la gelata ha fatto pochi danni. L’andamento climatico schizofrenico, con sbalzi violenti e repentini, ha portato a maturazione uve con grado zuccherino elevato, piuttosto concentrate e con un profilo non sempre equilibrato. Nonostante queste premesse, gli assaggi dell’anteprima hanno messo in luce vini interessanti. Nel complesso i 25 Chiaretti Valtènesi hanno mostrato una maggiore uniformità, sia nel colore rosa tenue, che nello stile, segno di un percorso verso un’identità territoriale già assimilato da quasi tutti i produttori. Sono apparsi anche piuttosto pronti e godibili già in questa fase giovanile. L’assaggio di 47 Chiaretto di Bardolino, ha evidenziato un panorama più eterogeneo, con colori d’intensità molto diversa e interpretazioni più libere. Alcuni vini sono ancora un po’ acerbi, ma molto promettenti per la bella freschezza degli aromi agrumati e la piacevole vena sapida. Le etichette che ci sono piaciute di più sono anche quelle che meglio interpretano lo spirito della Rosé Revolution, con colori tenui, profili di raffinata finezza, sorso snello, teso e vibrante, senza troppe concessioni alle facili morbidezze.

 

Valtènesi Chiaretto

Valtènesi Chiaretto Cl. Portese '17 - Le Chiusure

Valtènesi Chiaretto Cl. Rosagreen Bio '17 - Pasini San Giovanni

Valtènesi Chiaretto Cl. Chiaretto Bio '17 - Pratello

Valtènesi Chiaretto Cl. Chiaretto San Donino '17 - Selva Capuzza

Valtènesi Chiaretto Cl. Vino di una notte Bio '17 - Pasini San Giovanni

Valtènesi Chiaretto Cl. Rosamara '17 - Costaripa

 

Bardolino Chiaretto

Bardolino Chiaretto '17 - Cavalchina

Bardolino Chiaretto Baldovino '17 Tenuta - La Presa

Bardolino Chiaretto '17 - Giovanna Tantini

Bardolino Chiaretto Cl. '17 - Vigneti Villabella

Bardolino Chiaretto '17 - Aldo Adami

Bardolino Chiaretto Corderosa '17 - Le vigne di San Pietro

Bardolino Chiaretto '17 - Frezza

Bardolino Chiaretto Cl. '17 - Le Ginestre

Bardolino Chiaretto Rodon '17 - Le Fraghe

Bardolino Chiaretto '17 - Monte dal Fra’

 

Prossimo appuntamento per i vini rosé, dall'1 al 3 giugno a Moniga del Garda per Italia in Rosa.

 

a cura di Alessio Turazza


Retrobottega a Roma cambia tutto. Rivoluzione gastronomica

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Promette (ancora una volta) di modificare le dinamiche ristorative romane, scombussolando totalmente il concetto di fine dining. Almeno quello classico. È Retrobottega, la creatura di Alessandro Miocchi e Giuseppe Lo Iudice, che riapre oggi al pubblico in una nuovissima veste.

 

L'evoluzione di Retrobottega

Sei mesi di cantiere per il nuovo Retrobottega, ora maturo abbastanza - ma forse lo era già da tempo - per essere un vero ristorante gastronomico, superando la formula ibrida degli inizi. Già perché agli esordi, nel 2015, le premesse erano altre: ci si serviva da bere in autonomia, ci si apparecchiava il coperto da soli, coltelli e calici dal proprio cassetto e si ordinava a tutte le ore del giorno al bottegaio-tuttofare dopo aver scelto da un menu sulla lavagna a rotazione praticamente giornaliera. “Questo succedeva nei primi mesi d'apertura, ma fin da subito il format si è aggiustato trasformandosi in un ristorante, certo non canonico, ma pur sempre un ristorante. Forse ora, con i lavori di ristrutturazione, la questione risulta un po' più chiara, ma concetto, filosofia e cuore non sono cambiati. Ci sono sempre e solo sgabelli, c'è ancora il cassetto, la proposta informale che va da mezzogiorno a mezzanotte resta e rimarrà anche il contatto diretto tra cuoco e cliente”. Ma è inevitabile, vedendo il nuovo locale, pensare che Alessandro Miocchi e Giuseppe Lo Iudice siano diventati grandi. “Abbiamo fatto un restyling sia per lavorare con flussi più razionali sia per dare più comfort al cliente”. E infatti la, anzi le cucine seguono una linea perfetta che va da via della Stelletta a via d'Ascanio, l'altra entrata del ristorante.Le aree sono più confortevoli, più spazio d'appoggio e per il passaggio, e al guardaroba. Un cambio di veste, dicevamo, che oltre a rivoluzionare il locale, ha concessi anche nuovi metri quadri. “Non appena si è liberato il locale accanto, un gioielliere, ci siamo detti: se non lo prendiamo ce ne pentiremo, anche perché la proprietaria delle mura era la stessa. Poi caso ha voluto che a lavori in corso si sia liberato un altro locale”. Per un totale di 30 metri quadri in più. Ma con due coperti in meno di prima, il che dà l'idea tangibile di quanto gli spazi siano più agevoli per tutti.

Tavolo sociale di Retrobottega a Roma

Il locale dopo la ristrutturazione

Muri di resina, pavimento in cemento, materiali ricercati, finiture artigiane. Appena si entra fanno capolino due tavoli sociali da 10, con un pass all'estremità dove ci sarà uno chef che impiatta tutte le portate e risponde alle curiosità dei clienti. “Strada facendo il progetto architettonico, curato dallo studio MORQ, si è orientato verso l'evolvere del bancone. Volevamo andare oltre il concetto canonico di mangiare al bancone, con il cliente che vede semplicemente quello che avviene in cucina. Da qui l'idea di sviluppare un discorso più asiatico, dove davanti a te hai un tuo punto di riferimento, che è il tuo cuoco, del tuo tavolo, del tuo bancone. Volevamo dare un... senso al mangiare al bancone, per non avere un bancone tanto per averlo”.

Un format vincente anche e soprattutto grazie all'abilità di Alessandro e Giuseppe che, oltre a provenire entrambi da un passato d’alta cucina (e parliamo, per esempio, della cucina del Pagliaccio di Anthony Genovese, dove i due si sono conosciuti), riescono a valorizzare al meglio i loro collaboratori. “Per stare al pass, abbiamo selezionato tra il nostro personale le persone più capaci di creare un legame con i clienti, che fossero anche brave nei movimenti”. Una sensibilità traslata anche nei mesi di chiusura, durante i quali, invece di mandare tutti in vacanza forzata hanno avviato un pop restaurant. “Un progetto che ci ha consentito di mantenere la squadra e che è stato un allenamento per l'altra ulteriore novità”.

{gallery}Piatti Retrobottega{/gallery}

Il ristorante nel ristorante

La novità in questione è il ristorante nel ristorante, al quale si accede da via d'Ascanio facendo mezzo giro di isolato nei vicoli della Roma antica dove questa piccola rivoluzione gastronomica sta avvenendo. Un solo tavolo rotondo in lava, sei coperti e una cucina separata, per un menu degustazione dove “nessun piatto inizia, nessuno finisce, ma tutti vanno a comporre un percorso che ha senso solo se lo si completa interamente”. Il ristorante nel ristorante aprirà tra circa un mese e mezzo, nel frattempo a partire da questa sera si potrà sperimentare il menu alla carta, seduti al bancone finalmente con una certa comodità. In carta, dai Tortellini anguilla e finocchio al Risotto stinco e mirtilli, dalle Seppie e patate all'Arrosto di sedano rapa, semi e tartufi“Un menu non più mensile ma bimestrale, per dare modo ai clienti di provare tutti i piatti e ai collaboratori di respirare un po' di più, dal quale ciascuno può scegliere cinque portate per formare la propria formula ideale a 50 €”. Un altro modo per andare incontro alle esigenze dei clienti, così come la possibilità di prenotare (udite, udite!), cosa tassativamente non concessa prima con annessi e connessi di code e attese snervanti alla porta. Insomma si prospettano grandi cose per la premiata ditta Miocchi-Lo Iudice, che entro fine anno ha in serbo altre novità per un 2018 di svolta. Tra i corridoi di via della Stelletta si narra che al ristorante e allo chef table si aggiungerà presto un'enoteca...

{gallery}Locale Retrobottega{/gallery}

 

Retrobottega - Roma - via della Stelletta, 4 – 0668136310 - retro-bottega.com

 

a cura di Annalisa Zordan

foto di Elisia Menduni

video di Martina Molle

 

 

 

Urbanspace Lexington. Il Trapizzino e la cucina italiana nella nuova food hall di New York

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Alla fine di marzo inaugura il nuovo mercato gastronomico firmato Urbanspace, che nel 2015 debuttava a Midtown con grande successo di pubblico. E la nuova food hall ospiterà pure il raddoppio del Trapizzino a New York, a un anno dalla prima apertura di Orchard street. 

Food hall e mercati a New York. Le ultime novità

Chi per l’America di oggi parla di proliferazione di market e food hall che sanciscono un interesse crescente nei confronti del cibo e dell’intrattenimento gastronomico, sa bene che New York ha anticipato il trend diversi anni (decenni) fa. Ma anche la città che può contare su una grande varietà di mercati gastronomici e food court in spazi storici e strategici non è immune al fenomeno, e società come Urbanspace, nata a Londra all’inizio degli anni Settanta e oggi a capo di oltre 50 progetti tra Londra e New York (dal Chelsea Farmer’s Market a Spitalfields sul suolo inglese, all’Union Square Holiday market oltreoceano), continuano a presidiare il settore, scovando nuovi locali da trasformare secondo le moderne esigenze di consumo: artigiani e cucine contemporanee riuniti sotto lo stesso tetto, tanto spazio per condividere l’esperienza gastronomica, suggestioni culinarie in arrivo da tutto il mondo, apertura alla day long e atmosfera confortevole. Così è stato quando si è trattato di progettare l’Urbanspace Vanderbilt, food hall tutto sommato recente, inaugurata nell’autunno 2015 a poche centinaia di metri dal Grand Central Terminal (che nel frattempo si è rifatto il look per assecondare a propria volta questa mania, con la Great Northern Food Hall del fondatore del Noma Claus Meyer): 20 food concept nel cuore di Midtown per offrire un rifugio gastronomico rapidamente entrato nel cuore dei newyorkesi.

Urbanspace Lexington

E infatti, passati neppure tre anni, l’Urbanspace di New York è pronto a raddoppiare, al 570 di Lexington, non troppo distante dal primo. Alla fine di marzo il nuovo spazio aprirà le porte al pubblico, offrendo una proposta articolata su tre livelli, con tante vecchie conoscenze del precedente Urbanspace e nuovi ingressi rivelati solo qualche giorno fa. In tutto saranno una ventina gli stand a disposizione degli operatori, e l’intenzione è quella di offrire un ampio spettro di possibilità a chi sceglie di mangiare nella nuova food hall, tra venditori di bao taiwanesi, tacos, sushi e il ramen di Kuro-Obi (dal team di Ippudo). Ma tra le new entry ce n’è una che farà parlare molto anche da questa parte del mondo: Trapizzino. Così anche Stefano Callegari Paul Pansera si apprestano a raddoppiare in città, a un anno dalla prima apertura di Orchard Street, nel Lower East Side.

Il raddoppio di Trapizzino a New York

Un traguardo in più, di cui si vociferava da tempo, dopo il bagno di folla dell’inaugurazione milanese, per celebrare i 10 anni di attività dell’insegna nata a Testaccio e oggi imitatissima nel mondo (ne parlavamo qualche tempo fa con Stefano e Paul, ripercorrendo la storia degli ultimi anni). Del resto, l’esordio newyorkese del Trapizzino, nel 2012, era passato proprio per una - mitica – giornata al Madison Square Eats, mercato open air gestito da Urbanspace. Ma nella nuova food hall ci sarà spazio anche per la pizza cotta in forno a legna di Roberta’s, insegna nata 10 anni fa a Bushwick, e oggi molto nota in città, pure per l’originalità di un progetto che può vantare un orto sul tetto (da cui arrivano molti degli ingredienti utilizzati in cucina) e un’emittente radiofonica nel retrobottega. E la cucina italiana al 570 di Lexington sarà rappresentata anche dal team de La Pecora Bianca, caffetteria con cucina che nel 2015 esordiva al St. James Building per iniziativa di Mark Barak, ristoratore americano con il pallino per l’italian style. Il nuovo mercato, invece, debutta il prossimo 28 marzo.

 

a cura di Livia Montagnoli

Salumeria Moscow. Il progetto di ristorazione italiana in Russia ispirato alla dolce vita

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Continua a crescere il panorama della ristorazione moscovita. Fra le insegne che rappresentano il made in Italy nella città russa, trova spazio anche Salumeria Moscow, ristorante aperto appena un anno fa e che ha conquistato fin da subito il palato dei cittadini.

Cucina italiana a Mosca

Quello dell'evoluzione della cucina italiana a Mosca è un fenomeno relativamente recente, analizzato in maniera più approfondita nel numero di marzo del Gambero Rosso. Un panorama in pieno fermento, sempre pronto ad accogliere nuove aperture, dai format più tradizionali a quelli moderni e innovativi, ma soprattutto in grado di contenere le tavole di tutto il mondo, da quelle etniche alla classica italiana. Fra i tanti indirizzi validi sparsi nella metropoli russa, esattamente un anno fa, nel marzo 2017, faceva capolino un'insegna nuova, un progetto di ristorazione di ampio respiro, un locale polifunzionale attivo da mattina a sera, dalla colazione ai cocktail, con una cucina di stampo tradizionale e una carta dei vini di tutto rispetto. Il tutto in uno spazio dal design ricercato e gli arredi moderni, curati nei minimi dettagli, immerso in quell'atmosfera da dolce vita che da decenni rappresenta l'emblema dello spirito italiano all'estero.

 

salumeria moscow

Salumeria Moscow

Nasce con questo obiettivo Salumeria Moscow, frutto della collaborazione fra Uilliam Lamberti, brand chef italiano da anni molto apprezzato nella ristorazione moscovita, e Vladimir Davidi, professionista del business di profumi d'alta gamma che ha scelto di dedicarsi alla gastronomia di qualità. A coadiuvare il lavoro al ristorante, nel ruolo di direttore, è Salvatore Cerasuolo, un nome già noto i buongustai della Capitale, sommelier del vino, appassionato di buon cibo, con un trascorso intenso nel mondo della cucina, in Italia ma anche all'estero (fra le ultime avventure romane, la gestione di Roscioli Caffè). “Conoscevo Uilliam perché era un mio cliente, e condividevamo lo stesso amore per la buona tavola. Sapevo del suo progetto e un giorno, dopo che avevo lasciato Roscioli, mi ha chiesto se volessi farne parte”.

 

salvatore cerasuolo

Curioso di natura, viaggiatore da una vita, il giovane Salvatore non se lo fa ripetere due volte, e parte alla volta della Russia per “dare un'occhiata” al progetto in cui ben presto viene coinvolto a pieno titolo. Un'idea che ha visto nascere, e alla quale ha contribuito in prima persona, portando nel locale la sua esperienza, le sue conoscenze – soprattutto in fatto di vino e caffè – ma ancor prima il suo carattere solare e aperto, la sua personalità brillante e quel savoir-faire di chi in sala al servizio del cliente ci ha passato buona parte della sua vita. “La filosofia di base è quella di rappresentare l'Italia all'estero, facendo eco a quell'immagine di dolce vita che è da sempre sinonimo di italianità. E io so farlo solo in un mondo: attraverso la tavola”.

 

cerasuolo

Fare ristorazione a Mosca

Certo, i primi passi in un Paese così culturalmente distante dal nostro – e dalla maggior parte delle nazioni europee – non sono stati semplici. “Mosca è una città unica nel suo genere, un luogo che può offrire tanto, ma dove ci sono ancora diversi ostacoli per quanto riguarda l'approvvigionamento delle materie prime”. Un esempio? “Abbiamo due 'food hunters' in squadra, dei veri cacciatori di cibo che vanno alla scoperta di mercati, botteghe e negozi nuovi. Non è sempre facile trovare prodotti di alta qualità: basti pensare che la pratica di frollare le carni qui ha a iniziato a diffondersi solo due anni fa”. Anche l'importazione di alcol non è semplice, “si possono richiedere bottiglie distribuite solamente da rivenditori russi”, e i tempi in questi casi possono essere anche piuttosto lunghi. D'altro canto, però, fare ristorazione in Russia “è ancora un affare, a differenza dell'Italia, un investimento che dà i suoi frutti. È impressionante la velocità con cui aprono nuovi locali: delle viuzze deserte fino a due mesi fa oggi ospitano cocktail bar e ristoranti di ogni tipo”. E soprattutto, la cucina italiana la fa ancora da padrona, “perché è sinonimo di garanzia”. L'unica pecca - oltre alla difficile reperibilità di materie prime d'eccellenza - è la qualità del servizio, “su cui devono ancora lavorare molto”.

 

colazione 1

L'offerta

Ma cosa si mangia da Salumeria Moscow? “Una cucina semplice, di tradizione, con un occhio di riguardo per le ricette romane”. Ai fornelli, lo chef Thomas Cassa, italiano che vanta nel suo curriculum esperienze di tutti i livelli, da Il Luogo di Aimo e Nadia a Milano a Ora by Heinz Beck di Londra. Dunque, via libera a primi piatti golosi e ben mantecati, come impongono le regole della tavola italiana, ma anche taglieri di salumi e formaggi, “che acquistiamo localmente da aziende italiane, che cercano il più possibile di rendere omaggio al nostro patrimonio creando prodotti simili a quelli nostrani”, e poi secondi di carne e pesce, oltre alla pizza tonda, “realizzata da un pizzaiolo romano specializzato nella lievitazione”.

 

pizza

Ad accompagnare le specialità della casa, una carta di 230 etichette di vino selezionate da Salvatore, “ne terrei anche di più, se avessi spazio”, quasi tutte italiane, “con vini tipici delle varie regioni”, e un buon 20% di prodotti francesi, “Champagne in primis: in un locale come il nostro, le bollicine non possono mancare”.

 

vino

I cocktail e il caffè

Presenti anche i cocktail, a base di distillati di pregio sapientemente miscelati con gli ingredienti più disparati, e poi tutto il comparto caffetteria, con la vetrina dei dolci e tutta l'offerta salata della classica colazione occidentale, dalle uova con bacon ai toast, senza dimenticare salumi e formaggi. “Come bevande, proponiamo le varie specialità caffeicole tipiche dell'Italia, dal bicerin torinese al marocchino, dal caffè leccese al cappuccino con lo zabaione”. Niente caffè filtro, dunque, ma solo espresso, declinato in diverse sfumature.

 

colazione

Protagonista delle ricette sono i chicchi de Le Piantagioni del Caffè, torrefazione livornese sempre più presente nel mondo della ristorazione. “Non nascondo che mi piacerebbe preparare anche estrazioni diverse, proponendo un concetto di caffetteria più contemporaneo”, racconta Salvatore, “ma per ora va bene così. Magari in futuro, in un nuovo locale...”. Un nuovo progetto, diverso, dal respiro più internazionale, ancora una volta a Mosca, “per ora, però, non sveliamo altro”.

 

caffè

Il design

Che si tratti di colazione, pranzo, cena o aperitivo, ad accogliere gli ospiti ci sono circa 70 coperti: “I ristoranti a Mosca sono strutturati in maniera diversa, e quasi tutti svolgono più funzioni, da mattina a sera. Naturalmente, format del genere richiedono uno spazio maggiore e una squadra più grande”. Nel team della Salumeria, infatti, ci sono ben 140 persone fra cucina, sala e management.All'entrata, il lungo bancone dedicato alla gastronomia e la pizzeria, e poi il tavolo sociale, i tavolini con sedie e divanetti, in un'atmosfera rilassata che gioca sui toni del nero e marrone alternati al bianco del marmo e illuminati dalle vetrate. Nessun dettaglio, qui, è lasciato al caso: “I russi danno molta importanza all'estetica; gli arredi sono fondamentali”.

 

salumeria

La location

A ospitare il locale, la zona residenziale Patriarshiye Ponds, nel distretto di Presnensky District, “un'area poco considerata fino a 7 anni fa, riqualificata proprio grazie alla nuova affluenza di ristoranti aperti negli ultimi tempi. Oggi, è un quartiere molto in voga fra i giovani, e non solo”. Un'area in pieno sviluppo, che può fare affidamento su diverse insegne valide. Qualche consiglio? “Noor Electro, cocktail bar di alto livello, Pinch per la colazione, gestito dall'italiano Luigi Magni, e poi il Twins Garden, eccezionale”. Ma quella dei gemelli Ivan e Sergey Bereutsiy e del loro nuovo approccio “agricolo” all'alta cucina, basato sul concetto del “from farm to table” è un'altra storia. Che presto torneremo a raccontarvi.

Salumeria Moscow – Mosca - Spiridon'yevskiy Pereulok, 12/9 - +74992900001 - salumeria.moscow/

a cura di Michela Becchi

Viaggio nelle torrefazioni italiane di ricerca. Trentesima tappa: Caffè Cognetti di Bari

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Una caffetteria di famiglia da poco divenuta anche torrefazione, tutta incentrata sui caffè di qualità. A Bari Caffè Cognetti è un punto di riferimento per l'oro nero, e insieme al torrefattore abbiamo voluto ripercorrerne la storia.

 

30 indirizzi, 30 piacevoli scoperte, 30 torrefazioni di ricerca sparse nella Penisola, diverse nell'offerta ma accomunate dallo stesso obiettivo: far crescere il panorama del caffè di qualità in Italia. Il mondo caffeicolo nazionale inizia a mutare, e noi continuiamo a tracciarne ogni mossa. Fra le torrefazioni nate di recente, Caffè Cognetti di Bari, bar aperto nel '97 nel capoluogo pugliese ma solo da un anno alle prese con la tostatura dei chicchi. A raccontarci storia e sviluppo dell'insegna, il giovane Davide Roveto, che avevamo già avuto modo di conoscere grazie alla sua passione per il .

 

caffè cognetti

Come nasce l'attività?

La caffetteria di famiglia esiste da 21 anni, e da sempre è un punto di ritrovo in città per la colazione. Fino a qualche anno fa era un bar di stampo tradizionale come tanti, ma oggi abbiamo inserito metodi di estrazione alternativi e una nuova offerta. Con i caffè tostati in casa da me, tutti specialty selezionati scrupolosamente.

Da dove nasce la passione per la tostatura?

Sono cresciuto a contatto con il caffè e sono da sempre un grande amante della tazzina. Col tempo, ho seguito dei corsi con Patrick O' Malley' (trainer Sca – Specialty Coffee Association – master di tostatura e uno dei più grandi esperti di oro nero a livello internazionale, ndr) in America e in Colombia. Ho proseguito gli studi, e ho deciso di intraprendere una mia attività, iniziando a tostare in un laboratorio annesso alla caffetteria.

Che tipo di caffè proponi?

Naturalmente, sono un amante degli specialty, dei chicchi più aromatici e dal gusto pulito, ma per andare incontro alle abitudini di consumo locali, legate a un espresso più tradizionale e corposo, offro anche una miscela con un 30% di robusta indiana lavata. Per il resto, il blend della casa è l'Hopera, chiamato così in onore del Teatro Petruzzelli, che si trova proprio di fronte al bar, un prodotto a base di tre origini: Brasile, Burundi e Etiopia. E poi un caffè monorigine che cambia ogni settimana.

A proposito di tradizioni. Come è stata percepita questa nuova offerta dal pubblico?

A Bari non è semplice parlare di specialty, di singole origini, di miscele 100% arabica. E soprattutto è complesso far passare il messaggio che esistono diversi modi di bere e gustare il caffè, e non solo l'espresso. Al contempo, però, c'è una buona fetta di clientela molto appassionata di buon cibo e vino, grazie alla bella offerta di ristoranti di livello della zona. È su questa che abbiamo puntato, cercando di far avvicinare dapprima i clienti più aperti a sapori nuovi.

E come è andata?

Inizialmente è stato difficile, ma col tempo le persone si sono incuriosite. Oggi facciamo circa 1 kg di specialty a settimana, che è una buona media, e diversi clienti ci chiedono spesso un filtro.

Quali metodi di estrazione proponi al bar?

Tutti, dal v60 al syphon, passando per il cold brew, che è uno dei più apprezzati nella stagione estiva. Certo, l'espresso rimane sempre la bevanda più richiesta, ma non l'unica.

Dove si può acquistare il tuo caffè?

Al bar, e a breve in un nuovo indirizzo che aprirà a maggio a Presicce, in provincia di Lecce, Caffè del Luminario, nostro cliente. Intanto, stiamo lavorando per la vendita online.

Grani o macinato?

Tendo a proporre il caffè in grani, che mantiene più intatte le note aromatiche, ma se serve posso macinarlo al momento.

Altri indirizzi che servono il tuo caffè?

Lo Speakeasy di Bari, che utilizza solo estrazioni alternative come il syphon, il v60 e anche la moka.

Cosa si mangia nel tuo bar?

Lieviti di diverso tipo: acquistiamo gli impasti dalla Pasticceria Mercantile e poi pensiamo noi a lievitazione e cottura, oltre che alle farcia, a base di confetture biologiche. E poi sfizi salati per l'aperitivo e la pausa pranzo, e dolci artigianali da accompagnare ai nostri tè.

Organizzi degustazioni o eventi?

Sì, ogni settimana propongo una giornata di assaggio del nuovo monorigine, per far conoscere al pubblico differenze, sfumature e profili aromatici dei diversi prodotti.

Ti occupi anche della formazione dei baristi?

Sì, sono trainer autorizzato per brewing (estrazione con metodo filtro) e barista skills. Faccio dei corsi da Faema, all'Accademia Vergnano, e vari sedi in tutta Italia.

Consigliaci un nuovo bar nella tua zona.

Oltre ad Avamposto, lì vicino ha aperto da poco Aurelio Cafè, un bar con torrefazione che propone diverse origini, tutte molto buone.

Progetti per il futuro?

Tanti. Ho in cantiere un'idea per un nuovo bar, sempre a Bari, più ampio e con un'offerta diversa, ma per ora non voglio svelare nulla. Poi mi piacerebbe mettere la macchina tostatrice a vista, per coinvolgere e incuriosire di più il pubblico, e infine spero al più presto di poter collaborare con tutti i colleghi della mia zona, a cominciare da LuigiPaternoster di Pierre Caffè di Gravina in Puglia: Bari sta crescendo e questo mi rende orgoglioso.

Caffè Cognetti | Bari | via Salvatore Cognetti 17/19 | tel. 080 5247578 | www.facebook.com/caffecognetti1997/?pnref=lhc

a cura di Michela Becchi

Per leggere Viaggio nelle torrefazioni italiane di ricerca. Prima tappa Lelli di Bologna clicca qui

Per leggere Viaggio nelle torrefazioni italiane di ricerca. Seconda tappa: Le piantagioni del caffè di Livorno clicca qui

Per leggere Viaggio nelle torrefazioni italiane di ricerca. Terza tappa: Lady Cafè di San Secondo Parmense clicca qui

Per leggere Viaggio nelle torrefazioni italiane di ricerca. Quarta tappa: Caffè Piansa di Bagno a Ripoli clicca qui

Per leggere Viaggio nelle torrefazioni italiane di ricerca. Quinta tappa: Caffè Penazzi di Ferrara clicca qui

Per leggere Viaggio nelle torrefazioni italiane di ricerca. Sesta tappa: Ditta Artigianale di Firenze clicca qui

Per leggere Viaggio nelle torrefazioni italiane di ricerca. Settima tappa: Bontadi di Rovereto clicca qui

Per leggere Viaggio nelle torrefazioni italiane di ricerca. Ottava tappa: Antico Caffè Spinnato di Palermo clicca qui

Per leggere Viaggio nelle torrefazioni italiane di ricerca. Nona tappa: Cannaregio di Venezia clicca qui

Per leggere Viaggio nelle torrefazioni italiane di ricerca. Decima tappa: Mogi Caffè di Bergamo clicca qui

Per leggere Viaggio nelle torrefazioni italiane di ricerca. Undicesima tappa: Caffè Musetti di Pontenure clicca qui

Per leggere Viaggio nelle torrefazioni italiane di ricerca. Dodicesima tappa: El Miguel di Luino clicca qui

Per leggere Viaggio nelle torrefazioni italiane di ricerca. Tredicesima tappa: Orlandi Passion di Centobuchi clicca qui

Per leggere Viaggio nelle torrefazioni italiane di ricerca. Quattordicesima tappa: Micro Torrefazione di Gallarate clicca qui

Per leggere Viaggio nelle torrefazioni italiane di ricerca. Quindicesima tappa: Pierre Café di Gravina in Puglia clicca qui

Per leggere Viaggio nelle torrefazioni italiane di ricerca. Sedicesima tappa: Gardelli Specialty Coffees di Forlì cliccaqui

Per leggere Viaggio nelle torrefazioni italiane di ricerca. Diciassettesima tappa: HQ Specialty Coffee di Genova cliccaqui

Per leggere Viaggio nelle torrefazioni italiane di ricerca. Diciottesima tappa: His Majesty the Coffee di Monza clicca qui

Per leggere Viaggio nelle torrefazioni italiane di ricerca. Diciannovesima tappa: Edo Quarta Specialty Coffee di Lecce clicca qui

Per leggere Viaggio nelle torrefazioni italiane di ricerca. Ventesima tappa: Manifattura Caffè di Verona clicca qui

Per leggere Viaggio nelle torrefazioni italiane di ricerca. Ventunesima tappa: Little Bean di Rivanazzano Terme clicca qui

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Il caffè: glossario essenziale per conoscere il caffè

Le migliori pasticcerie di Roma: 10 indirizzi da provare

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Tante le insegne di qualità nella Capitale, dai ristoranti di tradizione ai format più innovativi, senza dimenticare le pasticcerie. Ecco 10 insegne che rappresentano il meglio dell'arte dolciaria capitolina.

 

Una cucina robusta, un inno all'abbondanza, ma anche una tavola profondamente fondata su ricette povere della tradizione contadina, arricchite con sughi e condimenti densi e saporiti. Ma la Città Eterna non è solo quinto quarto e cacio e pepe: seppur meno nota, anche la pasticceria ha un suo posto nella gastronomia romana. Simbolo della Roma più dolce è da sempre il maritozzo, sorta di panino di origini antiche attorno alla quale si intersecano storie divergenti, ma non mancano anche biscotti secchi di vario tipo e pasticcini, senza dimenticare la celebre crostata di ricotta e visciole della tradizione giudaico-romanesca. Dove assaggiare i migliori dolci della tradizione? Dove trovare creazioni più contemporanee? Ecco un elenco delle 10 migliori insegne segnalate dalla guida Pasticceri & Pasticcerie 2018.

Bompiani

Autodidatta, ex gallerista, amante dell'arte e del bello, appassionato di gastronomia e instancabile viaggiatore. Walter Musco è tutto questo e, prima ancora, un ricercatore, un pasticcere che non si accontenta di fare dolci ma li costruisce sulla base di un concetto ben preciso. Con una squadra di prim'ordine, composta da Federico Cari e JoannaIrena Milewska, collaboratori storici ai quali si affiancano giovani competenti vogliosi di imparare il mestiere. Padronanza completa delle tecniche di pasticceria e scelta maniacale delle materie prime sono le carte di Walter, che ha fatto del suo locale una meta golosa ideale per ogni ora del giorno. Negli spazi ridisegnati in stile minimal poco più di un anno fa, si possono gustare tutte le creazioni della casa, dalla pasticceria fresca alle frolle, dalla biscotteria secca ai lieviti. E poi le torte più estrose, come la Action Painting, ispirata a Jackson Pollock, una base al cioccolato con tre mousse di Cru di cacao, la caprese dedicata a Curzio Malaparte, una frisella all'olio extravergine di oliva che accoglie mousse di ricotta di bufala, geleée di pomodoro datterino e basilico. O ancora la Bauhaus, un omaggio a Walter Gropius, un mix goloso ed equilibrato di pistacchio, lampone e gianduia. Ottimi anche gli éclair, le tartellette, i profiterole, i croissant francesi, le ciambelle e le bombe. Non manca, poi, una proposta salata sfiziosa, fra toast, tramezzini e panini farciti con il meglio della gastronomia nazionale.

Bompiani – Roma – l.go B. Bompiani, 8 – 065124103 – www.pasticceriabompiani.it

Cristalli di Zucchero

Ultimo protagonista di una staffetta familiare iniziata quasi un secolo fa dal nonno, Marco Rinella prosegue con passione e dedizione il suo percorso nell'arte dolciaria. Da undici anni alla guida di Cristalli di Zucchero, il pasticcere si impegna giorno dopo giorno a offrire una selezione di dolci di qualità, realizzati con ingredienti di prima scelta e una tecnica ben affinata con l'esperienza e lo studio. Tra le torte, imperdibile la Jupiter, unione di streusel al caffè, crema al cioccolato e mousse al caramello, ma è d'obbligo anche un assaggio dei mignon e dei lieviti, dai danesi con crema e gocce di cioccolato al Radetzky con uvetta e pinoli, senza dimenticare croissant francesi e ciambelle, oltre all'impeccabile cornetto integrale farcito con miele al momento. Le frolle non deluderanno gli amanti del genere, specialmente quelle Bretoni dal gusto di burro buono, latte, profumate e aromatiche. Qui, inoltre, è possibile sostare per un aperitivo o una pausa pranzo veloce, fra bottoncini ripieni, tramezzini, pizzette di sfoglia, quiche e piccoli croissant salati.

 

cristalli di zucchero

Cristalli di Zucchero – Roma – via di Val Tellina, 114 – 0658230323 – www.cristallidizucchero.it

Casa Manfredi

Burro belga di latteria di ottima qualità e una tecnica ineccepibile danno vita a creazioni gustose, friabili, e dalla trama aromatica complessa e intrigante. Quando si entra da Casa Manfredi ci si trova di fronte a una scelta ampia che va dalle monoporzioni alla biscotteria secca, dalle torte al gelato artigianale - cremoso e pulito nel gusto - oltre alle proposte per la pausa pranzo: tramezzini, panini, focacce, croissant farciti, mini burger e tante altre specialità golose per rendere il momento dell'aperitivo, con vini al calice o drink ben miscelati, un momento ancora più speciale. Ma ad attirare l'attenzione del cliente sono i lieviti, ariosi, dalla sfoglia fragrante, l'alveolatura ben pronunciata e omogenea, il profumo netto di burro e i gusti più disparati. C'è il classico croissant francese, sfogliato e scioglievole, la girella con gocce di cioccolato, la veneziana sfogliata con crema pasticcera - liscia e setosa al punto giusto - e poi lo squisito cornetto con grano cotto e cannella, equilibrato nel gusto e nel profumo.

 

casa manfredi

Casa Manfredi – Roma – viale Aventino, 91 – 0697605892 - www.facebook.com/casamanfrediaventino/

Andrea De Bellis

Un indirizzo sicuro per la colazione, la merenda ma anche il pranzo, grazie all'offerta di burger succulenti inserita un paio di anni fa. A coadiuvare il laboratorio di piazza del Paradiso, nel cuore della Capitale, è Andrea De Bellis, pasticcere di rango che da anni mescola influenze spagnole e francesi - lasciti delle sue tante esperienze all'estero - a ingredienti italiani e stranieri di prima qualità, realizzando creazioni uniche, frutto di ingegno, tecnica e un buona dose di divertissement. Grazie anche all'impegno del fratello Marco, negli ultimi anni la proposta della boutique si è fatta sempre più poliedrica e articolata, aumentando il numero delle specialità salate, senza però dimenticare i grandi classici che hanno reso l'insegna celebre fra i romani più golosi, come l'Assoluta o la tarte Citron, tanto per citarne alcune, e poi la famosa Sacher su stecco. Fra i panini è il Donut's burger a farla da padrone, mentre la linea di pasticceria resta ben ancorata alle sue fondamenta, fra croissant fritti, profiterole realizzati ad hoc e cornetti con crema pasticcera golosissima, perfetta nel gusto così come nella consistenza.

 

de bellis

Andrea De Bellis – Roma – piazza del Paradiso, 56 – 066861480 – www.andreadebellis.it

Gruè

Marta Boccanera e Felice Venanzi condividono l'amore per l'alta pasticceria italiana con inflessioni francesi. La loro è una storia recente fatta di determinazione e studio (Massari, Biasetto e Marcozzi), ma che in poco tempo ha già cominciato a portare i suoi frutti. Un progetto ambizioso con ampi spazi e una produzione di qualità, un ambiente essenziale e moderno, disegnato da un bancone a elle che divide le varie articolazioni della proposta. Si comincia la mattina con un'ampia scelta di lieviti, dai fagottini alle girelle, dai krapfen alle brioche farcite, e si prosegue con mignon, praline, gelatine di frutta, fino a semifreddi, macaron e torte, oltre ai grandi lievitati nel periodo delle feste. Da assaggiare i classici bignè e i cestini di frolla con frutta e crema, ma anche le pizze e i panini salati a base di ingredienti sempre freschi.

 

gruè

Gruè – Roma – viale Regina Margherita, 95 – 068412220 – www.gruepasticceria.net

Le Levain

Pugliese di nascita, francese per scelta, romano da tre anni e poco più. Una passione per il lievito madre che dà il nome al suo locale, la cui parola d’ordine è una sola: rigore. È stato Giuseppe Solfrizzi, pasticcere e proprietario della boulangerie Le Levain nel cuore di Trastevere, a far innamorare i buongustai della Capitale dei croissant d'oltralpe. Il suo curriculum è costellato di esperienze significative, da Alain Ducasse all'École Nationale Supérieure de Pâtisserie di Yssingeaux, per cui non c'è da stupirsi se nella bottega a due passi da piazza San Cosimato si ritrova un angolo di Francia. L'assortimento di lieviti ne è l'esempio più eclatante, fra pain au chocolat e croissant sfogliati alla perfezione, dall'alveolatura invidiabile e il profumo inebriante. Ma ci sono anche gli chouz e i macaron, le tartellette e i dessert monoporzione. Nota di merito per la millefoglie e anche per la proposta salata, fra baguette fatte in casa ripiene di prodotti freschi, quiche, focacce e pizze di sfoglia. Ad accompagnare la pausa pranzo, una piccola ma valida selezione di vini biologici.

 

le levain

Le Levain – Roma – viale L. Santini, 22 – 0664562880 – www.lelevainroma.it

Mondi

Ha festeggiato da poco 50 anni di attività questa storica insegna capitolina che negli anni ha saputo mantenere alta la qualità degli ingredienti, offrendo sempre una proposta curata nei minimi dettagli. Specialità della casa sono i “mondini”, gelati su stecco disponibili in vari gusti e ricoperti di cioccolato croccante, ma il locale è anche il luogo perfetto per sorseggiare un buon tè, in abbinamento a biscotti e pasticcini di livello, oppure fette di torta di buona fattura. Ottime anche le torte gelato, la millefoglie, il Mont Blanc, o ancora - quand'è stagione - i marron glacé realizzati a regola d'arte. Non mancano, poi, i lievitati delle feste, e tante proposte salate che si articolano in panini imbottini e focacce fragranti. Ottimo livello anche per i cornetti e gli altri lieviti per la prima colazione.

 

mondi pasticceria

Mondi – Roma – via Flaminia Vecchia, 468 – 063336466 – www.mondiroma.it

La Portineria

Un lungo bancone colmo di dolci segna l'ingresso de La Portineria, indirizzo goloso che alla bontà delle creazioni di Gian Luca Forino coniuga lo stile accogliente e familiare di un ambiente curato e arredato con materiali di recupero e legno dove fermarsi anche per il pranzo. Fra le tante prelibatezze, imperdibile il tiramisù, la torta alla nocciola della Nonna Pina con crema al cioccolato e panna montata e il reparto di biscotteria secca. La colazione, poi, è una gioia per il palato, con croissant e cornetti dalle varie farciture, veneziane ripiene di crema pasticcera ricca e sontuosa, pain aux raisins e parigine. Le monoporzioni sono una garanzia per i più golosi, e cambiano di continuo, assecondando la stagionalità degli ingredienti. Buona anche la pasticceria salata, e molto interessante la selezione di confetture e cioccolato di produzione propria. Quand'è periodo, è possibile anche acquistare grandi lievitati per le feste.

 

portineria

La Portineria – Roma – via Reggio Emilia, 22 – 0695218864 – www.laportineria.it

Regoli

Centouno anni di storia e non sentirli. Mai come nel caso di Regoli, ci si trova di fronte a un'insegna che da decenni rappresenta un punto di riferimento in città per l'arte dolciaria, continuando a riservare soddisfazione ai clienti più affezionati. Da diverso tempo, il laboratorio è diventato anche bar, offrendo così la possibilità al pubblico di gustare le varie prelibatezze, specialmente quella della colazione, accompagnate da caffè e cappuccini. A fare la parte del leone fra i vari lieviti, il maritozzo, fra i migliori di Roma, dolce panetto soffice aperto a metà e farcito con il celebre baffo di panna montata, disponibile anche nella più antica e tradizionale versione quaresimale (stesso impasto ma arricchito di uvetta e arancia candita). Si continua fra gli altri grandi classici della pasticceria italiana, dai bignè (anche fritti, nel periodo di San Giuseppe) ripieni di crema densa e dal sapore pulito, bavaresi, diplomatici, crostatine di pasta frolla e budini di riso. Tra le torte da ricorrenza, spiccano quelle a base di pan di Spagna, Charlotte e Saint Honoré in primis, all'insegna dei sapori di una volta.

 

regoli

Regoli – Roma – via dello Statuto, 60 – 064872812 – www.pasticceriaregoli.com

Santi Sebastiano e Valentino

Una panetteria con cucina, un forno “alla tedesca” che produce ogni giorno croissant, brioche, dolci da caffetteria, biscotti, crostate, torte e poi, naturalmente, tante diverse tipologie di pani fragranti dal gusto unico. Ai dolci, Valerio Coltellacci, esperto di pasticceria che può vantare – fra le altre esperienze – lavori al fianco di Marco Rinella e Gabriele Bonci. Ogni prodotto è realizzato con la massima cura e attenzione, ma sono le specialità per la colazione a sorprendere per gusto ed ed equilibrio magistrale fra dolcezza e profumi. Impeccabili i cornetti, sia nella versione italiana che in quella francese, così come le girelle, i danesi e tutti gli altri lieviti che arricchiscono l'assortito bancone del locale al mattino. Squisiti anche i biscotti (in particolare quelli al cioccolato e fior di sale, gli occhi di bue, i quadratini al pistacchio), le crostate e tutte le frolle profumate di burro. Fra le tante creazioni dolci, però, è il ventaglio caramellato, perfetto nella sfoglia croccante e scioglievole, dal gusto morbido e rotondo, a fare la parte del leone. Presenti, infine, anche torte classiche, bavaresi, macaron e lievitati per le feste.

 

santi

Santi Sebastiano e Valentino – Roma – via Tirso, 107 – 0687568048 - www.facebook.com/SANTI-SEBASTIANO-E-VALENTINO-1700248033544238/

a cura di Michela Becchi

Pasticceri & Pasticcerie 2018 del Gambero Rosso | Prezzo: 14,90 | disponibile in edicola, libreria e online

Pasticceri & Pasticcerie 2018 del Gambero Rosso. Classifica e premiati

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Il Messico è una nuova frontiera per il vino italiano?

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Dall'ultimo accordo commerciale Messico-Ue sono passati 18 anni. Oggi, in attesa di concludere le nuove trattative, il vino è ormai diventato un prodotto ampiamente diffuso, con l'Italia al quarto posto tra i Paesi esportatori. A far salire i consumi, giovani e turisti. Ecco perché conviene investire da queste parti.


La revisione del Trattato Messico-Ue

La geografia non sempre è una scienza esatta. Oggi, ad esempio, il Messico appare sempre più distante dagli Stati Uniti, mentre sembra avvicinarsi un po' di più all'Europa. A dividere i due Paesi americani ci pensa, infatti, il “muro” innalzato da Trump sui negoziati dell'accordo commerciale Nafta (Usa-Messico-Canada) - accordi che comunque stanno andando avanti - mentre potrebbero concludersi a breve quelli tra Messico e Unione Europea. A onor del vero, né uno nell'altro sono accordi nuovi: il trattato con l'Ue c'è già e regola i rapporti tra i due Paesi sin dal 2000, così come c'è quello tra i tre Paesi americani che risale al 1994.

La novità è che oggi il Messico è una nazione stabile (da vedere come andranno le prossime presidenziali del primo luglio 2018), rappresenta la seconda economia dell’America Latina (dopo il Brasile) e mostra una marcata apertura commerciale, tanto che ha già stipulato trattati commerciali con ben 45 Paesi. C'è, poi, da dire, che davanti alle ultime minacce di Trump in fatto di dazi (al momento non riguardano l'agroalimentare Ue, ma non è escluso che siano allargati anche a quello), guardare a quest'altra America per l'Europa diventa quasi una priorità. La “faccia triste dell'America” potrebbe, quindi, diventare quella più sorridente.

Ad oggi, l'accordo con il Messico, già in vigore dal 2000, prevede un dazio pari a zero sul vino. D'altronde non parliamo di un Paese produttore (qualcosa si sta muovendo solo in questi ultimi anni), quindi non c'è l'interesse a proteggere il prodotto interno. E su questo punto, l'aggiornamento del Trattato non dovrebbe portare nessuna sorpresa, come conferma l'Unione Italiana Vini: “Non essendoci barriere tariffarie, le nostre preoccupazioni sono tutte rivolte a colmare il vuoto legislativo, che non riconosce le nostre indicazioni geografiche. Per questo è stata proposta una lista di denominazioni europee da proteggere”.

 

Il “queso” che blocca l'accordo

Sarebbe un formaggio a far rallentare gli accordi di libero scambio tra Messico e Unione Europea. Il 'queso' incriminato si chiama Manchego: stesso nome sia in Spagna sia in Messico. Ma le somiglianze finiscono qui: latte di pecora di razza manchega per quello Dop spagnolo; latte di mucca e pasta molle per quello messicano, che viene venduto a prezzi bassissimi nei supermercati, principalmente per farcire le quasadillas. Una questione che somiglia molto a quella del nostro Parmigiano e dei suoi sosia – parmesan – sparsi nel mondo.

Oltre al Manchego, la Ue avrebbe presentato al Messico una lista con oltre 400 indicazioni geografiche, chiedendone il riconoscimento. Tra questi, birre, insaccati e anche vini. Ed è su questa lista che si giocheranno anche i prossimi round di negoziazione.

 

Produzione di vini messicani

La superficie vitata in Messico non supera i 30 mila ettari. Le maggiori aree produttive sono concentrate nelle regioni di Bassa California (dove si fa l’85% della produzione), Coahuila, Aguascalientes, Zacatecas, Querétaro, Sonora. I produttori sono un centinaio, ma sono appena quattro quelli che da soli raggiungono più del 50% dell'intera produzione del Paese: Casa Pedro, Domeqq Mexico Sa, La Madrileña Sa, Digrans Sa, Vinicola La Cetto Sa.

Le principali varietà coltivate sono per i rossi: Barbera, Cabernet Franc, Cabernet Sauvignon; per i bianchi: Chardonnay, Chenin Blanc, Fumé Blanc.

Dal 2013 il Giappone è diventato il principale destinatario delle esportazioni di

vino messicano, mentre prima, per lungo tempo, al primo posto c’erano gli Stati Uniti, grazie soprattutto alla presenza in Usa di una numerosa comunità di messicani emigrati.

 

I consumi di vino nel Paese dei Maya

Nell'arco temporale trascorso tra i vecchi e i nuovi negoziati,il commercio Ue-Messico è quasi triplicato, toccando quota 53 miliardi di euro l'anno. E anche il vino - totalmente ignorato dai messicani 18 anni fa - si è ormai fatto strada fino a diventare un'abitudine. Abitudine, s'intende, ben lontana dai numeri delle altre bevande nazionali: si calcola che circa due milioni e mezzo di persone consumino vino con una certa regolarità, di questi solo il 15% lo consuma quotidianamente, un altro 80% lo consuma almeno una volta la settimana. Il vino d’altronde è una bevanda piuttosto costosa da queste parti, sia per i rincari dei vari intermediari commerciali, sia per il peso della tassazione e per il costo degli adempimenti burocratico-amministrativi.

Al momento, nella classifica delle bevande più bevute, al primo posto c'è la birra,con più di 60 litri pro capite annui, seguita dai superalcolici, soprattutto tequila, con più di 2 litri annui pro capite e dai cocktail. Il vino è fermo a0.75 litri pro capite (dati Italian Chamber in the Caribbean). Ma presenta buoni margini di crescita: basti pensare che negli ultimi dieci anni le importazioni si sono praticamente triplicate. Quando parliamo di vino, infatti, il riferimento è per lo più al vino da importazione: quasi 60 milioni di litri l'anno.

Per quanto riguarda il vino italiano, secondo i dati Wine Monitor-Nomisma, da gennaio a ottobre 2017, il nostro Paese ha spedito in Messico, complessivamente, 114,7 mila ettolitri di vino (+10,3%, rispetto allo stesso periodo dello scorso anno), per un valore di 29,2 milioni di euro (+10,6%). Ad andare bene sono soprattutto i vini fermi imbottigliati: 23,6 milioni di euro, mentre gli spumanti seguono a distanza: 5,4 milioni di euro.

 

Gli scambi Italia-Messico

L’export italiano verso il Messico, dopo un calo nel 2014, è cresciuto nei due anni successivi, attestandosi a 3,7 miliardi di euro. L’Italia esporta verso questo Paese, beni della meccanica strumentale (38% dell’export italiano), autoveicoli (12%), prodotti chimici (8%), prodotti metallurgici (7%). Al contrari, importiamo dal Messico prodotti minerari (33%), mezzi di trasporto (16%), prodotti chimici (11%) e metalli (10%).

 

L'Italian Chamber in the Caribbean

Con l'obiettivo di favorire gli scambi Italia-Messico, è nata qualche anno fa Italian Chamber in the Caribbean, un'associazione (a partecipazione mista, istituzionale e privata) che si occupa della internazionalizzazione delle imprese italiane e della promozione del made in Italy in alcune aree caraibiche. La sua sede principale è in Messico, a Playa del Carmen. Dallo scorso anno ha inserito anche il vino nel suo portfolio e, grazie allo stanziamento fondi, è in grado di erogare a un numero limitato di aziende un percorso di internazionalizzazione della durata di sei mesi. Lo ha già fatto con una ventina di cantine italiane. Nello specifico, mette a disposizione la propria licenza di importatore e distributore in Messico e in alcuni Stati Usa; un supporto commerciale durante le fiere di settore; degli accordi di groupage con gli spedizionieri italiani; un export manager nel territorio per i sei mesi in questione, in modo da buypassare la figura dei buyer locali. Tra i prossimi appuntamenti fieristici che coinvolgono e attirano un vasto pubblico di messicani, Icc sarà presente a Nra Show Chiacago (19-22 maggio) e a Expo Hotel Cancun (12-14 giugno). Tra i prossimi progetti, in via di realizzazione, ci sono l'ampliamento della wine room nella stessa sede Icc di Playa del Carmen e la creazione di un canale e-commerce dedicato ai vini italiani e rivolto, in modo mirato, al pubblico messicano.

 

Spagna, Francia e Cile i maggiori esportatori

Il Messico” spiega a Tre Bicchieri Monica Beltrami, segretario generale dell'associazione Italian Chamber in the Caribbean “è un Paese molto protezionista se si toccano prodotti di cui è tradizionalmente produttore: birra, carne, formaggi. Semmai, la politica degli ultimi anni, sta cercando di attrarre sempre maggiori investimenti stranieri, favorendo i finanziamenti per chi, ad esempio, voglia trasferirsi da questi parti e comprare un proprio ranch. Ben diversa la situazione se si parla di vino. Esiste, sì, una piccola produzione vitivinicola locale, ma è molto marginale: a stento riesce a soddisfare il 30% della domanda interna”.

Il principale esportatore di vino in Messico è la Spagna con una quota di mercato, in valore, del 30%, seguita in ordine decrescente da Francia, Cile, Italia, Argentina e Stati Uniti. Se ci spostiamo al settore bollicine, il testa a testa è, invece, tra Francia e Italia. “La classifica è presto spiegata” continua Beltrami “la Spagna è avvantaggiata dai legami storico-culturali-linguistici con il Messico. Il Cile si avvantaggia della vicinanza geografica, del buon rapporto qualità/prezzo dei suoi vini e delle aggressive campagne promozionali messe in atto. La Francia gode di una sorta di rendita, in quanto è considerata, per definizione, il Paese che produce vini di maggiore qualità. E poi, i francesi sono stati bravi in questi anni a farsi conoscere”.

 

Vino italiano e ristorazione

E l'Italia? Anche il Belpaese gode di una buona fama e del crescente successo, ma la vera carta in più è rappresentata dalla ristorazione tricolore. “Soprattutto sulla costa sono tantissimi i ristoranti italiani e sicuramente rappresentano il canale migliore anche per i vini. Da non sottovalutare, in questo senso, la presenza dei nostri connazionali: sono oltre 10 mila quelli che vivono stabilmente a Playa del Carmen e che sono intenzionati ad investire in questo Paese, portando anche i prodotti italiani. Ben diverso il discorso Gdo (sostanzialmente rappresenta dalla statunitnese WalMart, con i suoi 2 mila punti vendita messicani; ndr), dove possono entrare solo grandi gruppi che abbattono i prezzi, o vini di bassa qualità a prezzi già molto bassi. Gli scaffali sono per lo più occupati da vini cileni. L'Italia, per fortuna, si colloca in altre fasce di prezzo. Quello che stiamo cercando di fare, come Icc” conclude la nostra interlocutrice “è creare dei corner italiani per far conoscere e degustare i prodotti”.

Guardando ai numeri: il vino in termini di valore si vende per il 63% nel canale on trade e per il 37% nel canale off trade. La classifica dei vini più venduti, vede nettamente in testa i rossi (63% delle vendite), seguiti da bianchi (24%), spumanti (12%) e rosati (1%).Il clima particolarmente caldo del Paese, in teoria dovrebbe favorire i vini bianchi ma non è così, quasi due terzi dei consumi si orientano sui rossi, anche se va detto che le nuove fasce di consumatori giovani e le donne, preferiscono sempre più i vini leggeri e, soprattutto, quelli spumanti: un segmento in crescita costante. Per ciò che riguarda le principali varietà consumate, per i vini rossi: Cabernet Sauvignon (54%), Tempranillo (29%), Merlot (11%), Shiraz/syrah (4%), a seguire tutti gli altri. Per i bianchi: Chardonnay (37%), Riesling (29%), Sauvignon Blanc (30%).

Per quanto riguarda i vini italiani” spiega l'export manager Andrea Romano “di primo acchito vengono chiesti i più blasonati all'estero: Chianti, Barolo, Brunello e Amarone. Sta a noi, in quanto importatori, far conoscere anche gli altri. Bisogna dare loro quel che chiedono, ma allo stesso tempo proporre altro. Negli ultimi tempi, poi, si sta molto affermando anche il Prosecco. E non solo: l'Italia è riuscita ad esportare, nel Paese della birra Corona e della Tequila, perfino la moda dello spritz”.

 

L'incidenza del turismo sui consumi

Ma chi è il consumatore-tipo messicano? Si tratta prevalentemente di uominidi mezza età con un livello socio-economico medio alto e alto, a seguire ci sono i giovani delle classi medie. Proprio per questo interesse da parte delle nuove generazioni, molti ristoranti hanno cominciato a inserire nelle loro carte vini con prezzi più moderati. La comparsa di vini con prezzi più contenuti e il miglioramento della distribuzione commerciale dovrebbero portare a un aumento dei consumi nei prossimi anni, modificando la percezione del vino da bevanda di lusso a bevanda sempre più “trendy”, soprattutto tra il pubblico femminile e i giovani.

C'è, poi, un altro target importante. Quello dei turisti stranieri. Il Messico registra complessivamente circa 30 milioni di presenze turistiche annue, con la maggior parte degli arrivi concentrata nella Riviera Maya: 300 km di costa con alberghi e hotel, con in media tre attracchi al giorno di navi crociera, come ci spiega Romano “Il flusso di visitatori non conosce sosta in ogni periodo dell'anno. Nei 12 mesi, cambia solo il target: un turismo più di massa in estate, un turismo più altolocato e con maggiore capacità di spesa in inverno. Bisogna anche considerare che il Messico è cambiato: non è più il Paese pericoloso dedito solo allo spaccio di droga e al malaffare. L'economia adesso sta girando velocemente, per questo non è sbagliato parlare di 'Nuovi Emirati Arabi' dell'area caraibica. Con una differenza: Dubai è 'nata' e cresciuta in tempi vertiginosi e dopo l'Expo, dovrà inventarsi qualcos'altro per non perdere attrattività; il Messico sta crescendo e guardando al futuro, ma con un passato solido alle spalle e un grande rispetto per le bellezze naturali che fanno parte del Paese”.

 

a cura di Loredana Sottile

 

Questo articolo è uscito sul nostro settimanale Tre Bicchieri del 15 febbraio

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A cena tra i templi di Paestum, con Massimo Bottura, Franco Pepe &Co. L'idea di LSDM per finanziare gli scavi

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Un evento unico nel suo genere, per raccogliere i fondi necessari a finanziare gli scavi in uno dei parchi archeologi più celebri e suggestivi del mondo. L'ultimo progetto di LSDM riunisce tre grandi chef e un pizzaiolo. E fa bene al territorio cilentano, e al patrimonio artistico italiano. 

L'evoluzione di LSDM. Da e per Paestum

Da Paestum e per Paestum il percorso delle Strade della Mozzarella cominciava più di dieci anni fa, con l'idea di raccontare un territorio che il suo patrimonio non ha certo bisogno di costruirlo a tavolino – la bellezza e la storia dei luoghi, la biodiversità del territorio, l'unicità di tradizioni artigianali antichissime sono lì, sotto gli occhi di tutti – ma di promuoverlo sì. Così iniziava il cammino delle Strade, nel frattempo riassunto sotto l'acronimo LSDM, con i suoi produttori al seguito, gli chef chiamati dall'Italia e dal mondo a valorizzare l'identità locale, la materia prima e l'intera filiera produttiva. A guidare la compagine, sin nelle ultime peregrinazioni all'estero, da Parigi a Londra e New York, Barbara Guerra e Albert Sapere, che ogni anno riportano tutti a casa, a Paestum, per tirare le somme degli anni che passano, e stimolare la condivisione di conoscenze con una consapevolezza crescente nei propri mezzi. Basti scorrere la lista dei nomi allineati sul cartellone dell'edizione in programma il 23 e 24 maggio al Savoy Beach Hotel, l'undicesima per il congresso, che quest'anno sembra voler alzare la posta in gioco. E chiama un parterre di grandi ospiti internazionali a riflettere sul valore della Dieta Mediterranea, che proprio in Cilento è stata codificata. Ma proprio perché Paestum vive di più anime che insieme l'hanno resa attrazione turistica tra le più visitate d'Italia, LSDM ha deciso di impegnarsi in prima linea per rendere giustizia alla sua storia. E il prossimo 30 luglio metterà in scena un evento che ricondurre alla lista dei desideri di chiunque ami l'alta cucina sarebbe riduttivo, perché la cena di raccolta fondi per finanziare gli scavi stratigrafici dell'antica città rappresenta un unicum nel suo genere, e il merito spetta principalmente alla suggestione del parco archeologico e dei suoi templi.

 

La cena tra i templi

La cena tra i templi – con il Tempio di Nettuno ad accogliere i commensali - riunirà tre chef di fama internazionale e un grande pizzaiolo, per offrire agli ospiti un'esperienza gastronomica irripetibile, pure per il contesto esclusivo: solo 90 i posti a disposizione, “venduti” al miglior offerente, per cifre non inferiori a 800 euro a persona. Il motivo è presto detto: tutti i proventi finanzieranno gli studi degli archeologi impegnati a svelare nuovi aspetti di un sito ancora misterioso da tanti punti di vista, con particolare attenzione per la cosiddetta Casa dei Sacerdoti, un'area limitrofa al Tempio di Nettuno che probabilmente ospitava i rituali legati al culto, cene sacrificali e banchetti compresi. Sull'esatta funzione dell'edificio, spiega Gabriel Zuchtriegel (direttore del Parco Archeologico), ancora nulla si è scoperto, ma la sua posizione ne fa presagire l'importanza strategica. E i fondi raccolti durante la cena tra i templi contribuiranno alla realizzazione di un progetto di scavo stratigrafico, di restauro e musealizzazione del risultati. Dunque il 30 luglio si ritroveranno a cucinare per i 90 fortunati Massimo Bottura (Osteria Francescana, Modena), Sven Elverfeld (Aqua, Berlino) e Heinz Reitbauer (Steirereck, Vienna). Apertura affidata a Franco Pepe (Pepe in Grani, Caiazzo) e alla sua pizza. Un'iniziativa volta a celebrare la sinergia tra cibo e cultura – del resto anche il cibo è cultura – che fortunatamente si inserisce nel solco di un interesse sempre più evidente del settore enogastronomico e dell'industria alimentare per la valorizzazione del patrimonio artistico e del territorio italiano. A ribadire che fare squadra e creare nuove sinergie è sempre una buona scelta. Nel caso specifico, con un riconoscimento all'eccezionalità dell'appuntamento, è proprio il caso di complimentarsi con chi ha reso possibile tutto questo, tributando omaggio all'Italia più bella. Sperando sia d'esempio per altri.

 

Per informazioni sul progetto pae.fundraising@beniculturali.it

 

 

a cura di Livia Montagnoli

foto di ms_photographie


Cucina di casa in Abruzzo. Ricette di: Scrippelle 'mbusse, Brodetto di pesce alla giuliese e Agnello cacio e uova

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L'Abruzzo è una regione che riesce sempre a sorprendere, offrendo esperienze enogastronomiche di grande evoluzione e prestazione. Ci riferiamo ad alcuni chef (uno su tutti Niko Romito) e a ristoranti e trattorie che affondano le loro radici nei sapori più autentici. Ma qui vi parliamo di ricette di casa, perfette per chi è un appassionato di cucina ma non è un cuoco esperto. Qui quelle di: scrippelle 'mbusse, brodetto di pesce alla giuliese e agnello cacio e uova.

 

Mari e monti. È così che si potrebbe riassumere la tradizione culinaria abruzzese che regala prodotti e ricette tutte da scoprire. Vengono dalla costa, una costa pescosa e ricca di tradizioni culinarie marinare, pietanze come il brodetto. La montagna, aspra e impervia, invece custodisce le ricette della memoria, le preparazioni legate alla pastorizia, i grandi prodotti che godono della ricchezza di territori incontaminati. Dallo squisito pecorino di Farindola, al prezioso zafferano di Navelli, senza dimenticare l'eccellente produzione di pasta di grano duro. E poi un must della tradizione abruzzese: gli arrosticini. La carne di agnello o di pecora si taglia a pezzetti piccoli e si infila in appositi spiedi di legno. Gli arrosticini si cuociono obbligatoriamente alla brace e ogni artigiano ha il suo metodo segreto per ottenere un carne ben cotta e arrostita, ma mai asciutta. I migliori si possono gustare in montagna, meglio ancora se nelle fattorie che si occupano anche della macellazione delle carni. Ma passiamo alle ricette replicabili a casa, ve ne suggeriamo tre: scrippelle 'mbusse, brodetto di pesce alla giuliesee agnello cacio e uova.

Scrippelle 'mbusse

Sono la versione teramana delle crêpes, dunque a base di uova, farina e latte, ma con due passaggi assolutamente caratterizzanti: prima di essere arrotolate vengono cosparse di pecorino, per poi essere bagnate con un leggero brodo di gallina o pollo.

Ingredienti

1,2 l di brodo di gallina

3 uova

2 cucchiai di latte

2 cucchiai colmi di farina

100 g di pecorino grattugiato

1 cucchiaio di prezzemolo tritato

Noce moscata

Poco burro per la padella

Prezzemolo

Sale q.b.

Battete le uova in una ciotola, unitevi il latte, la farina setacciata, una cucchiaiata di pecorino, una grattatina di noce moscata, il prezzemolo tritato e un bel pizzico di sale. Mescolate bene per ottenere un impasto omogeneo quindi aggiungete l’acqua necessaria per ottenere una pastella molto fluida. Ungete leggermente una piccola padella antiaderente, scaldatela e versatevi un mestolino del composto. Girate subito la padella in modo che l’uovo si distenda su tutto il fondo, formando una crêpe molto sottile. Fatela cuocere due minuti per parte e continuate così fino a esaurimento del composto, calcolando di preparare dodici scrippelle. Quando sono pronte, allineatele sul tavolo, spolveratele di formaggio, arrotolatele e distribuitele fra quattro piatti fondi. Versate sopra il brodo bollente e servite subito completando i piatti con un pizzico di prezzemolo tritato.

 

Brodetto di pesce

Brodetto di pesce alla giuliese

La costa abruzzese è pescosa e ricca di tradizioni culinarie marinare, come il brodetto. Qui la versione alla giuliese dove quantità e varietà di pesce indicate sono abbastanza indicative. Se disponibile, ci starà bene anche uno scorfano tagliato in trance e, non trovando le gallinelle, si potranno sostituire con dei merluzzi. Verso la fine della cottura si potranno anche aggiungere una manciata di cozze e altrettante vongole che, oltre ad aggiungere sapore, faranno più bello il piatto. Insomma: via libera alla fantasia.

Ingredienti

1 o 2 seppie del peso complessivo di circa 400 g

1 pesce San Pietro di circa 800 g

2 caponi gallinelle di 4-500 g l'uno

8 panocchie

4 grossi scampi

2 code di rospo di 3-400 g l'una

4 triglie di circa 150 g l'una

4 tranci di palombo

4 piccole tranci di razza

800 g di pomodori ben maturi

1 bicchiere scarso di olio extravergine d'oliva

1/2 peperone verde

2 spicchi d'aglio

Prezzemolo

Peperoncino

Sale q.b.

Staccate i tentacoli delle seppie dalla sacche, svuotate queste ultime e spellatele. Private il ciuffo dei tentacoli del becco, degli occhi e della pelle quindi lavate le seppie più volte e tagliatele e striscioline. Con un coltello ben affilato tagliate il San Pietro tutto intorno, in modo da eliminare le pinne superiori e inferiori quindi svuotatelo, privatelo della testa e dividetelo in quattro trance. Svuotate le gallinelle, privatele della testa e delle pinne e divideteli in due o tre trance. Con le forbici tagliate le zampette delle pannocchie e degli scampi quindi praticate su ambedue un taglio lungo tutto il dorso. Spellate le code di rospo dopo avervi praticato una lunga incisione quindi staccate la teste usando un coltello robusto (le potrete usare per preparare un ottimo sugo per gli spaghetti). Raschiate con delicatezza le triglie per squamarle, svuotatele e tagliate le pinne. Lavate rapidamente tutti i pesci preparati (compresi i tranci di palombo e razza, già pronti così) e asciugateli. Lavate i pomodori, tuffateli in acqua bollente quindi passateli nell'acqua fredda e pelateli. Spezzettateli grossolanamente lasciandoli cadere dentro un largo tegame. Distribuitevi gli spicchi d'aglio tritati, il peperone tagliato a pezzetti, le striscioline di seppie e, se lo gradite, anche un pezzetto di peperoncino piccante. Infine aggiungete l'olio e il sale, mescolate e mettete il tegame sul fuoco. Lasciate cuocere il pomodoro per circa un quarto d'ora. Trascorso questo tempo, quando il pomodoro si sarà un po' asciugato, cominciate ad aggiungere il pesce, in ordine di cottura. Mettete per primi gli scampi, disponendoli tutto intorno al tegame, e le code di rospo. Dopo pochi minuti aggiungete tutti pesci tagliati a tranci e le pannocchie disponendo queste ultime tutto intorno sopra gli scampi. Ancora cinque minuti di cottura e, per finire, aggiungete le triglie. Durante la cottura non girate i pesci, né mescolateli: solo così manterranno la loro forma senza rompersi. Salate tutto e lasciate cuocere altri cinque sei minuti. Servite il brodetto caldo, spolverato di prezzemolo tritato e accompagnatelo con fettine sottili di pane tostato.

 

Agnello cacio e uova

Agnello cacio e uova all'abruzzese

Cacio e uova è un binomio che rimanda subito all'Abruzzo, pensiamo per esempio alle pallotte cacio e ova oppure all'agnello, una ricetta semplice e che richiede pochi ingredienti, che potrete proporre ai vostri ospiti il giorno di Pasqua. Il risultato è garantito.

Ingredienti

1 cosciotto di agnello di circa 1,2 kg

3 cucchiai d'olio extravergine d'oliva

1/2 bicchiere di vino bianco secco

1 cucchiaio di farina

2 spicchi d'aglio

Rosmarino

Sale e pepe q.b.

Per la salsa

2 uova freschissime

50 g di pecorino romano grattugiato

Disossate il cosciotto e tagliate la carne a pezzi regolari delle dimensioni di un uovo. Scaldate l'olio in un tegame largo e fatevi rosolare la carne, leggermente infarinata, insieme agli spicchi d'aglio e alle foglioline di un rametto di rosmarino. Tenete la fiamma moderata e girate spesso i pezzi di carne in modo che si colorino in maniera uniforme e, quando saranno ben dorati, insaporiteli con sale e pepe e versate il vino. Quando è sfumato, incoperchiate e proseguite la cottura fino a quando la carne sarà tenera. Durante la cottura, aggiungete se necessario qualche cucchiaio di acqua calda, tenendo presente che la preparazione non dovrà asciugarsi troppo. Rompete le uova in una scodella e battetele insieme al pecorino. Quando la carne è pronta, ritirate il tegame dal fornello, scartate l'aglio e, mescolando, versatevi le uova, continuando a mescolare fino a quando si saranno rapprese diventando cremose. Se necessario, rimettete la preparazione sulla fiamma debolissima facendo comunque attenzione che non alzi il bollore. Accomodate l'agnello in una piatto da portata scaldato e servite subito.

 

Cucina di casa in Veneto. Ricette: Sarde in saor, Risi e bisi e Baccalà alla vicentina

Cucina di casa in Piemonte. Ricette: Vitello tonnato, Agnolotti del plin e Brasato al Barolo

Cucina di casa in Sicilia. Ricette: Panelle, Pasta alla norma e Calamari alla messinese

Cucina di casa a Roma. Ricetta di: Supplì, Spaghetti alla carbonara, Coda alla vaccinara

Cucina di casa in Emilia-Romagna. Ricette di: Cappellacci di zucca, Cotoletta alla bolognese e Torta degli addobbi

Cucina di casa in Lombardia. Ricette di: Risotto alla pilota, Ossobuco alla milanese e Tortaparadiso

Cucina di casa in Liguria. Ricette di: Pesto alla genovese, Bagnun e Baccalà in zimino

Cucina di casa in Toscana. Ricette di tre zuppe: Carabaccia, Garmugia e Cacciucco

Cucina di casa in Puglia. Ricette di: Cozze arraganate, Tiella di riso patate e cozze, Dentice alla pugliese e Taralli

Cucina di casa in Sardegna. Ricette di: Minestra di fregula con arselle, Pane frattau e Sebadas

Cucina di casa in Campania. Ricette di: Pasta cresciuta alle acciughe, Minestra di pasta e patate e Genovese

Cucina di casa in Trentino-Alto Adige. Ricette di: Canederli, Zuppa al vino e Strudel di mele

Cucina di casa in Friuli-Venezia Giulia. Ricette di: Frico con le patate, Gnocchi di susine e Gulasch

Cucina di casa in Umbria. Ricette di: Brustengo di patate e verze, Salsicce con l'uva e Ciaramicola

Cucina di casa nelle Marche. Ricette di: Olive ascolane, Pollo in potacchio e Calcioni

Bio's Kitchen apre a Bologna. E Pier Giorgio Parini ha molto da dire

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Un concept dedicato al biologico e alla cucina vegetale, con un dogma a indirizzare la ricerca: la materia prima. Da Rimini a Bologna, con l'obiettivo di crescere ancora entro il 2020, Bio's Kitchen scommette su una cucina sana, ma inclusiva. E l'incontro con Piergiorgio Parini regala nuova spinta. Non solo al ristorante. 

Bio's Kitchen. Da Rimini a Bologna

Varcata la soglia di via Galliera 11, il dedalo di portici bolognesi lascia il posto a uno spazio inaspettato. Da qualche giorno l'arrivo di Bio's Kitchen ha radicalmente ripensato il locale che un tempo ospitava la scuola di cucina di Alessandra Spisni. L'investimento è stato ingente, e si vede. La posta in gioco, però, imponeva di pensare in grande: Bologna sarà una pedina fondamentale – o almeno questo auspicano Renzo Agostini e Roberto Gabrielli, rispettivamente patron e socio di maggioranza dell'azienda – per testare la replicabilità di un format maturato col tempo, e oggi pronto per la grande scalata. Obiettivo: 5 aperture entro il 2020, con radar puntato sul Nord Italia, dalla via Emilia in su. Al momento il progetto è tanto concreto quanto visionario, nell'accezione più positiva del termine. E nella squadra di Bio's Kitchen, che solo a Bologna conta 24 dipendenti, tutti giovani e regolarmente assunti (“l'etica del lavoro e il rispetto delle regola sono una nostra priorità” spiega Gabrielli), è tangibile il desiderio di confrontarsi con idee ambiziose, forti della filosofia che ha ispirato le origini del marchio. 25 anni fa, la famiglia Agostini apriva a Rimini un punto vendita tutto dedicato al biologico, Terra&Sole: attività pionieristica per la lungimiranza con cui il negozio anticipava un percorso oggi decisamente di tendenza - il business del biologico in generale, e il trend dell'alimentazione veg - finanche con le sue storture, da cui oggi la squadra di Bio's prende le distanze: “Il nostro pallino è la materia prima, da fornitori con cui coltiviamo un rapporto costante; ma i nostri ristoranti hanno anche la peculiarità di proporre principalmente alimenti di origine vegetale. Potremmo usare il termine vegano, ma ci guardiamo bene dal farlo: vegetale è un concetto più inclusivo, anche se meno di moda”.

Sano e inclusivo. Biologico e vegetale

Eppure il ricco buffet che ogni giorno viene allestito all'ora di pranzo, con circa 40 alternative sempre diverse a disposizione dei commensali (che possono servirsi da soli, e poi pagare il piatto a peso, 2.40 l'etto, “per superare la formula del prezzo fisso, che spesso spingeva i clienti a riempire il piatto in modo compulsivo e comportava troppo spreco per la nostra filosofia”), è tutto vegano. Ma come si è arrivati fin qui? L'attività è cresciuta al riparo dalle dinamiche pressanti delle grandi città: dopo il negozio è arrivato il caffè, con l'esordio del marchio Bio's; poi il laboratorio di produzione e distribuzione a Castiglioncello di Cervia, che oggi frutta circa 2 milioni di fatturato l'anno, “ma non è il nostro business primario, continuerà a pesare in questa proporzione anche nei prossimi anni”. E nel 2014 il primo ristorante, a Rimini, in un casolare non distante dal centro città, con bello spazio esterno nel verde e la cucina affidata alle direttive di Marco Bonardi. Nel 2015 l'arrivo di Roberto Gabrielli ha portato a riorganizzare l'attività in vista di quella crescita che oggi, con il raddoppio a Bologna, è appena agli inizi: un progetto di diffusione concentrato, appunto, sulla ristorazione, a partire da una piazza in fermento, ma sufficientemente familiare per riuscire a comprenderne le dinamiche. “Oggi siamo sicuri di rappresentare una formula originale, con i numeri giusti per confrontarsi con una piazza importante”. Ma la crescita non porterà a snaturare le caratteristiche fondative del marchio, “siamo in numero sufficiente per supportarla, e la conduzione resterà sempre diretta per tenere il focus sul nostro modus operandi”. Il motto della casa? Buono, bello, che faccia bene e sia sostenibile (la quarta b è quella del bilancio, una verità ammessa col sorriso), e per un pubblico quanto più trasversale possibile: “Vorremmo arrivare a tutti quelli che sposano la nostra filosofia, alimentandosi in maniera sana. Promuoviamo una cucina a base vegetale, intercettando un target sempre più diffuso che preferisce alimentarsi senza proteine animali, ma ancor prima ci relazioniamo col mondo del bio”.

Il menu e il buffet

Quindi in menu, specie di sera quando si mangia alla carta, ci sono anche carne – mora romagnola igp e pollo allevato a terra – e pesce (come i sardoncini nostrani panati), oltre alla pizza, da farine di grani antichi di Romagna, farro o kamut. E persino la tagliatella al ragù, “di cui proviamo a fornire la nostra versione, vediamo come risponderanno i bolognesi!”.

In carta anche moltissime idee accattivanti con le verdure – l'involtino di verza con cialde di polenta e pesto rosso, i falafel di ceci, la zuppa di lenticchie e zucca, la torta d'erbe e sfogliatine al sesame – o proteine vegetali, come le polpette di tempeh e verdure. Ma è durante il servizio del pranzo che la mission di Bio's Kitchen si esprime al meglio, i riflettori puntati sul buffet in fondo alla sala, tra piante che scendono dal soffitto e tavoli ordinatamente allestiti su due livelli, per un totale di circa 150 coperti. La varietà del buffet – che suggerisce di sperimentare i principi della dieta sequenziale, iniziando il pasto con verdure crude, frutta ed estratti, per poi proseguire con gli alimenti cotti – introduce un discorso necessario sulle dinamiche operative del ristorante: “Ogni mese riceviamo al ristorante 4 tonnellate di verdura fresca, stoccata e lavorata direttamente qui, come succede anche a Rimini. Non abbiamo un centro di produzione, e il processo di lavorazione è indubbiamente la voce di spesa più ingente di tutto il progetto. Facile dire 'sono solo due verdure!'”. Lo sottolinea Gabrielli, gli fa eco l'ultimo arrivato in squadra, non uno qualunque: Pier Giorgio Parini.

Pier Giorgio Parini da Bio's

Collaboratore attivo, più che consulente, che le mani in pasta le mette parecchio, e non potrebbe essere altrimenti visto il suo background. Lo chef romagnolo ha sposato il progetto più di un anno fa, stimolato dalla possibilità di confrontarsi con nuove sfide, al termine del suo rapporto col Povero Diavolo (e in parallelo alla consulenza per Benso, a Forlì): “Volevo cambiare aria e fare cose diverse, chi bazzica i ristoranti sa quante ore passiamo in cucina a fare sempre le stesse cose. E finora l'esperienza con Bio's mi dato la possibilità di imparare molto”. Ha certamente aiutato “il Dna vegetale di Pier Giorgio”, che oggi è parte attiva del processo creativo al ristorante. Mica uno scherzo, neanche per lui: “Basti pensare al buffet, disposta con cura in un piatto l'idea ha una resa, dentro al vassoio è tutt'altro discorso. La mia sfida, ora, è applicare i miei pensieri su larga scala, standardizzare il risultato. Non lavoro per una sala da 15 coperti, ma tutti i giorni per 200-300 persone”.

E spesso il discorso si gioca su dettagli non immediatamente percepibili: “Consistenze, cotture... L'idea di base è fare semplice, alla portata di tutti, ma con un pensiero. Trovare un ravanello con la vaniglia sul buffet è raro, idem per l'ananas con zenzero, curcuma e coriandolo. Io voglio lavorare sull'abbinamento, e insieme cercare di mettere a regime e standardizzare questa filosofia su tutto il buffet. Ci vorranno due anni per arrivare a regime: dobbiamo avere uno storico di almeno un anno di consumo di verdure, codificare le ricette. Solo così costruisci una base su cui lavorare, ed evolvere con la ricerca di prodotti nuovi. Oggi c'è la vaniglia, tra un anno saranno le noci di macadamia fermentate, poi chissà. Anche questa è ricerca”.

 

Cambiare vita. La sfida della ricerca

E il passato, non gli manca? “È bello anche così, è molto stimolante, devi viverla in maniera diversa, come differente è l'approccio al lavoro. I riconoscimenti fanno piacere, ma mi mancava qualcosa, probabilmente lo sto ancora cercando. Io riesco a fare una cosa solo se è fatta bene, che sia tagliare un panino o fare ricerca”. E sulla ricerca, in realtà, negli ultimi tempi Pier Giorgio si è molto speso: “I primi 9 mesi di collaborazione con Bio's li ho passati in laboratorio, e sono molto orgoglioso dei risultati”. Al centro di Castiglione di Cervia, Parini ha lavorato per perfezionare una brioche 100% bio e vegana: “Sfido qualunque pasticcere a ottenere un risultato del genere, ci è voluto moltissimo studio, ma finalmente abbiamo un prodotto buono, da vendere abbattuto e già lievitato ai negozi specializzati, pronto da cuocere in forno”. Il segmento ricerca e sviluppo di Bio's, in effetti, sembra affascinare parecchio Pier Giorgio in questo momento della sua vita: “Loro lavoravano parecchio sui prodotti secchi, biscotti, sfoglie salate. Vedremo se implementare il discorso, ma tutto si rifà a un problema di metodo. Ti rapporti con numeri fuori dall'idea di un cuoco, impasti da 200 chili di farina! Per arrivare al prodotto finito la strada è lunga: partiamo con l'idea, poi procedo da solo con una piccolissima produzione; assaggiamo, resettiamo tutto e ripartiamo. Ci vogliono 3-4 mesi per avere il prodotto finito, a ogni step devi aggiustare la ricetta”. Tra gli ultimi prodotti entrati in commercio una linea di patè vegetali: “Ho cominciato a lavorarci un anno fa, con un frullatore e due pentole. Poi 50, 100 chili...E la prima produzione di 2mila barattoli è stata un disastro! Così ho capito, devo seguire ogni produzione di persona: è come fare una salsa in cucina, ma con una pentola da 300 chili! È quello che mi piace, la sfida”. Con una convinzione che resta il suo faro guida: “Di cucine ne esistono due: una buona e una cattiva. Capito questo sai come lavorare”.

 

Bio's Kitchen - Bologna - via Galliera, 11  - www.biositalia.com

 

a cura di Livia Montagnoli

 

Presente e futuro del Twins Garden a Mosca

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Presente e futuro dei due fratelli che hanno segnato una svolta nella gastronomia moscovita. Dopo essere stati i primi ad aver portato gli ingredienti russi nell'alta cucina, ora puntano alla farm-to-table tanto in voga in Occidente.

 

Varcare la porta d’ingresso del Café Pushkin sullo Tverskoy Boulevard di Mosca è come entrare nella casa di un aristocratico russo intorno al 1825: boiseriedi legno scuro alle pareti, soffitti stuccati, la luce fioca delle lampade a olio. Infatti, questo è uno dei ristoranti più antichi della capitale russa: risale... al 1999.

I ristoranti in epoca sovietica

Nemmeno vent’anni bastano a farne un’insegna storica in una città in cui, per tutta l’epoca sovietica, i ristoranti venivano disprezzati pubblicamente come una mollezza borghese, ma privatamente erano riservati ai membri del partito e dell'élite culturale. Come Aragvi, ristorante georgiano frequentato nella seconda metà del secolo scorso dalla crema della società sovietica – un misto di star del cinema del Blocco Orientale, campioni di scacchi, cosmonauti e membri del Politburo che era, anche, il ritrovo preferito di spie e agenti del KGB. Dopo la caduta dell'URSS il ristorante chiuse, per riaprire nel 2016, dopo un restauro costato 20 milioni di euro che ha trasformato la sala da pranzo preferita del capo della polizia segreta di Stalin, Lavrentiy Beria, in un’attrazione storica, con tanto di affreschi alle pareti in puro stile realismo socialista.
La prima ondata di ristoranti ambiziosi, aperti a Mosca alla fine degli anni '90, era sfacciatamente sfarzosa: nati sulla scia della privatizzazione delle risorse statali, il loro stile rifletteva l'improvvisa e sbalorditiva ricchezza accumulata da alcuni, così come il desiderio della città di tenere testa alle capitali occidentali. I locali simbolo dell’epoca sono luoghi come Turandot, costruito da zero in stile barocco dal ristoratore Andrei Dellos (lo stesso del Café Pushkin): 600 dipendenti e più di 500 coperti in una sala enorme dove musicisti imparruccati suonano musica classica. O il primo ristorante russo a entrare nel 2011 nella classifica World’s 50 Best, il molecolare Varvary, ovvero "barbari", a dimostrazione del fatto che lo chef Anatoly Komm non mancava di autoironia nel constatare la percezione della gastronomia russa all'estero.

{gallery}Twins a Mosca{/gallery}

L'evoluzione nella scena gastronomica moscovita degli ultimi anni

Gli ultimi anni hanno segnato un’evoluzione nella scena gastronomica moscovita: nessuna rivoluzione, ma uno scatto di maturità che non tradisce però il peculiarissimo spirito del luogo. Nel novembre del 2017 ha inaugurato il Twins Garden, versione 2.0 del fortunato Twins, il ristorante fondato dai gemelli identici Ivan e Sergey Berezutskiy nel 2014. Il nome sottolinea la novità fondamentale del progetto: i due chef hanno acquisito 50 ettari di terreno nella regione della Kaluga – due ore e mezzo a sud di Mosca – dove intendono produrre tra l’80% e il 90% delle materie prime impiegate nel ristorante: “Le persone hanno cominciato a capire che la cosa più importante è la freschezza del cibo”, esordisce Sergey. C’è l’orto, ma anche una serra riscaldata dove coltivare pomodori, ravanelli, cavoli ed erbe aromatiche; un laghetto per i gamberi d’acqua dolce (proprio così!), un allevamento di capre e di vacche per latte e formaggi. Il progetto è realizzato in collaborazione con specialisti dell’Università Statale di Agraria russa. Il modello è quindi il farm-to-table tanto popolare in Occidente, però declinato alla moscovita: ovvero il meglio del meglio di tutto.

Piatto dei Twins a Mosca. Ph Alberto Blasetti

Il Twins Garden

Oltre che nel nome, il Twins Garden declina il tema natura rimanendo saldamente all’interno dello standard del grande ristorante moscovita: qui non troviamo eccessi, ma il lusso si vede in trasparenza. L’architettura è ispirata al costruttivismo russo e il design del ristorante ha uno stile eco-minimalista che ricorda gli spazi aperti grazie a superfici ruvide come rocce, pareti che luccicano come se fossero umide e vasi di muschio che fanno centrotavola.

giardino pensile in miniatura da Twins a Mosca. Ph Alberto Blasetti

C’è, anche, un altro piccolo vezzo: una delle salette private del ristorante ospita un giardino pensile in miniatura, piccoli vasi in coltivazione aeroponica che pendono dal soffitto. Gli ospiti possono piantare un seme che una volta sbocciato sarà trasferito nel terreno della fattoria: il raccolto andrà direttamente al commensale, sorta di cotillon della cena in differita. Un’altra sala è destinata alla test kitchen, dove l’acciaio inossidabile degli elettrodomestici da cucina futuribili si riflette sulla lastra di onice del banco. Qui i gemelli possono sperimentare in completa libertà nuovi piatti e idee, di fronte a un pubblico ultra-selezionato: ci sono solo cinque sgabelli. Il compiacimento con cui descrivono lo spazio parla di un sogno realizzato: due su mille in tutta la loro generazione, hanno avuto i mezzi per cucire questo ristorante esattamente sulla misura delle loro ambizioni.

 

a cura di Sara Porro

foto di Alberto Blasetti

 

QUESTO È NULLA...

Nel numero di marzo del Gambero Rosso, un'edizione rinnovata in questi giorni in edicola, trovate tutta la storia dei Twins, dagli esempi concreti del modello farm-to-table alla loro ricerca sugli ingredienti russi “a volte sconosciuti persino agli abitanti del posto”. Non solo, trovate anche il racconto del menu degustazione costruito sul tema dei “gemelli”. Un servizio di 10 pagine che include una mappa coi 20 locali da non perdere secondo Nino Graziano, chef siculo che ha portato a Mosca la cucina italiana contemporanea, le riflessioni del più famoso chef della città Vladimir Mukhin, e le 10 ricette russe più famose abbinate a vini italiani con la consulenza di Giuseppe Carrus.

 

Il numero lo potete trovare in edicola o in versione digitale, su App Store o Play Store

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Etichettatura del vino: ecco come potrebbe cambiare. La proposta delle associazioni

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Etichetta elettronica, indicazioni delle calorie sulla base di una drinking unit e lista condivisa degli ingredienti da esplicitare. Sono questi i punti principali della proposta che le associazioni del vino hanno presentato alla Commissione Salute Ue. Ma non tutti sono d'accordo e Beuc boccia il testo

La proposta in tre punti

Aspettiamo proposte entro un anno”. Così, a marzo del 2017, la Commissione Ue alla Salute aveva assegnato i “compiti per casa” alle associazioni del vino europee in materia di etichettatura, fissando la nuova seduta di incontro per marzo 2018. Dodici mesi per trovare una proposta convincente e condivisa, come previsto dal regolamento 1169/2011. Dodici mesi in cui Copa-Cogeca, Ceev, Cevi e Efow (le quattro sigle principali europee del settore) hanno lavorato fianco a fianco per arrivare a un documento condiviso - ma non da tutti, ad esempio è rimasta fuori la cooperazione italiana - presentato lunedì scorso al commissario Ue alla Salute Vytenis Andriukaitis. Sostanzialmente sono tre i punti principali della proposta:etichettatura elettronica (off label), con inserimento di un link che rimandi a un sito web esterno; indicazione solo delle calorie senza riferimento al contenuto di sale, proteine e grassi e in base a una unità di misura unica; elencazione degli ingredienti secondo una lista condivisa.

"Al contrario di altri prodotti agroalimentari” sottolinea il chairman di Copa-Cogeca Thierry Coste“la nostra proposta tiene conto della natura stessa del vino, che è un prodotto agricolo, che si evolve costantemente e non ha una ricetta fissa". Non si è fatta attendere, però, la risposta della European Consumer Organisation (Beuc), che sostanzialmente boccia la proposta (vedi paragrafo La bocciatura dell'organizzazione dei consumatori Beuc). Una presa di posizione che potrebbe pesare parecchio sulla scelta finale della Commissione.

 

E-label, ecco come funziona

Ma intanto entriamo nello specifico del testo. Per quel che riguarda la cosiddetta e-label, l'esigenza è spiegata sia dalla possibilità di dare le informazioni in tutte le lingue dei Paesi dove il vino viene venduto, sia dalle nuove modalità di acquisto, che vedono l'online come il mezzo più utilizzato. Si legge nel documento presentato a Bruxelles: "Internet, oltre ad essere una canale di distribuzione molto importante per gli operatori del settore vitivinicolo, è anche la terza fonte di informazione che i consumatori consultano prima di acquistare vino. Gli strumenti di comunicazione fuori dall'etichetta sono, dunque, un meccanismo chiave nella fornitura di informazioni ai consumatori". Non c'è tuttavia l'obbligo: gli operatori potranno scegliere se inserire le comunicazioni dentro o fuori dall'etichetta.In quest'ultimo caso, dovranno includere in etichetta o sull'imballaggio del prodotto un link o un codice Qr o un'icona che fornisca un accesso semplice e diretto alle informazioni tramite l'uso di tecnologie intelligenti. Il rimando può essere a un sito internet aziendale, ma non si esclude la possibilità di un rimando alla pagina del Consorzio di riferimento o della denominazione o della Regione.

 

Ecco come indicare le calorie

Capito il come, bisogna, poi, capire il cosa. La proposta è di indicare la cosiddetta “dichiarazione nutrizionale armonizzata”, ovvero limitare le informazioni al valore energetico e indicare le informazioni nutrizionali sulla base di 100 ml del prodotto, quindi su una porzione (praticamente un bicchiere), definita drinking unit.In questo senso, si avrebbero dei dati generalmente accettati a secondo delle tipologie di vino (vedi tabella). Sempre in questa tematica, rientra la possibilità di utilizzare dei simboli, invece della dicitura completa, in modo che risulti comprensibile a tutti. Vedi il caso del simbolo internazionale “È per indicare il valore energetico.

 

Lista degli ingredienti. Manca lo zucchero

Passiamo, infine, alla lista degli ingredienti obbligatoria. Prima di tutto, la proposta è che gli operatori la comunichino, scegliendo tra tre diverse opzioni:

  • lista degli ingredienti in base al particolare processo di vinificazione di un determinato vino

  • lista degli ingredienti in base al processo di vinificazione storico

  • lista degli ingredienti in base al processo di vinificazione autorizzato

Qualunque sia, tra questi tre, il metodo seguito, bisognerà sempre indicare le sostanze che causano allergie. Mentre rimangono esclusi, sostanzialmente, i coadiuvanti tecnologici usati per la trasformazione del vino riconosciuti dall'Oiv e le sostanze naturali utilizzate per regolare composizione delle uve.

Ed è quest'ultimo punto, quello che ha molto fatto discutere. Rientrano, infatti, tra queste sostanze da non indicare (oltre a acido lattico, acido citrico, acido tartarico e acido malico), tutte quelle che regolano il tenore naturale di zucchero nelle uve, quindi, mosto concentrato rettificato (mcr) e zucchero aggiunto al mosto per lo zuccheraggio. Ed è qui che da sempre sta una delle principali differenze tra i Paesi dell'area mediterranea (in cui, insieme all'Italia, ci sono Spagna, Portogallo, Grecia, Cipro e alcune aree della Francia) e quelli del Nord Europa. Differenza di clima in primis, ma anche di legislatura e tecniche di produzione. E c'è chi proprio non accetta che l'aggiunta di saccarosio non venga palesata in etichetta.

 

Alleanza delle Cooperative non firma l'autoregolamentazione

Per noi è una questione di trasparenza”, spiega a Tre Bicchieri Ruenza Santandrea, coordinatrice del settore vitivinicolo di Alleanzadelle CooperativeTutto quello che non è derivato dell'uva deve essere indicato. L'escamotage utilizzato dai Paesi del Nord Europa per far sparire lo zucchero dalla lista è che si tratta di un sottoprodotto che deriva dall'uva. Ma non è così: lo zucchero di barbabietola, ad esempio, non viene dall'uva.Si tratta di un'aggiunta e, come lo si indica nelle marmellate, è giusto che lo si faccia anche nel vino. Non è corretto byapassare, così, la questione”. Per questo motivo, Alleanza delle Cooperative ha deciso di non firmare la proposta delle associazioni del vino presentata a Bruxelles (neppure Cia e Coldiretti hanno appoggiato la scelta sull'esclusione dello zucchero).

Ci è molto dispiaciuto doverci defilare e fino all'ultimo abbiamo cercato un compromesso” continua Ruenza Sant'Andrea “ma riteniamo, così, di aver agito con la massima coerenza in difesa degli interessi della viticoltura italiana”. Massima condivisione, invece, suglialtri punti della proposta, anche se la coordinatrice del settore ci tiene a sottolineare che “la revisione dell'etichetta non è stata una libera scelta, ma è stata imposta dall'alto. Tuttavia” chiosa“si è cercato di trovare le soluzioni migliori per rendere più semplice possibile e meno costoso il cambiamento. Penso, ad esempio, all'uso della tecnologia, che aiuterebbe molto i produttori: una cosa è modificare ogni volta tutte le etichette, un'altra aggiungere le informazioni online. Ma ripeto: quella dello zucchero è una questione troppo importante su cui non possiamo chiudere un occhio”.

 

Il punto di vista di chi ha firmato

Dal canto suo Federvini (che invece ha firmato il documento), pone l'accento sull'importanza e l'utilità dell'etichetta digitale: “Riteniamo che sia lo strumento più utile di completamento per offrire ai consumatori tutte quelle informazioni che possono favorire una scelta sempre più consapevole. L’ingredientistica e le tecniche produttive sono rigidamente regolamentate a livello europeo e nazionale: non ci possono essere deviazioni da quanto previsto in queste disposizioni. Quello che può risultare utile è unospazio di approfondimento di queste previsioni: in questo caso l’etichetta cartacea non è sufficiente per includere tutte le informazioni. L’etichetta digitale è, invece, il mezzo più idoneo per creare anche un’esperienza di consumo diversa e più in linea con la contemporaneità”.

 

Per Fivi e Cevi la proposta - soprattutto nella parte dell'etichetta off label - è un compromesso utile per non dare un ulteriore carico burocratico alla cantine. "Siamo sempre stati molto critici nei confronti di questa richiesta arrivata dalla Commissione, in quanto il vino non è un prodotto industriale con una ricetta prestabilita, e soprattutto è il prodotto più controllato dell'agroalimentare, per cui non ha bisogno di ulteriori specifiche in etichetta. Tuttavia non ci siamo voluti tirare indietro quando ci è stato chiesto un atto di regolamentazione. E la proposta presentata a Bruxelles ci sembra la migliore per non pesare ulteriormente sui produttori", è il commento di Matilde Poggi, presidente Fivi e vicepresindete Cevi. Adesso per le due associazioni dei vignaioli, l'auspicio è che la Commissione abbia la lungimiranza di capire le specificità del vino e di "recepire la proposta del settore all'interno di un contenuto legislativo comunitario".

 

Da Arev, l’Assemblea delle Regioni Europee Viticole viene, poi, un altro ammonimento: l'estensione del regolamento di etichettatura anche ai vini d'importazione. Qualsiasi nuovo regolamento di etichettatura valido per i vini europei deve applicarsi anche per i vini d’importazione. In caso contrario, la concorrenza internazionale ne sarebbe falsata ed i produttori europei sarebbero penalizzati”. Per questo motivo, l'associazione esorta la Commissione Ue a non imporre nuovi vincoli al settore vitivinicolo europeo senza aver prima armonizzato lo Standard internazionale per l'etichettatura dei vini, raccomandato dall'Oiv.

Questione condivisa e portata avanti anche dal presidente del Ceev Jean-Marie Barillère che, rivolgendosi alla Commissione Europea si è augurato che "siano riconosciuti gli importanti progressi compiuti dal settore-vino in meno di un anno e che si possa trasformare la proposta in legge, preservando, però, il mercato unico e garantendo che le stesse regole siano applicate a tutti i vini, sia a quelli europei sia a quelli non comunitari”.

 

La bocciatura dell'organizzazione dei consumatori Beuc

Un secco no alla soluzione presentata a Bruxelles è, però, subito arrivato dall'organizzazione dei consumatori europei, riuniti sotto la sigla Beuc (43 associazioni da 31 Paesi): “La propostache consente ai produttori di birra, vino e liquori di scegliere tra informazioni on-label e online, rappresenta un punto di non ritorno dal punto di vista del consumatore” ha detto il direttore generale Monique Goyens “Dato che i consumatori prendono decisioni di acquisto in pochi secondi, non è realistico aspettarsi che ci vorrà qualche minuto per verificare online l'apporto calorico del vino. Senza dimenticare che nella maggior parte dei Paesi più di 3 utenti su 10 non possiedono uno smartphone, per non parlare del fatto che il segnale può essere molto debole in alcuni punti. Quindi, le informazioni in etichetta rimangono il modo migliore per raggiungere ugualmente i consumatori”. Inoltre, prosegue la nota diffusa nei giorni scorsi: “le informazioni sugli ingredienti e sul valore nutrizionale - come la quantità di zucchero - delle bevande alcoliche sfuggiranno comunque alle regole di etichettatura obbligatorie applicabili a tutte le bevande analcoliche”. Per Beuc, quindi, le conclusioni cui è arrivata l'industria dell'alcool europea sono, in definitiva, “deludenti”.

 

Dalla proposta alla legge

Ascoltata la proposta, starà adesso la Commissione Salute a decidere se accettarla o chiedere nuove modifiche. Tenendo conto anche di chi - come parte delle associazioni italiane - ha deciso di non sottoscrivere il documento, o di chi lo ha “bocciato”, come il caso di Beuc.

Sulla fase di attuazione, il testo proposto, suggerisce l'utilizzo del sito internet Wine in Moderation (www.wineinmoderation.eu) come strumento di supporto per la comunicazionedelle informazioni nutrizionali. Da qui al 2019, il suddetto sito potrebbe, quindi, essere aggiornato in modo da poter fornire ai consumatori le informazioni sul contenuto energetico e sugli ingredienti del vino. A quel punto si darebbe tempo alle aziende fino al 2021 per sviluppare le applicazioni di collegamento tra la bottiglia e gli strumenti online (siti aziendali o siti dei consorzi, a secondo della decisione finale) o per lavorare sulle etichette, qualora si scegliesse di tenere solo queste come come supporto principale per le informazioni nutrizionali.

 

a cura di Loredana Sottile

 

Questo articolo è uscito sul nostro settimanale Tre Bicchieri del 15 marzo

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Alla scoperta della Pinsa Romana. La serie web per sapere tutta la verità sulla pinsa: storia e ricette

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Cos'è la pinsa, quali sono le sue origini? E perché oggi ha successo? Un caso imprenditoriale da analizzare e approfondire, e dieci ricette per tutti i gusti, in onda ogni venerdì sulla web tv di Gambero Rosso.  

 

Pinsa Romana. Perché approfondire

Quando è apparsa per la prima volta sul mercato, la Pinsa Romana ha destato subito curiosità e interesse, soprattutto perché le sue origini erano avvolte dal mistero. Si diceva fosse una ricetta risalente ai tempi degli antichi romani, che fosse un prodotto recuperato da antiche tradizioni e che le sue vere origini si perdessero nella notte dei tempi. Abbiamo quindi voluto approfondire l'argomento per chiarire, una volta per tutte, di cosa si trattasse.

È nata così “Alla scoperta della Pinsa Romana”, la serie web di Gambero Rosso che non solo racconta la vera storia del prodotto Pinsa, ma dimostra, in dieci video ricette, la versatilità di un impasto diversità che può essere farcito e proposto in molteplici varianti (forse uno dei veri segreti del suo successo presso un pubblico trasversale). Protagonisti dieci maestri pinsaioli da tutta Italia, con le ricette tipiche e i prodotti del proprio territorio al seguito, riproposti in versione topping gourmet, classici, dolci o salati.

In buona sostanza, abbiamo realizzato una serie web sulla Pinsa Romana perché è un prodotto interessante almeno per tre motivi: il mix “segreto” di farine da cui è ottenuta; la strategia di marketing con cui è stata lanciata sul mercato; la ricostruzione del percorso di una piccola azienda a conduzione familiare che oggi è leader in un settore tutt'altro che facile.

 

La panificazione

Corrado Di Marco ha inventato la pinsa romana nel 2001, dopo aver messo a punto un impasto a biga invertita tramandato da suo nonno, fornaio romano. Miscelando farine di frumento, soia, riso e pasta madre di frumento essiccato, ha ottenuto un mix segreto in grado di trattenere l'umidità durante la cottura e risultare al contempo croccante fuori e morbido dentro senza l'aggiunta di grassi.

Il marketing

Sono stati gli stessi creatori della pinsa, per pubblicizzare il nuovo prodotto in fase di lancio sul mercato, a diffondere storie dal carattere fiabesco sulle sue origini, anche per superare la classica diffidenza che si nutre nei confronti delle innovazioni, specie quando toccano da vicino l'argomento pizza. Uno strattegemma ben congegnato, seppur non troppo studiato a tavolino, che oggi, nell'immaginario collettivo, permette di associare la pinsa romana a un prodotto tradizionale. Ma d'altra parte cos'è la tradizione, se non un'innovazione ben riuscita?

 

L'Azienda Di Marco

Era già nota per Pizzasnella, un prodotto, anch'esso innovativo, nato per soddisfare l'esigenza di chi cercasse, tra gli anni '80 e '90, una pizza croccante ma povera di grassi. L'azienda Di Marco nasce come una piccola realtà imprenditoriale a conduzione familiare, completamente incentrata sulla lavorazione di farine dedicate agli addetti ai lavori. Nel 2001, dopo una serie di riscontri positivi, la Di Marco lancia la Pinsa Romana, registrando un vero e proprio boom di domande, tanto da raggiungere oggi un numero che supera i cinquemila clienti in tutto il mondo, compresi Paesi come Russia, Giappone, Stati Uniti ed Emirati Arabi. E oltre alle linee dedicate a specifiche esigenze, come le certificazioni Kosher o Halal, la Di Marco ha anche provveduto alla formazione professionale e alla consulenza per la lavorazione del prodotto: la Pinsa School.

 

La serie, in onda ogni venerdì sulla WebTv di Gambero Rosso, racconta questo e molto altro.

Buona visione.
 


VIDEO

Regia di Saverio De Luca

Riprese Massimilano Cinà

Montaggio Martina Molle

Torino Cocktail Week 2018. Oltre 30 locali coinvolti per trasformare la città nella capitale della miscelazione

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Seconda edizione torinese per la rassegna dedicata al bere miscelato, sotto la direzione tecnica di Evho. Oltre 30 locali coinvolti, ognuno alle prese con un signature cocktail da presentare per tutta la settimana, dal 19 al 25 marzo, a prezzo scontato. E tanti approfondimenti al Cocktail Village. 

 

Cocktail Week. Perché in Italia si può

A Torino, la cocktail week faceva il suo esordio un anno fa, sul modello di un'iniziativa nata all'estero e poi importata in Italia, dove l'evoluzione continua del panorama della miscelazione ha decisamente fornito terreno fertile alla rassegna. Prima è arrivata Firenze, prossima a celebrare la terza edizione della settimana che mette sotto i riflettori i migliori bartender della città. E forse proprio la buona riuscita dell'operazione – sotto la direzione di Paola Mencarelli e Lorenzo Nigro – ha stimolato l'iniziativa di altre città. Dietro al progetto torinese c'è la direzione tecnica dell'accademia di bartender professionisti Evho. L'appuntamento con la Torino Cocktail Week 2018, dal 19 al 25 marzo, replicherà la formula dell'anno passato, coinvolgendo oltre 30 locali e cocktail bar (alcune sono new entry, a confermare quanto sia dinamico il mondo della miscelazione nelle grandi città italiane, come dimostrano pure gli ultimi progetti solisti di affermati bartender di casa nostra, il più recente, work in progress, quello di Filippo Sisti a Milano, Talea) in una settimana di appuntamenti a tema e degustazioni guidate, tra masterclass e workshop per addetti ai lavori, promozioni sul cocktail, conferenze e momenti di festa.

 

Torino Cocktail Week 2018

La rassegna, dunque si snoderà sul percorso di un'ideale mappa della mixology cittadina, un itinerario in 35 tappe tra cocktail bar di concezione moderna e caffè storici di Torino, che per tutta la settimana proporranno un drink speciale al costo di 5 euro (solo per chi è provvisto di cocktail pass, prevendita disponibile online a 15,99 euro). Ma il pass darà libero accesso anche al Cocktail Village - quartier generale del festival, allestito all'hotel NH Torino Santo Stefano, con palco e spazi adibiti all'approfondimento e agli incontri con bartender e aziende produttrici – alle masterclass e ai workshop con ospiti della miscelazione internazionale, atterrati a Torino per l'occasione. Quest'anno, iniziativa nell'iniziativa, ogni giornata sarà dedicata a un diverso distillato, protagonista di degustazioni speciali e incontri sul tema: si comincia lunedì 19 con la vodka, per chiudere domenica 25 con il rum. In mezzo whisky, gin, agave e un focus sul vermouth, che a Torino gioca in casa, giovedì 22. Sabato, invece, la giornata sarà dedicata a esplorare il mondo della miscelazione analcolica. Ma il programma della manifestazione è davvero ricco, e coinvolge tutti i quartieri della città.

Gli appuntamenti in città

L'evento inaugurale sarà ospitato da Edit: l'ambizioso polo gastronomico di via Cigna, inaugurato l'autunno scorso, partecipa alla manifestazione tra le new entry di alto profilo, con i cocktail di Salvatore Romano (protagonista, il 25 marzo, del seminario Storia dell'aperitivo italiano al Cocktail Village) e Luigi Iula del Barz8. Per tutta la settimana, e già domenica 18 marzo, il cocktail bar ospiterà il team dell'HIMKOK Storgata Destilleri di Oslo, distilleria norvegese che produce acquavite, gin e vodka e offre una proposta di miscelazione celebre nel mondo. Tra gli appuntamenti che più rispecchiano l'anima di Edit, venerdì 23 marzo, il seminario sulla Miscelazione enogastronomica, con i resident barman Lorenzo Scaglia e Samuel Donniacuo. Da segnare in agenda anche la visita guidata al Museo Enologico di Casa Martini di Pessione (il 21 marzo, alle 19), il Portfolio del Professore al Bar Cavour con Michele Garofalo del Jerry Thomas Project (venerdì 23 marzo, alle 15), il foraging nella miscelazione al Cocktail Village (il 25 marzo, alle 12). E la cocktail competition che chiude la manifestazione, domenica dalle 18 al Village, per aggiudicarsi il titolo di bartender of the year della Torino Cocktail Week: in sfida 5 bartender, la decisione al pubblico partecipante. A seguire, l'elenco dei locali coinvolti (sul sito della rassegna i signature cocktail presentati da ognuno di loro):

 

Cocktail bar

Affini

Arancia di Mezzanotte

Bar Cavour

Barz8

Caffè Elena

Fab

Inside

KM5

Krimikal

La Bicyclette

La Drogheria

Le Panche Cocktail Bar

Lobelix

Mago di Oz

Opposto Cocktail Bar

Pastis

Pepe

Quadrix

Shore Cocktail Bar

Smile Tree

Snodo- OGR

The Beach

Wallpaper

 

Ristoranti

Antico Balon

Bistr8

Freevolo

La Revoltosa

Hotel Dogana Vecchia

Il Porto

Il Tagliere

Panperfocaccia

Salumeria Falchero

Sausalito Gamberi a Go-Go

Sibiriaki

Ritual

 

Torino Cocktail Week – Torino – dal 19 al 25 marzo 2018 – www.cocktailweektorino.it

 

a cura di Livia Montagnoli

PQR apre a New York. La pizza a taglio di Angelo Iezzi nel cuore di Manhattan

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Nel 1987 fondava a Roma Angelo e Simonetta, mitica pizzeria a taglio che ha fatto la storia della pizza in teglia in città. Da allora il metodo Iezzi è diventato oggetto di studio, e vanta allievi in tutto il mondo. Ora però Angelo prova a concretizzare un altro sogno nel cassetto: conquistare New York. 

 

La pizza in teglia di Angelo Iezzi

A Roma è stato uno dei pionieri della rivoluzione della pizza a taglio, quando molti anni fa (era il 1987), nel laboratorio di Angelo e Simonetta, si cominciava a ragionare di selezione delle farine, alta idratazione e lunga lievitazione, per ottenere un impasto (maturato a freddo) che ancora oggi è di certo uno dei migliori d’Italia in termini di leggerezza e fragranza. Da allora Angelo Iezzi di strada ne ha fatta, moltiplicando le sue attività in città – compresa una scuola nazionale di pizza fondata nel 1992 in zona San Basilio -  forte dei riconoscimenti ottenuti per la pizza in teglia di via Nomentana (2 rotelle per la guida Pizzerie d’Italia del Gambero Rosso) ed esportando il know how, per esempio a Dubai, dove per l’International Centre for Culinary Arts forma giovani allievi desiderosi di apprendere i segreti dell’impasto secondo “il metodo Iezzi”. Prima ancora, con le sue farine, era atterrato a Seul, dove in 8 anni i suoi insegnamenti hanno formato alla professione oltre 300 aspiranti pizzaioli asiatici. Sarà anche per questo, anche se il merito spetta principalmente al prodotto che c’è in teglia, che l’accoglienza oltreoceano è stata tanto calorosa.

 

PQR a New York

Da un paio di giorni la pizza a taglio di Angelo Iezzi attira una folla di newyorkesi curiosi di assaggiare la pizza quadrata romana, PQR come recita l’insegna del locale inaugurato al 1631 di Second Avenue, nel cuore di Manhattan: “Abbiamo trovato uno spazio bellissimo, nella zona più centrale della città, mi chiedono tutti come sia stato possibile. Qui gli spazi commerciali sono piccoli, noi possiamo contare su 140 metri quadri di negozio e altrettanti al piano inferiore, per il laboratorio. Così abbiamo allestito anche una saletta per il consumo sul posto, da 35-40 coperti: una rarità!”. Da tempo Angelo – “the great roman pizza master” come titola ora la stampa locale, particolarmente benevola pure quando qualche mese fa si è trattato di accogliere Gino Sorbillo – aveva intenzione di esportare la sua pizza a New York: “L’incontro con Fabio Casella è stato provvidenziale, insieme abbiamo deciso di fondare una società che speriamo ci permetterà di crescere con il format. Valutiamo l’accoglienza dei primi mesi, ma l’intenzione è quella di aprire almeno 2-3 punti vendita in città, e poi guardare altrove in America”.

L’alleanza con Fabio Casella

Fabio Casella, del resto, la scena newyorkese ha avuto modo di conoscerla bene negli ultimi anni: con suo fratello Ciro, da Salerno ha portato in città la tradizione di panuozzi e pizza napoletana. Era il 2010, anno d’apertura del primo locale a marchio San Matteo Pizza &Espresso Bar: oggi l’impresa conta altre due attività, sempre a Manhattan, Il Salumaio e San Matteo Pizzeria e Cucina, aperta nel 2015, ma il core business resta in Second Avenue, dove i fratelli Casella hanno esordito, non distante da PQR. A New York Angelo starà ancora per qualche giorno, ma la squadra al lavoro da PQR è tutta italiana e ben avviata al metodo Iezzi: “Con me sono arrivati il mio braccio destro e due giovani pizzaioli che ho formato perché si prendano cura del locale nei prossimi mesi. Voglio che il prodotto sia identico a quello romano, e anche grazie alla facile reperibilità di prodotti di alta qualità sul mercato americano ci stiamo riuscendo”.

 

La pizza di PQR

Si apre dalle 11 alle 22, nel weekend fino all’1 di notte, e il primo giorno d’apertura ha subito dato un’idea di quel che sarà, “abbiamo finito tutto”, ammette Angelo stanco, ma soddisfatto. Al banco ruoteranno una trentina di proposte, mai meno di 15 per volta: “Porto a New York la mia semplicità, farine italiane, ottimi ingredienti per il topping, creatività. La pizza che ha fatto impazzire i primi clienti? Uva in cottura, prosciutto crudo, brie e tartufo”. Ma ci sono anche la ripiena in crosta di patate farcita con la porchetta, la pizza con melanzane alla parmigiana, l’amatriciana, la pizza all’arrabbiata: “Non voglio fare concessioni al mercato locale, da noi non troverete mai la pizza pepperoni, mi rifiuto. Dobbiamo portare la nostra verità, non metterci in competizione con gli altri”. Tra qualche giorno arriveranno anche i supplì gastronomici, poi le crocché, “omaggio ai nostri partner campani”.  Il prodotto è di qualità, la posizione favorevole: “Siamo al centro di un quadrilatero che comprende ristoranti e pub a breve distanza. La sera, dopo il pub, concludere in bellezza con un trancio di pizza potrebbe essere un’ottima idea”. L’avventura americana di Angelo Iezzi sembra iniziata nel migliore dei modi.

 

PQR – New York – 1631, Second Avenue, Manhattan – www.pqr-nyc.com

 

a cura di Livia Montagnoli


ProWein. A Düsseldorf attesi oltre 58 mila visitatori per la fiera internazionale del vino

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Dal 18 al 20 marzo va in scena la fiera del vino di Düsseldorf, appuntamento irrinunciabile per gli operatori del settore, che a ProWein troveranno circa 6700 espositori da 61 Paesi. Appuntamenti anche con il vino italiano: sabato 17 il grande wine tasting Tre Bicchieri. 

 

ProWein. I numeri della fiera

Nel 2017, il 96% del pubblico specializzato ha raggiunto i propri obiettivi a ProWein, rimanendo soddisfatto dei risultati. Basterebbe questo dato per far dire che la fiera del vino di Düsseldorf (riservata ai soli operatori) è un appuntamento irrinunciabile per chi vuole fare business nel vino, a tutti i livelli. L'edizione 2018 (18-20 marzo) conta circa 6.700 espositori, provenienti da 61 Paesi con una rappresentanza di quasi tutte le 300 regioni vinicole mondiali. Nove i padiglioni occupati dalla fiera, con Italia, Germania e Francia che ne avranno due a testa. Sono previsti circa 500 eventi, tra degustazioni, seminari e presentazioni. I focus della manifestazione, che lo scorso anno ha superato i 58 mila visitatori, riguarderanno le bollicine, le birre e le bevande alcoliche artigianali, le produzioni biologiche e biodinamiche, i vini invecchiati, gli abbinamenti cibo-vino, la logistica e i nuovi trend del mercato del vino mondiale e del commercio specializzato.

 

Il wine tasting Tre Bicchieri

Diversi gli appuntamenti per i vini italiani, tra cui il focus dedicato dallo stand Vinum agli spumanti del Garda e alla Franciacorta. E come di consueto, ad anticipare il Salone, il grande wine tasting Tre Bicchieri, firmato Gambero Rosso, che si terrà sabato 17 al Congress Center Ost (room Lmr dalle 13 alle 19 per la stampa e il trade, e dalle 16 per il pubblico). Contestualmente si terrà anche la cerimonia di premiazione della guida Top Italian Restaurants (ore 16.30).

Da tenere d'occhio, il debutto del Giappone che proporrà uno stand collettivo sul tema del sake, mentre sale l'attesa per la presentazione del Comité Champagne sui dati sulle vendite nel 2017. Ma la fiera non si fermerà ai padiglioni perché, fedele al motto "ProWein goes City" (un po' come la formula italiana Vinitaly and the City), saranno circa 50 i punti della città in cui sono in programma eventi serali, dopo le 18.

Intanto, gli organizzatori guardano già agli altri appuntamenti internazionali in calendario: ProWine Asia (a Singapore 24-27 aprile e a Hong Kong nel 2019) e ProWine China (a Shanghai 13-15 novembre).

www.prowein.de

 

 

Colazioni del mondo. Danimarca: wienerbrod, øllebrød, kanelsnegle

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La colazione in Danimarca è sinonimo di burro, pasta sfoglia, cannella, profumi dolci e speziati perfetti per cominciare la giornata. La storia della tradizione delle brioche e delle altre specialità tipiche del mattino. 

La colazione in Danimarca

Una cucina ricca di carboidrati, calorica e sostanziosa, come nelle migliori tradizioni del Nord Europa. Fra pesci affumicati e pane di ogni genere, in Danimarca un ruolo fondamentale lo gioca la pasticceria, golosa e profondamente legata alla classica arte dolciaria austriaca, in particolare quella viennese. Soprattutto per quanto riguarda la parte dei lieviti per la prima colazione, dove si trovano brioches, croissant e sfoglie farcite con crema o frutta, trecce e girelle. Chi non ha mai assaggiato il celebre danese, il disco di pasta sfoglia fragrante e profumata ripieno di crema pasticcera e uvetta? Ma il comparto della viennoiserie, qui chiamata wienerbrod, tradizione artigianale di dolci da forno molto legata al mondo della panificazione, è ampio e variegato, e comprende una serie di ricette diverse per ingredienti, lavorazione, tempi di lievitazione e sapore. Insieme alla colazione salata, con pane di segale, prosciutto e formaggio, in Danimarca la giornata comincia con il profumo di burro, quello buono.

 

danish pastry

Wienerbrod, il pane di Vienna

Quella della wienerbrod è una tradizione antica, cominciata – secondo la leggenda - già al tempo dei vichinghi. Racconti popolari tramandati nei secoli narrano che la sfoglia nacque come dono destinato alla figlia del capo delle tribù. Il guerriero che portava la brioche (in origine a forma di fiore) più buona, avrebbe sposato la figlia del leader. L'ipotesi più accreditata, però, fa risalire l'origine della ricetta al 1850, anno dello sciopero dei fornai danesi che richiedevano di essere pagati in contanti anziché con vitto e alloggio. I proprietari delle panetterie, allora, iniziarono ad assumere personale straniero, soprattutto dall'Austria: furono proprio i panettieri austriaci, in particolare quelli che si erano fatti le ossa nei laboratori viennesi, a far conoscere la tradizione della pasta sfoglia e delle brioches, una tecnica proseguita e messa a punto dai danesi anche a sciopero finito. Wienerbrod, infatti, parola che comprende tutti i lieviti sfogliati della prima colazione, significa proprio “pane di Vienna”. Anche in Francia del resto è così: “viennoiseries” si chiamano croissant & co perché era da Vienna che i primi provenivano.

 

pastries

Ingredienti e varianti

Nonostante siano profondamente legati alla tavola austriaca, i lieviti hanno fatto in breve tempo il giro del mondo e sono ormai diventati parte integrante delle abitudini alimentari di molti Paesi, Italia compresa. Alla base dell'impasto, farina, lievito uova, latte, zucchero e una generosa dose di burro (di prima qualità). Fra le brioche più conosciute, la classica girella con crema pasticcera e uvetta, il cosiddetto “danese”, spesso disponibile anche nella variante con gocce di cioccolato, semplice oppure ricoperta di glassa. Tante forme, farce e sapori diversi che danno vita a una selezione ampia e colorata di sfoglie golose. Fra i ripieni più comuni, oltre alla classica crema, si trovano spesso confetture di frutta diverse, che conferiscono un ulteriore gusto (e apporto zuccherino) al dolce.

 

danish

Kanelsnegle, dalla Svezia al resto del mondo

Fra le tante specialità lievitate, una menzione speciale la merita il kanelsnegle (kanelbulle in svedese), dolcetto nato in Svezia ma ben presto diffusosi in tutti gli altri Paesi nordeuropei, una girella dall'aroma inconfondibile, ripiena di zucchero e cannella. Una brioche che ha riscosso successo in ogni dove, diventando uno dei punti forti di tante caffetterie artigianali e grandi catene di tutto il mondo (Starbucks e Costa Coffee, tanto per citarne un paio), replicato in vari modi: con o senza glassa, di forma tonda o squadrata, più o meno alto. Tanto da avere oggi una giornata dedicata in Svezia, il National Cinnamon Bun Day, celebrato ogni anno il 4 ottobre. La ricetta del kanelsnegle (letteralmente, “lumaca di cannella”, per la tipica forma a chiocciola) si fa risalire agli anni '20, e viene spesso chiamata anche con il nome di fika, che identifica la tradizionale pausa caffè con dolce in Svezia. Fra le varianti principali, il vaniljnulle, un rotolo simile nell'impasto ma aromatizzato con la vaniglia, e il toscabulle, senza cannella e decorato con glassa di burro e scaglie di mandorle. Il vero kanelsnegle, invece, viene realizzato con un impasto lievitato coperto con uno strato di burro, zucchero e cannella, arrotolato, tagliato a fette e poi cotto in forno.

 

cinnamon swirl

Øllebrød: pane e birra a colazione

Burro a parte, una delle specialità più in amate per la prima colazione è l'øllebrød (“pane alla birra”), una sorta di porridge fatto con rugbrød, il tipico pane di segale locale, e birra. Tanto consumato in Inghilterra quanto in Irlanda - per non parlare degli Stati Uniti, dove da decenni rappresenta una delle colazioni più popolari - il porridge ha in realtà origini scozzesi. Si tratta di una ricetta semplice e alla portata di tutti, basata solamente su due ingredienti: fiocchi di avena e acqua. Un piatto “povero” nato in epoca medioevale per accompagnare i lavoratori durante la giornata. Nella versione danese, niente avena, ma solo pane, anzi: gli avanzi di pane raffermo, bagnati nella birra e cotti in una sorta di zuppa densa e cremosa a base di latte oppure, per i più golosi, panna fresca. Una ricetta di umili origini nata, secondo alcuni, nei monasteri medioevali, dove inzuppare il pane secco nella birra era un'usanza piuttosto comune fra i monaci.

 

ollebrod

Un'altra teoria ritiene invece che a inventare la zuppa dolce furono le famiglie contadine più povere, da sempre alla ricerca di un modo per riciclare gli avanzi e creare dei piatti a basso costo. In qualsiasi caso, l'øllebrød è stato parte integrante della dieta quotidiana dei danesi fino al 1800, e ancora oggi rappresenta uno dei pasti più nutrienti e sostanziosi per iniziare la giornata. Per prepararlo occorrono qualche fetta di pane, un po' di latte fresco e della birra, oltre a zucchero e spezie a piacere: basta cuocere il tutto su fiamma moderata finché il composto non comincia ad addensarsi, insaporendo il mix di ingredienti con scorze di agrumi, cioccolata, miele o sciroppi a piacere. 

La ricetta: kanelsnegle

Ingredienti

25 g. di lievito

250 ml. di latte intero

2 cucchiai di olio di semi

1 cucchiaio di zucchero

1 cucchiaino di sale

3 cucchiai di cannella

400 g. di farina 00

75 g. di burro

75 g. di zucchero di canna

Sciogliere il lievito nel latte intiepidito poi aggiungere l'olio, lo zucchero, il sale e un cucchiaio di cannella, mescolando bene. Aggiungere la farina poco alla volta, fino a formare un impasto compatto e liscio. Mettere l'impasto a riposare in n luogo caldo in una ciotola capiente, leggermente unta e coperta da un canovaccio, fino a quando non raddoppierà il suo volume, per un'ora circa. In una ciotola più piccola mescolare il resto della cannella con lo zucchero di canna e il burro a temperatura ambiente. Quando l'impasto sarà pronto, stenderlo, formando un rettangolo di circa 40x50 cm e cospargere di crema di burro e cannella, aiutandosi con una spatola. Arrotolare l'impasto e dividerlo in 10-12 fette, che andranno sistemate in una teglia e coperte nuovamente per altri 30 minuti di lievitazione. Preriscaldare il forno a 220°C e cuocere per 12/15 minuti. Lasciar raffreddare e ricoprire con una deliziosa glassa di zucchero.

a cura di Michela Becchi

Colazioni del mondo. Francia: croissant, madeleine, crêpes

Colazioni del mondo. India: naan, upma, puttu, masala chai

Colazioni del mondo. Regno Unito: English breakfast, porridge, muffin inglesi

Colazioni del mondo. Stati Uniti: cereali, pancakes, doughnuts, bagel, French Toast

Colazioni del mondo. Brasile: açai bowl, bolo de fubà, pão de queijo, frutta tropicale

Colazioni del mondo. Grecia: baklava, loukoumade, koulouri, yogurt

Colazioni del mondo. Giappone: misoshiru, tofu, dashimaki, doroyaki

Colazioni del mondo. Italia: cappuccino e cornetto, biscotti, ciambellone, pane e marmellata

Colazioni del mondo. Australia: Vegemite, avocado con uova, lamingtons, anzac biscuits

Colazioni del mondo. Portogallo: pastel de Nata, torrada, galão, queijadas de Sintra

Colazioni del mondo. Russia: pane e kolbasa, blinis, syrniki

Colazioni del mondo. Marocco: msemen, baghrir, tè alla menta

 

Ikea e il fast food del futuro in 5 piatti innovativi. E gli insetti sostituiscono la carne

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Con il supporto del laboratorio di ricerca danese Space10, Ikea studia soluzioni inedite per servire cibo buono e accessibile che risponda a emergenze alimentari sempre più pressanti. Ecco, allora, come sarà il fast food del futuro, tra Bug Burger e gelato senza zucchero. 

 

Ikea e il fast food del futuro

Del laboratorio di ricerca danese Space10 abbiamo parlato a più riprese: lanciato da Ikea nel 2015, lo spazio è concentrato sulla ricerca e lo sviluppo di nuove soluzioni e prodotti (non solo alimentari) che possano conciliarsi con gli obiettivi del colosso svedese. Da tempo impegnata a incentivare le giovani realtà d'impresa (l'estate scorsa nasceva in Svezia il campus Ikea Bootcamp), l'azienda ha maturato negli anni una crescente consapevolezza sul peso economico del segmento di ristorazione nel bilancio complessivo dei punti vendita Ikea di tutto il mondo. E così ha lavorato a implementare il servizio, mentre sperimentava pop up e temporary restaurant indipendenti per valutare le potenzialità di formule inedite di somministrazione. L'ultima trovata in fase di sviluppo, proprio con il supporto del laboratorio Space 10, indaga alla definizione del fast food del futuro. Allo scopo, il team di ricercatori danesi ha già perfezionato cinque proposte idealmente conciliabili con un menu sostenibile e studiato per limitare gli sprechi, rispondendo alle pressanti emergenze alimentari, che nel futuro prossimo dovranno necessariamente essere affrontate. E dunque non è solo una provocazione quella di ipotizzare un hamburger senza carne di manzo, che però non faccia affidamento su surrogati di laboratorio (come già proposto da altri), ma sugli insetti.

 

Gli insetti nel piatto. E le mitiche polpette svedesi cambiano ricetta

Nello specifico, l'hamburger del fast food del futuro firmato Ikea sarebbe frutto di un impasto di vermi (larve di coleottero nero) e tuberi, altamente proteico, sano e buono: il Bug Burger. A replicare il colore caratteristico di un medaglione di carne, la barbabietola presente nell'impasto, insieme a pastinaca e patate. Stesso principio per la rielaborazione di un must della casa, le celebri polpette svedesi che in passato hanno procurato pure qualche problema all'azienda per la difficile tracciabilità delle materie prime impiegate nel processo di lavorazione. La soluzione per il futuro? Le neatball, polpette con tarme della farina e tuberi. Alle potenzialità del mondo vegetale, invece, fa appello il dogless hotdog, che gioca con l'immaginario tradizionale sostituendo delle carote alla carne; per insaporire ketchup di bacche, barbabietola, senape e curcuma. Mentre il pane contiene alga spirulina. Non manca  un'insalata salutista con verdure da coltivazione idroponica, e poi c'è il gelato, ribattezzato Microgreen Ice Cream, che al momento chiude la gamma di opzioni in menu: zucchero ridotto ai minimi termini, finocchietto, coriandolo, menta e basilico a intensificarne il profumo. Una sperimentazione all'avanguardia, ma certo non campata in aria, che attualizza la riflessione scaturita con l'introduzione degli insetti commestibili nell'elenco dei novel food ammessi dall'UE (ricordiamo, ancora non sufficiente per la commercializzazione e la somministrazione di insetti in Italia). E fa appello alle papille gustative di chi, quando sarà il momento giusto, proverà i piatti ideati dallo chef di Space10 Simon Perez: “Per modificare l'opinione comune sul cibo e ispirare le persone a provare nuovi ingredienti non è sufficiente ricorrere a riflessioni concettuali, bisogna stimolare il gusto”. Chissà quando potremo scoprirlo.

 

a cura di Livia Montagnoli

Azione contro la fame. Gli chef ambasciatori di solidarietà a Milano

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10 chef di alta cucina uniti per combattere la fame nel mondo nella Giornata Mondiale dell'Acqua. La nuova cena di beneficenza organizzata da Azione contro la fame all'Hotel Principe di Savoia di Milano. 

L'associazione

C'è sempre occasione per dimostrarsi solidali, anche a tavola. Lo sa bene Azione contro la fame, che da anni si impegna a riunire diversi ristoranti italiani nell'iniziativa “Ristoranti contro la fame”, una campagna che ha preso le mosse in ambito internazionale a partire dal 2015, raccogliendo la solidarietà di numerosi chef di fama mondiale. L'obiettivo è quello di combattare la fame nel mondo, con il costante impegno di assicurare acqua potabile, cibo, cure mediche e formazione che consentano alle comunità più povere di vivere in piena salute.

La cena

Il prossimo 22 marzo, in occasione della Giornata Mondiale dell'Acqua, l'associazione chiama a raccolta una squadra di 10 chef d'eccezione per un'esperienza culinaria unica all'insegna della solidarietà. Quique Dacosta, Tre Stelle Michelin, ambasciatore e testimonial di Azione contro la Fame in Spagna, sarà l'ospite star internazionale, ma ci saranno anche Andrea Aprea, Tommaso Arrigoni, Andrea Berton, Michele Biassoni, Alessandro Buffolino, Fabrizio Cadei, Antonio Guida, Tano Simonato e Luigi Taglienti. Uniti nella cucina dell'Hotel Principe di Savoia di Milano per creare un percorso culinario di dieci piatti, con la collaborazione dell'Associazione Professionale Cuochi Italiani, Hotel Principe di Savoia e Taste of Milano.

Il menu

Diverse le specialità in assaggio nate dalla creatività degli chef, per un menu degustazione sui geniris a 20 mani. Si comincia con la radice di prezzemolo alla carbonara con pomodorini e pepe sechuan di Tommaso Arrigoni, per proseguire con il baccalà mantecato, mousse di erbe amare e tuorlo disidratato di Tano Simonato, e ancora il cubo di lingua salmistrata, salsa verde e pastinaca croccante firmato Cadei. Aprea porta in tavola la sua Caprese...Dolce Salato, mentre Biassoni diletterà gli ospiti con il suo hamachi miso, ricciola con pomodoro camone, salsa di miso alla yuzu e avocado. Per una cena ricca di gusto e sapori diversi, un amalgama di profumi e aromi distanti fra loro ma che nella tavola imbandita da Azione contro la fame trova una propria armonia. E così si passa dall'Ash Rice di Quique Dacosta all'agnello allo zafferano e cardamomo con crema di cipollotto al nero, passando prima per il baccalà, patate e liquirizia creato da Buffolino. Non mancano, naturalmente, i dessert: ai dolci, Andrea Berton, con il suo Cioccolato, menta e liquirizia, e Luigi Taglienti con il Tartufo nero tiramisù. In abbinamento, Champagne Veuve Clicquot Rosè, Venica&Venica Pinot Bianco, Prime Alture Pinot Nero CentoperCento.

Il prezzo della cena è di 150 euro a persona, interamente devoluti all'associazione per i suoi progetti umanitari. I posti sono limitati, e per partecipare è necessario prenotarsi in anticipo.

Per prenotarsi: bit.ly/2EIS56z

a cura di Michela Becchi

Tanti auguri a Gualtiero Marchesi

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Per raccontare, fissare e fissarci nella mente e nella memoria il cuoco scomparso alla fine del 2017 abbiamo coinvolto i suoi allievi. Ne esce un racconto corale di un’intensità, di una profondità e di uno spessore straordinari. Oggi sarebbe stato il suo compleanno: tanti auguri Maestro.

 

Antonio Ghilardi

Antonio Ghilardi - Ristorante Papillon, Torre Boldone (BG)

L'ho conosciuto nell'83, quando avevo solo 20 anni, ero entrato nel suo ristorante come commis, da lì la mia vita è cambiata. Marchesi era elegante e questa sua eleganza non scompariva dietro la divisa da cuoco, probabilmente è stato il primo chef a dare dignità e importanza al nostro lavoro anche al di fuori degli addetti, tra la gente. Aveva una visione differente, che lo ha reso e lo rende tuttora speciale. Guardava le cose, le persone, gli avvenimenti in maniera personale. Poi era di un'intelligenza sopraffina, che lo portava costantemente a voler fare cose nuove. E si circondava di persone, di cuochi, di aiutanti che non aspettavano altro, penso a Leemann, Cracco, Knam. Quando c'ero io? Oldani era commisalle carni, Crippa ai pesci e Berton era stagista! Insomma lui riusciva a motivare chiunque. Incentivava, caricava di responsabilità – una volta dovevamo organizzare un aperitivo per cento persone e lui si è presentato solo quindici minuti prima dell'evento: mi ha semplicemente chiesto se andava tutto bene – ma al tempo stesso ti gratificava. Qualche anno fa a New York al Four Seasons in occasione di una cena è entrato in cucina per verificare che tutto fosse in ordine. Purtroppo il saucierdella casa sbagliò l’esecuzione di un consommé di crostacei, compromettendo il risultato finale del piatto. Lui si girò e si limitò a guardarmi, così io capii immediatamente che la salsa doveva essere rifatta. Mi misi subito all’opera. Quando lo rincontrai mi guardò con soddisfazione, mi diede una pacca sulla spalla e mi disse “sei proprio un cocciuto bergamasco!”.

 

Pietro Leemann

Pietro Leemann - Ristorante Joia, Milano

Lavoravo in Svizzera, all'Hotel de Ville di Fredy Girardeta Crissier, un posto molto importante. Venni a Milano con lo chef per trovare degli oggetti per il ristorante, e andammo a mangiare da Marchesi. Rimasi affascinato dalla sua personalità e dal cibo, dal suo approccio creativo, culturale, artistico: un colpo di fulmine, come quando ci si innamora. E andai da lui: l'esperienza che più ha segnato la mia vita, perché non era solo un cuoco, ma un uomo di cultura, ed era una cosa che mi mancava. Il nostro scambio era più su una dimensione trascendente che lavorativa, si parlava molto di arte, è stato un maestro di vita, con lui ho imparato a pensare con la mia testa e a volare in alto, libero di sviluppare le mie capacità e trovare la mia strada. Lì ho capito di poter cercare qualcosa di più dalla mia vita e dalla mia cucina. Che, come quella di tutti i suoi allievi, ha un'impronta forte: il non volere compromessi, il cercare sempre il risultato più perfetto possibile. E anche se lui si sentiva onnivoro era curioso verso la cucina vegetariana, come verso ogni cambiamento. Senza contare che il suo modo di usare le verdure come elementi strutturali nel piatto era già in un certo senso vegetariano, basti pensare alle penne asparagi e tartufo. Io venivo dalla cucina francese con poche verdure, e invece lui le lavorava molto e in modo quasi orientale: era sempre avanti. Antesignano anche riguardo il prodotto locale o all'idea che ciò che si fa, anche in cucina, deve avere un senso, per questo i suoi piatti sono così rappresentativi di un momento storico di cambiamento di cui lui era il protagonista. Per i suoi 80 anni gli ho dedicato un piatto: una zuppa di crema di nocciole piemontesi, crema di patate e zafferano, spuma di tartufo pregiato di Norcia.

 

Davide Oldani

Davide Oldani - Ristorante D'O, Cornaredo (MI)

Mio padre aveva sentito dire che c'era questo cuoco che si stava affermando a livello internazionale, si informò tramite alcune persone, e mi ha accompagnato da lui, praticamente consegnandomi nelle sue mani. Marchesi gli disse: “questi ragazzi sono come spugne: assorbono, assorbono e poi rilasciano”. Era il 1984 e, tra una cosa e l'altra, sono rimasto lì circa 10 anni. È stato il mio secondo padre. Anche perché il suo insegnamento più grande era quello umano: ci dava educazione, regole. Dopo 35 anni e varie esperienze, collaborazioni e spostamenti, posso dire grazie a lui che mi ha sostenuto e soprattutto fatto capire che per essere un cuoco onesto, professionale, intelligente, bisogna seguire un iter ben preciso: studiare all'estero, conoscere la cucina classica e quella più contemporanea. Lui ha preso sulle spalle un'Italia in cui non c'era una grande ristorazione, ma solo la cucina delle nonne o delle trattorie, ha cominciato a dire cosa fare per cambiare, ha anticipato i tempi in ogni cosa in un modo elegante come lui era: è stato uomo immagine per case automobilistiche, testimonial di prodotti di Gdo, ha disegnato tovaglie, aperto ristoranti all'estero. Ma voglio ricordarlo come mia guida nella cucina e nella vita. Era sempre lì dietro, quando lavoravamo, pronto a correggere e guidare, a ribadire in modo concreto, che l'esempio è la più alta forma di insegnamento, e lo faceva senza mai alzare la voce. Non l'ho mai sentito urlare in cucina. Del D'O apprezzava il concetto, che ci fosse una filosofia mia, gli piaceva che dal suo laboratorio fosse uscita un'altra persona, era contento di quello che avevano fatto i suoi allievi: ognuno diverso, ma tutti con grande professionalità e serietà. Conservo ancora un suo famoso menu degli anni '80: niente pasta né riso!

 

Enrico Crippa

Enrico Crippa - Piazza Duomo, Alba (TO)

Ero alla mia terza settimana di stage scolastico in via Bonvesin de la Riva a Milano, nello storico ristorante del Maestro. Avevo 15 anni, ero alle prime armi, ma quel lavoro mi piaceva (e continua a piacermi un sacco) sicché ero sempre molto su di giri in cucina. Non ricordo esattamente per quale motivo il Signor Marchesi - lui non lo si doveva chiamare chef, non gli piaceva proprio questo epiteto – comincia a farmi delle domande, forse riguardanti il numero di porzioni relative a un piatto oppure a una quantità di pesci, poco importa, il fatto è che dopo un paio di domande e relative risposte dissi: “No Signor Marchesi, non ha capito!”. Lui mi guarda, con gli occhi furbi e un sorriso da castigatore, e mi dice: “Eh no, caro mio cuochetto, non sono io a non aver capito; sei tu che ti sei espresso male!”. Ecco, ricordo sempre questa frase quando devo spiegare qualcosa in modo da essere sempre molto chiaro. Questo era il Maestro.

 

Carlo Cracco

Carlo Cracco - Ristorante Cracco, Carlo e Camilla in Segheria, Garage Italia a Milano, Ovo a Mosca

Dopo aver fatto un corso con lui mi sono fatto offrire da mia sorella al ristorante di Marchesi; ho chiesto subito di lavorare lì e sono rimasto 3 anni, in una cucina che già accoglieva cuochi da tutto il mondo. Marchesi mi disse che se volevo diventare bravo, un cuoco completo, dovevo studiare in Francia. Così sono partito per alcuni anni, prima di andare all'Albereta. Mentre ero lì mi rendevo conto che stava rivoluzionando tutto: gli altri facevano panna prosciutto e piselli, da lui c'erano il raviolo aperto e il riso con l’oro. Con quelle porzioni piccole e curatissime, gli impiattamenti perfetti, l'estrema pulizia, il rigore. Era tutto diverso. E anche se a quei tempi non si parlava tanto di cucina come oggi, c'era meno conoscenza ed era difficile capire il lavoro che stava facendo, tutti i ristoratori venivano a vedere cosa si combinava in questo ristorante, tutti volevano capire questa nuova cucina italiana. Era un uomo di cultura, parlava diverse lingue, aveva capacità di comunicazione e apertura mentale. Chiedeva sempre il massimo rispetto di quel che si faceva, controllava che tutto fosse eseguito bene. E anche se voleva riscrivere la cucina italiana in chiave alta, era un appassionato di ciò che già era l'Italia con le sue tradizioni. Per esempio il raviolo aperto – piatto difficile, complesso, unico – era il suo omaggio alla pasta fresca. È stato un precursore, voleva provocare e rompere le abitudini dell'epoca. Il suogrande valore è di essere stato una persona di grande cultura e spessore, con la capacità di guardare oltre, il coraggio di cambiare e di andare controcorrente, uno che si dava degli obiettivi più alti rispetto a quelli normali, ma cercava sempre di rispettare l'origine del piatto. Instancabile. Da me? Gli piaceva mangiare l'insalata russa caramellata e le cozze con il finto guscio di pane, l'insalata di branzino e ricci. Ma se non un piatto non lo convinceva, non lo diceva mai, al massimo non commentava.

 

La brigata di Gualtiero Marchesi all'epoca di Andrea Berton

Andrea Berton-Ristorante Berton, Milano

Appena finito l'alberghiero mi sono detto: “per capire se questo è il tuo mestiere, comincia dal migliore”, così sono partito dal Friuli per bussare alla sua porta. Non avevo esperienza e il sous chefche mi fece il colloquio, un francese, mi voleva liquidare. Per caso si è affacciato Marchesi nella stanza, incuriosito. Avevo portato con me tutti i documenti: per iniziare subito, ero deciso a lavorare lì. E alla fine l'ho convinto. Ricordo i suoi insegnamenti, quel continuo invito a togliere e non aggiungere, diceva che un piatto vale se ci sono pochi ingredienti perché l'ingrediente deve essere valorizzato, e ricordo che una volta è venuto a cena nel mio ristorante, mi domandò se davvero il brodo di prosciutto crudo con merluzzo sfogliato e prezzemolo era un buon piatto. Dopo averlo provato ha commentato: “pochi ingredienti che si sentono tutti, bravo”. Era la sua filosofia. Insieme a una frase diventata storica, che l'esempio è la più alta forma di insegnamento. Ma ricordo soprattutto quelle lunghe chiacchierate nel suo ufficio, fino a notte fonda. Assorbivo informazioni ed emozioni, cose che mi sarebbero servite tantissimo nel mio futuro professionale. Aveva conoscenza e intelligenza incredibili. E se la cucina italiana oggi sta vivendo un momento così importante il merito è suo: è lui che ha aperto la strada e ha portato una ventata di novità, la comprensione delle materie prime e le cotture fatte in un certo modo. Basta pensare al risotto, il piatto che mi lega più alla sua cucina: da lui ho capito come deve essere trattato un ingrediente come il riso e lo sa chi ha lavorato direttamente con Marchesi, tutti hanno seguito quel modo di cuocerlo. E poi l'energia: si metteva in macchina alle 7 di sera per andare a Parigi e tornava a Erbusco due giorni dopo, carico di idee e notizie. Aveva già più di 70 anni. E una grinta che stupiva.

 

Ernst Knam

Ernst Knam - Pasticceria Ernst Knam, Milano

Ricordo il primo impatto con Gualtiero Marchesi quando andai da lui per il colloquio: aprì la porta e mi salutò in un tedesco perfetto e in tedesco si svolse tutta la nostra conversazione. Non ero del tutto inesperto, ma lui mi ha come dato una limata finale, eliminando errori che avevo accumulato prima. Da lui ho imparato a levare il superfluo, a togliere e non aggiungere; e che si può fare tanto con poco, a patto di conoscere bene la materia prima, di saperla scegliere e trattare. E così era lui, in un certo senso: non parlava tanto, ma diceva tanto. La convivenza era un piacere, e io applicavo le sue idee in pasticceria anche perché capitava spesso che aiutassi in cucina o che i cuochi venissero da me a dare una mano. Così anche i dolci avevano l'impronta di Marchesi. Lì, per la prima volta ho fatto la mousse ai tre cioccolati o il soufflé al panettone, inventato un giorno per un giornalista cui voleva presentare un dolce nuovo e poi diventato un classico, come molti suoi piatti: belli come quadri da appendere al muro, inconfondibili, ma anche superbuoni. Oggi si fa difficoltà a dare una paternità certa ai piatti, con lui non era così: era un artista, nato, vissuto e ora morto da artista. Solo pochi mesi fa parlava di far realizzare dei piatti in cui il contorno era disegnato sul bordo, per far capire che voleva concentrarsi sull'ingrediente principale: è sempre stato più moderno dei moderni. Con la sua capacità di alleggerire e semplificare, ma anche di estremizzare il sapore così come faceva per la chateaubriand à la presse, con il torchio portato in sala per la salsa. Che mi ha ispirato una collezione di 10 torte al cioccolato estreme, essenziali, lucide e senza decorazioni, ma con un ingrediente apparentemente estraneo: come l'aglio nero con il fondente o capperi e limone con il bianco.

 

Brendan Becht  con Gualtiero Marchesi

Brendan Becht - Zazà Ramen, Milano

Il mio primissimo viaggio in Giappone è stato proprio con lui, così quando ho deciso di aprire quattro anni fa Zazà Ramen, gli ho dedicato l'inaugurazione. Da allora è venuto regolarmente, anche perché, appassionato d'arte com'era, non si voleva perdere il cambio delle opere esposte che organizziamo ogni sei mesi. Era sempre una bella occasione per trovarci e vederci, e magari ricordare gli anni in cui viaggiavamo assieme per la Gualtiero Marchesi Trademark, con lo scopo di portare la sua cucina nei grandi alberghi in giro per il mondo. Tra il '93 e il '96 siamo stati ovunque, dalla Turchia agli Stati Uniti, al Cile. Mi ricordo che a Santiago del Cile abbiamo mangiato il più grande riccio che io abbia mai visto, era incredibile, ma lo abbiamo finito tutto! Che bello quando si andava per mercati e per ristoranti ad assaggiare e a studiare. Per lui ero, e sono rimasto, il suo olandese volante, proprio come l'opera di Richard Wagner. Ero uno dei pochi allievi non italiani che però se la cavava, ricordo che durante un evento in Svizzera mi disse “sarai olandese, ma sei comunque capace di fare il risotto”.

 

Paolo Lopriore

Paolo Lopriore - Ristorante Il Portico, Appiano Gentile (CO)

Ricordare il Maestro è essenziale. Anche perché è un pretesto per ragionare sul futuro della cucina italiana, che ultimamente lui vedeva snaturata. Per lui bisognava superare il rischio della perdita d'identità tornando a fare cucina italiana, quella cucina che mette al centro l'ingrediente senza cambiarne i connotati. Non dimentichiamoci che noi siamo gli artisti della cottura e dobbiamo seguire e alimentare questa inclinazione. Porterò sempre con me i suoi insegnamenti, specie una frase: “le novità si ottengono arrangiando in maniera inedita le cose del passato”. Una lezione di vita e lavorativa che ho cercato di applicare nel mio ristorante, e vederlo contento quando mi veniva a trovare è stata la vittoria più grande. Era contento perché finalmente c'era una libertà diversa a tavola, e poi ero riuscito a uscire dai dettami della nouvelle cuisine. L'ultima volta che l'ho visto era agosto, sono andato da lui insieme allo storico Luca Govoni per farci dare la prefazione a un libro che aveva fortemente voluto. Si tratta del Testo unico della ristorazione italiana, che verrà edito per Alma. Era felice perché lui ha sempre creduto nell'unicità dell'identità della cucina italiana, anche passando attraverso il linguaggio, che attualmente è dominato da parole francesi. Questo libro è il mio tributo al Signor Marchesi.

 

Riccardo Camanini. Foto di Lido VannucchiFoto di Lido Vannucchi

Riccardo Camanini - Ristorante Lido 84, Gardone Riviera

Ho vivo il ricordo del mio arrivo: le due rampe di scale per entrare nelle cucine enormi, 25 cuochi con la divisa candida, la schiena ben dritta e un silenzio assoluto. Non avevo mai visto nulla del genere. Tra loro anche Cracco e Berton, mentre Oldani, Lopriore e Crippa erano già andati via. C'era molta calma e poi questo signore elegante, cordiale, raffinato, acculturato. Di lui ricordo soprattutto i molti sorrisi, e come lui era la moglie. Mi ricordavano certi zii di Milano. Io, figlio di operai e cresciuto in provincia, rimanevo incantato. Ricordo colleghi da tutta Italia e da fuori che venivano a provare la sua cucina, soprattutto a Natale. Gente che avevo visto sulle pagine di Les grandes tables du monde. Si facevano preparazioni laboriose con materie prime pazzesche: lepre alla royal, piccione, galantine, petite marmite. Ho cominciato a capire davvero i piatti dopo più di un anno, erano sottili, leggibili, ma c'era sempre un punto di vista diverso che spiazzava; era il suo insegnamento: semplicità e sintesi. Certe cose erano geniali: le orecchiette cime di rapa e foie gras, il raviolo aperto – una vera rivoluzione estetica – lo spaghettino con il caviale (un piatto da primato ancora oggi), e poi il riso alla marchesiana, con l'acqua; noi lo facciamo così e continueremo a farlo così. Ricordo poi tutto del risotto alla milanese: il gusto, la ripetizione del gesto, il colore, la quantità di pistilli, l'attenzione per mettere la foglia d'oro che si prendeva da certe scatoline nere. Cercare le foglie giuste di prezzemolo per il raviolo poteva prendere più di un'ora. Ricordo i minuti e le procedure per la cottura della cotoletta alla milanese; i profumi, i servizi da uova con i cucchiaini d'argento, i piatti Ginori. Il mio gusto per gli oggetti deriva da lì, come quello per il torchio e il servizio in sala. E al Lido 84, Marchesi mi ha fatto i complimenti proprio per il servizio in sala, quello dei rognoni e della cacio e pepe. Oggi ho lo stesso argentiere, Afferri, e i servizi Ginori. C'era umanità e severità, l'eleganza in ogni cosa, un'impronta forte rimasta nei suoi allievi: le cucine dei marchiesiani si riconoscono anche se sono molto diverse tra di loro. Durante le chiacchierate nel suo ufficio, che per me erano un privilegio, parlava di arte, musica, testi antichi: io mi limitavo ad ascoltare, perché molte cose erano fuori dalla mia portata, ma credo che la mia passione per la lettura sia nata lì. Ha lasciato tracce profondissime, senza di quelle la mia evoluzione non sarebbe stata la stessa.

 

Matteo Baronetto

Matteo Baronetto - Del Cambio, Torino

Quando sono arrivato a Erbusco, ero uno stagista di 17 anni, indirizzato dal mio professore all’Alberghiero: ero proprio l’ultimo della brigata, lavapiatti a parte. Al di là della cultura pazzesca – lo diranno tutti, ma è la verità pura – mi colpiva la grande sicurezza dell’uomo e la capacità del cuoco di far capire ai giovani il metodo per migliorarsi. Mi è sempre rimasta in mente una frase che recitava spesso - “Si può fare meglio” - detta con tono tranquillo. Penso valga come monito per tutti noi cuochi. I suoi piatti? Sostanzialmente hanno ispirato l’intera cucina italiana, compresa quella realizzata da chi non è stato suo allievo. Molti sono più contemporanei di quanto si vede in giro. Io ho un debole per la Costoletta 2000, perché per realizzarla ha studiato un ‘monumento’ e lo ha rifatto genialmente, uscendo dagli schemi. Mi piaceva la considerazione che aveva per i prodotti del mio Piemonte e restai a bocca aperta quando nel 2006 vidi il Cubo di Finanziera con all’interno dei gamberi di fiume. Quattro anni fa, in una bella serata da Cracco, mi chiese un parere sul piatto – si ricordava bene che ero piemontese doc – e fui felice, un vero onore per me. La cosa più divertente è che devo a lui la scoperta dei ricci di mare, mai assaggiati prima di andare in Albereta. Ora nel menu del Cambio non è mai mancato, non manca e non mancherà – sin quando sarò l’executive chef – un piatto con i ricci di mare. È il mio modo per ricordarlo.

 

Brigata di Gualtiero Marchesi

 

Klaus Karsten Heidsiek - VillaMarie, Dreda (Germania)

Quando sono arrivato a via Bonvesin de la Riva avevo già esperienza di alta ristorazione, in Germania. All'epoca non era abituale per un cuoco tedesco andare in Italia, la meta era sempre la Francia, ma quando ho conosciuto Marchesi ho capito che volevo lavorare per lui. Al mio arrivo non parlavo una parola di italiano, ma lui conosceva il tedesco per aver studiato a Lucerna. Sono stato con Gualtiero Marchesi per circa 7 anni, ho fatto praticamente parte della sua famiglia, mi ha trattato come un figlio, abbiamo condiviso momenti molto belli, e non solo al ristorante. Perché all'epoca si riusciva ancora ad avere del tempo da vivere insieme anche fuori dalla cucina. Con lui ho girato il mondo, Giappone, Stati Uniti, Francia. Capitava spesso di partire la mattina verso le 9, e andare a visitare cantine o altri produttori in giro: Toscana, Emilia Romagna. Poi si rientrava nel primo pomeriggio. Soprattutto nei primi tempi è stato così, poi gli impegni sono aumentati. Ho avuto la grande possibilità di stare con lui, mi ha insegnato tantissime cose, non solo a cucinare. Ci ha trasmesso una filosofia, un modo di fare: non si arrabbiava mai, avevo visto chef gridare o essere sul punto di lanciare le pentole, lui era diverso. Avendo già una formazione, mi lasciato una certa libertà in cucina, con lui c'è stato uno scambio bello. Molto dipendeva dalla brigata, certo, anche se si giocava sempre allo stesso livello. Ci sono stati gruppi molto forti, affiatati, creativi, per esempio con Leemann o Ghilardi, con cui si riusciva a collaborare tanto, c'erano molte idee, ci si lavorava su, a volte anche senza risultato. Si discuteva di cucina, di arte, di musica o teatro. Erano i tempi in cui talvolta si andava a mangiare insieme, lui preferiva locali semplici, caldi, che richiamavano quello dei suoi genitori, uno era La Libera, a Milano.

 

Silvio Salmoiraghi

Silvio Salmoiraghi -Acquerello, Fagnano Olona (VA)

Considerando che l'ho conosciuto nel '89, quando avevo solo 15 anni e dovevo fare uno stage da lui, sono moltissimi i ricordi che ho di Marchesi. Penso per esempio alla prima lezione fatta nel 2004 all'Alma, eravamo io e lui di fronte a sì e no quattro studenti, ancora non era la scuola conosciuta di oggi. Lui li ha coinvolti raccontando i suoi piatti, trasmettendo la bellezza della sua cucina, dove non c'erano cotture prima del servizio, ma era tutto espresso, dall'anatra al fagiano. L'unico che gli stava dietro in quegli anni era Vissani, l'altro giorno con Gianfranco abbiamo ricordato uno dei primi banchetti organizzati dal Gambero Rosso nel 1997 nelle cucine dell'Hilton di Roma, ad accompagnare Marchesi c'eravamo io e Lopriore, ma c'era anche tutto l'Olimpo della ristorazione italiana, il San Domenico, Vissani, Pinchiorri... Per l'occasione lui volle portare l'insalata di spaghetti tiepidi al caviale, insomma una pasta fredda e praticamente in bianco nella patria dello spaghetto caldo e grasso. Marchesi era un provocatore, imprevedibile, lo dovevi capire. O ci andavi d'accordo oppure no. Ricordo un articolo di un giornale dove si era fatto fotografare con un piatto con un solo pisello verde incollato al centro, così, per prendere in giro tutti coloro che dicevano che dal suo ristorante si usciva con la fame. Eppure lui cercava di portare semplicemente avanti un'idea di pulizia della materia prima, faceva fatica ad accettare quando un ingrediente veniva distrutto. L'ultimo ricordo che ho è di quando due mesi fa è venuto al ristorante a bersi il tè, e ha parlato con mia mamma tutto il pomeriggio. E mi piace ricordarlo così.

 

Luca Fantin

Luca Fantin - Luca Fantin Tokyo Bulgari Hotel

Da Marchesi ho lavorato per circa un anno, all'avvio dell'Osteria dell'Orso di Roma. Prima stavo da Cracco, è stato lui a inviare il mio curriculum ad Andrea Berton, all'epoca chef all'Albereta, visto che stavano mettendo su la brigata di Roma. Marchesi quindi l'ho conosciuto all'Osteria dell'Orso, dove passava spesso, veniva in cucina, guardava tutto e si interessava di ogni cosa. Aveva già una settantina di anni, ma era come un ragazzino, curiosissimo, con gli occhi furbi, e mentre noi cercavamo di imparare a tagliare le cipolle lui ragionava di arte abbinata al cibo. E anche se eravamo ragazzini lui ci ha sempre trattato con grande rispetto. Un giorno disossavo il pollo per il pranzo del personale. Lui si avvicina e mi chiede se sapevo quale è la parte più buona del pollo. Io, poco più che adolescente, bofonchio prima la coscia, poi il petto, non so che altro dire. Lui prende un pollo, lo gira e mi mostra due specie di ghiande tra le cosce e la fine della schiena. Le toglie e se le mangia. E poi fa lo stesso con gli altri polli che stavo preparando. Io non le sapevo neanche esistessero... che scena! E ogni volta veniva a rubare le mozzarelle dal frigo: ne andava matto. Cinque anni fa, poi, mi è venuto a trovare al ristorante di Tokyo, credo fosse in Giappone per un'apertura che non è andata a buon fine. Stava allo chef's tablee guardava in cucina tutto quello che usciva e come lo preparavamo. A un certo punto mi fa, gigione: “questo piatto potrei pure copiartelo, tanto nessuno direbbe che io ho copiato te, ma che l'ho fatto io e tu hai copiato me!”

 

Alfio Ghezzi

Alfio Ghezzi - Locanda Margon, Trento

Il ricordo più luminoso è legato al periodo in cui ero responsabile di una sua consulenza a Cannes. Veniva a trovarci ogni due-tre mesi e facevamo lunghe passeggiate sulla Croisette. Mi parlava dei progetti, delle sue idee e dei piatti che aveva in mente. Ma discutevamo soprattutto di arte e cucina, del loro rapporto simbiotico e dell’intima compenetrazione, delle assonanze cromatiche. E ancora di musica, della gestione della sala, di tutto ciò che rende il piatto un’esperienza globale. Tecnicamente mi ha instillato due concetti sconosciuti all’epoca. Per lui la forma del cibo doveva essere preservata a ogni costo. Diceva “Un ripieno del raviolo non deve mai avere un gambero o dei piselli: sono belli, consistenti, perfetti. Perché costringerli a cambiare la loro natura?”. E l’equilibrio ‘biologico’, che riusciva a creare in uno spazio limitato in un ambiente intero: penso a piatti come La seppia con il suo nero, Lo storione con le sue uova o Sette penne, sette asparagi e tartufo. Poi mi colpiva la conoscenza profonda della cucina di ogni regione italiana: quando andai a Erbusco, mi chiese il mio piatto preferito e citai – da bravo trentino – il maialino. “Giusto, è un vanto della tua terra e so quanto è buono, se ben cucinato”. Porto nel cuore tutti gli insegnamenti e i suoi pensieri sulla vita. Sorrido pensando al suo giudizio dopo una cena in Locanda Margon, quando venne un anno fa per le riprese del film The Great Italian. Mangiò con piacere i miei piatti e disse sorridendo “Non sei male, ragazzo”. Grazie, signor Marchesi.

 

Andrea Mainardi

Andrea Mainardi - Officina Cucina, Brescia

Ricordo in maniera nitida il silenzio solenne e di rispetto che calava tutto d'un colpo appena entrava il Maestro in cucina. Ciascuno di noi – eravamo una mandria di ragazzacci! – non aspettava altro che una sua parola, ne aveva per tutti. A me diceva sempre che dovevo essere più disordinato nel piatto. Quando ero capo partita agli antipasti, e mi dovevo occupare dell'insalata di spaghetti al caviale, ricordo che inizialmente li arrotolavo in maniera certosina per creare un nido perfetto. Peccato che appena lo vide, lo scosse dicendomi “lo spaghetto deve andare nel piatto così come esce dalla pentola”, lo disse con grande educazione e tono gentile. Marchesi era così, imprevedibile. Come quella volta che dovevamo girare uno speciale per il tg: la cucina era praticamente una sala operatoria, noi stavamo con i capelli tirati a lucido e le camicie inamidate, tutti ad aspettare il piatto incredibile che avrebbe tirato fuori dal cilindro. Senonché, non appena si accendono le telecamere, Marchesi decide di preparare un piatto di maccheroni al pomodoro e burro. Ha spiazzato tutti ma nessuno si è azzardato a chiedere il motivo di quella scelta! Quanti ricordi, quanti insegnamenti grazie alla sua cucina espressa. Non a caso il mio piatto del cuore è rimasto il rombo in crosta di sale, un piatto da preparare in modo espresso, che veniva sporzionato direttamente in sala. E tu, cuoco, sbirciavi la sua preparazione per goderti lo spettacolo del cliente soddisfatto.

 

Daniel Canzian con Gualtiero Marchesi

Daniel Canzian - Ristorante Daniel, Milano

L’ho incontrato nel 2004 al Vinitaly, presentato da un suo collega. Volevo fare un’esperienza importante. In cinque giorni ero in Franciacorta, mi ricorderò sempre la sua frase: “Allora hai deciso di non fare più il cuoco e vuoi cominciare a fare cucina?” Un genio. Da stagista, sono arrivato a essere executive chef di Albereta e Marchesino, un gradino alla volta, grazie al suo esempio. Forse ho avuto un solo vantaggio, comune a Lopriore, quello di sentirsi esecutori della sua filosofia. Il signor Marchesi diceva spesso: “Daniel, lavorare con te è piacevole, perché non c’è più la paternità del piatto”. Rimase male quando me ne andai per aprire il primo ristorante: mi dimisi nel modo e nel tempo sbagliati. Nel gennaio 2015, andai da lui con il capo cosparso di cenere perché mi ero reso conto del mio comportamento. “È molto più difficile saper perdonare che avere ragione” mi disse. E ci abbracciammo. Da quel giorno in poi, mi fece l’onore di venire a trovarmi due-tre volte alla settimana, a servizio già avviato. Si metteva al bancone dicendo che non aveva fame ed era venuto per una tisana. Se incontrava qualche cliente interessante, si metteva a parlare di tutto, anche per ore. Affascinava qualsiasi persona – le donne in particolare - comprese quelle che manco lo avevano mai incontrato. Gustava il mio brodo di pomodoro che adorava, poi quello di gallina aromatizzato agli agrumi e iniziava a chiedere un cucchiaio di un piatto e una forchettata dell’altro. Curioso come un bambino e sempre gentile. Era bellissimo.

 

disegno di Gianluca Biscalchin

 
 
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