Quantcast
Channel: Gambero Rosso
Viewing all 5335 articles
Browse latest View live

Colazioni del mondo. Marocco: msemen, baghrir, tè alla menta

$
0
0

Non solo couscous: in Marocco anche la prima colazione vanta delle ricette speciali, frutto delle diverse contaminazioni culturali che hanno forgiato l'identità del Paese. Ecco quali sono le specialità del mattino. 

La colazione in Marocco

Chiunque abbia visto Casablanca, il capolavoro cinematografico diretto da Michael Curtiz, ricorderà Rick Blaine alle prese con i cocktail d'autore a base di vecchi distillati di pregio nel suo celebre locale Rick's Café Américain. Impossibile osservare quei bicchieri, quelli consumati nel bar del Marocco francese della seconda guerra mondiale, senza chiedersi quali siano gli ingredienti che li compongano. Soprattutto considerando che la cucina marocchina è il risultato di un amalgama di sapori e profumi diversi, spezie e frutti prelibati. Influssi moreschi, berberi, arabi e mediterranei sono andati nei secoli a mescolarsi fra di loro fino a restituire l'immagine attuale della cultura (anche gastronomica) locale. Alla base della dieta marocchina, couscous, carne – agnello, manzo, pollo, coniglio – prodotti ittici, ma anche molta frutta e verdura, olio di oliva, frutta secca (datteri in primis), e una serie di spezie che trovano spazio nella maggior parte dei piatti della tradizione, dal cumino alla curcuma, dalla cannella allo zenzero, passando per zafferano, pepe nero, sesamo, paprica e molti altri ancora.

 

latte e datteri

Anche le pietanze e le bevande per la prima colazione si arricchiscono di aromi intriganti e avvolgenti, a cominciare dal tè, che qui trova la massima espressione nelle foglie fresche di menta. Cosa si mangia, dunque, in Marocco al mattino? Frittelle dolci e salate, ma oltre al più classico binomio latte e datteri, specialità  nutrienti che rappresentano, ancora una volta, la complessità della cucina del territorio.

Msemen, i pancake marocchini

Si comincia dal msemen (o musamen), detto anche malawi, malawah o murtabak, una sorta di crespella spessa e dalla consistenza simile al pane tipica del Maghreb, diffusa in Marocco, Algeria e Tunisia. A base di farina, semolino, lievito, acqua, zucchero e burro chiarificato, questo pancake marocchino di forma tradizionalmente quadrata è composto da una serie di strati di pasta sottile sovrapposti e piegati fra di loro, fino a formare una specie di frittella spessa e soffice all'interno. Vengono cotti su una piastra calda leggermente unta con un po' di olio o burro, solitamente farciti con verdure o carne a piacere. L'origine del nome è da individuarsi nel terime arabo samen o smen, che significa “burro chiarificato”. La parola me-samen significa, quindi, “con burro chiarificato”, ingrediente imprescindibile per la preparazione del prodotto.

 

msemen

La tradizione del burro chiarificato

Una tradizione molto popolare nei paesi arabi, quella del burro chiarificato, ovvero privato di acqua e proteine del latte, ce ha l'aspetto di un blocco solido perfetto per la cottura e anche la frittura perché in grado di mantenere maggiormente il punto di fumo (a bruciare velocemente nel burro intero, infatti, sono le proteine del latte, assenti nella versione chiarificata). Lo smen marocchino è molto simile al ghi indiano, un grasso simile ma ottenuto facendo separare la caseina solo in seguito alla reazione di Maillard con con gli zuccheri, operazione che conferisce al prodotto finale un aroma molto più intenso rispetto al burro originale. Usato molto spesso per insaporire il couscous, lo smen è ottenuto dai grassi del latte di capra e di pecora, solitamente lavorati con erbe e spezie come la cannella e i semi di coriandolo. Una volta aromatizzato, viene fuso e fatto sobbollire fino a quando le proteine del latte non si separano, lasciando solamente la componente grassa limpida, che viene filtrata e fatta raffreddare. 

 

burro chiarificato

Baghrir, il cugino del crumpet britannico

Si prosegue con altre frittelle, stavolta più simili a delle crêpes francesi o, ancora di più, ai crumpets anglosassoni, piccole tortine a base di pastella di farina, acqua e lievito caratterizzate dai tipici buchini in superficie, solitamente consumati tostati e spalmati di burro, in accompagnamento a una tazza di tè. Nati come focaccine dure cotte su piastra, i crumpets diventano soffici e spugnosi solo in età Vittoriana, periodo in cui inizia a diffondersi l'utilizzo del lievito; dal XIX secolo, poi, l'aggiunta di bicarbonato di sodio inizia a conferire maggiore ariosità al prodotto. Il baghrir (o beghrir) può essere considerato il cugino marocchino del crumpet per la sua consistenza spugnosa e umida, ma soprattutto i tanti piccoli fori in superficie, perfetti per accogliere salse, confetture, burro e condimenti vari, sia dolci che salati. 

 

baghrir

Lo snack del Ramadam

Per questa ricetta, fondamentale è la presenza della semola, uno dei prodotti cerealicoli più popolari sulle tavole del Marocco. La tradizione impone di abbinare al baghrir un mix di miele e burro, usanza condivisa anche con l'Algeria, ma è spesso possibile trovarlo anche accompagnato da conserve e marmellate, servito intero oppure tagliato a spicchi da intingere nella varie salse. Una variante molto diffusa è quella arricchita di uvetta, molto in voga soprattutto nel periodo del Ramadam, durante il quale vengono consumati come snack per l'iftar, pasto serale con cui i musulmani concludono il digiuno al tramonto, dopo la chiamata per la preghiera della sera.

 

baghrir

Tè alla menta, la bevanda degli ospiti

Che si tratti di colazione, pranzo, cena o merenda, nel caso in cui un ospite si presenti in casa, qualsiasi famiglia marocchina metterà su l'acqua per il tè. E non uno qualunque, qui nei confronti del tè c'è moltissima attenzione. Atay, latay o tay: tanti i modi per chiamarlo e altrettante le varianti regionali che cambiano per gusto, intensità aromatica e freschezza. In ogni caso, si tratta di un tè alla menta, simbolo del Marocco e dell'ospitalità della gente del luogo, una bevanda calda consumata a tutte le ore, a cominciare dalla prima colazione, soprattutto se ci sono altri commensali presenti a tavola. Segno di convivialità e generosità, il tè alla menta nel tempo si è così profondamente radicato alle abitudini locali da entrare a far parte del galateo marocchino: rifiutarne una tazza, infatti, viene considerato un gesto scortese.

 

tè alla menta

La diffusione del tè in Marocco

Ingredienti, dosi e procedimento variano a seconda della zona e del periodo: in inverno, per esempio, quando la menta fatica a crescere, spesso viene sostituita dalle foglie di chiba, assenzio maggiore, erba medicinale nota soprattutto per il suo impiego nella preparazione del distillato d'assenzio e del vermut. In ogni caso per preparare il tè alla menta occorre realizzare un infuso di acqua bollente con foglie di tè verde e menta, solitamente addizionato con una generosa dose di zucchero. Quella del tè è una tradizione che si fa risalire al regno di Mulay Ismāʿīl, nei primi decenni del Settecento, quando la regina Anna di Gran Bretagna, per sdebitarsi verso il sultano che aveva rilasciato un gruppo di prigionieri britannici, portò in dono delle foglie di tè.

 

tè

Dobbiamo aspettare la seconda metà dell'Ottocento affinché la bevanda inizi a diventare popolare in tutto il Paese, grazie ancora una volta agli inglesi, che iniziarono a vendere il tè cinese in eccesso (avanzato in seguito alla chiusura dei porti del Baltico durante la guerra di Crimea) nei porti marocchini di Tangeri e Essaouira. L'aromatizzazione con la menta è la naturale conseguenza della florida vegetazione locale, soprattutto quella a base di erbe aromatiche e spezie.

La ricetta: msemen

Ingredienti

250 g. di farina

250 g. di farina di semola

250 ml. di acqua tiepida

1 pizzico di sale

150 g. di burro

Mezza tazza di olio

Mescolare le due farine, disporle a fontana sul piano di lavoro, aggiungere il sale e cominciare a impastare unendo l'acqua tiepida. Lavorare bene l'impasto fino a ottenere un composto liscio, omogeneo e compatto. Con le mani unte di olio, dividere in 6 l'impasto e formare delle palline. Ungere le palline e lasciarle riposare 15 minuti coperte dalla pellicola. Far sciogliere il burro e unirlo all'olio in una ciotolina. Tenere anche a portata di mano un poco di farina di semola. Prendere una pallina, stenderla fino a ottenere una forma quadrata. Schiacciare un pochino l'impasto quadrato sempre con le mani unte. Ungere la padella e cuocere per qualche minuto su entrambi i lati, fino a ottenere un colore dorato.

a cura di Michela Becchi

Colazioni del mondo. Francia: croissant, madeleine, crêpes

Colazioni del mondo. India: naan, upma, puttu, masala chai

Colazioni del mondo. Regno Unito: English breakfast, porridge, muffin inglesi

Colazioni del mondo. Stati Uniti: cereali, pancakes, doughnuts, bagel, French Toast

Colazioni del mondo. Brasile: açai bowl, bolo de fubà, pão de queijo, frutta tropicale

Colazioni del mondo. Grecia: baklava, loukoumade, koulouri, yogurt

Colazioni del mondo. Giappone: misoshiru, tofu, dashimaki, doroyaki

Colazioni del mondo. Italia: cappuccino e cornetto, biscotti, ciambellone, pane e marmellata

Colazioni del mondo. Australia: Vegemite, avocado con uova, lamingtons, anzac biscuits

Colazioni del mondo. Portogallo: pastel de Nata, torrada, galão, queijadas de Sintra

Colazioni del mondo. Russia: pane e kolbasa, blinis, syrniki

 

Campionato Mondiale del Pesto Genovese: la sfida a colpi di mortaio in Liguria

$
0
0

Torna l'appuntamento biennale con il Campionato Mondiale del Pesto Genovese, una gara aperta a tutti e dedicata agli amanti del celebre condimento ligure, quello tradizionale, con basilico, aglio, pinoli, parmigiano, fiore sardo, sale ed extravergine. Il programma e le iniziative correlate. 

La tradizione del pesto genovese

Quella ligure è una cucina fatta di leggerezza e sapori autentici, una tavola in cui si mescolano prodotti di mare e dell'entroterra, perfettamente equilibrati tra loro nelle ricette della tradizione. Come sempre, ogni zona interpreta e rielabora i prodotti locali in maniera diversa: a Genova, per esempio, la storia gastronomica inizia dalla Corporazione dei Pastai, costituita nel 1574 con un proprio statuto, i “Capitoli dell'arte dei Fidelari”. Il capoluogo ligure, infatti, ha da sempre un legame stretto con la pasta, in primis quella al pesto. Nato formalmente a fine '800, il noto condimento genovese è una derivazione di salse pestate più antiche, come l'agliata. Il suo ingrediente base è una verità particolare di basilico che cresce nel territorio di Genova (in particolare, si utilizzano le foglie più giovani di basilico del quartiere Pra'). Trofie, pansotti, corzette: tanti i formati di pasta regionali, tutti da provare, anche se le più utilizzate per il pesto sono sempre le trenette, una sorta di spaghetto di sezione ellittica. Tante le varianti che si sono andate a creare negli anni, ma a prescindere da ingredienti, dosi e procedimento, una caratteristica deve essere - secondo i puristi del pesto alla genovese - comune a tutte le ricette: l'utilizzo del mortaio di marmo.

Il Campionato Mondiale del Pesto Genovese

Ed è proprio a colpi di mortaio che si sfideranno i cuochi amatoriali d'Italia e del mondo il prossimo 17 marzo 2018 a Palazzo Ducale, nel cuore della città, per la settima edizione del Campionato Mondiale del Pesto Genovese. Un appuntamento biennale dedicato alla più celebre delle specialità liguri, conosciuta e apprezzata in tutto il mondo, un prodotto versatile, profumato e ricco di gusto, per molti un “salva-cena” dell'ultimo minuto. Ma la preparazione del pesto, quello vero, in realtà è molto più complessa di quanto si possa immaginare, e richiede, oltre a un buon palato in grado di bilanciare i vari elementi, tanta pazienza e un po' di olio di gomito. Sì, perché la tradizione impone la “pestata” manuale, con mortaio e pestello. La gara di sabato è aperta a tutti, e soprattutto offre la possibilità ai più appassionati di scrivere e inviare all'Associazione Culturale Palatifini (organizzatrice dell'evento) storie, ricordi e aneddoti familiari, da condividere con gareggianti, pubblico e giuria. Inoltre, questa edizione presenta anche un angolo talk show destinato ai diversi contributi sulla cultura italiana del cibo, per valorizzare l'importanza delle tradizioni gastronomiche locali e sottolineare ancora una volta il desiderio della città di inserire il Pesto Genovese al Mortaio nell'elenco del patrimonio immateriale dell'Unesco.

La Settimana del Pesto dei Ristoratori Liguria

100 concorrenti – 50 liguri, 25 dal resto d'Italia e 25 dall'estero – e 30 giudici italiani e stranieri, fra giornalisti, esperti di alimentazione, ristoratori e degustatori. Questi i numeri della competizione, coordinata dal Presidente dell'Associazione Culturale Palatifini Roberto Panizza. Per la pausa pranzo, naturalmente, una buona pasta al pesto, mentre a merenda si potrà gustare l'insolito gelato al basilico fresco. Campionato a parte, per il capoluogo ligure questa è un'occasione unica per fare luce sulla propria storia culinaria, con una serie di iniziative collaterali pensate per coinvolgere il pubblico. A cominciare dal Campionato dei Bambini, dedicato ai piccoli aspiranti cuochi, per finire con la Settimana del Pesto dei Ristoratori Liguri, in scena dal 12 al 18 marzo per promuovere la candidatura del pesto all'Unesco. Menu a tema, “pestate” collettive, flash mob gastronomici, laboratori e degustazioni: questo il programma per i 7 giorni dedicati alla salsa di basilico, con tanto di raccolta firme per sostenere la richiesta all'Unesco. Anche in questo caso, spazio alla condivisione, stavolta quella social: con la Settimana del Pesto arrivano i “Pestimonial”, persone ligure famose che hanno accettato di diventare testimonial del pesto, raccontando a tutti il loro amore per questa specialità. Ma non solo: ogni buongustaio appassionato sarà chiamato sabato 17 a condividere foto e video di trofie e trenette con l'hashtag #WorldPestoDay.

Campionato Mondiale del Pesto – Genova – 17 marzo 2018 - www.pestochampionship.it/

Salumi da Re 2018. Fulvio Pierangelini, ospite della tre giorni sulla norcineria italiana. L'intervista

$
0
0

Si avvicina la grande festa primaverile della salumeria nazionale, dal 7 al 9 aprile all’Antica Corte Pallavicina (a Polesine Zibello). Iniziamo ad affrontare i temi caldi della manifestazione assieme a Fulvio Pierangelini, che ci racconta il ruolo che i salumi hanno avuto nella sua cucina.

Fulvio Pierangelini sarà ospite di Salumi da Re 2018 durante l’intera durata dell’evento, che andrà in scena presso l’Antica Corte Pallavicina dal 7 al 9 aprile. Una partecipazione straordinaria per diversi motivi. Un gigante della ristorazione italiana, star anche al di fuori dei confini nazionali dal 1980 al 2009, che forse i più giovani conoscono poco, sicuramente meno dei nomi altisonanti che affollano programmi tv di cucina in onda su quasi tutti i canali, da MasterChef a Cuochi e Fiamme. Lo conosce invece bene chi ha vissuto l’evoluzione del settore quantomeno nell’ultimo ventennio, quando Fulvio Pierangelini era il primo chef italiano, Due Stelle Michelin e Tre Forchette nella nostra guida Ristoranti d’Italia con il punteggio più alto (96/100, raggiunto nell’ultima edizione dal Reale di Niko Romito), alla ribalta fino al 2009, anno della chiusura del suo mitico Gambero Rosso di San Vincenzo, in provincia di Livorno. Sulla breccia da quando aprì i battenti, nel 1980, era il locale cult della gourmandise internazionale, dove si andava a fare l’esperienza gastronomica.

 

Fuori dai riflettori, per vocazione e per scelta

Oggi, nel tourbillon di aperture e chiusure, cambi di gestione e destinazioni d'uso, inizio e fine di un’attività sono una cosa normale, banale. Ma quando il Gambero Rosso di San Vincenzo chiuse, apprendemmo la notizia come un lutto in famiglia. Forse, con il senno di poi, possiamo dire che è stato meglio così. In un’epoca in cui la popolarità è - talvolta - più facile da ottenere grazie alle apparizioni in trasmissioni culinarie che sudando ai fornelli, Fulvio Pierangelini– “il grande solista della scena italiana, l’orso scopritore, l’artigiano dell’alta cucina”, per citare alcune delle espressioni che hanno tentato di sintetizzare una personalità eclettica e fuori dagli schemi – sarebbe fuori posto. Figuriamoci. Lui, laureato in Scienze Politiche e autodidatta, cuoco autarchico per scelta e temperamento, con una visione della cucina vecchio stampo – o troppo avanti – che ama viaggiare in solitaria, curare i piatti dall’idea alla mise en place, “capare” e spadellare, selezionare gli ingredienti alla fonte e addirittura la clientela filtrando le prenotazioni al telefono, ai riflettori preferisce il contatto diretto con la materia prima.

 

Il senso di Fulvio per i salumi

Ma torniamo alla sua partecipazione all’evento di Polesine, eccezionale per l’ultradecennale lontananza di Pierangelini dalla scena, lo spirito istintivamente solitario e perché il suo nome è legato – ma non a doppio nodo scorsoio - alla cucina creativa di pesce. Abbiamo intervistato lo chef, oggi creative director of food del gruppo Rocco Forte Hotels, a neanche un mese dall’evento organizzato dal Gambero Rosso e dai fratelli Spigaroli.

 

Che cosa lo ha spinto a partecipare alla quinta edizione di Salumi da Re?

Il forte legame con gli Spigaroli, una famiglia meravigliosa che lavorava i nostri maiali di cinta (lo chef insieme al figlio Fulvietto – che nell’ultimo numero del nostro mensile ci ha fornito le ricette di alcuni suoi piatti - aveva un allevamento di suini rustici di razza cinta senese, uno dei primi in Toscana, ndr). Poiper lo storico rapporto con il Gambero Rosso e per gli argomenti che verranno dibattuti nei convegni in programma.

 

Strano, si chiederà qualcuno, pensando al suo ristorante in riva al mare e alla ricerca che spaziava nella fauna ittica. Chi non ricorda la sua passatina di ceci e gamberi, uno dei piatti più amati e copiati della ristorazione negli ultimi decenni?

Il mio locale si chiamava Gambero Rosso, era a dieci metri dall’acqua e il pesce lo conosco bene, era il mio elemento. Ma non ho mai voluto che il mio fosse considerato esclusivamente un ristorante di pesce. Anche per uscire dal ghetto della cucina marinara ho sempre lavorato le carni, che preparavo personalmente e rappresentavano il 30 per cento del menu.

 

Può citarci alcuni piatti?

Il petto di piccione, diventato famoso in tutto il mondo. Il viaggio intorno alla gallina livornese, ildessert di lingua di vitello e vino rosso. E il maialino di cinta senese cheha avuto sempre un posto importante in carta: è stato la base ditanti piatti, fino a15 ricette.

 

E qualche preparazione con i salumi?

Penso alle capesante ripiene di mortadella, un mio piatto storico,o ai ravioli di mariola con gli scampi, alpesce con il prosciutto di cinta.

 

Il lardo sarà uno dei salumi al centro dell’attenzione di questa edizione di Salumi da Re, in particolare nel convegno “Sdoganiamo i grassi - Tutte le sfumature di bianco, dalla bresaola al lardo”, in programma sabato 7 aprile alle ore 17.30. Come ci si è rapportato?

Non l’ho mai temuto. Usavo il mio lardo di cinta in modo trasversale, lo raccontavo in modo diverso, lo esaltavo dandogli un senso. L’astice con il lardo ha avuto un ruolo nel mio menu e ha fatto storia. Ho realizzato anche un dessert con il lardo.

 

Quale?

Ne parleremo all’Antica Corte Pallavicina, lasciamoci qualcosa da raccontare…

 

Salumi da Re  - Antica Corte Pallavicina - Polesine Zibello (PR) - dal 7 al 9 aprile 2018 - www.salumidare.it

 

Massimo Bottura ospita il Basque Culinary World Prize. E intanto inaugura il Refettorio Paris

$
0
0

Il prossimo 23 luglio, per la prima volta nella storia del premio assegnato agli chef solidali, sarà Modena a ospitare la cerimonia di proclamazione del Basque Culinary World Prize 2018, che da un paio di giorni ha aperto le candidature. Intanto però Massimo Bottura si appresta al debutto a Parigi, con il suo refettorio: si apre il 15 marzo alla cripta della Madeleine. 

Basque Culinary World Prize 2018

Terza edizione alle porte per il Basque Culinary World Prize, che finora ha premiato l’impegno di due donne carismatiche della cucina internazionale come Maria Fernanda di Giacobbe (Venezuela) e Leonor Espinosa (Colombia). Le due chef sudamericane condividono un grande talento in cucina, ma negli anni passati il comitato scientifico del premio assegnato agli chef in grado di contribuire al miglioramento della società attraverso il proprio operato si è concentrato più che altro sui progetti solidali promossi da Maria e Leonor nei rispettivi Paesi d’origine, entrambi alle prese con profonde disparità sociali ed economiche. Così entrambe sono arrivate a stringere tra le mani il premio, sul palco del Basque Culinary Center di San Sebastian, nei Paesi Baschi. L’edizione 2018, però, si presenta con una evidente novità: sarà Massimo Bottura, il prossimo 23 luglio, a ospitare la cerimonia di proclamazione del Basque Culinary World Prize a Modena.

Il premio a Modena

Del resto lo chef della Francescana è membro del comitato consultivo presieduto da Joan Roca sin dalle origini del premio (con loro anche Gaston Acurio, Michel Bras, Ferran Adrià, Dominique Crenn, Yoshihiro Narisawa, Enrique Olvera). Ora si aprono le candidature che porteranno alla selezione degli chef più meritevoli di competere al riconoscimento, perché in grado di agire positivamente sul mondo che li circonda, dimostrando che la gastronomia può essere motore di cambiamento. I nomi dovranno pervenire entro il 31 maggio 2018, su segnalazione di operatori del settore (colleghi, stampa, addetti ai lavori) chiamati a fare il nome di chi si è distinto in questo ambito (nel 2017 sono pervenute circa 120 segnalazioni, a rappresentare progetti in oltre 30 Paesi del mondo). Gli anni passati hanno sempre portato nella rosa dei finalisti almeno un italiano – Massimiliano Alajmo e i suoi Tavoli trasparenti nel 2016, Niko Romito per Intelligenza Nutrizionale nel 2017 – a un soffio dall’aggiudicarsi il premio. Chissà che quest’anno, oltre al debutto della cerimonia più importante sul territorio nazionale, non si possa celebrare una vittoria italiana. Al vincitore, selezionato dalla giuria di chef, spetterà un premio in denaro di 100mila euro da destinare al progetto di cui si è fatto promotore o a iniziative ugualmente meritevoli di essere sostenute.

Il 15 marzo apre Refettorio Paris

Intanto, per Massimo Bottura, inizia il countdown all’inaugurazione di un nuovo refettorio, a Parigi, da tempo annunciato in collaborazione con l’associazione Foyer de la Madeleine, nella cripta della celebre chiesa della Madeleine. Il Refettorio Paris aprirà le porte alle persone in cerca di un pasto caldo e di uno spazio da condividere a partire dal 15 marzo (quando la cena inaugurale vedrà cucinare insieme lo chef modenese e Yannick Allenò), nei saloni già adibiti a punto di ristoro dai volontari dell’associazione parigina. Ma per rinnovare gli spazi, secondo uno schema ormai consolidato nelle precedenti esperienze di Food for Soul in Italia e all’estero, sono stati coinvolti artisti, designer e architetti francesi come JR e Prune Nourry, Kubra Khademi, Nicola Delon e Ramy Fischler. Nelle prossime settimane, quindi, nelle cucine della cripta si avvicenderanno celebri cuochi, francesi e non, che hanno risposto alla chiamata di Massimo Bottura; mentre il cibo sarà fornito dai supermercati del gruppo Carrefour, attraverso la collaborazione dell’associazione The Food Bank e Phenix, che a Parigi favorisce il recupero delle eccedenze alimentari per distribuirle a chi ne ha bisogno. Il refettorio servirà 100 pasti al giorno.

 

a cura di Livia Montagnoli

Antonello Colonna. 35 anni di carriera, 35 anni di business

$
0
0

Bisogna conoscere le regole per trasgredirle”. Non ha dubbi il cuoco-manager che nel 1985 in un mese ha rivoluzionato l'osteria dei genitori a Labico, trasformando i classici romani in sfizio gourmet.

 

Desacralizzare per preservare: questo il mantra che ha accompagnato Antonello Colonna nelle mille avventure in giro per il mondo. Ma ora c'è un altro sogno, la rivoluzione di piazza Colonna.

 

Antonello Colonna

Ha cucinato per David Bowie e per la Regina d’Inghilterra. Ha ospitato – da chef, mica da promoter – concerti di Woody Allen e di Moby. Ha nutrito gli azzurri in occasione di Italia ’90 e USA ’94 (il più goloso? Stefano Tacconi. Il più bravo ai fornelli? Roberto Baggio). Ha firmato menù in alta quota per Alitalia e ad alta velocità sul Frecciarossa. Come Gordon Ramsay va in giro, da un paio di stagioni, a salvare hotel sull’orlo del fallimento in un apprezzato programma tv. È riuscito a installare una serra di vetro sul tetto del Palazzo delle Esposizioni di Roma, dimostrando che si può fare bene (e fare cassa) anche nella sciagurata ristorazione museale italiana. È atterrato al Terminal 1 del più grande scalo aeroportuale d’Italia con una declinazione bistrò del suo brand. Ha costruito un monolite che sembra una kunsthalle e invece è un resort con Spa, coricato nel mezzo della campagna di Labico, a pochi chilometri da dove tutto è iniziato, nel 1985, con quei venti coperti custoditi dietro una porta di vernice rossa che diventerà il suo emblema.

 

Imprenditore scaltro e coraggioso

Quanti altri attori della cucina italiana possono vantare – anche nei principali eventi della politica, dello spettacolo e dello sport – lo stesso ruolo da protagonista di Antonello Colonna? Imprenditore scaltro e coraggioso, “anarchico ai fornelli” (così il Gambero Rosso lo definì in un libro-intervista del 2005 firmato da Stefano Polacchi), romanista impenitente, aforista compulsivo, collezionista di Vespe Piaggio, sigari habanos, posaceneri e mille altre cose. “Non m’interessa essere una star della cucina ma solo un buon professionista di provincia”, esordisce lui, ma non gli crediamo neanche un po’. La celebre porta rossa è sempre viva e oggi lotta nel cuore di Roma, di fronte al Quirinale. Da 20 coperti al giorno, però, è passata ad accogliere le 200mila presenze che ogni anno affollano l’Open (la cui sostenibilità economica è garantita anche da un fitto calendario di eventi) incuriositi da questo spazio luminosissimo creato dall’architetto Paolo Desideri, ma più ancora dal negativo di carbonara, suo piatto-feticcio tanto quanto la giacca destrutturata è l’icona di Armani. In fondo “Colonna è un cuoco moderno e, come uno stilista di moda, non può sottrarsi al sentimento del tempo”, scriveva Marino Barendson. E se Re Giorgio moltiplica le sue creazioni da via Manzoni a Shibuya, anche Colonna – da altri soprannominato ottavo Re di Roma – replica dappertutto la sua collezione: “cerco di ragionare come una maison - conferma - e voglio che nei miei tre ristoranti ci sia la stessa identità e le stesse voci in carta, a cominciare proprio dal negativo, un piatto molto copiato”.

 

Quella di Colonna è una scuola di formazione

Se di maison si tratta, la continuità imprenditoriale è tutto: l’ottimo restaurant manager dell’Open è Colonna junior, classe 1985, che si chiama Andrea come il nonno (nella famiglia si alternano da sempre, di generazione in generazione, solamente due nomi: Andrea, come l’antenato che nel 1874 inaugurò la Trattoria Andrea Colonna, e Antonio, che è il nome all’anagrafe di Antonello). “Non ho mai voluto – racconta lo chef - che mio figlio stesse in cucina o che facesse l’alberghiero. Ho invece voluto insegnare a lui e anche a mio nipote Gianluca Tulli, che invece segue in prima persona Vallefredda, il management di un’azienda, per garantire una gestione solida e duratura”. Le diverse società e attività del gruppo assorbono un centinaio di dipendenti circa (tra fissi, stagionali e interinali). Quella di Colonna è una scuola (di pensiero, prima ancora che di cucina) che nel corso di molti anni ha formato, tra gli altri, personaggi come Adriano Baldassarre, Marco Martini e Alessandro Pipero.

 

La rivoluzione a Labico nel 1985

Una scuola che contiene un germe di anarchia già dalla sua “fondazione”: in quel 10 luglio del 1985 un giovane Antonello, approfittando del mese di vacanza dei due genitori, stravolge completamente la rassicurante osteria di famiglia a Labico in cui erano serviti con orgoglio i fagioli con le cotiche. “A regazzi’, nun tocca’ niente” gli intima il padre, prima di dirigere la Fiat 128 bianca verso San Giuliano a Mare. Per tutta risposta Antonello tira fuori le poltroncine Thonet, le tovaglie Frette, i bicchieri Riedel, le posate Kristoff e le porcellane Ginori che nascondeva già da mesi in un magazzino, pronto a cominciare la rivoluzione. Al ritorno del padre, il 10 agosto, nulla era più come prima. L’arista di maiale con le nocciole aveva sostituito il pollo alla cacciatora, le fettuccine con la crema di broccoletti quelle con le rigaje di pollo. Capii che la mia rivoluzione stava nel frullare i vecchi piatti di famiglia, i contorni che preparava mia madre, come la cicoria e gli spinaci. Frullavo tutto – ricorda ridendo lo chef – e giocavo con le erbe, iniziavo a dare territorialità ai piatti”. C’era anche una carta dei vini che fece scalpore, tanto era inedita a queste latitudini, creata grazie all’amicizia con personaggi come Angelo Gaja, Giacomo Bologna e Maurizio Zanella. Dopo qualche anno, nel 1990, la porta da color rovere divenne rossa – eh già, non lo è mica stata dall’inizio, come molti pensano – ispirata alla red door (con i suoi ottoni brillanti) di Elizabeth Arden sulla Fifth Avenue di New York, dove lo chef sbarcò per la prima volta a gennaio 1987 per una consulenza.

Colonna è stato uno dei primi a desacralizzare la tradizione

Colonna è stato il primo a “mettere Roma” dentro la pasta fresca, dal raviolo di trippa ai cappelletti di coda, dal negativo di carbonara ai tortelli di baccalà. Desacralizzare la tradizione (per preservarla), scansare le consuetudini e aggiustare repentinamente la rotta sono i mantra che lo accompagnano da sempre, non solo nella sua cucina “roman twist” ma pure nella sua personale idea di design che ha condizionato il visionario progetto di ospitalità nella campagna laziale: Vallefredda – spiega – è l’estratto di tutte le mie esperienze. Da figlio di osti, amante della ristorazione, frequentatore di hotel importanti, ho voluto creare il mio posto dove ho decontestualizzato tutta la storia che conosco, con un gusto senza regole. Serve conoscere le regole per trasgredirle: ho abbattuto il concetto di hall, di sala ristorante, di sala meeting nel senso convenzionale. Si ritrova tutto, ma in un concetto di casa privata: quello che più conta è lo spirito e l’emozione che si riesce a dare ai clienti”.

 

L’Open Bistrò al Terminal 1 di Fiumicino

L’apertura più recente è stata il ristorante al Terminal 1 di Fiumicino, gestito insieme a Chef Express (50% e 50%). Nelle intenzioni è il luogo ideale per le colazioni di lavoro dei frequent flyer, un rifugio comfort (prima di una coincidenza o quando si perde il volo) conla classica cacio e pepe in carta a 12 euro: l’Open Bistrò mi sta dando soddisfazioni con una formula promiscua di buffet e menù, anche se la posizione non è delle più agevoli: bisogna volerci andare. In Italia forse non siamo ancora del tutto pronti per format del genere, perché le abitudini in aeroporto non sono facili da smontare. Noi italiani non siamo abituati ad andare un paio d’ore prima, darci appuntamento e mangiare in un ristorante gastronomico: alla fine ci adeguiamo al solito sandwich o tramezzino. Io quando sono a Heathrow vado da Plane Food di Gordon Ramsay con i menù espressi a tempo, qui non c’è ancora quell’aspetto affascinante di altre città come Londra o New York ma la situazione sta molto migliorando”.

Progetti futuri

Il futuro prossimo potrebbe riguardare ancora una volta il centro di Roma perché tra gli obiettivi di Colonna c’è quello di conquistare la piazza che porta il suo nome: “in realtà è solo omonimia, a chi mi chiede di un’eventuale parentela rispondo scherzando che io sono il “ramo secco” della nobile famiglia. Il mio sogno è di aprire un altro ristorante gourmet nella Capitale. Prima di inaugurare l’Open al Palazzo delle Esposizioni stavo già per finalizzare un progetto al primo piano di Palazzo Ferrajoli, poi non se n’è fatto più niente, ma io continuo a tenere Piazza Colonna sotto osservazione perché potrebbe offrire nuove opportunità interessanti”.

Quali? Noi scommettiamo sulla Galleria Alberto Sordi, che nell’ultima stagione non se l’è passata benissimo: dopo il ristorante, anche i bar hanno chiuso a fine 2017. La Galleria è ora a un crocevia e la proprietà – Sorgente Group – è pronta a riposizionarla in alto e a ripensare radicalmente gli spazi, in quasi concomitanza con l’inaugurazione della nuova Rinascente che ha dato nuovo appeal a tutta l’area intorno alla romana via del Tritone. Risollevare le sorti – almeno quelle della ristorazione – del salotto buono della città sembra una di quelle sfide in grado di solleticare ed esaltare l’imprenditore-cuoco di Labico. Vedremo.

 

 

a cura di Federico De Cesare Viola

foto di Andrea Federici

 

 

QUESTO È NULLA...

Nel numero di marzo del Gambero Rosso, un'edizione rinnovata in questi giorni in edicola, trovate tutta la storia di Antonello Colonna, raccontata anche attraverso la voce dei suoi attuali collaboratori, il figlio Andrea Colonna e il nipote Gianluca Tulli, e di quelli che sono passati sotto di lui negli anni, da Adriano Baldassarre a Marco Martini, da Alessandro Pipero a Stefano Preli. Un servizio di 8 pagine dedicato al cuoco-manager di successo che include anche un focus sul significato di consulenza nell'ambito della ristorazione.

 

Il numero lo potete trovare in edicola o in versione digitale, su App Store o Play Store

Abbonamento qui

 

Steven Raichlen Grills Italy. Seconda puntata: panini e insalate fra Friuli Venezia Giulia e Toscana

$
0
0

Dopo i tranci di pesce spada su barbecue a gas e il branzino grigliato sulla tavoletta di legno, Steven Raichlen, guru della griglia e del barbecue, continua il suo viaggio fra le località italiane alla ricerca dei prodotti migliori. Seconda tappa in Friuli e Toscana. 

La tradizione del focolare

Amo il barbecue perché riunisce le mie tre passioni principali: storia, cultura, cibo”. La fiamma è già accesa al centro dell'antico focolare del Settecento nella casa di campagna di Timau, nel territorio di Carnia, in Friuli Venezia Giulia. Uno spazio spartano e rimasto fermo nel tempo, con tavoli in pietra e un paio di sedie di paglie. “E pensare che nel 1700 l'America non era ancora neanche un Paese vero! In Italia già si preparavano piatti prelibati”. Steven Raichlen, uno dei più grandi esperti di cottura alla griglia a livello internazionale, si alza, sposta il carbone, muove le grate: “Altra caratteristica che amo di questa pratica è che è molto simile a uno sport: bisogna muoversi in continuazione assecondando il ritmo delle fiamme”. Con lui attorno al focolare, Fabrizio Nonis, macellaio specializzato che nella seconda puntata di Steven Raichlen Grills Italy accompagna il maestro del barbecue alla scoperta di formaggi e salumi tipici della sua terra. Come il Formadi Frant, una delle eccellenze casearie di Timau, o ancora il Pastorut, “introvabile da qualsiasi altra parte”. E, naturalmente, i formaggi di malga.

 

Raichlen

La varhackara

Fra le tante prelibatezze del luogo, però, è la varhackara la più rappresentativa di Timau, un mix di diverse parti di tagli, dal lardo bianco allo speck, passando per la pancetta affumicata, il tutto aromatizzato con erbe e ridotto in una sorta di crema spalmabile di origini austriache. “Si tratta di un prodotto locale unico nel suo genere, dalla tradizione antichissima e conosciuta solo fra le genti di Timau”, spiega Fabrizio. Sul focolare, pane di segale, “ha un profumo eccellente”, e varhackara. I due uomini si godono la bruschetta attorno al fuoco, con un calice di vino da accompagnamento: un momento perfetto per scoprire qualcosa di più su Steven. “Trovo questo focolare molto affascinante. In generale la cottura su fuoco è un qualcosa che mi emoziona: 18mila anni fa l'homo erectus ha fatto una delle più grandi scoperte della storia dell'uomo, iniziando a cuocere la carne. Il barbecue è ciò che ci ha resi umani, civili: è una tecnica indissolubilmente legata alla nostra cultura”.

 

Raichlen

Il panino alla griglia

Come al solito, una volta assaporati i prodotti locali, è tempo per Steven di mettersi ai fornelli. O meglio, alla griglia. “Ho pensato di riproporre pane e varhackara in versione sandwich, ma grigliato”. Pane di segale a fette, olio extravergine di oliva, senape, varhackara, crauti, speck e formaggio. Questi gli strati del panino ispirato al celebre Reuben, “un panino inventato nel 1914 da Arnold Reuben, noto salumiere di New York, a base di manzo sotto sale, crauti, formaggio svizzero e salsa russa”. Per la cottura, Raichlen utilizza un grill a gas firmato Weber, la società statunitense produttrice di barbecue a carbonella, gas ed elettrici, e relativi accessori. “Posiziono le prime due manopole dei bruciatori su fiamma medio-alta, e le ultime due a fuoco più alto. Pulisco la griglia con una spazzola apposita” (ancora una volta della casa Weber) “e inserisco un po' di legna per un tocco di affumicato”. Un segreto che il mago della griglia ci aveva già svelato nella scorsa puntata: “In questo caso, possiamo scegliere se utilizzare un pezzo di leggo intero oppure dei trucioli immersi nell'acqua e racchiusi in un fogli di carta stagnola forato in superficie”. Raichlen opta per la seconda opzione, e dopo aver oliato la griglia, cuoce il panino per circa 2-3 minuti per lato. “Squisito, ma manca una cosa: una bella birra ghiacciata”.

Dal Friuli alla Toscana per il famoso Blt

Dal Nord al Centro Italia: Steven si rimette in viaggio e approda in Toscana, in aperta campagna, per presentarci un secondo panino stellestrisce, uno dei più popolari negli States: il Blt, “dove b sta per bacon, l per lettuce (lattuga) e t per tomato (pomodoro)”. Invece di utilizzare questi ingredienti come farcia, però, in questo caso il guru del barbecue li impiega in un'insalata, “a base di lattuga verde, radicchio, indivia belga, pancetta affumicata, pomodori e schiacciata toscana”. Si comincia dal dressing, una salsa a base di maionese, panna acida “o latticello”, aceto di vino bianco, olio extravergine di oliva, “io ho la fortuna di usarne uno del territorio”, sale e pepe nero macinato fresco. Protagonista stavolta è una griglia a carbone Weber, unta con il grasso della pancetta anziché l'olio. Per la nota affumicata, Steven inserisce un pezzo di legno di melo, per poi cominciare a cuocere le verdure. È poi il momento della pancetta, “da muovere spesso perché ricca di grasso, e per questo spesso tendente a rilasciare succhi e schizzare”. Si finisce con la schiacciata, cotta intera e unta di olio da entrambi i lati, e poi i pomodori “da scaldare appena”. Tutto nel piatto con la salsa di accompagnamento: “Eccezionale”, esclama mentre intinge la fetta di schiacciata nel dressing. “Non vedo l'ora di mostrarvi nuovi trucchi del mestiere”. Nella prossima puntata, alla scoperta di nuove tradizioni e nuovi prodotti. Dove? Restate sintonizzati.

 

Steven Raichlen Grills Italy va in onda dal 5 Marzo 2018 ogni lunedì ore 21.30 su Gambero Rosso Channel, Sky 412

a cura di Michela Becchi

 

MAIN SPONSOR


Si ringrazia
 

Salumi da Re 2018. Fulvio Pierangelini, ospite della tre giorni dedicata alla norcineria italiana. L'intervista

$
0
0

Si avvicina la grande festa primaverile della salumeria nazionale, dal 7 al 9 aprile all’Antica Corte Pallavicina (a Polesine Zibello). Cominciamo ad affrontare i temi caldi della manifestazione assieme a Fulvio Pierangelini, che ci racconta il ruolo che i salumi hanno avuto nella sua cucina.

Fulvio Pierangelini sarà ospite di Salumi da Re 2018 durante l’intera durata dell’evento, che andrà in scena presso l’Antica Corte Pallavicina dal 7 al 9 aprile. Una partecipazione straordinaria per diversi motivi. Un gigante della ristorazione italiana, star anche al di fuori dei confini nazionali dal 1980 al 2009, che forse i più giovani conoscono poco, sicuramente meno dei nomi altisonanti che affollano programmi tv di cucina in onda su quasi tutti i canali, da MasterChef a Cuochi e Fiamme. Lo conosce invece bene chi ha vissuto l’evoluzione del settore quantomeno nell’ultimo ventennio, quando Fulvio Pierangelini era il primo chef italiano, Due Stelle Michelin e Tre Forchette nella nostra guida Ristoranti d’Italia, alla ribalta fino al 2009, anno della chiusura del suo mitico Gambero Rosso di San Vincenzo, in provincia di Livorno. Sulla breccia da quando aprì i battenti, nel 1980, era il locale cult della gourmandise internazionale, dove si andava a fare l’esperienza gastronomica.

 

Fuori dai riflettori, per vocazione e per scelta

Oggi, nel tourbillon di aperture e chiusure, cambi di gestione e destinazioni d'uso, inizio e fine di un’attività sono una cosa normale, banale. Ma quando il Gambero Rosso di San Vincenzo chiuse, apprendemmo la notizia come un lutto in famiglia. Forse, con il senno di poi, possiamo dire che è stato meglio così. In un’epoca in cui la popolarità è - talvolta - più facile da ottenere grazie alle apparizioni in trasmissioni culinarie che sudando ai fornelli, Fulvio Pierangelini– “il grande solista della scena italiana, l’orso scopritore, l’artigiano dell’alta cucina”, per citare alcune delle espressioni che hanno tentato di sintetizzare una personalità eclettica e fuori dagli schemi – sarebbe fuori posto. Figuriamoci. Lui, laureato in Scienze Politiche e autodidatta, cuoco autarchico per scelta e temperamento, con una visione della cucina vecchio stampo – o troppo avanti – che ama viaggiare in solitaria, curare i piatti dall’idea alla mise en place, “capare” e spadellare, selezionare gli ingredienti alla fonte e addirittura la clientela filtrando le prenotazioni al telefono, ai riflettori preferisce il contatto diretto con la materia prima.

 

Il senso di Fulvio per i salumi

Ma torniamo alla sua partecipazione all’evento di Polesine, eccezionale per l’ultradecennale lontananza di Pierangelini dalla scena, lo spirito istintivamente solitario e perché il suo nome è legato – ma non a doppio nodo scorsoio - alla cucina creativa di pesce. Abbiamo intervistato lo chef, oggi creative director of food del gruppo Rocco Forte Hotels, a neanche un mese dall’evento organizzato dal Gambero Rosso e dai fratelli Spigaroli.

 

Che cosa lo ha spinto a partecipare alla quinta edizione di Salumi da Re?

Il forte legame con gli Spigaroli, una famiglia meravigliosa che lavorava i nostri maiali di cinta (lo chef insieme al figlio Fulvietto – che nell’ultimo numero del nostro mensile ci ha fornito le ricette di alcuni suoi piatti - aveva un allevamento di suini rustici di razza cinta senese, uno dei primi in Toscana, ndr). Poiper lo storico rapporto con il Gambero Rosso e per gli argomenti che verranno dibattuti nei convegni in programma.

 

Strano, si chiederà qualcuno, pensando al suo ristorante in riva al mare e alla ricerca che spaziava nella fauna ittica. Chi non ricorda la sua passatina di ceci e gamberi, uno dei piatti più amati e copiati della ristorazione negli ultimi decenni?

Il mio locale si chiamava Gambero Rosso, era a dieci metri dall’acqua e il pesce lo conosco bene, era il mio elemento. Ma non ho mai voluto che il mio fosse considerato esclusivamente un ristorante di pesce. Anche per uscire dal ghetto della cucina marinara ho sempre lavorato le carni, che preparavo personalmente e rappresentavano il 30 per cento del menu.

 

Può citarci alcuni piatti?

Il petto di piccione, diventato famoso in tutto il mondo. Il viaggio intorno alla gallina livornese, ildessert di lingua di vitello e vino rosso. E il maialino di cinta senese cheha avuto sempre un posto importante in carta: è stato la base ditanti piatti, fino a15 ricette.

 

E qualche preparazione con i salumi?

Penso alle capesante ripiene di mortadella, un mio piatto storico,o ai ravioli di mariola con gli scampi, alpesce con il prosciutto di cinta.

 

Il lardo sarà uno dei salumi al centro dell’attenzione di questa edizione di Salumi da Re, in particolare nel convegno “Sdoganiamo i grassi - Tutte le sfumature di bianco, dalla bresaola al lardo”, in programma sabato 7 aprile alle ore 17.30. Come ci si è rapportato?

Non l’ho mai temuto. Usavo il mio lardo di cinta in modo trasversale, lo raccontavo in modo diverso, lo esaltavo dandogli un senso. L’astice con il lardo ha avuto un ruolo nel mio menu e ha fatto storia. Ho realizzato anche un dessert con il lardo.

 

Quale?

Ne parleremo all’Antica Corte Pallavicina, lasciamoci qualcosa da raccontare…

 

Salumi da Re  - Antica Corte Pallavicina - Polesine Zibello (PR) - dal 7 al 9 aprile 2018 - www.salumidare.it

 

David Chang lancia Majordomo Media. La piattaforma multimediale per produrre contenuti inediti sul cibo

$
0
0

Gli piace definirla un’operazione culturale, vista la varietà di interessi che i progetti editoriali e televisivi di Majordomo Media si prefiggono di approfondire. Nasce con le idee ben chiare, quindi, la piattaforma ideata da David Chang, sempre più diviso tra il ruolo di ristoratore e quello di comunicatore. E tenere tutto insieme gli riesce piuttosto bene.

Comunicare il cibo

L’ultimo format che ha ideato, prodotto per Netflix, sta avendo un buon successo e ottime recensioni da parte della critica di settore, che nell’approccio fresco, ironico e persino provocatorio di David Chang ha sempre riconosciuto un’efficace chiave di volta per parlare di cibo. E Ugly Delicious, con le conversazioni raccolte dallo chef un po’ in tutto il mondo per stimolare una riflessione che si spinge ben oltre il racconto delle pure e semplici tradizioni gastronomiche, intercettando quindi stereotipi sociali, radici antropologiche, falsi miti e presunte verità, non ha deluso le aspettative. Rilanciando così quel David Chang comunicatore brillante e sopra le righe che passa da una cena in famiglia con René Redzepi a Copenhagen al soul food degli afroamericani senza perdere di vista il suo obiettivo: sollevare dubbi e curiosità sull’universo del cibo e sulle relazioni che stabilisce, intrattenere e insegnare al tempo stesso, ma senza mai rinunciare alla dialettica che tiene viva l’attenzione di chi ascolta. O di chi legge, come fino a qualche mese fa è stato vero per Lucky Peach, progetto editoriale fondato insieme al fidato Pete Meehan (complice pure in Ugly Delicious) e arrivato al capolinea, con dispiacere di molti, la primavera scorsa.

Majordomo Media. Cos’è

Ma Chang, che pure non perde mai di vista i suoi obiettivi imprenditoriali nella ristorazione – l’ultima scommessa a firma Momofuku Restaurant Group, la prima a Los Angeles, è recentissima e ambiziosa: un grande locale nella China Town di LA ribattezzato Majordomo – non smentisce il suo interesse per il mondo della comunicazione. E anzi con un investimento importante cerca di metterlo a sistema, in collaborazione con partner già noti agli addetti ai lavori. Con l’idea di produrre contenuti “che raccontino il cibo come nessuno ha mai fatto prima” nasce la piattaforma multimediale Majordomo Media, principalmente indirizzata a finanziare produzioni televisive e digitali, senza però escludere la rinascita di prodotti editoriali che non facciano rimpiangere troppo a lungo Lucky Peach. Il progetto è appena stato ufficializzato in partnership con Christopher Chen e con l’ex editore di Wired, Scott Dadich. E la dichiarazione d’intenti di Chang non differisce molto da quanto lo chef è riuscito a mettere in scena nel suo ultimo format: “Majordomo si occuperà di tutto quello che definisco cultura, cibo, viaggi, musica, sport. Non voglio dire alla persone cosa devono guardare, ma insegnargli a capire dove trovare qualcosa di nuovo e coinvolgerli in esperienze e conversazioni in cui tutte le opinioni siano rappresentate, e il racconto delle proprie passioni diventi stimolo per affrontare questioni sociali, razziali, culturali nel senso più ampio del termine”. Un hub per spettatori “culturalmente avventurosi”, lo definisce Dadich rincarando la dose.

Chef, ristoratore, star mediatica. Tutto insieme si può?

A pieno regime, Majordomo Media produrrà contenuti per la propria piattaforma, ma anche per terzi, e ha assoldato allo scopo una squadra di collaboratori già avvezzi al Chang-pensiero, come Chris Ying e Rachel Khong, precedentemente in forze a Lucky Peach (assente, invece, risulta al momento Pete Meheran). La piattaforma lancerà presto una serie di podcast online, e i primi progetti televisivi sarebbero già in fase di sviluppo. David Chang non fa che confermare un profilo decisamente unico nel panorama della gastronomia internazionale: il tempo trascorso in cucina, ormai, si è ridotto moltissimo, ma il suo progetto di ristorazione non ha mai perso slancio, e anzi continua a trarre linfa dalle divagazioni mediatiche dello chef. Viceversa, anche il suo approccio comunicativo sembra aver raggiunto una solidità e una lucidità di visione mai avute prima. Qualcuno, in Italia, direbbe che è impossibile conciliare gli sforzi. E se invece fosse solo questione di saperci fare?

 

a cura di Livia Montagnoli


Mangiare pesce a Torino. Mini guida in 12 indirizzi

$
0
0

Una buona cucina di mare a Torino? Non è più una cosa difficile da troare, complici locali informali e una propostaa sempre più dversificata. 

 

Secondo una legge non scritta le città non sul mare sono quelle dove il pesce diventa una passione collettiva e offre spesso belle sorprese di gusto. Così anche Torino, capitale dei cibi di terra ruspanti, dagli agnolotti al brasato, sta scoprendo un’anima ittica, con nuove proposte di qualità ma easy in fatto di budget (il che quando si parla di pesce non è mai scontato) e in formule street e bistrot

 

Street Fish

Street Fish & altre storie

In pieno centro, in via Bogino davanti al Circolo dei Lettori ha aperto Street Fish, che mette insieme sapori mediterranei e asiatici, sudamericani, hawaiani, con il comune denominatore del pesce in versione street food. L’idea è di Paolo Craveri, 29 anni: una laurea a Torino, un po’ di anni in giro per il mondo (Canada, Australia, Sudamerica) e una passione per la cucina che scoppia in Brasile, con il cibo di strada. Torna sotto la Mole con l’idea di portarci il sapore dei suoi viaggi, rincontra l’amico chef Alessandro Audrito, 30 anni, di ritorno da Londra, e voilà: nasce un posto dove il menu è un giro del mondo, dal ceviche rivisitato ai tartacos - tartare di pesce e tacos messicani (foto in copertina) - e poi tonno, branzino, spada, crudi, cotti, marinati, zuppe di pescato, finger di pesce. Da consumare sul posto fra tavoli e sgabelli, per strada, da portare a casa. A prezzi molto ragionevoli, grande qualità e gran creatività: da provare.

A pochi passi, in via Principe Amedeo, Seafood Bar è un locale minimal chic in un isolato tutto votato al food. Qui solo pesce, in prevalenza salmone – norvegese, scozzese, dell’Alaska - crudi, ma anche zuppe e pasta; più una bella carta dei vini:all’ultima presentazione di vini alla Città del gusto di Torino il locale è stato premiato dal Consorzio della Falanghina del Sannio per la scelta di etichette.

 

Trattoria D'Agata

Vanchiglia prima tappa della movida in salsa ittica

Solo baccalà invece da Bacalhau, nuova osteria nel quartiere di movida di Vanchiglia, a pochi minuti da piazza Vittorio. L’idea è di Moreno Grossi - veterano degli chef torinesi, ex patron della Smarrita - e del suo allievo ed erede Fabio Montagna. Qui solo merluzzo, in versione baccalà o stoccafisso e di nazionalità islandese (più grande e magro, pescato all’amo e salato ancora fresco,abbattuto a -100°). Si tratta di uno dei due soli ristoranti d'Italia (l’altro è in quel di Napoli) dedicati a questo prodotto. Le declinazioni sono svariate: cuore di baccalà fritto, baccalà mantecato, pasta ripiena di baccalà, le versioni livornese e vicentina, più varianti estemporanee: c'è di che sbizzarrirsi (e a pranzo la formula è a 12€).

Sempre in Vanchiglia, un indirizzo per il pesce mediterraneo a prezzi facili (menù di 4 portate tutto pesce a 25 euro) il Chiosco dello Zoo di via Bava. Il segreto del prezzo sta nell’ambiente un po’ spartano e nel menu fisso e unico, senza possibilità di scelta: ma sulla qualità e le ricette non si discute. Sulla stessa via, oltrepassato corso san Maurizio, si incontra la cucina di pesce sicula alla Trattoria D’Agata, ambiente diverso e prezzi un po’ più alti, e, quasi di difronte, la sorpresa di una gastronomia con saletta per il pranzo: di chiama Gust, e ci si può assaggiare un ottimo polpo (al vino o affumicato, anche da portarsi a casa in sottovuoto solo da intiepidire), brandacujùn, crocchette di baccalà, spiedini di gamberi, filetti di orata, acciughe cantabriche.

Se poi si attraversa il Po, anche nella precollina chic è arrivata l’idea del pesce “informale” da Papo, kichen& fish in via Monferrato, locale di pescheria e cucina, un po’ più fighetto.

 

Pescheria Gallina

San Salvario: cucina di mare targata Gallina

Nell’altro quartiere di movida, San Salvario, il re del fish è naturalmente Beppe Gallina, il più famoso (e fascinoso) pescivendolo della città. La Gallina Scannata è un posto dove il pesce è freschissimo e preparato come si deve, con il gusto in più di sedersi al bancone per un un menu di tapas che spazia fra tempura di trota e carpione; polpo; crudo di trota; frittino di alici di lampara con salsa piri piri e altre piacevolezze ittiche a prezzi giusti. Il posto però dove Beppe Gallina si diverte di più a “giocare con il pesce” è la Pescheria Gallina al mercato di Porta Palazzo, dove i Gallina (anzi meglio le donne di casa Gallina) sono una referenza da quattro generazioni. Beppe ne ha fatto una pescheria con cucina, dove a pranzo (ma anche a cena, una volta a settimana) si mangia il pesce scelto direttamente dal banco e cucinato a vista, oltre all’ormai mitico “panino Gallina”.

 

Angolo 16

Liguria a Torino

Last but not least, i locali di influenza ligure, il “mare di casa” dei torinesi. Cucina ligure di pesce all’Angolo 16, emanazione torinese del Baya di Paraggi nel Parco di Portofino. Piatti della tradizione della Liguria ma con contaminazioni piemontesi, compresa la classica “merenda sinoira” una specie di apericena in versione sabauda, proposta qui anche in versione mare: dalla caponada del marinaio alla terrina di pesce con verdure in pastella di riso, dal pesce in carpione alla battuta di tonno al pompelmo rosa, passando per mini cappon magro, gambero marinato e battuta di taggiasca, cozze fritte e basilico fritto. Insomma: tanti sfizi attorno ai 3€ ciascuno.

Ci sono pure, naturalmente, le classiche sciamadde stile Sottoripa di Genova: ormai un classico la A6 Sciamadda di Mauro Spina che da Noli si è trasferito in via Maria Vittoria, dove prepara frittini e godurie di pesce invitanti assai e ora si è allargato con un piccolo bistrot di “ligurian seafood”; a pochi metri, la Scialuppa, tavolini di azulejos, atmosfera informale e prezzi più che abbordabili (a cominciare dai buccun, le tapas versione Liguria). Aperta qualche mese fa anche Maniman, microsciamadda (da street, ma con bancone e qualche posto a sedere) in via Barbaroux, a due passi da piazza Castello. Monica ha lasciato Genova per aprire qui un angolo di Liguria doc fra baccalà, polpo, seppioline e immancabile focaccia: e tutto a prezzi pop.

 

Street Fish - via Bogino, 4 – 389 0010612 - https://it-it.facebook.com/streetfishgastronomy

SeaFood Bar - via Principe Amedeo, 14/b – 011 2071561 - www.seafoodbar.it

Bacalhau - corso Regina Margherita, 22 - 011 8397975 - https://www.bacalhau.it

Il Chiosco dello Zoo - via Eusebio Bava, 30 – 346 7470782 -http://il-chiosco-dello-zoo.business.site

Trattoria D’Agata - via Eusebio Bava, 1bis – 328 2616354 - https://it-it.facebook.com/Trattoria-DAgata-171462706282309

Gust’-Bottega Alimentare con Cucina - via Eusebio Bava, 6 - 011 7630346 - http://www.gustbottega.it

La Gallina Scannata - via Saluzzo, 25/F – 011 6505723 - https://it-it.facebook.com/La-gallina-scannata-1418687335074296

Pescheria Gallina -piazza della Repubblica, 14/B – 011 521342; www.pescheriagallina.com

Angolo 16 - Via San Dalmazzo, 16 – 011 2478470 - www.angolo16.com

A6 Sciamadda - via Maria Vittoria 32 - tel 011 0205184 - https://it-it.facebook.com/A6-Sciamadda-778414198901732

La Scialuppa - via Maria Vittoria 37 – 011 0466041 - https://www.facebook.com/Scialuppa.Sciamadda

Maniman - via Barbaroux 10L – 011 0463970 - https://it-it.facebook.com/manimantorino

 

a cura di Rosalba Graglia

 

 

 

Cucina di casa in Umbria. Ricette di: Brustengo di patate e verze, Salsicce con l'uva e Ciaramicola

$
0
0

Quella dell'Umbria è una cucina che nasce sostanzialmente povera e contadina, ma che si basa sui grandi prodotti che offre questo territorio, dal tartufo alle lenticchie, dal vino all'olio. Noi abbiamo selezionato tre ricette da rifare a casa: brustengo di patate e verze, salsicce con l'uva e ciaramicola.

Appena 8.456 chilometri quadrati che ospitano alcuni tra i prodotti più interessanti d'Italia. L'Umbria dell'olio, del vino, dei tartufi, della pasta fatta in casa, delle zuppe di legumi, dei salumi, delle torte di verdure, l'Umbria della porchetta. Qui la lavorazione del maiale ha origini e tradizioni molto antiche e la golosa porchetta può essere considerata una vera e propria specialità perugina. Un tempo si preparava con maiale di montagna, selvatico, che non superava i 50 chili di peso, nutrito esclusivamente con ghiande. Ancora oggi la preparazione della porchetta segue le antiche ricette: una volta macellato, il maiale viene farcito con piccoli pezzi di carne conditi con sale, aglio, finocchio e pepe. Si infila con lo spiedo e si cuoce in forno a legna acceso almeno da tre ore. Il fuoco si ravviva solo alla fine per fare in modo che si formi la classica crosticina. Ma l'Umbria è tanto altro. Abbiamo selezionato tre ricette tipiche e facilmente replicabili a casa: brustengo di patate e verze, salsicce con l'uva e ciaramicola.

Brustengo di patate e verze

Il brustengo si prepara in poco tempo e con ingredienti semplici, tra cui le patate. Si possono usare tutte le varietà, sono però preferibili le patate rosse di Colfiorito Igp, una tipologia (appartenente alla varietà olandese Désiré) introdotta nella zona degli altopiani di Colfiorito solo nel 1963, ma che nel giro di pochi anni ha trovato il consenso di tutti gli agricoltori essendosi rivelata particolarmente adatta alle condizioni climatiche e ambientali della zona, a differenza della patata bianca. Altra caratteristica inequivocabile, oltre la resistenza e il colore della buccia rosso opaco, è la compattezza e la tenuta alla cottura, qualità indispensabili per la preparazione del brustengo.

Ingredienti

4 patate di media grandezza

1/2 cavolo verza

3 cucchiai d'olio extravergine d'oliva

2 spicchi d'aglio

Sale e pepe q.b

Lessate le patate mettendole in acqua inizialmente fredda. Sfogliate la verza, lavatela, tagliatela a striscioline sottili e scottatela in acqua salata in ebollizione. Quando le patate sono cotte, pelatele e passatele allo schiacciapatate. Unitevi la verza, insaporite con sale e pepe e formate un impasto ben amalgamato. Mettete a scaldare l'olio in una padella antiaderente e fatevi dorare gli spicchi d'aglio spellati e leggermente schiacciati. Quando avranno preso colore, scartateli e mettete nella padella il composto di patate, distendendolo a mo' di tortino. Fatelo ben rosolare da una parte quindi, quando si sarà formata una crosticina dorata, rivoltate il brustengo aiutandovi con un coperchio e fatelo dorare anche dall'altra parte. Servitelo ben caldo.

 

Salsicce con l'uva. Foto di www.bbcgoodfood.comFoto di www.bbcgoodfood.com

Salsicce con l'uva

Anche questa è una ricetta semplicissima ma dal risultato garantito: l'acidità dell'uva smorza il grasso delle salsicce e ne completa il sapore.

Ingredienti

8 salsicce fresche

1 cucchiaio d'olio extravergine d'oliva

500 g circa di uva da tavola

Lavate e asciugate le salsicce e punzecchiatele in diversi punti con una forchetta. Scaldate l'olio in una padella e fate rosolare dolcemente le salsicce girandole spesso in modo che rilascino gran parte del grasso. Dopo una ventina di minuti, quando le salsicce avranno preso un bel colore, scolate dalla padella tutto il grasso che si sarà formato e mettetevi gli acini d'uva, lavati e asciugati. Rialzate la fiamma e fate insaporire l'uva per quattro o cinque minuti. Durante questo tempo, scuotete ogni tanto la padella senza mescolare l'uva per non romperla.

 

Ciaramicola

Ciaramicola

È un tipico dolce di Pasqua preparato nella provincia di Perugia. Si tratta di una ciambella di colore rosso ricoperta con una glassa bianca e dei confettini colorati. È un dolce nato come inno alla città di Perugia: i colori fanno riferimento ai rioni (Porta Sole, Porta Sant'Angelo, Porta Susanna, Porta Eburnea e Porta San Pietro) e allo stemma della città.

Ingredienti

500 g di farina

250 g di zucchero

120 g di burro

1 bustina di lievito per dolci

3 uova

1 pizzico di sale

1 limone non trattato

4 cucchiai di liquore Alchermes

Per guarnire il dolce

1 albume

2 cucchiai colmi di zucchero a velo

1 cucchiaio di confettini multicolori

Poco burro e farina per lo stampo

Setacciate la farina con il lievito in una larga ciotola e mescolatela con il sale e lo zucchero. Fate la fontana e mettetevi al centro le uova intere, il burro molto morbido a pezzetti, l'Alchermes e la scorza grattugiata del limone (solo la parte gialla). Lavorate gli ingredienti quel tanto che basta per amalgamarli quindi trasferite il composto nella spianatoia infarinata e impastate fino ad averlo ben liscio. Formate con la pasta (che dovrà essere abbastanza morbida) un lungo salsicciotto e accomodatelo in uno stampo a ciambella di 24 centimetri di diametro, imburrato e infarinato. Mettete la ciambella nel forno già scaldato a 180° C e lasciatela cuocere per circa tre quarti d'ora. Mettete l'albume in una tazza, battetelo leggermente e mescolatelo con lo zucchero a velo setacciato in modo da avere una specie di glassa liscia fluida. Quando il dolce è cotto, sformatelo, appoggiatelo su un piatto e pennellatelo con la glassa, rivestendolo bene. Spolveratelo con i confettini e rimettetelo nel forno spento ma caldo lasciandolo fino a quando la glassa si sarà asciugata.

 

Cucina di casa in Veneto. Ricette: Sarde in saor, Risi e bisi e Baccalà alla vicentina

Cucina di casa in Piemonte. Ricette: Vitello tonnato, Agnolotti del plin e Brasato al Barolo

Cucina di casa in Sicilia. Ricette: Panelle, Pasta alla norma e Calamari alla messinese

Cucina di casa a Roma. Ricetta di: Supplì, Spaghetti alla carbonara, Coda alla vaccinara

Cucina di casa in Emilia-Romagna. Ricette di: Cappellacci di zucca, Cotoletta alla bolognese e Torta degli addobbi

Cucina di casa in Lombardia. Ricette di: Risotto alla pilota, Ossobuco alla milanese e Tortaparadiso

Cucina di casa in Liguria. Ricette di: Pesto alla genovese, Bagnun e Baccalà in zimino

Cucina di casa in Toscana. Ricette di tre zuppe: Carabaccia, Garmugia e Cacciucco

Cucina di casa in Puglia. Ricette di: Cozze arraganate, Tiella di riso patate e cozze, Dentice alla pugliese e Taralli

Cucina di casa in Sardegna. Ricette di: Minestra di fregula con arselle, Pane frattau e Sebadas

Cucina di casa in Campania. Ricette di: Pasta cresciuta alle acciughe, Minestra di pasta e patate e Genovese

Cucina di casa in Trentino-Alto Adige. Ricette di: Canederli, Zuppa al vino e Strudel di mele

Cucina di casa in Friuli-Venezia Giulia. Ricette di: Frico con le patate, Gnocchi di susine e Gulasch


 

Il rilancio della filiera avicola molisana: lo stabilimento di Amadori che crea posti di lavoro

$
0
0

Amadori, il grande gruppo italiano specializzato nella carne di pollo e animali da cortile, lancia un progetto in Molise per dare lavoro ai dipendenti in cassaintegrazione. E far ricircolare l’economia agricola molisana.

I progetti di Amadori

La storia dell'azienda Amadori inizia intorno agli anni ‘30, quando Ondinae Agostino Amadori, insieme ai figli Francesco, Arnaldo e Adelmo, cominciano a commercializzare pollame e animali da cortile. Nel giro di poco tempo, i due fratelli decidono di dedicarsi anche all’allevamento. Un marchio che ha subito diverse evoluzioni nei decenni, intraprendendo un percorso di innovazione che ha completamente trasformato l’attività da realtà avicola familiare ad azienda alimentare a tutti gli effetti. Un’impresa che continua a mettere in campo investimenti significativi, per ampliare sempre di più filiera, raggio d’azione e target. Fra le ultime mosse del brand, il piano di rilancio della filiera avicola molisana, per recuperare il complesso ex GAM di Bojano, in provincia di Campobasso. Un piano di sviluppo che prevede un investimento di oltre 45 milioni di euro, e che include l’acquisizione, ristrutturazione e riqualificazione del complesso tramite la Società Agricola Vicentina. Incubatoio, stabilimento di trasformazione e allevamenti: questi i punti chiave del progetto che andranno a inserirsi nella filiera Amadori, che attualmente conta più di 800 allevamenti su tutto il territorio nazionale.

L’incubatoio

A sostenere l’iniziativa, il Presidente della Regione Molise Paolo Di Laura Frattura, che ha confermato che il nuovo incubatoio aprirà battenti entro il prossimo novembre. “L’azienda ha scelto di sviluppare sempre di più la sua filiera avicola premium investendo in particolare nel Centro e Sud Italia”, hanno dichiarato FrancescoBertie MauroMasini, rispettivamente Direttore Centrale Amministrazione e Finanza, Controllo e Affari Societari e Direttore Centrale Operations di Amadori. “Questo impegno riflette la strategia aziendale orientata verso una produzione made in Italy di alta qualità, in linea col nuovo piano industriale 2018-2022, che ha come obiettivo quello di trasformare Amadori in una food company dal respiro internazionale”. Un progetto ambizioso, che non si limita solo ai confini nazionali, dunque, ma che ha in serbo diverse sorprese anche nei Paesi esteri.

Obiettivo: creare nuovi posti di lavoro

Intanto, però, si lavora sull’incubatoio molisano, per impiegare i primi 30 lavoratori attualmente in cassa integrazione (un numero destinato a raddoppiare una volta che lo stabilimento sarà a pieno regime). Ci vorranno, poi, circa 100 addetti per macello e sala taglio. A co-finanziare l’impresa, il Ministero dello Sviluppo Economico e la Regione, che contribuiranno al 40% delle spese di progetto attraverso il contratto di sviluppo, la cui domanda è stata presentata il mese scorso a Invitalia (Agenzia nazionale per l'attrazione degli investimenti e lo sviluppo d'impresa). Una volta stipulato il contratto (fra circa 10 mesi), ne serviranno altri 36 per la completa ristrutturazione.

Parola d’ordine: collaborazione

Già presente in Molise da oltre 10 anni con 63 allevamenti di pollo tradizionale, Amadori è ora pronto a valorizzare la produzione regionale, con l’obiettivo di garantire stabilità, sicurezza e benessere a tutti i cittadini in cassaintegrazione. “Iniziative industriali di questa portata possono trovare la loro completa realizzazione solo attraverso il sostegno istituzionale, sociale e finanziario, e l’impegno di tutti gli attori coinvolti, così che il piano di rilancio definito insieme si realizzi a pieno”. Un progetto di ampio respiro, fondato sulla rete fra addetti ai lavori, impegnato nella creazione delle giuste sinergie e – ce lo auguriamo – nella ripresa dell’imprenditorialità agricola locale, anche se - dobbiamo ammetterlo - la notizia di un allevamento di polli a livello industriale co-realizzato con i finanziamenti pubblici, porta con sé una serie di dubbi e legittime perplessità, che speriamo possano presto essere smentite.
a cura di Michela Becchi

Pizzerie d'Italia 2018. I premi speciali, dai pizzaioli emergenti ai maestri dell'impasto

$
0
0

Tanti i Tre Spicchi d'Italia, dedicati ai pizzaioli migliori riconosciuti dalla guida del Gambero Rosso, e molti anche i premi speciali, dedicati agli artigiani più rivoluzionari del settore. 6 insegne da provare da Nord a Sud della Penisola.

Sempre più difficile delineare con precisione i confini dell'arte bianca italiana, un mondo sfaccettato e in continua evoluzione che, come abbiamo avuto modo di constatare più volte, è protagonista di una crescita esponenziale negli ultimi anni. A confermarlo, i numeri della guida Pizzerie d'Italia del Gambero Rosso, in aumento di anno in anno: l'ultima edizione, quella del 2018, fotografa un panorama sempre più ricco e diversificato. Un microcosmo fatto di lievitazioni, sperimentazioni, farine, tempi di maturazione e temperature, cotture alternative e abbinamenti insoliti. La strada per la qualità è stata tracciata anni fa da grandi maestri del calibro di Gabriele Bonci- icona per la panificazione e soprattutto per la pizza a taglio - Franco Pepe, Gino Sorbillo e molti altri ancora (la lista, per fortuna, è molto lunga). E ora è tempo per i più giovani di rinnovare ulteriormente questo ambito, seguendo l'esempio dei professionisti migliori. Soprattutto in un momento propizio come quello attuale, a pochi mesi di distanza dal riconoscimento dell'Arte del pizzaiuolo napoletano come patrimonio immateriale dell'Unesco e nel pieno di un interesse sempre più diffuso per la materia prima, i vini di qualità, l'attenzione ai molti dettagli e alle varianti che questo mondo porta con sé. Noi, di anno in anno, cerchiamo di tracciarne i contorni, assegnando dei premi speciali (oltre ai punteggi canonici: Uno, Due e Tre Spicchi), per rimarcare il valore e le caratteristiche dei grandi maestri così come quello delle nuove leve. Qui, gli indirizzi e gli artigiani che hanno meritato questi premi nell'ultima edizione della guida.

Miglior Carta dei Vini e delle Birre: Gusto Madre - Alba

Dopo il successo di Gusto Divino a Saluzzo, Massimiliano Prete - pizzaiolo di origini salentine con un passato nella pasticceria - nel 2016 ha raddoppiato le insegne approdando ad Alba insieme al socio, chef e pasticcere Fabio Ciriaci, con la proposta di pizza a degustazione che gli ha fatto ottenere i Tre Spicchi sulla guida Pizzerie d'Italia. Un lievitista, ancor prima che pizzaiolo, che ha da poco segnato un nuovo goal con l'apertura di un terzo indirizzo a Torino. Prete è uno dei più grandi professionisti dell'impasto, un ricercatore con il pallino per le farine e le lunghe lievitazioni, che danno vita a prodotti leggeri e digeribili. Tanti gli impasti fra cui scegliere - dalla “fa croc”, una focaccia romana imbottita, alla “croccante”, passando per la “pala” - perfetti per accogliere materie prime d'eccellenza, selezionate dall'artigiano in persona. Fra tutte, è la Gusto Autentico Tonnetto a stupire per gusto ed equilibrio dei sapori, una creazione realizzata appositamente per l'insegna di Alba, una pasta senza lievito aggiunto, prodotta con il metodo dell'autolisi, condita con pomodoro S. Marzano dell'Agro Sarnese-Nocerino Dop, pomodori secchi e, in uscita, tonnetto del Mar Ionico e foglie di cappero di Pantelleria. A completare e impreziosire l'offerta, birre artigianali di vario tipo, fra cui la Pausa Caffè, prodotta dai detenuti del carcere di Saluzzo, e poi tante etichette di vino scelte da Massimiliano, che è anche sommelier e grande amante del buon bere, con un'attenzione particolare verso i vitigni locali, Barolo in primis.

 

gusto madre

Gusto Madre – Alba (CN) – via A. Diaz, 2 – 0173290915 – www.gustomadre.it

I Maestri dell'impasto: Le Follie di Romualdo – Firenze

Dopo l'esperienza al Mercato Centrale di Roma, Romualdo Rizzuti, campano di origine ma fiorentino d'adozione, è tornato in pista con un nuovo progetto nel capoluogo toscano. Si chiama Le Follie di Romualdo ed è una pizzeria con cucina legata alla tradizione campana, ma attenta alla sperimentazione e alle più moderne tecniche di cucina. Il menu è di stampo tradizionale, e sono le pizze rosse a farla da padrone, grazie a una salsa al pomodoro dal gusto unico, tra le alre la Napoli con acciughe del Cantabrico o la Marinara con i Purpetielli, che rende omaggio allo chef e amico Daniele Pescatore. Alla base di tutto, un impasto leggero di farina 0 e germe di grano sottoposto a lunga maturazione, più una piccola percentuale di lievito di birra fresco; oltre alle tonde, anche pizze fritte – imperdibili – e panuozzi d'autore e qualche piatto a comporre un menu contenuto ma di grande soddisfazione. Ad accompagnare pizze e piatti della cucina, un'ottima scelta di vini italiani e francesi, Champagne compresi. Curato fin nei dettagli anche l'ambiente: il locale nasce negli spazi dello storico Convivium, che nel 1997 dava seguito all'attività della celebre gastronomia fiorentina diventando meta di buongustai, e posto all'interno di un casale ristrutturato del Trecento, appena fuori dal centro abitato in direzione Bagno a Ripoli.

 

le follie di romualdo

Le Follie di Romualdo - Firenze - viale Europa, 4 - 0556802482 - www.lefolliediromualdo.it

I Maestri dell'impasto: Morsi & Rimorsi – Aversa

Un maestro pizzaiolo da tempo impegnato anche nell'attività di consulenza: è Gianfranco Iervolino, che riconquista i Tre Spicchi nell'edizione 2018 della nostra guida grazie alla sua dedizione, unita a tecnica e passione. Un professionista attento che esprime precisione e cura per i dettagli tanto nella base della pizza quanto nelle materie prime che la condiscono, ricercate e tipicamente mediterranee. La parte del leone qui è giocata dalla Margherita Del Vesuvio, con pomodorini del Vesuvio, mozzarella di bufala, grana padano, basilico fresco e olio extravergine di oliva. Da provare, poi, anche la pizza che porta il nome del locale, Morsi & Rimorsi, a base del classico sugo alla genovese a base di cipolle di Montoro, manzo, sedano, carote, provola di Agerola, Grana Padano DOP e basilico fresco. Non mancano impasti alternativi, come quello al nero di seppia della Rena Nera, insaporito con provola di Agerola, carciofo di Schito arrostito, datterino della foce del Sele, gambero scottato e olio extravergine di oliva. Qui, però, si viene anche per provare la montanara, il crocchettone di patate del Fucino, le bruschette condite alla perfezione e l'ottima mozzarella di bufala campana. Il tutto in abbinamento a vini di pregio e birre artigianali. Inoltre, il pizzaiolo ha creato una linea gluten free pensata per gli intolleranti al glutine che non vogliono rinunciare a una buona pizza.

 

morsi & rimorsi

Morsi & Rimorsi - Aversa (CE) - via A. Nobel - 0818113000 - www.facebook.com/MorsieRimorsiPizzeriaAversa/

I Pizzaioli Emergenti: Bontà per Tutti – Santo Stefano Belbo

Stefano Vola si inserisce perfettamente nel nuovo filone che sta sempre più prendendo piede nel settore dell'arte bianca, quello delle “pizzerie agricole”, ovvero quelle insegne che si rifanno al mondo dell'agricoltura, avvalendosi di un orto proprio e realizzando in casa la maggior parte delle materie prime necessarie per la creazione di impasto e condimento. Una tendenza nata, ancora una volta, grazie al lavoro di grandi maestri come Bonci e Pepe, e ben presto diffusasi anche fra gli artigiani più giovani. Scorrendo il menu di Bontà per Tutti si leggono i nomi di alcune delle più valide realtà piemontesi scelte per farine, carni, pomodoro, birra, mozzarella di bufala di Cuneo e tante altre specialità territoriali, ma a fornire i prodotti è prima di tutto l'orto di casa, dal quale Stefano raccoglie le materie prime per completare le sue creazioni. Diversi gli impasti disponibili in carta, da quello di Enkir - liscio e leggero - a quello alla nocciola. Naturalmente, qui il menu varia di continuo, assecondando il ritmo delle stagioni e, soprattutto, l'estro di Stefano.

 

pizza

Vola, Bontà per Tutti - Santo Stefano Belbo (CN) - 0141840626 - www.facebook.com/Bontapertutti/

I Pizzaioli Emergenti: La Contrada di Aversa

Non c'è da sorprendersi che una grande artigiana come Roberta Esposito abbia affinato negli anni una tecnica invidiabile e una cura del dettaglio unica. Figlia d'arte, cresciuta nel ristorante dei genitori e grande appassionata ed esperta di vino, la pizzaiola guida con fermezza il locale nella provincia di Caserta, proponendo pizze in stile napoletano, che non rinunciano però a variazioni del genere e sperimentazioni con le farine. Ad arricchirle, i condimenti più disparati: dai gusti classici, come la Cetarese, a base di pomodorino di Corbara, tonno, alici di Cetara, mozzarella di bufala campana, basilico e olio d'oliva, a quella con fichi, mozzarella di bufala campana, fichi al peperoncino piccante, gorgonzola di Novara, lardo di Colonnata e olio. Farine integrali e semi integrali unite a una lievitazione di almeno 48 ore danno vita, poi, a pizze ancora più fragranti e leggere, servite a spicchi come vuole la tendenza delle pizze a degustazione. Fra le specialità della casa, le Sette Margherite di Roberta, declinazioni diverse della più tradizionale delle pizze tonde (da provare Alla Contrada, con bocconcini di baccalà, olive nere, capperi di Salina IGT e pomodori verdi). Gli ingredienti sono tutti di prima scelta, fra pomodori San Marzano, gorgonzola di Novara, lardo di Colonnata e pomodoro Corbarì, per una perfetta sintesi fra prodotti locali e specialità di altre regioni. Da non perdere l'abbinamento pizza/vino, frutto della cura che la pizzaiola pone nella selezione delle etichette.

 

la contrada

La Contrada - Aversa (CE) - piazza Marconi, 14 - tel. 08 18111700 - www.lacontradaristorante.it

Migliore Pizzeria Gluten Free: Mezzometro Pizza a Senigallia - Senigallia

Al piatto e al metro – come recita l'insegna – con impasto tradizionale, al Kamut o gluten free. E se non si ha voglia di una buona pizza, si può sempre optare per i piatti della tradizione marchigiana che escono dalla cucina. Mezzometro è un indirizzo di riferimento a Senigallia, una pizzeria dove si presta la massima attenzione alla lievitazione e alla qualità dei condimenti sin da tempi non sospetti. A coadiuvare l'attività, i fratelli Coppari, che gestiscono anche un altro locale a Jesi. Il loro impasto è il risultato di un mix di farine italiane selezionate e lievitate lentamente, cotto a legna e insaporito con prodotti di alta qualità, con un occhio di riguardo alle specialità locali. Tante le pizze del menu, impossibile citarle tutte. È senza dubbio d'obbligo, però, un assaggio della Kami, con salsiccia, cipolla e origano, e poi quella con burrata e alici di Cetara con la loro colatura. A rendere popolare la pizzeria, oltre alla bontà dei prodotti, il laboratorio certificato per la lavorazione di impasti e cucina gluten free, per consentire anche ai celiaci di gustare una pizza (e anche un buon dessert) in piena serenità.

 

mezzometro

Mezzometro Pizza a Senigallia – Senigallia (AN) – lungomare L. Da Vinci, 33 – 07160578 – www.micheledaale.it

a cura di Michela Becchi

Pizzerie d’Italia del Gambero Rosso 2018 | pp 384 | euro 8,90 | La guida è acquistabile in edicola, libreria e on line

Guida Pizzerie d'Italia 2018 del Gambero Rosso. Elenco dei migliori e dei premiati

Le 6 migliori pizzerie di Caserta e dintorni

Le 10 migliori pizzerie di Firenze e dintorni

Le 5 migliori pizzerie agricole d'Italia: l'arte bianca che si ispira alla terra

Le 5 migliori pizzerie a taglio di Roma

La rivoluzione della pizza a taglio. 10 insegne da non perdere da Nord a Sud

Apre a Firenze il Piccolo Museo Bottega Antonio Mattei. La storia del Biscottificio di Prato, tra vecchie foto e visione imprenditoriale

$
0
0

Quest'anno spegne 160 candeline, e molti compleanni si rintracciano nell'album di famiglia dei fratelli Pandolfini, che oggi dirigono lo storico laboratorio dolciario di Prato. Per celebrare l'anniversario, a maggio, il Biscottificio Mattei aprirà un piccolo museo nel centro di Firenze. Ma la storia dei biscottini toscani è anche un esempio di crescita imprenditoriale maturata sul campo. 

Mattei. 160 di biscotti di Prato

Era il 29 settembre 2016. La nostra visita al Biscottificio Mattei di Prato celebrava l'emissione di un francobollo che proprio alla storica attività della famiglia Pandolfini rendeva omaggio, sancendone lo status di autentico monumento dell'arte dolciaria italiana. E infatti la storia di cui ci apprestiamo a riallacciare i fili, sulla traccia di vecchie fotografie in bianco e nero rinvenute in soffitta e lungimiranti progetti che fanno di un'epopea familiare un riuscito esempio di crescita imprenditoriale, arretra nel tempo fino al 1858, quando la ricetta del fragrante biscottino di Prato con le mandorle fu battezzata da Antonio Mattei. Nel 1904 la famiglia Pandolfini subentrava alla guida del biscottificio: un'esperienza destinata a durare nel tempo, oggi saldamente in mano alla terza generazione, mentre la quarta già si affaccia a interpretare dinamiche di gestione che senza retorica potremmo definire familiari, per la natura stessa dell'evoluzione aziendale degli ultimi decenni. Quest'anno il Biscottificio si appresta a festeggiare un anniversario importante, il 160esimo dalla fondazione del laboratorio. E per farlo approderà a Firenze con un progetto del cuore, un museo-bottega che proprio al valore delle relazioni familiari fa appello per dare autenticità all'esordio su un palcoscenico importante.

Una storia di famiglia

Del resto l'azienda ha sempre vissuto degli umori e delle attitudini di chi l'ha respirata sin da bambino, pure quando si è trattato di affrontare un passaggio di consegne decisamente fuori programma: “Quando sono subentrata alla guida dell'azienda con i miei fratelli avevo appena 19 anni, sognavo di fare l'ostetrica. E sapevo muovermi ben poco in questo mondo, come tutti noi”. Il ricordo di Betta Pandolfini, che con Francesco, Marcella e Letizia oggi dirige il Biscottificio non potrebbe essere più vivido. All'epoca lo zio che guidava l'attività veniva improvvisamente a mancare, portando con sé i trucchi del mestiere e l'esperienza di una vita in azienda: “Ci sentivamo impreparati, ognuno con le sue velleità. Ho cominciato da autodidatta, dallo scocciare le uova a fare fatture. Veniva a mancare una guida, e l'emergenza del momento ci ha fatto rimboccare le maniche”. Un ingresso in punta di piedi, con qualche anno di assestamento necessario prima di riuscire a riprendere in mano le redini: “Pian piano hanno cominciato a delinearsi i talenti di ognuno, essere in quattro è insieme la nostra forza e il nostro limite, dobbiamo passare per il confronto, che può diventare scontro. Ma il fatto di avere interessi e attitudini complementari è stato fondamentale per costruire la nostra esperienza sul campo: di sicuro in passato abbiamo anche perso delle opportunità, ma fortificando un buon metodo, con tanta gavetta”.

 

Dagli esordi alla costruzione di un metodo

Francesco, per esempio, sin da giovane è stato il creativo della famiglia, “dipingeva, aveva un'indole un po' naive”. Ma non c'è voluto molto per riscoprire in se stesso un piglio ben più concreto: “Oggi si occupa da vicino di ogni aspetto della produzione, la gestione delle materie prime, i macchinari, le ricette di famiglia che sono la nostra linfa”. Betta, invece, ha finito per appassionarsi alla comunicazione, mentre Marcella tiene le fila dell'amministrazione. Poi c'è la piccola di casa, Letizia, “è entrata in azienda quando aveva già 30 anni, dopo aver concluso il suo percorso di studi di storia dell'arte. E infatti è lei a gestire la ricerca in Archivio Storico e tutti i progetti di ricerca filologica di un passato familiare che corre lungo tutto il secolo scorso”. Perché di fatto il punto di forza del Biscottificio Mattei, oggi, è la capacità di intrecciare questa storia sentimentale con una visione imprenditoriale ambiziosa, riuscendo a mantenersi in equilibrio tra istanze raramente in grado di procedere all'unisono: nel 2017 il fatturato dell'azienda, che oggi somma il lavoro di 23 persone, è cresciuto del 20%, rafforzando il proprio posizionamento nella nicchia dell'alta gamma dei prodotti dolciari, specie in Italia, “mentre l'estero pesa il 20% del totale. Abbiamo iniziato un anno e mezzo fa, siamo in 15 paesi tramite piccoli importatori, dobbiamo ancora crescere, ma non abbiamo fretta e sappiamo che la nostra forza viene dal nostro territorio: una grande fetta del nostro fatturato arriva ancora dalle vendite in negozio”. Ma come sempre si procede per tentativi ed errori, senza la presunzione di essere arrivati: “Il dubbio è fondamentale, crediamo nel valore dell'elasticità, abbiamo grande potenziale da esplorare nella struttura attuale. I principali investimenti degli ultimi anni hanno puntato proprio su questo: macchinari e logistica da un lato, comunicazione dall'altro”. Mentre di elasticità di visione fa ampio sfoggio Betta quando affronta un tema altrettanto importante: “Quante volte ci siamo interrogati sulla natura di Mattei? Moltissime. E spesso ci siamo trovati a un bivio: da 15 anni a questa parte scommettiamo sul dettaglio specializzato, e certo al momento non abbiamo in programma di entrare in Gdo. Ma la risposta non può essere la stessa di 10 anni fa: il mercato è cambiato, per assecondare i modi di consumo. Per continuare a fare la poesia bisogna essere supportati da bei numeri, c'è un limite strutturale nell'essere nicchia. E allora è bene interrogarsi sempre, studiare nuove soluzioni, restare vivi”.

Comunicare il valore

Per esempio lanciando un nuovo biscotto, quello con pistacchi e mandorle, nel sacchetto verde, battezzato l'estate scorsa. E chi segue la storia del Biscottificio - che deve la sua fama al mitico sacchetto blu che custodisce la ricetta originale - sa quanto Mattei abbia sempre meditato a lungo prima di sfornare nuove idee. E sempre con un criterio, come nel caso del biscotto della Salute, la fetta biscottata “inventata” a partire da un pan brioche che per 50 anni è circolato in laboratorio, prima di partorire la soluzione: “Perché non farne una base per proporre un prodotto di uso quotidiano come la fetta biscottata?”.

Ora, invece, è al vaglio una nuova ricetta, “ma solo perché ci siamo innamorati delle nocciole del Piemonte Igp, che potrebbero diventare la base per una nuova proposta”. In parallelo procede la ricerca grafica che ispira nuovi packaging e latte dal gusto new retrò, come la tin box che omaggia l'Art Noveau, disegnata da Simone Massoni. A sistematizzare il restyling grafico, per contribuire a canalizzare tutta la comunicazione aziendale e rafforzare il brand, ha contribuito la collaborazione con Neolab, studio di grafica fiorentino con cui immediata è scattata la sinergia: “Ci seguono da un paio d'anni, prima provvedevamo in famiglia. Ora il messaggio che mandiamo all'esterno è coerente, abbiamo capito l'importanza di comunicare”.

 

Il museo – bottega a Firenze

Tanto che Neolab sarà parte attiva nel progetto di realizzazione del Piccolo Museo Bottega Antonio Mattei, che vedrà la luce il 2 maggio prossimo in via Porta Rossa 76 a Firenze. A ripensare lo spazio – due piccoli ambienti di circa 25 metri quadri ciascuno – sta lavorando l'architetto Carlo Achilli: l'allestimento sommerà somministrazione e vendita e percorso museale. E i significati che si addensano sul progetto sono anch'essi strettamente riconducibili all'album di famiglia: “In pochi sanno che nel 1925 mio nonno Ernesto aprì un negozio a Firenze, in via Tosini. Ma fece l'errore di affidarlo a suo fratello Alberto: abbiamo ritrovato una lettera del '27, in cui lo prega di chiudere l'attività per la sua gestione troppo superficiale”. È solo uno dei documenti che scandiranno la visita al museo, a partire dalle lettere tra nonno Ernesto e la zia Italia, che all'inizio del Novecento acquistò il biscottificio di Prato: “Siamo molto emozionati, è stata un'occasione per riscoprire la nostra storia, insieme, noi fratelli, in soffitta a cercare tra le foto e le carte. Mia mamma ha 86 anni, non le sembrava vero vederci così”.

In parallelo è andata avanti la ricerca iconografica, con la collaborazione degli Archivi Alinari: “Abbiamo selezionato vedute storiche di Prato e Firenze, e bellissimi scatti di inizio Novecento che rappresentano i nostri ingredienti: una gallina, la raccolta dei pinoli, mandorli in fiore in Sicilia, uno scatto dello stabilimento Eridania”. Al centro della stanza un tavolo tondo di famiglia, intorno 12 pannelli che scandiscono la storia, dal 1858 a oggi. All'ingresso, però, i visitatori saranno accolti nella bottega: un display che proietta il processo produttivo e la storia del laboratorio, gli scaffali per la vendita al dettaglio di biscotti e gadget (dalle vecchie cartoline al portachiavi biscottino), la proposta di somministrazione, i biscotti Mattei, il vin santo di Antinori, le miscele della Via del tè, il caffè Padovani. “Ma non sarà una caffetteria, non dev'essere il focus del museo”, ribadisce Betta, che si dice pure sicura del fatto che l'arrivo di Mattei a Firenze sarà una bella opportunità per la città di Prato, nonostante la leggendaria rivalità tra campanili toscani non abbia risparmiato polemiche: “Ci hanno accusato di andare a servire il denaro. Io non vorrei contare i confini tra l'Italia e il mondo, figurarsi tra due città del nostro territorio. Il biscottificio è Prato, siamo grati alla nostra città, e andiamo a raccontare la sua storia. Chi visiterà il museo probabilmente avrà voglia di visitare il laboratorio, arriverà in città, stimolerà l'indotto turistico”. Di nuovo, cuore e spirito pratico che si sostengono l'un l'altro. Il leit motiv di una bella storia di imprenditoria italiana.

 

a cura di Livia Montagnoli

Il Rum è Servito 2018. Due cene con Ron Zacapa: a Firenze da Gurdulù, a Valsamoggia all'agriturismo Mastrosasso

$
0
0

Seconda e terza tappa per l'edizione 2018 della rassegna Il Rum è Servito, che il 22 marzo arriva a Firenze per scoprire il menu ideato da Gabriele Andreoni, chef di Gurdulù; il 23, invece, a Valsamoggia, con la cucina di Irina Steccanella. L'obiettivo non cambia: valorizzare la cultura del rum attraverso una proposta di cucina originale e moderna. I menu. 

È appena ripartito, e già entra nel vivo, il tour di Ron Zacapa tra i ristoranti d'Italia che hanno accettato la sfida proposta da Il Rum è Servito: ideare un menu che valorizzi, dall'antipasto al dolce, i profumi e le sfumature del rum guatemalteco, proposto nelle tre varianti della gamma Zacapa (Ron Zacapa 23 – gusto morbido e sentori di frutta tropicale e vaniglia – Ron Zacapa 23 Etiqueta Negra – più intenso, con note di cioccolato e spezie – Ron Zacapa XO – aroma di tabacco, caramello e cannella). A mettersi in gioco, nel corso delle 11 tappe in programma per l'edizione di primavera 2018 organizzata in collaborazione con Gambero Rosso, sono altrettante insegne selezionate dalla guida Ristoranti d'Italia 2018, in rappresentanza dell'originalità e della modernità in cucina. Il filo conduttore delle serate, invece, è ispirato dalla filosofia di Ron Zacapa, che invita a godere i piaceri della vita riservandosi il tempo per assaporare The Art of Slow, motto che accompagna la rassegna da diverse edizioni.

 


La cena da Gurdulù

Il 22 marzo il tour fa tappa a Firenze, per sperimentare la cucina di Gabriele Andreoni, chef di Gurdulù, a pochi passi da piazza Santo Spirito. Insoliti e creativi gli accostamenti proposti per la serata, che raccontano di una cucina contemporanea tra le più interessanti in città, che fa largo uso del territorio come di suggestioni (e prodotti) incrociati altrove. Quattro le portate in menu:

 

Foie gras, lenticchie, cioccolato e mela verde

Zacapa gran reserva 23

 

Risotto capesante caffè e pistacchi

Zacapa gran reserva Edicion negra

 

Cervo, scorzonera, tabacco e nocciole

Zacapa gran reserva Edicion negra

 

Spuma calda di gianduia, brownie gelato al caffè e arancia rossa

Zacapa gran reserva especial X.O.

 

La cena si prenota direttamente ai recapiti del ristorante
Gurdulù – Firenze – via delle Caldaie, 12/14r – 055282223 – www.gurdulu.com
Il prezzo della cena è di Euro 55,00

 

 


La cena all'agriturismo Mastrosasso

Il 23 marzo, invece, Ron Zacapa si rimette in viaggio alla volta di Valsamoggia (Bologna) per approdare all'Agriturismo Mastrosasso. Ad attendere gli ospiti della serata, Irina Steccanella, con la sua cucina corroborante e ispirata alle tradizioni del territorio emiliano:

 

Verza patate e olio affumicato 

Zacapa Gran Reserva  23

 

Tortelloni Parmigiano e Pepe   

Zacapa Gran Reserva 23

 

Pancia di vitello e liquirizia      

Zacapa gran reserva Edicion Negra

 

Tenerina al cioccolato fondente 

Zacapa gran reserva especial X.O.

 

 

La cena si prenota direttamente ai recapiti del ristorante.
Agriturismo Mastrosasso – Valsamoggia (BO) – fraz Savigno, via Scardazzo, 292 – 0516708552 – www.mastrosasso.it
Il prezzo della cena è di Euro 50,00

 

Scopri il calendario completo delle cene previste

 

Svezia: il nuovo locale del Fäviken Magasinet aperto da mattina a sera

$
0
0

Bakery e caffè al mattino, ristorante la sera, cocktail bar fino a notte fonda. Magnus Nilsson, lo chef alla guida del ristorante svedese Fäviken Magasinet, si amplia e crea un nuovo spazio polifunzionale adatto a tutte le ore del giorno.

Magnus Nilsson

Al Fäviken Magasinet, ristorante immerso nella natura più selvaggia di Järpen, piccola località della Svezia centro-settentrionale, sono i boschi più remoti con i loro frutti prelibati a dare vita al menu complesso e intrigante, costantemente soggetto al susseguirsi delle stagioni. Il giovane chef Magnus Nilsson rifornisce la cucina con quella che chiama “la sua dispensa”. Ovvero un terreno di  10mila ettari composto di boschi, laghi e prati. Qui raccoglie radici, germogli, va a caccia e trova quasi tutto ciò di cui ha bisogno per creare i suoi piatti, reinventando la cucina locale. Gli unici ingredienti che compra al di fuori della regione Jämtland sono zucchero, sale, vino, caffè e farina. Le verdure, le radici e le carni provengono dal territorio circostante, e vengono conservate con nuove e vecchie metodologie - e molto più a lungo del normale – per ottenere un gusto fuori dal comune.

 

Il percorso

La strada per arrivare a Fäviken, però, non è stata lineare. Dopo essersi diplomato alla scuola di cucina e dopo qualche anno di lavoro nei ristoranti di Stoccolma, lo chef decide di cercare fortuna in Francia. Curriculum alla mano, appena ventenne fa il giro dei più importanti ristoranti di Parigi, fino ad approdare a L’Astrance, alla corte di Pascal Barbot, dove rimane per tre anni, prima di tornare in Svezia, dove studia per diventare sommelier. È proprio come sommelier che inizialmente viene assunto a Fäviken Magasinet, prima di tornare nuovamente ai fornelli nel 2008, anno che segna l'inizio della saga avvincente di questo ristorante, uno dei più interessanti del panorama gastronomico europeo contemporaneo (la sua storia è tutta in una puntata monografica della serie televisiva Chef's Table disponibile su Netflix).

 

I nuovi punti

Due, infatti, sono i motivi che spingono viaggiatori di tutti il mondo a dirigersi verso la sperduta Åre: sport invernali o una cena di livello al Fäviken. Da qualche tempo a questa parte, poi, è possibile gustare piatti d'autore anche nel ristorante Uvisan, nel cocktail bar Svarktlubb o nel caffè con forno Krus, tre anime diverse convergenti, tutte coordinate da Magnus, che ora si destreggia con un'offerta dinamica e di più ampio respiro, mantenendo sempre la sua cifra stilistica ben definita e profondamente legata a doppio filo con la sua terra. “Tanti clienti volevano rimanere ad Åre una notte in più e ci chiedevano consigli per andare a mangiare, bere, fare colazione”, racconta lo chef. “Così abbiamo pensato di ampliarci e offrire noi al pubblico altre proposte”. Magnus li chiama pop-up, ma in realtà il bar e la bakery sono permanenti, mentre il concept per la cena cambierà a seconda delle stagioni. “In questo modo, do anche la possibilità ai miei sous chef talentuosi di assumersi maggiori responsabilità, evolversi e diventare più creativi”.

Ristorante e cocktail bar

Foglie di shiso glassate, chawanmushi, granchio reale con salsa di nocciole tostate, gyoza ripieni di carne di vacca da latte, brodo di mirin e soia con verdure, funghi e carne di alce, udon fatti a mano: queste e molte altre le prelibatezz disponibili da Uvisan. A creare le ricette, riprendendo i grandi classici della cucina di casa nipponica, Uvis Janicenko, chef lettone che ha trascorso due anni in Giappone prima di entrare a far parte del team Fäviken. È lui a coadiuvare il lavoro ai fornelli nel nuovo locale che porta il suo nome (Uvisan deriva dall'unione di Uvis e il suffisso onorifico giapponese -san). “Mi piace adattare i sapori giapponesi agli ingredienti locali. La cucina giapponese è pura, dai sapori netti e puliti, che sono quelli che preferisco”. Dopo cena, però, dalla cucina si passa ai cocktail: in particolare, sono i drink a base di gin con “forest tonic”, la tonica della foresta accompagnata da fjallfil, latte fermentato, a fare la parte del leone, portando nel bicchiere tutto il gusto dei vicini boschi grazie al talento del bartender HampusThunhol.

La colazione

La mattina, invece, l'insegna diventa panetteria e caffè, con lieviti allo zafferanno, pane in cassetta a lievitazione naturale, biscotti allo zenzero firmati Helena Bjernekul, fornaia del Fäviken.Ma anche specialità salate come salumi (quelli della macelleria di Nilsson in persona nella vicina cittadina di Undersåker), uova alla coque e yogurt fatto in casa. Un locale polifunzionale a tutti gli effetti, dunque, che cambia pelle da mattina a sera, per rispondere alle esigenze della clientela ma anche per dare la possibilità alla squadra del Fäviken di crescere: “Abbiamo tante persone ambiziose che lavorano con noi, ma nel ristorante non c'è sempre spazio per le loro tante idee. E questo è uno spreco”. O meglio, lo era. Perché ora per la piccola località isolata nella natura svedese è tempo di una nuova era. Fatta ancora di sport, passeggiate per i sentieri e cene d'autore. Ma anche colazioni, pause caffè, cocktail, aperitivi.

 

 

favikenmagasinet.se/

www.svartklubbare.se/

www.krusare.se/krus

 

a cura di Michela Becchi

a cura di Michela Becchi


Barbecue all’italiana, una tecnica antica che conquista chef e ristoranti

$
0
0

Diffusosi prima in America, il barbecue negli ultimi anni è esploso anche da noi. Permette diverse modalità di utilizzo ed è adatto per ogni tipo di preparazione. Tanto che si cominciano a ridurre le dimensioni per far sì che possa essere usato anche nelle cucine dei ristoranti.

 

Griglia e barbecue non sono la stessa cosa

In primissima analisi, occorre sgomberare il campo da un persistente equivoco. Griglia e barbecue non sono affatto la stessa cosa. Con la prima tecnica designiamo un sistema di cottura utilizzato per la prima volta forse un milione e settecentomila anni fa. Scoperto il fuoco, l’homo erectus non avrebbe tardato molto a intuire i benefici della carne abbrustolita dalla fiamma vivace e diretta. E il barbecue? È nato molto dopo. L’etimo risale a barbacoa, un vocabolo che gli scherani di Cristoforo Colombo avrebbero ascoltato per la prima volta nei Caraibi nel 1492. L’avrebbero pronunciata gli indio Taino, padroni dell’isola attualmente divisa tra Haiti e Repubblica Dominicana. Chiamavano così la graticola di legno su cui cuocevano alimenti ricoperti da foglie. È lo stratagemma antenato del barbecue di concezione moderna, che oggi consiste precisamente in “due semisfere di metallo che danno origine a una camera di cottura chiusa ma ventilata, all’interno della quale sono cotti lentamente alimenti utilizzando la brace o la fonte di calore ai lati”, recita l’introduzione di Barbecue Surprise, un manuale cult edito da Magi&Co e pubblicato dall’Accademia dei Signori del Barbecue nel maggio 2016.

La raffinatezza del barbecue

Le espressioni su cui concentrarsi per capire la raffinatezza superiore del barbecue sono dunque due: “camera chiusa” e “cottura ai lati”. “La presenza di un coperchio – ci spiega Gianni Guizzardi, fondatore dell’Accademia – non serve, come si pensa ingenuamente, a proteggere dalla pioggia, ma a dominare la temperatura, a controllare la quantità d’aria all’interno del braciere e a mantenere un grado di umidità ideale. Sono fattori che, a parità di temperatura, garantiscono una cottura più rapida e migliore”. Una bistecca cotta al barbecue è pronta in 7/8 minuti; in una griglia servono 12/15 minuti: “La prima sarà croccante fuori e morbida dentro; la seconda avrà maggior crosta, ma al cuore risulterà più cruda”. La cottura ai lati, o indiretta, è invece “perfetta per cucinare cibi interi, che richiedono preparazioni oltre i 25/30 minuti, tipo ariste, arrosti, pesci, polli e tacchini. E parti grasse tipo costine o pancetta”. Come il roner, meglio del roner: “È più sano perché disperde i grassi drenati dalla carne e hai la carne cotta bene col surplus della caramellizzazione esterna”. Naturalmente il barbecue non esclude la cottura atavica veloce, diretta, raccomandata per dar senso a cibi sottili, a fette, spiedini o filetti di pesce. Ma la cottura indiretta è il virus che innesca la febbre dei bbq-maniac di Tennessee, Missouri, Texas e North Carolina, il quadrilatero americano in cui la tecnica è divampata. Un’ecpirosi che sta rapidamente infiammando l’Italia. Perfino l’alta cucina italiana.

Il barbecue - disegno di Marcello Crescenzi

Il barbecue nell'alta cucina

Il barbecue – ci spiega il Igles Corelli, un cuoco che maneggia spazzole e pinze dai tempi del leggendario Trigabolo di Argenta e che da qualche settimana è a capo delle Scuole del Gambero Rosso – ha un valore immenso, soprattutto per i catering e i banchetti. È una cucina viaggiante che consente di fare grandi numeri e ottenere splendidi risultati. Il bello delle cotture indirette è che il grasso cola, ma non sulle braci: costolette e salsicce si sgrassano senza prendere fuoco. Quelle dirette hanno il vantaggio che puoi cucinare rapidamente grandi piatti come il mio Germano ripieno di castagne, avvolto nella rete di maiale”. Ma non di sola carne vive l’uomo: “Se le fai ai ferri, zucchine e melanzane si assottigliano e vengono sempre mezze bruciate– spiega Igles, da poco chef alle Mercerie di Roma – se invece le immergi in acqua gasata e poi le cuoci, prima in indiretta e poi in diretta, vengono dieci volte meglio. Le patate, invece, le metti nel cartoccio e dopo un’ora sono pronte e strabilianti”.

Il bello del barbecue all’italiana – sottolinea Guizzardi – è che noi non abbiamo necessità di mettere troppe salse perché in America hanno 3/4 razze di manzo; noi una ventina. A noi basta la biodiversità animale, non abbiamo bisogno di aggiungere sapori forti”. C’è da dire che tra le due semi-sfere, i nostri chef infilano di tutto: pane, pizza, biscotti salati, pelli, pesci.Insomma, nessun genere alimentare è precluso al bbq, persino i dessert e la frutta.

 

a cura di Gabriele Zanatta

disegni di Marcello Crescenzi

 

QUESTO È NULLA...

Nel numero di marzo del Gambero Rosso, un'edizione rinnovata in questi giorni in edicola, trovate tutto sul barbecue (è proprio la copertina del numero!), compreso un focus su come lo utilizzano i migliori chef d'Italia, da Massimiliano Alajmo Massimo Bottura, da Giuseppe Iannotti a Roberto Petza, e ancora Massimiliano Poggi, Aurora Mazzucchelli (Marconi, Sasso Marconi), Alessandro Negrini (Aimo e Nadia, Milano), Marco Stabile (Ora d’Aria sempre, Firenze) o Floriano Pellegrino (Bros', Lecce). Un servizio di 12 pagine che include una mappa dei cuochi che in Italia lo utilizzano, i consigli dei più grandi macellai italiani, le diverse tecniche di cottura. E ancora: il glossarietto da tener presente se ci si vuole avvicinare a questo tipo di cottura, uno sguardo verso l'estero, con i comunicatori e i profili Instagram più importanti e seguiti del settore, e le considerazioni dei guru del barbecue, come Gianfranco Lo Cascio, Marco Agostini, Michele Ruschioni e Steven Raichlen, in onda in questi giorni su Gambero Rosso Channel con il programma Steven Raichlen Grills Italy. È proprio il caso di dire: c'è tanta carne al fuoco.

 

Il numero lo potete trovare in edicola o in versione digitale, su App Store o Play Store

Abbonamento qui

 

 

 

Cucina di casa nelle Marche. Ricette di: Olive ascolane, Pollo in potacchio e Calcioni

$
0
0

Come per quasi tutte le regioni italiane, anche per le Marche, più che di cucina si dovrebbe parlare di cucine perché questa regione così varia, con campagna e colline ma anche mare, regala tante specialità diverse. Noi, però, abbiamo selezionato tre ricette di terra: olive ascolane, pollo in potacchio e calcioni (perfetti per la Pasqua in arrivo).

 

Quella marchigiana è una cucina che risente tuttora di una civiltà che è stata prevalentemente contadina. Il passaggio a un’economia industriale ha cambiato relativamente poco anche il paesaggio, specie quello dell’entroterra: dolci colline, piccole valli percorse dai fiumi, vigneti, oliveti e campi di grano. Fra i primi piatti trionfano le paste, quelle fatte in casa con uova e farina: tagliatelle larghe, maccheroncini sottili come un filo, lasagne imbottite di ragù, regaglie e parmigiano. E le zuppe, di verdure, di ceci e di fagioli, insaporite con il battuto di lardo. I piatti di carne sono per lo più a base di animali da cortile: pollo, coniglio, piccione, faraona, quasi sempre farciti perché l’imbottitura è una delle caratteristiche della cucina dei marchigiani che riescono a imbottire anche le olive facendone il piatto simbolo della regione. Come per quasi tutte le regioni italiane, anche per le Marche, più che di cucina si dovrebbe parlare di cucine perché la regione non è solo campagna e colline ma anche mare e quindi pesce freschissimo, ingrediente indispensabile per la zuppa che (pure) qui si chiama brodetto. Anche sul versante dolce domina l'opulenza, pensiamo per esempio alla crema fritta o ai calcioni, dolci tipici di Pasqua.

Olive ascolane

Inutile girarci intorno, la generosa terra marchigiana rimanda in pochi istanti alle fantastiche palline fritte, da gustare ancora calde, una dopo l'altra. Le olive all'ascolana, quelle vere, preparate secondo ricetta e tradizione, sono fatte con la Tenera Ascolana Dop, farcita con un misto di carni arrostite e poi tritate, impastate con uovo, parmigiano grattugiato e noce moscata. Le migliori che si possano provare sono quelle che preparano le brave cuoche di casa, curando le famose pallette in ogni piccolo particolare, dalla scelta delle carni, a cui è possibile aggiungere anche qualche salume, all'olio di frittura (alcune usano l'olio d'oliva).

Ingredienti per 50 olive

50 olive verdi in salamoia (ideale la varietà Tenera Ascolana Dop)

150 g di polpa di manzo ricavata dalla noce

100 g di polpa di maiale

25 g di petto di pollo

1 uovo

1/2 cipolla

1/2 carota

1/2 costa di sedano

50 g di parmigiano

15 g di burro

1 cucchiaio d’olio extravergine d’oliva

1/4 bicchiere di vino bianco secco

Noce moscata

Sale e pepe q.b

Per la frittura

1 uovo

Farina

Pangrattato

Olio per friggere

Scaldare olio e burro in una casseruola e far rosolare dolcemente le carni (manzo, maiale e pollo) con sedano, carota e cipolla tritati. Insaporire con sale, pepe e, quando tutto avrà preso colore, sfumare con il vino. Coprire e proseguire la cottura per circa mezz’ora aggiungendo un mestolino d’acqua calda se necessario. A fine cottura, ritirare la casseruola dal fuoco e quando le carni si saranno raffreddate, passarle al tritacarne lasciandole cadere nel fondo di cottura. Unire l'uovo e il parmigiano grattugiato e lavorare bene il composto fino ad averlo liscio e omogeneo. Usando un coltellino molto sottile e affilato, snocciolare le olive, ricavando dalla polpa una spirale. Per evitare di romperle, occorre far scorrere lentamente il coltello tenendolo sempre ben aderente al nocciolo. L’operazione richiede tempo, pazienza e una certa dimestichezza; si può però usare lo snocciolatore meccanico e quando l’oliva sarà vuota, praticarvi un taglio verticale da una sola parte. Riempire abbondantemente le olive con la farcia premendola bene e cercando di mantenere la forma originale. Passare le olive prima nella farina poi nell’uovo sbattuto e infine nel pangrattato. L’impanatura deve risultare uniforme e ben aderente. Friggere le olive per 3-4 minuti in abbondante olio ben caldo fino ad averle ben dorate quindi scolarle e passarle su un doppio foglio di carta da cucina. Farle leggermente intiepidire prima di servirle.

 

Pollo in potacchio, ricetta tipica delle Marche

Pollo in potacchio

Il potacchio è una preparazione tipica della cucina marchigiana che prevede pomodoro, aglio e rosmarino. Si preparano così anche il coniglio, l'agnello, la coda di rospo o lo stoccafisso.

Ingredienti

1 giovane pollo ruspante del peso di circa 1 kg

100 g di passata di pomodoro (in estate, 200 g di pomodori maturi passati)

1/2 bicchiere di vino bianco secco

1 cipolla

2 spicchi d'aglio

3 cucchiai d'olio extravergine d'oliva

Rosmarino

Peperoncino

Ripulite il pollo dalle pennette, fiammeggiatelo (per eliminare eventuali residui di penne) e dividetelo in ottavi. Scaldate l'olio in un tegame e fate appassire dolcemente la cipolla tritata, gli spicchi d'aglio schiacciati, il peperoncino spezzettato e le foglioline di un rametto di rosmarino. Prima che la cipolla prenda colore, mettete nel tegame i pezzi di pollo, salate e fateli rosolare a fiamma vivace girandoli spesso, fino a quando avranno preso una doratura uniforme. Unite la passata, coprite e proseguite la cottura a fuoco moderato per circa tre quarti d'ora, bagnando ogni tanto con un goccio di vino. Abbassate la fiamma, coprite e proseguite la cottura a fuoco dolce fino a quando il pollo sarà cotto e il sugo giustamente ristretto. Servite ben caldo.

 

Calcioni. foto di www.provincia.mc.it

foto di www.provincia.mc.it

Calcioni

Dal caratteristico sapore un po' dolce e un po' salato, i calcioni sono un dolce tipico del periodo di Pasqua, anche se in alcuni paesi delle Marche vengono preparati durante tutto l'anno. Il loro nome sembra derivi da uno degli ingredienti caratterizzanti, il cacio, anche se in alcune zone vengono fatti con la ricotta, mentre in altre si presentano senza zucchero. Insomma, come spesso accade, non esiste un'unica ricetta. Qui la nostra versione.

Ingredienti per la pasta

400 g circa di farina

4 uova

50 g di zucchero

30 g di strutto

1/2 limone

Sale q.b.

Per il ripieno (da preparare la sera prima)

250 g di pecorino fresco

250 g di pecorino stagionato

150 g di zucchero

4 uova

1 grosso limone

1 uovo per dorare

Preparazione: 1 ora + il riposo.
Per il ripieno, grattugiate i due formaggi dentro una ciotola. Unitevi lo zucchero, le uova intere, la scorza grattugiata del limone e il succo e amalgamate con cura. Sigillate la ciotola con la pellicola trasparente e lasciate riposare il composto in frigorifero per tutta la notte.
Per la pasta, rompete le uova in una terrina e unitevi lo zucchero, la scorza grattugiata e il succo di limone, lo strutto fuso e un bel pizzico di sale. Sbattete gli ingredienti con la forchetta e amalgamateli con la farina (il peso indicato è solo indicativi: se necessario, aumentate o diminuite la quantità). Rovesciate l’impasto sulla spianatoia e lavoratelo fino ad averlo liscio ed elastico. Raccoglietelo a palla, chiudetelo dentro la pellicola trasparente e fate riposare per almeno mezz’ora. Trascorso questo tempo, stendete la pasta in sfoglie sottili, con il mattarello o con la macchinetta e ritagliate dei dischi di circa 10 cm di diametro. Ponete al centro di ogni disco un mucchietto di ripieno delle dimensioni di una noce. Pennellate il bordo dei dischi con poca acqua e piegateli a metà premendo bene tutto intorno per saldare la pasta. Otterrete così tante mezze lune che disporrete, una vicina all’altra, in una placca foderata con la carta da forno. Spennellate i calcioni con il tuorlo diluito con un cucchiaio di acqua fredda e infine, con delle forbici appuntite e ben affilate, praticate due taglietti incrociati sulla sommità. Infornateli a 180° C e lasciateli cuocere per circa mezz’ora. Serviteli tiepidi o freddi.

 

Cucina di casa in Veneto. Ricette: Sarde in saor, Risi e bisi e Baccalà alla vicentina

Cucina di casa in Piemonte. Ricette: Vitello tonnato, Agnolotti del plin e Brasato al Barolo

Cucina di casa in Sicilia. Ricette: Panelle, Pasta alla norma e Calamari alla messinese

Cucina di casa a Roma. Ricetta di: Supplì, Spaghetti alla carbonara, Coda alla vaccinara

Cucina di casa in Emilia-Romagna. Ricette di: Cappellacci di zucca, Cotoletta alla bolognese e Torta degli addobbi

Cucina di casa in Lombardia. Ricette di: Risotto alla pilota, Ossobuco alla milanese e Tortaparadiso

Cucina di casa in Liguria. Ricette di: Pesto alla genovese, Bagnun e Baccalà in zimino

Cucina di casa in Toscana. Ricette di tre zuppe: Carabaccia, Garmugia e Cacciucco

Cucina di casa in Puglia. Ricette di: Cozze arraganate, Tiella di riso patate e cozze, Dentice alla pugliese e Taralli

Cucina di casa in Sardegna. Ricette di: Minestra di fregula con arselle, Pane frattau e Sebadas

Cucina di casa in Campania. Ricette di: Pasta cresciuta alle acciughe, Minestra di pasta e patate e Genovese

Cucina di casa in Trentino-Alto Adige. Ricette di: Canederli, Zuppa al vino e Strudel di mele

Cucina di casa in Friuli-Venezia Giulia. Ricette di: Frico con le patate, Gnocchi di susine e Gulasch

Cucina di casa in Umbria. Ricette di: Brustengo di patate e verze, Salsicce con l'uva e Ciaramicola

 

Storie di riso italiano. Dalla nuova etichetta alla riscoperta del Gigante di Vercelli. All'appello australiano

$
0
0

Prostrato negli ultimi anni dalla concorrenza agguerrita e a basso costo del riso extracomunitario, il comparto risicolo italiano corre ai ripari. Approvata l'indicazione obbligatoria d'origine in etichetta, è al vaglio il decreto per favorire la tracciabilità varietale. E intanto due belle storie sollevano il morale: la riscoperta del Gigante di Vercelli e l'appello dell'Australia. A Sydney e Melbourne vogliono riso italiano. 

Tutelare il made in Italy. L'etichetta d'origine per il riso

È passato un mese dall'entrata in vigore degli obblighi di indicazione d'origine in etichetta della materia prima di riso e pasta. Un traguardo a lungo auspicato, da leggere nel solco dei provvedimenti a tutela del consumatore e del prodotto made in Italy nel mondo dispiegati di recente  dal Governo italiano. E se di pasta e grani italiani si è fatto un gran parlare, il riso, cugino nobile del cereale più consumato nel nostro Paese, ha finito per scontare la celebrità della sua compare. Eppure l'ultimo anno del comparto risicolo italiano, la cui qualità è universalmente riconosciuta nel mondo (in Europa, l'Italia è primo produttore per quantità e varietà, con 1,50 milioni di tonnellate su un territorio di quasi 235mila ettari, metà dei quali in Piemonte, coltivato da circa 4mila aziende)  non è stato affatto semplice: nel 2017 il costo di un chilo di riso a scaffale è rimasto pressoché inalterato (circa 3 euro in media), mentre i prezzi riconosciuti agli agricoltori crollavano, fino al -58% per l’Arborio al - 57 % per il Carnaroli, dal -41 % per il Roma al -37% per il Vialone Nano. Questo soprattutto per la concorrenza delle importazioni in arrivo dal Sud Est Asiatico, di cui l'introduzione dell'indicazione d'origine in etichetta ora dovrà rendere conto, distinguendo tra "Paese di coltivazione del riso", "Paese di lavorazione" e "Paese di confezionamento".

 

La concorrenza aggressiva del Sud Est Asiatico

Alla fine di febbraio, la Fiera in Campo di Vercelli, tra le più importanti manifestazioni di settore per la filiera risicola nazionale, sottolineava la situazione critica determinata dai prezzi aggressivi dei Paesi extracomunitari: significativo il titolo dell'appuntamento d'apertura, Risicoltura sotto scacco. Sul banco degli imputati dati non certo incoraggianti: oltre 130 tonnellate di riso lavorato e semilavorato arrivato dall'estero tra settembre 2017 e gennaio 2018, di cui quasi 100mila provenienti dalla Cambogia, e l'impennata del riso birmano, con oltre 32mila tonnellate entrate in Italia nel periodo considerato (+50% rispetto al dato precedente). Per giunta risone di scarsa qualità, coltivato con largo impiego di concimi e insetticidi vietati in Italia da anni. La nuova etichetta, però dovrebbe garantire un po' di respiro, mentre, per regimentare con più serietà il settore, si attende la firma dei ministri delle politiche agricole e dello sviluppo economico sul decreto sul riso classico, in via di approvazione per normalizzare la denominazione del riso sul mercato interno. Nello specifico, il provvedimento conterrà due articoli per indicare le condizioni di utilizzo dell'indicazione “classico” e i criteri di tracciabilità varietale. E intanto, dall'Italia e dal mondo, arrivano belle storie che sollevano il morale di categoria.

 

A Vercelli Rinasce il Gigante

Cominciando da Vercelli, terra di risaie antichissime, dove l'azienda Gli Aironi ha da poco recuperato un'antica varietà di riso del territorio, il Gigante Vercelli, istituita nel 1946 da Giovanni Roncarolo a partire da un incrocio artificiale di 10 anni prima, tra Lady Wright e Vialone. Dopo il boom del Dopoguerra, la varietà fu abbandonata per le esigenze del mercato, in favore di varietà più gestibili e produttive. Ma negli ultimi due anni tre aziende del vercellese hanno condotto una ricerca accurata per il recupero del riso Gigante, che ben si presta alla preparazioni di risotti “dato il buon rilascio di amido e la notevole capacità di assorbimento dei condimenti”, fino a concretizzarne il rilancio sul mercato. Al pronti, via il Gigante di Vercelli si presenta già insignito del sigillo di Presidio Slow Food (secondo nella provincia), e farà il suo debutto in società il 18 marzo a Torino, da Edit con i Costardi Bros (chi meglio dei fratelli del riso d'autore?). Una conferma di quanto ricerca, innovazione tecnologica e rispetto della terra (banditi i prodotti fungicidi) possano aiutare la riscoperta di prodotti che fanno la forza culturale ed economica di un territorio.

L'Australia vuole il riso italiano

Dall'Australia, invece, fa il giro del mondo un nuovo motivo d'orgoglio (e di sollievo) per il comparto risicolo nazionale: “Cercasi riso italiano, nero e di altissima qualità per i migliori ristoranti di Sydney e Melbourne” recita l'annuncio dell'Italian Trade Agency di Sydney divulgato tra i risicoltori italiani dall'Ente Nazionale Risi. L'appello dell'ente italiano in Australia intercetta a sua volta la richiesta di un operatore locale, Euro Pantry, in cerca di fornitori di qualità di riso nero. Con una specifica, che sia italiano, a garanzia di serietà e alta qualità per i clienti serviti, ambiziose insegne di ristorazione di Sydney e Melbourne. Mentre è impegnata a difendersi dall'attacco del riso straniero a basso costo, infatti, l'Italia si conferma grande esportatore, con quasi 80mila tonnellate di export negli ultimi sei mesi, e un dato in crescita costante. Nel computo, anche le molteplici varietà di riso nero made in Italy: Venere, Artemide, Nerone, Gioiello. Proprio quelli che l'Australia aspetta a braccia aperte.

 

a cura di Livia Montagnoli

Ancora pasta a New York. A Brooklyn apre Terre e il progetto è tutto italiano. E da Los Angeles arriva Evan Funke

$
0
0

Dietro Terre c’è la passione per i prodotti della terra e la valorizzazione del made in Italy di Alessandro Trezza e sua moglie Monia, già alla guida della premiata gelateria L’Albero dei Gelati di Seregno. Ora ci provano a Brookyn, con un progetto concentrato su pasta e vini naturali, proposti al calice. Ma in città la pasta mania attira anche i grandi nomi. Come Evan Funke, guru della pasta della trattoria Felix, a Los Angeles. Anche lui ha studiato in Italia.

Evan Funke. Chi è il guru della pasta americano

Felix è il miglior motivo per non eliminare i carboidrati dalla propria dieta. Titolava così, qualche mese fa, il sito The Thrillist, a proposito della cucina losangelina di Evan Funke, da molti ribattezzato il guru della pasta. Funke è americano, ma da molti anni coltiva la passione per il cibo italiano: nel suo passato l’esperienza da Bucato, e diversi viaggi in Italia. Due anni trascorsi a scoprire i segreti delle massaie italiane, per alimentare la cucina di Felix, che non a caso è riuscito a mettere tutti d’accordo già pochi mesi dopo il debutto, raccogliendo riconoscimenti e attestati di stima pressoché univoci. Anche per merito di quella pasta stesa a mano che di recente ha candidato Evan Funke ai James Beard Awards 2018. Se nelle intenzioni Felix si presenta come trattoria, è indubbiamente la pasta la regina del menu, e lo chef californiano, finora ha dimostrato di saperci fare: la farina arriva direttamente dall’Italia, subito dopo la molitura; tutta la lavorazione procede a vista, nel laboratorio ricavato in sala, un cubo di vetro dove è bandito qualunque genere di macchinario (lo slogan della casa parla chiaro, #Fuckyourpastamachine). 12 sono i formati proposti, tutti rispettosi dell’identità tricolore: ci sono i tonnarelli cacio e pepe e le trofie col pesto, le orecchiette con la salsiccia e i rigatoni all’amatriciana.

Felix arriva a New York?

La notizia dell’ultima ora è che presto l’insegna di Funke potrebbe raddoppiare a New York, dove peraltro sarebbe in buona compagnia di tante attività che di recente hanno deciso di scommettere sulla carta vincente del cibo made in Italy. Specie sulla pasta. Casi celebri si contano in tutta la città, dal polo all’italiana di Danny Meyer (tra i primi a scommettere a New York sull’esportazione della moderna trattoria tricolore) a Missy Robbins e David Chang, tutti alle prese con interpretazioni più o meno pedisseque della cucina di casa nostra. Funke, dunque, arriverebbe a New York grazie alla collaborazione con il gruppo canadese Gusto 54, senza escludere lo sviluppo di un format ideato appositamente per l’arrivo in città, sul modello di un ristorante fast casual, come Mark Ladner ha fatto con Pasta Flyer. Ancora nessuna certezza sulla data di apertura, che comunque non dovrebbe essere così lontana, e con molta probabilità porterà Funke a New York entro il 2018.

Terre. Pasta & Natural Wines

Chi invece non ha voluto perdere tempo, e cavalcare l’onda di una mania che al momento non sembra destinata a esaurirsi (ma con ben altre intenzioni, che presiedono a un progetto di vita dedicato alla valorizzazione del prodotto e di chi lo produce)  sono Alessandro Trezza e sua moglie Monia, che molti in Italia conoscono per il gelato di fattoria de L’Albero dei Gelati di Seregno (Tre Coni sulla guida Gelaterie d’Italia del Gambero Rosso). 5 anni fa sono arrivati a New York, e in città hanno aperto una gelateria, sul modello dell'Albero dei gelati. Poi è arrivata l'enoteca, e ora l’impresa si ingrandisce, con il debutto di Terre (plurale, come le due terre che segnano questa storia, l'Italia delle origini e il Paese che si è dimostrato tanto accogliente), sottotitolo Pasta & Natural Wines. L'obiettivo? Superare uno stereotipo che è ancora duro a morire, fare cultura del cibo ( e del vino naturale), ma senza spocchia. E valorizzando i produttori locali che lavorano con qualità, in un emblematico gemellaggio Italia/New York. L’insegna ha esordito a Brooklyn solo qualche giorno fa, l’ambiente è intimo e ricorda un’enoteca italiana, con tanto legno e bottiglie a scaffale sull’intera parete; la cucina propone pasta homemade (con le farine del progetto Greenmarket Regional Grains Project) secondo le ricette della tradizione italiana – dai fusilli fatti a mano con bottarga alla pasta al forno, dalla pasta e fagioli ai ravioli salsiccia e porcini, e tra le paste secche, Gentile, paccheri all’amatriciana e bucatini tre pecorini e pepe - e una carta dei vini che già vanta più di 100 referenze naturali, servite al calice (in sala il sommelier Daniele Tassi), anche in abbinamento alla selezione di formaggi e salumi italiani, con mostarda di Cremona. Ma si può cominciare anche con una degustazione di olio extravergine italiano, crostini con prodotti made in Italy - dal carciofo violetto al balsamico di Acetaia San Giacomo – o un assaggio di burrata e prosciutto di Parma. Non manca, chiaramente, il gelato della casa, che si prefigge di conquistare New York. Si apre solo a cena, con formula brunch il sabato e la domenica.

Felix – Los Angeles – Venice - prossima apertura New York – www.felixla.com

Terre Pasta & Natural Wines – New York, Brooklyn – 341, 5th avenue - www.terrebk.com

Live Wine 2018. Successo per il Salone Internazionale del Vino Artigianale

$
0
0

C’è sempre più interesse attorno alle manifestazioni dedicate al vino “artigianale”. Gli appassionati sembrano riscoprire e apprezzare il lavoro dei piccoli vigneron e il legame diretto e schietto dei loro vini con il territorio. Una tendenza confermata anche dal successo dell’ultima edizione di Live Wine, tenutasi a Milano dal 3 al 5 marzo.

 

Live Wine: i numeri dell'edizione 2018

Oltre 4mila visitatori hanno partecipato con entusiasmo alla tre giorni milanese di Live Wine; ben 165 gli espositori presenti al Palazzo del Ghiaccio di via Piranesi, che hanno offerto in degustazione oltre 900 vini. La presenza di produttori di altri paesi europei ha raggiunto quest’anno la quota del 25%, con cantine provenienti da: Austria, Francia, Spagna, Slovenia, Grecia e Repubblica Ceca.

Il vino artigianale

Ma cosa si intende con l'espressione “vino artigianale”? La definizione, per quanto vaga, sottintende un approccio al lavoro in vigna orientato al biologico o al biodinamico e più in generale al concetto di tutela dell’ambiente naturale. In cantina si utilizzano tecniche di vinificazione rispettose della materia prima per cercare di esaltare le caratteristiche varietali dell’uva e del terroir. Un vino artigianale nasce senza troppe mediazioni tecnologiche, lontano dalla ricerca di un gusto mainsteam, che rischia spesso di scivolare verso una deriva di pericolosa standardizzazione. I vini presenti al Live Wine cercano quindi di rappresentare la continuità rispetto alle antiche tradizioni del luogo di provenienza, interpretate secondo i più moderni criteri legati al mondo bio: uve vendemmiate manualmente, vietato l’utilizzo di prodotti chimici di sintesi in vigna. Il lavoro in cantina segue i processi di vinificazione naturali, senza utilizzo di additivi, eccetto basse dosi di anidride solforosa. Un’idea di vino che vuole portare in primo piano i concetti di originalità e varietà.

Il ruolo dell'Italia

In questa prospettiva, l’Italia gioca un ruolo di primo piano, con un patrimonio ampelografico tra i più ricchi al mondo. Una biodiversità da preservare, come vera espressione della storia e della tradizione di ogni singolo territorio. Mettere in luce e far conoscere le caratteristiche peculiari dei vitigni autoctoni significa anche allargare il nostro orizzonte sensoriale. Ogni vino ha una sua personalità, profumi e aromi originali, a volte insoliti e sorprendenti. Sono calici che regalano un’esperienza unica, frutto del particolare connubio tra vitigno, suolo, microclima e personalità del produttore. Live Wine è anche l’occasione per incontrare e scambiare impressioni con chi il vino lo fa veramente, in prima persona. È questo uno degli aspetti più interessanti della manifestazione, il contatto diretto tra piccoli produttori e appassionati, lo scambio d’impressioni e sensazioni davanti a un calice, che riafferma così la sua antica vocazione conviviale.

Live wine 2018 a Milano

I 10 migliori assaggi

Anche quest’anno molti gli assaggi interessanti, con la piacevole conferma di un livello qualitativo in continua crescita. Vini non solo buoni, ma anche dotati di una personalità, di un’anima. Abbiamo approfittato della presenza di molti produttori stranieri per allargare un po’ i confini del gusto, senza però trascurare qualche buon assaggio nostrano.

Cava Reserva Particular Brut Nature '07 Recaredo

Nasce dalle vigne coltivate nel Penedés, a sud di Barcellona quest’etichetta prodotta da uno dei grandi nomi del Cava. Un Metodo Classico dal carattere profondo e complesso, affinato sui lieviti per 10 anni con tappo in sughero, per favorire la naturale evoluzione del vino. Una cuvée di xarel-lo e macabeo dal sorso intenso ed elegante, tutta giocata sulle note mature di scorza d’agrume candita, frutta secca e sfumature tostate.

Grüner Veltliner Maulbeerpark '14 Fritz Salomon-Gut Oberstockstall

Dall’Austria un Grüner Veltliner di grande tipicità, prodotto con fermentazione spontanea e affinamento per circa 2 anni in acciaio sulle fecce fini. Il bouquet è ricco e intenso, con note agrumate, di frutta gialla e ananas, sfumature mielate e chiusura su ricordi di pepe bianco.

Ribolla Gialla '13 Damijan Podversic

Damijan Podversic coltiva le sue vigne alle pendici del Monte Calvario, a pochi chilometri da Gorizia. La sua Ribolla Gialla nasce da una macerazione sulle bucce in tini di rovere, seguita da un affinamento in grandi botti per circa due anni. La grande maturità e ricchezza dell’uva regala un vino profondo, con profumi di fiori di campo, erbe officinali, aromi d’agrumi e frutta gialla, su un sottofondo di raffinati toni balsamici. Succoso e fresco, seduce il palato con la sua eleganza armoniosa e la sua nitida vena minerale.

Zibibbo Integer '16 De Bartoli

Nasce dalle vigne coltivate ad alberello in Contrada Bukkuram, sull’isola di Pantelleria, questo zibibbo di grande personalità. Alla fermentazione spontanea sulle bucce in botti usate e anfore di terracotta aperte, fa seguito l’affinamento per circa un anno sulle fecce fini. Il vino è imbottigliato non filtrato, né stabilizzato e senza aggiunta di solforosa. Un calice dal colore dorato, che esprime aromi maturi d’agrume confit, frutta gialla, sensazioni iodate e pietrose.

Angel '15 Batič

In terra slovena, a pochi chilometri da Gorizia, Miha Batič produce bianchi interessanti e originali, utilizzando molti vitigni autoctoni locali. La cuvée bianca Angel è composta da: pinela (40%), chardonnay (20%), malvazija (20%), rebula (10%), laški rizling (7%), zelen (2%), vitovska (1%). Un vino che affascina per sfaccettata complessità, con profumi floreali, aromi fruttati, note esotiche, sentori di erbe aromatiche e spezie. Il sorso è ricco e armonioso, sostenuto da viva freschezza e piacevole chiusura sapida.

Jakot '14 Dario Princic

Una delle più belle interpretazioni del friulano o jakot che dir si voglia, che nasce a due passi da Oslavia. Macerazione sulle bucce per qualche settimana, affinamento in botte per più di 2 anni e imbottigliamento senza filtrazione. Un vino emozionante, che esprime note di erbe aromatiche, scorza di mandarino, frutta gialla, pepe bianco e zenzero. Profondità e freschezza trovano perfetta armonia al palato.

Contrada Barbabecchi '16 Frank Cornelissen

Tra le vinificazioni delle singole parcelle proposte da Frank Cornelissen, ci ha conquistato il nerello mascalese della Contrada Barbabecchi. Una vigna di vecchie viti coltivata a oltre 900 metri d’altitudine, che regala un rosso elegante, austero e profondo. Agli aromi di piccoli frutti rossi, unisce sentori di sottobosco, erbe aromatiche, radice di liquirizia e spezie.

Corbière Cuvée Jacques '12 Domaine Dernacueillette

Il Domaine Dernacueillette si trova nella zona di Hautes Corbières a circa 600 metri d’altitudine, su terreni di scisti, argilla e calcare. Una classica cuvée territoriale di syrah (65%), carignan (25%) e grenache (10%), che spicca per raffinati profumi floreali, fragranti aromi di ribes, frutti di bosco e spezie. Sorso fresco ed elegante, teso e balsamico.

Cannonau di Sardegna Mamuthone '15 Giuseppe Sedilesu

Tra i vini di Giuseppe Sedilesu, il Mamuthone è il più tipico e quello che meglio esprime l’immediatezza varietale del cannonau di Mamoiada. La maturazione di 12 mesi in botte grande conserva un frutto succoso e la delicatezza della spezia, con bell’equilibrio tra tannini e acidità.

Cuna '15 Podere Santa Felicita

Chiudiamo con un Pinot Noir che nasce nel Casentino, a oltre 500 metri sul livello del mare, con lo sguardo rivolto alla Francia. Una piccola vigna ispirata alla Borgogna, con una densità di 10.000 piante per ettaro, che affondano le radici in terreni di matrice argillo-calcarea. Il vino ha un profilo fresco con note di lampone, ribes e fragoline di bosco, su sottofondo di delicate spezie ed erbe aromatiche.

 

www.livewine.it

 

a cura di Alessio Turazza 

 

Viewing all 5335 articles
Browse latest View live