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New Ancient Cuisine: quella nuova cucina antica che ridefinisce l'alta gastronomia italiana

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Alcuni cuochi italiani, tra i più talentuosi e innovativi del momento, hanno deciso di portare avanti la loro ricerca gastronomica guardando con scrupolo al passato e alla storia della cucina. Lo stanno facendo in maniera autonoma, qui proviamo a riallacciare i fili che li accomunano.

Come tutti gli ambiti della creatività, anche l'alta cucina vive di scuole, tendenze, alternanze. Dopo l'egemonia francese, con la Nouvelle Cuisine negli anni Settanta e Ottanta, è venuto il tempo di quella spagnola con Ferran Adrià negli anni Novanta, e a seguire, nel Duemila, della New Nordic Cuisine con René Redzepi, il cuoco in grado di innovare i concetti trasformando le difficoltà di un territorio apparentemente brullo nel punto di forza della sua proposta. Ora è finalmente il turno della cucina italiana? È davvero l'Italia il luogo più provocatorio, più complesso, più profondo e allo stesso tempo più creativo della gastronomia internazionale contemporanea? Se tutto ciò è vero, abbiamo una strada per codificare questa condizione? Se tutto questo è vero, esistono dei punti in comune tra i grandi chef che hanno ottenuti questi risultati? Tra le (molte) possibili risposte abbiamo individuato una ipotetica linea di tendenza meritevole di approfondimento. Ovvero il tratto comune dei cuochi che sono tornati a studiare, che si fanno carico dell'approfondimento e della lettura, che analizzano e riutilizzano la storia della gastronomia, che prendono spunti dal passato – addirittura affondando fino all'archeologia – proiettandoli nella contemporaneità ed edificando così la loro identità, la loro peculiarità, la loro unicità rispetto ai colleghi in Italia e nel mondo.

New Ancient Cuisine

Abbiamo provato anche a dare un nome a tutto questo e l'abbiamo battezzato New Ancient Cuisine: la nuova cucina antica che abbandona ogni nuovismo fine a se stesso pur essendo molto innovativa, che non si vergogna di guardare a ritroso, che si appoggia su solide basi teoriche senza mai tralasciare la resa pratica, il gusto, l'interazione con il commensale, il senso della convivialità e della soddisfazione. Una peculiare ricerca gastronomica – mai pedante, ma assai profonda – che traguarda un'assoluta consapevolezza di un gruppo di cuochi che, con semplicità e perfino con umiltà, si ritrovano tra i migliori al mondo. Consapevolissimi di esserlo anche e soprattutto grazie ad un contesto portatore di una storia irripetibile.

A chiederci da dove veniamo e in che punto di percorso si trovi oggi l'alta gastronomia italiana, avevamo iniziato già sullo scorso numero del Gambero, con un excursus sugli Anni Settanta: in quegli anni di apparente marginalità della nostra cucina, quando tutti erano concentrati sulla Francia, stavano in realtà accadendo cose significative, che hanno posto le basi per l'identità della cucina italiana contemporanea. Fin qui lo speciale sul numero di gennaio. Però poi abbiamo insistito. Ma più insisti a studiare i picchi della più fulgida ricerca della cucina italiana di oggi, più viene fuori la storia, la storicità, il passato, il patrimonio culturale. Chi oggi sta proponendo avanguardia, in Italia, lo sta facendo sempre con una formidabile cognizione di causa basata su studi, indagini, approfondimenti storici. È un tratto che accomuna moltissimi chef, quasi tutti quelli che sono ai vertici. Tra questi abbiamo provato a raccontare le vicende di coloro che più di altri ci sono sembrati rappresentativi. Chi sono o cosa fanno dunque i cuochi della New Ancient Cuisine?

Piatto di Matteo Lorenzini. Ph Lido VannucchiPiatto new ancient di Matteo Lorenzini

Matteo Lorenzini e Marco Valenti

Dopo anni in cui la “cucina medievale” non era altro che la riproposizione evocativa di alcune improbabili ricette in ristoranti folcloristici del centro Italia, lo chef Matteo Lorenzini e Marco Valenti, Professore del Dipartimento di Scienze Storiche e dei Beni Culturali dell’Università di Siena, hanno cambiato completamente le carte in tavola trasformando il Tardo Medioevo in una fonte di ispirazione e studio per la gastronomia contemporanea (lavoro che ha dato vita al Millennials Festival). “Abbiamo selezionato le origini, quanto mai attuali, della cucina moderna” racconta Valenti. “Si tratta di opere letterarie in primis, quindi da trattare come tali, che ci permettono di percorrere la cucina degli anni compresi tra il 1338/39 e il 1464/65; in definitiva un secolo abbondante e decisivo per la grande cucina. Dall’esame dei testi abbiamo tratto 25 ricette che, rivisitate e riproposte, rappresentano per noi un vero patrimonio alimentare della cucina storica italiana sviluppatasi, non casualmente, nella Toscana del Trecento e del Quattrocento”. Ricette medievali che dimostrano come alcuni ingredienti e alcune tecniche ricorrono in diversi momenti storici. “Quando ho letto il Ricettario di Anonimo Toscano e il Libro de arte coquinaria di Mastro Martino de' Rossi, non ci potevo credere: c'erano moltissime ricette che reputavo di tradizione francese. Penso per esempio a un piatto che ho assaggiato durante il colloquio fatto anni fa al Louis XV di Alain Ducasse. Erano verdure risottate con un brodo di pollo. Una tecnica che ho ritrovato nei ricettari toscani medievali”. Al posto del brodo di pollo c'era quello di faraona, certo, ma chef Matteo Lorenzini (oggi al Se.Sto on Arno di Firenze) ci sta ricordando che la grande cucina francese deriverebbe dalla gastronomia italiana medievale. Quanto meno fino al 1651, quando François Pierre de la Varenne pubblica “Le cuisinier François”, opera fondamentale in seguito alla quale la cucina francese inizia a diventare quella che conosciamo, affrancandosi dall'eredità rinascimentale di stampo italiano.

Sono moltissimi i punti in comune che ho riscontrato. Per esempio nei ricettari medievali si parla di calissoni, e vengono descritti tali e quali ai calisson francesi, che poi non sono altro che dei ricciarelli leggermente più crudi. Un altro esempio? La gelatina di pesce - nel ricettario dell'Anonimo Toscano contiene anche l'onnipresente zafferano - che ho ritrovato alla corte del signor Ducasse. O la galantina di pollo o i piccioni ripieni... Certo” sorride Lorenzini“poi mi sono ricordato di Caterina de’ Medici! In qualche modo fu lei a rifondare la cucina francese con i ricettari italiani”. Ma, se questo non bastasse, le ricerche a quattro mani di Lorenzini e Valenti non si fermano ai libri e affondano le mani anche nella terra trovando ragion d'essere nelle scoperte archeologiche che l'Università di Siena ha compiuto e sta compiendo nelle sue campagne di scavo.

Il rognone di Riccardo Camanini. Ph Lido VannucchiIl rognone di Riccardo Camanini

Riccardo Camanini

La New Ancient Cuisine prevede dunque lo studio delle origini, dei primordi, dell'evoluzione. E queste ricerche sono fonte di ispirazione per uno stile di cucina, strepitosamente contemporaneo, che volge lo sguardo al passato con consapevolezza e sicurezza. Senza paura di citare e senza remore nel conformarsi al gusto di oggi. Già, perché l'organo del gusto non è la lingua, ma il cervello, un organo culturalmente – e perciò storicamente – determinato. E di base il gusto odierno rimane (e deve rimanere) il faro di tutte le ricerche. “Bartolomeo Scappi descrive le mammelle fritte in mostarda, che ho provato a fare” ci racconta chef Riccardo Camanini ma la mammella ha un sapore troppo particolare per il gusto di oggi: troppo lattoso, acidulo, nervoso. Così come ho provato a fare la 'verza struccata', in pratica una verza cotta in un fondo di costine e lasciata macerare nel mosto cotto, servita poi 'struccata, quindi senza il condimento. Ma non ho ottenuto i risultati sperati”. Quintessenza del cuoco New Ancient, Camanini non è un citazionista fine a se stesso. La cucina New Ancient non è insomma una cucina caricaturale o “vecchia”, è anzi una cucina nuova – new – che guarda all'antichità sfruttandola come imbattibile architrave di consapevolezza e sintonia con la storia: i cuochi italiani possono senza dubbio darsi un'infrastruttura simile e molti hanno deciso di percorrerla. Capita però, a casa di Riccardo e Giancarlo Camanini (cucina e sala del ristorante Lido84 di Gardone Riviera), che i risultati superino le aspettative, come è avvenuto con la celebre Cacio e pepe in Vescica: proprio quell'organo muscolare citato nel De re coquinaria come contenitore per la maturazione di diversi ingredienti. Oppure come un piatto inserito nell'ultimo menu che riprende i fiadoni bresciani – proposti da Camanini in versione salata con funghi ed erbe officinali – una sorta di tortelli dolci ripieni, considerati la specialità di Brescia e parte di una delle venti ricette attribuite alla cucina di Giove, descritte nel Baldus, il poema cinquecentesco di Teofilo Folengo, che offre un ricco repertorio della gastronomia dell’epoca nell’area padana. “Leggo, mi ispiro, non invento nulla”. È il mantra di Camanini che attualmente sta leggendo Bartolomeo Sacchi, “grande gastronomo con la capacità di trasporre la sua passione. Per me l'antesignano di Brillat-Savarin. Che dà anche delle dritte per conservare la cacciagione: d'inverno tenendola in un luogo fresco e asciutto, d'estate inserendo delle ortiche nel piumaggio”.

Potremmo ascoltarlo ore mentre ci parla delle sue letture e delle sue interpretazioni. “Il De re coquinaria mi ha sempre incuriosito, e divertito, perché lascia spazio a mille interpretazioni. Probabilmente scritto da qualche cuoco o dai servi di Apicio, è pieno zeppo di errori e imprecisioni che lasciano spazio all'immaginazione. Poi la cosa che mi ha sempre affascinato è l'utilizzo del futuro: prenderai, cucinerai, troverai... e tu lettore ti senti libero. Vuoi mettere con gli imperativi delle ricette attuali?”. Ma esattamente, qual è l'obiettivo di queste divagazioni temporali? “Sapere da dove arriviamo ci rende più consapevoli: ma lo sapete che Scappi parla anche di grilli farciti e fritti? altro che la cucina nordica degli insetti! Insomma se ci pensate abbiamo sufficienti link e sufficienti prodotti per poter fare delle cucine personali, senza dover scimmiottare nessuno. A mio avviso è meglio trovare ispirazione dalla propria storia piuttosto che da ingredienti che non ci appartengono, come il plancton o il miso”. E così l'umami di Camanini è in assoluto il brodo di sberna, ovvero la pecora bergamasca che i pastori in questo periodo mettono a marinare per 4-5 giorni e poi a seccare all'aria per circa un mese: viene tagliata a brandelli e grigliata. “Io invece ci faccio il brodo e lo servo con delle seppie crude. Questo è il mio umami”. Insomma, pensavamo che la ricerca sugli insetti fosse appannaggio della New Nordic Cuisine e invece scopriamo che Bartolomeo Scappi aveva già detto qualcosa a riguardo.

Pollo di Matteo Lorenzini. Ph Lido VannucchiPiatto new ancient di Matteo Lorenzini

Paolo Lopriore

La filologia dei ricettari storici non è comunque a senso unico. Va controcorrente per esempio Paolo Lopriore, benché stella di prima lucentezza della New Ancient Cuisine: lui prima si innamora di un ingrediente e poi gli dà legittimità storica: “i ricettari storici giustificano l'espressione moderna della creatività, l'idea è un susseguirsi di idee arrivate ai giorni nostri, quindi quel che arriva deve essere legittimato dalla storia. Io sono rimasto affascinato dal cavedano senza minimamente conoscere Scappi; è stato Luca Govonia spiegarmi che il cuoco rinascimentale lo nominava nelle sue ricette. Per me è stata la quadratura del cerchio”. Una quadratura che ha permesso la nascita della sua “Nuova concezione ristorativa”, che di fatto si ispira alla tavola conviviale e alle nostre radici e che ha molto da spartire con la Nuova Cucina Antica.

Fulvietto Pierangelini

Anche Fulvietto Pierangelini è collocabile in questo immaginario gruppo, con una sfumatura più narrativa: “Mi piacciono i racconti dei pescatori e le storie dei contadini: da queste narrazioni si evince come si trattavano e utilizzavano le materie prime un tempo. Preferisco le persone vere e concrete ai ricettari storici”. Dai libri di narrativa ai menu, la cosa fondamentale rimane comunque la ricerca delle origini e la consapevolezza del passato, di un certo corredo “genetico” di cui farsi carico.

Matteo Baronetto

Come ha fatto, rimanendo tra le mura del Cambio di Torino, Matteo Baronetto: “quando sono arrivato al Cambio ho iniziato a ricercare tutti i menu che si sono susseguiti nella storia del ristorante, uno dei più antichi d’Italia. Mi sono imbattuto nel Risotto alla Cavour, nella Finanziera e nelle Acciughe tartufo e limone. Insomma, nessuno aveva mai raccontato che cosa si facesse qui”. Così l'ha fatto lui con “Nel tempo”: un menù doppio che ripercorre il passato e dove il commensale può giostrarsi tra il piatto fedele alla tradizione e quello che è invece l'interpretazione dello chef. “Una sorta di storicismo culinario che ha per oggetto alcuni piatti iconici degli ultimi decenni del secolo scorso, dalle penne panna e salmone ai gamberetti in salsa cocktail, al brasato al Barolo. In questo menu, chi assaggia i piatti può immediatamente fare dei confronti, scegliendo di volta in volta la propria versione preferita. È come vedere lo stesso film nella versione originale o in quella rifatta anni dopo”.

Ma non finisce qui, Baronetto in questo percorso di ricerca è incappato anche in ricettari del 1700, accorgendosi di come piatti, o meglio concetti, che reputava di sua invenzione fossero in realtà già presenti all'epoca. Brividi New Ancient. “In un testo di cucina francese si parla di anguilla con il coniglio e il pensiero è andato subito al mio rognone con i ricci di mare. Tralasciando la ormai banalizzata accoppiata carne-pesce, qui la cosa fondamentale è il concetto di fondo che sta nell'abbinamento: la carne grassa dell'anguilla è perfetta da abbinare a quella magra del coniglio. Io ci ho ritrovato delle assonanze che in un certo senso mi hanno trasmesso una sorta di legittimazione”. E la legittimazione non è forse una delle chiavi della New Ancient Cuisine per come la stiamo definendo? Già perché cibo, ricette, tecniche, idee e valori hanno costantemente viaggiato attraverso i confini, attraverso le classi sociali e le religioni, confondendo i borderspolitici e le categorie culturali. E continuano a farlo tuttora. Ecco perché esplorare il passato fornisce agli chef un senso di appagamento culturale e di sicurezza identitaria. Ecco perché, grazie a un passato che non ha rivali, la cucina italiana può essere solo all'inizio di una fase di leadership gastronomico-culturale in Occidente. Non c'è altro da fare che alimentare i filoni di ricerca, essere onesti, concreti e non smettere di studiare. Il resto lo fanno il patrimonio agroalimentare, la memoria e il DNA che mescola storia e talento.

 

a cura di Annalisa Zordan e Massimiliano Tonelli

foto di Lido Vannucchi

 

QUESTO È NULLA...

Nel numero di febbraio del Gambero Rosso, un'edizione tutta nuova in questi giorni in edicola, trovate anche un glossarietto per conoscere personaggi e volumi fondamentali per capire questa nuova tendenza della cucina italiana, un profilo degli chef più rilevanti di questo stile, uno sguardo a quanto accade in Polonia firmato da Fabio Parasecoli e il decalogo della New Ancient Cuisine, concludendo con le ricette che Matteo Lorenzini ha sviluppato insieme al professore Marco Valenti dell’Università di Siena, raccontate e approfondite da Sara Favilla. Non solo: c'è anche un articolo firmato da Ferran Adrià sul lavoro che sta facendo con la elBullifoundation per sviluppare un metodo di ricerca chiamata Sapiens, forte di uno sguardo olistico che ingloba anche il passato. E le foto, bellissime, di Lido Vannucchi.

Il numero lo potete trovare in edicola o in versione digitale, su App Store o Play Store

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Bologna, le ultime novità gastronomiche. Nuovi progetti per Brisa, la rinascita della Bolognina, la Birreria Popolare

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Ancora novità a movimentare il panorama gastronomico bolognese, con la pizza di Teglia firmata Brisa, il gelato di Stefino al mercato della Bolognina, Gabriele Spinelli coinvolto nel progetto Dolce Salato (il ristorante, non la pasticceria). E poi una grande birreria in centro città, e l'addio di Agostino Iacobucci ai Portici. 

I nuovi progetti di Brisa. Arriva Teglia

Continuiamo a parlarne, di Bologna e della sua ristorazione, che un posto tra le piazze gastronomiche più attive d'Italia lo sta conquistando a suon di progetti moderni, riqualificazioni urbane, attori di livello. Del giovane Lorenzo Costa, e del suo audace progetto destinato a far innamorare i bolognesi della cucina giapponese, abbiamo raccontato qualche giorno fa. Giovani, audaci e con le idee altrettanto chiare sono i ragazzi di Brisa, che negli ultimi due anni si sono imposti sulla scena della panificazione locale (è loro la pizza al taglio dell'anno per la guida Pizzerie d'Italia 2018). Li avevamo lasciati alle prese con il raddoppio del format che gli ha portato fortuna in via Galliera: un nuovo spazio con caffetteria, in via Castiglione, più ampio e con tavolini su strada, coi caffè delle torrefazioni Lelli e Bugan (ma presto Brisa avrà, vedrete, il suo proprio brand di specialty coffee), il pane, la pizza, i lievitati per la colazione, gli sfizi per l'aperitivo, con vini a fermentazione spontanea.

Alla fine di ottobre, con un mese d'anticipo sui festeggiamenti del secondo compleanno dell'insegna, il nuovo punto vendita ha inaugurato al civico 43, aperto da mattina a sera. Ma Davide, Pasquale, Enrico e Gregorio (che nel frattempo hanno riunito intorno a sé un gruppo numeroso: “Siamo un bellissimo team di 20 persone, tutti molto motivati a fare bene!”, racconta Pasquale) non si fermano, e presto moltiplicheranno gli sforzi, consapevoli dei risultati già portati a buon fine: “Il nostro mulino in Abruzzo è ultimato e presto vedrà la luce, la proposta di pasticceria per la colazione è sempre più articolata e definita, il lavoro di ricerca sul caffè ci permetterà presto di offrire una gamma di caffè fitro di grande qualità, ampliando ulteriormente la proposta di caffetteria”. E poi c'è la pizza: l'intenzione, che si concretizzerà entro primavera, è quella di mettere la firma sulla pizza di Sega!, come si è chiamata fino a oggi la pizzeria a taglio inaugurata all'inizio del 2016 in via San Mamolo, subito fuori dalle mura della città. Con la proprietà di Sega! i ragazzi hanno collaborato sin dall'inizio fornendo il know how in materia di impasti e lievitazioni. L'idea però è quella di prendere in mano la gestione diretta del punto vendita, che per l'occasione sarà ribattezzato Teglia (il nome precedente prendeva spunto dall'ex falegnameria in cui è sorto il locale, ora è necessario un brand scalabile) e proporrà la pizza a taglio di Brisa con l'obiettivo di impostare una formula replicabile in altre città: “Ne faremo il nostro laboratorio di ricerca e sviluppo, uno spazio più scanzonato, ma sempre col nostro stile. Ora procederemo con qualche lavoro di restyling del locale, nei prossimi mesi proporremo un calendario di appuntamenti, collaborando con chef, elaborando qualche pizza speciale. Non abbiamo dietro fondi d'investimento, ma viviamo per questo fantastico progetto che ambisce a unire salubrità e gusto del prodotti, e non intendiamo sicuramente fermarci”. Ricordiamo, tra l'altro, che i lievitati di Brisa, che a Bologna vantano un gran numero di estimatori (e per Pasqua ci sarà da divertirsi, con la Colomba già andataa  ruba l'anno scorso, uova bio, zucchero di canna bio e cioccolato Colzani), arrivano pure ogni domenica mattina alla Cineteca di Bologna per la colazione al cinema (fino alla fine di febbraio, ma il progetto potrebbe prolungarsi), e fino a qualche tempo fa dietro al banco di Safagna, al mercato di via Albani, alla Bolognina.  

Il mercato Albani alla Bolognina. Come cambia

Proprio quel mercato che, seppur “periferico” (tra virgolette, ché siamo pur sempre a 10 minuti a piedi dalla stazione centrale), presidia un quartiere che nell'ultimo anno si è confermato tra i più vivaci della città sotto il profilo gastronomico, e sta rifiorendo grazie all'arrivo di giovani realtà vocate alla somministrazione di cibo e vino di qualità. Safagna, spin off di Zazie, è una di queste: inaugurato l'estate scorsa, il banco propone centrifughe, estratti, zuppe del giorno, piatti di gastronomia fredda, e presto resterà aperto fino a sera. Poi c'è il Pollaio, con la selezione di vini curata da Gustonudo: proposte di nicchia e del territorio a buon prezzo, con sfizi d'accompagnamento, sott'oli e piccola cucina per pranzo, aperitivo, cena. E l'ultimo arrivato, Sbando, da un'idea di Fabio Giavedoni: un'enoteca di mercato con una settantina di etichette e tante proposte al calice, cicchetti in abbinamento e corsi di degustazione settimanali. Ma presto, in tempo per la primavera, aprirà pure una gelateria, che porta la firma di Stefino, anche se l'insegna sarà un'altra: “Forniremo il prodotto a un nostro cliente che ha rilevato un box al mercato” racconta Stefano Roccamo, mastro gelatiere di Stefino “Stiamo valutando se fornire il gelato già mantecato, o portare il prodotto da mantecare, per avere un risultato migliore. Comunque sarà a tutti gli effetti un box gelateria pensato per fare qualità, nell'ambito della riqualificazione che sta coinvolgendo l'intera struttura. Dovremmo essere pronti già entro la fine di marzo, e ritroveremo anche il nostro fornitore di passito per lo zabaione, Gustonudo, che gestisce il Pollaio. Le prospettive possono essere interessanti, molti residenti hanno cominciato a vivere il quartiere in modo nuovo, sono nati locali interessanti come Fermento e la Trattoria di via Serra”.

Non a caso, tutt'intorno procede la riqualificazione estetica del mercato, con gli street artist all'opera per ripensare (e colorare) gli spazi condivisi. Chi invece ha voglia di una pizza, deve spingersi poco più in là, in via Zampieri, 400 metri a piedi dal mercato. Qui Pasquale Penne ha aperto (all'inizio di novembre scorso) la sua pizzeria napoletana, Bianco Farina: cornicione ben in vista, ingredienti selezionati (molti in arrivo dalla Campania), abbinamenti classici e variazioni sul tema, dalla cacio e pepe rivisitata al calzone “ripieno di eccellenze”.

Dolce Salato. Il ristorante

Per tornare a un nome noto, Gabriele Spinelli è una presenza sempre più salda in città. Alla fine dell'estate scorsa, il pasticcere del pluripremiato bar di Pianoro (Tre chicchi e Tre tazzine sulla guida Bar d'Italia 2018 del Gambero Rosso) apriva il primo avamposto in città, in via Stalingrado (Grado61 l'insegna); ora i suoi dolci chiudono il menu del ristorante Dolce Salato (e il nome non è casuale) dell'Hotel Cosmopolitan. Ci troviamo alla periferia di Bologna, in una struttura a 4 stelle che accoglie specialmente clienti in viaggio per affari. Il ristorante, che replica anche graficamente l'insegna della pasticceria di Pianoro, riunisce Mario Ferrara (chef de Lo Scaccomatto, qui supervisore dell'operazione), il giovane Gerardo Palandro (resident chef), il maitre Christian Fistetto e Gabriele Spinelli, che propone una serie di dessert al piatto a concludere un pasto improntato all'interpretazione moderna della cucina bolognese, dal tortino di squacquerone, zucchine e mortadella ai passatelli con ragù di coniglio, indivia e salsa di parmigiano, alla guancia di manzo al Sangiovese con sedano rapa e spinaci. Tra i dolci, anche la degustazione di classici della tradizione: torta di riso, zuppa inglese, bicchierino di zabajone, goccia di mascarpone. Un'esperienza corale avviata un paio di mesi fa: vedremo dove porterà. Un'altra tavola d'albergo bolognese, intanto, perde il suo chef: in attesa di scoprire i prossimi progetti (solisti?) di Agostino Iacobucci, il ristorante I Portici, orfano del suo chef, chiama Nino Di Costanzo. Lo chef ischitano supervisionerà la proposta, ma in cucina lavorerà come executive chef Emanuele Petrosino, suo secondo con importanti esperienze internazionali alle spalle.

 

La Birreria Popolare in centro città

Tra le ultimissime novità (e le insegne che si apprestano a inaugurare, registrate dal puntualissimo blog di A Pranzo con Bea), il raddoppio di Ca'Pelletti in via Zamboni, con apertura da mattina a sera, per colazione, pranzo e cena all'insegna della tradizione dell'Emilia Romagna e della Toscana (anche a Milano, in piazza Gae Aulenti), tanta pasta all'uovo e minestre. E poi la Birreria Popolare che ha ripensato la cinquecentesca Casa dei Lupari in stile industriale: camino, bancone sociale e 100 posti a disposizione per valorizzare la birra artigianale, italiane e internazionale. E anche qui, tra i fornitori, fa capolino il Forno Brisa, che procura pane e dolci. In carta anche la carne della Macelleria Zivieri e il pesce in arrivo da Cattolica. E ancora, prossimamente, l'inaugurazione di Bio's Kitchen, in calendario per il 28 febbraio. Si tratta dell'operazione già consolidata a Rimini (idea di TerraeSole dal 2014), concentrata sulla cucina naturale, sostenibile e consapevole, alla sua prima uscita bolognese, in via Galliera. E per l'occasione il menu si rifà il look, con la consulenza di Pier Giorgio Parini.

 

Teglia – Bologna – via San Mamolo, 25a - prossimamente

Mercato Bolognina – Bologna - via Francesco Albani, 4

Bianco Farina – Bologna – via Zampieri, 36 - www.facebook.com/pizzeriabiancofarina/

Dolce Salato - Bologna – via del Commercio Associato, 9 - www.hotelcosmopolitanbologna.com/

Ca'Pelletti – via Zamboni, 4 – www.capellettiitalialocanda.it

Birreria Popolare – Bologna – via dal Luzzo, 4a - www.facebook.com/birreriapopolare/

Bio's Kitchen – Bologna – via Galliera, 11 – dal 28 febbraio 

 

a cura di Livia Montagnoli

Al Mercato Centrale di Livorno c'è voglia di novità. Il bando per ripopolare le Vettovaglie con qualità

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Proposte originali e innovative, coerenza estetica e di contenuti con la storia della struttura ottocentesca, somministrazione di cibo e bevande. Cerca tutto questo, l'amministrazione di Livorno, per assegnare i banchi e le cantine dismesse al mercato delle Vettovaglie, sempre più indirizzato verso una rinascita sotto il profilo gastronomico e turistico. 

Il mercato di Livorno

Dello storico Mercato Centrale di Livorno, una delle strutture mercatali più grandi d'Italia realizzata da Angiolo Badaloni alla fine dell'Ottocento, raccontavamo con dovizia di particolari 2 anni fa. Della sua storia – l'ambizione di un progetto che all'epoca costò ben 4 milioni di lire – del presente e dei progetti per il futuro, quando su impulso dell'amministrazione comunale guidata dal sindaco M5S Filippo Nogarin stava per concretizzarsi il primo step di un processo di riqualificazione della struttura e valorizzazione delle attività commerciali vivamente caldeggiato da molti livornesi. L'obiettivo, già allora, era quello di ripristinare il rapporto con la città dell'imponente mercato delle Vettovaglie circondato dall'acqua dei canali, ripopolando i banchi dismessi, prolungandone l'apertura e incentivando la somministrazione di cibo. Un'idea ispirata al più celebre modello fiorentino, allora ancora poco imitato, e oggi in buona compagnia di realtà più o meno efficaci nell'interpretare con personalità la formula del mercato gastronomico. Aprivano dunque le prime attività, dopo un primo bando per l'assegnazione di spazi vuoti seguito dall'assessore al commercio Paola Baldari.

 

La riqualificazione strutturale

Seguiva, nella seconda metà del 2016, l'indagine preliminare per attrarre soggetti interessati a investire e partecipare nel ripristino della struttura, con un progetto ambizioso per il primo piano del mercato, destinato ad accogliere spazi dedicati alla ristorazione, una scuola di cucina, un open space da destinare alle manifestazioni. Traguardo illuminato quanto oneroso, rimasto scritto su carta, ma ancora non finalizzato. Nel frattempo, però, qualcosa si è mosso: gli investimenti pubblici sulla struttura hanno portato alla ristrutturazione della copertura (con la rimozione dell'amianto), al restauro delle storiche ringhiere e delle capriate. Intanto le (poche) attività di somministrazione delle Vettovaglie sono cresciute conquistando il favore di clienti abituali e turisti in visita al mercato. E allora perché non rilanciare con un nuovo bando di assegnazione? “Siamo alla ricerca di imprenditori pronti a mettersi in gioco, investendo con coraggio per rendere sempre più bello e attrattivo questo gioiello architettonico che mezzo mondo ci invidia” scrive il sindaco Nogarin, per carattere poco incline alle mezze misure: “È una partita fondamentale per il rilancio della città”.

 

Il bando per banchi e cantine. Premio alla qualità

Il nuovo bando di gara è stato presentato pochi giorni fa, in prima battuta riservato agli esercenti (130 quelli attualmente in attività alle Vettovaglie), che avranno diritto di precedenza nell'avanzare la propria candidatura. Ma anche per loro i criteri di concessione saranno piuttosto selettivi: al bando vanno 19 banchi, 3 negozi e 19 cantine attualmente libere, e la valutazione terrà conto dell'offerta tecnico qualitativa ed economica, con l'obbligo per i concessionari di rispettare le nuove linee guida proposte dall'amministrazione. Nel ripensare il futuro del mercato, infatti, anche il criterio di omologazione estetica è stato preso in considerazione per valorizzare al meglio la storia della struttura: dunque spazio al legno (tutti i banchi dovranno essere in compensato marino) e alle insegne di colore diverso in base alla tipologia merceologica, ecrù per i panifici, rosso per le macellerie, verde per frutta e ortaggi. Bando alle tendine. Ma è sulla qualità dei contenuti che il bando pone l'accento: il 70% del punteggio sarà assegnato in base all'originalità e al carattere innovativo della proposta, alla sua sostenibilità finanziaria, alla valorizzazione dei prodotti del territorio, all'ideazione di progetti di somministrazione coerenti con la storia del mercato. Gli esercenti potranno presentare domanda entro il 13 marzo, poi la gara sarà aperta al pubblico.

 

a cura di Livia Montagnoli


 

Anteprima Vernaccia San Gimignano 2018 report. In assaggio l'annata 2017 e la Riserva 2016

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L'unica tappa bianchista tra le molte Anteprime della Toscana è quella della Vernaccia di San Gimignano. Che si presenta con la 2017 – l'annata del grande caldo – e la riserva 2016.

Nel Gran Tour delle Anteprime della Toscana, c’è una tappa “bianchista” da non perdere: l’appuntamento con la Vernaccia di San Gimignano. In una regione di grandi rossi, la Vernaccia riesce a spezzare il dominio incontrastato delle uve a bacca scura, in virtù di una storia e di una tradizione secolare. Riconosciuta tra le prime Doc d’Italia nel 1966 e passata nel 1993 a Docg, la Vernaccia è un vino dalla spiccata personalità e dal sorprendente potenziale d’evoluzione. Mercoledì 14 febbraio, nelle sale del Museo di Arte Moderna e Contemporanea De Grada di San Gimignano, i produttori della Denominazione hanno presentato alla stampa specializzata i vini della vendemmia 2017 e le Riserve delle annate precedenti. Oltre quaranta le Aziende presenti all’anteprima, un centinaio le etichette in degustazione e tanta curiosità per un millesimo difficile da interpretare.

La Vernaccia di San Gimignano in cifre

Il vigneto della Vernaccia Docg si estende su circa 720 ettari, nella zona collinare attorno al caratteristico borgo medievale di San Gimignano. Nel 2017 sono stati prodotti 31.651 ettolitri di vino e 5.138.603 bottiglie di Vernaccia di San Gimignano delle annate 2016 e precedenti, con una leggera flessione rispetto alla media. Il valore economico del giro d’affari della Denominazione è di 16 milioni di euro e rappresenta una quota pari al 40% del valore totale del settore vinicolo di San Gimignano. La percentuale di Vernaccia di San Gimignano destinata all'export è sostanzialmente stabile e si è attestata nel 2017 sul 52%, con la seguente ripartizione per aree geografiche: 27,5% Europa, 18,9% mercato americano, il 4,7% mercato asiatico. Per quanto riguarda il mercato europeo, il più importante partner commerciale resta la Germania (9,8%), seguono la Svizzera (3,8%), UK (2,7) e l’Olanda (2,6).

 

L’annata 2017

La 2017 è stata un’annata dall’andamento climatico difficile, segnata da un susseguirsi d’eventi estremi. La stagione si è aperta con una primavera calda e soleggiata, che ha portato a un germogliamento precoce della vite, con circa quindici giorni d’anticipo. Con uno sviluppo vegetativo così avanzato, le gelate di fine aprile hanno creato gravi danni, soprattutto ai vigneti coltivati nel fondo valle, con una perdita che, nei casi peggiori, è arrivata al 30%-40% del raccolto. L’estate è stata caratterizzata da temperature alte anche durante le ore notturne e da un lungo periodo di siccità, con rischio di fenomeni di stress idrico. Condizioni climatiche critiche per la vite, che hanno condotto le piante a produrre poche uve e non sempre equilibrate, con tendenza a una maggiore concentrazione. La vendemmia della vernaccia è cominciata a fine agosto, con largo anticipo rispetto alle medie degli anni precedenti. Il dato finale parla di una produzione calata quasi del 26% rispetto al 2016, in pratica si è persa una bottiglia su 4 di Vernaccia di San Gimignano.

La Vernaccia di San Gimignano 2017

I vini del 2017 sono figli di un’annata difficile da gestire, soprattutto nella scelta finale dei tempi di vendemmia. Le condizioni complesse hanno portato le viti a uno sviluppo un po’ disomogeneo, che si è poi riflesso in vini non sempre armoniosamente equilibrati. Molti campioni in degustazione hanno presentato profili olfattivi freschi e delicati, su note floreali e agrumate, con un corpo piuttosto esile, come se il timore di un’eccessiva maturazione in pianta avesse consigliato di vendemmiare con fin troppo anticipo. Espressioni senza dubbio piacevoli e raffinate, ma che si discostano in parte dalla tipicità di un bianco come la Vernaccia, che per solito può contare su una maggiore struttura e complessità. La presenza di molti campioni di vasca è stata penalizzante per un bianco che ha notoriamente bisogno d’affinamento in bottiglia per trovare la giusta armonia. Tra i vini in degustazione, abbiamo preferito le etichette che hanno saputo coniugare l’eleganza con un buon corpo e con una certa profondità e persistenza aromatica, più in linea con la tradizione di questo grande bianco.

Ci sono piaciute in particolare le seguenti bottiglie:

Vernaccia di San Gimignano 2017 Fontaleoni

Vernaccia di San Gimignano 2017 La Lastra

Vernaccia di San Gimignano Terra del Lago 2017 Poderi Arcangelo

Vernaccia di San Gimignano Selvabianca 2017 Il Colombaio di Santa Chiara

Vernaccia di San Gimignano Tròpie 2017 Il Lebbio

Vernaccia di San GimignanoLe Grillaie 2017Fattoria Melini

Vernaccia di S. Gimignano Il Nicchiaio 2017 Fattoria Poggio Alloro

Vernaccia di S. Gimignano Vigna a Solatio2017 Casale Falchini

Vernaccia di S. Gimignano Casa Lucii 2017 Lucii Libanio

Vernaccia di S. Gimignano 2017 San Quirico

 

La Riserva 2016

Molto interessante il livello medio delle Riserve 2016. L’ottima annata e un anno d’affinamento in bottiglia, regalano vini che hanno raggiunto la piena maturità espressiva nel segno della ricchezza e dell’intensità aromatica. Vini profondi, freschi e sapidi, da acquistare e conservare in cantina per qualche anno.

Ecco i nostri migliori assaggi:

Vernaccia di San Gimignano Rialto 2016 Cappellasantandrea

Vernaccia di San Gimignano Clamys 2016 Cesani

Vernaccia di San Gimignano 2016 Ab Vinea Doni Casale Falchini

Vernaccia di San Gimignano 2016 Fattoria Abbazia di Monte Oliveto

Vernaccia di San Gimignano Casanuova 2016 Fontaleoni

Vernaccia di San Gimignano Campo della Pieve 2016 Il Colombaio di Santa Chiara

Vernaccia di San Gimignano 2016 La Lastra

Vernaccia di San Gimignano Tradizionele 2016 Montenidoli

 

a cura di Alessio Turazza

 

 

I bar da provare nel 2018: i 10 nuovi indirizzi dedicati al caffè di qualità

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Continua a crescere il settore caffeicolo italiano. All'insegna della qualità dell'oro nero, con proposte e format diversi, ecco tutti i bar di apertura recente da provare nel 2018.

Il fermento nel mondo del caffè

Quando abbiamo iniziato il nostro percorso alla ricerca delle migliori torrefazioni italiane, quelle dedicate ai caffè specialty, i chicchi più pregiati, lavorati con cura e tostati a puntino, il panorama italiano si presentava piuttosto deludente. Era il 2015, e anche se i primi vagiti per una sorta di rivoluzione caffeicola iniziavano a farsi sentire, soprattutto fra i professionisti più all'avanguardia, un'evoluzione complessa del settore era ancora lontana dal divenire e noialtri eravamo praticamente i primi a parlarne.

 

caffè

Era un anno di cambiamenti, di piccoli passi che lasciano il segno: un anno di aperture, di rinnovi, di cambi di format e offerta per tante torrefazioni e caffetterie della Penisola. Oggi, la strada da percorrere è ancora lunga e tortuosa, e gli ostacoli da superare per formare consumatori pienamente consapevoli sono tanti. Ma questo microcosmo caffeicolo, in qualche modo, si sta muovendo: lo abbiamo visto già in diverse località, da Genova a Palermo, da Torino a Bologna e molte altre ancora, senza dimenticare Roma, assieme a Napoli uno dei panorami più difficili per la qualità dell'oro nero: il caffè, quello buono, ha iniziato a invadere le grandi città (e non solo) da Nord a Sud dello Stivale. Un Paese che, come abbiamo ripetuto più volte, ha fatto della sua memoria storica del caffè un punto di debolezza anziché di forza, che per anni ha rappresentato uno scoglio per l'innovazione di settore, per quella rivoluzione che nei Paesi stranieri – Australia, Stati Uniti e Nord Europa in particolare – è avvenuta già un decennio fa. Ma che finalmente sembra intenzionato a cambiare rotta.

Le nuove aperture: lo sviluppo di Milano

Milano, un anno e mezzo dopo. Era il luglio 2016 quando si iniziavano a registrare i primi cenni di un'evoluzione di settore. Più metodi di estrazione, caffè artigianali di qualità e baristi preparati: questa triade fondamentale per un bar di livello stava finalmente diventando una realtà concreta anche nel frenetico capoluogo meneghino, dove poche ma valide insegne cominciavano a fare timidamente capolino ai vari angoli della città, fra bevande diverse e chicchi dall'aroma pregiato. Altri indirizzi poi sono andati nel tempo ad aggiungersi alla lista (fra tutti, Orsonero Coffee e Moleskine Café). E un nuovo locale – in dirittura di arrivo – sembra destinato a entrare a pieno titolo nell'elenco dei bar più buoni della città: è Milano Roastery, caffetteria in zona Porta Romana che aprirà i battenti fra una decina di giorni, portando dietro il bancone la selezione di chicchi dell'omonima torrefazione. La regia è quella di Carlo Russo, appassionato di caffè che proporrà l'espresso con la sua miscela standard 100% arabica, e poi un paio di monorigine a rotazione. Spazio anche al filter coffee, “anche se cercheremo di partire in maniera graduale, avvicinando con pazienza il pubblico ai metodi di estrazione alternativi, senza pressione”.

 

milano roastery

In Porta Ticinese, invece, lo scorso 24 agosto è nata Cofficina Ticinese 58, naturale evoluzione della torrefazione Cofficina di Rozzano: “Sentivamo la necessità di avere uno spazio dove poter dimostrare praticamente ai nostri clienti come sfruttare al meglio il caffè di qualità, e come godere a pieno di tutte le sfumature aromatiche del prodotto”, spiega il titolare Stefano Maia. “Abbiamo una miscela specialty base per l'espresso, studiata su misura per la clientela milanese, e poi altri monorigine per i caffè filtro”. Che anno riscosso un buon successo, soprattutto fra il pubblico straniero, “che rappresenta il 50% della nostra clientela”, ma non solo: “Gi italiani stanno finalmente capendo il valore della qualità del caffè”. Anche dal punto di vista economico: “Avevamo paura che il prezzo dell'espresso, 1,30 euro, fosse troppo alto, invece finora non abbiamo avuto nessuna lamentela”. Un'altra annosa questione, quella del costo del caffè: il prezzo medio italiano che si aggira attorno ai 90 centesimi, infatti, non consente ai consumatori di dare la giusta importanza alla materia prima, che viene così sottovalutata e considerata un prodotto di poco conto.

 

Cofficina

Bari e Pompei: il panorama del Sud Italia

Il discorso si fa ancora più intricato nel Meridione, dove quello della tazzina è un rituale a tutti gli effetti, un momento di convivialità, gesto ripetuto più volte al giorno che porta con sé una storia che si perde nella notte dei tempi. Era giugno 2017 quando a Napoli, proprio nella patria della “tazzulella”, apriva Ventimetriquadri Specialty Coffee, primo bar innovativo della città partenopea che si proponeva di modificare una delle tradizioni più antiche del luogo. A fine giugno, invece, a Bari è stato Francesco Ventura a provarci, con il suo Avamposto, un bar tutto dedicato all'oro nero dove, accanto alla macchina espresso, si possono trovare strumenti per l'estrazione in filtro, dal v60 al chemex, dall'aeropress al cold brew.Il mondo sta cambiando”, racconta, “ed è giusto rimanere al passo con i tempi. Certo, qui da noi la clientela non è abituata ad altri tipi di bevande, o a un espresso dal profilo aromatico più acidulo e la consistenza meno corposa, ma il pubblico più giovane sta iniziando a interessarsi all'argomento, aprendosi anche a nuovi prodotti”. In termini di numeri, parliamo di una media di circa 5/6 caffè filtro al giorno, “e poi tanti espressi e cappuccini, che sono ancora i protagonisti principali. A fornire la materia prima è Pierre Caffè, una torrefazione di ottima qualità di Gravina in Puglia”. Una cifra niente male per il capoluogo pugliese. Progetti per il futuro? “Creare un franchising”.

 

Campana bottega

Tre mesi fa, intanto, a Pompei ha aperto Campana Caffè, caffetteria specialty dell'omonima torrefazione che si propone come spazio di degustazione per una clientela di nicchia: “Certo, il nostro non è un locale per tutti, piuttosto per chi ama il buon caffè e vuole assaporarlo con calma, gustando a pieno ogni aroma e sapore”, racconta Paola Campana, da 5 anni impegnata in un'attività di rinnovo della storica azienda di famiglia. “La torrefazione esiste già da molto tempo, ma io e mio fratello stiamo cercando di modificare l'offerta, puntando sempre più a prodotti pregiati”. Ad accompagnare le bevande, estratte in espresso o filtro, dolci d'autore firmati Sal De Riso, Alfonso Pepe e altri grandi pasticceri del territorio.

Veneto, da Padova a Treviso

Buone nuove anche dal Veneto, una regione che può fare affidamento su diverse torrefazioni di qualità, da Caffettin a Candelù, in provincia di Treviso, con annessa caffetteria, a Manifattura Caffè di Verona (con il bar Caffè Alexander), senza dimenticare Torrefazione Cannaregio a Venezia. E così anche il mondo dei bar comincia a muoversi verso una direzione migliore: modello esemplare della crescita del settore è il progetto di Caffè Diemme Italian Attitude della Diemme Spa della famiglia Dubbini, un'iniziativa focalizzata sulla formazione di baristi professionisti e l'apertura di punti vendita di livello. Il format è quello ispirato alle caffetterie estere, con metodi di estrazione alternativi e chicchi di prima qualità, già rodato da qualche anno nello spazio di Padova affacciato su piazza Prato della Valle. Ma a breve sarà la volta di Udine e Trieste (previsti per la prima metà di maggio), e chissà, forse anche di altre località. All'insegna dell'imprenditoria intelligente che non rinuncia al gusto.

 

Diemme

Nel frattempo, a Treviso, da dicembre c'è un nuovo indirizzo interessante, un locale dagli arredi di design e la grafica accattivante: è il Taste Coffe & More di Elisa e Fabio, appassionati gastronomi che nel bar propongono un caffè a loro marchio tostato dal Bugan Coffee Lab di Bergamo, accompagnato da dolci e pani artigianali. “Non è semplice”, spiega la coppia, “ma stiamo avendo un'ottima risposta da parte della clientela, soprattutto per il filtro”.

 

taste

Quando il caffè incontra il cibo di qualità: la Drogheria di Lecce

Quello dei bar, poi, è un mondo sempre più composito, un mix multiforme e aperto alla contaminazione, un concept che invade nuovi territori, diventando cocktail bar, bistrot, bottega. Chi sceglie la strada degli specialty, e più in generale dei caffè pregiati, infatti, non può poi non tenere conto della qualità dell'offerta gastronomica. Un bell'esempio di perfetta armonia fra questi due mondi è rappresentato da La Drogheria, insegna nata lo scorso agosto nel cuore di Lecce, che abbina a una cucina di buona fattura, dolci fatti in casa con lievito naturale e proposte salate sfiziose e ben fatte, un caffè di prima scelta, quello di Edoardo Quarta della Edo Quarta Specialty Coffe, figlio d'arte che è riuscito a creare nella storica azienda di famiglia, la celebre Quarta Caffè di Lecce, un proprio angolo di ricerca, con tanto di marchio a suo nome. “Abbiamo diverse tipologie di caffè”, racconta Simona, “che abbiamo selezionato con cura per dare ai nostri clienti la possibilità di concludere un pasto nella maniera migliore. La nostra filosofia è incentrata sui prodotti di nicchia, per cui non potevamo esimerci dal proporre dei chicchi di qualità superiore”.

 

la drogheria

Sketch: il caffè nella ristorazione

E a proposito di cibo: finalmente anche il tema del caffè nella ristorazione, tasto dolente fra gli esperti del settore, inizia a essere preso in considerazione più seriamente. I professionisti più attenti, infatti, stanno cominciando a capire che la conclusione di un pasto è importante tanto quanto le altre portate. A Mantova, per esempio, da 5 mesi a questa parte è possibile sorseggiare un buon caffè filtro da Sketch, locale dall'offerta dinamica che ha scelto di scommettere sulla formula delle tapas, focalizzandosi sulla selezione curata di vino, esclusivamente naturale e proveniente da piccoli produttori. A completare la proposta, caffè in filtro, “niente espresso”, da micro-torrefazioni stranieri e dalla toscana Le Piantagioni del Caffè.

 

sketch

Qualità in aeroporto: Cannaregio caffè al Marco Polo Tessera di Venezia

Complice la crescente attenzione per l’universo gastronomico, la categoria di chi non si rassegna a mangiare un boccone in velocità (e spesso di scarsa qualità) tra un check in e un’attesa al nastro dei bagagli continua a farsi sempre più numerosa. Ecco perché l'aeroporto è salutato dalla ristorazione d'autore come un terreno dalle grandi potenzialità, in grado di raccogliere il consenso di un pubblico eterogeneo e internazionale (esempio perfetto è il caso di Attimi di Heinz Beck al terminal di Fiumicino). Tempo, ora, per il caffè di qualità, che fa il suo ingresso in aeroporto con l'apertura della Torrefazione Cannaregio al Marco Polo Tessera di Venezia. A coadiuvare l'attività, Maela Galli, che attualmente è alle prese con l'arredamento di un nuovo locale nel cuore della laguna, proprio all'ingresso del Ghetto Ebraico della città, e che, nel frattempo, continua a gestire il primo punto vendita, all'insegna della qualità dell'oro nero, tutto tostato in casa.

 

Cannaregio

In provincia: Spazio Caffè di Ospitaletto

Ci vorranno ancora un po' di anni prima che il panorama delle torrefazioni e dei bar in Italia subisca una trasformazione più radicale, modificando l'approccio dei consumatori e lo standard dell'offerta, senza però dimenticare le proprie radici. Intanto, comunque, i professionisti più appassionati ci provano, correndo, talvolta, rischi azzardati, con l'intento di contribuire in prima persona a cambiare questo affascinante universo. Se in città i luoghi comuni da scardinare sono ancora molti, la situazione si fa ancora più complessa in provincia, dove i baristi si ritrovano a interfacciarsi con un pubblico molto diverso, meno abituato a format innovativi e proposte alternative.

 

spazio caffè

A Ospitaletto, per esempio, in provincia di Brescia, Andrea Boglioni ci prova con il suo Spazio Caffè, un locale già esistente da tempo, acquisito in seguito quasi per caso. “Inizialmente ero stato chiamato per una consulenza, ma poi sono stato coinvolto a pieno e da metà aprile 2017 ho preso in gestione l'attività”. Una bella sfida nel cuore della Franciacorta, che comincia con un cambiamento di rotta sulla qualità delle materie prime: “Per la miscela per l'espresso mi affido alla torrefazione Bonani, mentre per il filtro ho scelto diverse micro roastery straniere”. Da provare in tanti metodi di estrazione diversi, insieme a una pasticceria artigianale sempre fresca. “Non è semplice, ma ce la sto mettendo tutta, e piano piano i clienti cominciano a incuriosirsi”.

a cura di Michela Becchi

GLI INDIRIZZI

Avamposto – Bari - via Raffaele de Cesare, 8 - 080914 6724 - www.facebook.com/avampostobari/

Caffè Diemme Italian Attitude – Padova – Prato della Valle, 2 – 0498750140 - www.facebook.com/caffediemmeitalianattitude/

Campana Caffè – Pompei – via Sacra, 44 – 08119664530 - /www.facebook.com/campanabottega/

Cannaregio Caffè Aeroporto – Venezia - viale Galileo Galilei, 30/1 - www.facebook.com/pg/TorrefazioneCannaregio/

Cofficina Ticinese 58 – Milano – corso di Porta Ticinese, 58 – 028322570 - www.facebook.com/Ticinese58Specialtycoffees/

La Drogheria – Lecce – via Taranto, 52 E – 0832091921 - www.facebook.com/ladrogherialecce/

Milano Roastery – Milano – piazzale Medaglie d’Oro, 3 - www.facebook.com/pg/milanoroastery/

Sketch – Mantova - via XX settembre,39 – 3393146275 - www.facebook.com/Sketchmantova/

Spazio Caffè – Ospitaletto (BS) – via Giuseppe Zanardelli, 12 – 3925519865 - www.facebook.com/spaziocaffeospitaletto/

Taste Coffee & More – Treviso – via Trevisi, 16 – 3473973346 - www.facebook.com/tastecoffeemore/

 

Libri. Peste e corna. Dove la lingua sconfigge il pensiero

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Un nuovo volume parla del linguaggio usato e abusato dei giorni nostri. Lo firma Massimo Roscia appassionato di gastronomia come di lingua italiana. E prende di mira anche il mondo del food con le sue frasi idiomatiche e le manie linguistiche.

Quante frasi fatte si dicono ogni giorno e di quanti luoghi comuni sono infarciti i nostri discorsi? Talvolta non ce ne accorgiamo neppure, circondati come siamo di cliché linguistici. Ne parla un libro che racconta, dal punto di vista del linguaggio, anche il mondo del cibo (che naturalmente oggi si chiama food).

 

Massimo Roscia

Al suo quarto libro Roscia, già autore di Uno strano morso ovvero sulla fagoterapia e altre ossessioni per il cibo (Edizioni della Meridiana, 2006), La strage dei congiuntivi (Exòrma, 2014) e Di grammatica non si muore (Sperling & Kupfer, 2016) è autore di romanzi e saggi, guide turistiche e sceneggiature televisive, docente (anche per i master del Gambero Rosso) di comunicazione, editing, tecniche di scrittura, appassionato di cucina quanto di lingua italiana, ironico, ironico, ironico. Capace di volgere in parodia anche la più paludata delle lezioni di grammatica (ma poi chi l'ha detto che la grammatica è noiosa?).

Stavolta prende di petto uno dei vizi del nostro tempo: le frasi fatte. “Anche se, a pensarci bene, «Io odio le frasi fatte» è a sua volta una frase fatta”. Intendiamoci, ognuno di noi le usa, lui per primo (con cognizione di causa). Occorre però conoscerle e saperle impiegare. Soprattutto ora che social network e altri mezzi di comunicazione le han fatte proliferare, anche se il loro uso ha radici ben più profonde, e nel libro gli esempi non mancano. Bisogna dunque servirsene con parsimonia e grande maestria, per non banalizzare ogni discorso, confonderlo nella massa delle parole indistinte e impoverite dall'abuso, offuscare l'identità di chi parla o scrive. E questo è ben raccontato nel libro, in cui Roscia gioca con le parole nello stile di Flaiano o Campanile, istilla il sorriso o il riso aperto e insieme “invita a cercare (almeno) un modo migliore per dire sempre le stesse cose”.

Un volume con un obiettivo preciso

Comincia con il cercare, nei discorsi di ogni giorno, le trappole dell'ovvio e del già sentito, e scopre che sono ovunque: i giornali ne fanno un uso smodato, i linguaggi di settore (meteo, cucina, medicina) ne sono vittime (in)consapevoli, per non parlare della burocrazia che ha dato vita a un linguaggio suo: il burocratese, e il resto del mondo non fa che seguire sentieri già battuti. Le frasi idiomatiche albergano nelle conversazioni occasionali, alla posta come al bar, sul treno e nelle mille, normalissime, situazioni che la vita ci offre. Ma non sfuggono neanche i casi eccezionali. “In fin dei conti, ognuno di noi le usa. Perché sono immediate, perché le sentiamo in ogni dove, perché chiunque le capisce (o almeno finge bene)” e così via, con una sequenza di perché che ne sostengono l'uso (non ultimo perché vengono in soccorso quando mancano le parole e aiutano a rompere il ghiaccio). Attratto da questi stereotipi linguistici, Roscia va: “partito in quarta, rimboccandomi le maniche, gettandomi a capofitto in questo libro e iniziando, nei ritagli di tempo, a raccogliere tutte le frasi fatte, ovvero quelle frasi vuote, che passano di bocca in bocca, crescono come la gramigna, vengono ripetute fino alla nausea e, dagli oggi e dagli domani, fanno ridere i polli, rivoltare lo stomaco, perdere le staffe, accapponare la pelle, arricciare il naso, rizzare i capelli, venire il latte alle ginocchia e cadere le braccia”. Esordisce così, e già mette in chiaro quanto siano subdole e pervasive le frasi fatte, tutte quelle parole che pronunciamo in automatico, in successione precisa. È una disanima di questa cattiva abitudine, ma anche un elogio alla lingua italiana, ai segreti che sa rivelare e alle insidie che può celare, ai riverberi e alle molte, continue, eco di cui si nutre e con cui ingrossa.

 

Il libro

Non un saggio, non un manuale, ma un raccontino agile che dietro la cornice filiforme della storia mette alla berlina il mal parlare dei nostri tempi. Per farlo ci racconta le disavventure di Mario – un anonimo impiegato, povero Cristo, uomo della porta accanto - che segue nel suo districarsi tra le normali vicissitudini di uomo qualunque, tra lavoro e vita privata. Lo accompagniamo a Milano a trovare la figlia, o nel bel mezzo di un convengo, alle prese con le previsioni meteo e con problemi (e vocabolari) medici, soffocato dalle ultime notizie. In ogni circostanza, però, i luoghi comuni, le metafore logore, i cliché, le banalità travestite da riflessioni profonde, la filosofia spicciola, le frasi fatte (quelle che Umberto Eco definiva minestre riscaldate) incombono, “sono il cloroformio del pensiero” scrive Roscia, che le usa al pari dei vari personaggi. Perché ci rifugiamo in quel parlare che l'alta frequenza d'uso ha impoverito? Certi automatismi sono davvero inevitabili?

 

Dove nascono i modi di dire?

Insomma: Peste e corna è un libretto gustoso che getta una luce sulle (cattive) abitudini linguistiche usate per pigrizia o per il desiderio di adattarsi alla moda (e ai modi, quelli di dire). Spesso impiegati involontariamente, senza conoscerne il vero significato e l'origine. A questo pone rimedio con piccoli approfondimenti sulla nascita delle più comuni frasi fatte, che talvolta hanno radici letterarie (come il dantesco far tremare le vene e i polsi, o il donchishottesco lottare contro i mulini a vento) tal altra religiose (per esempio manna dal cielo o capire l'antifona), mitologiche (il vaso di Pandora o il tallone d'Achille), storiche (il dado è tratto), altre ancora fanno riferimento ad abitudini perse nel tempo (come nel caso del bicchiere della staffa, l'ultimo della serata bevuto quando si era già quasi saliti a cavallo), mentre le espressioni più moderne derivano dal mondo del cinema, della televisione, della pubblicità o di internet, a tracciare un multiforme panorama di riferimento.

 

Il linguaggio del food

Da questo linguaggio automatico non si salva neanche il mondo esondante del cibo (pardon food) dove le manie linguistiche si uniscono alle manie tout court, che impongono di conoscere l'esatta provenienza di ogni alimento “i pistacchi devono essere tutti di Bronte (come se Bronte fosse grande quanto l’Iran), i pomodori tutti di Pachino (e non di Pechino), il lardo solo di Colonnata, le cipolle solo di Tropea, il parmigiano solo Vacche Rosse e stagionato almeno duecentoquaranta mesi in camera iperbarica, i gamberi, anche questi rossi, di Mazara del Vallo e le alici esclusivamente cantabriche (guai a parlare di Mediterraneo)”, per passare poi all'albero genealogico del produttore, della vacca o del selezionatore. E via così, in un paradossale prolasso della narrazione (ops, storytelling).

Mentre il debole per certi toni elegiaci trasforma il cibo in tutto lo scibile umano: “arte,filosofia, testimonianza, mappa interattiva, sfida, gioco, sperimentazione, provocazione, spettacolo (in alcuni casi, avanspettacolo)”. Ci sono poi le formule legate ai processi di produzione che non possono che essere frasi fatte - cuocere in abbondante acqua salata, o a fuoco vivo, tritare finemente - gli slogan come filiera corta e chilometro zero, piatto povero o cucina della nonna, fino agli immancabili: prodotti tipici, trafila in bronzo, grani antichi (ma sono davvero così antichi?), streetfood.

Da queste frasi fatte è facile tracimare e immaginare distorsioni risibili: il letto di songino è a baldacchino, la fantasia di scampi è una fantasia erotica, il baccalà dopo infiniti passaggi (tutti elencati, sia ben chiaro) viene servito e riverito, la variazione di formaggi è una variazione in Si bemolle; senza scordare l'esterofilia, con il mai superato complesso di Edipo verso la cucina francese, che impone bisque, julienne, mirepoix, noisette e via discorrendo. Mania, questa, già denunciata dall'Artusi già sul finire dell'800: “certi cuochi, per darsi aria, strapazzano il frasario dei nostri poco benevoli vicini con nomi che rimbombano e che non dicono nulla”. In questa Babele di frasi fatte e fiacche ripetute all'infinito, dei abbinamenti indissolubili tra aggettivi (quelli, non altri) e sostantivi, avverbi e verbi, “Tradizione e innovazione” vi dice nulla?

 

Ma questa è più che una pungente satira linguistica, perché se è vero che la parola contribuisce a formare il pensiero, un vocabolario stanco denuncia un pensiero atrofizzato. “Parole, parole, parole. Parole vuote, che non esprimono un grammo di opinione personale o di riflessione critica, ma vengono ripetute solo perché tutti le usano... Non sono pensieri, ma riflessi condizionati dei muscoli di lingue abituate ad assaggiare”. In conclusione: “È il trionfo dell’umami sugli umani, dell’induzione (non solo dei fornelli) sulla deduzione, delle parole sui pensieri”.

Nessuna cosa sia dove la parola manca. (cit.)

 

Peste e Corna – Massimo Roscia - Sperling & Kupfer - pp. 224 – 15,90 euro

 

a cura di Antonella De Santis

Bleri Dervishi a Milano e il progetto Lomi. Dalla bottega al ristorante sui Navigli. Aspettando il fine dining

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Il giovane chef albanese si è fatto notare la scorsa estate in Sicilia, al relais Monaci delle Terre Nere. Poi qualche mese di sperimentazione e ricerca, e ora un nuovo progetto a Milano, con l'imprenditore Davide Lo Manto: alla guida del nuovo Lomi Restaurant, e presto con un fine dining suo. 

Bleri Dervishi. Chi è

L'avevamo lasciato in Sicilia, Bleri Dervishi, giovanissimo executive chef del relais Monaci delle Terre Nere, a Zafferana Etnea. Il suo nome però tradisce le origini albanesi, e con lui, a proposito del legame con il Paese in cui è nato, e da cui è fuggito quando aveva appena 4 anni al seguito dei genitori, avevamo parlato l'autunno scorso, in una disamina sui cuochi albanesi che in Italia hanno trovato fortuna. O meglio ancora, coltivato il proprio talento: molti di loro, come Bleri, dall'Italia sono stati adottati in tenera età, e il risultato di questa contaminazione culturale, e gastronomica, si apprezza pure nei piatti che portano in tavola. Lui in cucina ha cominciato a lavorare prestissimo, affascinato dalla ricette della nonna, e dalle passeggiate nel bosco col nonno, di cui ricorda il profumo della brace, sul fuoco acceso che oggi, non a caso, è un elemento importante del suo approccio al cibo e alla materia prima. Nel mentre è arrivata pure una vittoria a MasterChef Albania, un passaggio all'Inkiostro di Terry Giacomello (al fianco del suo connazionale Ronald Bukri, anche lui alla prese con l'inizio di una nuova sfida, a Montalcino), l'esperienza in Spagna da Eneko Atxa. Poi la Sicilia, per tutta la scorsa stagione estiva: “Alla fine di ottobre ho interrotto la collaborazione, avevo voglia di scommettere sulla mia formazione, e sono arrivato a Parma, al laboratorio di innovazione e ricerca gastronomica di Davide Cassi, dove con la dottoressa Roberta Razzano ho potuto sviluppare naso e gusto: non li ringrazierò mai abbastanza per i loro consigli”. A 23 anni appena, del resto, Bleri ha ancora molte curiosità da soddisfare su quell'universo gastronomico che è diventato la sua vita. E il suo è un approccio rigoroso alla materia, che però non gli impedisce di pensare in grande, specie grazie a una spiccata attitudine gestionale maturata precocemente.

 

Il progetto Lomi a Milano

Qui entra in gioco Andrea Lo Manto, conosciuto durante il periodo siciliano (all'epoca era il direttore di Monaci delle Terre Nere): sua l'idea di inaugurare a Milano, l'autunno scorso, il concept Lomi, inizialmente declinato in versione bottega di specialità gastronomiche (molte in arrivo proprio dalla Sicilia) con cucina semplice e generosa, a prezzi contenuti. In pochi mesi, la bottega di via Sant'Agnese, zona Magenta, ha conquistato i suoi estimatori in città, mettendo in vetrina prodotti selezionati con cura nella Penisola e una proposta al piatto fatta di lavorazioni tradizionali, tra sfizi da banco - sfilacci di bollito con salsa verde, caponatina siciliana, zucca passita – e preparazioni espresse, dagli strozzapreti scalogno e salsiccia alla zuppa di ceci con polpette. Ma l'appetito vien mangiando, così Andrea ha scelto di coinvolgere Bleri, per continuare a investire sul progetto diversificando il format: “Lui aveva in mente di aprire un nuovo locale, sempre sotto l'insegna Lomi, però più concentrato sulla cucina. Io volevo avere il mio ristorante, proporre la mia cucina. Così ho accettato, e oggi seguo direttamente la cucina del Lomi Lounge Bar Restaurant, oltre a supervisionare tutta la parte food dell'operazione”.

Lomi Lounge Bar Restaurant

Il nuovo locale ha inaugurato qualche giorno fa il Alzaia del Naviglio Grande, e accosta all'anima da cocktail bar la cucina di un ristorante che utilizza grandi ingredienti italiani per raccontare la cucina della nonna: “Proprio quella di mia nonna, il pollo alla griglia (ma cotto nel green egg), il crostino al ragù con pane di Davide Longoni - c'è una bella amicizia, ci siamo conosciuti in occasione di un corso sulla panificazione -  la verza alla brace, la pappa al pomodoro. Tutte le cose che mangi la domenica, ma fatte bene”. Di Italia ce n'è tanta, e del resto Bleri è cresciuto in Toscana, ma qualche contaminazione albanese fa capolino, come negli sfizi che il giovane chef ha studiato per l'abbinamento con la drink list, a cura del barman Rosario Trovato: “Lavoriamo in sintonia, gli fornisco molte preparazioni, come il succo di pomodoro per il Bloody Bleri, accompagnato con una fetta di pane, pomodoro, origano e feta, come fa mia nonna in Albania”. A dettare la linea di una cucina sono apparentemente semplice, però, ci sono tecnica e visione: “Lavoro molto col green egg, ci faccio persino una salsa olandese. Il controllo delle temperature è fondamentale”. Si mangia a pranzo e cena, ma dalle 16 (fino alle 2) è operativo lo speakeasy, una saletta riservata al bar, con ampia selezione di distillati, carta dei Franciacorta, e vini Triple A.

 

Dalla bottega al fine dining

Poi ci sono i prodotti in vendita, per non tradire le origini di Lomi: cucunci, pomodori datterini, tante chicche in arrivo dalla Sicilia e dall'azienda Agricola Opac Campisi, ma il progetto prevede l'inserimento pian piano di prodotti provenienti da tante regioni di tutto lo Stivale. Ma al ristorante sui Navigli si arriva soprattutto per provare la cucina di Bleri: 32 coperti in sala, un dehors per l'aperitivo al tramonto, più un tavolo da 8 riservato al menu degustazione, “una cosa non troppo formale, che però mi piace proporre agli ospiti secondo disponibilità di mercato. E ne sto già vendendo moltissimi”. Un'anticipazione di quello che sarà il prossimo step, un ristorante gastronomico che presto aprirà sempre a Milano, ma in un'altra zona della città: “Dietro all'intero progetto c'è un grande investimento, da un lato portiamo avanti la Bottega, il format più replicabile. Dall'altro sviluppiamo nuovi concept, forse anche un bar, e una pizzeria. Ma prima arriverà il fine dining, uno spazio raccolto, 25 coperti al massimo, dedicato alla cucina creativa, con tante contaminazioni, non solo balcaniche”. Quando succederà, Bleri lascerà alla guida del Lomi restaurant il suo sous chef: “Siamo già una squadra affiatata di 13 persone, molti li ho portati con me da precedenti esperienze, lavoriamo bene insieme, con ritmi e tempi ben scanditi; lo definirei un approccio rock ”. E l'unione fa la forza.

 

 

Lomi Lounge Bar Restaurant – Milano – Alzaia Naviglio Grande, 62 – 0283241149 – www.labottegadilomi.it

 

a cura di Livia Montagnoli

 

Colazioni del mondo. Portogallo: pastel de Nata, torrada, galão, queijadas de Sintra

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Alterna prelibatezze dolci e salate la tavola portoghese al mattino, dalle celebri pastel de nata alle meno conosciute (ma altrettanto golose) torradas. Ecco le pietanze più diffuse per la prima colazione e una gustosa ricetta da rifare a casa. 

La colazione in Portogallo

Pianure, grandi pascoli, zone boschive che danno vita a selvaggina succulenta e una tradizione agricola antica che fa affidamento sulla ricca biodiversità della terra. Il Portogallo offre una tavola complessa, fortemente influenzata dalle popolazioni celtiche che occuparono il Paese nel 600 a.C., ma anche dagli arabi che, nel VIII secolo d. C. si stanziarono nella parte meridionale della penisola, introducendo nuove tecniche di preparazione del cibo e alimenti sconosciuti. Ma il Paese offre anche una cucina ittica a base di baccalà che fa scuola, e una profonda conoscenza di spezie e erbe. La gastronomia portoghese è un accordo perfetto fra sapori intensi e accenti aromatici, una sintesi complessa tra carne e pesce, che lascia spazio anche all'universo articolato dell'ortofrutta. E così anche il primo pasto della giornata si arricchisce dei gusti più disparati, fra specialità dolci e salate saporite e sostanziose. Non sono molte, e come sempre ogni zona conserva poi le proprie abitudini e tradizioni locali, ma abbiamo cercato comunque di raccontare un pezzo di storia dei prodotti più diffusi in tutto il Paese.

Pastel de nata, il pasticcino dei monasteri

Protagonista assoluta di ogni pausa dolce che si rispetti è la pastel de nata, tortina di pasta sfoglia ripiena di crema pasticcera diffusa in tutti i paesi di lingua portoghese, dal Brasile all'Angola. In principio, nasce come pastéis de Belém, dolce inventato attorno all'Ottocento all'Antiga Confeitaria de Belém, storica pasticceria accanto al monastero di Belém, ancora oggi l'unica a conservare la ricetta originaria. C'è anche chi afferma che furono invece le suore del convento dei Geronimi di Belém a creare per prime questi golosi pasticcini, costrette poi, in seguito alla Rivoluzione liberale del 1820 con conseguente chiusura dei monasteri, a vendere la ricetta a un imprenditore locale, tal Domingos Rafael Alves, che iniziò a commercializzarli in un negozio vicino. Un fatto è certo: la Casa Pasteis de Belém, ancora oggi in mano ai discendenti di Alves, dal 1837 ai tempi nostri non ha modificato alcun passaggio della preparazione. Qui, infatti, è possibile trovare, secondo i portoghesi, alcune delle pasteis più buone del Paese. Leggende e racconti a parte, un dolce molto simile in realtà è citato in un ricettario molto più antico, risalente al 1538, “Infanta Dona Maria”, dove viene descritta una torta ripiena di uova e zucchero che ricorda sapori e consistenze del pastel de nata.

Torrada: la storia del pão de forma

Spazio, però, anche alla colazione salata. In Portogallo non è raro trovare famiglie sedute ai tavolini del bar intente a spalmare formaggi su fette di pane tostato, da mangiare con i salumi tipici del territorio. Alla base di tutto, la torrada, ovvero una fetta di pão de forma, versione locale del nostro pancarré, molto spessa e tostata. Si tratta di un impasto morbido e versatile, generalmente usato per la preparazione di toast, a base di farina, acqua, latte, olio di semi, malto, lievito di birra, sale e zucchero, solitamente addizionato di burro o grassi vegetali. Le scene dipinte in tante pellicole cinematografiche, dai panini con burro di arachidi e marmellata ai sandwich al formaggio, ha creato nell'immaginario collettivo l'idea errata che questo tipo di prodotto sia un'invenzione statunitense.

Quello in cassetta, invece, sembra essere un pane made in Italy, creato a Torino nella seconda metà dell'Ottocento. A inventare questa specialità, probabilmente fu Piero Pantoni, secondo la tradizione il boia di Torino che eseguì l'ultima impiccagione in città nel 1864. Solitari ed emarginati da tutti, i boia erano delle figure che non godevano di una buona reputazione: dovevano, infatti, sottostare a diverse burle e angherie da parte delle comunità. Fra questa, lo scherzo dei panettieri che, in segno di disprezzo, porgevano ai boia il pane al contrario (da questo episodio leggendario nascerebbe la tradizione popolare di non servire mai il pane capovolto in tavola). Pantoni cercò di ribellarsi, facendo all'appello alle autorità, che decisero di emanare una nuova legge secondo la quale i fornai avrebbero dovuto porgere il pane sottosopra a tutti i clienti, a prescindere dalla condizione sociale e dal lavoro. Per aggirare la sentenza, allora, gli artigiani inventarono un nuovo tipo di pane a forma di mattone che aveva pressoché lo stesso aspetto da entrambi i lati. In questo modo, i boia potevano ritenersi soddisfatti, e i fornai potevano continuare a capovolgere comunque il pane una volta uscito dal forno senza che i clienti se ne accorgessero.

Galão, il latte macchiato alla portoghese

Protagonisti, dunque, sono i toast con salumi vari, come quelli di Azaruja, per esempio: il batateira, a base di grasso suino, patate cotte, aglio, pepe, sale e budello di maiale, il botifarra, con carne di maiale (orecchie, scarti di grasso, grugno e testa), sale, pepe e intestini, o il linguniça, con carne suina macinata (zampe e grasso dalla testa), aglio, sale, pepe e trippa. E molti altri ancora, tutti in abbinamento ai formaggi locali, a cominciare dal celebre queijo serra da Estrela, formaggio di latte di pecora solitamente a pasta dura o semidura tipico della regione di Serra da Estrela. Nonostante la preponderanza di gusti decisi, ad accompagnare le torradas è il caffè. In particolare, il tradizionale galão, a base di espresso e latte montato, una sorta di latte macchiato composto da un quarto di caffè e tre quarti di latte. Dal gusto pieno, ricco e morbido, è una delle bevande più popolari e diffuse fra consumatori di tutte le età, immancabile specialità di ogni bar che si rispetti. Per gli amanti dei gusti meno dolci, è disponibile anche la versione meia de leite (mezzo latte), che prevede la proporzione 1:1 fra i due elementi.

Queijadas de Sintra

Una specialità dolce tutta a base di formaggio: nella cittadina collinare di Sintra sono le queijadas a fare la parte del leone, piccole torte soffici e profumate dall'aroma inconfondibile. La loro storia affonda le radici nel Medioevo, precisamente nel 1227, durante il regno di Sancho II: in questo periodo, secondo i documenti ufficiali conservati nell'archivio nazionale di Torre do Tombo, le queijadas venivano utilizzate per pagare parte dell'affitto delle proprietà fondiarie della zona. Luogo d'origine di questa prelibatezza è Ranholas, una piccola località nei pressi di Sintra, dove viveva la famiglia Sapa, la prima a creare la ricetta con i pochi ingredienti in dispensa. È solo nella metà del Settecento, però, che Maria Sapa comincia a sviluppare una rete commerciale più intensa. Dalla fine dell'Ottocento, infatti, altre famiglie e piccoli artigiani della zona cominciarono a riprodurre in casa la ricetta, diffondendo così il dolce anche in altre località.

La ricetta: pastel de nata di Lorenza Barletta e Ludovica Frigieri

Ingredienti

3 tuorli

50 g. di zucchero

100 ml. di panna fresca

1 rotolo di pasta sfoglia

cannella in polvere o zucchero a velo per guarnire

Mettere sul fuoco un pentolino con un po' d'acqua per preparare la crema a bagnomaria. In un pentolino più piccolo, mettere i tuorli e lo zucchero e iniziare a mescolare con una frusta. Continuando a mescolare, aggiungere un po' per volta la panna. Controllare la temperatura della crema con un termometro; dovrà arrivare a 80°C. A quel punto, lasciar raffreddare. Ritagliare dei dischetti tondi di pasta sfoglia, aiutandosi con un coppapasta. Mettere i dischi di sfoglia negli stampini e versare dentro la crema. Cuocere in forno già caldo, a 220°C per 20 minuti. Servire ancora tiepidi, con una spolverata di cannella o zucchero a velo.

a cura di Michela Becchi

Colazioni del mondo. Francia: croissant, madeleine, crêpes

Colazioni del mondo. India: naan, upma, puttu, masala chai

Colazioni del mondo. Regno Unito: English breakfast, porridge, muffin inglesi

Colazioni del mondo. Stati Uniti: cereali, pancakes, doughnuts, bagel, French Toast

Colazioni del mondo. Brasile: açai bowl, bolo de fubà, pão de queijo, frutta tropicale

Colazioni del mondo. Grecia: baklava, loukoumade, koulouri, yogurt

Colazioni del mondo. Giappone: misoshiru, tofu, dashimaki, doroyaki 

Colazioni del mondo. Italia: cappuccino e cornetto, biscotti, ciambellone, pane e marmellata

Colazioni del mondo. Australia: Vegemite, avocado con uova, lamingtons, anzac biscuits


A New York il Museum of Candy. Quando il cibo è intrattenimento, prima che cultura

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L'estate scorsa New York era impazzita per il museo pop up del gelato, e presto in città esordirà un nuovo progetto “museale” che del cibo fa motivo d'intrattenimento nel senso più ludico del termine, dedicato all'universo delle caramelle. Come cambia l'approccio rispetto al modello del museo del cibo made in Italy (e Fico sta nel mezzo).   

I musei del cibo e la cultura gastronomica

In Italia, i musei dedicati alla cultura enogastronomica non si contano. Spesso intrecciati a doppio filo con l'identità rurale del territorio, tanti raccontano tradizioni contadine antichissime. E specie in alcuni distretti del cibo si concentrano sulla valorizzazione della produzione agroalimentare per farne una chiave di promozione turistica. Basti pensare al circuito dei Musei del Cibo della provincia di Parma: 6 musei che presidiano la food valley più famosa d'Italia, preservando cimeli e curiosità di solide attività artigianali che oggi regalano indotti importanti all'economia locale e nazionale. A Soragna c'è il Museo del Parmigiano Reggiano, a Felino quello del celebre salame locale, a Langhirano è protagonista il prosciutto. Col valore aggiunto di allestire come sedi espositive edifici storici del territorio, dalla forte valenza simbolica, come il caseificio ottocentesco di Soragna o l'ex Foro Boario di Langhirano. Un circuito che mette a sistema il patrimonio del parmense (Parma, ricordiamolo è stata nominata città creativa della gastronomia dall'Unesco, e, anche per la sua capacità di valorizzare l'enogastronomia locale, nel 2020 sarà Capitale della Cultura italiana), attirando un gran numero di visitatori, italiani e stranieri (ma l'apertura è stagionale, solo nei weekend e festivi, dal 3 marzo all'8 dicembre nel 2018). Conciliando la finalità divulgativa con la voglia di regalare qualche ora di svago a tema gastronomico.

 

Il modello Fico

Poi c'è un modo diverso di fare intrattenimento e cultura attraverso il cibo, quello messo in scena da Fico Eataly World da qualche mese a questa parte: una strategia che privilegia la componente ludica, e tiene bene in conto il profitto garantito ai molteplici soggetti coinvolti in un'operazione faraonica, e per questo molto costosa (tanto più se portata avanti senza finanziamenti pubblici). Il New York Times ha inserito la Fabbrica Contadina Italiana tra le attrazioni da visitare nel 2018, mentre gli ultimi dati parlano di 750mila visitatori raggiunti alla fine di gennaio, per un giro d'affari di 13 milioni di euro. Certo, ed è stato così sin dalle premesse, il progetto varato da Farinetti e Coop è di quelli che divide. Una riflessione a riguardo l'abbiamo avanzata all'indomani dell'inaugurazione, qualche mese fa. Ma dall'altra parte dell'oceano, invece, qual è il modello che va per la maggiore? Proprio New York, in questo senso, ci offre la possibilità di fare qualche considerazione a riguardo.

 

New York e la “cultura” del cibo. Dal museo del gelato al mondo delle caramelle

L'estate scorsa, in città, inaugurava il temporary museum del gelato: operazione nient'affatto culturale, per novelli Willy Wonka, che per un mese ha preso forma al Meatpacking district, all'interno della galleria di Maryellis Bunn. E in soli 5 giorni il botteghino – 30mila biglietti in tutto – è andato sold out. Il progetto, che ha coinvolto creativi, artisti e design, mirava dunque a esplorare il lato più pop del cibo, con una finalità più che altro permormativa ed estetica, e l'obiettivo dichiarato di stupire con effetti speciali. Del resto il cibo è anche questo: lo sanno bene gli stilisti che in occasione dell'ultima fashion week newyorkese, in scena proprio in questi giorni, hanno scelto di puntare su passerelle ricoperte di popcorn e fornire le modelle di stilose patatine in busta portate come borsette (l'obiettivo, pare, quello di ribellarsi all'ossessione per il corpo perfetto e l'healty food). E un'operazione votata soprattutto all'intrattenimento sarà pure quella che, la prossima primavera, porterà in scena il Museum of Candy, stavolta con l'obiettivo di farne un'attrazione permanente di New York. Dietro al progetto c'è la catena Sugar Factory, che allestirà a Chelsea un grande spazio dedicato al mondo delle caramelle, articolato in più di 15 sale esperienziali, con negozio di caramelle e caffè annessi. Il mood del museo? Per intenderci, il pezzo forte della collezione sarà un unicorno di caramelle gigante. Ma non mancheranno l'orsetto gommoso più grande del mondo, un murales di caramelle e moltissimi espedienti per esaudire i desideri di ogni bambino. Ma, anticipano gli ideatori, ci sarà spazio anche per risalire alle origini, sul percorso della Candy Memory Lane, che ripercorre la storia del mercato delle caramelle Se l'idea dovesse funzionare, presto il museo replicherà in altre città americane, prima di approntare un piano d'espansione internazionale.

 

Il Mofad di New York. Divertimento... E cultura

Il mondo è bello perché è vario. Ma ricordiamo che nella vastissima offerta museale di New York c'è spazio anche per un progetto dedicato al cibo tutt'altro che superficiale, seppur meno destinato a fare clamore: il Mofad è il Museum of food and drink dal 2015 stabilmente a Williamsburg e vanta finalità educative e divulgative calate in un contesto esperienziale che della visita fa una vera e proprio opportunità per mettersi in gioco in prima persona. Gli obiettivi? Formare una generazione di consumatori consapevoli, raccontare la storia e l'antropologia gastronomica del Paese, lavorare come centro di innovazione e sperimentazione. Perché il cibo è divertimento, ma anche cultura.  

 

a cura di Livia Montagnoli

Viterbo e la Tuscia, gastronomia in evoluzione tra indolenze e innovazioni

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Nel nuovo numero del mensile del Gambero Rosso siamo andati alla scoperta della Tuscia, un territorio che offre una produzione agroalimentare di alto livello, e che sembra si sta muovendo anche sul fronte gastronomico.

Viterbo è il capoluogo della Tuscia, provincia dal retaggio etrusco che offre una natura a tratti selvaggi e una produzione agroalimentare di alto livello. L'indole della cittadina non è certo tra le più attive, ma una serie di giovani aziende la stanno traghettando verso la modernità. Salvaguardando campagne e paesaggi.

L'aneddoto di Santa Rosa

Ad accogliere il visitatore che arrivi da sud, alla sommità dei merli di Porta Romana, si erge la statua di Santa Rosa, la santa adolescente vissuta a cavallo del Duecento: adorata come patrona dai viterbesi è protagonista dell’unica vera festa cittadina in cui 100 facchini trasportano lungo le vie del centro una “macchina” a lei dedicata alta 30 metri e pesante 51 quintali. Alla giovane Rosa – oltre che una serie di miracoli magico-folclorici, come li definisce l’unico studio storico sulla ragazza scritto da Anna Maria Vacca – è attribuito il “miracolo” di aver fermato l’avanzata di Federico II di Svevia difendendo il regno papale. Federico, universalmente noto come Stupor Mundi, aveva un suo palazzo adiacente le mura di Viterbo (alle spalle della basilica dedicata alla santa e allora sede delle Clarisse) che è stato raso al suolo. Perché questo aneddoto? Perché Santa Rosa, sulla porta, avverte: questa è una cittadina anti-moderna. Tanto che ancora oggi, invece di vantarsi per aver ospitato un personaggio come Federico II, Viterbo non sente il bisogno di avere neppure una targa a ricordare il passaggio del sovrano che in Italia portò una ventata di cultura e novità, scomunicato per non aver armato la crociata (guerra) che aveva promesso al Papa.

Per capire la crociata dei viterbesi contro la modernità – una battaglia che si combatte da secoli – basta ricordare che i notabili di fine ‘800 protestarono contro il passaggio della linea ferroviaria nazionale perché disturbava le loro vacche al pascolo, poi nel nuovo secolo la protesta si abbatté contro il passaggio da Viterbo dell’A1 (sia treno che autostrada toccano infatti solo Orte, ultimo comune verso l’Umbria) e contro la scelta di fare il capoluogo della Tuscia la sede del Festival dei Due Mondi che infatti andò a Spoleto.

foto di Guido Landucci

Viterbo, una cittadina anti-moderna?

Viterbo cittadina oscurantista e retrograda? In realtà non è così. L’Università della Tuscia, ad esempio, pur non avendo influito più di tanto sulla vita quotidiana della cittadina, ha portato molte domande ed esigenze di modernità soprattutto con le facoltà di Agraria e di Scienze Forestali: l’agricoltura, tenuta sempre sotto tono e gestita in forma assistenzialista da una classe politica poco lungimirante, in realtà è diventata un terreno su cui la modernità ha cominciato ad attecchire. L’isolamento, infatti, ha anche significato – guardando la metà piena del bicchiere – salvaguardia dell’ambiente e del paesaggio. Così che una serie di giovani imprenditori e studiosi di cose agroalimentari hanno deciso di ripartire proprio dalla Tuscia Viterbese con i loro sogni: aziende piccole, di nicchia (ma non solo), particolarmente virtuose e rispettose della natura, sono state costruite dagli sforzi e dalla passione di ragazzi “di fuori”, giunti perché hanno trovato un ambiente positivo o perché sono approdati ad Agraria (dipartimento molto stimato nel panorama accademico italiano) e hanno deciso di restare qui. Una realtà che è cresciuta negli ultimi 10-15 anni e che ha trainato nel ritorno alla terra anche figli di contadini che avevano preso la strada di altri studi e professioni e che poi hanno valutato che poteva valer la pena di impegnarsi sulla propria terra.

I giovani ritornano a Viterbo e alla terra

Esempio di questa nuova generazione? Renée Abou Jaoudé: una studentessa italo-libanese che è passata dalla laurea in Scienze Forestali alle Due Torte piene nella guida Pasticceri e Pasticcerie 2018 per il suo laboratorio Le Cose Buone, un autentico fiore all’occhiello gourmand per Viterbo e che tuttavia è in via di chiusura. Renée vuole infatti dedicarsi al lavoro itinerante e alla ricerca. “Sono così convinta che in questa terra ci siano prodotti strepitosi, che ho fin dall’inizio deciso di utilizzare solo referenze del territorio. Per questo, pur avendo una bella produzione di nocciole sui Monti Cimini, ho preferito non usare più la crema di nocciole in quanto i trasformatori (tostatori e sgusciatori) locali riuscivano a rovinare quell’ottima materia prima. Ho ricominciato a considerare le nocciole solo quando Luca Di Piero mi ha fatto provare i prodotte della sua azienda di Civita Castellana: eccezionali. Ora posso di nuovo utilizzare le nocciole della Tuscia”. Così una delle ultime creazioni di Renée è stato uno splendido caramello alle nocciole. Ecco, Luca Di Piero è un esempio della generazione che ha ripreso in mano aziende familiari: ha trasformato in biologici i 27 ettari di noccioleti, li coltiva in modo sartoriale, studia i metodi di irrigazione e di nutrimento delle piante, ha scelto la qualità e non la quantità. E così tratta anche i suoi filari di viti e gli alberi di olive: producendo e trasformando nel massimo rigore i frutti della terra. Tanto che anche un piemontese come Paolo Massobrio con il suo Golosario lo ha preferito agli stessi “suoi” produttori di nocciole di Langa.

Sul fronte gastronomico, la Tuscia Viterbese è un fenomeno abbastanza recente. La parte della provincia che guarda a Roma e all’Umbria, infatti, è stata per anni – dal secondo dopoguerra – monopolizzata dall’industria ceramica: il polo intorno a Civita Castellana è stato uno dei distretti centrali della manifattura italiana per quanto riguarda piatti, maioliche e soprattutto sanitari di qualità esportati in tutto il mondo. Per anni l’area che dalle pendici dei Cimini va verso la Via Flaminia è stata una roccaforte operaia con una sua storia indipendente da quella del resto del Viterbese agricolo e del terziario. Qui l’industria ceramica ha fatto per l’ambiente quello che la chiusura culturale e politica ha fatto per il capoluogo, Viterbo: la terra, i campi, i pascoli, l’ambiente e i paesaggi modellati dalle forre tra le mura ciclopiche di Faleri (Fabbrica di Roma) e il corso del fiume Treja (fino a Nepi), sono rimasti integri. Tanto che qui – una volta esplosa la crisi finanziaria che ha ridimensionato numeri e business– è nato uno dei primi Distretti Bio d’Italia: ce ne sono in tutto 3-4, ma questo della Via Amerina è l’unico che sta iniziando a lavorare davvero.

Paesaggio Tuscia. Foto di Guido Landucci

Carlo Nesler e la permacultura

Per raccontare questa provincia, abbiamo scelto di dare voce a chi questa terra l’ha scoperta nell’età della ragione e che ne ha fatto il proprio campo di lavoro. Carlo Nesler – origine bolzanese e lungo trascorso in Sardegna – è un esponente di questa nuova leva di viterbesi acquisiti. Carlo è giovane e di lavori ne ha fatti davvero tanti: cantiniere, venditore di vino (Terlano vi dice nulla?), pizzaiolo, falegname… ma soprattutto fermentatore. Sì, la sua passione da sempre sono le fermentazioni, di cui vino e pizza sono due tra le prime applicazioni pratiche. La sua passione si è estesa ben presto alla coltivazione organica e naturale, approdando alla permacultura. “Volevo andarmene dall’Alto Adige e puntavo verso la Sardegna che mi affascinava. Ma ho capito subito che era troppo stretta per me. Così sono tornato in continente e ho fatto tappa a Roma: ho trovato un piccolo pezzo di terra in Sabina e ho iniziato a fare olio. La campagna era stupenda, ma la vita un po’ meno. L’agricoltura lì è molto relegata al finesettimana e in tre anni non sono riuscito a costruire nessun rapporto, né con i vicini, né con i compaesani. Un giorno, poi, mi hanno invitato a Viterbo per tenere delle lezioni di fermentazione: beh, in una sola volta ho conosciuto tantissime persone che sentivo vicine a me, mi hanno invitato a cena e a pernottare… Insomma, ho visto che c’era la possibilità di una rete e di uno scambio tra persone con visioni e pratiche simili, cosa che in Sabina neppure immaginavo...” Così Carlo affitta alle porte di Viterbo un campo e un laboratorio: verdure, frutta, erbe in permacultura e trasformazione in miso, sottoli, sottosale, marmellate e conserve… Nel giro di un anno è diventato un punto di riferimento per molti giovani agricoltori.

La gastronomia e la tavola nel Viterbese

Ma parliamo anche di gastronomia e di tavola. Nel Viterbese si mangia abbastanza bene. Non c’è una realtà strettamente gourmet, anche se ci sono alcune punte di eccellenza decisamente elevate. La tradizione è essenzialmente legata da una parte alla cucina familiare popolare, dall’altra alla vicinanza con Roma. Non ci sono studi specifici sulla gastronomia della Tuscia Viterbese, se non quello di Italo Arieti (da poco scomparso) che ha raccolto in una pubblicazione organica le ricerche di decenni nelle case delle famiglie della provincia (“Tuscia a Tavola”). I piatti oggi popolari sono diversi, perlopiù derivati dalla cucina romanesca in chiave rurale. Ma c’è un piatto che può fare da bandiera per questo territorio essenzialmente agricolo: l’acquacotta. Che non a caso uno chef come Danilo Ciavattini(che da poco ha aperto il suo locale nel cuore del capoluogo tornando dopo l’esperienza dell’Enoteca La Torre prima a Viterbo e poi a Roma a Villa Laetitia) ha messo in carta come testimonianza fissa del territorio. L’acquacotta è un piatto per molti aspetti banale. Eppure ha una complessità notevole se realizzata a regola d’arte e quindi seguendo le stagioni, con le erbe e le verdure spontanee e ciò che la dispensa in quel momento offre tra i residui disponibili: uova fresche di galline ruspanti (vere), un pezzo residuo di pesce salato (baccalà, stoccafisso o di lago), un tocco di perorino o di caciotta, un pezzo di carne di pecora, cicorie e crescioni di vari tipo, verdure di stagione, legumi frutto della spigolatura finale tra i filari, germogli di vite o di zucchine, luppolo selvatico… una patata che non si nega mai a nessuno, due carote e una cipolla. E, ovviamente, acqua. L’acqua che va avanti a sobbollire vicino al camino nel paiolo insieme alle erbe e che, a fine serata al rientro dal campo, assicura la zuppa per cena.

L’acquacotta di Danilo Ciavattini

L’acquacotta di Danilo Ciavattini

L’acquacotta è un piatto pre-codifica, non ha ricette, non ha schemi: l’unico schema è quello della giornata in cui nasce. Molto di ciò si è ovviamente perduto, ma nell’immaginario di ogni viterbese l’acquacotta è una parola che fa scattare ricordi ancestrali. Se andate alla storica Trattoria dei Tre Re, vi proporranno il pollo alla viterbese (che non si capisce bene cosa sia) e piatti molto romaneschi, decisamente gustosi e abbastanza veraci. Ma sull’acquacotta, anche se ovviamente imbastardita e standardizzata, non si transige: “La cicoria che utilizziamo è solo e sempre quella di campo, selvatica. Per ripassarla in padella come contorno prendiamo la catalogna, quella coltivata, ma nell’acquacotta assolutamente no: è la sua identità”, sorride Eleonora Di Andrea che prende le ordinazioni con il sorriso in bocca e una veracità molto territoriale. E Ciavattini ribadisce il concetto nella sua versione moderna: “Servono le erbe spontanee, il maggior numero possibile: cambiano a ogni stagione. In inverno io ci metto la cicoria di campo, il fiore del finocchio e le patate”. A suggellare questo piatto antico un tocco di modernità: l’uovo coagulato a 60°. “Ma l’importante è la qualità delle cicorie – spiega Danilo– altrimenti è davvero inutile. Credo sia il piatto più rappresentativo della tradizione viterbese, insieme ai lombrichelli (pasta grezza di acqua e farina) e alla pignattaccia fatta con tutto il quinto quarto del vitellone, zampe, testa, interiora, trippa: è una lunga cottura, è uno dei piatti profondamente viterbesi. Il risultato è un bollito, ma molto più saporito. È il piatto “inventato” dai butteri della Maremma Laziale ed è davvero un unicum: prendevano le interiora e gli scarti dell’animale che venivano rosolati velocemente e poi lasciato nella pignatta di coccio sulla cenere, fino a sera”.

La Fattoria Biodinamica di Anna Pia Greco

Dalla Maremma (ma viveva a Roma) viene anche Anna Pia Greco. Lei ha portato una bella esperienza biodinamica sulle orme del maggior esperto mondiale, l’australiano Alex Podolinsky, alle porte di Viterbo, nella campagna di Castel d’Asso che oltre ad essere l’orto verde della cittadina è anche un importante e splendido sito archeologico etrusco. Sarà un caso, ma Anna Pia che aveva una fattoria a Capalbio e ha deciso di trasferirsi qui per seguire le scelta della figlia con i suoi tre nipoti, è anche la nipote di colui che trovò la chiave per decriptare la lingua etrusca, Mario Gattoni Celli. “C’è un filo – sorride lei –che mi lega a questa terra! Del resto chi viene da Roma apprezza di trovarsi in una cittadina dalla storia antica come Viterbo. E per i miei nipoti è importante che sia tranquilla, verde e abbia anche l’università. Mi sento molto nuova, qui. Intorno a me vedo grandi lavoratori. La cosa bella è che tutti gli steineriani e biodinamici della zona vengono a riunirsi qui da me ogni mercoledì: al momento è la cosa che a me serve di più”. La Fattoria Biodinamica di Anna Pia produce yogurt e ricotta, miele e olio extravergine di oliva, confetture e conserve. E Albertina Marinelli, la figlia di Anna Pia, punta a riunire in un portale di e-commerce i migliori produttori e artigiani della Tuscia.

foto di Guido Landucci

Il miele di Gaia Garbarini

Gaia Garbarini è una ragazza che ha subito preso a seguire le orme di Anna Pia: anche lei approda a Viterbo da Roma, l’Università della Tuscia ha fatto da medium. E anche lei si dedica con passione all’agricoltura naturale: alleva le api, ha una quarantina di arnie, produce miele e va spesso anche ad aiutare Anna Pia alla Fattoria Biodinamica. “In realtà volevo lavorare in campo internazionale sulle foreste primarie. Ma facendo esperienze qui sul territorio, con l’università di Scienze Forestali, mi sono innamorata di questa natura: trovo che abbia un fascino di altri tempi, è primitiva… e mi son detta che prima di andare all’estero forse c’era qualcosa da fare anche qui”. Così ha trovato 5 ettari a cavallo tra i comuni di Viterbo, Marta e Tuscania dove alleva le api e dove ha piantato anche 140 alberi da frutto di varietà antiche: “Tutte tipiche del centro Italia – ci tiene a sottolineare Gaia – Inoltre, un ettaro lo destino a produrre fiori eduli per la ristorazione e la pasticceria, microgreen (le piccole insalate) e ortaggi particolari e antichi. Qui sto progettando anche un laboratorio di trasformazione in bioedilizia: ora per smielare devo andare ad Arezzo, ma presto lo farò qui. Voglio fare quel “laboratorio sociale” che le associazioni dei coltivatori non sono riuscite a realizzare: si trasformeranno frutta e verdura e sarà aperto a tutti i colleghi con cui si condividono le pratiche agricole. Adoro l’idea che possa diventare un punto di riferimento per molti”.

La Piadineria Buongusto di Elisabetta e Matteo

Hanno deciso di fermarsi a Viterbo dopo aver girato il mondo e aperto un ristorante ai Caraibi, anche Elisabetta Paonessa Matteo Carbone, due ragazzi che hanno mostrato ai viterbesi cosa sia il “concept food” con la loro Piadineria Buongusto. “Io ho fatto il cuoco e ho girato molto in Italia e all’estero – racconta Matteo –Quando con Elisabetta siamo rientrati in Italia volevamo dedicare un’attività alla tradizione della mia famiglia marchigiana e al tempo stesso uscire dal caos di Roma. Viterbo per noi era perfetta. Così mi son fatto dare la ricetta della vera piadina tradizionale da mia nonna e abbiamo aperto. Sono passati quattro anni e siamo sempre più convinti e soddisfatti”. In pieno centro, alla piadineria i due propongono tre versioni di piadina da farcire a proprio piacimento e realizzate al momento: “Ingredienti il più possibile locali e biologici – spiega Elisabetta –Molti viterbesi ci chiedevano come abbiamo potuto scegliere Viterbo, ma noi stiamo benissimo qui! E troviamo anche dei prodotti fantastici. Perché no?”.

Microaziende, dunque, decrescita, fattorie a misura umana, ma anche strutture condivise che possano supportare il lavoro agricolo. Questa sembra essere la chiave per un futuro della Tuscia dove possa avere spazio un turismo consapevole e motivato. Tanto più che anche nel mondo dell’olio extravergine di oliva – che qui conta ben due Dop, Canino e Tuscia, ed è uno dei pilastri dell’economia agricola della provincia – si comincia a ragionare in termini di concentrazione e raggruppamento della lavorazione delle olive, dei frantoi, piuttosto che alla loro inutile e dispendiosa proliferazione in una realtà agricola molto frammentata dove ogni contadino possiede mediamente poco più di un ettaro. Questo per dare centralità alla produzione agricola sul campo.

foto di Guido Landucci

Tuscia: lo sguardo “straniero” della giornalista Mary Jane Cryan

Ma torniamo alla domanda: perché la Tuscia? La risposta la lasciamo a Mary Jane Cryan, giornalista e scrittrice irlandese nata in Usa e approdata in Italia nel 1965 con “biglietto di sola andata”. Dopo un periodo di 4 anni a Mosca, 25 anni fa rientra in Italia e cerca un luogo dove vivere, fuori ma vicino a Roma, arrivando così a Vetralla. “Un luogo abbastanza sonnolento, ma ancora vivo, con una natura e campagne stupende, con la sensazione di essere un po’ degli Indiana Jones quando si passeggia verso la necropoli di Norcia o quella di Grotta Porcina. Era l’ideale per me. Qui ho cominciato a lavorare e a studiare arte e cultura della zona”. E ad accompagnare turisti stranieri a conoscere e toccare con mano la Tuscia Viterbese: “Ho imparato subito che chi arriva dagli Usa, dall’Australia o dalla Nuove Zelanda si stanca presto dei monumenti che spesso non ha neppure gli strumenti per capire appieno, a meno che non si tratti di specialisti d’arte. Gli stranieri – spiega Mary Jane che alla Tuscia ha dedicato anche diversi libri – vogliono lo storytelling, vogliono fare l’esperienza della vita quotidiana, visitare i supermercati e le cucine delle famiglie, le trattorie. I croceristi che sbarcano a Civitavecchia vogliono entrare nell’anima del luogo: quando vanno a Roma si vedono offrire le solite patatine e hamburger e sono stufi. Quando vengono qui si innamorano dei sapori di questa terra, delle storie delle persone che conoscono, letteralmente impazziscono. All’inizio, la gente del posto mi chiedeva con stupore perché mi fossi fermata a vivere qui. Eppure, qui io ho conosciuto e intervistato Carlo d’Inghilterra, qui veniva il re Gustavo di Svezia appassionato di archeologia, qui venne anche Stanislao Poniatowsky, nipote dell’ultimo re di Polonia, che costruì il suo palazzo che ancora svetta sul lago di Capodimonte. Non è difficile innamorarsi di questa terra. E spesso noi che veniamo da fuori vediamo e apprezziamo cose che chi ci vive neppure nota. Non è un caso che a Vetralla, insieme a Susanna Ohtonen e a suo marito Rudolph Hupperts, abbiamo recuperato il palazzo Dipinto, dove viviamo e dove organizziamo concerti e performance nei salotti e giardini segreti di quello che fu il suggestivo Palazzo Piatti. Ora, sul nostro esempio, anche un altro palazzo storico verrà recuperato. Evidentemente c’era bisogno che qualcuno da fuori mostrasse la strada. Noi, stranieri e amanti di questa terra, proviamo a farlo ogni giorno”.

 

a cura di Stefano Polacchi

foto in bianco e nero di Guido Landucci

 

QUESTO È NULLA...

Nel numero di febbraio del Gambero Rosso, un'edizione tutta nuova in questi giorni in edicola, trovate i racconti della Tuscia secondo Iside De Cesare, chef de La Parolina di Acquapendente, Francesca Castignani, pasticcera de La Belle Helen di Tarquinia, e Danilo Ciavattini, chef dell'omonimo ristorante a Viterbo. Un servizio di 14 pagine dedicato a questa splendida terra, che include una piccola guida vinicola, una mappa utile per orientarsi e ben tre top 10: le aziende di olio, quelle che producono formaggio a latte crudo e le dieci realtà che portano la Tuscia verso la contemporaneità. Non solo, è da leggere tutto d'un fiato il racconto “Giulia” di Giorgio Nisini.

Il numero lo potete trovare in edicola o in versione digitale, su App Store o Play Store

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Birra dell’Anno 2018: il titolo al padovano Cr/Ak Brewery. Cresce l’intero comparto brassicolo italiano

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Weekend all’insegna della birra a Rimini, dove per Beer Attraction si è riunito il gotha del comparto brassicolo italiano. Incoraggianti i dati di Coldiretti sulla crescita del settore, l’attenzione si è concentrata sulla competizione promossa da UnionBirrai. In gara 1650 birre d’Italia, a trionfare un birrificio veneto.

La birra in Italia. Un affare da 6 miliardi di euro

+535% è il dato esorbitante che racconta gli ultimi 10 anni del mondo dei microbirrifici in Italia: a tanto è stimata la crescita degli impianti di produzione brassicola sul territorio della Penisola nel periodo compreso tra il 2008 e il 2017, che ha visto aumentare la rete dei birrifici artigianali nazionali da 113 a 718 unità. Calano dunque le importazioni dall’estero, e diminuisce specialmente il consumo di birre inglesi in Italia (-79%), mentre la produzione complessiva degli impianti made in Italy si assesta sui 50 milioni di litri all’anno. Sono questi i dati divulgati da Coldiretti in occasione della più importante fiera della birra organizzata sul suolo nazionale, Beer Attraction, di scena lo scorso fine settimana a Rimini (si conclude oggi). Oggi, dunque, la filiera è arrivata a valere circa 6 miliardi di euro, e al contempo si è diversificata a comprendere molti stili birrari differenti, configurando un quadro complessivo di alta qualità e originalità, che dà occupazione a molti appassionati under 35, stimola l’innovazione e la nascita di attività collaterali, dal brewpub alle birrerie specializzate in artigianali italiane. Dati che confermano il buon momento del comparto brassicolo, di fatto costantemente in ascesa negli ultimi anni, e rincuorano soprattutto gli appassionati del genere, sempre più messi nella condizione di scegliere tra un gran numero di proposte di qualità. Proprio Beer Attraction, come ogni anno, sancisce i migliori, in occasione dell’appuntamento con il concorso Birra dell’Anno, alla tredicesima edizione, organizzato da UnionBirrai.

Birra dell’anno 2018, chi vince

Il 2018 premia il birrificio padovano Cr/Ak Brewery, di Campodarsegno, che conquista il punteggio finale più alto dopo le prove d’assaggio di tutte le birre presentate in gara dai tre giovani soci Marco Ruffa, Anthony Pravato e Claudio Franzolin, che anni fa cominciavano a muovere i primi passi come beerfirm, e dal 2014 hanno fondato il birrificio (l’ultimo investimento riguarda la commercializzazione in lattina, presto sul mercato). La gara, valutata da una giuria di 84 esperti internazionali, ha visto la partecipazione di 279 produttori in 41 diverse categorie: ognuna ha premiato le tre migliori birre dell’anno, ma alla fine è stato il birrificio veneto ad aggiudicarsi il titolo più ambito, vincendo in tre diverse competizioni di categoria, con la Mundaka tra le Pale Ale, la NeIpa Ddh Amarillo per le New England Ipa e la Cantina BV05 tra le English Barley Wine, grazie a un lavoro, quest’ultima, che ha richiesto grande cura all’affinamento in barrique. 1650 in tutto le birre assaggiate dai giurati, il 20% in più rispetto all’anno precedente, e anche questo è un dato che conferma le evidenze delle statistiche. La peculiarità più incoraggiante del panorama brassicolo italiano, ha confermato il presidente di UnionBirrai Alessio Selvaggio, è proprio quella di confrontarsi con giovani realtà in grado di fare qualità in diversi stili, a dimostrazione del coraggio di sperimentarsi con ricette e innovazioni sempre nuove (e infatti quest’anno le categorie in concorso sono passate da 30 a 41). E il concorso, di pari passo, cresce in fama e prestigio internazionale, attestandosi come una delle più seguite competizioni brassicole nel mondo.

 

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Cucina di casa in Emilia-Romagna. Ricette di: Cappellacci di zucca, Cotoletta alla bolognese e Torta degli addobbi

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Se esistesse un parco giochi per buongustai, sicuramente l'Emilia-Romagna potrebbe ospitarne uno in ogni centimetro quadrato del suo territorio grazie alle innumerevoli eccellenze gastronomiche. E la cucina non è da meno. Abbiamo scelto tre ricette facili da replicare a casa: i Cappellacci di zucca, la Cotoletta alla bolognese e la Torta degli addobbi.

Se c’è una regione che mostra di essere compatta e corale sul fronte dell’enogastronomia di qualità, questa è l’Emilia-Romagna, che attualmente vanta il primato tra le regioni italiane per numero di specialità riconosciute con le denominazioni Dop e Igp, 44 in tutto. E la cucina tradizionale rispecchia questa ricchezza da record. Qui, oggi, vi presentiamo tre ricette tipiche da replicare a casa: i Cappellacci di zucca, la Cotoletta alla bolognese e la Torta degli addobbi.

Cappellacci di zucca

Simbolo della cucina di Ferrara, i cappellacci di zucca hanno una storia antica legata al territorio, tanto da aver guadagnato la dicitura Igp. La prima testimonianza scritta risale infatti al 1584, quando Giovan Battista Rossetti, cuoco della corte di Alfonso II d’Este, pubblica la ricetta nella sua opera Dello Scalco. Lui li chiama “tortelli di zucca con il butirro” ma gli ingredienti sono gli stessi della ricetta attuale se non fosse per l’aggiunta di alcune spezie, come per esempio lo zenzero o la cannella (essendo pur sempre destinati alle élite). Venendo al nome “cappellaccio”, caplaz in dialetto ferrarese, secondo alcuni storici è in riferimento alla forma vagamente somigliante a quella del cappello di paglia dei contadini ferraresi, chiamato per l'appunto caplaz. Secondo altri, invece, possono essere considerati la risposta ferrarese ai cappelletti, altra pasta ripiena tipica delle province di Modena e Bologna.

Ingredienti per la pasta

300 g di farina

3 uova

latte

sale

Per il ripieno

1,5 kg circa di zucca Violino

100 g di parmigiano grattugiato

1 cucchiaio circa di pangrattato

Noce moscata

Sale e pepe

Per il condimento

60 g di burro

50 g parmigiano grattugiato

Tagliate la zucca a spicchi senza pelarla, ripulitela dai semi e dai filamenti, sistematela sulla placca e mettetela nel forno già caldo a 180° C lasciandola cuocere per un'ora abbondante.
Mentre la zucca cuoce, setacciate la farina sulla spianatoia, fate la fontana, mettetevi le uova, il latte e un pizzico di sale e impastate per una decina di minuti.
Raccogliete la pasta a palla e lasciatela riposare per una mezz'ora chiusa dentro un canovaccio. Quando la zucca è cotta, lasciatela intiepidire quindi eliminate lo scorza e passate la polpa al passaverdure. Unitevi il parmigiano, il pangrattato, la noce moscata grattugiata, sale e pepe e mescolate molto bene con un cucchiaio di legno. Il composto dovrà risultare morbido ma asciutto quindi, se necessario, aggiungete ancora poco pangrattato. Stendete la pasta ricavandone una sfoglia sottile ma non troppo (se utilizzate la macchinetta, effettuate l'ultimo passaggio con lo spessore nella penultima posizione). Ritagliate dei quadrati di circa 6 cm, ponete al centro di ogni quadrato una noce di ripieno e richiudete a triangolo premendo i bordi per farli aderire (se necessario, pennellateli con un goccio d'acqua). Cuocete i cappellacci in abbondante acqua salata in ebollizione e, dopo quattro o cinque minuti, scolateli tirandoli su con la schiumarola. Via via che li scolate, disponeteli a strati in una pirofila e condite ogni strato con burro fuso e parmigiano. Serviteli ben caldi. Se ne avanzano, scaldate i cappellacci saltandoli in padella, a fuoco vivace fino a farli diventare color oro scuro.

 

Cotoletta alla bolognese

Cotoletta alla bolognese

È uno dei piatti più antichi di Bologna, tanto che la ricetta è stata codificata e depositata nel 2004 dall'Accademia italiana della cucina presso la Camera di Commercio di Bologna. La ricetta che andrete a leggere è leggermente diversa dall'originale, che prevede il brodo (per insaporire ancora di più la cotoletta) e il burro normale. Noi proponiamo la variante con il burro chiarificato. Perché? La chiarificazione del burro serve a eliminare la piccola percentuale di acqua che vi è contenuta e separare la parte grassa dalla caseina; trattato in questo modo, il burro è in grado di reggere l'alta temperatura della frittura senza bruciarsi. Per chiarificarlo, mettetelo in una casseruolina che porrete dentro un'altra casseruola piena a metà di acqua in ebollizione. Regolate la fiamma al minimo e fate fonder il burro senza mai mescolarlo. Una volta fuso, ritirate il burro dal fuoco e con un cucchiaio togliete la schiuma che si sarà formata in superficie, quindi travasate lentamente il burro liquido in una ciotola, facendo attenzione a non smuovere il fondo dove si sarà depositata la parte acquosa che è quella da scartare. Ben sigillato e conservato in frigorifero, si mantiene per qualche settimana.

Ingredienti

4 fette di fesa di vitello di circa 120 g l'una

80 g circa di parmigiano tenero

4 fette di prosciutto crudo dolce

80 g di burro chiarificato

1 uovo

100 g pangrattato

Per questa preparazione le fette di carne dovranno aver uno spessore di circa 1/2 cm scarso. Ripulitele da eventuali nervetti e parti grasse e battetele leggermente con il batticarne per pareggiarle. Passatele prima nell'uovo sbattuto e poi nel pangrattato premendo con la mano aperta. Scaldate il burro in una padella ampia e rosolatevi dolcemente le cotolette, cinque o sei minuti per parte, fino a che diventino color oro. A cottura ultimata, sgocciolate le cotolette, sistematele in una pirofila e coprite ognuna con una fetta di prosciutto e qualche fettina sottilissima di parmigiano.
Passate la pirofila nel forno a 200° C per cinque minuti fino a quando il formaggio sarà fuso formando sulla cotoletta un coltre bianca e profumata. Al momento di servire, si possono completare le cotolette con qualche fettina di tartufo bianco o, più economicamente, con un cucchiaio di salsa di pomodoro, ma sono ottime e molto saporite anche al naturale. Non salate: prosciutto e parmigiano sono sufficienti per insaporire giustamente la carne.

 

Torta di riso o degli addobbi

Torta degli addobbi

Questo dolce è comunemente conosciuto come torta di riso. Tradizionalmente veniva preparato durante gli Addobbi, le feste periodiche parrocchiali in concomitanza con le celebrazioni del Corpus Domini, in cui era uso esporre alle finestre dei drappi colorati. Anche questa ricetta è stata depositata nel 2005 alla Camera di Commercio di Bologna, ma ovviamente ciascuna famiglia ha la sua versione. Qui la nostra.

Ingredienti

150 g di riso comune o semifino

1 l di latte

150 g di zucchero

100 g di mandorle pelate

100 g di cedro candito

2 uova intere e 2 tuorli

4 amaretti

1 bicchierino di liquore (Amaretto, Rum, Galliano)

1 limone non trattato

2 cucchiai di zucchero a velo

1 noce di burro

1 cucchiaio di pangrattato per la tortiera

Fate bollire il latte in una casseruola a fondo pesante quindi versatevi il riso e lo zucchero, incoperchiate e lasciatelo cuocere a fuoco dolcissimo per circa un'ora mescolando spesso.
Perché il riso non attacchi, è consigliabile mettere una retina rompifiamma sotto la casseruola. Nel frattempo tritate le mandorle con il mixer, sbriciolate gli amaretti e tagliate il cedro candito a dadini minuscoli. Quando il riso è cotto, ritiratelo dal fuoco e amalgamatevi le mandorle, gli amaretti, il cedro e la scorza di limone grattugiata (solo la parte gialla). Lasciatelo intiepidire e amalgamatevi, uno alla volta, i tuorli e le uova. Imburrate una tortiera rettangolare di 25x20 centimetri (o anche rotonda di 26 centimetri di diametro) e rivestitela con il pangrattato. Versatevi il composto di riso, livellate e mettete la torta nel forno, già scaldato a 180° C, lasciandola cuocere un'ora abbondante fino a che la superficie sarà ben dorata. Ritiratela dal forno, punzecchiatela con una forchetta e distribuite sulla superficie il bicchierino di liquore. Quando la torta si sarà raffreddata, sigillate la tortiera con pellicola trasparente e tenetela in frigorifero per una mezza giornata. Al momento di servirla, rovesciatela sul piatto da portata, tagliatela a piccole losanghe e spolveratela di zucchero a velo.

 

Cucina di casa in Veneto. Ricette: Sarde in saor, Risi e bisi e Baccalà alla vicentina

Cucina di casa in Piemonte. Ricette: Vitello tonnato, Agnolotti del plin e Brasato al Barolo

Cucina di casa in Sicilia. Ricette: Panelle, Pasta alla norma e Calamari alla messinese

Cucina di casa a Roma. Ricetta di: Supplì, Spaghetti alla carbonara, Coda alla vaccinara

 

 

 

Quanto Basta. Il film con Vinicio Marchioni che supera la diversità in cucina

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Arturo è un ex chef di successo, rovinato dalla sua aggressività; Guido un ragazzo affetto da sindrome di Asperger, intelligenza brillante e talento da vendere in cucina. Quando i due si incontrano nasce un’amicizia profonda, e chi deve aiutare finirà per essere aiutato a sua volta. L’ultimo film di Francesco Falaschi porta in scena le risorse della disabilità, attraverso il potere comunicativo del cibo. 

Una storia di cucina e amicizia

Quanto Basta è un film che del mondo della cucina porta molto sul grande schermo. Il titolo, dunque, che attinge al gergo tipico delle ricette, non mente. Ma chi si aspetta di entrare in sala per vedere l’ennesima parabola di qualche chef in cerca delle stelle o assistere alla scintilla che scocca tra due innamorati complici proprio fornelli e corteggiamenti a tavola (i copioni del genere, ormai, non si contano più) dovrà ricredersi. Perché Quanto Basta, per la regia di Francesco Falaschi (sceneggiatura di Ugo Chiti Filippo Bologna), sull’amore e la riscoperta dell’altro costruisce sì l’intera regia del film che uscirà nelle sale il prossimo 5 aprile, ma con l’obiettivo di portare in scena il valore della diversità nel senso più concreto del termine. E cioè quella capacità, inaspettata, di farsi sorprendere dalla tenacia di un altro, incontrato per caso, che ha sempre vissuto in un mondo molto diverso dal proprio. E così le prospettive cambiano: l’uno impara dall’altro, in un percorso di sostegno reciproco che porterà entrambi a crescere. Grazie alla cucina. Il film prodotto da Notorious Pictures, insomma, non è la solita commedia: protagonista sulla scena è Vinicio Marchioni, che molti ricorderanno alla prova col Freddo di Romanzo Criminale, e, a Roma, è pure proprietario di un ristorante, Casa Ripetta.

Lo chef burrascoso, il ragazzo “diverso”

A lui il compito di interpretare il più classico dei cliché, Arturo, chef di grande talento ma intrattabile, che proprio per colpa dell’aggressività ha finito per compromettere la sua carriera (nel calderone degli stereotipi ci finisce un po’ tutto: le tre stelle Michelin conquistate e poi perse una dopo l’altra, gli arresti per percosse e lesioni aggravate), ma non riesce a vedere oltre il suo naso, e la colpa di quanto è successo la addossa agli altri. Questo fa di lui un disadattato alle prese con il suo fallimento, e lo costringe a prestare servizio sociale presso un centro di riabilitazione per ragazzi autistici. Qui, con la complicità di Valeria Solarino, nei panni di un’assistente sociale, conoscerà Guido, ragazzo affetto dalla sindrome di Asperger con la passione per la cucina, che al primo assaggio riesce a riconoscere anche gli ingredienti più nascosti. E all’inizio il rapporto tra un disincantato Arturo e un ragazzo bisognoso di attenzioni come Guido sarà tutt’altro che facile. Eppure i due finiranno per avvicinarsi proprio grazie alla cucina, su un terreno di scambio che li pone sullo stesso piano davanti a ingredienti da dosare con cura e ricette da condividere, con il cibo che rivendica il suo ruolo comunicativo, e la cucina letta come luogo di socialità privilegiato.

 

Le risorse dell’autismo in cucina

Guido, interpretato da Luigi Fedele, si muove sul set insieme ad altri otto ragazzi davvero affetti da autismo, che il cast ha raggiunto per le riprese nella scuola di riabilitazione in Toscana: e infatti Quanto Basta porta in scena, seppur romanzandola, una storia nient’affatto surreale. Che i ragazzi con sindrome di Asperger dimostrino una certa sensibilità e predisposizione alla cucina (e alle discipline creative e manuali in generale) non è un mistero e in Italia sono molte le associazioni che investono sulla possibilità di offrire loro una formazione in materia che potrebbe fornirgli strumenti validi per l’inserimento nel mondo del lavoro. Pensiamo, per esempio, all’esperienza del Tortellante di Modena, promossa dall’associazione Aut Aut con la complicità delle sfogline emiliane, che oggi si avvia a diventare un laboratorio di produzione della pasta fresca con spaccio adibito alla vendita: dietro, oltre all’impegno dei volontari, la grande capacità dei ragazzi autistici coinvolti nel progetto, che in laboratorio sfoderano una manualità e una precisione fuori dal comune. Storie ordinarie e straordinarie insieme, quindi, come quella dell’amicizia fraterna che unirà Arturo e Guido, offrendo al primo la possibilità di riscattarsi, tornando ad apprezzare la vita e ciò che ha saputo costruire. E sull’orizzonte di una normalità che si nutre di sentimenti e della capacità di condividere obiettivi più che mettere in mostra le abilità del singolo, il rapporto tra le parti si inverte: chi pensava di dover aiutare l’altro, senza neppure troppa convinzione, finirà per essere salvato a sua volta. Il tema è complesso, ma la leggerezza e l’approccio antiretorico di un film che alterna mistery box, fogli rosa e talent per aspiranti cuochi (sullo sfondo i panorami della Tenuta di Dolciano, in Maremma) sono le qualità che più si fanno apprezzare in una commedia che la regola del “quanto basta” sembra averla presa alla lettera.

 

a cura di Livia Montagnoli

Benvenuto Brunello 2018 report. In assaggio l'annata 2013

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Oltre 150 etichette in degustazione per raccontare il Brunello di Montalcino 2013: un'annata dall'andamento climatico insolito che ha premiato chi ha saputo scegliere con attenzione il giusto momento per vendemmiare.

Sono i suggestivi Chiostri del Complesso di Sant’Agostino a fare da cornice all’edizione 2018 di Benvenuto Brunello. Dal 16 al 19 febbraio, i produttori presentano in anteprima alla stampa italiana ed estera e agli appassionati, il Brunello di Montalcino 2013, il Brunello di Montalcino Riserva 2012 e il Rosso di Montalcino 2016. Numeri da capogiro per la degustazione di venerdì 16 riservata ai giornalisti, con 135 aziende presenti e oltre 150 etichette di Brunello dell’annata 2013 in degustazione. Un millesimo interessante, anche se climaticamente un po’ incoerente e contraddittorio, ma si sa: a volte sono proprio i contrasti a creare i risultati più sorprendenti e affascinanti. Vediamo com’è andata.

Un vino dalla vocazione internazionale

Il successo del Brunello è soprattutto legato alla crescente richiesta dei mercati esteri. Nel 2017 il giro d’affari complessivo ha toccato i 180 milioni, in crescita rispetto ai 170 del 2016. Stabile l’export, con un dato ormai assestato attorno al 70% della produzione totale. Il mercato più importante continua a essere quello degli Stati Uniti, con oltre il 30%, poi l’Europa (20%), con in testa Germania e Svizzera. I mercati asiatici rappresentano complessivamente un 15%, il Canada 12%, il Centro e Sud America circa l’8% e il restante 15% è diviso sugli altri mercati. Stabile la produzione, con 9.010.369 di bottiglie di Brunello nel 2017 (0,65% in meno rispetto al 2016) e 4.617.384 di Rosso di Montalcino (-0,34%). Un dato molto incoraggiante, anche alla luce della recente approvazione della legge sull’enoturismo, è la crescita delle presenze in città. Quest’anno il numero di visitatori a Montalcino ha superato 1.500.000 presenze (+25% rispetto al 2016), con oltre 150 mila pernottamenti (+11%), a conferma di come il vino sia un valore importante per il territorio e possa trasformarsi in un volano per tutta l’economia legata al comparto del turismo.

 

Un Brunello sempre più sfaccettato

Il fascino di questo piccolo borgo in cima a una collina, non risiede solo nell’allure del suo grande vino, ma anche nello splendido paesaggio naturale, in cui la vite convive ancora in armonia con uliveti, seminativi e boschi. Se Montalcino è assolutamente unico, non si può dire lo stesso per quanto riguarda il Brunello: anche se la tradizione, così come in altre prestigiose denominazioni italiane, ha spesso privilegiato la produzione di un unico vino da vigne coltivate in zone differenti, da diversi anni si assiste a un progressivo incremento delle etichette provenienti da cru aziendali. La crescente consapevolezza della differenza e tipicità delle singole zone del terroir di Montalcino, sta spingendo verso una progressiva parcellizzazione, che regala al vino infinite sfaccettature. Un processo di valorizzazione delle peculiari espressioni dell’area, che dovrebbe approdare a una precisa zonazione e a una mappa dettagliata del territorio. Anche se stiamo parlando di una piccola area, di poco più di 2.000 ettari, siamo di fronte a un ambiente caratterizzato da una significativa variabilità pedo-climatica. I suoli si sono formati grazie a sedimentazioni di diverse ere geologiche e sono di composizione molto eterogenea: detriti alluvionali, marne argillo-calcaree, terreni ricchi di alberese o di galestro, arenarie e sabbie, zone calcaree o con tracce di tufi e altri materiali d’antica origine vulcanica. L’apparente omogeneità di Montalcino si frammenta ancor più in uno sfaccettato mosaico, se consideriamo come l’orografia del territorio incida sulle caratteristiche microclimatiche dei vari versanti, con esposizioni e altitudini molto diverse tra di loro. Senza scendere nei dettagli, possiamo rilevare come i lati nord e nord-est abbiano un clima più fresco e continentale, il versante esposto a sud-ovest quello più caldo e mediterraneo, mentre le vigne esposte a est, sud-est risentono di un clima ventilato e in parte della presenza del Monte Amiata, che svolge una funzione di protezione naturale verso sud.

 

L'annata 2013

Il 2013 è stato un millesimo dall’andamento insolito, ma nel complesso favorevole. Dopo un autunno piuttosto mite, l’inverno è cominciato all’insegna del freddo e di abbondanti precipitazioni. Il tempo perturbato ha caratterizzato anche i mesi primaverili e l’inizio dell’estate, causando un ritardo vegetativo. Il caldo si è fatto attendere e l’estate vera è cominciata solo verso la metà di luglio, con un agosto caratterizzato da bel tempo e notevoli escursioni termiche, che hanno favorito una maturazione delle uve con interessanti profili aromatici. La stagione è proseguita con tempo caldo per tutto settembre e solo a ottobre si è riscontrata una certa instabilità. La maturazione è partita lentamente e nonostante l’estate calda, l’iniziale ritardo vegetativo non sempre è stato pienamente colmato. In vendemmia si è riscontrato un buon equilibrio tra zuccheri e acidità, sostenuto da una maturazione fenolica adatta ad assecondare soprattutto le doti di finezza. Rispetto alle ultime annate piuttosto precoci, la 2013 è stata una vendemmia in stile “vintage”, che ha ricordato il periodo degli anni ’80 e ’90. Un’annata delicata da interpretare, che ha premiato chi ha saputo cogliere il giusto momento per vendemmiare, aspettando la completa maturazione delle uve, senza incappare nel peggioramento del clima di ottobre.

 

Il Brunello 2013

Secondo le valutazioni basate sulle analisi chimico-fisiche e organolettiche dei campioni, il Consorzio del Vino Brunello di Montalcino ha premiato l’annata 2013 con 4 stelle, rispetto alle 5 della precedente. In realtà sarebbe più corretto parlare di annate con caratteristiche diverse, piuttosto che stabilire una semplificazione gerarchica, che rischia d’essere spesso fuorviante.

Dalla degustazione di Benvenuto Brunello è uscito un panorama molto interessante. Se l’anno scorso si è riscontrata una certa omogeneità e una qualità media molto buona, la selezione delle migliori etichette del 2013 è forse di livello ancora più elevato rispetto allo scorso anno. Dopo un 2012 dal carattere piuttosto caldo e mediterraneo, il 2013 ci ha regalato un Brunello dal profilo più vivace ed elegante. I vini del 2013 privilegiano la delicata freschezza degli aromi, la nitidezza, la profondità e la sfaccettata complessità, piuttosto che la ricchezza del frutto o l’ampiezza e la struttura. È un Brunello profumato e dal bouquet fragrante, con aromi di piccoli frutti a bacca rossa, lampone, ribes, sottobosco, spesso impreziosito da note floreali, cenni balsamici e di erbe officinali. Una buona componente tannica e la viva acidità ne fanno già intuire la bella longevità e un interessante potenziale d’evoluzione nel tempo. Tra gli oltre 150 campioni in degustazione, abbiamo scelto le 20 etichette che ci sono piaciute di più e che esprimono in modo più fedele l’annata, valorizzandone al meglio il carattere.

 

Brunello di Montalcino 2013 Madonna delle Grazie Il Marroneto

Brunello di Montalcino 2013 Le Chiuse di Sotto Gianni Brunelli

Brunello di Montalcino 2013 Origini La Fornace

Brunello di Montalcino 2013 Vigna Manapetra La Lecciaia

Brunello di Montalcino 2013 Vigna Fornace Le Ragnaie

Brunello di Montalcino 2013 Vigna Loreto Mastrojanni

Brunello di Montalcino 2013 Piombaia

Brunello di Montalcino 2013 Altero Poggio Antico

Brunello di Montalcino 2013 Poggio di Sotto

Brunello di Montalcino 2013 San Polo

Brunello di Montalcino 2013 Sasso di Sole

Brunello di Montalcino 2013 Tenuta Le Potazzine

Brunello di Montalcino 2013 Vigna del Fiore Barbi

Brunello di Montalcino 2013 Canalicchio di Sopra

Brunello di Montalcino 2013 Filo di Seta Castello Romitorio

Brunello di Montalcino 2013 Col di Lamo - Col di Lamo

Brunello di Montalcino 2013 Salvioni - La Cerbaiola

Brunello di Montalcino 2013 Cupano

Brunello di Montalcino 2013 Fuligni

Brunello di Montalcino 2013 Poggio Cerrino Tiezzi

 

a cura di Alessio Turazza

Florence Cocktail Week 2018. Una settimana tra shaker e twist sul Negroni per scoprire la Firenze del bere miscelato

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Terza edizione per la rassegna dedicata alla miscelazione fiorentina e ai 21 cocktail bar della città che rappresentano la vivacità del bartending locale. In programma approfondimenti, masterclass, incontri con ospiti internazionali, una competizione all'ultimo cocktail tra bartender. E tanti cocktail da scoprire lungo l'itinerario della Florence Cocktail Week. 

La miscelazione a Firenze. Com'è cresciuta

E alla vigilia della terza edizione, è arrivato anche il patrocino del Comune, a testimoniare quanto la Florence Cocktail Week abbia saputo conquistare il suo posto tra le rassegne d'intrattenimento e culturali insieme che Firenze ospita nel corso dell'anno. Il capoluogo toscano, per primo in Italia, accoglieva ormai due anni fa il progetto pilota di una manifestazione tutta dedicata alla miscelazione di qualità e ai suoi protagonisti, importando nel nostro Paese un modello già sdoganato nelle più importanti capitali internazionali del bere miscelato (lo dicevamo allora, l'adattamento fiorentino di un format diffuso da Londra a Singapore e Parigi, sembrava un'ottima intuizione sostenuta da terreno fertile, con grandi margini di crescita). Da allora la Florence Cocktail Week, ideata e organizzata da Paola Mencarelli Lorenzo Nigro, è maturata e cresciuta, ampliando il proprio raggio d'azione, e stimolando al contempo la crescita della scena di settore fiorentina (tra le ultime novità, vi abbiamo parlato di Manifattura). Non a caso il cast della terza edizione, in programma dal 30 aprile al 6 maggio 2018, coinvolgerà ben 21 insegne (l'anno scorso erano in 16) e i rispettivi barman che hanno scelto di mettersi in gioco aprendo le porte alla città e cimentandosi con il contest che porterà a eleggere il cocktail migliore della manifestazione. Un panorama estremamente diversificato, quello offerto dalla mixology in salsa fiorentina, che vede partecipare l'uno accanto all'altro caffè storici, bar d'albergo e locali di tendenza (tra nuove insegne e vecchie conoscenze della rassegna), dove l'arte del cocktail spesso è il degno complemento di una proposta di ristorazione di livello. Di fatto, quindi, un'edizione dopo l'altra, la Cocktail Week è stata motivo per la città e i suoi barman di presa di coscienza del livello complessivo di un'offerta che per vivacità e competenza non ha nulla da invidiare a molte grandi città del mondo. E anche il parterre degli ospiti che ogni anno la manifestazione riesce a richiamare a Firenze, se da un lato è merito degli sforzi degli organizzatori, dall'altro è emblematico del fascino che il panorama della miscelazione fiorentina esercita sugli addetti ai lavori d'Italia e del mondo.

Le regole del gioco

Dunque anche stavolta la settimana si preannuncia ricca di appuntamenti e sorprese, mixando incontri con i protagonisti del settore, masterclass rivolte a barman e stampa specializzata, eventi aperti al pubblico, che seguendo la mappa della Florence Cocktail Week potrà muoversi per la città alla scoperta dei drink ideati dai locali coinvolti. Ogni cocktail bar presenterà4 proposte che confluiranno nella Cocktail List FCW2018, studiata ad hoc per l’intera settimana a un prezzo speciale. Nei 7 giorni della kermesse, così, sarà possibile accomodarsi al banco per scegliere tra il Signature cocktail ideato a mano libera dal bartender (lo stesso gareggerà per accedere alla finale del contest in programma), un cocktail ribattezzato RiEsco a Bere Italiano (con prodotti esclusivamente made in Italy, protagonisti anche al Salone de Liquori, Amari e Distillati italiani, che andrà in scena il 4 maggio in collaborazione con Shaker Club), un twist sul cocktail Negroni (e a breve capiremo perché) e il cocktail Abituati al Futuro.

 

Gli ospiti, la competizione

Ma si diceva del Negroni, che nel 2019 festeggerà il suo centenario: anche per onorare un anniversario tanto importante per la miscelazione italiana, la FCW ospiterà Mauro Mahjoub, che nell'ambiente tutti conoscono come Re del Negroni, patron del Boulevardier Bar di Monaco di Baviera. A lui, oltre che alla storia del drink che probabilmente più rappresenta il mito del bartending tricolore nel mondo, saranno dedicate la variazioni sul tema Negroni (i twist) di ogni singolo bartender. Tra gli ospiti, venerdì 4 maggio sarà la volta di Samuele Ambrosi, che insieme al collega francese Sullivan Doh (Le Syndicat, Parigi), approfondirà l'importanza dell'origine delle materie prime. Sabato 5 maggio, invece, i riflettori saranno tutti puntati su un mito della miscelazione internazionale come Philip Bischoff (l'anno scorso lo scettro di ospite d'onore era toccato al coreografico Hidetsugu Ueno) dal Manhattan Bar di Singapore all'Atrium Bar del Four Seasons Hotel di Firenze, teatro di diversi appuntamenti e in lista tra i grandi bar d'albergo coinvolti. Chiuderà i giochi, domenica 6 maggio, il contest che metterà i 6 bartender finalisti a confronto con una giuria di esperti riunita per decretare il protagonista dell'edizione 2018: alla finale, dunque, potrà accedere solo chi più convincerà per accoglienza, servizio e qualità della miscelazione gli esperti in visita tra i bar nei giorni della manifestazione. Ma attnezione particolare sarà riservata anche ai giovanissimi, protagonisti sul palco prima dei “big”, per confrontarsi nel Contest giovane talento under 25.

 

I cocktail bar partecipanti (con l'asterisco le novità 2018):

Atrium Bar - Four Seasons Hotel

Bitter Bar

Ditta Artigianale Oltrarno

*Empireo - Plaza Hotel Lucchesi

Gilli 1733

Gurdulù

Harry’s Bar

*Inferno

La Ménagère

Le Pool Bar - Villa Cora

Locale

MAD Souls&Spirits

*Manifattura

*Osteria del Pavone

*Picteau Lounge Bar - Hotel Lungarno

*Pint of View

Rasputin

The Fusion Bar - Gallery Hotel Art

Viktoria Lounge Bar

*The Cloister - Belmond Villa San Michele

Winter Garden Bar - The St. Regis Florence

 

a cura di Livia Montagnoli


Miami food halls. A Brickell City Center apre La Centrale: la più grande food hall tutta italiana

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Nel momento d'oro di Miami la passione per il cibo passa attraverso le food halls, megastore del cibo che uniscono vendita e somministrazione. Solo nel 2018 sono previsti qualcosa come 6 nuovi spazi. Oltre a quello appena aperto: La Centrale.

Miami food halls mania

A Miami è il momento delle food-halls, per ragione o per diletto - finanziario, commerciale o puramente social - il progetto dei templi del cibo sta diventando una cult-mania. Tant'è: il nuovo itinerario da provare a Miami sarà un viaggio alla scoperta delle nuove food halls.

Da South Beach a Wynwood a Little Haiti, a Brickell, a Downtown ogni quartiere vanterà la sua postazione food-hall. La più esplosiva, almeno per il momento, è La Centrale, nuovissima food hall tutta italiana. Inaugurata venerdì 16 febbraio, farà parlar di sé per un bel po’.

Perché in food hall e non al ristorante dietro l’angolo? Perché, a quanto, pare la domanda è di poter scegliere tra più opzioni di cibo contemporaneamente, come in una grande stazione gastronomica, dove ognuno sceglie la sua destinazione, ma che sia “una varietà di pasti autentici con ingredienti di alta qualità, offerti da un premuroso mix di venditori in un grande locale. Le opzioni per la ristorazione variano dalla tovaglia bianca al cibo casual urbano di strada. I clienti possono assaggiare piatti o cibo di fama mondiale, preparati da chef, da aziende locali o possono acquistare ingredienti artigianali freschi e impreparati in un ambiente di mercato. Le Food Halls fanno parte della "foodie culture" in corso, abbracciata in particolare dai Millennials, consumatori esperti di tecnologia digitale che sono sostenitori attivi e vocali della sostenibilità "farm to table" e del movimento "slow food". Così dichiara il report di Cushman & Wakefieldsulle Food Halls of America del 2016, fenomeno al tempo monitorato in crescita del 700% dal 2010.

La Centrale

La Centrale ha aperto lo scorso venerdì 16 febbraio all’interno del Brickell City Center di Miami, un complesso urbano multiuso che comprende torri residenziali, uffici, hotel, cinema e un grande shopping center, pari a una città nella città. La food hall conta ben 14 aree ristoro, negozi, caffè e una cantina per il vino tutta in mattoncini faccia vista toscani, come quelli utilizzati per ricostruire la cupola del Brunelleschi a Firenze. E poi micro-ristoranti e postazioni degustazione in ogni dove, spazi per eventi culinari, e naturalmente corsi di cucina.

Livello 1: la piazza italiana

Il primo livello di La Centrale è progettato come una classica piazza italiana e offre opzioni di ristorazione fresche e veloci per colazione, pranzo, cena e brunch del fine settimana con un focus sul cibo di strada italiano. C’è il Caffè Pasticceria ispirato alla Sicilia, il Mercato e la zona Pizza e Pasta che serve pizze napoletane preparate al momento e cotte nei forni a legna.

Livello 2: i tre ristoranti principali e i mercati

Il mercato della carne è come una vera e propria macelleria italiana, con arredamento rustico ispirato a quello tipico del Chianti. Il mercato del pesce ricorda l’Italia di riviera, con pesce fresco della Florida ma anche dal Mediterraneo, in arrivo con speciali spedizioni. Un piccolo caseificio offre degustazione di mozzarella fatta a mano.

Livello 3 il vino italiano e la cucina

Il terzo piano è il regno del vino italiano con degustazioni e abbinamenti su suggerimento del sommelier. C’è l’Enoteca, il wine bar, la Bottega del Vino, la Cantina per gli eventi e la Riserva, sala con soffitti a volta e piastrelle in terracotta a tutta altezza dove si troveranno i vini esclusivi e vecchie annate. E infine La Cucina, laboratorio aperto allo studio e sperimentazione di tecniche di preparazione, aperto alla partecipazione di chef dal mondo e pubblico creativo.

Il progetto

La Centrale a Miami batte molti record in tema di food hall. A fronte di una media già alta di 900mq delle altre in città, qui lo spazio disponibile totalizza almeno 3.700mq su tre piani, ognuno con una sua identità ben precisa in quanto a tradizione e cultura del cibo, del nostro cibo. La sua storia, tutta italiana, racconta molto di creatività imprenditoriale, visione e sviluppo, oltre la pura esperienza enogastronomica, che pur sorprende. L’idea è di Jacopo Giustiniani, giovane imprenditore della ristorazione italiana all’estero, a New York dal 2006. La realizzazione è stata possibile insieme al talento di Matthias Kiehm, precedentemente business director in brand come Harrods e Four Seasons, incontrato nella Milano dell'Expo.

 

Perché a Miami?

Miami è una città in continua crescita, negli ultimi cinque anni è cambiata moltissimo, diventando da meta turistica a città metropolitana e cosmopolita. In particolare il quartiere di Brickell ha una densità di popolazione paragonabile a NYC, un quartiere sempre attivo con uffici, negozi e appartamenti. Crediamo che per Miami questo sia solo l’inizio e nei prossimi anni continuerà ad evolversi sempre di più. Volevamo partire da NYC ma qui c’era il fermento tipico di un momento storico raro, di quando tutto si trasforma, c’era l’opportunità di essere i primi a fare la prima Italian Food Hall, e siamo convinti di aver fatto la scelta giusta.

 

Quanto tempo è passato dall’idea alla sua realizzazione?

Abbiamo cominciato con un sogno tre anni fa. Con Matthias fin dall’inizio e con Myca, il Marketing Director, che si è unito a noi circa due anni fa. Negli ultimi sei mesi abbiamo assunto Executive Chef (Vincenzo Scarmiglia,toscano, già al Giada del The Cromwell a Las Vegas) e poi il Director of Operations e il Retail Manager.

 

Quante persone sono coinvolte in questo progetto?

Abbiamo un team di circa 250 persone tra uffici, sala e cucina, tutti italiani ma con tanti anni di esperienza nel mondo e in America. I veri protagonisti del progetto sono loro, il successo è la responsabilità e l’energia di tutte le persone che lavorano all’interno della Centrale, ognuno sa di essere parte essenziale al funzionamento del tutto.

 

Chi si è occupato di esprimere il vostro progetto gastronomico anche attraverso il design degli interni?

Lo studio di architettura si chiama Urban Robot Associates e si trova qui a Miami, sono quattro ragazzi sulla trentina molto bravi e determinati. Il nostro designer di riferimento, quello con cui abbiamo fatto il giro di mezzo mondo per la ricerca di stili e ambientazioni, si chiama Giancarlo Pietri, e ha fatto studi e masters tra Parigi e Milano.

 

Cosa deve aspettarsi chi entra a La Centrale?

L’idea è portare qui, insieme al cibo, la vita dei mercati italiani, o almeno lasciarla immaginare attraverso i suoi profumi, la percezione tattile, la vista, il gusto di ogni prodotto. Vogliamo trasportare i visitatori in Italia senza farli viaggiare: ogni ristorante prende ispirazione da una regione d’Italia diversa, dal design al menu. C’è il meglio della cucina di ogni regione con piatti tipici e prodotti a denominazione dei vari territori certificati all’origine, insieme ai prodotti freschi che arrivano ogni mattina dalle aziende locali qui in Florida.

 

Quale è il vostro obiettivo?

Vogliamo creare dei momenti, ricordi, delle emozioni da portar via con sé: dal sentirsi come in un viaggio a poter ricreare le stesse ricette a casa. Ogni ingrediente dei piatti in menu è acquistabile ai mercati, con tanto di suggerimento di una lista della spesa ad hoc per ogni ricetta. È possibile consegnare la lista al cameriere personal shopper, e ritrovare tutto pronto a fine pasto, oppure andare tra i mercati insieme a lui. Più divertente di così!

 

Molti vi chiamano la Eataly della Florida

Eataly ha sicuramente aperto un’autostrada al cibo Italiano, sono bravissimi, dobbiamo a loro la buona fama del cibo italiano di qualità nel mondo. Ma La Centrale nasce da un concept diverso.

 

Il tuo prossimo progetto?

Al momento non ho altri progetti: devo curare la buona riuscita di questo. Siamo i primi ma Miami non è New York, farsi apprezzare qui significa entrare nella comunità locale e guadagnarsene la fiducia, solo allora può funzionare.

 

Miami food halls mania: le aperture recenti

1-800-Lucky

A tema asiatico, è prima food hall di Wynwood. Circa 1000mq con 7 postazioni diverse tra mercato, negozio di alimentari e gastronomia declinati con un design dal look industriale pop degli anni '80.

1-800-Lucky – Usa – Miami - 143 NW 23rd St - tel. 305-768-9826 - https://www.1-800-lucky.com/

The Wynwood Yard 

Cibo all’aperto completo di orto biologico, e 10 diverse postazioni alimentari tra il fusion e l’innovativo come il mac&cheese al tartufo.

The Wynwood Yard – Usa – Miami - 56-82 NW 29th St., - tel- 305-351-0366 - www.thewynwoodyard.com

Treats Food Hall

Treats si trova all’interno dello shopping centre Aventura Mall. A causa della stessa location, sconta pregiudizi sulla sua indiscussa qualità, che nulla ha a che vedere con le food court dei centri commerciali. Le postazioni cibo sono 12 e tra loro c’è anche Pubbelly Sushi (market e ristorante).

Treats Food Hall – Usa – Miami - 19501 Biscayne Blvd., Aventura – tel. 305-935-1110 - www.aventuramall.com/dining

Casa Tua Cucina

Anche Casa Tua Cucina è all’interno di un centro commerciale, il Saks del Brickell City Centre. Dieci le diverse stazioni gastronomiche italo-mediterranee oltre a un ristorante e un bar completo, distribuiti in 1.600mq. Il concept dedicato al food si accompagna a un piccolo mercato dei fiori e a un negozio di articoli per la casa e accessori cucina, in caso tanto buon cibo faccia venir voglia di creazioni culinarie domestiche.

Casa Tua Cucina – Usa – Miami - 70 SW Seventh St., - tel. 305-755-0320 - casatuacucina.com

The Wharf

Informale e innovativo, The Wharf è ispirato alla cucina del mare in tutte le sue forme. Anche illocale è a tema nautico e si sviluppa su 18.000mq. Firma i piatti Garcia’s, l'acclamato boat-to-table, dal 1964 http://www.garciasmiami.com/

The Wharf – Usa – Miami - 114 SW North River Dr. - tel 305-906-4000 - wharfmiami.com

 

Miami food halls mania: le aperture imminenti

All’anagrafe delle aperture imminenti per il 2018, almeno 6 i nuovi indirizzi. Due gli hot spot a South Beach: il Time Out Market e il Lincoln Eatery. Il primo con 17 concept gastronomici diversi e tre bar in 1.500mq ospiterà Jose Mendin di Pubbelly con l'executive in pasticceria Maria Orantes. Con lo slogan ‘Il meglio di Miami sotto uno stesso tetto’ Time Out Market fornirà agli chef aree cottura e spazi per la ristorazione in comune senza esborso di affitti, con in cambio, la condivisione dei profitti dei ristoranti. Il Lincoln Eatery avrà 16 ristoranti in 900mq al piano terra del nuovo edificio di Marshall. Più in là nell’anno sarà il turno di The Citadel, ilnuovo concept commerciale che abbina il cibo ad arte e creatività in una zona molto popolare, non ancora gentrificata: sarà a Little Haiti nel quartiere di Little River, al primo piano dell’edificio MiMo ex Federal Reserve Bank del 1951. In 900mq prenderanno posto Cake Thai, Antonio Bachour Sweets, Myumi e forse Stanzione 87. A Wynwood è invece pronto al lancio Jackson Hall con 6 postazioni food in 900mq, centrato sulla cucina salutista ispirata all’omonimo Health District. Nella Palm Court del Design District è atteso il St. Roch Market, cugino dell’omonimo a New Orleans, con 10 diverse postazioni food, un cocktail bar e un coffee shop, distribuiti in circa 900mq. A Downtown è pronta ad aprire Central Fare all’interno di Miami Central, nuovo hub di residenze e trasporti che accoglierà il nuovo treno espresso tra Miami e Orlando. Central Fare avrà 21 postazioni cibo in 900mq

 

South Beach – Time Out Market https://www.timeoutmarket.com/miami/

South Beach – The Lincoln Eatery http://www.thelincolneatery.com/

Little Haiti - The Citadel thecitadelmiami.com

Jackson Health District - Jackson Hall – team di http://www.thewynwoodyard.com/

Design District - St Roch Market strochmarket.com/Miami

Downtown - Miami Central http://miamicentral.com/centralfare/

 

La Centrale – Usa – Miami - Brickell City Center - www.lacentralemiami.com

 

a cura di Emilia Antonia De Vivo

 

 

Nero Norcia 2018. La mostra mercato del tartufo nero sul territorio che rinasce

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Alba, Acqualagna e Norcia sono le roccaforti del tartufo pregiato italiano. Quest'ultima ospiterà per i prossimi tre weekend Nero Norcia 2018, la mostra mercato del tartufo nero.

In Italia sono tanti i territori vocati alla tartuficoltura. I più noti (con i tartufi più costosi) sono senz’altro quelli di Alba e di Acqualagna. Ma altro grande terroir è l’Umbria con Norcia, cittadina che ospita per i prossimi tre weekend, a cominciare dal 25 febbraio, Nero Norcia 2018.

La rinascita di Norcia

La manifestazione, giunta alla sua 55esima edizione, ogni anno cerca di promuovere le produzioni tipiche, ma quest'anno porta con sé un messaggio di speranza, a testimoniare la rinascita di un territorio colpito poco più di un anno fa - era il 30 ottobre 2016 - dal sisma di magnitudo 6.5. Un territorio messo in ginocchio materialmente e psicologicamente, che però non si è mai dato per vinto. Pian piano hanno riaperto alcune delle attività più importanti ed è notizia di questi giorni che è stata completata la messa in sicurezza delle mura. “Adesso chi arriva a Norcia non si trova più davanti le macerie, bensì le impalcature in acciaio, che danno un ordine diverso al centro storico”. Ha dichiarato l’Assessore Giuseppina PerlaUna goccia nell'oceano che fa ben sperare, così come è di buon auspicio la manifestazione dedicata al nero pregiato. “Mai come quest’anno Nero Norcia significa rinascita.”, raccontano gli organizzatori, “Da sempre, la manifestazione rappresenta il risveglio dal torpore dell’inverno, ma a seguito degli eventi sismici del 2016 che hanno colpito il centro Italia, la città di san Benedetto è impegnata in un percorso di ripartenza e questo evento rappresenterà un momento di respiro nazionale molto significativo”.

Mostra mercato del Tartufo Nero Pregiato di Norcia

In programma per tre fine settimana (dal 23 al 25 febbraio, dal 2 al 4 e dal 9 all’11 marzo), la 55esima edizione di Nero Norcia quest'anno guarda al futuro, con una veste grafica rinnovata e un coinvolgimento en plein air della città. In chiave ricostruzione, lo stadio comunale Europa si trasforma in mercato con oltre 100 stand enogastronomici, tra tartufi, formaggi, legumi e salumi, mentre il centro storico si apre al pubblico ospitando una serie di iniziative divise per tematiche. Il primo weekend è dedicato proprio al tartufo con approfondimenti sul prodotto come bene da tutelare e un focus sul percorso di candidatura Unesco per la ‘Cerca e cavatura del tartufo in Italia’ come patrimonio immateriale dell’umanità, il secondo alla filiera dell’agroalimentare e alle innovazioni di questo settore, il terzo all’economia della ricostruzione 4.0, quindi con l'ausilio di strumenti e infrastrutture digitali. Un programma fitto che getta le basi per riavviare l'economia di questo territorio. Come dichiarato da Giuliano Boccanera, Assessore allo sviluppo economico del Comune di Norcia: “Nero Norcia, in questo momento di rilancio delle aziende colpite, è un evento di straordinaria importanza per la nostra comunità. Nell’era della globalizzazione possiamo difenderci soltanto con prodotti di altissima qualità che rispondono alle eccellenze di un territorio e alla tradizione di una lavorazione tramandata di generazione in generazione. Solo questo permette oggi a Norcia di affacciarsi sul mercato nazionale con i suoi prodotti. E l’associazionismo di Norcia ci sta aiutando per il rilancio della città”.

 

Nero Norcia 2018 - dal 23 al 25 febbraio, dal 2 al 4 e dal 9 al 11 marzo – Norcia - Viale Valnerina e Circonvallazione, Campo Sportivo Comunale di Viale Europa - nero-norcia.it

 

 

La pasta italiana nel Lazio. 16 formati tipici e la ricetta dei quadrucci

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Una tradizione ricca e quanto mai legata al passato: la cucina laziale è di umili origini e trae ispirazione dal mondo contadino. Anche per la pasta, che qui trova tante sfumature e espressioni diverse a seconda della zona.

Un territorio complesso da raccontare, sfaccettato nei paesaggi così come nelle tradizioni. Tuscia, Sabina, Agro Pontino, Ciociaria, Castelli Romani, e poi, naturalmente, Roma, la Città Eterna con il suo carico di storia e leggenda, la sua memoria così antica e incancellabile, che ancora pulsa in ogni pietra, ogni angolo o vicoletto. È impossibile delineare con precisione usanze e costumi del Lazio, tanto quanto è difficile e laborioso tracciare dei confini netti in grado di circoscrivere una cultura gastronomica locale. Anche a tavola, infatti, la tradizione laziale si fa intricata, e deve tener conto di luoghi, borghi, frazioni che, seppur poco distanti fra loro, hanno alle spalle un vissuto completamente diverso. In qualsiasi caso, la cucina qui mantiene ancora intatto il gusto e fascino di un tempo, conservando tracce di genti che nei secoli hanno scritto la storia dei piatti regionali. Ad accomunare le varie zone, il legame con la tradizione contadina, l'utilizzo di ingredienti poveri, e la capacità straordinaria di sfruttare i più umili sottoprodotti vaccini, dalla coratella alla milza, dal cuore alla coda, e renderli appetitosi. Ma soprattutto, il consumo diffuso di pasta, di grano duro o semolino, all'uovo, ripiena, lunga o corta: il lascito degli antichi romani è ancora palpabile in tutte le tavole, nei giorni di festa e non solo. Tanti i formati tipici dei vari borghi; impossibile citarli tutti: qui ne abbiamo radunati “solo” 16, cercando di fornire un esempio per ogni zona, e abbiamo riportato una ricetta semplice e gustosa, perfetta per le giornate più fredde, quella dei quadrucci.

Bucatini

È uno dei formati più rappresentativi della cucina laziale, immediatamente associato al sugo all'amatriciana: il celebre bucatino, spaghetto dal diametro più ampio e forato al centro, è un prodotto antico, in passato ottenuto facendo arrotolare un pezzetto di impasto su un ferretto, un giunco oppure un bastoncino levigato. Ne parla Bartolomeo Sacchi ne “Il Piacere onesto e la buona salute”, e poi ancora Martino da Como nel suo “De arte coquinaria”, dove descrive i maccheroni siciliani, l'equivalente meridionale dei bucatini: “Piglia de la farina bellissima et impastala con bianco dovo...acqua comuna...fa' questa pasta ben dura, da poi fanne pastoncelli longhi un palmo sottili quanto una paglia. Et togli un filo di ferro longo un palmo o più sottile quanto uno spago, ponilo sopra 'ldtto pastoncello e dagli una volta con tutte doi le mani sopra una volta, da poi caccia fora il ferro, ristira il maccherone pertusato in mezo”. Altra versione del Sud Italia di questo formato sono i perciatelli campani, dal verbo francese “percer”, che significa perforare. Proprio per questa sua caratteristica, il bucatino vuole condimenti ricchi, ragù di carne con tanto pomodoro, e una bella grattugiata di pecorino. Alto il rischio macchia sui vestiti, per via degli schizzi di sugo che fuoriescono inevitabilmente dal buco centrale, ma anche questo fa parte della tradizione.

 

bucatini

Capelli d'angelo

Chiamati anche capelvenere, maccaruniciociari, gramignao ramiccia, i capelli d'angelo sono fra le paste più utilizzate per minestre e brodi. Dei tagliolini molto fini diffusi un po' ovunque, ma in particolar modo in Liguria e nel Lazio, descritti già nei testi del XVII secolo, e nati all'interno dei monasteri medioevali, dove le monache erano solite prepararli per gli ammalati o le puerpere. Fra le varie testimonianze scritte, quella dello storico Alessandro Moroni, che ne “Il Lazio a tavola, guida gastronomica tra storia e tradizioni” descrive l'usanza di portare la pasta in dono alle neo-mamme: “E subito dopo, portando da numerosi portatori, si vedeva troneggiare il 'padiglione delle puerpere', cioè una grandiosa macchina dai disegni bizzarri, interamente rivestita da lunghe file di tagliolini o di altra pasta all'uovo, il tutto intramezzato da uno sciame di capponi di alline pe ruso dell'illustre puerper”.

Cappelletti

Presenti a Roma fin dagli inizi del Novecento, quando donne e bambini si riunivano insieme il giorno della Vigilia di Natale per preparare il pranzo del 25 dicembre, i cappelletti sono da sempre simbolo di festa. Parenti stretti dei tortellini emiliani, quelli romani si differenziano per misura (più grande) e per il ripieno, a base di carne cruda. Il nome deriva dalla forma del tipico cappello medioevale: è infatti proprio in questo periodo che cominciano a diffondersi le paste ripiene, specialmente in Romagna (con la variante locale leggermente diversa), prima dell'inizio del digiuno quaresimale. Fra le tradizioni popolari legate a questo prodotto, quella del caplitaz, un cappelletto più grande farcito con solo pepe, preparato in tempo di Carnevale come burla per il più goloso della tavola.

 

cappelletti

Cappellacci dei briganti

Come spesso accade nelle cucine del Centro Italia, alcune ricette sono condivise da più regioni. Quella dei cappellacci dei briganti, per esempio, appartiene tanto al comune di Formello, in provincia di Roma, quanto al basso Molise. Ancora una volta, il nome trae ispirazione dai cappelli, in questo caso quelli a forma di cono con falda rivoltata verso l'alto tipici della divisa dei briganti che per molti secoli, fino alla seconda metà dell'Ottocento, hanno percorso il territorio molisano e laziale. Le origini di questa ricetta sono sconosciute, quello che è certo, però, è che la variante di Formello è molto diversa da quella degli altri comuni: si tratta, infatti, di una sorta di crespella a base di farina di grano duro, uova, acqua e sale, ripiena di ragù, solitamente di agnello.

Cazzaregli

Nel comune di Anticoli Corrado sono i cazzaregli a fare la parte del leone, interpretazione locale dei più noti strozzapreti, antica pasta corta caratteristica dell'Italia Centrale citata più volte nella letteratura romanesca, in particolar modo nei Sonetti di Gioachino Belli. Il nome strozzapreti allude alla proverbiale golosità dei preti, ma a consumare questa specialità erano tutte le famiglie di contadini più umili. Si tratta, infatti, di un cibo “povero”, in genere abbinato a un sugo di fagioli, da sempre considerati “la carne dei poveri”.

 

strozzapreti

La Scampaggnata, Giuseppe Gioacchino Belli

Nun pòi crede che ppranzo che ccià ffatto
quel’accidente de Padron Cammillo.
Un pranzo, ch’è impossibbile de díllo:
ma un pranzo, un pranzo da restacce matto.
Quello perantro c’ha mmesso er ziggillo
a ttutto er rimanente de lo ssciatto,
è stato, guarda a mmé, ttanto de piatto
de strozzapreti cotti cor zughillo.
Ma a pproposito cqui de strozzapreti:
io nun pozzo capí ppe cche rraggione
s’abbi da dí cche strozzino li preti:
quanno oggni prete è un sscioto de cristiano
da iggnottisse magara in un boccone
er zor Pavolo Bbionni sano sano.

Cordelle sabine

Ci sono alcuni sughi semplici che racchiudono i sapori della tradizione contadina, uno di quelli più in voga, ancora oggi, in tutto il territorio è a base di pomodoro e pecorino, due ingredienti simbolo della tavola laziale, presenti in tantissime ricette regionali. Fra le varie paste condite con questa salsa saporita, una delle più antiche e particolari sono le cordelle sabine, preparate con la pasta lievitata che avanzava dopo aver fatto il pane. La leggenda narra che con i fondi raschiati via dalla madia, le donne realizzavano delle striscioline di pasta così gustose da accecare gli uomini: da questo racconto, il nome popolare molto diffuso di “cecamariti”. Come variante per il condimento, nel comune di Orvinio, in provincia di Rieti, si prepara una sorta di pesto a base di aglio, sale grosso e peperoncino tritati nel mortaio e ammorbiditi con un po' di olio extravergine d'oliva della Sabina.

Fieno di Canepina

Una pasta talmente fina da sciogliersi in bocca, il fieno di Canepina, dei tagliolini sottilissimi tipicamente conditi con rigaglie di pollo o sughi di carne. Questa pasta tipica di Canepina, antico comune della Tuscia in provincia di Viterbo, si distingue dagli altri formati per la procedura di cottura che prevede una doppia scolatura: realizzata con farina e uova, la pasta viene cotta e scolata quando è ancora molto al dente, per essere poi immersa in acqua fredda e sale, e scolata di nuovo. Infine, viene asciugata con un canovaccio e tagliata con un coltello a lama molto alta. Seppur di origini remote, prima testimonianza scritta di questo prodotto risale solamente all'87, con la pubblicazione del libro “Tuscia a tavola” di Italo Arieti, uno dei volumi che meglio racconta la tradizione gastronomica della zona.

Fregnacce

Nel dialetto laziale, la “fregnaccia” indica una sciocchezza, una frottola, un elemento di poco conto fatto in maniera approssimativa. Dette anche frescacce, paciocche o pantacce, le fregnacce vengono chiamate così proprio per la facilità di preparazione. Si tratta di una versione regionale dei più conosciuti maltagliati abruzzesi, nata a Poggio Moiano, in provincia di Rieti, e divenuta fin da subito una delle paste più preparate a livello casalingo. Si tratta di piccole strisce romboidali, un tempo a base di farina di grano duro e acqua, oggi realizzate quasi sempre con l'aggiunta di uova: la tradizione vuole che vengano consumate a inizio primavera con gli asparagi selvatici, e in inverno con sugo di castrato, ma è possibile ormai trovarle tutto l'anno condite nei modi più disparati. Fra i più noti nel Reatino, il sugo di pomodoro con racaji de pullu, ovvero le regaglie di pollo tagliate a pezzettini, soffritte e insaporite con un cucchiaino di conserva di pomodoro.

Gnocchi alla romana

“Giovedì gnocchi, venerdì oppure ceci e baccalà, sabato trippa”. Così recita uno dei più antichi detti popolari romani. Ancora oggi, infatti, in molte osterie tradizionali è facile trovare gli gnocchi in menu proprio il giovedì. Nella versione classica oppure nella variante regionale “alla romana”, ovvero a base di semolino, latte e sale. Per prepararli, si versa il semolino a pioggia nel latte caldo e lo si lascia cuocere facendo attenzione a non formare grumi. Una volta pronto, si stende l'impasto con uno spessore di circa un centimetro su una teglia, e lo si lascia rapprendere per un'oretta. Dopo che la base si è solidificata, la si taglia a rondelle, che vengono poi cotte in forno, condite con burro e formaggio. Il risultato è una sorta di timballo grigliato, da gustare caldo con una generosa spolverata di pecorino. Non è raro trovarli anche nella versione rossa, con sugo di pomodoro.

 

gnocchi alla romana

Maccheroni a fezze

Uno dei piatti simbolo della Sabina per eccellenza sono i maccheroni a fezze, ovvero degli spaghettoni a base di acqua, uova e farina, dal diametro più ampio e la forma irregolare, impastati e tagliati a mano, e insaporiti con il pesto alla Sabinese, un mix di olio extravergine di oliva, aglio, peperoncino e maggiorana, oppure con sugo di castrato o carni miste. Il giorno migliore per assaggiarli è il terzo sabato di luglio, quando Montenero Sabino si anima per la sagra dedicata a questa ricetta, fra musica, balli e prodotti tipici. Come si intuisce dal nome, si tratta di una variazione locale dei più conosciuti maccheroni, termine con il quale, oggi, si indica tutta la pasta secca di vari formati, quella - per intenderci - a base di semola di grano duro e acqua. Tante le ipotesi all'origine della parola, dalla più popolare (e meno probabile) che racconta di un sovrano che, mangiando la pasta, esclamò “Molto buoni ma... caroni”, a quella più accredita che vede una connessione con il termine macàrios, in lingua omerica “beato”. Da qui deriverebbe anche la macaria, una minestra brodosa nata nel Cinquecento come pasto da servire durante i funerali. I maccheroni hanno poi fatto il giro del mondo, evolvendosi e cambiando forma più volte: secondo i testi medioevali, infatti, in principio erano una pasta più simile agli gnocchi che a quella di grano duro.

Pencarelli

Fino al 1927 parte dell'Abruzzo, più precisamente della provincia dell'Aquila, il comune di Leonessa vanta una cucina frutto di due tradizioni gastronomiche ricche e succulente. Qui, nei monasteri medioevali, in particolare quello delle clarisse di San Giovanni Evangelista, nascono i pencarelli, una pasta all'uovo simile agli spaghetti, ma più erta e più corta, pensata come dono natalizio, e ancora oggi uno dei prodotti più diffusi fra i cesti regalo. Solitamente vengono preparati con un condimento simile alla carbonara, sopratutto nel periodo pre-quaresimale, ma si trovano spesso anche abbinati a sughi di carne.

Pizzarelle

Prima erano solo di farina di grano e mais mescolate con l'acqua, oggi invece sono preparate quasi sempre con l'aggiunta di uova: le pizzarelle sono uno dei formati tipici della zona di Subiaco, una pasta a stringhette sottili molto diffusa nel comune romano di Cerreto Laziale. Un tempo riservata ai giorni di festa, la pasta veniva perlopiù arricchita con baccalà, ma quando non c'erano soldi o merce di scambio per comprare il pesce, erano le lumache le protagoniste del condimento. Indicatori della miseria sconfinata del passato, le lumache erano fra i prodotti poveri più utilizzati nelle campagne romane, naturalmente dopo i giorni di pioggia, base per sughi ricchi dal gusto unico, tradizionalmente aromatizzato con un po' di menta fresca.

Quadrucci

Un formato che molti legano all'infanzia, ma anche una pasta che sa di inverno, di giorni di pioggia, di quelle giornate rigide in cui, per scaldarsi, si ricorre ai piatti più confortevoli e accoglienti della tradizione. I quadrucci in brodo, per esempio, piccoli quadratini di pasta all'uovo perfetti per minestre e zuppe, molto apprezzati soprattutto dai più piccoli. Alla base dell'impasto, farina, uova, e alle volte anche un pizzico di noce moscata, anche se ormai ne esistono molte varianti, da quella integrale a quella con farina di farro, realizzata soprattutto nella Tuscia. Un formato entrato ormai a far parte della tradizione italiana, uno di quei prodotti in grado di mettere tutti d'accordo, da Nord a Sud della Penisola, ma particolarmente apprezzato nell'Italia Centrale. Questa piccola specialità nasce in realtà come pasta di recupero, ricavata dalla sfoglia avanzata dopo la preparazione delle fettuccine nei giorni di festa. Nel Lazio è conosciuta anche come cicerchiola per via delle dimensioni del quadratino che, secondo la tradizione, deve essere grande come una cicerchia.

 

quadrucci

Ramiccia

Prodotta soprattutto durante il periodo carnevalesco, la ramiccia è una tipologia di pasta tipica di Norma, originariamente pensata per consumare le ultime salsicce rimaste prima del sacrificio del nuovo animale, e destinata ai giorni di festa, in particolare al Giovedì e Martedì Grasso. Simile a una tagliatella, ma molto più stretta, viene preparata con acqua, farina, uova e un filo di olio extravergine di oliva, e cotta in una pentola di rame appesa al camino. La pasta viene tuffata in acqua per pochi secondi prima che “revé subbitu ammonte”, ovvero torni a galla, per essere poi scolata e aggiunta alla salsa, tradizionalmente a base di salsicce di fegato e spuntature di maiale.

Sagne 'mpezze

La storia delle sagne 'mpezze risale alla notte nei tempi, ed è legata a doppio filo con la tradizione delle sagne abruzzesi, solitamente impiegate nella preparazione di minestre di legumi. A scrivere per primo di questa pasta è, infatti, Antonio de Magistris da Introdaqua, nella “Biografia del Beato Bernardino da Fontavignone” del 1794, in cui racconta che un tempo venivano utilizzate come medicamento: “Mangiando le sagne fatte da sua moglie subitò cominciò a migliorare e in pochi giorni restò perfettamente libero e sano che tutti ne restarono meravigliati e ne resero grazie a Dio e al suo servo Fra Bernardino”. Nel Lazio, soprattutto nella zona di Subiaco, vengono servite come una sorta di maltagliato a forma di rombo, a base di uova e farina di grano duro, ma è possibile trovarle anche nella variante con farina di farro. La popolarità di questo formato nasce da una necessità: in tempi antichi, il sale non poteva essere concesso a credito nei negozi di alimentari, e così questa specialità di umili origini e a basso costo veniva utilizzata per il baratto.

 

sagne

Stracci di Antrodoco

Una pasta golosa, dalla farcia succulenta e il gusto pieno: gli stracci di Antrodoco, comune in provincia di Rieti, sono delle crespelle a base di farina, uova e acqua (talvolta sostituita o accompagnata dal latte) farcite con carne e scamorza, cotte in forno e ricoperte con ragù di carne. La tradizione contadina impone che per l'impasto vengano utilizzati un uovo, un guscio d'acqua e uno di farina, ma, come nelle migliori ricette popolari, dosi, ingredienti e procedimento variano di famiglia in famiglia. Ne esiste anche una versione fritta, ancora più goduriosa, da gustare in purezza oppure immersa nel sugo e passata in forno.

La ricetta: Quadrucci

A fornire la ricetta dei quadrucci è Angela Fiorini, proprietaria del laboratorio di pasta fresca Meraviglie in Pasta di Zagarolo,nella campagna romana. Una realtà artigianale mandata avanti con passione insieme alle due figlie Valentina e Eleonora Euganei, e da tempo specializzata anche nella valorizzazione dei prodotti del territorio laziale.

Ingredienti

320 g. di farina di grano duro

4 uova

Formare una fontanella con la farina, fare un buco al centro e aggiungere le uova. Iniziare a sbattere con una frusta, incorporando, poca alla volta, la farina. Quando gli ingredienti saranno ben amalgamati, impastare a mano per qualche minuto fino a ottenere un composto liscio e compatto. Stendere la foglia con il mattarello, scegliendo lo spessore che si preferisce. Arrotolare la pasta e tagliare con il coltello a quadretti.

a cura di Michela Becchi

La pasta italiana in Veneto. 6 formati tipici e la ricetta dei bigoli 

Michelin Nord Europa. Il primo tristellato nella storia della Svezia è Frantzén

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Soddisfazioni soprattutto in Svezia, che festeggia le tre stelle di Bjorn Frantzèn, ma pure le due stelle di Daniel Berlin e l'arrivo del primo macaron a Stoccolma per Agrikultur e Aloe. A Copenaghen la seconda stella per Kadeau, ma l'anno prossimo toccherà al Noma, che ha appena riaperto nella sua nuova, suggestiva sede.   

Il nuovo Noma

Che succede, di nuovo, sulla scena gastronomica del Nord Europa? A movimentare l'orizzonte, impossibile non citarlo, il Noma di René Redzepi - nella nuova veste che lo chef danese ha scelto di cucire addosso alla ripartenza più attesa dell'ultimo anno (qui le aspettative degli addetti ai lavori, raccolte dal Gambero Rosso) - ha finalmente sciolto gli indugi. Il 16 febbraio scorso, dunque, il Noma 2.0 ha accolto i primi ospiti nel grande spazio alla periferia di Copenaghen, che somma 11 edifici, tra cui tre serre, un laboratorio di fermentazione e un grande giardino tutt'intorno. Un quartier generale progettato per garantire un ruolo preponderante a quella ricerca che è sempre stata linfa vitale dell'insegna che ha guidato la rivoluzione della New Nordic Cuisine negli ultimi 12 anni, e ora non ha nessuna intenzione di cambiare rotta. Anzi, e questo si sapeva da tempo, Redzepi e la sua brigata lavoreranno ancora più a fondo sulla stagionalità e i microclimi, proponendo cambi netti di menu nel corso dell'anno solare: il mare in inverno, cui è affidata la riapertura dei giochi, le verdure in estate, la selvaggina in autunno. Tutto accolti nella luminosa sala vetrata, dove il legno chiaro gioca la parte del leone, smussa gli spigoli e si intride di luce (il progetto è di Bjarke Ingels). E certo, il nuovo Noma ha davanti a sé tutto il prossimo anno (e oltre) per convincere gli ispettori della guida Michelin che è finalmente arrivato il momento di strappare una terza stella che non è mai arrivata, tra il disappunto di molti (a Copenaghen, invece, dall'anno scorso le detiene Geranium).

 

Frantzèn, il primo tristellato di Svezia

Questo perché, quasi in concomitanza con il ritorno in campo di Redzepi, la Rossa ha divulgato l'edizione 2018 della guida dedicata ai Paesi del Nord (Danimarca, Norvegia, Finlandia, Svezia, Islanda). E i riflettori, quest'anno, si spostano sulla Svezia, che può festeggiare la proclamazione del primo tristellato nella storia della ristorazione nazionale: la bussola punta dritta sulla capitale Stoccolma, e premia la cucina di Bjorn Frantzèn, chef patron del ristorante eponimo fresco di trasloco in un palazzo ottocentesco del centro storico. Dallo scorso autunno, infatti, la cucina che mixa suggestioni nordiche e giapponesi (bistellata dal 2010) sembra aver trovato la dimensione che gli è più congeniale, almeno a giudizio degli ispettori, servendo 23 ospiti per servizio nello spazio accogliente del nuovo edificio. Ma in Svezia festeggia anche Daniel Berlin, premiato con il secondo macaron, mentre a Copenaghen – che ha ospitato la cerimonia – bisogna guardare per scoprire l'altra new entry nella compagine bistellata, Kadeau dello chef Nicolai Norregaard. Poche, invece, le prime stelle assegnate, nove in tutto: una finisce nella capitale danese (Jordnaer), una a testa anche per Helsinki (Gron) e Oslo (Galt); mentre anche in questo caso è Stoccolma a rivelarsi più prolifica, con due insegne che balzano agli onori della cronaca, Agrikultur e Aloe.  

 

a cura di Livia Montagnoli

Alberto Tasinato apre L'Alchimia a Milano

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Alberto Tasinato, ex restaurant manager del Seta al Mandarin Oriental Milano, ci presenta il suo nuovo progetto. Si chiamerà L'Alchimia e aprirà a fine marzo 2018 a Milano.

 

Da una parte il lounge, aperto dalle 12 alle 24, dall'altra - riparato dalla strada - il ristorante. In totale 80-85 coperti, forse qualcuno in più. Gli spazi ci sono: 260 metri quadrati e una cantina al piano interrato con volte a botte e mattoni a vista, che varrà la pena di visitare. Anche per le centinaia di etichette presenti. Del resto, qui, il vino è di casa. Siamo a Milano in viale Premuda, tra Porta Venezia e 5 Giornate, nei locali che per tanti anni sono stati della storica enoteca Gaboardi e Pogliani.

 

Via Premuda

 

E in ideale continuità si pone il prossimo progetto, che cela, sotto l'insegna L'Alchimia, un nome familiare agli appassionati di buon vino e buon cibo, quello di Alberto Tasinato, classe 1985, smesse da qualche tempo le vesti di restaurant manager del Seta, al Mandarin Oriental Milano (Tre Forchette per la guida Ristoranti d'Italia del Gambero Rosso). Insieme a lui Patrizia Riccardi, Edoardo Veronoli e Samuele Serra, quest'ultimo imprenditore del settore della ristorazione (all'attivo altri sei locali nel capoluogo lombardo tra la stazione e Brera) che per l'occasione si confronta con un progetto diverso dai precedenti. “Volevo fare qualcosa di mio, lui un ristorante di tipo diverso da quelli che già ha” racconta Alberto “Mi ha detto: non voglio fare un ristorante turistico, e neanche spendere miliardi. Ci siamo trovati”. Così è partito tutto, con i primi incontri che risalgono a maggio scorso.

 

Davide Puleio. Foto Andrea MorettiDavide Puleio. Foto Andrea Moretti

 

La squadra

In cucina Davide Puleio, già sous chef di Luciano Monosilio alla corte di Alessandro Pipero a Roma. Giovane, capace, “mi è piaciuto quando ci siamo conosciuti, e poi è uno che sa cosa significa lavorare in un posto in cui la sala ha un peso importante”. Il resto della squadra (17 o 18 persone) è ancora da definire, così come alcuni piatti, ma il tempo c'è: l'apertura è per fine marzo, “questa parte affrontata ora ha un suo fascino, c'è il tempo per capire meglio le persone e mettere a fuoco le idee. Il tempo a locale chiuso è sacro” spiega“C'è la pressione dei lavori ma non del servizio e dei clienti”. In sala Valerio Trentani (anche lui per un paio di anni al Seta del Mandarin) a gestire ristorante e lounge, “ha una grande passione per il bar e ama entrambi gli ambenti”. A lui il compito di condividere, con Alberto, il lavoro tra i tavoli. Che si preannuncia determinante: “ci saranno un'interazione forte con gli ospiti e tante preparazioni da concludere in sala: aggiungere una salsa, versare un brodo, tagliare una carne. Questo prevede che ci sia una relazione con il cliente, un contatto di un paio di minuti”. E non sono pochi. “Perché tutto questo funzioni è necessaria una collaborazione con la cucina: più queste due realtà sono coordinate più le cose volano”.

 

La proposta

Legno in terra, alle pareti qualche mattoncino a vista, travi al soffitto, così il locale sta trovando, giorno dopo giorno, una nuova veste nei due ambienti, firmata dallo studio Com.Ar. Da una parte il bar: sedute alte e 20-25 coperti dove per tutto il giorno si potrà scegliere una delle tapas della piccola carta (“ma chissà se si chiameranno tapas”), bocconcini pensati per accompagnare un bicchiere. “Ma nulla di troppo cucinato”, per differenziarlo dal ristorante con quei tavoli “in massello belli belli” lasciati nudi, senza tovaglia. Qui alla carta snella - 4 antipasti, 4 primi, 3 secondi di pesce e altrettanti di carne, 5 dolci - si aggiunge un menu degustazione di 5 portate (65 euro) molto fluido, aperto a modifiche o aggiunte, nell'ottica di un servizio teso al rispondere ai desideri e alle esigenze dei clienti. Stesso discorso anche per i vini: il percorso di abbinamento al calice si apre a drink o tè, secondo le preferenze e le esigenze di ognuno, per un approccio al vino il più possibile facile.

 

La cucina

Non sarà un bistrot, ma neanche un ristorante proibitivo. “Deve essere confortevole, tanto nell'atmosfera quanto nel menu” dice Alberto e spiega la sua idea di locale ad alta accessibilità “vogliamo fare in modo che tutti si sentano a proprio agio, trovando una chiave per intercettare i gusti delle persone senza però perdere la nostra connotazione”. L'idea è quella di una cucina rassicurante ma personale, con qualche signature dish e quel tocco di originalità che proietta i piatti al di fuori della tradizione pura e semplice, anche se la tradizione (non solo) milanese, è un'ispirazione costante “chi legge il menu non deve dire che non sa che prendere, che non se l'aspettava o pensava di trovare un'altra cosa”. Dunque non mancano la cotoletta o il risotto alla milanese - “anche se non so ancora come”, aggiunge lasciando intendere che non ci sarà paura di tradurre tutto in un linguaggio contemporaneo - così come suggestioni tradizionali all'interno di altri piatti più elaborati: la bagna cauda, magari accanto a una verdura fermentata, o la cacio e pepe nei ravioli con il ragù di coniglio. Ispirazioni e tecniche non mancano, per rinnovare dall'interno una proposta che si vuole confortevole ma dinamica, complice anche l'anno trascorso al Noma dello chef. “Vorrei che ci fosse più imbarazzo della scelta che imbarazzo perché nulla convince o suona familiare” e in questo torna in primo piano il ruolo della sala, che deve accompagnare il cliente nella scelta, raccontare i piatti e intercettare i gusti delle persone.

 

La cantina

Partiamo con 500 di etichette” annuncia Alberto. Bollicine? Tante: “quando fai un degustazione, se non fai un abbinamento al calice è facile che, cercando un vino che vada bene per tutto il percorso, poi si scelgano bollicine” e poi anche per via di quell'area lounge che chiama aperitivi e tanti vini spumanti, 5-6 su una mescita di circa 20 proposte. Con qualche cocktail a fare da corollario. Italia e Francia faranno la parte del leone. “Ma ci sono anche altre regioni del panorama enologico”. Da uno come Tasinato ci si aspetta una lista al calice divertente, “oggi il Coravin consente di giocare molto” e lui vuole giocare, mettendo in programma proposte al calice che, dai 5 euro ai 90, possano accontentare tutti. È un po' un'eredità degli anni al Seta: “lì ho imparato che il cliente va accontentato in tutto, eravamo presenti 24 ore al giorno, facendo anche il servizio in camera, e ogni ospite lo seguivamo dal suo arrivo fino al momento in cui lasciava l'albergo al mattino. E a volte anche dopo: magari consigliandolo se andava in altre città”. Due anni e mezzo in un posto come il Seta lasciano il segno: “è rimasto il buon rapporto con Antonio Guida”con cui aveva già lavorato al Pellicano, e l'esperienza in una struttura come quella di un grande albergo dove gli standard sono altissimi “interfacciarsi con tutti i reparti - risorse umane, marketing, pr, - impone ordine e regole, mette dei paletti che però sono utilissimi: fanno capire il modo più corretto di fare ogni cosa”. E poi, è stato proprio Tasinato a coordinare il lavoro che è valso al Seta il premio come miglior servizio di sala in albergo per la guida di Milano 2018 del Gambero Rosso.

 

L'Alchimia – Milano – viale Premuda, 34

 

a cura di Antonella De Santis

 

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