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Le nove scodelle di Agie a Milano. Dalla ravioleria di Paolo Sarpi al ristorante della cucina fermentata

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Nuovo progetto per l’ideatore della mitica ravioleria di Paolo Sarpi, che ora apre in zona Loreto una trattoria cinese che ricorda la cucina di casa del Sichuan. E in cantina cura personalmente le sue verdure fermentate. Mentre già guarda al prossimo obiettivo. 

Il valore del nove

Vado a mangiare nove, in Cina significa che ci si prepara a un gran banchetto, quello delle cerimonie importanti. Il nove era il numero fortunato dell’imperatore, simbolo del potere proibito al popolo, eccezion fatta per le nove scodelle cerimoniali: “Non potevi avere nemmeno una camicia con nove bottoni”, ci racconta Agie (il genio) della Ravioleria Sarpi, pronto a superare se stesso con una nuova sfida gastronomica, fedele alle sue passioni per la ricerca alle origini del cibo e fedele al suo stile artigianale ma visionario, nel realizzare progetti culturali ‘commestibili’. L’idea per Le nove scodelle nasce lo scorso novembre, collocazione insolita in zona Loreto: “Abbiamo rilevato il ristorante di mia cugina. Facevo sempre tappa qui per un saluto al rientro da lavoro, viale Monza mi è di strada per tornare a casa, quando una sera abbiamo saputo che stava per chiudere, ero con Wei, il mio amico e socio chef. Dopo tre giorni è partito il progetto. Loreto è una zona in cui la cucina cinese è molto diffusa, abbiamo fatto una breve indagine su come si mangia in giro, abbiamo assaggiato, curiosato e infine deciso che volevamo provarci noi, portare a Milano la vera cucina dell’entroterra cinese, non quella ‘da ristorante’, ma la cucina di casa, quella che si mangia in famiglia”.

Dalla Cina a Milano

Il mese di dicembre è stato dedicato all’esplorazione sul campo, Wei è rimasto un mese in più a studiare le tecniche di preparazione: “Sono partito per il Sichuan, tra villaggi e montagne a sperimentare di persona ogni ricetta, ogni piatto, sulla base dei miei contatti, del passaparola, a casa di parenti e amici di amici, chiedevo le ricette delle mamme e delle nonne. Ormai da circa vent’anni, anche in Cina non è facile ritrovare ingredienti puri e metodi non industrializzati nella preparazione del cibo. Le tradizioni gastronomiche cinesi richiedono tempi lunghi, anche giorni per la preparazione di un piatto, e nessun ristorante è più interessato a sostenere i processi elaborati delle lunghe fermentazioni in cucina”. Le nove scodelle, invece, dimostra come sia possibile riprodurre il valore (e il sapore) della lentezza e della pazienza che ci vuole a costruire il piatto giusto. “Al rientro dal viaggio insieme a Wei abbiamo cominciato a provare una per una le ricette. Siamo arrivati a ripetere un piatto anche 30 volte, per assicurarci che garantisse lo stesso equilibrio ogni volta. In origine c’erano 14 piatti a rotazione in menu, poi abbiamo limato ancora per portarli a nove. Mentre noi sperimentavamo in cucina, fuori si lavorava per allestire il locale. Tutto è fatto con poco, come una vera trattoria cinese. Niente fronzoli né colori. I piatti della cucina del Sichuan sono coloratissimi, volevamo che spiccasse il colore del cibo. Tavoli e sgabelli in legno massiccio sono tutti fatti a mano. Il tema delle lampade è il tipico cappello cinese con inciso il logo dei nove punti per nove scodelle”.

Le nove scodelle. Cosa si mangia

La cucina è quella tipica del Sichuan caratterizzata dal piccante specifico del pepe, quello che lascia in bocca un leggero e formicolante intorpidimento, poi spezie, zenzero, erba cipollina, anice stellato, erbe aromatiche, peperoncino e sapori aciduli da fermentazione in salamoia e soia fatta in casa. Nulla a che vedere con pepe nero o peperoncino, pizzica tanto e non si piange. “Il piccante è l’elemento caratterizzante della cucina nelle quattro valli formate dai due fiumi in Sichuan. È una regione ad altissima umidità, si suda tanto anche a tavola con una cucina così piccante, ma la cucina fermentata fa tanto bene, non per niente le ragazze di Sichuan sono ritenute le più belle di tutta la Cina proprio per la bellezza della pelle”.

Il pepe è l’unico ingrediente che arriva dalla Cina, in bacche verdi e profumatissime. Le verdure freschissime sono di provenienza locale a coltivazione bio dell’Agricola Bargero di Como. Pollo di San Bartolomeo e selezione carni dal tempio Walter Sirtori, partner, mentore ed esperto macellaio milanese con cui la storia gastronomica di Agie ha avuto inizio in via Paolo Sarpi. Farine delle Cascine Orsine per le paste e da bere birre artigianali di produzione locale insieme a tre (soltanto tre!) vini di qualità. “In cucina abbiamo stoccaggio minimo, gli ingredienti sono freschissimi, dalle verdure di stagione alle carni, al pesce. Ogni mese ci sono piatti nuovi. Prepariamo tutto per la consumazione giornaliera calcolata sui 42 posti in sala. In cucina oltre lo chef ci sono tre persone, presto avremo due signore, una ai wok e una alla pasta. Ci tengo molto che non siano chef, questa non è cucina gourmet da gestire con le gerarchie di grado, non richiede tecniche sofisticate, ma gesti di memoria domestica. Idem per il target di posizionamento: una cena completa costa massimo 20 euro e il locale è frequentato da una ben folta comunità di cinesi, millennials che scoprono per la prima volta cosa mangiavano i loro nonni in Cina, e meno giovani che riconoscono i sapori dell’infanzia di cui non avevano più memoria”.

Le scodelle arrivano tutte insieme a tavola perché costituiscono insieme un percorso culinario: al centro c’è la ciotola grande, generalmente il piatto forte a base di carne (manzo) o pesce (la carpa è tipica), e intorno le altre scodelle. Per il menu completo occorre essere almeno in 4 o 5 persone. Per due persone è disponibile il menu a tre ciotole o in multiplo di tre. Per ogni 3 c’è un piatto vegano, uno freddo e uno piccante.

La cucina fermentata

Ma il vero segreto de Le nove scodelle è giù in cantina, una sorta di cripta laboratorio in cui Agie custodisce la fermentazione delle verdure in salamoia. Due le salette frigorifero: una dedicata a ospitare le otri in terracotta in cui vengono immerse le verdure, l’altra dedicata al preventivo processo di essiccazione delle verdure stesse (cavolo cappuccio e affini). Agie ci mostra il processo di fermentazione in atto: i fermenti vivi sono arrivati direttamente dalla Cina, dalla cucina della nonna di una studentessa cinese residente a Milano, più o meno con la stessa religiosa dedizione con cui siamo soliti prenderci cura del lievito madre. La riproduzione della salamoia servirà a moltiplicare le otri in cui immergere le verdure, in modo da averne maggiore disponibilità in tempi più brevi. Un ciclo di fermentazione dura tre settimane, fra qualche mese le otri disponibili diventeranno almeno sei. “In Cina ogni famiglia ha il suo otre in dote e usa sempre quello, la terracotta assorbe i bacilli e crea l’ambiente adatto alla fermentazione”.

 

Verso il prossimo progetto

Agie non è un ristoratore, è un esploratore delle origini del cibo, portatore sano di imprenditorialità e innovazione. La ricerca deve appassionare prima lui, il ristorante è l’approdo finale di una visione, in cui tutto converge per realizzare un’esperienza vera, che comunica cultura. L’abbiamo imparato dai ravioli prima, dai mo e dai baozi dopo: tutto è fatto di pochi elementi, di cose autentiche che rimangono indelebili al cuore, oltre che al palato. Imperdibili il filetto di carpa in brodo aromatizzato al coriandolo, sesamo ed erba cipollina, le puntine di maiale infarinate con trito di riso tostato ed erbe, e gli spaghettoni fatti a mano, saltati con mandorle e sesamo. Agie è già pronto a realizzare il suo prossimo progetto.

 

Le nove scodelle – Milano – viale Monza, 4 – 331 8001116

 

a cura di Emilia Antonia De Vivo


Cucina di casa in Molise. Ricette di: Calcioni molisani, Pancotto con gli orapi e Baccalà con la mollica

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Territorio selvaggio e montano, vanta una duplice ricchezza di prodotti, frutto della terra, come funghi, tartufi ed erbe spontanee quasi impossibili da trovare altrove, e dell'abilità artigianale, come i prodotti lattiero caseari. La cucina non è da meno, noi abbiamo selezionato tre ricette facili da rifare a casa: calcioni, pancotto con gli orapi e baccalà con la mollica.

 

Eterna cenerentola tra le regioni italiane, spesso accomunata all’Abruzzo – da cui è separata dal 1963 – il Molise è da sempre luogo di passaggio: prima da parte di pastori e mandrie che lo attraversavano per andare in Puglia lungo i tratturi della transumanza, oggi dai turisti diretti verso le spiagge o i porti del Sud. Eppure, nonostante le difficoltà e un passato di povertà (anche gastronomica), il Molise è una meta gourmet capace di riservare molte sorprese grazie allo spirito di iniziativa e l'abilità artigianale degli abitanti. Pensiamo per esempio alla produzione di prodotti tipici, come salumi e, soprattutto, formaggi di diverse stagionature, dai caciocavalli alle scamorze, dalle trecce alle stracciate, alle ricotte. La bontà dei prodotti va di pari passo con i piatti tipici, di cui sveliamo 3 ricette facilmente replicabili a casa: calcioni, pancotto con gli orapi e baccalà con la mollica, che nel comune montano di Riccia lo si prepara in occasione della festa di San Giuseppe.

Calcioni molisani

A differenza dai calcioni delle Marche, che sono un po' dolci e un po' salati, quelli molisani fanno parte a pieno titolo dei piatti salati grazie alla presenza del prosciutto e alla totale assenza di zucchero. Noti anche come caggiuni, rappresentano la variante regionale ai classici calzoni fritti ripieni.

Ingredienti

400 g di farina

100 g di strutto

2 uova

Succo di 1 limone

Sale q.b.

Per il ripieno

300 g di ricotta

100 g di prosciutto in un'unica fetta

100 g di scamorza (o provolone)

2 tuorli

Prezzemolo

Sale e pepe q.b.

Olio per friggere

Setacciate la farina sulla spianatoia, fate la fontana e mettetevi le uova, il succo di limone, un pizzico di sale e lo strutto a fiocchetti. Lavorate la pasta fino ad averla liscia e omogenea quindi avvolgetela nella pellicola e fatela riposare per una mezz'ora: nel frattempo preparate il ripieno. Raccogliete la ricotta in una terrina con il prosciutto e il formaggio tagliati a dadini molto piccoli, una cucchiaiata di prezzemolo tritato, i tuorli, sale e pepe. Mescolate molto bene. Dividete la pasta in quattro e passate ogni pezzo alla macchinetta ottenendo quattro lunghe strisce di pasta sottili. Deponete su due strisce dei mucchietti di ripieno delle dimensioni di una piccola noce e coprite con le altre strisce. Premete bene intorno al ripieno quindi ritagliate i calcioni con una tagliapaste rotondo. Friggeteli in abbondante olio ben caldo fino a che non diventino di color oro quindi sgocciolateli e passateli su un doppio foglio di carta da cucina.

 

Orapi

Pancotto con gli orapi

Nella regione sono chiamati orapi gli spinaci selvatici (il loro nome scientifico è chenopodium bonus-henricus) che crescono spontanei nelle zone di montagna delle Alpi e degli Appennini specialmente nei luoghi dove pascolano gli animali in terreni quindi naturalmente ricchi di sali minerali.

Ingredienti

1 kg circa di orapi

300 g di pane casereccio raffermo

100 g di pancetta

2 cucchiai di olio extravergine d'oliva

1 spicchio d'aglio

Peperoncino

Sale q.b.

Mondate gli orapi e lavateli più volte. Mettete sul fuoco una pentola con acqua salata e quando si alza l'ebollizione calatevi gli orapi tagliati a pezzetti. Quando sono cotti, eliminate quasi tutta l'acqua (conservatene una tazza) e mettete nella pentola il pane spezzettato. Lasciatelo ammorbidire quindi mescolate energicamente con il cucchiaio di legno finché non diventerà un composto morbido e abbastanza omogeneo (se necessario aggiungere un po' dell'acqua di cottura). Per il condimento, scaldate l'olio in una piccola padella e fate soffriggere dolcemente lo spicchio d'aglio, il peperoncino sbriciolato e la pancetta a pezzetti. Versate tutto il contenuto della padella nella pentola con il pancotto, mescolate e fate insaporire il tutto per un paio di minuti.

 

baccalà alla molisanaFoto di www.molisiamo.it

Baccalà con la mollica

Con la mollica, ammullecate, arracanato, chiamatelo come preferite, tanto il concetto non cambia: si tratta di baccalà al forno con mollica di pane raffermo, aglio, prezzemolo, origano, uva passa e noci. Un piatto che in Molise si mangia principalmente alla Vigilia di Natale, tranne che nel comune montano di Riccia, dove lo si prepara, insieme al cavolfiore arracanato, anche in occasione della festa di San Giuseppe. La leggenda narra che un uomo vecchio e povero girava di paese in paese chiedendo ricovero, ma tutti glielo negavano. Giunto proprio a Riccia, una di queste porte finalmente si apre, e il proprietario, seppure non benestante, divise con il poveretto quel poco che aveva di ceci, fagioli e fave. Il popolo riccese non tardò a riconoscere in questo viandante il falegname di Nazareth, dando così inizio alla tradizione. Oggi si festeggia imbandendo le tavole, ma con alimenti della cucina povera. A cominciare dal pane, che si ritrova “smollicato” nei maccheroni, come ripieno nei peperoni, e ancora nel baccalà e nei cavolfiori arracanati.

Ingredienti

800 g di baccalà ammollato

100 g circa di mollica di pane casereccio (non condito)

40 g di gherigli di noce

40 g di uvetta sultanina

3 o 4 filetti di acciuga sott'olio

Olio extravergine d'oliva

1 spicchio d'aglio

Alloro

Sale

Fate ammollare l'uvetta in acqua tiepida quindi scolatela e asciugatela. Spellate il baccalà, tagliatelo a pezzi ed eliminate le spine. Sbriciolate grossolanamente la mollica e raccoglietela in una terrina con le noci sminuzzate, l'uvetta, i filetti di acciuga spezzettati, lo spicchio d'aglio tritatissimo e un pizzico di sale. Unitevi due cucchiai d'olio e amalgamate bene il composto. Ungete con un filo d'olio una teglia che contenga di misura il baccalà e disponete sul fondo qualche foglia di alloro quindi accomodatevi i pezzi di baccalà e cospargeteli con il composto di mollica. Completate con un filo d'olio e infornate il baccalà a 180°per circa 30 minuti fino a quando si sarà formata una crosticina dorata e leggermente croccante.

 

Cucina di casa in Veneto. Ricette: Sarde in saor, Risi e bisi e Baccalà alla vicentina

Cucina di casa in Piemonte. Ricette: Vitello tonnato, Agnolotti del plin e Brasato al Barolo

Cucina di casa in Sicilia. Ricette: Panelle, Pasta alla norma e Calamari alla messinese

Cucina di casa a Roma. Ricetta di: Supplì, Spaghetti alla carbonara, Coda alla vaccinara

Cucina di casa in Emilia-Romagna. Ricette di: Cappellacci di zucca, Cotoletta alla bolognese e Torta degli addobbi

Cucina di casa in Lombardia. Ricette di: Risotto alla pilota, Ossobuco alla milanese e Tortaparadiso

Cucina di casa in Liguria. Ricette di: Pesto alla genovese, Bagnun e Baccalà in zimino

Cucina di casa in Toscana. Ricette di tre zuppe: Carabaccia, Garmugia e Cacciucco

Cucina di casa in Puglia. Ricette di: Cozze arraganate, Tiella di riso patate e cozze, Dentice alla pugliese e Taralli

Cucina di casa in Sardegna. Ricette di: Minestra di fregula con arselle, Pane frattau e Sebadas

Cucina di casa in Campania. Ricette di: Pasta cresciuta alle acciughe, Minestra di pasta e patate e Genovese

Cucina di casa in Trentino-Alto Adige. Ricette di: Canederli, Zuppa al vino e Strudel di mele

Cucina di casa in Friuli-Venezia Giulia. Ricette di: Frico con le patate, Gnocchi di susine e Gulasch

Cucina di casa in Umbria. Ricette di: Brustengo di patate e verze, Salsicce con l'uva e Ciaramicola

Cucina di casa nelle Marche. Ricette di: Olive ascolane, Pollo in potacchio e Calcioni

Cucina di casa in Abruzzo. Ricette di: Scrippelle 'mbusse, Brodetto di pesce alla giuliese e Agnello cacio e uova

Pasqua 2018. Autore: le uova torronate di San Marco dei Cavoti

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Trovare uova di cioccolato di grande qualità ormai non è più impossibile. Ci pensano i grandi artigiani nostrani a produrre uova di Pasqua che non fanno rimpiangere le tavolette più raffinate. Queste, sono quelle di torronate di Autore.

 

Si avvicina la Pasqua. Alla classifica delle uova di cioccolato di alcuni dei più validi artigiani dell’oro nero, pubblicata sul mensile di marzo, al momento in edicola, aggiungiamo dei focus su aziende che escono fuori dal coro con uova particolari. Cominciamo con Autore, produttore di dolcezze al cioccolato e croccantini nel Sannio beneventano. Scopriamo le sue deliziose uova torronate.

 

antonio autoreAntonio Autore

Il nuovo che viene dal Sud

Antonio Autore è una persona del sud nel senso migliore e più attuale del termine. Un signore, come talvolta – più spesso di quanto si pensi – capita di incontrare nel nostro martoriato Mezzogiorno. Un uomo rigoroso e tutto di un pezzo, semplice, discreto e dal profilo basso per istinto e per scelta. Una classica persona dell’Italia meridionale che quando è per bene è perbenissimo. Il pensiero va a Leonardo Sciascia e a Tullio De Mauro, tanto per citare i più illustri terroni di cui l’Italia va fiera. Chi è Antonio Autore? Un produttore artigianale di dolcezze a base di cioccolato e frutta secca, torroni, barrette, croccantini, creme spalmabili e piccoli morsi di bontà fatti con cura certosina in un piccolo paese aggrappato sulle colline del Sannio beneventano, San Marco dei Cavoti, una delle patrie del torrone italiano. Se il mondo dell’artigianato alimentare è disseminato di aziende che vantano tradizioni antiche (vere e presunte), storie ultracentenarie e generazioni nell’impresa di famiglia, ereditando da padri, nonni e bisnonni gloriose attività, Antonio ha cominciato da nulla e da solo 8 anni fa, mettendosi in gioco, andando a cercare la professione fuori dalla sua San Marco, senza aspettare che gli piovesse addosso. “Qualche esperienza in gioventù nel settore dolciario, e poi dieci anni in Olanda presso una multinazionale per sviluppare le strategie di marketing e di vendita”, racconta Antonio con un accento italiano semplice e diretto che tradisce appena le origini campane. Poi il ritorno nel suo paese e alla tradizione con spirito nuovo.

crema spalmabile autoreLa crema spalmabile

Nel magico mondo di Antonio

Le aziende di torrone locali puntano su packaging e immagini tradizionali fascinosamente d’antan che richiamano le origini del celebrato bacio, o croccantino, di San Marco dei Cavoti? Lui sceglie confezioni moderne, solari e colorate in sfumate tonalità pastello, per rinnovarsi, per distinguersi e non entrare in concorrenza con storiche aziende locali, “con le quali ho un ottimo rapporto, ci rispettiamo”,sorride. E scommette sull’artista e illustratore romano Paolo Cristofoletti, che ha realizzato la cartolina a corredo delle sue confezioni di dolcezze, l’immagine del paese beneventano disegnata e colorata con la tecnica dell’acquerello, una San Marco dei Cavoti amena, fantasiosa, poetica, che richiamando il magico mondo dell’infanzia illustra la provenienza delle materie, la lavorazione dei croccantini, il viaggio in mongolfiera delle colorate confezioni verso il mondo. “Ho conosciuto Cristofoletti per caso”, dice Antonio, “in un negozio di Roma ho trovato un segnalibro disegnato da lui. Mi è piaciuto. L’ho subito cercato, gli ho inviato alcune foto e un video di San Marco. Paolo ha colto al primo colpo lo spirito della mia attività e quello che volevo: l’artigianalità, l’atmosfera del paese, la romanticità…”.

uova monogusto autoreLe uova monogusto

Il segreto delle creazioni Autore: materie prime e artigianalità

Per le uova pasquali, genere dolciario solitamente destinato ai bambini e a un consumo effimero, che dura un battito di ciglia e il fugace brivido della sorpresa, viene spesso utilizzato un cacao di mediocre qualità, un semplice forastero (non il national equadoregno, magari!). Autore, invece, punta su masse di cacao fine e aromatico provenienti dal Sud America, l’Eldorado del cioccolato, le zone mondiali con la più alta vocazione dell’oro nero di qualità, e per quanto riguarda l’Africa si affida solo al Madagascar, “il miglior cacao africano, con la bella acidità che richiama i frutti di bosco: in un cioccolato blend accompagna bene la forza del cacao, arrotonda il gusto e pulisce la bocca”, precisa.

 

croccantini autoreI croccantini

Per quasi tutte le sue creazioni Antonio ha scelto il cioccolato blend 62% di copertura (da massa selezionata, non dalla fava di cacao): per i croccantini (tradizionali, miele e uvetta, miele e fichi, gianduia, gianduia e caffè, alla menta), le barrette, le praline, i Minuti (monobocconi di croccante ai vari gusti: pistacchio, mandarino, ribes…), le creme spalmabili (alla nocciola con croccantino o con olio evo, fondente al cacao con e senza croccantino, bianca con pistacchio di Bronte) e le uova di cioccolato, che coerenti alla vocazione di San Marco dei Cavoti sono sempre “torronate”, con il cacao sposato alla frutta secca.

 

guscio al croccantino autoreIl guscio al croccantino

Anche qui nulla è lasciato al caso e non si lesina: “nocciole dell’Avellinese qualità mortarella e tonda gentile di Viterbo, mandorle di Bari, pistacchio di Bronte di Antonino Caudullo, quello vero, Dop”, sottolinea Antonio, sempre coerente alla sua passione per la verità e la trasparenza. Poi miele (di un cugino, apicoltore di terza generazione, che di cognome fa Ielardi), fichi bianchi del Cilento (di Torre di Oricchio a Torchiara), il mandarino, biologico, coltivato nel Ragusano, candito da Vestuto di Montella. Il resto è affidato alla lavorazione artigianale: lavorazione a mano con caramellizzazione dello zucchero nel paiolo, il temperaggio, la confezione. Soprattutto il croccantino, il fiore all’occhiello del parco delle dolcezze Autore, è oggetto di una cura particolarmente meticolosa, rollato a mano con un grande matterello in acciaio, e sempre a mano tagliato con un coltello circolare.

uoa autoreLe uova con la frutta secca

Le uova pasquali torronate

La particolarità delle uova pasquali Autore, dicevamo, è l’unione del cioccolato con la frutta a guscio. La varietà dell’assortimento è data dagli abbinamenti tra la tipologia di cioccolato – fondente blend 62%, al latte e bianco – e la copertura di frutta secca: granella di nocciole, di pistacchi o di croccantino di San Marco dei Cavoti. Oltre ai classici “nudi” di cioccolato fondente monorigine (Madagascar 66%, Venezuela 72%, Africa 85%). Come sorpresa, dei miniovetti di cioccolato variegato attaccati al ventre dell’uovo madre, una specie di matrioska pasquale. L’assaggio rivela la natura seria di queste uova: buon cioccolato fine e aromatico, profumato, elegante e fondente, con acidità contenuta, bell’equilibrio tra dolce e amaro, la punta calda e speziata di vaniglia naturale, frutta a guscio nobile e giovane, senza ombre stantie. Buoni i nocciolati, sia di cioccolato al latte che fondente (250 grammi, prezzo 19 euro): il primo rievoca le merende infantili, il secondo quelle adolescenziali. Precisione aromatica, solubilità e immediatezza, sensazioni calde e avvolgenti, e in quello al latte un bel sentore di latte fresco. Ma buonissimo l’uovo di cioccolato bianco ricoperto da pistacchio di Bronte Dop (150 grammi, prezzo 11,50 euro), spennellato con cioccolato appena temperato per “incollare” sul guscio la granella di frutta secca: esuberanti note di burro di cacao preciso e di ottima qualità, la leggera vaniglia naturale, l’intensa dolcezza che ti aspetti da un cioccolato bianco, gli aromi ineguagliabili di un pistacchio di alto profilo, una meravigliosa scioglievolezza e la zampa intrigante del sale (di Paceco Presidio Slow Food). Dei tre è l’uovo pasquale più goloso e il più coerente.

minuti autoreI minuti

Le dolcezze Autore sono buone due volte: chi acquista i Minuti aiuta a sostenere la CBM (Christian Blind Mission), organizzazione umanitaria internazionale impegnata nella prevenzione e cura della cecità e disabilità nei Paesi del Sud del mondo.

Distribuzione nel canale specializzato: enoteche, botteghe gourmet, Rinascente ed Eataly.

 

Autore - San Marco dei Cavoti (BN) - via Baviera, 34 - 0824984749https://autorechocolate.com/it/

 

a cura di Mara Nocilla

 

Salumi da Re 2018. Tutto sulla salumeria all’Antica Corte Pallavicina, dal ruolo del pizzicagnolo a quello della ristorazione

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L’appuntamento con la quinta edizione è dal 7 al 9 aprile. Continuiamo a scoprire gli argomenti che saranno affrontati alla Corte dei fratelli Spigaroli, a Polesine Parmense, tra momenti di confronto e le immancabili degustazioni. 


Manca sempre meno alla quinta edizione di Salumi da Re, che come ogni anno sarà occasione di approfondimento, assaggi e confronti dedicati all’arte della norcineria italiana. Programma e protagonisti della tre giorni - all’Antica Corte Pallavicina dei fratelli Spigaroli, a Polesine Parmense (frazione di Polesine Zibello), dal 7 al 9 aprile - ve li abbiamo in parte anticipati qui, per poi raccontarvi nell’intervista della nostra Mara Nocilla il rapporto tra l’istrionico Fulvio Pierangelini e i salumi, che lo chef approfondirà durante la manifestazione di cui sarà ospite d’eccezione.

La rivalutazione del pizzicagnolo

Andiamo dunque, più nel dettaglio, alla scoperta di alcuni dei temi che affronteremo sul Gran Palco del Maiale. Oltre all’importanza della materia prima e al grasso in tutte le sue sfumature (i due argomenti clou), si parlerà ad esempio della rivalutazione del pizzicagnolo, attorno a cui ruoterà l’appuntamento previsto per domenica 8 dalle ore 15. A sviscerare la questione sarà con noi Guido Porrati di ParlaComeMangi, una bottega pura, vecchio stile e allo stesso tempo evolutissima, a Rapallo. Insomma, una di quelle che hanno scelto di non diventare contemporaneamente gastronomia, che punta a essere un luogo in cui il momento dell’acquisto sappia trasformarsi in un rito, un’interazione che arricchisce i suoi protagonisti. Ma prima bisogna fare un passo indietro e capire come sia stata sminuita quella che un tempo era la figura chiave della filiera norcina. “La grande distribuzione ha fatto andare in crisi il pizzicagnolo, che non ha saputo portare rispetto alla sua professione”, sottolinea Porrati, “c’è una netta differenza tra il salumiere e il banconiere: il primo deve fare ricerca, conoscere i prodotti e sceglierli per un motivo preciso, mentre il secondo ha smesso di selezionare perché ciò che deve vendere è già stabilito”. Come se non bastasse, negli ultimi anni abbiamo assistito a un ulteriore passaggio: “Persino il ruolo del banconiere è stato svilito, dato che sono sempre di più le persone che preferiscono orientarsi sui salumi preaffettati, confezionati nelle vaschette”.

Il valore della comunicazione

Come andare oltre e provare a restituire al pizzicagnolo il suo ruolo ideale, vale a dire quello di anello di congiunzione tra il produttore e il cliente finale? “Prima di tutto dobbiamo spogliarci di quel velo di fighetteria che va spesso per la maggiore, puntando non a essere gourmet ma giustamente popolari e fruibili”, rimarca Porrati, “solo così possiamo accompagnare degnamente chi ci sceglie, alimentandone la curiosità e facendone evolvere il gusto”. Eccolo uno dei nodi centrali della questione: il valore della comunicazione, la capacità di raccontare e trasmettere il proprio sapere. Un sapere da aggiornare di continuo, patrimonio di chi la materia prima la studia concedendosi ogni volta il piacere di una nuova scoperta.

L’importanza di analisi sensoriale e formazione

Non a caso, un altro degli incontri in programma per l’8 aprile (dalle ore 18) si intitola “Degustare i salumi: analisi sensoriale e formazione”. A fare la differenza è l’esperienza, l’occhio allenato che – solo per fare qualche esempio – sa valutare la marezzatura del grasso e capire se il budello impiegato sia naturale o meno. Inoltre non dimenticate che “il normale tempo di ossidazione dei salumi è abbastanza breve: se dopo il taglio le fette restano troppo accese e vivaci, allora è molto probabile che questo sia dovuto alla presenza di conservanti”, conclude Porrati.

Salumi e ristorazione, oltre il classico tagliere

Si rivela fondamentale, di conseguenza, la fase formativa, che in realtà dovrebbe essere trasversale, coinvolgendo non solo il pizzicagnolo ma tutti gli attori che entrano in scena, dall’artigiano al giornalista gastronomico. Senza dimenticare, chiaramente, il cuoco: “Salumi e ristorazione: quali, quando e come proporli in cucina” è infatti ciò di cui si parlerà sul Gran Palco del Maiale domenica 8 dalle ore 16. A tavola, l’immaginario collettivo tende a relegare la norcineria tra i confini dell’antipasto, sul classico tagliere in compagnia di crostini e formaggi. In verità, ai fornelli i salumi possono rivelarsi una risorsa per l’intero pasto: ci sono realtà regionali che tradizionalmente li rendono protagonisti del ripieno di paste fresche - in Emilia, dunque, si gioca in casa - oppure dei secondi (basti pensare a quelli da pentola come cotechino, zampone e salama da sugo). Senza dimenticare il fronte dolce, che in varie zone d’Italia prevede l’impiego del grasso animale per la preparazione di impasti e frolle, oltre che per la frittura.

Tra le mani (creative) degli chef

Ma provando a superare l’eredità di casa e delle nonne, cosa accade se tali prelibatezze arrivano tra le mani di chef creativi e capaci di osare? Che ci sorprendono, per gli abbinamenti arditi e gli inaspettati equilibri creati. Pierangelini, come abbiamo visto, ha saputo combinare i salumi al pesce, come nel caso delle capesante ripiene di mortadella e dei ravioli di mariola con gli scampi. Ulteriori suggestioni ce le ha fornite Massimo Spigaroli, al comando del ristorante gourmet dell’Antica Corte Pallavicina (Due Forchette nella nostra guida Ristoranti d’Italia): “è interessante l’accostamento con una componente acida, data magari dalla frutta esotica o dal pane: quest’ultimo potreste scottarlo a dadini assieme al lardo o alla pancetta, per poi aggiungere del radicchio”, ci rivela Spigaroli. E come usare con originalità il culatello, punta di diamante della produzione di famiglia (chiaramente si tratta di quello di Zibello Dop)? “Nel caso di prodotti così preziosi e dal gusto leggero, l’importante è non manipolarli troppo”, sottolinea, “quindi delle rosette di culatello si sposano benissimo con gamberi crudi, conditi solo con olio e pepe; recentemente ho invece realizzato la mia versione del risotto alla Verdi, a base di verdure primaverili e prosciutto, inserito già dall’inizio della cottura: la mia modifica è stata proprio quella di impreziosire il risotto, solo dopo la mantecatura, con delle fettine di culatello, la cui aromaticità è stata così esaltata – e non distrutta – dal calore emanato dal piatto”.


Salumi da Re - Antica Corte Pallavicina, Polesine Zibello (PR) - dal 7 al 9 aprile 2018 - www.salumidare.it

 

a cura di Agnese Fioretti

 

Gualtiero Marchesi The Great Italian. Il film in uscita nelle sale italiane per ricordare il Maestro

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Il 20 e 21 marzo in molte sale italiane sarà proiettato il film sulla vita e la carriera di Gualtiero Marchesi, una produzione italo-americana che oggi, a pochi mesi dalla scomparsa del Maestro, e nel giorno del suo compleanno, assume un significato particolare. Ma le iniziative per celebrarne il ricordo non finiscono qui.19 marzo 2018. 

 

Il ricordo di Marchesi

Oggi Gualtiero Marchesi avrebbe compiuto 88 anni. Il nostro ricordo, e quello di chi l'ha conosciuto come maestro, mentore o compagno d'avventura, è online da questa mattina, per ribadire che il ricordo del Maestro che tanto ha dato alla cucina italiana non morirà mai. Ma il cartellone di iniziative promosso dalla Fondazione Marchesi, che d'ora in avanti si preoccuperà di custodire e divulgare gli insegnamenti del cuoco scomparso alla fine del 2017, si protrarrà ben più a lungo di questo 19 marzo così significativo, il primo votato al ricordo. A suggellare l'omaggio, il film The Great Italian, sulla vita e la carriera di Gualtiero Marchesi, presentato a Cannes in anteprima assoluta la primavera scorsa, quando sulla passerella de La Croisette sfilavano accanto al Maestro alcuni tra i suoi allievi più devoti, Davide Oldani, Carlo Cracco, Andrea Berton.

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The Great Italian. Il film

Prodotto da Food & Media International e distribuito da Twelve Entertainment, il docufilm diretto da Maurizio Gigola (80 minuti, con la colonna sonora di Giovanni Sollima) è stato realizzato grazie al sostegno di Cantine Ferrari, Illy, Parmigiano Reggiano e San Pellegrino, in rappresentanza del made in Italy che fa sistema per valorizzare l'eccellenza italiana. E il 20 e 21 marzo, proprio nell'anno del Cibo Italiano che Maurizio Martina (ormai ex ministro alle Politiche Agricole) ha voluto dedicare a Marchesi, sarà proiettato in molte sale italiane. Sul grande schermo scorreranno così i ricordi di una vita tra le città care a Marchesi, da Milano a Trieste, passando per Firenze, i piatti iconici del cuoco che ha tenuto alta la bandiera di un mestiere che oggi fa tendenza (e non sempre è stato così), ma pochi conoscono davvero lontano dai riflettori. E poi tanti cuochi come lui, cresciuti con e accanto a lui, che alle riprese hanno partecipato ricordando il passato e celebrando il presente della ristorazione. Tra le voci coinvolte anche quelle di Giorgio Pinchiorri, Arrigo Cipriani, Carlo Petrini. Il prossimo autunno il film arriverà anche all'estero, a settembre in giro per l'Europa, poi a ottobre in Nord America, per chiudere il tour in Asia, nel mese di novembre.

Le iniziative per ricordare il Maestro

Intanto, in via eccezionale, quest'anno la Giornata Mondiale delle Cucine Italiane (Idic) sarà celebrata nel giorno di nascita di Gualtiero Marchesi, il 19 marzo: la giornata, da undici anni a questa parte, fa appello alla partecipazione dei cuochi italiani nel mondo per ribadire la necessità di proteggere l'autentica cucina tricolore dalle contraffazioni che affliggono i piatti della nostra tradizione. E per l'occasione ristoratori e cuochi di tutto il mondo che aderiscono all'iniziativa proporranno in menu un'interpretazione del piatto Insieme Armonico, ideato da Marchesi in occasione della pubblicazione del libro Amatricianae, a sostegno delle comunità terremotate del Centro Italia.

E stasera il film sarà proiettato in anteprima a Milano per gli ospiti di una serata che si concluderà con una cena di gala omaggio ai piatti storici del Maestro: Spaghetti freddi al caviale, erba cipollina; insalata di capesante, zenzero e pepe rosa; riso oro e zafferano; filetto di vitello alla Rossini secondo Gualtiero Marchesi; Sacher Marchesi.

 

La programmazione sul sito della Fondzione Gualtiero Marchesi

 

a cura di Livia Montagnoli

 

Steven Raichlen Grills Italy. Terza puntata: polpo e melanzane a Vicenza

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Steven Raichlen, mago del barbecue americano, continua a girare l'Italia alla ricerca delle ricette tipiche da rifare alla griglia. Nella terza puntata, parte alla volta di Vicenza, accompagnato dallo chef Lorenzo Cogo.

Terza tappa: Vicenza

È lo chef Lorenzo Cogo di El Coq in piazza dei Signori a Vicenza a guidare Steven Raichlen nella terza puntata di Steven Raichlen Grills Italy. Insieme, si dirigono verso il grande orto della biodiversità alle porte della città, 100orti, il progetto dell'azienda agricola guidata da Chiara Centofanti, appassionata agronoma che nella campagna peri-urbana coltiva le specie più disparate di frutta e ortaggi, tutti a regime biologico. Frutti dimenticati, verdure antiche, 300 varietà di soli pomodori compongono l'ampio panorama dell'orto. Qui, Raichlen scopre la perlina, tipologia particolare di melanzana, più stretta e lunga, dal sapore dolce e delicato. Cogo, che da tempo si rifornisce da Chiara, prende il suo cestino di melanzane e conduce Steven nella sua cucina, per mostrargli i propri metodi di cottura.

 

raichlen

La ricetta dello chef

Fra i fornelli del ristorante, trova spazio anche un forno a carbone, che lo chef utilizza per preparare le melanzane con more, lavanda e yuzu, l'agrume giapponese molto caro a Steven: “Ha un sapore unico, inconfondibile. Sono nato a Nagoya, per cui cerco sempre di utilizzare qualche ingrediente o tecnica tipica della tradizione nipponica nei miei piatti”. Protagonista insieme alle melanzane è il polpo cotto sottovuoto, mentre le more vengono affumicate con foglie di vite e carbonella. “Mi ha stupito molto il fatto che Lorenzo abbia creato una sorta di affumicatore fatto in casa. E poi non mi aspettavo di trovare un forno a carbone nella sua cucina”, racconta Steven mentre si mette in viaggio per andare a rielaborare la ricetta a modo proprio. “Mi è piaciuto il suo piatto, ma per la mia versione manterrò i due ingredienti – polpo e melanzane – separati, creando due ricette distinte”.

 

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Il polpo alla maniera di Raichlen

All'aria aperta, in piena campagna, come nella migliore tradizione del barbecue americanp, Steven accende il fuoco. “Una delle caratteristiche più belle del polpo è che non si attacca mai alla griglia”. Prima di cuocerlo, però, una marinatura in un brodo con scorza d'arancia, di limone, anice stellato e alloro, “detta court bouillon”. Ma il cuoco aggiunge anche salvia, basilico, origano, limone, peperoncino, sale, vino rosso, olio extravergine di oliva: “Altra peculiarità del polpo è la sua capacità di assorbire a pieno gli aromi senza però perdere sapore”. La griglia a gas firmata Weber, azienda leader per il barbecue made in USA, è pronto, e Raichlen pulisce le griglie, “operazione da fare ogni volta prima di cominciare a cucinare”. E ci svela un piccolo trucchetto: “Per conferire ancora più sapore ai prodotti, possiamo utilizzare un pennello di erbe aromatiche. In questo caso, prendo dei mazzetti di rosmarino e origano freschi legati insieme, taglio la parte superiore, immergo nell'olio e spennello il polpo”. In abbinamento al polpo, due teste d'aglio tagliate a metà, spennellate di olio e condite con sale grosso e pepe nero macinato fresco. Ancora una volta, un tocco di affumicato, segno distintivo di Raichlen, “con un pezzo di legno d'ulivo posto in mezzo ai bruciatori centrali”. Per ungere la griglia, invece, mezza cipolla immersa nell'olio, “tecnica imparata in Israele”. Una volta pronto, un ultimo tocco: un po' di acquavite Prime Uve scaldato in una padella posta su griglia, a condire il tutto.

Le melanzane affumicate

Dopo il pesce, è la volta delle verdure. Per la sua ricetta, Raichlen sceglie delle melanzane diverse, dal diametro più ampio e la buccia più spessa, “per quello che ho in mente, la perlina sarebbe troppo delicata”. Parola d'ordine, in questo caso, è bruciare.Per farlo, Steven utilizza una delle sue tecniche di grilling preferite, “la caveman, ovvero la cottura all'interno della ciminiera di accensione dove abbiamo messo carbone vegetale e carbonella sul fondo”. Le melanzane vengono così cotte con tutta la buccia direttamente sul fuoco, fino a che non saranno uniformemente “bruciacchiate”. Per una cottura omogenea, un'unica accortezza: “Girare continuamente le verdure”. Una volta pronte, le melanzane vengono pelate e la polpa, “morbida, ricca di aromi, dal gusto molto affumicato” viene tagliata a dadini. E utilizzata come protagonista di un'insalata con erbe fresche, limone, aceto di vino rosso, sale, pepe nero, cipollotti, aglio, peperoncino, “ormai conoscete la mia passione per il cibo piccante”, e olio extravergine di oliva. Per accompagnare l'insalata, delle piadine cotte su griglia a gas – come sempre della famiglia Weber – a temperatura medio-alta. “Quello delle melanzane affumicate è un gusto comune a molte cucine mediterranee, dal Libano alla Grecia, dall'Israele alla Turchia. Sono certo che piacerà anche agli italiani”.

Il tour a Vicenza si conclude fra sentori di erbe aromatiche e legna, ma il viaggio di Steven continua. Fra sapori e profumi tipici della Penisola, tutti cotti alla griglia. “See you next time”.

a cura di Michela Becchi

 

Steven Raichlen Grills Italy va in onda dal 5 Marzo 2018 ogni lunedì ore 21.30 su Gambero Rosso Channel, Sky 412

 

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Ortica: a Roma il concept store dedicato a piante e caffè. All'interno di Frutta Gallery

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Dall'unione di un gruppo di artisti, a Roma nasce Ortica, un concept store che coniuga arte e caffè all'interno di Frutta Gallery per i prossimi due mesi. Fra piante particolari e caffè attentamente selezionati estratti in espresso e filtro.

Arte e cibo insieme da Frutta Gallery

Gli amanti dell'arte contemporanea la conoscono già: Frutta Gallery a Trastevere, Roma, è una galleria specializzata in artisti giovani ed emergenti, che da tempo offre a professionisti italiani e stranieri la possibilità di esprimersi all'interno degli spazi di via dei Salumi. Da poche ore Frutta è anche caffetteria, o meglio concept store, un punto di incontro aperto a tutti dove il fascino delle piante meno conosciute, provenienti soprattutto da Giappone e Paesi orientali, incontra il gusto del caffè di qualità e non solo. Ortica, nuovo “locale” (?) nel cuore della città, si propone come una sorta di mostra dove poter ammirare le opere di Santo Tolone, Alek O., Gabriele De Santis, Ditte Gantriis, Isabell, Heimerdinger, Laurek Keeley, Jacopo Miliani, Alssandro Vizzini, Spring, Gundam Air e molti altri ancora, ma anche fermarsi a sorseggiare un buon caffè accompagnato da un dolce artigianale.

 

ortica

Conoscere l'arte attraverso il gusto

Un punto di congiunzione fra il mondo dell'arte e quello del cibo, due universi da sempre vicini e convergenti, che qui trovano spazio in una realtà unica, dove convivere in armonia. Perché se il panorama dell'arte contemporanea a Roma fa fatica a trovare seguaci ed espandere il proprio pubblico di riferimento, altrettanto non si può dire per quello gastronomico, che continua invece a raccogliere sempre più il favore dei romani e non solo. E così, dopo tanti esperimenti di bar e ristoranti nei musei, pensati per offrire un'immagine più aperta e dinamica della struttura, sul modello di altre grandi capitali europee e del mondo, ora è tempo per ristoranti, caffetterie e bar di ospitare le opere artistiche. Un'operazione al contrario pensata per catturare l'attenzione del pubblico: “Il linguaggio dei temporary shop è molto più sfaccettato e comprende un target più eterogeneo”, racconta l’artista Gabriele De Santis, fra gli ideatori del progetto. E continua: “Ortica nasce dalla voglia di restituire un'immagine più fresca e moderna del mondo dell'arte. Chi viene da noi può sfogliare qualche rivista, osservare le opere, le illustrazioni, le piante, fare domande oppure anche solo colazione”.

 

ortica

I prodotti

Protagonisti assoluti, infatti, piante e caffè, “ma Ortica è prima di tutto uno spazio aperto, disponibile ad accogliere prodotti diversi e di ogni tipo. Per cui, via libera alle proposte”. Per il momento nel concept store (aperto per i prossimi due mesi) si può curiosare fra specie particolari di piante, dalla Monstera variegata alla Sophora prostrata, dal Ficus iyrata al Senecio harreianus, oltre a scegliere fra diverse tipologie di miscele e monorigini di caffè specialty. In particolare, sono i chicchi di Artisan Roast, torrefazione di ricerca di Edimburgo molto cara a Gabriele, a dare vita alle bevande in assaggio nel laboratorio. Appassionato di oro nero da più di un anno, autodidatta, ricercatore nato e curioso per natura, il giovane artista è partito alla volta della Scozia per tostare da sé il proprio blend, pensato in esclusiva per Ortica insieme al team dell'azienda.

 

torrefazione

La passione per il cibo

Oltre alla miscela della casa, diversi monorigine, tutti disponibili in espresso oppure caffè filtro, dal v60 all'aeropress. “Mi sono innamorato del caffè di qualità poco più di un anno fa, e da allora non ho più smesso di ricercare sull'argomento. Ho anche imparato a fare i cappuccini con qualche decorazione, seguendo corsi di latte art su internet”. Lo spirito entusiasta e il carattere arguto portano Gabriele a specializzarsi sempre di più non solo sul caffè ma su tutto il mondo della cucina: “Amo provare nuovi ristoranti, e sono costantemente alla ricerca di sapori nuovi. Quello del cibo è un mondo in continua evoluzione, che non si ferma mai, proprio come dovrebbe fare il settore dell'arte oggi”. Ad accompagnare le bevande, i dolci di Casa Manfredi, “Daniele, il proprietario si è mostrato da subito contento dell'idea, e insieme abbiamo selezionato alcuni dolci per Ortica, dai muffin al rosmarino e sale ai croissant”. In definitiva, dunque, uno spazio in movimento, oggi caffetteria e boutique di piante, un po' galleria e un po' mostra d'arte, domani centro di presentazioni di libri e artisti, “in qualsiasi caso un luogo libero e vocato all'arte. E chissà, magari domani anche un progetto da ricreare all'estero”.

Ortica – Roma – via dei Salumi, 53 - 0645508934 - www.facebook.com/orticashop/

a cura di Michela Becchi

Street food dal Piemonte. Un viaggio attraverso il cibo da strada meno conosciuto della regione

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Se i riflettori sono da sempre puntati sulle tradizioni della cucina piemontese, si sente invece parlare molto meno dello street food regionale. Scopriamolo insieme, attraverso la sesta puntata della nostra rubrica dedicata al cibo da strada italiano meno noto. E con la ricetta di un goloso prodotto, dall’origine (sorprendentemente) belga.

 

La cucina del Piemonte è spesso sinonimo di preparazioni opulente e dai sapori decisi, magari da assaggiare nelle classiche piole e da accompagnare con la ricchissima offerta vinicola, vera eccellenza della regione. Di street food piemontese, invece, si sente parlare molto meno: peccato, poiché si tratta di un panorama ricco di storie affascinanti, che spesso tengono in vita ricette che altrimenti rischiavano di scomparire.

 

Lo “street food” ante litteram dei contadini: la marenda sinoira

Ricette che, un tempo, non potevano mancare nella merenda (o marenda) sinoira, una sorta di street food ante litteram. Sì, perché prima di diventare una tendenza e un genere imprenditoriale, il cibo da strada era quello dei contadini. Che, durante la stagione estiva, sfruttavano tutte le ore di luce per completare il loro lavoro e così, tra il pranzo e la cena (che consumavano più tardi del solito), avevano bisogno di rifocillarsi con una merenda sostanziosa. Ecco spiegato l’antico detto locale che recita “San Giusep a porta la marenda ant el fassolet, San Michel a porta la marenda an ciel”: la merenda, che si portava dentro al fazzoletto (soprattutto a base di pane, formaggio e salumi) era consumata principalmente nel periodo che va dalla festa di San Giuseppe (19 marzo) a quella di San Michele (29 settembre), poi cambiavano i ritmi quotidiani, andando verso l’inverno. Ma la stessa usanza, che qualcuno oggi fa coincidere con l'attuale aperitivo, caratterizzava altresì la vita familiare: per i più altolocati rappresentava un’occasione di ritrovo, all’aperto, nella cornice delle ville nobiliari, mentre per il popolo era il momento conviviale con cui si festeggiava la fine di un lavoro collettivo. E così in tavola comparivano specialità come i gofri, le miacce e miasse, i pilòt.

 

gofri_2_-_Gofreria_Piemonteisa.Gofri. Foto: Gofreria Piemonteisa

I gofri, la storia di una ricetta ritrovata

Se oggi i gofri sono ancora in vita, presenti nelle sagre e nelle feste patronali ma anche nel menu di alcuni locali, una parte del merito va sicuramente al proprietario della Gofreria Piemonteisa (locale recensito dalla nostra guida Street Food 2017, sua anche la foto di copertina) Dario Mauro: “nel 2005 ho deciso di mettermi alla ricerca di prodotti tipici, che mi permettessero di creare un format di ristorazione da strada del tutto piemontese” spiega “in un paese ho incontrato due signori che preparavano una pietanza che non conoscevo, avevano semplicemente uno stampo in ghisa e una pastella”. E lo racconta pure in questo video estratto da una puntata di Special Max, il programma di Gambero Rosso Channel in cui Max Mariola ha compiuto un viaggio alla scoperta dello street food italiano.

 

 

Dalla gaufre belga alla versione (più povera) piemontese

La pietanza in questione è quella a cui Dario ha scelto di dedicare la sua attività (e di cui ci ha anche fornito ingredienti e dosi, che trovate in fondo alla pagina): “come lo stesso nome rivela, la storia dei gofri è legata a quella della gaufre belga ed è il risultato dell’emigrazione: i piemontesi, andati in Belgio a lavorare nelle miniere, riportarono a casa – soprattutto in val Chisone e valle Germanasca - questa ricetta e la modificarono”. Come? Impoverendola, dato che quella originaria comprendeva anche zucchero, burro, latte e uova. “Per i gofri, invece, servono solo farina, acqua, lievito e un pizzico di sale: utilizzo una farina multicereali che produco nel mio piccolo mulino a pietra, una volta ottenuto un impasto liquido lo lascio riposare per almeno 4-5 ore, affinché la consistenza diventi spumosa” sottolinea Mauro “a quel punto il composto è pronto per essere cotto nello stampo che gli conferisce la peculiare forma a nido d’ape; è perfetto da abbinare, ad esempio, al prosciutto crudo e alla toma, oppure si può provare in versione dolce con miele o confetture”.

 

E poi, miacce e miasse

Oltre ai gofri, la proposta della Gofreria comprende anche le miacce della Valsesia e le miasse del Canavese (di cui vi abbiamo già accennato qui): “le prime sono un antichissimo sostituto del pane legato alla cultura Walser (popolazione germanica, ndr):delle morbide sfoglie quadrate che realizzo con farina di grano saraceno, mais e/o miglio, acqua, latte di capra, uova e un pizzico di sale”, conclude il titolare, “le miasse o meligacce, invece, rimangono più croccanti e si ottengono unendo farina di mais e acqua (a cui c’è chi combina farina di grano, olio, uova e sale, ndr).

 

TundittRunditt. Foto: Accademia dei Runditt

Dalle valle Vigezzo, i runditt

Se ci si sposta nella valle Vigezzo, a dominare la scena delle feste campestri sono i runditt, valorizzati e tutelati da un’associazione che, dal 2016, gli dedica una sagra organizzata a Malesco. In verità, molto prima che nascesse l’Accademia dei Runditt, il prodotto era già ampiamente diffuso in questo comune della provincia del Verbano-Cusio-Ossola, come testimonia quanto scritto da Giacomo Pollini nel 1896 (facendo riferimento alla festa di Ognissanti): “per la gioventù serviva di occasione a passare una notte allegramente, bevendo e mangiando durante la medesima i cosiddetti Ronditt, i quali sono fatti con farina impastata con acqua e poco sale in modo da poterla facilmente distendere sottile, quasi come un foglio di carta, sopra una lastra levigata…”. Un passaggio altrettanto importante è il riposo del composto: almeno 24 ore, per fargli raggiungere la giusta collosità. Originariamente la cottura avveniva sulla pietra ollare, sostituita poi con le piastre di ferro; la farcia tradizionale era con burro e sale, ma – specialmente durante la sagra – è possibile sperimentare altri abbinamenti.

 

Le altre due varianti: amiasc e stinchett

Nelle stessa valle Vigezzo, esistono varianti del runditt (parola potrebbe significare “tondo”, data la forma dello strumento su cui veniva tirata la pastella): a Coimo è possibile trovare gli amiasc (nome presumibilmente legato al termine “azzimo”, data l’assenza di lievito nella ricetta, che invece prevedeva farina di grano saraceno), mentre nel resto della valle è usata l’espressione stinchett, forse un’italianizzazione del tedesco steinkuchen, letteralmente “cotto su pietra”.

 

Le frittelle di patate in Piemonte: i pilòt

Tornando alla marenda sinoira, andiamo alla scoperta dei pilòt (da assaggiare specialmente in val di Susa e val Chisone, magari in occasione delle manifestazioni che li vedono protagonisti, rispettivamente a Pragelato e Borgata Sestriere, nella città metropolitana di Torino). “Si tratta di frittelle di patate grattugiate crude: dopo averle unite ad altri ingredienti, come latte, uova, pancetta e cipolla, si ottiene un composto che viene fritto nell’olio bollente o nello strutto”, ci racconta Isabella Cappellin, presidente de La Pancouta, l’associazione che ogni seconda domenica di agosto organizza la Sagra del Pilòt di Borgata Sestriere. Una preparazione simile, il tortel de patate, l’abbiamo incontrata in Trentino Alto Adige.

 

La Pasquetta a Nizza Monferrato, tra Barbera e torta verde

Un altro momento in cui il cibo si lega fortemente alle scampagnate è la Pasquetta. E nel Monferrato - in particolare nel comune di Nizza Monferrato, in provincia di Asti –nel cestino con le varie pietanze non manca mai (oltre alle uova sode e alla Barbera) la cosiddetta torta verde. Verde perché gli ingredienti principali sono il riso e gli spinaci, i quali però si possono sostituire con erbe spontanee come silene, ortiche e foglie di primula: il tutto viene cotto insieme e, una volta raffreddato, si uniscono uova e parmigiano. Infine, una spolverata di pangrattato e la torta è pronta per l’ultimo passaggio in forno.

 

belecauda Settore Promozione del Territorio Comune di Nizza MonferratoBelecauda. Foto: Settore Promozione del Territorio Comune di Nizza Monferrato

Quando la farinata si chiama belecàuda

Proprio alla torta verde, sempre reperibile nei forni e in qualche macelleria, è dedicata una festa in concomitanza della fiera del Santo Cristo, che a fine aprile fa rivivere le storiche usanze di Nizza. Dove le sagre sono l’occasione giusta pure per assaggiare la belecàuda, altrimenti acquistabile in alcuni panifici: non è altro che la farinata - con farina di ceci, acqua, sale e olio extravergine di oliva - da cuocere in teglie di rame nel forno a legna e servire (come suggerisce il nome) “bella calda”. Esattamente come la serviva Tantì, che nel secolo scorso portava con una bicicletta a tre ruote la teglia con la farinata calda, un “tantì” indicava una porzione ed è diventato il soprannome del venditore ambulante.

 

A metà strada tra Piemonte e Liguria: pane, burro e acciughe

La belecàuda anche se esportata pure in altre regioni, è la dimostrazione del solido filo rosso che unisce Piemonte e Liguria. Ne è un’ulteriore riprova un altro cibo da strada: il pane con burro e acciughe, nato nelle case come classica merenda o colazione, diventato poi un must della proposta dei bar anche come farcitura dei tramezzini. Se infatti quest’ultimo è uno spuntino sdoganato in tutta Italia in mille varianti, non tutti sanno che uno dei più autentici (e forse il primo) è proprio quello imbottito con burro e acciughe.

 

La storia degli acciugai

È una storia orgogliosamente piemontese, oltre che ligure e in parte americana. Ma andiamo con ordine: il burro è la materia prima che – in una regione storicamente vocata alla pastorizia e molto meno all’olivicoltura – era sempre presente nelle dispense; per quanto riguarda le acciughe, invece, entra in gioco la Liguria. Un tempo, gli abitanti delle vallate, soprattutto della valle Maira, nei mesi invernali lasciavano le case per cercare una temporanea fonte di guadagno: così nacque la figura dell’acciugaio (anciuè in dialetto), che dal Piemonte raggiungeva i porti liguri con il caruss (il carretto), acquistava le acciughe per rivenderle di paese in paese.

 

Il tramezzino, dagli Usa al Caffè Mulassano di Torino

L’America, invece, entra in gioco nell’invenzione del tramezzino, lo spuntino preparato con due fette di pancarrè non riscaldato. A Torino, nel Caffè Mulassano – che la nostra guida Bar d’Italia recensisce con Tre Chicchi e Tre Tazzine, la massima valutazione – c’è una targa che recita: “in questo locale, nel 1926, la signora Angela Demichelis Nebiolo inventò il tramezzino”. La signora, emigrata negli Usa, nel 1925 tornò in Italia e assieme al marito si dedicò alla gestione del caffè dell’allora proprietario Amilcare Mulassano. Dagli Stati Uniti aveva portato la macchina per i toast, ma decise di non tostare il pane. Ecco il tramezzino, così ribattezzato da Gabriele D’Annunzio. Tra le prime versioni pare ci fosse proprio la burro e acciughe, assieme ad altri classici abbinamenti regionali come vitello tonnato e acciughe al verde.

 

Cante_Jeuv_-_Pro_Loco_per_il_RoeroCante Jeuv. Foto: Pro Loco per il Roero

 

Tradizioni (di strada) nel Roero: il Cantè J’euv quaresimale

Da Torino andiamo nel Roero, per conoscere il Cant’è J’euv: l’antico rito della questua delle uova, secondo cui un gruppo di persone – nel periodo quaresimale – bussava alla porta delle cascine più ricche intonando canzoni e filastrocche e chiedendo uova. Poi in parte vendute per finanziare la festa dei coscritti (coloro che raggiungevano la maggiore età), in parte utilizzate il giorno di Pasquetta per preparare una grande frittata collettiva. Insomma, un altro street food piemontese ante litteram.

 

friciula_-_Pro_Loco_CortiglioneFriciula. Foto: Pro Loco Cortiglione

 

La pasta di pane fritta: la friciula

Oggi la frittata non si prepara più, ma il Cantè J’euv –tornato in vita grazie alla Pro Loco per il Roero che lo organizza ogni anno (siamo alla diciottesima edizione) in un comune diverso con lo scopo di dare l’intero ricavato in beneficenza – è diventato un’occasione per celebrare il più autentico cibo da strada della regione. Come, ad esempio, la friciula: la pasta di pane fritta, che con nomi e peculiarità diversi abbiamo trovato in varie zone (dai coccoli toscani allo gnocco fritto dell’Emilia Romagna) come frutto dell’arte di riciclare gli avanzi. Tipica dell’astigiano, in particolare della val Tiglione, dove si trova praticamente in tutti i paesi: “ognuno ha la propria ricetta, la nostra ad esempio è a base di farina, acqua, sale, lievito e un po’ di olio: il risultato è un prodotto croccante e fritto in abbondante olio di semi”, ci racconta Emilio Mazzeo, presidente della Pro Loco di Cortiglione, “la realizziamo sempre in occasione della festa della Madonna del Rosario e la serviamo con una spolverata di sale o zucchero, ma è molto comune trovarla accompagnata dal lardo”.

Torta verde. Settore Promozione del Territorio Comune di Nizza MonferratoTorta Verde. Foto: Settore Promozione del Territorio Comune di Nizza Monferrato

Il riciclo degli avanzi in alta val di Susa, con la torta di barbabietole (e di mele)

Ed è sempre per non sprecare i resti della pasta di pane che nasce la torta di barbabietole, tipica dell’alta val di Susa. “Un tempo, quando ci si recava nei forni a legna collettivi per il rito della panificazione, l’impasto rimanente veniva steso a mo’ di pizza e condito con un topping a base di ortaggi, tra cui barbabietole, patate e carote”, sottolinea Elvira Roux, tesoriera dell’associazione Il Campanile delle cinque borgate (in patois, la lingua francoprovenzale della Valle d’Aosta e alcune valli piemontesi, Le Clouchie ed laa siin bourgiaa), che a Fenils – frazione di Cesana Torinese – organizza l’annuale Festa delle torte. Al plurale perché oltre a quella di barbabietole viene preparata quella di mele: “con gli avanzi degli avanzi, infatti, in origine si sfruttava il forno anche per realizzare il dolce: la festa non è altro che un’occasione per far rivivere queste tradizioni”, conclude Elvira.

 

La ricetta dei gofri della Gofreria Piemonteisa

Ingredienti

500 g di farina 00

1 l di acqua

20 g di lievito di birra

1 cucchiaio di sale

 

Amalgamare tutti gli ingredienti e lasciare lievitare il composto per 5-6 ore. Versare la pastella con un mestolo nell’apposito stampo e attendere la cottura. Farcire a piacere con salumi e formaggi, mentre per la versione dolce suggeriamo confetture, miele o creme artigianali, volendo con una spolverata di zucchero a velo.

 

Gofreria Piemonteisa – Torino – via San Tommaso, 7 – 3493926090 – www.gofriemiassepiemontesi.it

Caffè Mulassano – Torino – piazza Castello, 15 – 011547990 – www.caffemulassano.com


a cura di Agnese Fioretti

 

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Gout de France. Il 21 marzo 3000 chef nel mondo rendono omaggio alla cucina francese: chi c'è per l'Italia

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Giunta alla quarta edizione, l'iniziativa del Ministero degli Affari Esteri francese, su proposta di Alain Ducasse, si conferma un successo. All'edizione 2018, in scena il 21 marzo, hanno aderito 3000 chef da 150 Paesi del mondo. In Italia cene a tema e menu degustazione d'autore in molte città. Ecco chi partecipa. 

 

La cucina francese nel mondo

Puntuale come ogni anno, da quattro edizioni a questa parte, la cucina francese si autocelebra al cospetto del mondo, confermando – qualora fosse necessario – la propria capacità di valorizzare una storia prestigiosa (quanto ingombrante), i suoi protagonisti e una cultura gastronomica che ha ispirato chef di tutto il mondo. L'iniziativa Gout de France, che si ripete ogni primo giorno di primavera, è frutto della collaborazione tra Alain Ducasse e il Ministero degli Affari Esteri francese: una sinergia che vede l'impegno attivo delle istituzioni, e certo ha ispirato il movimento nato anche in Italia qualche tempo dopo, sotto il vessillo degli Ambasciatori del Gusto, per promuovere il made in Italy all'estero e tutelare la cucina italiana dalle contraffazioni che troppo spesso ancora la penalizzano. Non dissimile l'obiettivo della rassegna francese, che il prossimo 21 marzo coinvolgerà oltre 3000 chef in 150 Paesi nei 5 continenti per celebrare la cucina nazionale e il bien vivre francese (e molti saranno gli omaggi a Paul Bocuse, faro della ristorazione nazionale, recentemente scomparso). L'Italia, che all'iniziativa ha aderito dalla prima edizione, anche quest'anno sarà in prima linea con numerosi appuntamenti a tema, e 46 chef schierati a interpretare il menu alla francese oggetto della celebrazione, servito per tutta la giornata agli ospiti del ristoranti coinvolti.

Gli appuntamenti in Italia. Milano e Torino

Tra gli appuntamenti da segnare in agenda, a Milano il D'O di Davide Oldani propone un menu degustazione che si apre con l'omaggio a Bocuse a all'iconica zuppa del presidente VGE, ma all'italiana; a seguire cosce di rana con uvetta piccante, tartufo nero e riso e il signature dish della casa Battuta d'inizio nella variante con roquefort (il menu da 5 portate costa 75 euro, vini esclusi). Sempre a Milano, con vista dal XX piano della WJC Tower, Fabrizio Ferrari propone agli ospiti dell'Unico un menu della tradizione francese: soupe a l'oignon, bouilabaisse, coq au vin e tarte tatin. Serate a tema anche al Just Cavalli e ai Tre Cristi. E sempre a Milano, il menu speciale del ristorante Sulle Nuvole: apertura con lumache e zafferano, patè di fegatini al cognac, petto d'anatra all'arancia con carpaccio di asparagi bianchi, reblochon fermier e pera senapata, millefoglie con chantilly. A Torino, invece, tra gli altri spicca la proposta di Fabio Macrì all'ultimo piano del grattacielo di Renzo Piano: nella sala giardino di Piano35 andrà in scena una degustazione di piatti che fanno largo uso di prodotti francesi, dalla terrina di porri e scampi con vinaigrette allo champagne al torcione di foie gras e mele all'Armagnac, alla selezione di formaggi (120 euro il costo della cena). Foie gras e formaggi francesi anche da Spazio7, con la cucina di Alessandro Mecca che propone anche un Poulet de bresse et pommes de terre fondantes e la Saint Honorè a chiudere la serata. E non si tira indietro un tempio della tradizione sabauda come il Cambio, con Matteo Baronetto impegnato a interpretare i grandi classici della cucina francese. Mentre al ristorante Gardenia di Caluso, nella provincia piemontese, Mariangela Susigan coniuga la sua passione per le erbe spontanee e i prodotti dell'orto con l'omaggio alla Francia, tra Capretto da latte arrostito alla brace, spalla fondente alla santoreggia e patate Corne de Gatte, primizie dell’orto e tarte tatin con rabarbaro, fragola e verbena.

Firenze, Roma, Napoli

A Firenze e provincia rendono omaggio all'iniziativa il Santo Bevitore di chef Luca Marin – tra quiche lorrain e coq au vin – e La Tenda Rossa di San Casciano Val di Pesa, dove Maria Probst propone per una sera la tradizione della campagna francese. Suggestioni d'Oltralpe anche a Roma, con la naturale affinità al tema della Santeria di Gioia di Paolo, al Pigneto: in tavola ostriche, quiche lorraine, boeuf bourguignon, formaggi e sablè, in abbinamento a vini naturali, champagne e sauternes. Sintonia con i cugini transalpini condivisa dal team di Palatino Bistrot, quartiere Trieste, naturalmente coinvolti nell'omaggio alla cucina che li ispira ogni giorno. A Napoli, invece, saranno l'Institut Français Napoli e l’Ordine internazionale dei Discepoli di Escoffier a promuovere eventi a tema, tra cinema e gastronomia. Per la cena alla maniera francese l'appuntamento è presso il ristorante Zì Teresa, con Carmela Abbate, Discepola Escoffier. Molti anche gli istituti professionali coinvolti in tutta Italia.

 

Tutti gli appuntamenti Gout de France nel mondo

 

a cura di Livia Montagnoli

 

Chef’s Table Pastry su Netflix. Nel quartetto di acclamati pasticceri c’è spazio per Corrado Assenza

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Quattro puntate per un ritorno molto speciale: la pluripremiata serie prodotta da David Gelb per Netflix si concentra sulla pasticceria, e su quattro protagonisti del settore che la raccontano con approcci molto differenti tra loro. E con Christina Tosi, Jordi Roca e Will Goldfarb c’è anche un italiano: il maestro Corrado Assenza. 

 

Chef’s Table Pastry

Il 13 aprile su Netflix sarà disponibile una nuova serie di Chef’s Table, la quarta, non considerando nel computo le puntate speciali dedicate alla cucina francese. Ma anche il nuovo pacchetto di storie di cucina diretto dall’ormai mitico giovane regista David Gelb affronta l’argomento da un differente punto di vista, quello dei pasticceri. Quattro puntate per altrettanti maestri della pasticceria che il trailer di Chef’s Table Pastry, rilasciato poche ore fa, rivela per la prima volta, placando il toto-nomi che si era scatenato nell’ultimo mese. E la prima considerazione ci porta a ragionare su un quartetto piuttosto inconsueto, seppur di indubitabile caratura: nessun pasticcere francese è stato coinvolto nelle riprese, che invece – secondo consuetudine della casa – hanno preferito indagare nella vita di quattro personalità che al talento in cucina uniscono un’identità spiccata, quel fattore umano su cui la regia indugia con molto piacere. La seconda conferma, invece, è che la produzione di Chef’s Table torna a interessarsi dell’Italia dopo la puntata d’apertura della prima stagione, dedicata a Massimo Bottura. Dopo lo chef modenese, nessun altro connazionale era riuscito a incuriosire a sufficienza il team di David Gelb, mentre nel cast dei pastry chef spicca la Sicilia di una tradizione pasticcera che poggia sui grandi prodotti del territorio e sul genio di un maestro come Corrado Assenza, che a Noto guida con successo il Caffè Sicilia.

 

Corrado Assenza e gli altri

Con lui, nel trailer, si alternano anche Christina Tosi, Jordi Roca Will Goldfarb: 4 approcci completamente differenti all’arte (ma sarebbe meglio dire alla scienza) della pasticceria. C’è la goliardia di Christina Tosi, chef patronne del Milk Bar e controparte femminile di David Chang nell’impero di Momofuku: un mondo a colori fatto di confetti di zucchero, cookie al cioccolato e creme spalmabili, che nulla toglie alla serietà di una ricerca che gioca con gli stereotipi della pasticceria americana, e li sublima. Fa da contraltare, sin dai primi frame mixati nel trailer, la compostezza dei panorami siciliani: tanta naturalezza, il sorriso di Corrado Assenza ripreso al lavoro in laboratorio, il racconto di prodotti straordinari nella loro (apparente) semplicità, come un buon gelato (“provare il gelato di Corrado è come provarlo per la prima volta nella vita” sentenzia la voce fuori campo nel trailer”). Poi c’è l’esuberanza spagnola di Jordi Roca, il fratello pasticcere del trio del Celler de Can Roca, a Girona: il suo è il regno di un alchimista pastry chef che si diverte a stupire i commensali, tanta avanguardia e competenze tecniche al servizio di un immaginario onirico che ha del fanciullesco. Il quarto protagonista della serie è probabilmente quello meno noto alle nostre latitudini, Will Goldfarb, pastry chef di New York che ha deciso di reinventarsi a Bali per aprire un insolito ristorante d’autore interamente concentrato sulla proposta di pasticceria, il Room 4 Dessert.

 

Naturale e di cuore

Una narrazione che si preannuncia decisamente pop, e che per quanto ci riguarda avrà il merito di far conoscere al mondo la storia di uno dei grandi saggi della pasticceria italiana, che della sua ricerca sulla naturalità del gusto ha fatto una ragione di vita: nella sua ultima apparizione sul palco di Identità Golose, di cui è veterano, Corrado Assenza ha esaltato la perfezione nell’imperfezione, rivendicando il diritto di non essere uguale a nessun altro e appellandosi al recupero di dolci capaci di parlare al cuore, scevri da orpelli cerebrali. Di sicuro un’ottima chiave di lettura per raccontare agli spettatori di Netflix la sincerità della sua pasticceria. Aspettando la pubblicazione della serie, ecco il trailer di Chef’s Table Pastry.

 

a cura di Livia Montagnoli

Intervista a Massimo Tringali, chef dell'Emporio Armani Caffè a Parigi che ha conquistato una stella Michelin

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Trentottenne di Augusta, Massimo Tringali è lo chef del ristorante Emporio Armani Caffè a Parigi che lo scorso febbraio si è aggiudicato una Stella Michelin. Lo abbiamo intervistato per capire come una cucina così dichiaratamente tradizionale abbia conquistato la Rossa.

 

Volevamo fare un'intervista cattiva, ma non ci siamo riusciti. Già perché ci siamo trovati di fronte uno chef consapevole, rispettoso, per niente prima donna, che ha messo da parte il protagonismo per far parlare i prodotti, tutti italiani e tutti provenienti da piccoli produttori. Lui è Massimo Tringali lo chef del ristorante Emporio Armani Caffè a Parigi che lo scorso febbraio ha ottenuto una stella Michelin, con un menù apparentemente semplice e che più tradizionale non si può.

Massimo Tringali

Dopo essersi diplomato all'alberghiero Federico II di Siracusa, lo chef siciliano inizia la sua gavetta in un albergo a quattro stelle di Augusta. Nel 2001 parte alla volta di Parigi grazie ai contatti di un suo professore, “qui ho lavorato per un paio di anni in un altro hotel e nel 2003 sono andato al ristorante Il Carpaccio del Le Royal Monceau, in quel periodo uno dei più importanti stellati italiani a Parigi”. L'intera brigata del Carpaccio viene però inviata in Corsica per seguire l'apertura di un altro ristorante, un'avventura segnante che gli permette di conoscere Massimo Mori, colui che si occupa di tutta la parte gastronomica dell'Emporio Armani. Sarà proprio Massimo a proporgli di prendere le redini del ristorante di Parigi, che dopo il rinnovamento nel 2016 fa capolino nel cuore iconico della Rive Gauche, proprio in Boulevard St. Germain. Un posto che non è passato inosservato agli ispettori Michelin e che a Parigi ha fatto molto chiacchierare di sé.

Il dopo stella Michelin. Come te lo stai vivendo?

Ci siamo già dimenticati di averla presa. Ora sentiamo di più la responsabilità di far mangiare bene i nostri clienti, magari osando ancora di più con piatti semplici, lampanti, senza fronzoli.

Parli al plurale...

Senza il sous chef Claudio Oliva e il pastry chef Antonino Di Stefano non sarei stato in grado di fare nulla.

Com'è fare cucina italiana in Francia? I francesi, anzi i parigini, sono prevenuti?

I primi tre mesi sono stati un disastro! La piazza parigina è complicata, il livello delle aspettative è alto, diciamo che sono abituati molto bene quindi abbiamo dovuto aspettare di essere presi sul serio.

Oggi chi sono i vostri clienti?

Parigini e francesi. Ora si sono affezionati, e vederli sorridere di fronte alla spiegazione dell'olio d'oliva (ciascun piatto ha il suo olio) non ha prezzo.

Spaghetti al pomodoro dell'Emporio Armani Caffè a Parigi

Nel menu si legge, tra gli altri piatti: Spaghetti al pomodoro, Linguine alle vongole, Scaloppine alla milanese o Galletto al mattone. Come te la spieghi la Stella?

Ti parlo da cuoco che quando va in un ristorante che dichiara di fare cucina francese, ha voglia di mangiare francese; dunque mi comporto di conseguenza. Dico sempre che quando si entra all'Emporio è come se si fosse preso un biglietto aereo per l'Italia, abbiamo dunque la responsabilità di spiegare che cosa sia davvero la cucina italiana.

Quindi hanno premiato l'italianità?

Esatto, hanno premiato la cucina italianissima.

Pensi che se fossi stato in Italia te l'avrebbero data comunque la Stella?

Probabilmente sarei passato inosservato, a Parigi invece abbiamo fatto rumore.

Definisci la tua cucina.

Genuina e sincera.

Prova a spiegarcelo meglio.

Non metto distrazioni nel piatto. Certo, utilizzo tecniche contemporanee ma il gambero di Mazara, il bergamotto calabrese, il carciofino di Sant'Erasmo o la bottarga sarda rimangono riconoscibili. Per me essere sincero significa non modificare troppo le forme e lavorare sui contenuti.

Mozzarella e pomodoro all'Emporio Armani Caffè di Parigi

Ti appoggi a dei distributori?

Assolutamente no, Massimo (Mori, ndr) e io andiamo direttamente alla fonte.

Nessun filtro, nessun tramite, nessun distributore. Come li scovate tutti questi produttori italiani?

Massimo è un appassionato da sempre quindi è detentore di una banca dati immensa, io ho iniziato ad appassionarmi ai prodotti italiani una volta arrivato a Parigi (assurdo vero?) ma devo dire che con i mezzi attuali è tutto molto più semplice e immediato. Capita per esempio che li contatti io tramite Facebook o viceversa, come è successo con Vito Dicecca. Oramai in molti sanno il lavoro che stiamo facendo qui a Parigi.

Tu e Massimo Mori siete dunque dei talent scout del food italiano. Puoi farci qualche esempio di piccoli produttori con i quali collaborate?

Dall'azienda Tanto Quanto Basta che ci fornisce tutte le radici al Molino Maggio che ci fa la farina in base alle nostre esigenze, dal Miele Thun a Primitivizia che fa arrivare qui a Parigi le erbe di montagna. Con ciascuno di loro c'è un rapporto di fiducia e collaborazione, per esempio il contadino che mi fornisce il radicchio di Treviso mi ha proposto dei pisellini incredibilmente dolci, così io li prendo solo da lui. Oppure un ragazzo giovanissimo ha deciso di salvare un cappereto a Pantelleria, da lui prenderò i capperi aiutando nel mio piccolo la sua piccola e appena avviata azienda.

Con queste materie prime incredibili il ruolo dello chef passa un po' in secondo piano...

Un bravo chef deve rispettare i prodotti, a volte rischiando anche di passare in secondo piano. L'importante è servire al cliente qualcosa di buono, senza per forza di cose metterci la firma.

 

Emporio Armani Caffè – Parigi - Boulevard St. Germain, 149 - +33145486215 – armanirestaurants.com/paris-emporio-armani-caffe

 

a cura di Annalisa Zordan 

foto di apertura: Massimo Mori e Massimo Tringali

 

Nailed it su Netflix: dal food porn al food horror

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Un nuovo talent dedicato al cibo: questa volta si tratta di pasticceria, e di pasticceri completamente negati. Si chiama Nailed it e lo firma Netflix.

 

Se avete mai pensato di poter davvero imparare a cucinare da un programma TV, Nailed it, ultimo format culinario prodotto e trasmesso da Netflix, dissiperà ogni vostra speranza. Nonostante gli sforzi del famoso chocolatier Jacques Torres, che impartisce la sua conoscenza attraverso i disastri che le telecamere testimoniano con gioia, i concorrenti inciampano dall'errore allo sbaglio non tanto per il loro stesso miglioramento, quanto per consentire agli spettatori di sguazzare nel schadenfreude(godere delle disgrazie altrui, ndt) senza alcun senso di colpa.

 

Il programma

Un mix di gara reality culinaria e commedia, i sei episodi da mezz’ora mostrano le trappole e i cliché di un genere televisivo che, nonostante raramente porti qualcosa di nuovo sul piccolo schermo, gode ancora di grande successo. Come in altri format del genere, i concorrenti affrontano due sfide, in entrambe devono riprodurre un dessert spettacolare, chiaramente molto difficile e ben oltre le loro capacità. Non è la prima volta che un programma di cucina presenta personaggi selezionati proprio per la loro incapacità di produrre qualcosa di commestibile; il programma trasmesso da The Food Network, Worst Cooks in Americaè alla sua dodicesima stagione, a sottolineare il successo di pubblico di questo sotto-genere. Tuttavia, se in quel format i partecipanti finiscono per imparare qualcosa, in Nailed itse ne vanno con gli stessi talenti che avevano all'inizio: praticamente nessuno.

Era quasi inevitabile, quindi––a seguito del successo di show quali Great British Baking Show (avvertenza: io adoro quello show) e la sua controparte statunitense––che format di pasticceria avrebbero presto ottenuto una versione focalizzata sui disastri. Tuttavia, Naileditha tutte le caratteristiche di una parodia comica e senza pretese in termini di cultura culinaria. Lo stile visivo abbraccia le tecniche del food porn, ovvero primissimi piani, dettagli golosi, suoni amplificati, perfino riprese al rallentatore; ma offre invece brutalmente orridi tentativi, spesso con risultati esilaranti. Nell’ultimo episodio, i tentativi di ricreare un busto commestibile di Donald Trump si traducono in un leggero commento politico e in una spaventosa produzione dolciaria.

 

I giudici

La conduttrice dello show, l'attrice comica Nicole Byer, non è lì per fornire alcuna esperienza, ma più che per godersi i risultati che i concorrenti riescono a raggiungere, è lì per prenderli in giro e scambiare battute con gli altri due giudici. È JacquesTorres l'esperto del programma, affascinante e paterno in maniera dolce, cosa che lo distingue dagli altri classici giudici maschili delle competizioni culinarie, le cui professionalità e prestigio sono spesso asserite attraverso il maltrattamento dei concorrenti––atteggiamento che anche le giudici donne spesso abbracciano, probabilmente per sostenere le loro rivendicazioni di competenza. Il terzo giudice di Nailed itcambia a ogni puntata, solitamente si tratta di un pasticcere professionista o un personaggio cui è attribuita qualche sorta di conoscenza in materia. Nell’ultimo episodio della serie, l’attore e regista Jay Chandrasekhar non fa alcuno sforzo per apparire esperto. In effetti, durante la registrazione dello show, questi scompare, presumibilmente per andare a prendere i propri figli, mentre gli altri due giudici si interrogano in video sulla rilevanza di tutta l'impresa. Wes, l’avvenente biondo assistente di studio, combina guai rispetto a qualsiasi compito semplice gli venga affidato, dal portare premi sul palco al realizzare materialmente la coppa per il vincitore dell'episodio.

 

I concorrenti

I concorrenti partecipano al programma per le più svariate ragioni: un poliziotto vuole dimostrare a sua moglie di avere successo in cucina, madri frustrate vogliono dimostrare ai propri figli che possono effettivamente cucinare, altri desiderano solo acquisire qualche abilità pasticcera per ottenere un appuntamento galante, o trovare un compagno di vita più stabile. Nessuno si prende troppo sul serio, ma tuttavia sembrano tutti interessati a vincere il montepremi di 10mila dollari.

 

Ma è tutto vero?

È difficile capire se i molti momenti comici e le papere siano vere, o invece siano delle costruzioni fakeper esigenze televisive. In ogni caso, Nailed it fa spietatamente a pezzi ogni pretesa che uno show di cucina possa contribuire all'educazione culinaria dei suoi spettatori. I concorrenti e i giudici ci ricordano costantemente che si tratta solo di intrattenimento. Potrebbe essere invece un tentativo di Netflix di controbilanciare i nobili ideali (qualcuno potrebbe dire, la presunzione) delle sue altre serie centrate sul cibo, come Chef’s Table, Cooked, e Rotten?

 

a cura di Fabio Parasecoli


 

La birra trappista al supermercato. I monaci di Westvleteren contro una catena tedesca

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Senza l’autorizzazione della comunità monastica di San Sisto, la celebre Westvleteren è arrivata qualche giorno fa sugli scaffali di un supermercato tedesco: settemila bottiglie vendute a prezzo maggiorato e a fini di lucro. Immediata la reazione dei monaci, che da più di un secolo producono una delle birre trappiste più difficili da reperire. E solo per finanziare gesti di carità. 

La birra trappista. Cos’è

Ben prima che la birra artigianale e la cultura brassicola promossa dai microbirrifici indipendenti prendesse piede in Italia, l’immaginario collettivo ha sempre riservato alle birre trappiste una certa deferenza, merito di storie leggendarie e antichi monasteri. E di sicuro il racconto romanzato delle birre d’abbazia ha sempre avuto la capacità di affascinare un pubblico trasversale. Ma fuor di dubbio i segreti della fermentazione tramandati al riparo delle mura di alcuni monasteri d’Europa e del mondo oggi sono assoggettati a regole di mercato molto più stringenti di quanto lascerebbe supporre la storia degli ultimi secoli. Tanto che parlare di birra trappista significa riconoscere il rispetto di un disciplinare più che un preciso stile birrario, e considerare l’esistenza di un marchio di riferimento - il logo esagonale dell’Authentic Trappist Product, ideato nel 1997 – di cui solo chi si attiene alle regole può fregiarsi: non solo la birra dovrà essere prodotta all’interno dell’abbazia di riferimento, ma a controllare ogni fase del processo saranno personalmente i membri della comunità monastica. E, clausola non trascurabile, i ricavi delle vendite dovranno essere utilizzati dall’Ordine per finanziare attività caritatevoli. In osservanza di queste prerogative, oggi gli impianti trappisti riconosciuti nel mondo sono undici, sei concentrati in Belgio, dove il movimento ha avuto origine, solo uno extraeuropeo (negli Stati Uniti della Saint Joseph’s Abbey, a Spencer), e pure un’abbazia riconosciuta per l’Italia, l’ultima entrata nel gruppo, a Roma, dove la comunità delle Tre Fontane produce le proprie birre.

L’abbazia di Westvleteren

Ma certo a fare la storia del genere è stata, tra le mitiche abbazie trappiste del Belgio, la comunità di San Sisto a Westvleteren. La località, che ha mantenuto il suo riserbo anche grazie alla posizione piuttosto defilata nell’ovest del Paese, dà il nome a una delle birre d’abbazia più difficili da reperire (e questo ha contribuito a costruirne il mito): l’impianto, di dimensioni ridotte, garantisce una produzione limitata – tre le etichette, Blond, 8 e XII – e normalmente le birre possono essere acquistate solo presso l’abbazia, su prenotazione e in numero limitato (dettagliatissimo il regolamento illustrato sul sito), specie la XII, una quadrupel molto apprezzata dagli estimatori del genere e annoverata tra le migliori birre del mondo. E molti altri sono gli elementi che nel tempo hanno contribuito a intensificare l’aura leggendaria che circonda il birrificio di Westvleteren: fondato nel 1838, sono cinque i monaci che seguono personalmente la produzione, altrettanti quelli addetti all’imbottigliamento, anch’esso peculiare, vista l’assenza del marchio esagonale e di qualsivoglia etichetta che descriva il prodotto, eccezion fatta per l’indicazione della gradazione alcolica sul tappo.

Birra trappista al supermercato. Si può?

Figurarsi il trambusto procurato un paio di settimane fa a questo sistema che si tramanda sempre uguale nel tempo dall’iniziativa di un supermercato tedesco che ha scelto di distribuire settemila bottiglie di Westvleteren senza il permesso dei monaci di San Sisto. Le birre, esposte sugli scaffali di una filiale della catena Jan Linders, sono state vendute al prezzo di 10 euro ciascuna, scatenando le proteste della comunità, che dell’incauta iniziativa ha contestato principalmente la commercializzazione a fini di lucro – e a prezzo maggiorato di circa 10 volte superiore all’originale - contraria alla filosofia della birra trappista. Non è la prima volta che la difficile reperibilità delle birre Westvleteren spinge i piccoli distributori a rivenderle a prezzi maggiorati contro le prescrizioni dell’abbazia. Ma i monaci di San Sisto non si stancano di ripeterlo: l’unico modo per assicurarsi una bottiglia è avere tanta pazienza e un pizzico di fortuna. Intanto auspicano “che un episodio del genere non si ripeta mai più”.

 

a cura di Livia Montagnoli

Il 21 marzo è il Tiramisù Day. E la disfida tra Veneto e Friuli Venezia Giulia va in scena da Fico Eataly World

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Una giornata nazionale per celebrare il dolce più amato dagli italiani, e celebre in tutto il mondo: il tiramisù. Ma sulla paternità del dolce al cucchiaio che unisce savoiardi, mascarpone e caffè il dibattito non sembra destinato a fermarsi: da Fico i contendenti Treviso e Tolmezzo promuovono il tiramisù della pace, per onorare la giornata di festa. 

La disfida del tiramisù

La contesa è antica e radicata sul territorio, a cavallo tra Veneto e Friuli Venezia Giulia, ma gli ultimi mesi hanno visto decisamente riaccendersi la disputa interregionale sulla paternità del dolce che più rappresenta l'Italia nel mondo. Eppure, in occasione di una giornata di festa – quel Tiramisù Day indetto per la prima volta nel 2017, il 21 marzo, in concomitanza con l'arrivo della primavera – gli animi si distendono e le parti si ritrovano insieme da Fico Eataly World, per una goliardica (si spera) sfida tra Treviso e Tolmezzo, che da anni rivendicano il primato sul tiramisù. A valutare le squadre di pasticceri veneti e friulani, che dalle 12 si esibiranno in uno show cooking aperto al pubblico, sarà una giuria di esperti che annovera il patron Oscar Farinetti e i maestri pasticceri Gino Fabbri e Santi Palazzolo, Clara e Gigi Padovani (autori di un celebre libro sulle origini del tiramisù), la giornalista Eleonora Cozzella e l'ad di Fico Tiziana Primori. Ma anche la giuria popolare – 50 persone scelte tra il pubblico – avrà il proprio peso nella proclamazione del vincitore. L'iniziativa è stata promossa da Clara e Gigi Padovani, e ben accolta da Fico, dove i sindaci di Tolmezzo e Treviso, Francesco Brollo e Giovanni Manildo, si incontreranno per la prima volta in vesti ufficiali per presenziare alla sfida, che in fondo fa gioco a entrambe le località, baciate dalla notorietà di una disputa che le ha portate alla ribalta delle cronache nazionali ed estere.

 

Il tiramisù della pace

L'ultima idea di Treviso - che rivendica il ruolo di capitale morale del tiramisù (spetterebbe al ristorante Le Beccherie il merito di aver divulgao la ricetta del dolce al cucchiaio, ribattezzandolo tirame su, nel 1970) e recentemente ha ospitato la Tiramisù World Cup – si è concretizzata all'inizio del 2018, quando il Comune ha sposato il progetto Museo del Tiramisù. L'obiettivo, che non lascia adito a dubbi circa lo spirito battagliero della cittadina veneta “che ha saputo custodire gelosamente la ricetta del tiramisù e divulgarla nei 5 continenti”, è quello di raccogliere quante più testimonianze possibili sulla storia del dolce in città, attraverso uno Sportello del Tiramisù sempre attivo presso la Casa dei Carraresi. Una chiamata “alle armi” cui fanno eco le dichiarazioni del sindaco di Tolmezzo  (che rivendica il menu più antico col dolce, a firma di Norma Pielli Del Fabbro) alla vigilia della sfida in cucina: “Siamo pronti alla battaglia armati di caffè, savoiardi, mascarpone e spatole”. Ma, aggiunge, “sarà una battaglia dolcissima e amichevole con un solo obiettivo: rendere omaggio al dolce italiano più amato al mondo e sotterrare l’ascia di guerra. Dobbiamo riconoscere che Treviso è diventato un ambasciatore del tiramisù”. E rilancia con l'idea di un Tiramisù day della pace, da organizzare ad anni alterni, tra il Veneto e il Friuli Venezia Giulia. Sul versante burocratico, nel 2017 il tiramisù è stato inserito, su richiesta della Regione Friuli Venezia Giulia, nella lista dei Prodotti agroalimentari tradizionali (Pat) e quindi riconosciuto dal Ministero delle Politiche Agricole come caratteristico del territorio in due versioni, di Tolmezzo e di Gorizia.

 

Tiramisù Eataly...

In occasione del Tiramisù Day, da Fico, le degustazioni continueranno per tutto il pomeriggio all'interno della Pasticceria di Santi Palazzolo, mentre tutti i punti vendita Eataly ufficializzeranno la scelta del tiramisù come dolce ufficiale del brand, e simbolo della pasticceria made in Italy, con una ricetta firmata dall'executive chef Enrico Panero, il Tiramisù Eataly (già disponibile in tutti gli Eataly d'Italia e d'Europa).

 

… E a domicilio

Chiudiamo con una curiosità raccolta dall'Osservatorio Just Eat in occasione della giornata nazionale dedicata al tiramisù, che si conferma, anche tra gli ordini a domicilio, il dessert più richiesto dagli italiani, con 9400 chili ordinati nel 2017 in 10 città della Penisola (+75% rispetto all'anno precedente, su un campione di 16mila utenti). La città più golosa? Verona, che da sola ne ha consumati 418. E i primi dati del 2018 fanno ben sperare nella crescita del trend: solo a gennaio e febbraio, gli italiani si sono fatti recapitare a casa più di 1500 chili di tiramisù. Oggi è il giorno giusto per alzare la media.

 

a cura di Livia Montagnoli

La Città della Pizza a Roma. La tre giorni dei maestri pizzaioli che sfornano oltre 100 ricette d'autore

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Seconda edizione per la rassegna promossa da Vinòforum per raccontare la cultura della pizza e i suoi protagonisti più meritevoli. Tre giorni al Guido Reni District, trasformato per l'occasione in una grande fucina della pizza, in compagnia di 40 pizzaioli italiani. Si mangia, ci si diverte, si impara. 

 

I mille volti della pizza italiana

La Città della Pizza, il ritorno. Bagno di folla per la prima edizione al Guido Reni District di Roma, nel 2017, e buone speranze di bissare il risultato dal 6 all'8 aprile, con oltre 40 tra i migliori pizzaioli d'Italia, più di 100 pizze diverse in assaggio, appuntamenti a 4 mani con pizza&chef, convegni e laboratori per bambini. Il festival, organizzato da Vinòforum, è occasione per approfondire la conoscenza di un settore in crescita e sempre più diversificato, riunendo nel grande spazio attrezzato ambasciatori dei differenti approcci alla materia. A guadagnarci è chi assaggia, muovendosi tra cinque categorie – napoletana, all'italiana, a degustazione, al taglio, fritta – e decine di proposte d'autore, tra cavalli di battaglia e special edition ideate da tutti i partecipanti, chiamati pure a cimentarsi almeno con un fondamentale, margherita o marinara a scelta. Qualche nome? Gabriele Bonci, Ciro Salvo, Stefano Vola, Isabella De Cham, Matteo Aloe, Franco Pepe, Enzo Coccia, Marzia Buzzanca, Gino Sorbillo. Special guest: Arcangelo Dandini e Pasquale Torrente, addetti ai fritti. E formula che vince non si cambia: 12 le postazioni attrezzate con i forni per ospitare ogni giorno 12 differenti pizzerie in rappresentanza degli stili che oggi identificano la varietà dello scacchiere italiano (l'ingresso è gratuito, la pizza si acquista in gettoni da 1 euro). In abbinamento le birre di Baladin e le bollicine del Consorzio di tutela Prosecco Doc.

 

Cene a 4 mani: pizza&chef per Maestri in Cucina

Ma il successo dello scorso anno ha spinto gli organizzatori a riproporre pure l'appuntamento con Maestri in Cucina: pranzi e cene a 4 mani che vedranno collaborare i maestri pizzaioli con chef della Capitale e in arrivo dall'Italia: si comincia venerdì 6 aprile, con Simone Lombardi in affiancamento a Luciano Monosilio (Pipero, Roma); sabato 7, invece, doppio appuntamento, a pranzo e cena, rispettivamente con Ciro Oliva Paolo Gramaglia (duetto tutto campano, tra il pizzaiolo di Concettina ai Tre Santi e lo chef del President di Pompei) e Gabriele Bonci con Gianfranco Pascucci, che riportano i riflettori sulla scena romana. Domenica chiudono gli incontri a 4 mani Enzo Coccia Pasquale Palamaro (Indaco dell'hotel Regina Isabella, Ischia). Capitolo laboratori, invece, articolato tra appuntamenti per gli adulti che vogliono cimentarsi con i segreti di impasto e lievitazione – sotto la guida sicura di Gabriele Bonci, Stefano Callegari (chiamato a raccontare l'arte del supplì e la sua mitica panatura), Marzia Buzzanca e Ciro Salvo – e corsi per i più piccoli, nell'Area Kids Lab con l'Associazione I diti in pasta.

 

Veterani e giovani promesse

Mentre raddoppia l'appuntamento con gli approfondimenti sul tema, in compagnia dei veterani della pizza, dei giovani talenti e della critica di settore sul palco dello Spazio Convegni, e alla scoperta delle promesse  di domani nello spazio di Stand Up Pizza, focus promosso in colaborazione con Pizza on The Road per dare voce ai pizzaioli d'Italia meno noti. I candidati a salire sul palco degli esordienti sono stati selezionati tramite call online in osservanza alla filosofia dell'iniziativa: raccontare attraverso la pizza il proprio territorio d'origine, i prodotti locali e la tradizione gastronomica del luogo. Del resto il manifesto della rassegna parla chiaro: attenzione maniacale per impasti e materie prime, ricerca e spirito d'innovazione uniti alla cura dell'artigiano, voglio di condividere il proprio attaccamento al mestiere e divulgare la cultura della pizza sono gli elementi imprescindibili che identificano il volto migliore della pizza italiana. E accomunano i partecipanti al festival.

 

Tutti i protagonisti ai forni:

Gabriele Bonci, Pizzarium, categoria “Al taglio” // Roma

Ciro Salvo, 50 Kalò, categoria “Napoletana” // Napoli

Giancarlo Casa, La Gatta Mangiona, categoria “All’italiana” // Roma

Ciro Oliva, Concettina ai Tre Santi, categoria “Fritta” // Napoli

Ciccio Vitiello, Casa Vitiello, categoria “Napoletana” // Tuoro (Caserta)

Petra Antolini, Settimo Cielo, categoria “A degustazione” // Settimo di Pescantina (Verona)

Famiglia Condurro, L’Antica Pizzeria da Michele, categoria “Napoletana” // Napoli

Stefano Vola, Vola Bontà per Tutti, categoria “A degustazione” // Santo Stefano Belbo (Cuneo)

Pierdaniele Seu, Seu Illuminati, categoria “All’Italiana” // Roma

Mirko Rizzo eJacopo Mercuro, 180g Pizzeria Romana, categoria “All’italiana” // Roma

Cristiano Piccirillo, La Masardona, categoria “Fritta” // Napoli

Sasà Martucci, I Masanielli di Sasà Martucci, categoria “Napoletana” // Caserta

Matteo Aloe e Massimo Giuliana, Berberè, categoria “A degustazione” // Roma

Giuseppe Pignalosa, Le Parule, categoria “Napoletana” // Ercolano (Napoli)

Simone Lombardi, categoria “A degustazione” // Milano

Diego Vitagliano, Diego 10, categoria “Napoletana” // Napoli

Davide Fiorentini, O Fiore Mio, categoria “A degustazione” // Faenza

Edoardo Papa, In Fucina, categoria “A degustazione” // Roma

Isabella De Cham, categoria “Fritta” // Napoli

Graziano Monogrammi, La Divina Pizza, categoria “Al taglio” // Firenze

Filomena Palmieri, Pizzeria Da Filomena, categoria “Al taglio” // Castrovillari (Cosenza)

Massimo Giovannini, Apogeo, categoria “All’italiana” // Pietrasanta (Lucca)

Roberta Esposito, La Contrada, categoria “Napoletana” // Aversa (Caserta)

Lello Ravagnan, Grigoris, categoria “All’italiana” // Mestre (Venezia)

Paolo De Simone, Da Zero, categoria “All’italiana” // Milano

Giorgio Caruso, Lievità, categoria “All’italiana” // Milano

Pierluigi Fais, Frammento, categoria “All’italiana” // Cagliari

Carmine Donzetti, Pizza & Fritti, categoria “Fritta” // Napoli

Teresa Iorio, Le Figlie di Iorio, categoria “Fritta” // Napoli

Andrea Morini, Da Cecio, categoria “All’italiana” // Porcari (Lucca)

Raffaele Bonetta, Pizzeria Ciarly, categoria “Napoletana” // Napoli

Marco Rufini, Casale Rufini, categoria “All’Italiana” // Roma

Ivano Veccia, Da Ciccio, categoria “Napoletana” // Ischia (Napoli)

Angelo Rumolo, Grotto Pizzeria Castello, categoria “Napoletana” // Caggiano (Salerno)

Marco e Antonio Pellone, Pizzeria Ciro Pellone, categoria “Fritta” // Napoli

Franco Gallifuoco, Pizzeria Franco, categoria “Fritti all’italiana” // Napoli

Salvatore Di Matteo, Pizzeria Di Matteo, categoria “Fritti all’italiana” // Napoli

Pierluigi Police, Pizzeria O Scugnizzo, categoria “Napoletana” // Arezzo

 

La Città della Pizza – Roma – Guido Reni District  - dal 6 all'8 aprile 2018 - www.lacittadellapizza.it

 

a cura di Livia Montagnoli


Intervista a Massimo Tringali, chef dell'Emporio Armani Ristorante a Parigi che ha conquistato una stella Michelin

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Trentottenne di Augusta, Massimo Tringali è lo chef del ristorante Emporio Armani Ristorante a Parigi che lo scorso febbraio si è aggiudicato una Stella Michelin. Lo abbiamo intervistato per capire come una cucina così dichiaratamente tradizionale abbia conquistato la Rossa.

 

Volevamo fare un'intervista cattiva, ma non ci siamo riusciti. Già perché ci siamo trovati di fronte uno chef consapevole, rispettoso, per niente prima donna, che ha messo da parte il protagonismo per far parlare i prodotti, tutti italiani e tutti provenienti da piccoli produttori. Lui è Massimo Tringali lo chef del ristorante Emporio Armani Ristorante a Parigi che lo scorso febbraio ha ottenuto una stella Michelin, con un menù apparentemente semplice e che più tradizionale non si può.

Massimo Tringali

Dopo essersi diplomato all'alberghiero Federico II di Siracusa, lo chef siciliano inizia la sua gavetta in un albergo a quattro stelle di Augusta. Nel 2001 parte alla volta di Parigi grazie ai contatti di un suo professore, “qui ho lavorato per un paio di anni in un altro hotel e nel 2003 sono andato al ristorante Il Carpaccio del Le Royal Monceau, in quel periodo uno dei più importanti stellati italiani a Parigi”. L'intera brigata del Carpaccio viene però inviata in Corsica per seguire l'apertura di un altro ristorante, un'avventura segnante che gli permette di conoscere Massimo Mori, colui che si occupa di tutta la parte gastronomica dell'Emporio Armani. Sarà proprio Massimo a proporgli di prendere le redini del ristorante di Parigi, che dopo il rinnovamento nel 2016 fa capolino nel cuore iconico della Rive Gauche, proprio in Boulevard St. Germain. Un posto che non è passato inosservato agli ispettori Michelin e che a Parigi ha fatto molto chiacchierare di sé.

Il dopo stella Michelin. Come te lo stai vivendo?

Ci siamo già dimenticati di averla presa. Ora sentiamo di più la responsabilità di far mangiare bene i nostri clienti, magari osando ancora di più con piatti semplici, lampanti, senza fronzoli.

Parli al plurale...

Senza il sous chef Claudio Oliva e il pastry chef Antonino Di Stefano non sarei stato in grado di fare nulla.

Com'è fare cucina italiana in Francia? I francesi, anzi i parigini, sono prevenuti?

I primi tre mesi sono stati un disastro! La piazza parigina è complicata, il livello delle aspettative è alto, diciamo che sono abituati molto bene quindi abbiamo dovuto aspettare di essere presi sul serio.

Oggi chi sono i vostri clienti?

Parigini e francesi. Ora si sono affezionati, e vederli sorridere di fronte alla spiegazione dell'olio d'oliva (ciascun piatto ha il suo olio) non ha prezzo.

Spaghetti al pomodoro dell'Emporio Armani Caffè a Parigi

L'Emporio Armani si divide in due ambienti differenti, il Caffè e il Ristorante, con dei menu altrettanto differenti ma pur sempre orientati alla tradizione e alla semplicità. Nel menu del Ristorante si legge, tra gli altri piatti: Mozzarella di Battipaglia servita con le friselle, Tagliolini al ragù di anatra e mandarino siciliano candito, Filetto di vitello con radicchio tardivo di Treviso, patate e barbabietola. Come te la spieghi la Stella?

Ti parlo da cuoco che quando va in un ristorante che dichiara di fare cucina francese, ha voglia di mangiare francese; dunque mi comporto di conseguenza. Dico sempre che quando si entra all'Emporio è come se si fosse preso un biglietto aereo per l'Italia, abbiamo dunque la responsabilità di spiegare che cosa sia davvero la cucina italiana.

Quindi hanno premiato l'italianità?

Esatto, hanno premiato la cucina italianissima.

Pensi che se fossi stato in Italia te l'avrebbero data comunque la Stella?

Probabilmente sarei passato inosservato, a Parigi invece abbiamo fatto rumore.

Definisci la tua cucina.

Genuina e sincera.

Prova a spiegarcelo meglio.

Non metto distrazioni nel piatto. Certo, utilizzo tecniche contemporanee ma il gambero di Mazara, il bergamotto calabrese, il carciofino di Sant'Erasmo o la bottarga sarda rimangono riconoscibili. Per me essere sincero significa non modificare troppo le forme e lavorare sui contenuti.

Mozzarella e pomodoro all'Emporio Armani Caffè di Parigi

Ti appoggi a dei distributori?

Assolutamente no, Massimo (Mori, ndr) e io andiamo direttamente alla fonte.

Nessun filtro, nessun tramite, nessun distributore. Come li scovate tutti questi produttori italiani?

Massimo è un appassionato da sempre quindi è detentore di una banca dati immensa, io ho iniziato ad appassionarmi ai prodotti italiani una volta arrivato a Parigi (assurdo vero?) ma devo dire che con i mezzi attuali è tutto molto più semplice e immediato. Capita per esempio che li contatti io tramite Facebook o viceversa, come è successo con Vito Dicecca. Oramai in molti sanno il lavoro che stiamo facendo qui a Parigi.

Tu e Massimo Mori siete dunque dei talent scout del food italiano. Puoi farci qualche esempio di piccoli produttori con i quali collaborate?

Dall'azienda Tanto Quanto Basta che ci fornisce tutte le radici al Molino Maggio che ci fa la farina in base alle nostre esigenze, dal Miele Thun a Primitivizia che fa arrivare qui a Parigi le erbe di montagna. Con ciascuno di loro c'è un rapporto di fiducia e collaborazione, per esempio il contadino che mi fornisce il radicchio di Treviso mi ha proposto dei pisellini incredibilmente dolci, così io li prendo solo da lui. Oppure un ragazzo giovanissimo ha deciso di salvare un cappereto a Pantelleria, da lui prenderò i capperi aiutando nel mio piccolo la sua piccola e appena avviata azienda.

Con queste materie prime incredibili il ruolo dello chef passa un po' in secondo piano...

Un bravo chef deve rispettare i prodotti, a volte rischiando anche di passare in secondo piano. L'importante è servire al cliente qualcosa di buono, senza per forza di cose metterci la firma.

 

Emporio Armani Caffè – Parigi - Boulevard St. Germain, 149 - +33145486215 – armanirestaurants.com/paris-emporio-armani-caffe

 

a cura di Annalisa Zordan 

foto di apertura: Massimo Mori e Massimo Tringali

 

Cucina di casa in Basilicata. Ricette di: Lagane e ceci, Baccalà alla potentina e Torta di ricotta

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Terra orgogliosa di produzioni di eccellenza e di tradizioni antiche, la Basilicata è per alcuni aspetti ancora vergine, con paesaggi mozzafiato. Qui resistono ancora oggi alcune coltivazioni molto rare, insieme a prodotti che hanno travalicato i confini regionali e sono simbolo della cucina lucana. Ecco tre ricette facilmente replicabili a casa: lagane e ceci, baccalà alla potentina e torta di ricotta.

 

Un territorio dai caratteri aspri, ricco di boschi e prevalentemente montuoso. Eppure carico di prodotti e ricette da non perdere. Dai favolosi fagioli di Sarconi ai prelibati peperoni di Senise Igp, alla melanzana rossa di Rotonda Dop; dal caciocavallo silano al canestrato di Moliterno. In cucina questi prodotti si incontrano in ricette semplici ma dai sapori intensi come la zuppa alla santavenere, una minestra di pesce profumata con il dolce peperone di Senise in polvere, o la rafanata a base di uova sbattute, patate lesse schiacciate, mollica di pane sbriciolata, pecorino e soppressata lucana. Sul fronte dell'arte bianca sono molte, e antiche, le tradizioni e le ricette. Dalle squisite focacce realizzate con farine selezionate e lavorate secondo metodi artigianali tramandati di generazione in generazione ai famosi pani di grano duro come il Pane di Matera IGP. Simbolo della città di cui prende il nome, viene prodotto con semola di grano duro rimacinata proveniente esclusivamente dalle Colline Materane, dove viene coltivato sin dall'antichità. Fragrante, con crosta bruna e mollica tendente al giallo paglierino morbida e compatta con caratteristica alveolazione, presenta la caratteristica forma irregolare e allungata che ricorda il profilo delle Murgia Materana, territorio a cui si lega imprescindibilmente. Dal canto nostro vi sveliamo tre ricette abbastanza facili, di cui una ideale in occasione di Pasqua: lagane e ceci, baccalà alla potentina e torta di ricotta.

Lagane e ceci

Le lagane sono un tipo di pasta fresca simile alle tagliatelle, ma più spesse, larghe e corte: si fanno con acqua, farina di grano duro e sale. Diffuse in diverse regioni del sud Italia, sono conosciute anche come sagne: il nome deriva dalle lasagne del mondo latino e greco, chiamate laganum elaganon. In Basilicata fanno il paio con i legumi, in particolare con i ceci: pare che lagane e ceci fosse il piatto tipico dei briganti che si riversarono nei boschi del Vulture nella seconda metà del XIX secolo.

Ingredienti per le lagane

300 g di farina di grano duro (semola)

Acqua

Sale q.b.

Per il sugo

250 g di ceci (da ammollare la notte precedente)

3-4 cucchiai d'olio extravergine d'oliva

200 g di pomodori pelati

1 spicchio d'aglio

1 foglia di alloro

Rosmarino

Peperoncino

Sale q.b.

Fate ammollare i ceci in acqua tiepida per tutta la notte. Trascorso questo tempo, scolateli, sciacquateli e lessateli in acqua non salata aromatizzata con la foglia di alloro.

Setacciate la farina sulla spianatoia, fate la fontana e versatevi l'acqua tiepida salata necessaria per ottenere una pasta consistente. Impastate energicamente per una decina di minuti quindi ricavate una sfoglia sottile. Lasciatela un po' asciugare e ritagliate delle tagliatelle (lagane) larghe circa un centimetro. Allargatele su un panno infarinato. Scaldate l'olio in un tegame capiente (possibilmente di terracotta) e fate imbiondire lo spicchio d'aglio schiacciato e il peperoncino. Unite i pomodori e un rametto di rosmarino, salate e fate restringere il sughetto per una decina di minuti. Lessate le lagane in acqua salata in ebollizione. Scolate i ceci e versateli nel tegame con il sugo. Unitevi anche le lagane scolate al dente, mescolate e lasciate riposare la preparazione per due minuti prima di servirla.

 

Baccalà al pomodoro con olive nere e capperi

Baccalà alla potentina

Per le popolazioni dell’entroterra lucano, il baccalà ha costituito per secoli un’ottima alternativa ai piatti a base di carne, in quanto semplice da conservare e trasportare. Ed è per questo che oggi è il protagonista di molte preparazioni, una su tutte quella che lo vede accompagnato ai peperoni cruschi, ovvero quei peperoni (che possono essere di Senise o non) prima essiccati al sole e poi fritti per pochi secondi in olio extravergine di oliva. Questa ricetta è diffusa particolarmente nelle zone del comune di Avigliano. Noi, invece, vi proponiamo il baccalà alla potentina con uvetta e olive nere.

Ingredienti

1 kg di baccalà ammollato

2 grosse cipolle

300 g di pomodori pelati

100 g di olive nere

1 cucchiaio di capperi sotto sale

50 g di uvetta

3 cucchiai d'olio extravergine d'oliva

Pepe

Fate ammollare l'uvetta in acqua tiepida. Ripulite il baccalà dalle spine e tagliatelo a piccoli pezzi. Scaldate l'olio in un largo tegame e fate appassire le cipolle affettate sottili. Lasciatele cuocere a fuoco dolce per una mezz'ora, mescolando spesso e facendo attenzione che non prendano colore. Aggiungete i pomodori sminuzzati, insaporite con una macinata di pepe (non salate) quindi rialzate la fiamma e lasciate insaporire la salsa per pochi minuti. Unite il baccalà, i capperi dissalati, le olive e l'uvetta scolata e strizzata. Coprite e fate cuocere la preparazione a fuoco dolce per circa mezz'ora. Servite il baccalà nello stesso recipiente di cottura.

 

Torta di ricotta

Torta di ricotta

Uno dei dolci più famosi della regione è proprio la torta di ricotta, un dolce semplice e caratterizzato da materie prime altrettanto semplici, che pare abbia origini pastorali, non a caso l'ingrediente principale è la ricotta di pecora, facilmente reperibile dai pastori. In Basilicata si è soliti mangiarla la domenica o durante le feste pasquali, e ciascuna famiglia ha la propria ricetta per il ripieno, che può anche essere salato e quindi realizzato con un mix di formaggi, tra cui il pecorino lucano, e con il salamino lucano al finocchio. Qui la nostra versione (dolce).

Ingredienti per la pasta frolla

400 g di farina

200 g di burro

200 g di zucchero

4 tuorli + 1 per dorare

Sale

Per il ripieno

500 g di ricotta di pecora molto fresca

100 g di zucchero
2 uova

Preparazione: 40 minuti + 1 ora per il riposo. Setacciate la farina in una larga ciotola, fate la fontana e mettetevi il burro morbido a pezzetti e un pizzico di sale. Amalgamate i due ingredienti con la punta delle dita fino a ottenere delle grosse briciole. Formate nuovamente la fontana e mettete al centro i tuorli e lo zucchero e impastate di nuovo rapidamente gli ingredienti il minimo indispensabile per ottenere un impasto più o meno omogeneo quindi raccoglietelo a palla, avvolgetelo nella pellicola e fatelo riposare in fresco per almeno un'ora. Setacciate la ricotta e raccoglietela in una terrina, aggiungete le uova e lo zucchero, e mescolate bene. Dopo averla lasciata per un po' a temperatura ambiente, dividete la pasta in due pezzi di cui uno doppio dell'altro. Stendete il pezzo più grosso con il matterello su un piano infarinato ricavando un disco largo quanto basta per rivestire una tortiera da 24 centimetri imburrata e infarinata. Versate nella tortiera il composto di ricotta, livellatelo e coprite con un disco di pasta ottenuto dal pezzo più piccolo (oppure coprite il ripieno con larghe strisce di pasta disposte a reticolo). Pennellate la superficie con il tuorlo diluito con un goccio d'acqua e mettete la torta nel forno a 180° C per un'ora. A cottura ultimata fate raffreddare la torta prima di sformarla.

 

Cucina di casa in Veneto. Ricette: Sarde in saor, Risi e bisi e Baccalà alla vicentina

Cucina di casa in Piemonte. Ricette: Vitello tonnato, Agnolotti del plin e Brasato al Barolo

Cucina di casa in Sicilia. Ricette: Panelle, Pasta alla norma e Calamari alla messinese

Cucina di casa a Roma. Ricetta di: Supplì, Spaghetti alla carbonara, Coda alla vaccinara

Cucina di casa in Emilia-Romagna. Ricette di: Cappellacci di zucca, Cotoletta alla bolognese e Torta degli addobbi

Cucina di casa in Lombardia. Ricette di: Risotto alla pilota, Ossobuco alla milanese e Tortaparadiso

Cucina di casa in Liguria. Ricette di: Pesto alla genovese, Bagnun e Baccalà in zimino

Cucina di casa in Toscana. Ricette di tre zuppe: Carabaccia, Garmugia e Cacciucco

Cucina di casa in Puglia. Ricette di: Cozze arraganate, Tiella di riso patate e cozze, Dentice alla pugliese e Taralli

Cucina di casa in Sardegna. Ricette di: Minestra di fregula con arselle, Pane frattau e Sebadas

Cucina di casa in Campania. Ricette di: Pasta cresciuta alle acciughe, Minestra di pasta e patate e Genovese

Cucina di casa in Trentino-Alto Adige. Ricette di: Canederli, Zuppa al vino e Strudel di mele

Cucina di casa in Friuli-Venezia Giulia. Ricette di: Frico con le patate, Gnocchi di susine e Gulasch

Cucina di casa in Umbria. Ricette di: Brustengo di patate e verze, Salsicce con l'uva e Ciaramicola

Cucina di casa nelle Marche. Ricette di: Olive ascolane, Pollo in potacchio e Calcioni

Cucina di casa in Abruzzo. Ricette di: Scrippelle 'mbusse, Brodetto di pesce alla giuliese e Agnello cacio e uova

Cucina di casa in Molise. Ricette di: Calcioni molisani, Pancotto con gli orapi e Baccalà con la mollica

 

Cibo a Regola d'Arte a Milano. Cibo democratico con Niko Romito, Massimo Bottura e molti altri

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Il festival organizzato dal Corriere della Sera arriva alla sua settima edizione, e sarà protagonista all'Unicredit Pavilion di Milano dal 23 al 25 marzo. Si parla di diritto al cibo, spreco alimentare, cucina senza barriere, con un gran numero di relatori sul palco. Il programma della manifestazione. 

 

Cibo a Regola d'Arte. Cos'è

L'ultima edizione del format, l'autunno scorso, coincideva col debutto sulla scena partenopea: Cibo a Regola d'Arte in trasferta a Napoli, ospite del suggestivo spazio di San Domenico Maggiore. Un gemellaggio tra Nord e Sud per celebrare in compagnia di molti ospiti del settore e addetti ai lavori il festival organizzato dal Corriere della Sera per raccontare la cultura enogastronomica, i suoi protagonisti, le ultime tendenze, l'importanza della comunicazione, il destino dell'editoria specializzata. La manifestazione, a cura di Angela Frenda (direttrice della Cucina del Corriere), è cresciuta negli anni (300 gli ospiti coinvolti finora, di cui 120 chef, per un totale di 250 eventi in cartellone), coinvolgendo un pubblico di appassionati sempre più trasversale, e offrendo loro dibattiti, performance, masterclass e corsi di cucina, degustazioni guidate e laboratori per bambini. Dunque è ormai un appuntamento fisso della primavera milanese, che quest'anno, dal 23 al 25 marzo, tornerà ad animare l'Unicredit Pavilion di piazza Gae Aulenti sviscerando il tema del Cibo democratico, protagonista della settima edizione del festival.

 

Il Cibo democratico

Un argomento di dibattito che è al tempo stesso oggetto di sfida per chi sarà chiamato a confrontarsi con una riflessione necessaria, quanto impietosa: l'accesso a un'alimentazione buona e sana è un diritto di tutti, ma la strada per garantirlo è ancora lunga. Si discuterà quindi di giusto compenso per chi produce il cibo, ma pure di politica dei prezzi, perché sia democratica per chi quel cibo lo compra. E di etica del lavoro e sostenibilità, qualità della materia prima e tracciabilità. Ospiti sul palco non solo chef, pizzaioli, maestri pasticceri, giornalisti enogastronomici, ma anche intellettuali e scrittori coinvolti nel dibattito. Venerdì sera, la Pop up dinner inaugurale sarà dedicata alla cucina indiana di Ritu Dalmia, che da qualche mese è arrivata in città con Cittamani (la cena, a numero chiuso, si svolgerà in occasione dell'assegnazione del Cucina Blog Award, che per il secondo anno premia i migliori food blog). Mentre sul palco di Gae Aulenti, in Agorà, l'apertura sarà affidata al direttore Luciano Fontana, che con Angela Frenda articolerà il tema del festival in compagnia di Carlo Petrini (appuntamento alle 18.30, venerdì 23 marzo, ingresso libero fino a esaurimento posti).

 

Il programma del festival

Sempre venerdì, la masterclass col dottor Franco Berrino (Quanto ci costa mangiare bene?), e Niko Romito con la sua Intelligenza nutrizionale, dalle 19.30. Sabato parata di ospiti: il maestro Iginio Massari apre la giornata con la sua Torta Paradiso, poi Giancarlo Morelli e il peruviano Pedro Michel Schiaffino presentano un progetto di condivisione culturale in cucina; nel pomeriggio, invece, arriva Alessandro Borghese, in rappresentanza della cucina regionale italiana, di cui è ceromoniere in tv. E ancora i fratelli Cerea per la ristorazione scolastica e Massimo Bottura, fresco di inaugurazione del Refettorio di Parigi, sulla cucina di recupero. Nella stessa giornata, tra lezioni di cucina e cook talk arriveranno all'Unicredit Pavilion anche Loretta Fanella, Andrea Berton, Viviana Varese, Barbara Massaad e Karime Lopez Kondo (con le ricette dei migranti), Davide Longoni per una lezione sulla panificazione da lievito madre. E Chef Rubio, con la sua cucina senza barriere e la web serie Cucina in tutti i sensi. Domenica 25 si ricomincia con nuovi relatori: consueta apertura in dolcezza con Luigi Biasetto e il suo strudel di mele, il pranzo antispreco di Bruno Barbieri, la pizza fritta del rione Sanità di Ciro Oliva, le incursioni domestiche nell'alta cucina di Pino Cuttaia e l'orto di Antonia Klugmann. Tra gli altri protagonisti di giornata anche il pastry chef Andrea Tortora, Paolo Lopriore con Luca Govoni, Simone Salvini e Folco Terzani. Alle 19.30 momento di intrattenimento con Beppe Severgnini e Stefania Chiale autori dello spettacolo in scena sul palco dell'Agorà, con accompagnamento musicale di Mario Biondi.

 

Cibo a Regola d'Arte – Milano – dal 23 al 25 marzo - http://cucina.corriere.it/ciboaregoladarte/

 

a cura di Livia Montagnoli

Templi della miscelazione. Il Dead Rabbit di New York raddoppia e apre un Irish Coffee Bar

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Da 5 anni il cocktail bar con cucina fondato a Lower Manhattan dagli irlandesi Muldoon e McGarry è ai vertici della miscelazione internazionale. Ma l’ultima premiazione dei migliori 50 nel mondo l’ha visto perdere lo scettro, e scendere in quinta posizione. Ora il raddoppio: un nuovo locale per garantire agli ospiti un servizio migliore. Con il vezzo dell’Irish Coffee Bar. 

Ai vertici della miscelazione internazionale

Negli ultimi anni il Dead Rabbit Grocery and Grog di New York ha guidato la classifica dei migliori cocktail bar del mondo, praticamente ai vertici della miscelazione internazionale da quando ha inaugurato, 5 anni fa. L’autunno scorso però, il cambio di rotta del premio – per la prima volta affidato a William Reed, lo stesso dei World’s 50 Best Restaurants – ha portato qualche significativa variazione nell’ordine di arrivo, con Londra salda in testa (primo l’American Bar delll’Hotel Savoy, seguito dal Dandelyan dell’Hotel Mondrian) e l’insegna fondata da Sean Muldoon e Jack McGarry fuori dal podio, in quinta posizione, preceduta pure da un altro celebre cocktail bar del panorama newyorkese, il NoMad. Ma il Dead Rabbit resta senza dubbio uno dei templi della miscelazione internazionale, e attira in Water street un gran numero di appassionati desiderosi di sperimentare la spiccata personalità di un locale ispirato alla convivialità dei pub irlandesi (Muldoon e McGarry arrivano da Belfast), ma perfettamente calato nella dimensione metropolitana di New York.

Il Dead Rabbit di New York. Perché piace

Altissimi gli standard di servizio come la qualità della miscelazione, il Dead Rabbit è ospitato all’interno di uno storico edificio di Downtown Manhattan su tre livelli, risalente al 1828, e la sua lista di signature drink nasconde alcuni twist diventati classici del genere, come l’Irish Coffee che omaggia le origini del progetto. Così, dopo la trovata che l’estate scorsa ha portato il team del Dead Rabbit a Londra per l’apertura di un temporary bar all’hotel Claridge’s, ora è tempo di cambiamenti a New York: tra un paio di mesi il locale raddoppierà lo spazio a disposizione degli ospiti, nell’ottica di garantire un servizio migliore. E non solo. Dietro al progetto d’espansione c’è sicuramente la necessità di sopperire all’affollamento pressoché costante del bar, risolvendo insieme le difficoltà logistiche della cucina, ma anche la voglia di cimentarsi con un nuovo progetto, scommettendo su una delle proposte di punta della drink list, l’Irish Coffee.

Il raddoppio del locale

La nuova tap room garantirà 85 posti a sedere aggiuntivi, mentre una trentina di posti saranno ricavati nel salottino annesso. Ma l’ampliamento metterà a disposizione anche nuovi ambienti di lavoro per la cucina, con l’idea di ridurre i tempi di attesa all’ingresso degli ospiti e l’efficienza con cui drink e cibo arrivano al tavolo. Sorpresa nella sorpresa, uno spazio dedicato all’Irish Coffee. I nuovi locali saranno accessibili dalla porta adiacente all’insegna storica, al numero 32 di Water Street: al pian terreno si articolerà il bar con cucina – da sempre componente fondamentale dell’esperienza al Dead Rabbit, con piatti della casa della tradizione irlandese, come la sheperd’s pie ripiena di agnello e il sandwich con carne in scatola – mentre salendo le scale gli ospiti avranno accesso al salottino dall’atmosfera più riservata, anch’esso dotato di un proprio bancone, con otto sgabelli. Che il Dead Rabbit si sia messo in testa di riconquistare il titolo?

 

a cura di Livia Montagnoli

ProWein 2018 report. I nostri migliori assaggi

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La fiera di Düsseldorf è uno degli eventi più attesi da chi lavora nel mondo del vino. Una specie di paese dei balocchi con quasi 7mila espositori e vini da oltre 40 paesi nel mondo.

 

Come un bambino in un negozio di dolciumi. È la condizione di un degustatore al ProWein di Düsseldorf, con i suoi 6.780 espositori e vini da oltre 40 paesi. Piattaforma collaudatissima, facile arrivarci, ancora più facile da lasciare. Per un totale di 17 padiglioni internazionali da visitare. Tanti gli assaggi, tante le etichette alla prima uscita: ecco 10 vini – italiani e non - che hanno colto nel segno.

 

I 10 migliori assaggi

Lezèr 2017 Foradori

Ordinare magnum, delizioso, tutto da bere. Sono le ultime tre note tra gli appunti per questa prima proposta da Elisabetta Foradori. Un rosato che gioca a fare il Teroldego di sostanza, un Teroldego di sostanza che gioca la carta del rosato. Vinoso, ricorda il melograno appena spaccato, l’anguria, un cenno di terra e di caffè. Bocca materica e fresca, che si allunga su note salmastre e una tipica e incisiva nota finale di mandorla tostata. Chiude tirato nel frutto, austero, sfumato e lunghissimo.

 

Cerasuolo d'Abruzzo Baldovino 2017 Tenuta i Fauri

Ah che bel frutto. Una ciliegia carnosa e succosissima, matura al punto giusto, fresca al punto giusto. La sensazione è che la 2017 sia davvero una grande annata da Cerasuolo, altro piglio rispetto ai 2016 assaggiati 12 mesi fa. Avvolgente e sinuoso, con un tratto floreale ben a fuoco a fare da sponda: il sorso è puro piacere. Salta la categorizzazione piccolo/grande vino, rimane un prezzo eccezionalmente attraente. L’ultimo appunto segnato? Pizza! Deve essere l’abbinamento.

 

Bombino bianco 2017 Masseria Faraona

Un bianco pugliese d’alta quota? Esperimento o cambio di visione? Di sicuro un vino centrato. Siamo nella Murgia Barese, le vigne raggiungono anche i 500 metri di quota. Profilo mentolato, puro e fragrante, acidità spiccata e integrata in corpo slanciato, manca ancora una completezza sul piano aromatico ma è saporito e chiude freschissimo. Si porta via con circa 5 euro e non li farà di certo rimpiangere.

 

Rìas Baixas Albarino Xiòn 2016 Attis Bodegas Y Vinedos

Ci spostiamo tra Santiago di Compostela e Vigo, siamo molto vicini all’oceano e si sente nel bicchiere. Questo Albarino è irriverente nei suoi sbuffi iodati e floreali, con una nota erbacea pungente che ricorda i friggitelli ripassati in padella: in sostanza, apre lo stomaco. Bocca croccante e tesa, finale in souplesse. 10 euro in cantina. Eccezionale la selezione Embaixador 2013, un Albarino ancora più profondo nei richiami minerali che gioca un repertorio delicatamente tannico e un frutto più succoso: avete presente una pesca da un chilo del comune di Mojo Alcantara?

 

Forster Pechstein 2016 Margarethenhof

Una delle sorprese più belle di questo ProWein è il gruppo dei ragazzi di Winechanges, un’associazione spontanea di produttori del Palatinato che lavorano insieme secondo criteri di sostenibilità: si divertono e fanno grandi Riesling (ma non solo), ve li racconteremo nel nostro mensile. Intanto, vi proponiamo uno dei cru più preziosi in regione. Ha un tocco minerale/fumé elegante e soffuso; la bocca è compatta e flessuosa, finale luminoso. 13 euro per un vino che ne vale molti di più. Non è ancora importato in Italia.

 

Riesling GG Kastanienbusch 2016 Okonomierat Rebholz

Tra gli alberi di castagne del Palatinato c’è un cru speciale. E dà un vino spaziale, accende chi lo assaggia. Sontuoso nel tratto minerale, ostrica e riccio di mare, procede senza strappi e muscoli, si distende con un’eleganza fuori dal comune: tessitura sapida cesellata e profondissima. Roccioso, stuzzica la bocca e la conduce a un finale infinito. Tra vent’anni sarà ancora un giovanotto. L’intera batteria proposta da Rebholz è su livelli eccezionali, vini di straordinario carattere. Importato in Italia da Pretzhof che ci vede sempre lungo sui Riesling.

 

Malvasia 2013 Podversic

Se ami il tè, questo è il tuo vino. Se ami i vini macerati, questo è il tuo vino. Facciamo una straordinaria fatica a trovare un vino superiore in questa categoria. Ogni anno nei nostri assaggi alla cieca, i vini di Damijan Podversic fanno terra bruciata. Questa Malvasia ’13, ritestata durante l’evento Tre Bicchieri, incanta con il tratto di fiori gialli, l’arancia amara, i ricordi di albicocca. Una dolcezza bilanciata da una bocca delicatamente amara, in un equilibrio disarmante per naturalezza e progressione. Insieme al Villero 2013 di Brovia, il top tra i riassaggi.

 

Buttafuoco Vigna Sacca del Prete 2012 Fiamberti

L’idea di potenza connessa con questo rosso storico dell’Oltrepò Pavese, blend di croatina e barbera, sfocia non di rado in vini un po’ anacronistici per concentrazione ed estrazione tannica. Ma qui parliamo di un rosso completo e profondo. Abbina intensità e ricchezza fruttata a una vena sapida saporitissima, maturo e dinamico, dal finale ben risolto nei suoi risvolti speziati. L’abbiamo abbinato alla neve copiosa scesa domenica scorsa su Düsseldorf.

 

Champagne Ambonnay 2011 Marguet

Di Champagne così buoni da questo millesimo ne ricordiamo davvero pochi. Grandi parcelle, tanto lavoro in vigna, zero dosaggi, zero solfiti: non manca il coraggio a Benoit Marguet. Questo 2011 fa sfoggio di una maturità solidissima, ha un frutto rosso ubriacante per succulenza, note di sottobosco e tè nero per un finale glorioso. A bicchiere vuoto canta. Monumentale il Les Crayeres 2012 che ha una precisione e definizione aromatica in HD. Decisamente meno convincente lo Shaman Rosé 2014, aperto ed evoluto.

 

Montepulciano d’Abruzzo Riserva 2010 Podere Castorani

Festeggia 50 anni la Doc Montepulciano d’Abruzzo, protagonista di uno dei tanti afterparty del dopo fiera. Sugli scudi questa selezione. Il naso è scuro, sui ricordi di terra e di spezie, la bocca è un vero portento. Ha un’energia di fondo davvero trascinante, dosa ricchezza e sviluppo acido alla perfezione. Il cambio di passo è travolgente, il finale è profondo, saporito, freschissimo. Si farà trovare pronto anche per i 70 anni della denominazione.

 

a cura di Lorenzo Ruggeri

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