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Carlo Cracco apre in Galleria. Faraonico progetto nel Salotto di Milano: ecco com'è

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Taglio del nastro con istituzioni, stampa e celebrità per Carlo Cracco e la sua nuova casa in Galleria, 5 piani tra caffè con bistrot, laboratorio di pasticceria, ristorante e salone dei ricevimenti. Scenografie curate nel dettaglio, materiali pregiati, stoviglie esclusive realizzate da Richard Ginori, offerta gastronomica articolata per tutta la giornata, e 10mila bottiglie in cantina. Si comincia. 

Carlo Cracco. Dove eravamo rimasti

C'era da aspettarsi la festa e il parterre delle grandi occasioni per l'inaugurazione del ristorante in Galleria di Carlo Cracco. E così è stato. Vuoi per esorcizzare un'attesa che si era protratta oltremodo, ampiamente giustificata dalla necessità di confrontarsi con un contesto decisamente fuori dal comune; o perché le ultime settimane dello chef vicentino sono state dense di avvenimenti importanti, a cominciare dal matrimonio iper immortalato con Rosa (Fanti). In casa Cracco c'era molta voglia di festeggiare, celebrare con istituzioni, colleghi, stampa, amici e celebrità il prestigio del traguardo raggiunto – è solo l'inizio, certo, ma è bene ribadirlo, un'operazione del genere non tutti hanno la visione, i mezzi e le forza psicologica per intraprenderla – ma pure togliersi qualche sassolino dalle scarpe, sopportato negli ultimi mesi con l'aplombe d'ordinanza, e però certo destabilizzante. Quella stella persa, alla fine del 2017, seppur giustificata dal trasloco importante (in vista, se tutto andrà come deve, di una risalita più che probabile), ha condensato su Cracco, il re caduto dall'Olimpo perché reo di aver ceduto al fascino delle sirene (leggi tv, pubblicità, salotti mondani), una nube di sfottò, cattiverie, stilettate solo in minima parte centrate sul suo modo di fare ristorazione. Con noi si sfogava all'indomani dell'uscita Michelin, ribadendo in modo chiaro la sua posizione e rivendicando le sue scelte. Degli ultimi giorni, invece, è l'intervista rilasciata alla rivista Spy, rimbalzata in rete per il malcelato fastidio dello chef nei confronti della boutade messa in scena dalla produzione di MasterChef, tra paramenti e completi scuri che suggellavano l'uscita dal programma del suo giudice più celebre con un finto funerale.

 

Prima cuoco, poi star

Col tempo Cracco, peraltro molto riservato lontano dai riflettori, ha imparato a districarsi nel mondo delle star chef (non a caso, ad aprile, Discovery trasmetterà un documentario sull'iter che ha portato all'inaugurazione in Galleria, Cracco Confidential). Ne ha fatto parte del suo mestiere, in fondo, cavalcando l'onda di un successo che senza autocontrollo può facilmente condurre a perdere la bussola. Ma al suo primo mestiere, quello del cuoco, Carlo Cracco non ha mai avuto intenzione di abdicare. E infatti eccolo al taglio del nastro in Galleria, tra il sindaco Giuseppe Sala (del resto padrone di casa, ché gli spazi in Galleria sono di proprietà del Comune) e Fabio Fazio presentatore per l'occasione, a ribadire il suo ruolo davanti alla città, come chef imprenditore consapevole della sfida che l'aspetta. Perché l'investimento è faraonico, gli spazi pure, e la storia che portano sulle spalle farebbe tremare le gambe anche al tycoon più navigato: facile parlare di riaprire alla città lo storico Salotto di Milano (tra lo chef e Milano sembra essersi instaurato da tempo un rapporto di stima reciproca, come ci raccontava l'autunno scorso Cracco), ben più complicato pensare di sommare sotto la stessa insegna 5 piani aperti al pubblico da mattina a sera, ognuno con una diversa fisionomia, ma tutte guidati dalla stessa visione (ricordiamo che ogni piano dispone della sua cucina).

Cracco in Galleria. Gli spazi

Caffè con bistrot, ristorante, cantina, salone privato per eventi speciali, un laboratorio di pasticceria dove si muoverà indisturbato il pastry chef Luca Sacchi. Tutt'intorno lesene, stucchi, mosaici, grottesche, bassorilievi della seconda metà dell'Ottocento recuperati e integrati nel nuovo progetto curato dallo Studio Peregalli, che hanno prestato attenzione particolare a illuminazione e acustica (su modello teatrale) di tutti gli ambienti. Al piano terra, dunque, si avrà accesso al Cafè,  pareti in stucco, dipinte a mano con un motivo a damasco che ricorda i disegni Fortuny, pavimento in mosaico e grande bancone-bar della fine dell’800 in arrivo da Parigi. In vetrina brioche, torte, biscotti in arrivo dal laboratorio al piano ammezzato, da consumare in loco o a portar via, con una sezione dedicata a praline e cioccolato del pastry chef Marco Pedron. E poi il menu informale di un bistrot aperto con orario no stop, 50 coperti in tutto, dehors incluso. Il Ristorante, invece, si raggiungerà al primo piano attraverso lo scenografico ascensore in stile che collega i livelli: qui l'occhio cade su boiserie e carta da parati dipinta a mano con motivi floreali, nella saletta che introduce al ristorante, articolato in tre sale e due privèe, per 50 ospiti a servizio. E le grandi finestre affacciate sull'Ottagono (motivo d'orgoglio per lo chef, abituato al seminterrato di via Hugo) saranno l'attrattiva principale per gli ospiti, in attesa dell'arrivo dei piatti (esclusiva Richard Ginori per Cracco). Poi spetterà alla cucina parlare: l'idea è quella di lavorare in continuità con via Hugo, tra classici dello chef e nuove proposte. Il menu degustazione sarà proposto a 190 euro, e anche mangiare alla carta comporterà una spesa commisurata al contesto: la media per primi e dolci si aggira sui 40 euro a portata, per antipasti e secondi si sale. Nel Fumoir, ennesima sorpresa, con carta dedicata agli ospiti che vogliono spizzicare senza rinunciare al lusso, tra ostriche e selezione speciale Spigaroli. Più su, al secondo piano, si accede dal cortile privato su via Silvio Pellico: sarà il salone dei ricevimenti, la Sala Mengoni, modulabile secondo esigenza, dominato dal gran bancone in marmo degli anni Venti. La Cupola della Galleria a un soffio.

Nel seminterrato, invece, sta la Cantina, uno scrigno nascosto sotto il passaggio (materialmente!) delle migliaia di turisti che ogni giorno affollano la Galleria. La collezione, come prevedibile, è altrettanto faraonica: una cantina di oltre 2000 etichette e 10mila bottiglie, tra vini italiani e francesi. Anche per degustazione e vendita. Ultimo coupe de theatre, la Galleria Cracco: un progetto che coinvolgerà artisti italiani nel realizzare interventi site specific per le lunette dell'ammezzato, ben visibili dalla Galleria, per non essere da meno dei dirimpettai di Prada, che proprio di fronte hanno inaugurato un grande pezzo della loro fondazione artistica (oltre che un clamoroso punto vendita della Pasticceria Marchesi da oggi ufficialmente in concorrenza col Cracco Cafè).

Insomma, dopo tanto penare e tanto rimandare, non c'è più dubbio: Carlo Cracco ha trovato casa in Galleria. Una Galleria che è sempre più fiore all’occhiello di una città sempre più affollata di eccellenze gastronomiche: Marchesi appunto, poi Felix Lo Basso, Andrea Aprea e Niko Romito. Da oggi un nuovo inquilino per quella che potrebbe diventare il più clamoroso cluster gastronomico della città. E altre novità non mancheranno a breve.

 

a cura di Livia Montagnoli


America's Harvest Box. L'ultima (pessima?) idea di Trump per sfamare 46 milioni di indigenti

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Trump minaccia grandi rivoluzioni al piano di sostegno alimentare per tagliare le spese dell'amministrazione americana. La soluzione? Ridurre il buono mensile per acquistare prodotti freschi e offrire in cambio la food box “del raccolto” piena di prodotti in scatola, non deperibili. Quali le conseguenze per le abitudini alimentari e la salute della fetta d'America più povera? 

Trump e le politiche alimentari

Tra le forme di assistenzialismo che un'amministrazione pubblica dovrebbe essere in grado di garantire, le politiche alimentari hanno sempre rivestito un ruolo essenziale, per la natura stessa del bisogno irrinunciabile che soddisfano. Tanto semplice da risultare banale. E quando dall'urgenza di pianificare la migliore soluzione possibile dipende la sorte di 46 milioni di persone – tanti sono gli americani indigenti in tutti gli Stati Uniti, uno su sette - la questione si fa drammaticamente più seria. Ecco perché preoccupa non poco l'ultima posizione assunta dal presidente Donald Trump in materia di aiuti alimentari e servizi essenziali per tutte le famiglie che si arrabattano sulla soglia di povertà. La minaccia di abolire il sistema dei cosiddetti food stamp varato da Barack Obama per contenere il problema, Mr. Trump l'aveva paventata già all'indomani del suo insediamento alla Casa Bianca, quando in molti speravano che gran parte dei suoi piani scriteriati fossero dettati solo dall'entusiasmo degli inizi, reduce da quegli eccessi che in campagna elettorale gli avevano regalato la vittoria. Il motivo? Di nuovo, tanto semplice da risultare banale: costi troppo elevati per finanziare per intero la macchina degli aiuti. Ora l'amministrazione Trump torna all'attacco con un provvedimento che oltre al danno paventa anche la beffa: si comincia dal taglio, com'è logico, per un'ammontare pari al 30% in meno del budget allocato al Supplemental Nutrition Assistance Program ogni dieci anni.

 

La scatola “del raccolto” con il cibo confezionato

Ma è la soluzione studiata per contenere i costi la vera pietra dello scandalo: per non scontentare nessuno, sostiene sicuro Trump, le famiglie indigenti riceveranno una scatola di derrate alimentari già confezionata di tutto punto per soddisfare il fabbisogno di ognuno. Nel dettaglio, quella che qualcuno ha già mestamente dipinto come l'evoluzione della razione K fornita alle truppe conterrà pasta, cereali e cibo in scatola non deperibile, il cui valore in denaro (circa 90 dollari al mese) sarà decurtato dalla cifra a disposizione sulla carta elettronica che oggi il programma di assistenza garantisce a chi ne ha bisogno (circa 126 dollari). Carte, ricorda la stampa americana, che hanno validità in circa 260mila negozi di alimentari e farmer's market della nazione, e permettono a chi le possiede di acquistare cibi freschi o confezionati, senza limiti di scelta. Ognuno, insomma, impiega le proprie risorse (seppur modeste) come meglio crede. L'imposizione di Trump, invece, limiterebbe (fino a ridurre del tutto) l'accesso a prodotti freschi, influenzando negativamente le abitudini alimentari di intere famiglie, e – è facile intuirlo, a lungo termine – pesando in misura sempre maggiore sulla spesa sanitaria nazionale. Altri, invece, fanno timidamente notare che la logistica necessaria a sostenere una simile impresa – la distribuzione mensile della food box porta a porta, o nel migliore dei casi in punti di raccolta disseminati anche negli angoli più remoti degli Stati Uniti – è chiaramente fallimentare ancor prima di essere messa in piedi. Osservazioni logiche e dati alla mano, dunque, cui si aggiunge l'indignazione di un Paese (gran parte, almeno) stremato dagli scenari di intolleranza e tensione che si concretizzano ogni giorno per l'irresponsabilità del Presidente degli Stati Uniti in carica. Per ora l'introduzione delle America's Harvest Box (le scatole del raccolto, se non è un ossimoro questo!) è al vaglio del Congresso. Potrebbe rivelarsi solo un'idea balzana, ma i precedenti lasciano temere per il peggio.  

 

a cura di Livia Montagnoli

Mafie e ristorazione. Un dibattito organizzato da Valerio Massimo Visintin

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La presenza mafiosa nella ristorazione è sempre più consistente. Dal riciclo allo strozzinaggio, sono molti i modi in cui la malavita organizzata entra nella ristorazione. Ma lo Stato e la società civile che fanno? Se ne parla a Milano, in un dibattito aperto, il 22 febbraio.

Secondo un rapporto della Coldiretti datato 2017, in Italia le mafie gestiscono almeno 5mila ristoranti. Ma nel ricorrere all’avverbio “almeno” si denuncia la portata incalcolabile di un fenomeno in fluviale espansione. Fonti non ufficiali descrivono un quadro più crudamente realistico. Nelle grandi città, un ristorante su cinque avrebbe rapporti più o meno stretti, più o meno volontari con la malavita organizzata. Un censimento preciso è impossibile, perché non esiste soltanto la formula della gestione diretta. I meccanismi di reclutamento sono sottili, disparati e complessi. Compongono un ampio spettro che va dallo strozzinaggio, a graduali infiltrazioni con mediazione occulta di qualche prestanome. L’unica trama comune è il riciclaggio del denaro accumulato con attività illegali.

 

Epidemia di nuove aperture

Se focalizziamo l’obiettivo sulle nuove aperture, la situazione mostra numeri ancor più drammatici. L’incidenza delle organizzazioni mafiose lieviterebbe a due insegne su cinque.

È una percentuale che scioglie in larga parte gli interrogativi sulla bulimia di pubblici esercizi legati alla ristorazione. Un virus che sta avvelenando il terreno commerciale nei principali centri urbani e nelle località di maggior richiamo turistico. Hamburgerie, paninoteche, polpetterie, trattorie, raviolerie, pizzerie, friggitorie, botteghe del ramen, templi del sushi, cattedrali dell’alta cucina. L’offerta surclassa la domanda, alla faccia di qualsiasi logica di mercato.

Dal mio osservatorio professionale, assisto con sgomento questa delirante proliferazione sulla mappa di Milano, come se non avessimo altro impegno che abboffarci di cibo a tutte le ore del giorno, masticando conti correnti già azzannati dalla crisi.

Il fenomeno, nelle sue macroscopiche distorsioni, è sfacciatamente evidente. Ma, sulla carta e sul web, viene limitato a sporadiche evocazioni. Il giornalismo gastronomico, che è coinvolto in prima persona, lo rimuove addirittura dalla coscienza come una colpa da celare per non turbare l’equilibrio di un settore in ascesa (soltanto) apparente. Salvo eccezioni, con acritica superficialità, si plaude ogni nuova apertura come se fosse sempre una lieta novella. Anche quando l’ombra della mafia è un sospetto incombente.

Vero che non possiamo sostituirci a magistrati e tribunali. Il nostro lavoro, tuttavia, comporta delle assunzioni di responsabilità e imporrebbe non solo cautela, ma una analisi critica delle informazioni che offriamo all’attenzione dei lettori.

Il dibattito

Allo scopo di accendere una luce su questo panorama oscuro, ho messo in piedi, assieme al collega Aldo Palaoro, un dibattito che avrà luogo giovedì 22 febbraio (ore 19) negli spazi della Libreria Open di viale Monte Nero 6, a Milano. L’incontro rientra nel programma di Doof (il contrario di food), contenitore di idee e di iniziative avviato un anno fa con Samanta Cornaviera e con lo stesso Palaoro.

Per il 22, abbiamo scelto un titolo esplicito ed essenziale: "Mafie e ristorazione".

Come reagisce lo Stato? A che punto sono le indagini? Qual è il quadro generale? Come vivono questa alterazione commerciale gli imprenditori onesti? E quale atteggiamento devono assumere critica gastronomica e giornalismo di settore?

Per tentare di rispondere a queste domande, abbiamo composto una tribuna di esperti che ringrazio sentitamente.

Alessandra Dolci (Coordinatore della Direzione Distrettuale Antimafia della Procura di Milano), Alessandro Galimberti (Presidente dell'Ordine dei giornalisti della Lombardia), David Gentili (Presidente della Commissione Antimafia del Comune di Milano), Lino Enrico Stoppani (Presidente della Fipe-Confcommercio). Arbitro dell’incontro, Cesare Giuzzi firma autorevole del Corriere della sera.

 

Mafie e ristorazione - Libreria Open – Milano - viale Monte Nero, 6 - ingresso è libero

 

a cura di Valerio M. Visintin

Cucina di casa in Lombardia. Ricette di: Risotto alla pilota, Ossobuco alla milanese e Torta paradiso

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La cucina di casa è rassicurante, foriera di bei ricordi e sapori che rimangono stampati indelebili nella memoria. Talmente importante che abbiamo deciso di dedicarle una rubrica. È la volta delle ricette di casa lombarde con il Risotto alla pilota, l'Ossobuco alla milanese e la Torta paradiso.

Siamo in terra di grandi prodotti caseari, di carni bovine pregiate, di riso, di pesce d’acqua dolce, di salumi e vini eccellenti. Tanti ingredienti incredibili per molteplici ricette, che cambiano e si trasformano di zona in zona. Dalla Valtellina con la polenta taragna e i pizzoccheri, al milanese con risotto, ossobuco e cotoletta, dal mantovano con i tortelli di zucca e il luccio in salsa, alla famosa mostarda di Cremona. Noi vi raccontiamo tre ricette facilmente replicabili a casa: il Risotto alla pilota, l'Ossobuco alla milanese e la Torta paradiso. Buon appetito.

Risotto alla pilota

Piatto tipico del mantovano, terra di risaie per eccellenza attraversata com’è da una fitta rete di acque, il risotto alla pilota deve il suo nome agli uomini addetti alla pilatura del riso, chiamati “piloti” perché erano coloro che azionavano la pila, un grande mortaio dove il riso veniva depurato. La particolarità di questo piatto è la sua cottura, tutta giocata sulla giusta proporzione tra acqua e riso, sull'uso di un canovaccio piegato in quattro posto sotto al coperchio e su un preciso tempo di riposo a fuoco spento. Il risultato finale è un risotto non cremoso, ma asciutto e sgranato. Di questo saporita pietanza, ne esiste anche una versione più ricca: il Risotto col puntel, che una volta disposto a cupola sul piatto da portata, viene completato da una corona di braciole di maiale con l'osso (puntel), rosolate nel burro e ben insaporite di sale e pepe.

Ingredienti

400 g di riso Vialone nano

150 g di salamelle mantovane fresche (o salsicce fresche)

60 g di burro

2 manciate di grana grattugiato

Sale q.b.

In una casseruola a fondo pesante mettete un volume d'acqua poco maggiore di quello del riso (misurate riso e acqua con una tazza). Salate e quando inizia l'ebollizione, versate il riso facendolo scendere al centro della casseruola in modo che si formi un cono. La punta del cono dovrà emergere di pochi mm dall'acqua quindi se il riso non emerge togliete un po' di acqua e se emerge troppo, aggiungete poca acqua bollente. Mescolate e lasciate cuocere a fuoco vivace per una decina di minuti quindi coprite la casseruola con un canovaccio piegato in quattro, mettete il coperchio con un peso sopra e spegnete la fiamma. Lasciate così il riso, chiuso ermeticamente, per un quarto d'ora in modo che si completi la cottura. Scaldate il burro in una padella e unitevi le salamelle, liberate dal budello e sbriciolate. Lasciatele rosolare dolcemente, mescolando spesso, fino a quando il grasso sarà ben sciolto quindi versate tutto il contenuto della padella nel riso ormai pronto, ben asciutto e sgranato, aggiungete il formaggio e mescolate bene. Servite ben caldo. Se lo gradite, prima di unire le salamelle, potete rosolare nel burro un paio di spicchi d'aglio.

 

Ossobuco alla milanese

Ossobuco in gremolada alla milanese

L'ossobuco non è altro che la tibia del vitello da latte tagliata trasversalmente, da cui si ricavano fette spesse circa 3-4 cm, caratterizzate dall'osso, che al centro presenta appunto il buco contenente il midollo. Parte integrante della ricetta è poi la gremolada, ovvero un trito di limone, aglio e prezzemolo. L'accompagnamento classico è con il risotto giallo allo zafferano (alla milanese) ma sta bene anche con il purè di patate o con il riso all'inglese.

Ingredienti

4 ossi buchi di vitello di circa 4 cm di spessore, ricavati dal geretto posteriore

1 grossa cipolla tritata

50 g di burro

1 cucchiaio d'olio extra vergine d'oliva

1/2 bicchiere di vino bianco secco

200 cc circa di brodo

1 cucchiaio di concentrato di pomodoro

1 piccolo spicchio d'aglio

Scorza di 1/2 limone non trattato (solo la parte gialla)

1 manciatina di prezzemolo

Farina

Sale e pepe q.b.

Incidete leggermente in più punti la pellicina esterna degli ossi buchi in modo che, cuocendo, non si arriccino e infarinateli. Scaldate il burro con l'olio in un largo tegame e quando sfrigola mettervi gli ossi buchi. Lasciateli rosolare a fiamma vivace fino a che avranno preso colore quindi girateli e, dopo qualche minuto, versate nel tegame la cipolla tritata, distribuendola fra i pezzi di carne.
Insaporite gli ossi buchi con sale e pepe e proseguite la rosolatura fino a che la cipolla si sarà imbiondita e la carne comincerà ad attaccare. Bagnate con il vino e, una volta sfumato, aggiungete il concentrato, diluito in poca acqua, e un mestolo di brodo caldo. Abbassate la fiamma, incoperchiate e proseguite la cottura per un'ora, un'ora e mezza fino a quando la carne sarà tenera e comincerà a staccarsi dall'osso. Durante questo tempo, controllate spesso che il sugo non si asciughi troppo (in questo caso aggiungete mezzo mestolo di brodo) e girate un paio di volte gli ossi buchi.
Quando saranno pronti, immersi in sugo ben legato, scuro e lucido, tritate finissimo il prezzemolo con la scorza di limone e lo spicchio d'aglio e versate il trito (la gremolada) nel tegame. Lasciate insaporire ancora due minuti e servite gli ossi buchi caldissimi.

 

Torta paradiso

Torta paradiso

È indiscutibilmente il dolce più soffice che c'è, non a caso si chiama Torta Paradiso. Creata all'incirca nel 1878 dal pasticcere pavese Enrico Vigoni di Pavia, su commissione del Marchese Cusani Visconti, questa torta, dal gusto delicatissimo, è migliore se consumata il giorno dopo la preparazione. Ben chiusa in un contenitore ermetico, o anche in un grande foglio di alluminio, si conserva perfettamente per molti giorni. È una torta facile ma, non essendo previsto il lievito nella nostra versione, occorre montare molto bene il burro e, nell'amalgamare gli albumi, occorre fare attenzione a non smontarli.

Ingredienti

200 g di burro morbido

200 g di zucchero a velo

100 g di farina

100 g di fecola di patate

6 tuorli d'uovo e 2 albumi

Scorza di 1 limone grattugiata (solo la parte gialla)

Sale

Poco burro e farina per la tortiera

Setacciate la farina e la fecola e, separatamente, anche lo zucchero a velo. Mettete il burro a pezzetti in una ciotola e lavoratelo a spuma con un cucchiaio di legno. Unite un pizzico di sale, la scorza di limone grattugiata e, uno alla volta, i sei tuorli non unendo il successivo fino a quando il precedente non sarà ben incorporato. Sempre mescolando, unite poco per volta anche lo zucchero a velo e, subito dopo, il miscuglio di farina e fecola. Infine, quando il composto sarà ben amalgamato, incorporatevi delicatamente gli albumi montati a neve, con un movimento circolare dall'alto in basso. Imburrate e infarinate un tortiera di 28 cm di diametro, versatevi il composto, livellatelo e mettete la torta nel forno precedentemente scaldato a 180° C. Lasciatela cuocere per circa tre quarti d'ora e, una volta sformata, fatela raffreddare su una gratella. Servite la torta spolverata di zucchero a velo.

 

Cucina di casa in Veneto. Ricette: Sarde in saor, Risi e bisi e Baccalà alla vicentina

Cucina di casa in Piemonte. Ricette: Vitello tonnato, Agnolotti del plin e Brasato al Barolo

Cucina di casa in Sicilia. Ricette: Panelle, Pasta alla norma e Calamari alla messinese

Cucina di casa a Roma. Ricetta di: Supplì, Spaghetti alla carbonara, Coda alla vaccinara

Cucina di casa in Emilia-Romagna. Ricette di: Cappellacci di zucca, Cotoletta alla bolognese e Torta degli addobbi

Panella Coffee & Bakery. L'evoluzione dello storico forno romano con Chef Express. S’inizia alla Stazione Termini

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Sono ambiziosi, ma ben ponderati i progetti d'espansione che Panella, storico panificio romano dal 1929, ha in mente di realizzare in partnership con il gruppo Cremonini. La joint venture porterà tra pochi giorni all'apertura di una bakery di qualità alla stazione Termini. Ma il piano è ben più ramificato. 

Panella, la storia

Panella, l'arte del pane dal 1929, recita l'insegna che in via Merulana – dove il rettifilo che guarda a Santa Maria Maggiore si trasforma nel salotto all'aperto di Largo Leopardi - racconta quasi un secolo di storia di uno dei più longevi panifici della Capitale. Quando tutto è cominciato, alla guida del forno c'era Augusto Panella, fondatore di quella che nel tempo avrebbe finito col trasformarsi in una solida realtà della piccola imprenditoria romana. Oggi, e da molti anni, a presidiare il fortino c'è la signora Maria Grazia Panella: non è difficile, per i tanti clienti abituali che frequentano il negozio, imbattersi nella volitiva patronne che dal 1970 si impegna per promuovere il nome del marchio di casa e la qualità di una produzione che ha finito per diversificarsi con gli anni, arrivando a comprendere non solo pane e prodotti da forno dolci e salati, ma pure proposte da banco e di tavola calda che giornalmente vengono servite per il consumo sul posto o a portar via. Ha cambiato pelle col tempo, Panella, e alla voglia di presentarsi con modernità su una piazza sempre più competitiva, per rispondere alle esigenze di consumo moderno, è corrisposto il restyling apprezzabile tanto nel dehors esterno – tra tavolini e siepi curate – quanto all'interno, dove si ordina al banco e si consuma velocemente un pasto negli spazi allestiti con mensole e sgabelli, tra scaffali che espongono conservati e prodotti confezionati venduti al dettaglio e teche traboccanti di dolcetti, praline, rustici salati. Chi preferisce, invece, può ordinare solo un caffè, o usufruire del servizio di caffetteria, che si prolunga no stop fino alle 23.

L'anima moderna di Panella

Gli accorgimenti degli ultimi anni, infatti, hanno puntato principalmente a dilazionare l'offerta durante l'arco dell'intera giornata, per presidiare soprattutto l'orario dell'aperitivo, con l'intenzione di implementare ulteriormente l'offerta, su più fronti. Panella, dunque, nei prossimi mesi, dovrebbe sostituire la proposta a buffet con degustazioni di prodotti selezionati sul territorio regionale e italiano, per esempio salumi e formaggi delle filiere artigianali. Sempre con l'idea di sposare il credo della trasparenza e della qualità della materia prima di cui l'azienda fa un vanto, lavorando anche con partner selezionati - fornitori di alta gamma - per brandizzare alcuni prodotti col proprio marchio. Ecco, proprio il prestigio di un marchio storico che ha saputo consolidarsi nel perimetro urbano e ora sembra pronto per fare il salto avrebbe pesato nel raggiungimento dell'accordo con il gruppo Cremonini, che tra pochi giorni si concretizzerà con la prima apertura in partnership alla stazione Termini. Una joint venture vantaggiosa per entrambe le parti: Panella passa a Chef Express (la sezione di Cremonini che si occupa della ristorazione) il know how e un nome storico da esportare; il gruppo Cremonini invece consentirà al panificio (oggi diretto da Tiziana Bufacchi in esecuzione delle direttivedella signora Panella) di raggiungere nuovi obiettivi, forte della solidità e della visione del partner con cui stringe alleanza. L'idea? Quella di sviluppare un modello di bakery di prestigio da replicare in Italia, con ambizioni analoghe al progetto che ha coinvolto Heinz Beck nel ripensare la ristorazione veloce come servizio di alta qualità (la formula è quella di Attimi, che dopo Fiumicino a giugno replicherà a CityLife, Milano).

L'accordo con Cremonini. Panella Coffee & Bakery

Prima di parlare dei progetti futuri, però, è bene precisare uno snodo fondamentale che sembrerebbe mettere la parola fine alle tante voci delle ultime settimane: Panella non ha venduto né il marchio, né la proprietà, e anzi prerogativa essenziale dell'accordo sarebbe stata la possibilità di dettare le condizioni che imporranno il rispetto di alti standard qualitativi su tutta la linea. Dunque cosa sarà Panella Coffee & Bakery, com'è scritto sui manifesti che schermano le vetrine del nuovo punto vendita, in corrispondenza del binario 12? Una bakery con caffetteria, che punterà su prodotti da forno dolci e salati, ma anche su nuove proposte da introdurre progressivamente, per coccolare i pendolari assidui. Non piatti cucinati (causa limiti di spazio), ma servizio grab & go con sfizi per tutta la giornata, e un laboratorio in loco per assicurare la freschezza della produzione. Panella si è occupato di formare l'organico e curare la scelta delle materie prime, per garantire i parametri di qualità di cui sopra.

Cremonini, dal canto suo, vive un momento estremamente positivo: secondo le previsioni Chef Express chiuderà il 2018 con 650 milioni di fatturato (nel 2017 erano 590). Conta 5500 dipendenti sotto le direttive dell' ad Cristian Biasoni e continuerà a diversificare il proprio pacchetto, abbracciando nuovi segmenti di mercato (come appunto la ristorazione gourmet o la bakery di lusso) e intensificando al contempo le filiere già avviate, da Roadhouse alla cucina messicana di Calavera, all'ultimo arrivato in famiglia, Cucina+Caffè, che ha esordito all'Interporto di Bologna, ma si moltiplicherà in tutta Italia. Sempre Chef Express gestisce pure 51 aree di servizio nelle principali autostrade italiane. Bisognerà vedere quali prospettive si disegneranno per Panella Coffee & Bakery nel futuro più prossimo: già entro il 2018 il piano d'espansione potrebbe prevedere nuove aperture, non necessariamente in stazione. Quel che tutti auspicano è che nel quartier generale di via Merulana l'anima di Panella resti quella di sempre.

 

Panella – Roma – via Merulana, 54 – www.panellaroma.com

Panella Coffee & Bakery – Roma – stazione Termini, binario 12 – dal 24 febbraio

 

 a cura di Livia Montagnoli

2018 Anno del Cibo Italiano. Il programma, la Notte Bianca e il super Comitato di esperti

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Entra nel vivo l'anno del cibo italiano proclamato dal ministro Dario Franceschini, che insieme al ministro Maurizio Martina racconta obiettivi, progetti e iniziative dei mesi che verranno. Con la supervisione di un super comitato d'eccellenza, da Carlin Petrini a Massimo Bottura e Massimo Montanari. E la Notte Bianca del Cibo il 4 agosto. 

L'Anno del Cibo Italiano

L'Anno del Cibo Italiano, quello che già stiamo vivendo, prende forma. Promosso all'inizio del 2018 dal Mibact di Dario Franceschini per valorizzare la cultura enogastronomica italiana e l'agroalimentare d'eccellenza, ora i contorni dell'iniziativa cominciano a delinearsi con la definizione di un piano d'azione, l'istituzione di un comitato tecnico e l'annuncio del calendario di appuntamenti che scandiranno i prossimi mesi, presentato a Roma dai ministri Franceschini e Martina. L'obiettivo, si ribadisce in sede di conferenza stampa, è quello di sottolineare il valore identitario dell'agroalimentare per l'Italia, la sua storia e i suoi territori. E leggere questo valore in chiave turistica ed economica, oltre che culturale, per fare del cibo motivo di prestigio e crescita per il Paese (tra gli ultimi traguardi importanti, per motivi diversi, ricordiamo l'approvazione della legge sull'enoturismo e il record dell'export alimentare toccato nel 2017, pari a più di 41 miliardi di euro). Conoscenza, condivisione e confronto sono gli asset da cui prenderà le mosse l'intera programmazione, con l'ausilio dei distretti del cibo, nuovo strumento di organizzazione territoriale approntato per dare sostegno alle attività sui singoli territori, e agevolare la comunicazione tra loro. “Perché il mondo ci guarda, e ha fame d'Italia”, chiosa il ministro Maurizio Martina.

 

Vivere all'italiana. Un valore da divulgare

Dunque sotto i riflettori ci sarà soprattutto quel “vivere all'italiana” che attrae visitatori da tutto il mondo, promosso attravero “iniziative e azioni che siano in grado durante l'anno di rappresentare la produzione eno-gastronomica e la cucina italiana come grandi attrattori turistici del nostro Paese”. Nello specifico, Mibact e Mipaaf si impegnano ad attuare una ricognizione dei prodotti agricoli e agroalimentari d'eccellenza, delle ricette tradizionali e degli itinerari enogastronomici che caratterizzano la Penisola da Nord a Sud. Il catalogo sarà funzionale a rilanciare il ruolo di percorsi interregionali di offerta turistica, finanziando momenti di degustazione e scoperta di prodotti e tradizioni culinarie. Work in progress è invece la piattaforma online che raccoglierà tutte le iniziative in programma, che avrà pure il compito di informare sui temi trattati nell'Anno del Cibo.

 

Il super Comitato Tecnico

Già noti, invece, i nomi dei 13 esperti che faranno parte del Comitato Tecnico presieduto da Francesco Palumbo, Direttore Generale Turismo del Mibact, che vedrà la collaborazione tra chef, pizzaioli, nutrizionisti, professori, personalità del settore, rappresentanti di importanti istituti e associazioni di ricerca agroalimentare: Carlo Petrini, Oscar Farinetti, Cristina Bowerman, Massimo Bottura, Enzo Coccia, Riccardo Cotarella, Giorgio Calabrese, Marco Gualtieri, Claudia Sorlini, Elisabetta Moro, Mauro Rosati, Massimo Montanari, Raffaele Borriello. Il 4 agosto (in ricordo di Pellegrino Artusi) spazio alla Notte Bianca del Cibo Italiano.

 

www.beniculturali.it/annodelciboitaliano

 

a cura di Livia Montagnoli

 

Tuscia. 5 aziende vinicole da seguire

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Francesco Romanazzi, oste e sommelier del ristorante Epiro di Roma, nel numero di febbraio del Gambero Rosso ha selezionato 5 aziende vinicole della Tuscia da tenere sott'occhio.

Nel nuovo numero del mensile del Gambero Rosso siamo andati alla scoperta della Tuscia, un territorio che sta rinascendo dal punto di vista gastronomico e che sul fronte vinicolo regala grandi sorprese, anche andando al di là delle immobili denominazioni. Così ci racconta Francesco Romanazzi, oste e sommelier del ristorante Epiro di Roma.

Ritrovo tanto delle mie esperienze e dei miei ricordi in queste terre. Ritrovo la meraviglia dell’improvviso scorgere il lago disteso tra i boschi, ritrovo le prime reazioni sensoriali davanti un calice di vino imprevedibilmente ambrato e abboccato, e purtroppo ritrovo l’antipatia verso i “rigidi legisti” del vino. Lo ammetto, certe regole mi stanno strette, da tempo, e il movimento che negli ultimi 10 anni si è sviluppato intorno al lago di Bolsena ha offerto, a me e ad altri bevitori curiosi, delle stimolanti alternative al panorama piatto dei vini regionali e a una visione del vino un po’ chiusa in sé stessa. Così oggi, tra l’alto Lazio, l’Umbria e la Toscana, un manipolo di viticoltori giovani e meno giovani sta sperimentando un modo nuovo – ma arcaico allo stesso tempo – di intendere la vigna e il vino, la terra e l’ambiente, l’agricoltura e l’artigianato. Questi nuovi contadini, visti dai locali come folli incoscienti e da una parte della critica come pagliacci, realizzano spesso quei vini dal sapore carnoso e imprevedibile che tanto meravigliavano i cronisti di un tempo, a partire da un progetto di intervento sul territorio che non ha nulla di eretico, nostalgico o retorico, ma che è invece tutto volto a tutelare e valorizzare il patrimonio agricolo e culturale di questi luoghi. E anche quello ampelografico, tramite la riscoperta dei vitigni tradizionali. Il lavoro e il coraggio di questa nuova onda (anzi, orda!) di produttori locali consentirà dunque al viandante attento e all’oste appassionato di andare al di là delle immobili denominazioni che disciplinano la produzione di bianchi insipidi o rossi da depliant, incontrando – insieme agli storici Grechetto e Aleatico – vini prodotti con malvasia e moscato, roscetto e verdello, oppure canaiolo, ciliegiolo e grechetto rosso (localmente detto anche greghetto).

Le Coste di Gradoli

Clémentine Bouveron e Gianmarco Antonuzi, gli apripista. Lei francese, laurea in enologia a Montpellier seguita da stage presso importanti vigneron. Lui romano, grande degustatore e scrittore di argomenti vinosi. Lavoratori instancabili, nel 2005 partono da pochi ettari e una piccola cantina nel centro di Gradoli, da cui sfornano subito eterogenei e gustosissimi vini, tutti prodotti con uve locali, da numerose parcelle di vigneto condotte in agricoltura rigorosamente naturale. Oggi, dopo appena 12 anni, hanno già fatto da maestri a tanti nuovi produttori e guidano un’azienda più grande, rispettando però tutti i principi e le premesse di partenza: grande e costante lavoro della terra (con rigida salvaguardia dei boschi limitrofi e delle aree incolte) e certosina attenzione in cantina, per ottenere oggi un’amplissima gamma di vini sempre complessi e territoriali, scattanti, salini, di grande energia e potenzialità di invecchiamento.

Le Coste di Gradoli - Gradoli (VT) – via Piave, 7 – 0761456685

Cantina Ortaccio

Massimo e Patrizia, dopo anni trascorsi nell’enoteca di proprietà a Roma, decidono di dedicarsi all’agricoltura. Scelgono Latera dove mettono su due minuscole cantine (una di vinificazione e una di stoccaggio) in cui producono e affinano vini fatti con uve locali provenienti da numerose piccole parcelle. Proprio a partire da una vecchia vigna di greghetto (clone locale del sangiovese, alias grechetto rosso) producono il Vecchi Filari Rosso, dai profumi dolci e speziati e dal sorso succoso, scorrevole eppure assai profondo. Oggi, alla loro terza vendemmia, propongono inoltre un bianco fragrante e di bella struttura, un rosso semplice sempre da greghetto e uno sfiziosissimo bianco frizzante ancora in fase sperimentale. Una delle principali ispirazioni del loro progetto? L’idea del recupero: “Troppe terre abbandonate – sostengono – In questo territorio le potenzialità sono enormi: ci troviamo nella caldera di un antico vulcano spento, dove vorremmo vedere molti più vigneti e oliveti, e molti più giovani a lavorarli”. I loro vini costano ancora poco, affrettatevi.

Cantina Ortaccio - Latera (VT) – Corso Vittorio Emanuele III, 130

Il Vinco

Altro lato del lago di Bolsena, nella zona di Montefiascone, dove un gruppo di giovani appassionati guida un’altra nuova azienda nata nel 2014: “Il progetto nasce con l'intento di preservare e recuperare il vitigno autoctono Canaiolo Nero – ci raccontano – localmente chiamato Cannaiola, ed altri vitigni autoctoni della zona”. Attualmente vengono prodotti un rosso, il Canajo’, fresco, morbido e profumato, e un rosato da Canaiolo Nero; nel 2018 esce sul mercato un altro vino rosso da vigne a piede franco e il primo bianco dell'azienda, sempre da vitigni autoctoni: trebbiano, roscetto e malvasia (basi dell'Est Est Est). Potremo forse tornare a bere finalmente quei bianchi locali saporiti di cui parlavano i nostri maestri?

Il Vinco - Montefiascone (VT) – Strada Capannece – 3282061837 – ilvinco.it

Podere Orto

A nord, verso la Toscana, un’altra coppia che ha deciso di lasciare Roma per la campagna. Giuliano e Simona si trasferirono in questo luogo – a 600 metri di altitudine e a poca distanza dalla Riserva naturale del Monte Rufeno – circa dieci anni fa. Idee chiare: sistemare un vecchio casale disabitato, trasformarlo in accogliente agriturismo, piantare la vite e far vino. A partire da zero, Giuliano ha trasformato il terreno in un meraviglioso vigneto misto, con piante a bacca bianca quali procanico, grechetto, malvasia, roscetto, greco, moscato, verdello, e a bacca rossa come greghetto e ciliegiolo. Negli anni ha realizzato due ettari di vigna, da cui ricava poche migliaia di bottiglie: un rosso e due bianchi, vini fini ed eleganti, a tratti spigolosi e per nulla accomodanti, che rappresentano chiaramente il territorio fresco e asciutto da cui provengono e raccontano un lavoro di cantina semplice ed essenziale.

Podere Orto- Trevinano (VT) - Strada Provinciale 51 – 0763476091 – podereorto.com

Ajola

A pochi chilometri dal suggestivo colle di Orvieto potrebbe capitarvi di sfiorare il Podere Ajola. A quel punto fermatevi. Siete astemi? Fermatevi ugualmente. Perché qui incontrate Jacopo Battista, agronomo prima e agricoltore poi, che vi racconta la sua storia. Del sogno di produrre quell’Orvieto Classico che Monelli ottant’anni fa trovava “torbo, dal gusto un po’ grasso, come di liquido più denso, più grave” e che marca il cambio di stile dei vini del sud: “Da qui in giù il vino non sa più di mammole o di frutta, ma se ha odore l’ha di sedano, di finocchio, di erbe dell’orto”. Di questo sanno spesso i bianchi di Ajola. Jacopo, stufo di “vini da prestazione” e di vignaioli da competizione, preferisce parlare del faticare in vigna o in cantina, e del concetto di “quotidianità professionale” contrapposta al successo enologico. Vi sembrerà romantico, ma irreale. Invece no: è romantico e pure reale!

Ajola - Orvieto (TR) - Località Sugano, 26

 

a cura di Francesco Romanazzi

 

QUESTO È NULLA...

Nel numero di febbraio del Gambero Rosso, un'edizione tutta nuova in questi giorni in edicola, trovate i racconti della Tuscia secondo Iside De Cesare, chef de La Parolina di Acquapendente, Francesca Castignani, pasticcera de La Belle Helen di Tarquinia, e Danilo Ciavattini, chef dell'omonimo ristorante a Viterbo. Un servizio di 14 pagine dedicato a questa splendida terra, che include una mappa utile per orientarsi e ben tre top 10: le aziende di olio, quelle che producono formaggio a latte crudo e le dieci realtà che portano la Tuscia verso la contemporaneità. Non solo, è da leggere tutto d'un fiato il racconto “Giulia” di Giorgio Nisini.

Il numero lo potete trovare in edicola o in versione digitale, su App Store o Play Store

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Little Italy. Brucia Angelo's, il più longevo ristorante italiano di New York

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Il quartier generale della comunità italo-americana a New York deve la sua celebrità al cinema e alla storia dei primi italiani emigrati all'inizio del Novecento, che Mulberry street tramanda nel tempo. Proprio all'inizio del secolo apriva la cucina napoletana di Angelo's, ora bruciato in un incendio. 

 

Little Italy. Dove sono gli italiani?

Little Italy è sempre più piccola, e non molto italiana. È questa la sentenza con cui il New York Times bolla la trasformazione che negli ultimi anni ha interessato il quartier generale degli espatriati italiani più celebre nel mondo, memoria storica del fenomeno migratorio che nei primi decenni del Novecento portò tanti connazionali dall'altra parte dell'oceano Atlantico. Little Italy come condensato di italianità, finanche nelle sue derivazioni più folcloristiche tramandate dal cinema americano, e imprescindibile tappa di un tour alla scoperta delle molteplici anime di New York. Eppure a Little Italy molto è cambiato, si rammarica il Times barcamenandosi tra un negozio cinese di articoli per la casa e un take away vietnamita. Chi è in cerca della suggestione del luogo continua a trovarla varcando la soglia di Mulberry Street, sotto l'insegna luminosa che fa da cornice alle foto ricordo dei turisti che si affollano tra un tovagliato a quadretti e qualche negozietto di souvenir. Ma la realtà di Little Italy, un tempo popolata da migliaia di italiani di prima e seconde generazioni (la storia è tutta raccontata all'Italian American Museum), è un'altra: il quartiere si è progressivamente ristretto fino a comprendere solo tre isolati lungo la via principale, molte delle proprietà sono passate nelle mani di grandi agenzie immobiliari, i pronipoti degli italo-americani di un tempo traslocano lasciando spazio a nuovi inquilini. E l'identità culturale del meticciato italo-americano si perde irrimediabilmente per strada, almeno qui a Manhattan perché in altri quartieri (Brooklyn ad esempio) le Little Italy esistono e resistono. Ma cosa ha scatenato l'amara riflessione del Nyt?

 

Angelo's. A fuoco il ristorante italiano più antico (?) di New York

Qualche giorno fa, nella notte di Mulberry Street è divampato un incendio: coinvolto nel rogo, che di fatto ne ha determinato la distruzione, il ristorante italiano Angelo's, in attività a Little Italy dal 1902. Un'insegna decisamente celebre in città, che proprio negli anni della grande ondata migratoria (gli storici delimitano il periodo tra il 1880 e gli anni Venti del XX secolo) inaugurava a New York per importare sul suolo straniero i sapori della cucina napoletana, a uso e consumo della numerosa comunità italiana che si stava radunando in città. Col tempo, poi, la tavola di Angelo's aveva attirato frequentatori illustri, immortalati da fotografi in cerca di celebrità: politici, artisti, attori, musicisti e grandi sportivi. Persino Ronald Reagan. Nell'incendio, che ha coinvolto l'intera palazzina storica di sei piani, sono rimaste ferite diverse persone, mentre il ristorante più longevo di Little Italy soccombeva sotto le fiamme, destinato a restare chiuso per mesi. Ora, nel quartiere, molti lo ricordano come la tavola italiana più autentica di Mulberry street, poco incline a cedere alle mode e sempre animata da personale italiano che a New York ha trascorso ormai più di 40 anni, ma non ha mai perso l'attaccamento alle proprie radici. Un posto del cuore per tanti italo-americani in arrivo persino da fuori città per mangiare alla tavola di Angelo's.

 

“Autenticità” italo-americana

In realtà, nel corso degli anni, il ristorante di cui è difficile ricostruire la storia degli inizi – anche la data di fondazione, ben impressa sull'insegna, potrebbe essere frutto di una mera operazione di marketing - era passato di mano più volte, e oggi vanta tra i proprietari Teresa Aprea, star del programma Real Housewife of New Jersey (giusto per insistere ancora un pelo sullo stereotipo italo-americano), che proprio a poche ore dal rogo si è pronunciata fiduciosa, ribadendo l'intenzione tornare in attività nel giro di 6 mesi. Così per 22 dollari gli affezionati clienti di Angelo's potranno tornare a ordinare un piatto di Rigatoni alla vodka o i Capellini Angelo con mozzarella, rucola e pomodoro; ma anche i più rassicuranti ravioli della nonna in salsa di pomodoro, un piatto di linguine con le vongole, orecchiette con cime di rapa. E ancora, dal compendio di cucina italiana regionale rivisitata in carta, coniglio piccantino con salsa al Madeira, pollo Portobello con funghi shitake e salsa allo champagne, scaloppine di vitello con piselli e prosciutto, scungilli con salsa piccante e gamberi alla Fradiavolo. Senza dimenticare di portare a casa con sé un barattolo di salsa di pomodoro alla braciola napoletana, cotta “in casa” per tre ore e poi confezionata a marchio Angelo's sauces, perfetta con cannelloni, gnocchi e rigatoni.

Il bello e il buono (?) di Little Italy. Che di autentico, ormai, ha ben poco.   

 

a cura di Livia Montagnoli


Dai ricettari storici ai videogame. Le nuove sfide di Lorenzo Cogo

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Lorenzo Cogo, chef di El Coq in piazza dei Signori a Vicenza, ci racconta i suoi progetti futuri. Che spaziano dalle ricerche sui ricettari storici (Bartolomeo Scappi in primis) alla collaborazione con l'azienda sviluppatrici di videogiochi Ubisoft.

“Creare non è copiare”, affermava il grande chef francese Jacques Maximin, e Lorenzo Cogo spende tutto l'impegno possibile per mettere in pratica questo prezioso insegnamento. Il che non significa cucinare senza contaminazioni, cosa impensabile, almeno per lui che si è fatto le ossa ai quattro angoli del globo. Due tappe su tutte: l'Extebarrì di Victor Arguinzoniz in Spagna e Seiji Yamamoto del Nihonryori RyuGin in Giappone. Parliamo dunque di contaminazione positiva tra linguaggi, saperi, tecniche e infinite possibilità che ne conseguono, anche cogliendo le suggestioni di molteplici realtà, dalla biblioteca enogastronomica più importante a livello europeo (che caso vuole si trovi a Vicenza, proprio di fronte a El Coq e Caffè Garibaldi) all'ultimo videogioco sviluppato da Ubisoft ambientato in Montana.

Il progetto con la Biblioteca Internazionale La Vigna

È da un annetto che ho avviato una ricerca sui ricettari storici”. Ci spiega il giovane chef di El Coq. Ma per capire cosa lo abbia spinto ad avviare questa ricerca bisogna fare un passo indietro, quando, dopo aver lasciato Marano Vicentino, decide di (ri)costruire la sua identità in città. “El Coq è nato con un'identità vicina alla natura, tutti prodotti erano a metro zero, e l'ispirazione giornaliera era data dai ritmi della natura. Poi il 19 luglio 2016 - giorno del suo compleanno - mi sono trasferito a Vicenza, così ho dovuto rivedere lo stile”. Il salto metropolitano, in una città comunque legata alle sue radici, ha rappresentato una nuova sfida. “Dovevo modificare il modo di pensare perché il contesto che mi circondava era totalmente cambiato”. Dalla campagna alla città del Palladio, la chiave di volta l'ha rappresentata la cultura. Poi con la Biblioteca Internazionale La Vigna a cinquecento metri dal ristorante (forse) non poteva essere altrimenti; parliamo della biblioteca enogastronomica più importante d'Europa, che con i suoi 62mila volumi dedicati alla viticoltura e ai prodotti agricoli rappresenta un patrimonio inestimabile e al tempo stesso consultabile, anche in forma digitalizzata, da tutti. “Quando ho conosciuto il direttore della biblioteca Vigna c'è stata subito una forte intesa, tanto da progettare una serie di cene volte a far conoscere l'enorme patrimonio bibliotecario. Primo appuntamento, il 6 maggio con una cena dedicata ai ricettari di Bartolomeo Scappi, di cui mi sono innamorato”. Un'avventura, la sua, coraggiosa, ambiziosa, faticosa ma sgravata dalla responsabilità avveniristica. Già perché Cogo è in ottima compagnia.

Lorenzo Cogo è un esponente della New Ancient Cuisine

Impossibile non fare riferimento all'articolo uscito nel numero di febbraio del Gambero Rosso che parla per l'appunto di New Ancient Cuisine, ovvero la nuova cucina antica che non si vergogna di guardare a ritroso, anzi, lo fa in maniera dichiarata poggiandosi su solide basi teoriche, approfondendo, analizzando, prendendo spunto da ricettari antichi. Una peculiare ricerca gastronomica (che non si può liquidare in poche parole ed è per questo che vi invitiamo a leggere l'articolo) volta alla contemporaneità e alla consapevolezza di un sempre più numeroso gruppo di cuochi. Tra questi, anche Lorenzo Cogo. “Per me Scappi è stato il primo approccio ufficiale con quello che riguarda la storia gastronomica. Non mi ero mai avvicinato in maniera così letteraria alla tradizione, non avevo mai cercato di comprendere le nostre radici. È stata un'autentica sorpresa: le innumerevoli portate o gli ingredienti utilizzati, sono tutte cose impensabili in un periodo gastronomico come quello attuale in cui si procede per sottrazione. Eppure nonostante il fil rouge sia lo sfarzo, è uno sfarzo intelligente che dichiara sensibilità verso la materia prima. Una sensibilità contemporanea. Il prodotto, Scappi lo lavorava e lo conservava in maniera impeccabile. Penso al quinto quarto, che io adoro, e alle sue spiegazioni millimetriche e addirittura ai consigli per gli acquisti: per quel che riguarda la mammella, per esempio consiglia quella in prima gestazione perché più morbida”. Tutte nozioni perlopiù andate perse, ma che in molti stanno cercando di recuperare. Un sentire comune volto alla legittimazione - “avevo bisogno di ricercare la fonte della mia identità, e in questa ricerca mi sono accorto che ogni mio pensiero quotidiano è già stato pensato secoli fa da qualcun altro” - ma il cui fine ultimo è pur sempre il gusto, la resa pratica, la soddisfazione del commensale: “Ovvio che dopo aver letto Scappi non mi sono lanciato in una mera riproposizione evocativa, ma ho proposto qualcosa di mio e di buono per i gusti attuali”. E non stentiamo a credergli dato che tutto quello che sente, che sia rabbia, felicità, studio, Cogo lo trasferisce nel piatto. “Da sempre sento la necessità di esprimere il mio modo di essere, il mio stato d'animo hic et nunc”.

Il videogame Far Cry 5 Anteprima di Far Cry 5

La collaborazione con l'azienda sviluppatrice di videogiochi

Sarà proprio per questo che lo chef non teme di farsi contaminare o di mostrarsi ricettivo, tanto lui la sua identità non teme di perderla. Nemmeno quando tra le sue collaborazioni compare quella con l'azienda francese sviluppatrice e editrice di videogiochi, Ubisoft, per il lancio di Far Cry 5 ambientato in Montana.“Per loro ho ideato dei piatti, uno di questi ispirato proprio a Scappi, in seguito al viaggio fatto appositamente negli States. Mi sono divertito tantissimo, tra battute di caccia e pesca, escursioni di ogni tipo e scoperte culinarie, è stato un tour che ha attraversato quasi tutto il Montana, facendo tappa nei luoghi che hanno ispirato il team di sviluppatori di Ubisoft. La gente del posto poi è stata accogliente e pronta a svelarmi tutti i segreti della loro cucina”. Da qui sono nati tre piatti: tartare di cuore di vitello (ispirato a Scappi) con prugna fermentata e summaco, servita con un Bloody Mary al barbecue di barbabietola e verza disidratata; trota, cous cous di cavolfiore e maionese al ginepro; pacchero farcito con ragù di cervo e ricotta, gratinato con besciamella e parmigiano.“Il pacchero riprende il Biscuits and gravy, piatto tipico della colazione statunitense”. Lo scopo? Verrà svelato il 27 marzo, quando verrà lanciato al pubblico il nuovo videogame.

 

El Coq – Vicenza – piazza dei Signori, 1 – tel. 044 4330681 - elcoq.com

 

a cura di Annalisa Zordan

 

 

 

Avanzi popolo, il progetto contro lo spreco alimentare in Puglia

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Per far fronte all'annosa questione dello spreco alimentare, in Puglia nasce Avanzi popolo, iniziativa all'insegna del recupero delle eccedenze, con market solidali, laboratori e una squadra di volontari pronti a ridistribuire gli avanzi di matrimoni e banchetti.

L'idea

Quattro amici con la passione per il buon cibo che si incontrano al bar, chiacchierano, e cercano un modo per ridurre lo spreco e recuperare gli avanzi in maniera intelligente. L'idea semplice ma efficace di Antonio Scotti e i suoi tre soci nasce quasi per caso un anno fa, ma ben presto diventa un vero caso in Puglia, tanto da raccogliere il favore di altre centinaia di persone. Creando così le giuste sinergie per un lavoro di squadra finalizzato a ridistribuire le eccedenze alimentari fra le famiglie che ne hanno più bisogno. Si chiama Avanzi popolo, ed è un progetto promosso dall'associazione Farina 080, che comprende, fra le diverse iniziative, la creazione di un market solidale alla masseria Montalbano a Fasano, Comune in provincia di Brindisi.

I progetti

Ma non finisce qui: tutti gli avanzi del buffet del convegno medico al Castello Svevo, dalla pizza ai biscotti, fino ad arrivare ai bignè sono stati destinati all'istituto delle Figlie di Maria ausiliatrice di San Girolamo, in provincia di Bari. Da un matrimonio, invece, sono state recuperate 15 teglie di antipasti, primi e secondi, consegnate allo sportello Caritas della parrocchia di San Sabino al rione Madonnella. “Il nostro è un lavoro di comunità per mettere in contatto i luoghi del bisogno e i luoghi dello spreco in ottica chilometro zero”, racconta Scotti. E aggiunge: “In un'ora o poco più siamo in grado di far arrivare il cibo avanzato a chi lo consuma”. Un gruppo compatto e coeso, pronto a entrare in azione ogni qual volta ce ne è bisogno in tutta la provincia di Bari e non solo. Solo nel 2017, i volontari sono intervenuti per salvare le eccedenze di 22 banchetti matrimoniali e 10 convegni. Occasioni di festa e celebrazioni in cui l'abbondanza della tavola non è mai troppa, e così anche la quantità di cibo diventa sempre superiore ai bisogni. A entrare nella rete solidale sono state, poi, anche 43 imprese di produzione, trasformazione, distribuzione e ristorazione, che hanno scelto di donare i prodotti in scadenza o avanzati alla chiusura del negozio e alla fine del catering.

Come funziona

Contattiamo le realtà del territorio, dalle mense dei poveri alla Caritas, per accordarci con loro”. Se il pranzo è di mattina, per esempio, i volontari arrivano alla fine della festa e prendono tutto ciò che il ristorante ha conservato e imballato. “E le associazioni pensano a ridistribuirlo alle famiglie o alle mense. A volte è stato possibile organizzare pranzi per i migranti ospiti dei centri di accoglienza e con loro si è brindato agli sposi: una seconda festa”. In tutto lo scorso anno, sono state ben 97 le azioni di recupero, per un totale di 6985 chili di cibo. “Quando una coppia di giovani sposi ci contatta, inviamo al responsabile della sala ricevimento una scheda analitica con le indicazioni sulla conservazione del cibo”. In questo modo, le varie pietanze, sotto la sorveglianza dei camerieri, possono essere spedite ai più bisognosi. Piatti di ogni tipo rimasti sul tavolo del buffet o in cucina, tranne carne e pesce crudi.

Eccedenze agricole e educazione alimentare

I volontari anti-spreco si sono, inoltre, improvvisati contadini partecipando alla raccolta delle eccedenze agricole, per lo più verdure e ortaggi avanti con la maturazione che avrebbero rischiato di non essere raccolti. In un campo a Japigia, per esempio, in tre ore sono stati raccolti 4 quintali di pomodori maturi e regalati a 70 famiglie in difficoltà economiche. Lo scopo del progetto non si limita, però, alla redistribuzione del cibo in più, ma punta all'educazione dei consumatori. Con questo obiettivo, nell'istituto scolastico Gabelli di Santo Spirito sono partite una serie di laboratori e lezioni circa il consumo consapevole. Spazio, poi, ai frigoriferi solidali – 7 in tutto - realizzati con il supporto di altre associazioni e sistemati in parrocchie e locali aperti al pubblico, dove finiscono latte, verdure, frutta e uova in scadenza donate da commercianti e cittadini.

a cura di Michela Becchi

Ciao Checca a Roma. Il nuovo box al mercato Nomentano, poi Berlino: format e modello di business

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Superata la boa dei 4 anni dall’apertura del primo punto vendita in piazza Firenze, i ragazzi di Ciao Checca sono pronti per crescere, ripartendo con nuove sfide. Tra qualche settimana, il box al mercato Nomentano, poi l’espansione a Berlino. Alla base una cucina semplice, veloce, leggera, che propone ricette italiane con grandi prodotti. E attenzione maniacale alla sostenibilità. Perché il format ha funzionato? 

Ciao Checca, i primi 4 anni

Quattro anni, nel settore della ristorazione, possono essere molti, se il contesto di riferimento è il centro di una città come Roma, soggetto a una certa schizofrenia di inaugurazioni e investimenti poco ponderati, che in tempi più meno brevi si concludono con un nulla di fatto. E saracinesche abbassate. Per altro verso, invece, quattro anni impiegati a consolidare un format con buone potenzialità di crescita e una visione ben definita a sostenerlo, sono il minimo indispensabile per ambire al raggiungimento della stabilità, e proiettarsi più consapevoli (anche dei propri errori) verso il futuro. Ciao Checca, l'idea di tre soci romani che 4 anni fa si mettevano insieme per proporre una cucina buona, leggera, pratica, che ben si conciliasse con i ritmi concitati di una giornata tipo in città, convalida entrambe le considerazioni. Il brand ha costruito la propria autorevolezza sul campo, presidiando una piazza tanto favorevole in termini di visibilità quanto difficile da fidelizzare. Conquistando pure chi all'inizio guardava con scetticismo all'idea di mangiare un “piatto” di pasta ben fatto all'interno di un contenitore compostabile. Dimostrando che le ricette della tradizione regionale italiana possono prestare il fianco a interpretazioni snelle, da consumare in ambiente informale, apprezzando la genuinità del prodotto e la validità dell'esecuzione. Raccontando una bella storia di trasparenza e professionalità, dove l'etica del lavoro viene prima di tutto, perché un contratto regolare e il giusto compenso sono importanti quanto l'approvvigionamento da fornitori selezionati e le grafiche che rendono accattivante l'ambiente.

Il format. Perché piace

Per tutti questi motivi, quattro anni sono un buon margine per prendere le misure e ricevere conferme: Ciao Checca, con il suo packaging compostabile, la sua rete di relazioni con piccoli produttori di tutto il territorio nazionale, la sua adesione all'Alleanza Slow Food dei Cuochi, l'attenzione alle intolleranze alimentari (l'80% del menu propone piatti senza glutine), piace. Basti pensare che da novembre 2013 a oggi il piatto simbolo della casa, la pasta alla Checca, ha venduto 45.200 porzioni. Intorno c'è un menu che cambia ogni sei mesi, tutte proposte di cucina espressa (il microonde è bandito), con prodotti stagionali da filiera certificata, che col tempo hanno costituito quel manuale di ricette codificate indispensabile per pensare di guardare oltre, “perché se l'obiettivo è semplificare per crescere, prima bisogna conoscere bene le regole, e imporsi di non abbassare mai la qualità”. È proprio Matteo Morichini, socio dell'attività con Nicola Contaldi La Grotteria e Fabio Buonomo, a confermarci che pure il secondo assunto è fondato, ora più che mai: “Siamo soddisfatti di quel che è stato fin qui, abbiamo lavorato sui punti di forza e sugli errori, perfezionato il format, sviluppato nuove idee, fidelizzato una clientela che per il 70% si compone di italiani, molti residenti di zona e pubblico degli uffici in pausa pranzo, e per il resto di stranieri attratti dalla semplicità della nostra proposta in una zona molto turistica di Roma. Solo ora possiamo dichiarare terminata la fase di start up, e proiettarci verso un nuovo inizio”. Dunque 4 anni da mettere in cassaforte senza sedersi sugli allori, perché la versatilità del format dispieghi a pieno le sue potenzialità.

Errori e punti di forza. Come si cresce

Qualche ostacolo da superare, dicevamo, c'è stato, per esempio il posizionamento di prezzo iniziale: “Il primo anno ci siamo confrontati con prezzi troppo bassi, obiettivamente insostenibili per un'azienda che vuole lavorare bene. Però il format era abbastanza forte per tenere, il pubblico ci ha premiato, noi siamo riusciti a correggere il tiro”. C'è stata pure un'esperienza all'estero, all'interno del Mercado de Colon di Valencia, un anno per capire che non avrebbe funzionato: “Non siamo riusciti a conquistare un target specifico, i valenciani amano spendere poco a pranzo, e se i prezzi aumentano ricevere un servizio diverso, stoviglie in ceramica, situazioni più tradizionali. Ciao Checca non rappresenta né l'una, né l'altra formula”. Adesso, ironia della sorte, il raddoppio romano dell'insegna passerà di nuovo per un mercato, il bell'edificio di piazza Alessandria, quartiere Nomentano. Apertura prevista per la seconda settimana di marzo. Prima però, gli ultimi mesi hanno portato una serie di novità al locale di piazza Firenze: la colazione, dalle 9 del mattino, con proposte espresse come uova, croque monsieur e croque madame, banana bread, yogurt Barikama, torta di carote, quiche - “che per ora fatica a ingranare, come del resto la cena, perché il nostro focus resta sul pranzo, quando serviamo anche 150 ordini, e tutti con continuità di uscita per standard qualitativi” - e gli sfizi per l'aperitivo, con piccola selezione di vini in abbinamento. Il mercato, invece, è una sfida diversa: “Dovremo confrontarci con lo spazio ridotto del box, 12 metri quadri in tutto, ma disponiamo di una canna fumaria, la prima del mercato Nomentano”.

 

Il box al Mercato Nomentano

Chi conosce la storia degli ultimi anni dei mercati rionali romani, sa che, eccezion fatta per quello di Testaccio, difficilmente in città è riuscita a concretizzarsi la formula mista di vendita e somministrazione auspicabile per rilanciare plateatici altrimenti destinati al progressivo abbandono. Un paio d'anni fa, proprio il mercato Nomentano si è fatto promotore di un rilancio della struttura che prevedesse l’ammodernamento dei servizi e la realizzazione di una piazza comune attrezzata con tavoli e sedute per mangiare in loco. Gli operatori però sono rimasti pressoché gli stessi, nessuno ha provato a intraprendere l’iter lungo e complesso per ottenere il permesso di cucinare sul posto. Ciao Checca, invece, ha risposto alla chiamata dell’associazione che gestisce gli spazi, intuendo l’opportunità: “Abbiamo i permessi per il vapore, chiaramente non potremo grigliare la carne, né friggere, ma siamo attrezzati con roner e forno per rinvenire alcune preparazioni che porteremo da piazza Firenze. Insomma, il menu sarà ridotto, ma comunque vario: la nostra pasta alla Checca, i ravioli burro e salvia, le tagliatelle, qualche primo del giorno, le zuppe, la frittata, le polpette, l’insalata di pollo”. Si lavorerà per 3-4 ore al giorno, “puntiamo molto sulla pausa pranzo degli uffici, per questo abbiamo preferito il Nomentano a Testaccio”.

 

Verso Berlino

Intanto, però, si comincia a guardare lontano, direzione Berlino: “Proprio in questi giorni incontriamo un’analista che possa aiutarci a dare una struttura finanziaria adeguata al format Ciao Checca, così da proiettarci all’estero”. Nella capitale tedesca, nella fattispecie, con partner locali già individuati, “due giovani ristoratori che sono sulla nostra stessa lunghezza d’onda”. Il piano? Aprire 4-5 punti vendita in città nel giro dei prossimi 5 anni, il primo, se possibile, entro il 2018: “Il box al mercato è importante anche per questo, ci permetterà di sperimentarci con una dimensione nuova, per capire se a Berlino è meglio partire con un locale strutturato come quello di piazza Firenze, o con un corner più snello”. La proposta, chiaramente, resterà la stessa, cucina semplice con buoni prodotti italiani, adattata al gusto locale nella scelta delle ricette che più potrebbero piacere: “Il nostro resta un format che ha una componente artigianale complessa, l’espansione non dovrà intaccare i processi produttivi. Al limite, entrati a regime, potremmo pensare a un centro di produzione di supporto. Fare progetti non ci spaventa, finora abbiamo sempre reinvestito tutto”. E perché non in altre città d’Italia? “Milano sarebbe perfetta per noi, ma ha gli stessi costi d’esercizio di Roma e ci piace di più l’idea di confrontarci con un contesto nuovo, e un altro modello di business, studiare un nuovo pricing, il posizionamento più giusto, proporci come take away gourmet a una clientela totalmente nuova”. Dicono che chi non risica non rosica. I ragazzi di Ciao Checca ne hanno fatto un motto.

 

Ciao Checca - Roma - piazza di Firenze, 25/26 - www.ciaochecca.com

 

a cura di Livia Montagnoli

Artigiancassa e Gambero Rosso si alleano. Più facili i finanziamenti per le imprese del made in Italy

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Siglato un nuovo accordo per la valorizzazione, la promozione e il finanziamento delle imprese del settore Food&Beverage interessate a implementare le proprie potenzialità, anche attraverso i corsi della Gambero Rosso Academy, che d'ora in avanti si avvarranno anche della competenza di docenti e consulenti Artigiancassa. 

L'accordo

Quella appena siglata tra Artigiancassa, banca di riferimento delle micro e piccole imprese artigiane partecipata da BNL Gruppo BNP Paribas e dalle Confederazioni nazionali dell’artigianato, e Gambero Rosso, è una partnership strategica per la creazione di un canale privilegiato di accesso al credito per le imprese del settore Food & Beverage appartenenti alle communities di Gambero Rosso. In concreto finanziamenti agevolati, consulenza finanziaria dedicata e supporto costante di cui gli operatori di settore che si rivolgeranno ad Artigiancassa tramite Gambero Rosso potranno usufruire per la realizzazione e lo sviluppo della propria attività. D'ora in avanti, Artigiancassa offrirà formazione nell’ambito dei corsi della Gambero Rosso Academy, la maggiore piattaforma educativa del settore, garantendo agli allievi la possibilità di confrontarsi direttamente con i propri consulenti che forniranno, durante incontri dedicati, informazioni e formazione su credito e finanza agevolata. Contestualmente verranno offerti, dalla rete della Banca, prodotti e servizi formulati ad hoc per supportare il processo di innovazione e digitalizzazione delle PMI del settore.

 

La soddisfazione delle parti

Ne parla orgoglioso il Presidente del Gruppo Gambero Rosso, Paolo Cuccia, sottolineando come la partnership “permetterà sia a coloro che hanno la volontà di entrare nel mondo enogastronomico, sia a coloro che vogliono migliorare la loro attività di avere competenze specifiche e complete per il successo, grazie anche ai docenti e consulenti di Artigiancassa”. Una bella crescita anche per la Gambero Rosso Academy, impegnata da oltre 15 anni a formare i giovani professionisti del settore, che con il supporto di Artigiancassa “aggiunge competenze e servizi finanziari di alta qualità oggi indispensabili per la crescita”, conclude Cuccia.

Analoga soddisfazione si registra sull'altro versante: “La collaborazione con un top player come Gambero Rosso” ha dichiarato Marco Tarantola, Vice Direttore Generale BNL e Direttore della Divisione Commercial e Private Banking “ci permetterà di sostenere in modo ancor più concreto e mirato il settore enogastronomico e le sue realtà imprenditoriali di eccellenza nel settore vitivinicolo, agricolo, agroalimentare e dell’ospitalità, apprezzate in tutto il mondo. Artigiancassa, sia come parte del gruppo internazionale BNP Paribas sia come società partecipata dalle più importanti confederazioni nazionali dell’artigianato, saprà essere al fianco degli imprenditori per le loro esigenze specifiche, accompagnandoli nei processi di consolidamento e crescita a livello nazionale come sui mercati internazionali”.

ViniSud 2018 report. I 10 migliori assaggi da Montpellier

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Sud della Francia, Spagna, Portogallo, Sud Italia, Grecia, Croazia, Algeria e Libano: sono alcune delle regioni enologiche presenti ViniSud, la grande rassegna Mondiale dei Vini del Mediterraneo di Montpellier.

Si è appena chiusa con successo la 14esima edizione di ViniSud, l’annuale rassegna Mondiale dei Vini del Mediterraneo. Dal 18 al 20 febbraio, Montpellier ha ospitato produttori, buyer e giornalisti di tutto il mondo, curiosi di scoprire le novità dei Paesi che da millenni sono protagonisti della storia del vino.

 

Il Mediterraneo, culla della vite

ViniSud ci offre ogni anno la preziosa opportunità di riscoprire il sentimento di appartenenza alla millenaria cultura della vite, che unisce le terre del Mediterraneo. Non tutti i Paesi che hanno partecipato alla rassegna si affacciano direttamente sulle coste del Mare Nostrum: non il Portogallo e neppure alcune regioni della Spagna o della Francia. Tuttavia, giusto per rendere omaggio al paese ospitante, basta abbandonarsi al violento respiro del Mistral, che scende impetuoso dalla Valle del Rodano e si apre a ventaglio da Capo Corso alle Baleari, fino alle lontane coste del Nord Africa, per capire che apparteniamo a un unico universo, i cui confini vanno ben oltre i semplici tracciati degli Atlanti. Il Mediterraneo cessa così di essere solo un luogo geografico, per divenire un ambito culturale, unito dalla storia di una comune esperienza umana. Un mare attraversato fin dall’antichità dalle rotte delle navi dei Fenici e dei Greci che, per primi, hanno diffuso la coltivazione della vite lungo le coste, poi portata nell’entroterra dall’espansione Romana. È proprio quest’originaria unità storica che ViniSud vuole affermare, per mettere in luce la comune appartenenza di popoli diversi a un’unica cultura, basata sulla coltivazione della vite, oltre che dell’ulivo e del grano. Il vino diviene così il simbolo che unifica, icona di una comunione dionisiaca, capace di superare barriere e confini, che oggi sembrano offuscare e far smarrire le nostre radici comuni e la nostra identità. Un’occasione unica per riassaporare quest’atmosfera, che ci riporta indietro nel tempo e ci raccoglie attorno all’esperienza conviviale, sacra e profana, di versare un calice di vino e di degustarlo insieme.

Un’edizione da record

La manifestazione è in costante crescita, quest’anno hanno partecipato a ViniSud 1.420 espositori di 16 diversi Paesi. Oltre 25.000 i professionisti del settore del vino che hanno visitato il Salone, con la presenza di un 28% di buyer internazionali di 76 nazioni e molti esponenti della stampa provenienti da tutto il mondo. ViniSud è stata l’occasione per degustare le nuove annate e avere un panorama esaustivo dei vini del Mediterraneo. Ovviamente predominante la partecipazione dei produttori del Sud della Francia, ma molto numerose anche le cantine spagnole, portoghesi, del Sud Italia, cosi come interessante la presenza di Grecia, Croazia, Algeria e Libano. Ricco il programma delle attività collaterali, con numerose master class, conferenze e degustazioni guidate su vitigni minori o piccole denominazioni. Un complesso d’iniziative, che ha avuto il merito di portare al centro dell’attenzione l’incredibile varietà del patrimonio ampelografico del bacino del Mediterraneo. ViniSud ha confermato anche quest’anno il suo ruolo centrale nel valorizzare l’identità dei vini e dei territori dei Paesi del Sud Europa. I vini dei Paesi del Mediterraneo rappresentano il 28,7% della produzione mondiale, oltre che un punto di riferimento qualitativo imprescindibile per tutti gli operatori del settore.

 

I 10 migliori assaggi

Anche se ViniSud non ha le dimensioni disorientanti del Vinitaly, è comunque una fiera molto grande e in un paio di giorni è assolutamente impossibile visitare tutti i padiglioni e degustare i vini di tutte le Regioni presenti. Ci siamo lasciati guidare un po’ dalla curiosità e un po’ dall’istinto per cercare qualche etichetta particolare e interessante. Ecco una selezione dei nostri 10 migliori assaggi.

 

1. Vinho Verde DOC Alvarinho 2015 Solar das Bouças

Arriva dal nord del Portogallo un interessante Vinho Verde prodotto con alvarinho in purezza. Al naso esprime eleganti e intense note agrumate, di frutta bianca e cenni di pietra focaia. Il sorso è rinfrescante, con un attacco di lime e pompelmo, che si allunga su ricchi aromi tropicali. Finale sapido e persistente.

 

2. Epanomi IGP Malagousia Single Vineyard 2017 Ktima Gerovassiliuo

È prodotto nella zona di Salonicco questo bianco aromaticamente ricco e piacevolmente fresco, che esalta le caratteristiche del vitigno malagousia. Un vino caratterizzato da intense note di frutta esotica, scorza d’agrumi e vivace freschezza.

 

3. Douro DOC Verdelho 2015 Colinas do Douro

La Cantina Colinas do Douro coltiva le vigne di verdelho a oltre 600 metri di altitudine, a Porto. Il clima fresco e le notevoli escursioni termiche, regalano bianchi nervosi e vibranti. Il bouquet è sottile e delicato, con profumi floreali e agrumati. Il sorso è teso, citrino, con aromi di frutta bianca e un finale su note sapide e minerali.

 

4. Condrieu AOC Lieu-dit Jeanraude 2016 Les Vins de Vienne

Sui terreni granitici di una piccola parcella coltivata sul Lieu-dit Jeanraude, la cantina Les Vins de Viennes produce un viogner in purezza di grande intensità, con eleganti note di fiori bianchi e frutta matura. La bocca è ricca e succosa con aromi persistenti di albicocca, pesca e scorza d’agrume.

 

5. Hermitage AOC La Petite Chapelle 2012 Domaine Paul Jaboulet Aîné

La Petite Chapelle è un syrah in purezza ottenuto da una vecchia vigna coltivata sulla celebre collina d’Hermitage, nella valle del Rodano. Il bouquet regala eleganti note di more, ribes, morbide spezie e sfumature tostate. Il sorso è armonioso ed equilibrato, con fine trama tannica, frutto denso e finale persistente sulle note di pepe nero.

 

6. Hermitage AOC Gambert de Loche 2013 La Cave de Tain

L’etichetta Gambert de Loche nasce da una selezione delle uve syrah delle migliori parcelle coltivate sulla collina d’Hermitage. Il bouquet esprime aromi di piccoli frutti a bacca scura, note di sottobosco, cardamomo e spezie orientali. La bocca è matura e complessa, con tannini evoluti e chiusura fresca.

 

7. Côte Rôtie la Comtesse en Côte Blonde 2015 Domaine Christophe Pichon

Un Côte Rôtie che ben esprime la celebre finezza dei vini della Côte Blonde, con profumi di violetta, mora, ribes e cannella, su un delicato sottofondo fumé. Al palato è armonioso e fresco, con frutto maturo e chiusura su aromi di spezie orientali.

 

8. Minervois AOC La Chapelle 2012 Chateau Saint Jacques d’Albas

Nasce da vecchie vigne, coltivate sulle colline attorno alla città medioevale di Carcassonne, questo rosso intenso, solare e mediterraneo a base di syrah e grenache. Il bouquet esprime profumi di spezie, erbe officinali e frutti di bosco. Il sorso sprigiona tutta la sua matura complessità e profondità aromatica, con tannini delicati e finale di pepe nero.

 

9. Fitou AOC Noblesse du Temps 2016 Domaine de la Rochelière

Una cuvée classica del sud della Francia con mourvèdre, carignan e grenache per un vino intenso e seducente, giocato sulle note mature di piccoli frutti a bacca rossa, sentori tostati e delicata speziatura. Il sorso è intenso, ricco e persistente, con tannini ben integrati al corpo del vino e buona freschezza.

 

10. Gigondas AOC Le Pas de l'Aigle 2013 Pierre Amadieu

Chiudiamo una delle Appellation più interessanti del Sud del Rodano: Gigondas. Le vigne sono coltivate su terrazze a oltre 400 metri d’altitudine, sotto la catena montuosa della Dentelle de Montmirail. In queste particolari condizioni, grenache e syrah producono un vino dagli aromi concentrati, ma di vibrante freschezza, con eleganti note fruttate, sentori di radice di liquirizia, erbe aromatiche e spezie.

 

ViniSud 2019

Novità in vista per la prossima edizione. Nel 2019 ViniSud si terrà a Parigi in contemporanea con VinoVision (Salone dei vini delle Regioni Settentrionali). Dal 10 al 12 febbraio 2019 il Parc des Expositions de la Porte de Versailles ospiterà i due Saloni. Le due manifestazioni conserveranno la loro distinta identità, ma offriranno un panorama completo sulla produzione francese e non solo. Un appuntamento da non perdere!

 

a cura di Alessio Turazza

Foto: ViniSud

 

 

 

 

 

 

 

Street food dall’Emilia Romagna. Un viaggio attraverso il cibo da strada meno noto della regione

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Quinta puntata della nostra rubrica dedicata agli street food da scoprire lungo tutto lo Stivale. Ecco quelli emiliani e romagnoli, che vi raccontiamo assieme alla ricetta del batarö.

L’Emilia Romagna è la patria dei sapori accoglienti regalati dalla cucina casalinga, quella delle sfogline che tirano la pasta a mano, del ragù lasciato sul fuoco senza fretta. Ma è anche una regione capace di valorizzare il suo ricchissimo patrimonio gastronomico, per nulla marginale nella costruzione e definizione dell’appeal di questi territori. Non a caso, è a Bologna che il piemontese Oscar Farinetti ha deciso di dare vita a Fico Eataly World, il grande parco a tema dedicato all’agroalimentare che ha aperto le porte al pubblico nel novembre 2017.

 

E infatti, quando dalle mura di casa o delle classiche trattorie ci si sposta all’esterno, ricchezza e prelibatezza non vengono meno: sono tanti gli street food che vale la pena raccontare, tra cui il più celebre è senza dubbio la piada romagnola. Paradossalmente – ma solo in apparenza – per iniziare il nostro viaggio attraverso il cibo da strada meno noto della regione (abbiamo già parlato di quelli di Sicilia, Toscana, Trentino Alto Adige e Campania) partiamo proprio da questo prodotto.

piadina con i sardoncini. Giorgio SalvatoriPiadina con i sardoncini di Kalamaro. Foto: Giorgio Salvatori

La piada che non ti aspetti (con il ripieno di sardoncini)

Perché se, non solo in Romagna, sono in molti a conoscere e apprezzare la piadina, realizzata con un impasto a base di farina, strutto (volendo sostituito con olio extravergine di oliva), acqua, sale e un po’ di lievito, al di fuori dei confini regionali sono invece in pochi ad averla assaggiata nella tradizionale farcia con i sardoncini alla piastra. “La cultura della piada è da sempre legata a quella marittima: i pescatori la mangiavano sulle barche al posto del pane, perché era comoda e facile da cuocere sul testo”, ci racconta Rita Nardi, responsabile della comunicazione dei locali Kalamaro Fritto d’Osteria e Kalamaro Piadinaro di Riccione (entrambi segnalati dalla nostra guida Street Food 2017, alla cui proprietà fa capo pure la gelateria Kitchen Ice), “la imbottivano con il pesce povero e così si assicuravano un pasto gustoso e sostanzioso, rigorosamente abbinato a un bicchiere di vino rosso”. Proprio come accade per la pasta –nel ravennate è più alta, a Rimini e Riccione deve risultare sottile, mentre nell’entroterra riminese è diffusa la versione sfogliata – anche per quanto riguarda l’impiego dei sardoncini si registrano leggeri cambiamenti da zona a zona: “la piada resta uno dei prodotti più campanilistici che abbiamo”, ricorda Nardi, “oltre ai sardoncini, che prima di essere cotti vanno impanati, a Cesenatico vengono di solito aggiunti i cipollotti, nella provincia di Ravenna gli asparagi di mare”.

cono di pesce fritto  foto Giorgio SalvatoriCono di pesce fritto di Kalamaro. Foto: Giorgio Salvatori

Il pesce povero diventa uno sfizio “da passeggio”

C’è una spiegazione simile dietro la nascita di un altro street food tipico di queste zone, ossia il cono da passeggio ricolmo di pesce fritto, spesso accompagnato da verdure pastellate. “Il pesce più pregiato era venduto ai ristoranti e, di conseguenza, bisognava consumare tutto quello che restava: si sviluppò così l’usanza di friggere ciò che il mare offriva in abbondanza”, conclude Rita. Se dunque, in origine, il cono (un po’ come il cuoppo napoletano) accoglieva i vari rimasugli del pescato, non per questo meno appetitosi e nutrienti, l’opzione che oggi va per la maggiore è quella con gamberi e calamari, anche se c’è chi lo riempie pure con gli spiedini di sardoncini.

 

Non c’è un solo gnocco fritto: le varianti locali tutte da scoprire

Spostiamoci in Emilia, per scoprire una pietanza declinata in tante varianti che subiscono modifiche a seconda del territorio (o meglio, di casa in casa), di cui la più rinomata nel resto d’Italia è lo gnocco fritto. E se invece vi nominassero il chisolino, il pinzino o la chizza fritta? Per distinguerli, andiamo con ordine e partiamo dalla base: si tratta di prodotti nati dalla necessità di portare in tavola qualcosa che potesse sostituire il pane, che non a caso ancora oggi sono protagonisti al momento dell’antipasto assieme a salumi e formaggi locali, oltre che delle numerose sagre organizzate in altrettanti comuni. Definire un’unica ricetta è pressoché impossibile, però di fatto gli ingredienti impiegati sono farina, acqua (c’è chi inserisce pure latte o panna), sale, un po’ di lievito (c’è chi non lo utilizza, preferendo l’acqua gassata) e a volte lo strutto, in cui poi – come tradizione vuole – va fritto l’impasto.

 

Da Piacenza, il chisulén

A Bologna, ad esempio, è conosciuto come crescentina, da non confondere con l’omonima focaccina ribattezzata pure tigella, a Parma come torta fritta, dalla forma di solito rettangolare e accompagnata con prosciutto crudo o spalla cotta. Nel piacentino, la parola giusta è chisolino, in dialetto chisulén: tendenzialmente a base di farina, acqua, sale, lievito e olio di oliva, in origine il composto ottenuto era tirato a mano con il mattarello sull’asse della madia, per poi essere tagliato in porzioni dalle forme irregolari e fritto nello strutto di suino. Infine, un pizzico di sale (o una spolverata di zucchero per l’opzione dolce).

Pinzino, foto Martina StaffolaniPinzino. Foto: Martina Staffolani

Il pinzino ferrarese (oltre a pinzone e focaccia con la cipolla)

Trasferendosi a Ferrara, lo gnocco fritto diventa il pinzino. “Nell’impasto non mettiamo l’olio, ma lo strutto: dopo una prima lievitazione, lo tiriamo un paio di volte e poi lo dividiamo in rettangoli abbastanza grandi, su ognuno dei quali incidiamo tre tagli diagonali per evitare che durante la frittura si gonfino troppo”, sottolinea Daniele Malossi, vice presidente di Nati con la Calzamaglia, l’associazione di volontariato che organizza in città la sagra dedicata proprio a pinzini e arrosticini, “prima di essere cotti nello strutto, però, sono ulteriormente lasciati lievitare; l’abbinamento ideale è quello con la Zia, il tipico salme ferrarese aromatizzato con aglio fresco”.

Il termine pinzino è un diminutivo di pinza, che in dialetto rappresenta tutto ciò che viene impastato e cotto. Si tratta, probabilmente, del frutto di una trasposizione linguistica, dato che dovrebbe derivare proprio dalle grandi pinze che venivano impiegate per maneggiare le teglie roventi. Ecco che infatti, a Ferrara, non c’è forno che non proponga il pinzone, una sorta di focaccia simile alla crescenta bolognese, arricchita con lardo o ciccioli. Appartiene alla tradizione locale anche la versione impreziosita con le cipolle e tendenzialmente più bassa, detta tirotta (in gergo dialettale tiratta ala zivola).

 

Dal quartiere ebraico al sapone Marsiglia: la storia della chizza di Reggio Emilia

A Reggio Emilia, invece, è facile sentir parlare di chizza fritta: si tratta di un goloso rustico salato realizzato con la pasta dello gnocco fritto, che però prima di passare nello strutto viene farcito con scaglie di Parmigiano Reggiano o con il ripieno dell’erbazzone e poi chiuso a mo’ di tortello. Ma la storia della chizza, in verità, parte da tutt’altro prodotto e solo dopo la stessa parola ha iniziato a identificare pure questa pietanza. “La vera chizza nacque in un forno del quartiere ebraico, quello di Federico Sacerdoti detto Salamein”, ricorda Stefano De Pietri, pasticcere e cofondatore del locale cittadino Sambirano, che grazie all’offerta polivalente e di qualità è recensito sia dalla nostra guida Bar d’Italia 2018 che dall’ultima edizione di quella dedicata a Pasticceri&Pasticcerie, “in origine era un impasto lievitato che risultava sfogliato, farcito con un formaggio fresco e arricchito con qualche goccia di agresto (un condimento ottenuto dal mosto di uva acerba,ndr);quando il forno di Salamein chiuse, la ricetta fu mantenuta in vita dai pasticceri della città, che nel tempo sostituirono l’impasto tradizionale con la pasta sfoglia e il ripieno con il Parmigiano Reggiano”. Rifornivano così i venditori ambulanti, da cui era possibile acquistare la classica chizza rettangolare e chiusa a fagottino: “all’epoca, per identificarne il formato, si diceva che fosse grande quanto un pezzo di sapone Marsiglia, mentre oggi corrisponde a circa la metà”, precisa De Pietri.

Panino con le polpette di cavallo di pepnPanino con le polpette di cavallo. Foto: Pepèn

Parma, il panino con il pesto di cavallo (e la Carciofa di Pepèn)

Andiamo ora a Parma, dove lo sviluppo del cibo da strada non poteva che intersecarsi con una delle più radicate tradizioni cittadine, ossia il consumo di carne equina (qualcosa di simile lo abbiamo già visto a Catania): il panino parmigiano per eccellenza è, non a caso, quello imbottito con il pesto di cavallo, un macinato – consumato crudo – di varie parti dell’animale, semplicemente condito con olio, sale e pepe. Ogni insegna lo ha poi impreziosito con le proprie ricette, come nel caso della Clinica del Panino e di Pepèn (entrambe presenti nella guida Street Food 2017 del Gambero Rosso). Nel primo di questi due indirizzi, attivo da 41 anni, le opzioni tra cui scegliere sono davvero tante, di cui una delle più iconiche resta quella che prevede la “salsa del nonno”, a base di verdure sottaceto, senape, maionese, concentrato di pomodoro, Cognac o Brandy; il pane utilizzato è invece una specie di pancarré che arriva quotidianamente dal forno di fiducia. “Anche noi da Pepèn proponiamo il pancarré, che volendo sostituiamo con le pagnotte all’olio”, ci spiega Stefano Ferrari, uno dei soci dell’attività, “di solito al pesto di cavallo aggiungiamo la nostra maionese artigianale e le zucchine grigliate, oppure prepariamo delle polpette – sempre di carne equina – all’aceto balsamico”.

carciofaCarciofa. Foto: Pepèn

Ma Pepèn, in città, è noto soprattutto per il cibo da strada inventato tra le sue mura: la Carciofa, una sorta di pizza farcita caratterizzata da un impasto lievitato – “c’è un mix segreto di ingredienti capace di conferirle la sua croccantezza”– ripieno con ricotta di pecora, carciofi, spinaci, Parmigiano Reggiano, altro formaggio tipo edamer, pepe e noce moscata. Dai primi anni ’50 è rimasta un must, cotta nelle grandi teglie e servita a tranci.

 

 

batarö: Punto GBatarö. Foto: Punto G

Il pane della val Tidone: il batarö

Anche Piacenza ha un panino che la contraddistingue: il batarö (o battarö). Ma è subito d’obbligo una precisazione, perché questo tipo di pane non è in realtà originario della città ma della val Tidone, in particolare dei comuni di Pianello, Nibbiano e Pecorara. La sua diffusione nel capoluogo provinciale è dovuta all’interesse da parte di imprenditori e ristoratori, impegnatisi nel recupero di una preparazione che rischiava di scomparire: tra i primi promotori di questa tendenza c’è Punto G, indirizzo segnalato dalla guida Street Food 2017 e che proprio attorno al batarö (di cui ci ha fornito la ricetta, che trovate in fondo) ha costruito la sua proposta.

“Il nostro punto di riferimento è la ricetta di mia nonna Lidia, originaria di Pecorara, che utilizzava la polenta: quest’ultima in casa non mancava mai e, quando si faceva il pane, si prendeva una porzione di impasto e la si univa appunto alla polenta”, ricorda la responsabile di Punto G Silvia Falconetti. Ecco che così si otteneva una perfetta merenda per i bambini, un pane di solito cotto sulla piastra della stufa o nel forno a legna, guarnito solo con lo zucchero oppure farcito con il lardo pesto (in gergo dialettale pistà ad gràss). Oggi, a contraddistinguere il batarö è infatti la commistione di farina di frumento e mais, a cui si aggiungono acqua, sale e lievito; per imbottirlo si possono scegliere le combinazioni più disparate, ma le predilette restano quelle a base di salumi piacentini e gorgonzola.

Per quanto riguarda l’origine del nome, più fonti sottolineano come l’espressione fosse utilizzata per indicare - in modo generico – schiacciate o focacce (batarö deriverebbe proprio da “battuto”).

bortellina: Pro Loco Bacedasco AltoBortellina. Foto: Pro Loco Bacedasco Alto

Da (altre) valli del piacentino, la bortellina

Concludiamo questo viaggio restando nel piacentino, per raccontare un grande classico di sagre e feste paesane, specialmente in val Luretta e val d’Arda: la bortellina o burtlèina. “È una sorta di frittatina contenente farina, acqua, sale, latte e uova (queste ultime non sempre), cotta in padella con olio bollente”, ci spiega Silvio Gardini, presidente della Pro Loco di Bacedasco Alto che, proprio in questa piccola frazione di Castell’Arquato, organizza ogni anni la festa dedicata alla bortellina, “una ricetta apparentemente semplice, che però richiede mano esperta e abilità affinché la pastella raggiunga la consistenza ideale e risulti vischiosa al punto giusto”. Una delle tante preparazioni che, ancor prima di ritrovarsi sotto l’infinito cappello del concetto di street food, nacque per arricchire le tavole dei meno abbienti ed era perfetta per evitare sprechi: all’impasto, non a caso, venivano spesso aggiunti pasta o riso avanzanti, mentre oggi la bortellina si mangia da sola o con i salumi, coppa, pancetta e salame in primis.

 

La ricetta del batarö di Punto G

 

Ingredienti

700 g di farina 0 (o farina 1)

100 g di farina di granoturco bramata

16 g di sale

Lievito di birra fresco (1 cubetto)

500 ml di acqua (a temperatura ambiente)

 

Impastare tutti gli ingredienti per 20 minuti affinché il composto risulti liscio e ben incordato. Lasciar lievitare (dopo averlo coperto con la pellicola) a temperatura ambiente fino al raddoppio del volume, per circa un’ora e mezza. Puntare l’impasto: suddividerlo in porzioni di circa 130 g ciascuna, per poi lasciarle riposare per un’altra ora. Stenderle con il mattarello fino a ottenere una forma più o meno ellittica e uno spessore di circa 1 cm. Se non si ha a disposizione un forno a legna, utilizzare un forno ben caldo (a 250°) e far cuocere fino a doratura esterna, per 5-10 minuti.

È anche possibile cuocere il batarö sul testo o in padella: far riscaldare il testo o la padella a fiamma alta, abbassare poi la fiamma al minimo e adagiare il batarö, girarlo dopo 5-8 secondi, rialzare la fiamma per almeno 10-15 secondi, che va riabbassata quando il batarö inizia a crescere e gonfiarsi. Risulta cotto dopo 2-3 minuti.

 

Kalamaro Fritto d’Osteria – Riccione – via G. Parini, 1 – 0541690562 – www.kalamarogroup.it

Kalamaro Piadinaro – Riccione – viale M. Ceccarini, 134 – 05411831860 – www.kalamarogroup.it

Sambirano – Reggio Emilia – via F. Crispi, 3 – 0522438181 – www.sambirano.it

Clinica del Panino – Parma – borgo Palmia, 2d – 0521206309 - https://www.facebook.com/clinicadelpanino/

Pepèn – Parma – borgo Sant’Ambrogio, 2c – 0521282650 - https://www.facebook.com/Pep%C3%A8n-Official-1394613000797861/

Punto G – Piacenza – via F. Corselli, 13 – 3913854055 - https://www.facebook.com/puntoGgustogenuino/

 

 

a cura di Agnese Fioretti

 

 

Firenze e Cioccolato, la fiera del cioccolato artigianale fiorentina si rinnova

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Una manifestazione tutta dedicata al cibo degli dei nel capoluogo toscano: torna Firenze e Cioccolato, fiera sempre più specializzata nella diffusione della cultura del cacao di qualità.

La fiera

Sono ormai 14 anni che, puntualmente, ogni anno a marzo Firenze si trasforma nella capitale del cioccolato, grazie al festival Firenze e Cioccolato, una dieci giorni dedicata al cacao in tutte le sue sfumature, dalle tavolette alle creme, dalle praline alle fave, senza dimenticare torte, crostate, pasticcini, gelato e piatti salati. Ma quella che sta per andare in scena, dal 2 all'11 marzo prossimi, sarà una sorta di “edizione zero” dell'ormai storica manifestazione organizzata da JDEvents, che si presenterà al pubblico in una veste completamente rinnovata, sia nell'estetica che nei contenuti. “Già da due o tre anni l'evento ha preso una direzione diversa, distaccandosi sempre di più dal format della sagra gastronomica, con l'obiettivo di diventare il terzo appuntamento italiano sul cioccolato, dopo il Salon du Chocolat di Milano e l'Eurochocolate di Perugia”, spiega il direttore artistico Marco Gemelli. “La risposta del pubblico nelle ultime edizioni è stata molto buona, per questo abbiamo voluto arricchire il programma, aumentando il numero di cooking show e focalizzandoci sempre di più sugli interventi degli chef”.

I cooking show

Così, nel cuore della città, in piazza SS. Annunziata, un parterre di oltre venti maestri cioccolatieri provenienti da tutta Italia offrirà al pubblico, fra cioccolatini, tavolette, ganache e molto altro ancora, un imperdibile viaggio da Nord a Sud della Penisola nell'universo del cacao e delle sue più originali interpretazioni artigianali. Un programma fitto di appuntamenti, con dimostrazioni, laboratori, lezioni e seminari a intrattenere il pubblico di appassionati grazie al contributo dei grandi artigiani, dai cuochi ai maitre chocolatier. “Abbiamo chiesto agli chef di preparare un piatto salato utilizzando il cioccolato o il cacao, per mostrare ai visitatori i tanti utilizzi di questo prodotto in cucina, e non solo in pasticceria”. Ai fornelli, Rocco De Santis (Santa Elisabetta), Deborah Corsi (La Perla del Mare), Beatrice Segoni (Konnubio), Matia Barciulli (Osteria di Passignano), Alessandro Liberatore (Villa Cora), Vincenzo Guarino (Il Pievano), Silvia Baracchi (Il Falconiere), Alessandro Sardi (La Bottega del Buon Caffè) e Massimiliano Catizzone (Villa La Palagina). Ma ci saranno anche i cookingshow etici, “ovvero le dimostrazioni dei ristoratori stranieri, di quelle cucine che non hanno una tradizione cioccolatiera forte, paesi come la Cina, il Giappone, l'India, il Vietnam”. Che durante la manifestazione saranno alle prese con la preparazione di un piatto salato a base di cioccolato, ingrediente con il quale sono poco familiari, che studieranno proprio in occasione della fiera.

Gli appuntamenti

E poi ancora giochi e laboratori dedicati ai più piccoli, degustazioni e abbinamenti guidati, con contaminazioni dai mondi di pasticceria, gelateria e cucina d'autore. Ma non solo. Ampio spazio avranno infatti una serie di incontri di approfondimento del prodotto dal taglio trasversale, con particolare attenzione agli aspetti salutistici e nutrizionali passando da prospettive più insolite come il rapporto fra sport e cioccolato e arrivando ad altre tematiche di attualità. Martedì 6 marzo inoltre, come lo scorso anno, Firenze e cioccolato rinnoverà la sua attenzione verso i meno fortunati con un appuntamento organizzato con la Caritas di Firenze: presso la mensa del centro storico - affacciata proprio sulla piazza - Luigi Bonadonna, chef dello Chalet Fontana, realizzerà un pranzo per gli ospiti della struttura diretta da Alessandro Martini. Alta attenzione, infine, ai distillati: “Lo scorso anno avevamo accompagnato il cioccolato alla grappa, quest'anno ci concentreremo anche su rum, vodka, whisky e tequila, che diventeranno protagonisti delle masterclass sull'abbinamento”.

Firenze e Cioccolato – dal 2 all'11 marzo 2018 - www.fieradelcioccolato.it

a cura di Michela Becchi


Dall'abalone ai licheni. A tavola con ingredienti insoliti per sostenere la giornata delle Malattie Rare. L'iniziativa di InGruppo

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Il 28 febbraio si celebra nel mondo la Giornata Internazionale delle Malattie Rare, che in Italia affliggono 1 milione e mezzo di persone. A Bergamo l'Istituto Mario Negri è un'eccellenza della ricerca in materia: i 20 chef di InGruppo la sostengono cimentandosi con ingredienti rari.  

Le Malattie Rare. Conoscerle per curarle

Uova di lumaca, salicornia, yuzu, abalone, muschio d'alta quota. Cos'hanno in comune? Non facilissimo a intuirsi, sono tutti ottimi ingredienti da utilizzare in cucina. Dal fascino esotico, in arrivo da latitudini poco conosciute alcuni, semplicemente insoliti, o legati a piccole realtà produttive, altri. Ingredienti rari, se volessimo racchiuderli in un unico insieme, come sono rare le malattie che affliggono i pazienti dell'Istituto Mario Negri di Bergamo: in oltre 25 anni di attività tramite il Centro Daccò, l'istituto si è impegnato per promuovere campagne di sensibilizzazione sul tema e offrire sostegno e accompagnamento ai pazienti e alle loro famiglie. Portando avanti, al contempo, una ricerca mirata a saperne sempre di più, perché tanto è più feroce il nemico da combattere quanto conoscerlo è indispensabile. E così alle indagini epidemiologiche si è aggiunta una ricerca clinica d'alto profilo frutto di monitoraggio costante, che ha fatto del Centro Daccò (impegnato anche nella formazione di giovani ricercatori) una realtà di riferimento nel contesto nazionale e internazionale e Centro di Coordinamento della Rete Regionale per le Malattie Rare in Lombardia: 979 sono le malattie rare segnalate dal centro, 676 le mutazioni genetiche trovate, 131 i geni studiati. Il 28 febbraio, in tutto il mondo, si celebrerà l'undicesima Giornata Internazionale delle Malattie Rare: circa 7mila quelle stimate dall'OMS, ognuna interessa un numero di persone molto ridotto, ma questo non autorizza a ignorare il problema. Il 3% della popolazione mondiale ne è affetta, in Italia, gli ultimi dati, parlano di un milione e mezzo di malati (70mila solo in Lombardia) che necessitano di assistenza, speranza, soluzioni. E comunicarne l'esistenza è un primo passo essenziale.

 

InGruppo. Il circuito degli chef lombardi

Qui entrano in gioco gli chef del circuito InGruppo, che ormai sei anni fa prendeva forma per valorizzare la ristorazione bergamasca attraverso un'iniziativa stagionale che portasse un pubblico trasversale a scoprire tavole di valore del territorio, spesso percepite con ostilità per il loro posizionamento sulla fascia di prezzo medio-alta del mercato. L'edizione in corso, che si protrarrà fino al 30 aprile 2018, riunisce 20 ristoranti in 4 province (tre le escursioni nei territori di Lecco, Milano e Monza-Brianza) e offre la possibilità di consumare un pasto completo, vini e bevande incluse, al costo prestabilito di 60 euro a persona (fatta eccezione per Da Vittorio, Enrico Bartolini al Mudec, A' Anteprima, dove il prezzo sale a 120 euro).

 

Gli ingredienti rari nel piatto

Ma la rete di InGruppo fa squadra anche quando si tratta di sostenere una buona causa, e il 28 febbraio sarà schierata al fianco dell'Istituto Negri per portare la campagna di sensibilizzazione sulle Malattie Rare a tavola: ognuno dei 20 chef (da Giancarlo Morelli a Ezio Gritti, ai fratelli Cerea ed Enrico Bartolini) proporrà per la serata una ricetta costruita intorno a un ingrediente raro. Il valore simbolico di ogni piatto raro (15 euro) sarà poi devoluto in favore della ricerca scientifica: “Non c’è scoperta senza ricerca. Non c’è successo senza preparazione. Così accade in campo scientifico, così in campo culinario”, recita il manifesto dell'iniziativa. Dunque bando alle barriere geografiche e culturali, per una volta si esula dalla territorialità per reperire prodotti dall'Alaska (le uova di balik dei salmoni Keta), dal Giappone (lo yuzu), dal Nepal (il pepe Timur), anche se altri hanno preferito restare in casa, scovando ingredienti rari perché dimenticati, come il mais scagliolo di Carenno, il lombo di bruna alpina bergamasca o il latticello di bottatrice; ma anche prodotti che raramente entrano nelle cucine tradizionali, come i licheni della Valsassina, il muschio d'alta quota, le uova di chiocciola, il fitoplancton marino. Resta la curiosità di scoprire come ognuno degli chef adatterà l'ingrediente alla sua cucina. Un consiglio? Il 28 febbraio prenotate per cena presso uno dei ristoranti di InGruppo.

 

www.ingruppo.bg/it

 

a cura di Livia Montagnoli

 

Cucina di casa in Liguria. Ricette di: Pesto alla genovese, Bagnun e Baccalà in zimino

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Una lingua di terra che si estende dalle montagne fino al mare, regalando ortaggi ed erbe aromatiche uniche, oli delicati e un pescato tra i più pregiati della penisola. Abbiamo scelto tre ricette facilmente replicabili a casa: l'intramontabile pesto alla genovese, il bagnun e il baccalà in zimino.

La Liguria custodisce un entroterra ricco di terrazzamenti a oliveto e vigneto, cespugli di erbe spontanee, frutteti e colture di primizie. È da qui che nasce una cucina fatta di leggerezza e sapori autentici, e ricette come il famoso pesto alla genovese realizzato, in teoria, con basilico di Prà (il quartiere genovese dove viene coltivato il Basilico Genovese DOP), olio extravergine ligure, aglio e pinoli. Senza dimenticare le lattughe in brodo, il cappon magro, la cima ripiena e gli squisiti pansoti, tipici ravioli riempiti di ricotta e preboggion (un insieme di cinque erbe selvatiche che crescono negli oliveti a ridosso dei muri a secco). Il bello della cucina ligure è che non prevede l’impiego di ingredienti preziosi o ricercati ma si elabora con gli stessi ingredienti di tutti i giorni. Qui le ricette del pesto alla genovese, del bagnun e del baccalà in zimino.

Pesto alla genovese

Per fare il pesto i puristi raccomandano di usare il mortaio di marmo, anziché il frullatore. Il risultato è decisamente migliore: il sapore è più intenso e morbido, senza acutezze. Ma con il frullatore è comunque accettabile. Altra accortezza: prima di essere usato, il pesto va diluito con qualche cucchiaiata di acqua di cottura della pasta o, come usano in Liguria, con un po' di prescinsoeua (una cagliata di latte dal sapore leggermente acidulo). Il pesto, oltre che per le classiche trenette, viene usato per condire trofie, gnocchi, lasagne o il classico minestrone alla genovese.

Ingredienti

80 g di basilico (possibilmente di Basilico Genovese DOP)

1 spicchio d'aglio

2 cucchiai di pinoli

2 cucchiai colmi di pecorino sardo grattugiato

4 cucchiai d'olio extravergine d'oliva ligure

Sale q.b.

Staccate le foglioline di basilico, lavatele e asciugatele. Mettetele nel bicchiere del frullatore e unitevi lo spicchio d'aglio, privato del germoglio interno, i pinoli, il formaggio e la metà dell'olio. Frullate fino a quando gli ingredienti si saranno trasformati in un composto cremoso. Per evitare di scaldare il pesto, mantenete la velocità bassa e fate ogni tanto delle brevi pause. Alla fine, travasate il pesto in una ciotolina e amalgamatevi il resto dell'olio.

Bagnun (Zuppa di acciughe), piatto ligure

Bagnun (Zuppa di acciughe)

Il bagnun è un piatto tipico della riviera ligure di Levante e in particolare di Riva Trigoso dove in onore di questa ricetta si celebra anche una sagra. Nella versione originale la zuppa viene versata non sul pane ma sulle tipiche gallette del marinaio (schiacciatine bucherellate di pane).

Ingredienti

800 g di acciughe fresche

600 g di pomodori da sugo ben maturi

1 bicchiere di vino bianco secco

3 cucchiai d'olio extravergine d'oliva

1 piccola cipolla

2 spicchi d'aglio

Prezzemolo

Sale e pepe q.b.

Tuffate per pochi secondi i pomodori in acqua in ebollizione, passateli nell'acqua fredda quindi pelateli, privateli dei semi e spezzettateli. Tritate la cipolla insieme agli spicchi d'aglio e al prezzemolo e fatela imbiondire in una casseruola con l'olio. Quando il soffritto comincia a prendere colore, unitevi i pomodori. Incoperchiate e lasciate cuocere il sugo per una decina di minuti. Decapitate le acciughe, ripulitele dalle interiora lasciandole intere, lavatele e lasciatele sgocciolare. Quando il sugo si sarà un po' asciugato, insaporitelo con sale e pepe e unitevi il vino e circa un quarto di litro di acqua. Fate rialzare il bollore e unitevi le acciughe. Lasciatele cuocere a fuoco dolce e senza mescolarle per circa un quarto d'ora. Verso la fine della cottura regolate il sale. Tostate il pane, spezzettatelo e distribuitelo fra quattro piatti fondi. Versatevi sopra le acciughe con tutto il sugo e servite la zuppa calda.

Baccalà in zimino

Con la parola “zimino” o “zemino” nella tradizione ligure si indica un intingolo che può essere di sole verdure o di pesce, dalle seppie in zimino al baccalà. Prima di procedere con la ricetta facciamo chiarezza: stoccafisso e baccalà hanno la stessa origine ma non sono la stessa cosa. Alla base ci sono sempre grossi merluzzi pescati nei mari del Nord, specialmente in Norvegia, ma cambia il sistema di conservazione. Lo stoccafisso è il merluzzo intero decapitato, essiccato all'aria gelida e secca dell'estremo nord mentre il baccalà è il merluzzo aperto e conservato sotto sale in barili di legno. Il primo ha l'aspetto rinsecchito e legnoso dal quale deriva il suo nome: Stockfish (pesce bastone) mentre il secondo si presenta come un grosso triangolo incrostato di sale. È lui il protagonista di questo piatto.

Ingredienti

700 g di baccalà ammollato

800 g di foglie di bietola

300 g di passata di pomodoro

1 cipolla

2 spicchi d'aglio

1 manciata di prezzemolo

1/2 bicchiere di vino bianco secco

3 cucchiai di olio extravergine d'oliva

Peperoncino

Sale q.b.

Mondate e lavate le foglie di bietola, scolatele, trinciatele grossolanamente e scottatele per un paio di minuti in acqua salata in ebollizione. Pulite il baccalà rimuovendo con cura tutte le lische e le spine ma non la pelle (se non è gradita, si può togliere dopo la cottura) e tagliatelo a pezzi non troppo piccoli. Fate un trito finissimo con la cipolla, l'aglio, il prezzemolo e il peperoncino. In un largo tegame scaldate l'olio e, a fuoco moderato, fatevi imbiondire il trito preparato. Alzate la fiamma e rosolate nel soffritto i pezzi di baccalà girandoli con delicatezza. Quando il baccalà sarà leggermente colorito, bagnatelo con il vino e fatelo sfumare. Aggiungete la passata di pomodoro, abbassate la fiamma, incoperchiate e fate cuocere per una decina di minuti. A questo punto aggiungete la bietola, salate poco e fate cuocere ancora per circa mezz'ora a recipiente coperto, badando che il baccalà non si asciughi troppo. Servitelo ben caldo, è un accompagnamento ideale è la polenta arrostita.

 

Cucina di casa in Veneto. Ricette: Sarde in saor, Risi e bisi e Baccalà alla vicentina

Cucina di casa in Piemonte. Ricette: Vitello tonnato, Agnolotti del plin e Brasato al Barolo

Cucina di casa in Sicilia. Ricette: Panelle, Pasta alla norma e Calamari alla messinese

Cucina di casa a Roma. Ricetta di: Supplì, Spaghetti alla carbonara, Coda alla vaccinara

Cucina di casa in Emilia-Romagna. Ricette di: Cappellacci di zucca, Cotoletta alla bolognese e Torta degli addobbi

Cucina di casa in Lombardia. Ricette di: Risotto alla pilota, Ossobuco alla milanese e Torta paradiso

 

 

 

Firenze: 20 ristoranti etnici per scoprire le cucine del mondo

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Una volta la cucina etnica, a Firenze, era solo cinese, poi sono arrivati gli indiani e i giapponesi “finti”, ovvero sushi bar di dubbia caratura. Oggi l’offerta si è fatta più variegata e si riesce a trovare qualche locale interessante con proposte non banali.

Non più solo ristoranti acchiappaturisti: ormai a Firenze l'offerta gastronomica è sempre più articolata: si va dalle grandi insegne blasonate, alle trattorie di tradizione, dalle pizzerie di qualità alla sempre più varia cucina etnica. Chem nel capoluogo toscano, negli ultimi anni registra una crescita costante con proposte non banali.  Ecco 20 insegne selezionate per voi.

 

Banki

Ararat
Un’altra novità nell’affollato panorama enogastronomico di Borgo la Croce, nella strada che corre a due passi dal Mercato di Sant’Ambrogio. Il ristorante prende il nome dal monte sacro agli Armeni e propone l’abbinamento della cucina armena, ricchissima di piatti di carne, seppur magra e leggera, con quella georgiana, basata soprattutto sulle verdure. Due piani, cucina a vista, arredamento che vuole coniugare tradizione e spunti di modernità sono il frutto ben riuscito dell’incontro tra il progetto di un armeno e l’iniziativa di un imprenditore georgiano, già in parte e in misura diversa sperimentato nell’esperienza di un altro locale specializzato in carni, nella prima periferia fiorentina. A pranzo proposte più snelle, per chi ha necessità di mangiare velocemente e senza spendere troppo; di sera un’offerta più articolata, con musica a volte dal vivo. Carta dei vini in costruzione, un servizio ancora da rodare, passione e attenzione già palpabili.

Ararat – Firenze - Borgo la Croce, 32/r- 375 5153626 - http://www.araratrestaurant.it/

 

Banki Ramen

Un bar che, all’inizio di questo millennio, decide di ampliare la propria offerta e si trasforma (ma solo la sera e il sabato a pranzo, in un approccio un po' carbonaro) in ristorante dove si serve il ramen, piatto cardine della cucina nipponica, preparato qui da cuochi giapponesi. Un’esperienza fuori dagli schemi, perché a pranzo una volta terminate le porzioni ci si ferma (e ci sono giornate nelle quali il servizio in un’ora termina) e poi si mangia sui tavolini rotondi del bar; e che poggia sull’idea del un piatto unico, il brodo protagonistacon la carne, le verdure, le tagliatelle, l’uovo, più o meno piccante. Chi ha più fame può proseguire con le verdure saltate, oppure la carne da sola o i deliziosi raviolini alla piastra. Da bere, ovviamente birra giapponese. Prezzi più che corretti per una full immersion negli stili della cucina di un Paese che dalle nostre parti, solo in rare occasioni, viene proposta correttamente.

Banki Ramen – Firenze – via Banchi, 14r - 055 213776

 

Ciblèo

Un’invenzione di Fabio Picchi, cuoco, scrittore e giocoliere in cucina, che sperimenta e trova inusuali concomitanze tra i piatti toscani e quelli del lontano Oriente. Fin dal nome, che non è un errore di stampa o di battitura, ma semmai la distorsione burlesca del nome dello storico Cibreo dal quale tutto è iniziato, si capisce che l’obbiettivo del locale quasi intimo (una ventina scarsa di posti tra il bancone e i tavoli, cucina a vista) è abbattere i confini e i pregiudizi, trovando nella narrazione degli ingredienti e della loro preparazione il pretesto per un viaggio da una parte all’altra del mondo. La scelta è tra due proposte e il menu cambia di continuo. In cucina personale orientale supervisionato da Fabio; e come risultato, sfatando i luoghi comuni e le tendenze di mercato più forti, una cucina fusion toscorientale: sempre presenti ravioli e tortelli, magari di taglio orientale, ma preparati con farine del Mugello o maiale del Casentino; e poi ad esempio prosciutto cotto dello Zivieri con la soia del Monte Fuji; trippa alla fiorentina sempre con la stessa soia; rosticciana bollita con ginger e wasabi; collo di pollo ripieno; il gurgoglione all'elbana con filetti di tonno essiccato, fermentato e affumicato; omelette alla coreana. Minimalista la scelta per le bevande: sake, un paio di bottiglie di vinoe birre artigianali.

Cibléo - Firenze - via Andrea del Verrocchio, 2r - tel. 055 2341100 - http://edizioniteatrodelsalecibreofirenze.it/

 

Con Saigon

Com Saigon

La cucina vietnamita fa il suo esordio a Firenze con questo locale aperto da pochi mesi in pieno centro, tra Santa Croce e il Duomo, con arredi minimalisti e due cucine - una delle quali a vista all’ingresso - in cui operano 3 cuoche vietnamite. Un locale a prevalenza femminile, quindi, che offre sapori insoliti come la salsa di pesce con zucchero, limone e peperoncino; i dischetti di farina di riso riempiti con gamberi e latte di cocco; i classici involtini di fogli di carta di riso con verdure, carne o pesce; oppure il phõ, una zuppa con oltre 20 ingredienti; o il banh cuon, sottili sfoglie di pasta di riso cotta al vapore, con un ripieno di funghi e carne; o ancora ilbanh xeo, una crêpe a base di farina di riso, latte di cocco e curcuma, con dentro pesce, carne e germogli di soia. Tutte espressioni di una cucina che rispetta gli antichi criteri dello Yin e dello Yang. Si può pasteggiare con vino sopratutto toscano, ma si può anche scegliere una birra vietnamita o uno dei tanti tipi di tè che il locale offre (Foto di Alberto Sarrantonio).

Com Saigon - Firenze - Via dell'Agnolo, 93/R, 50122 Firenze FI - Via dell'Agnolo, 93/R - http://www.comsaigon.it/

 

Corno d'africa

Corno d’Africa

Siamo nella prima periferia fiorentina, nel vivace quartiere di San Jacopino. Qui Almaz e Franco propongono dal 2009 cucina africana, soprattutto quella dell'Eritrea e dell'Etiopia. Un menu particolarmente ricco che consente, anche ai meno esperti di cucine lontane, di compiere un viaggio sufficientemente esaustivo tra gli usi gastronomici di quella terra. Si può cominciare con tabulle, sambusà e katagna e poi passare a uno dei tanti piatti di carne previsti dalla carta: pollo, agnello e soprattutto manzo, in genere serviti con salse (piccanti o meno) e uova sode o cipolle o spezie o burro. Il tibsì viene servito su un caratteristico fornello per ultimare la cottura in tavola. Tutte le specialità sono accompagnate dall’ingera, un tipico pane integrale preparato in cucina, e sono servite nei caratteristici e variopinti vassoi. La cena si conclude con il tradizionale rito del caffè che inizia con la tostatura dei chicchi e si chiude con la bevanda fumante servita nelle caratteristiche tazzine.

Corno d’Africa – Firenze - via San Jacopino, 12 - 055 362116 - http://www.cornodafrica.it/

 

La Cucina di Mamà

I ristoranti peruviani di Firenze propongono la cucina del loro paese insieme a pietanze italiane e addirittura alla pizza. La Cucina di Mamà non fa eccezione, ma i piatti tipici sono gustosi e ci fanno apprezzare un universo gastronomico poco conosciuto. Per iniziare, il pisco sour, un aperitivo a base di un’acquavite sudamericana; si può poi passare all'antipasto che consiste in vari piccoli assaggi dei piatti proposti in carta oppure scegliere direttamente tra ceviche (pesce crudo marinato col limone e condito con peperoncino e spezie), arroz chaufa de mariscos (riso ai frutti di mare), lomo saltado (carne di manzo tagliata a striscioline e saltata in padella assieme a cipolle e peperoni, servita con riso), anticuchos (spiedino di cuore vaccino), causa de pollo (un tortino di pollo, patate gialle e peperoni), l’aeropuerto (riso e spaghetti saltati con carne, peperoncino e cipollotto) o papas con salsa huancaina (patate in salsa di latte, aglio, cipolla, olio, formaggio, peperoncino). Per finire, i picarones, anelli a base di farina di grano mischiata con zucca e patata dolce. Birra peruviana ad accompagnare il tutto.

La Cucina di Mamà – Firenze - Via del Ponte di Mezzo, 27-29 - 055 530 8774 - http://www.lacucinademama.it/

 

cuore

Il Cuore

I ristoranti che si spacciano per giapponesi sono davvero tanti, quelli che lo sono davvero molti meno. Eccone finalmente uno così vero che fuori dalla porta si possono scorgere due mucchietti di sale, beneauguranti secondo tradizione, e ad accoglierti e a servire a tavola ci sono signore – gentilissime - in kimono, con i tabi (le calze bianche) e i geta (i sandali infradito). Il menù offre una scelta essenziale, con nemmeno una proposta di sushi. Si può optare per uno dei due menu degustazione (a 28 e 38 euro) oppure iniziare con un’insalata di avocado e tonno, saporita senza esagerare, calibrata in acidità, piacevole. La tempura croccante, di verdure e pesce, è ben eseguita; meno entusiasmante il maiale alla griglia con zenzero con la carne un po’ troppo cotta. Perfetta invece la zuppa di miso, come è calibrata la scelta di dolci, tra cui due gelati. Carta dei vini da migliorare, quattro le birre proposte, tra le quali un’artigianale giapponese. Il tutto in ambienti articolati suddivisi in un lungo corridoio: una prima saletta da venti posti poi, dopo un altro corridoio con accanto la cucina, la sala più grande.

Il Cuore – Firenze - via Romana, 123r - 055 220156

 

Dim Sum

Dim Sum

Una cucina cinese moderna e allegra in un contesto molto lineare negli arredi: questo è Dim Sum, che apre i suoi battenti in una strada che, negli ultimi tempi, è una delle più frequentate per i numerosi locali che vi si affacciano. Sedendo al bancone, si può seguire la lavorazione dei noodles, realizzati a vista e poi serviti in brodo o saltatisecondo le preferenze, magari con il maiale; gli ingredienti comunque sono freschi, i sapori definiti. Interessanti i ravioli alla piastra con verdure oppure arricchiti con carne chianina e tartufo. In carta anche qualche azzeccato piatto di pesce. Insomma una bella contaminazione tra cucina cinese e tradizione toscana. La degustazione di tè apre il pasto e può accompagnare tutte le vivande, per attenuare le punte più forti del piccante. In chiusura buoni assaggi di dolci.

Dim Sum – Firenze - via dei Neri, 37/r - 055 284331 - http://www.dimsumrestaurant.it/

 

El Inca

El Inca

La cucina andina a Firenze ha trovato casa da El Inca, il locale voluto e gestito da Monica in sala e Paolo in cucina che da un paio d’anni hanno aperto nel quartiere di Gavinana questa finestra sul Perù. Il ristorante ha avuto subito successo tra l'affollata comunità peruviana fiorentina, ma piano piano sta incuriosendo e attirando anche un pubblico più vasto. Quella del Perù è una cucina figlia dall’incrocio delle culture che in questo paese si sono incontrate e si basa su una ricchezza unica di prodotti con migliaia di tipologie diverse. Pesce, carne, verdure e formaggi sono gli ingredienti di piatti fantastici come ceviche (pesce fresco, peperone, cipolla, aglio, peperoncino e lime) o anticuchos, il cuore di manzo speziato servito con patate. Per chi non ama la carne, anche cose come gli involtini di queso (formaggio) serviti con salsa guacamole. Le proposte di El Inca sono suddivise in due menu, quello tradizionale con pietanze abbondanti ricche di carne e carboidrati; e quello contemporaneo, più vicino forse ai nostri gusti. Tutti i piatti dovrebbero essere accompagnati da una bevanda dolce e poco alcolica a base di granturco nero; ma chi vuole può bere vino o birra. Per finire semifreddo de maracuya (al frutto della passione), pie de limon, crema volteada (simile alla catalana) o piccoli biscotti farciti alla vaniglia.

El Inca – Firenze - Via Lapo da Castiglionchio, 14-16 - 393 132 6951 - http://restauranteelinca.blogspot.it/

 

Fulin

Fulin - Luxury Chinese Experience

Un ristorante in controtendenza rispetto al livello piuttosto basso della maggior parte dei ristoranti cinesi della città e dei dintorni, nato dall’incontro tra Gianni Ugolini, fotografo con passione della buona tavola che dispone di un grande fondo non troppo lontano dal centro, e due giovani cinesi, Francescoe Stefano Dai, con un’esperienza maturata nei ristoranti da ricevimenti del nonno. Prende così corpo l’idea di proporre piatti della cucina pechinese tradizionale, integrandoli con prodotti del nostro territorio. Da qui l’utilizzo di olio toscano, vino e materia prima fresca come carne e pesce scelta tra quella di fornitori non troppo lontani. Il locale ha sale ampie, disposte su piani diversi, con un arredamento che ben coniuga tradizione cinese e design occidentale. Nella stagione più propizia è possibile mangiare nella terrazza con vista. Le portate sono suddivise e proposte secondo le abitudini di casa nostra; poi sta al cliente decidere se farsele servire tutte assieme o secondo i tempi per noi più abituali. Il menu è ampio e curioso, include anche pietanze per vegetariani e vegani e una piccola carta dei dolci;, salvo rare eccezioni, i piatti vengono presentati bene e i sapori sono distinguibili. Riguardo ai vini c'è una carta basata su referenze italiane con qualche chicca francese. Servizio cortese e attento, spesa in linea con la qualità dell’ambiente e del cibo.

Fulin - Luxury Chinese Experience – Firenze - Via Giampaolo Orsini, 113r - 055 684931 - http://www.fulin.it/

 

Gangnam

Gangnam

Il ristorante coreano in via Guelfa conta molti estimatori che apprezzano la delicatezza della sua cucina e l’originalità della preparazione delle carni marinate, sia di manzo che di maiale: possono essere infatti cucinate direttamente dai commensali ai tavoli, che hanno tutti una griglia elettrica nel centro. Generalmente ad accompagnare il tutto c'è il bibimpbap: riso bollito servito con verdure, sormontato da un tuorlo di uovo da amalgamare con tutti gli ingredienti, tra cui una salsa piccante. Insieme alle carni si possono assaggiare le zuppe, i ravioli o la frittata con il kimchi, le verdure fermentate con spezie. In tutti i piatti - serviti come da tradizione contemporaneamente senza differenza tra antipasti, primi e secondi - si distinguono bene i sapori, tra cui prevalgono di volta in volta l’acido, il piccante e il dolce.

Gangnam – Firenze - via Guelfa, 94/r - 055 384 2434

 

Hibiki-àn

Dove c’era uno storico negozio di alimentari che cucinava pochi piatti toscani, c’è ora una trattoria che propone una cucina casalinga giapponese. A officiare due coniugi giapponesi, Taka e Kiyoe Kono, che un paio d’anno fa rilevano il locale e cominciano ad abbinare a pranzo alcune specialità nipponiche ad un menu di cucina italiana, mentre la sera vengono servite solo preparazioni del Sol Levante, con una scelta più ampia. L’ingresso ha mantenuto il banco frigo e le panche della precedente gestione: la sala ristorante dopo la ristrutturazione della scorsa estate ha assunto un’aria leggermente più formale, rispetto all’atmosfera di vecchia trattoria di una volta. Si può optare per uno dei ramenproposti, che diventano quasi fusion se abbinati con ingredienti tipicamente italiani come la porchetta. Altrimenti si può cominciare con i ravioli alla piastra, saporiti, croccanti e poi gustare l‘hamburger ripieno di verdure servito su riso e salsa Hibiki, dal sapore agro e piccante. Non male il Tamago Don, piatto vegetariano di riso con uova e cipolle cotto in soia dolce. Bella la scelta dei saké e di birre giapponesi. Personale di sala gentile e accogliente, prezzi onestissimi.

Hibiki-àn – Firenze - Piazzale Donatello, 4/r- 055 243761- https://www.facebook.com/hibikianfirenze/

 

Impressione di Chongqing

Siamo in pieno centro a Firenze, zona mercato San Lorenzo, qui si trova una trattoria con pochi fronzoli, ambiente e arredi di stampo popolare, frequentata quasi esclusivamente da cinesi. Nel menu ci sono i classici: involtini primavera, maiale in agrodolce e zuppa agropiccante; ma il tratto distintivo della proposta di questo locale è il quinto quarto cucinato in stile etnicorientale. E quindi piatti come trippa di manzo in salsa di peperoncino rosso, orecchio di maiale, trippa di maiale - saltata o con crauti -cuore di vitello, la zampa, i reni e l’intestino di maiale. Tra i piatti speciali la rosticciana caramellata e, per i più coraggiosi, il collo piccante. Il tutto in porzioni più che abbondanti, con riso bianco d’accompagnamento e salse agrodolci o ultrapiccanti. Una nota di merito: nel menu con foto, per ogni piatto i peperoncini (uno, due o tre) stanno ad indicare i livelli di piccantezza.

Impressione di Chongqing - Firenze - via Sant’Antonino, 34r - 055 290010 - https://www.facebook.com/pages/Impressione-Di-Chongqing/744589545553851

 

India fiesole

India

È stato il primo ristorante indiano aperto in Italia. Correva l’anno 1994, quando Edoardo Castorina e la famiglia Drogba diedero vita a quest’esperienza, che offre agli ospiti odori e sapori di un mondo lontano, ma anche sensazioni e suggestioni extragastronomiche. Ci sono i nan (pani cotti nel forno tandoori e proposti chiusi, aperti, imbottiti, nelle versioni più diverse), c’è il lassi, bevanda a base di yogurt, e il chawal, riso di accompagnamento. Insieme a questi capisaldi della cucina del subcontinente, qui da India vengono proposti tantissimi piatti, a cominciare dagli antipasti, come le polpettine fritte di verdure, gli involtini di sfoglia ripieni di carne o anche vegetali e gli anelli di cipolla, in abbinamento a tre salse. Poi si può proseguire con diversi tipi di pollo, con piatti a base di montone o di maiale con cipolle e spezie. Anche i vegetariani hanno molte possibilità di scelta. Tra i dolci, ricordiamo il kheer a base di riso, latte allo zafferano e frutta secca.

India – Fiesole (FI) - via Gramsci,43a - 055 599900- https://www.facebook.com/RistoranteIndiaFiesole/

 

Koto Ramen

I ramen bar propongono in tutto il mondo un modello di ristorazione semplice, tipico del Giappone, con pochi piatti della cucina popolare ad accompagnare i vari ramen, le zuppe con tagliatelle di frumento (i noodle) servite in brodo di carne o pesce o verdure e accompagnate da carne e verdure. Koto Ramen apre a Firenze pochi anni fa, replica prima a Prato (in via Valentini 102) e poi raddoppia nel capoluogo toscano, offrendo accanto al nanban (la zucca marinata nel sake dal sapore agrodolce), al kakuni (la pancetta di maiale accompagnata con daikon e senape), al kara-age (le cosce di pollo fritte)e al tofu fresco, il piatto principale, il ramen in due formati (normale e abbondante) e un buon numero di varianti: carne, maiale soprattutto; pesce, frutti di mare e ombrina; o vegetale, con alghe e funghi, e poi tra gli ingredienti, il classico uovo marinato. Ad accompagnare i cibi tè verde e sake, proposto in diverse etichette. Per finire, oltre al gelato, abbiamo assaggiato un rotolo di pan di Spagna al tè verde farcito con crema chantilly, servito con i fagioli rossi; e un crème caramelsenza latte al sesamo, guarnito con formaggio fresco lavorato.

Koto Ramen – Firenze - via Giuseppe Verdi, 42r – 055 247 9477 - Borgo San Frediano, 41r- 055 060 3374 - https://kotoramen.it/

 

Kottu

Il primo ristorante a Firenze di cucina dello Sri Lanka, la grande isola nota anche come Ceylon che si estende a sudest della penisola indiana, prende il nome dal cibo di strada più diffuso in quel Paese: il kottu, che consiste in pezzi di pane non lievitato tagliati finemente e saltati alla piastra con verdure, uova e altri ingredienti a scelta. Sempre presenti anche riso e lenticchie, ad accompagnare, insieme al curry, al sambar e alle misticanze di verdura, la maggior parte dei piatti della cucina srilankese: involtini, ravioli fritti, pesce e carne conditi con una grande varietà di salse. I legami con la cucina dell’India del sud sono forti ed evidenti, anche se qui prevalgono più delicatezza e leggerezza nei suoi sapori e c’è un uso intenso ma equilibrato del latte di cocco e dei frutti tropicali.

Kottu - Firenze - via Arnolfo 21r - 055 661290- https://www.kottufirenze.it/

 

One night iin Beijing

One night in Beijing

Una cucina che si ispira alle tradizioni cinese, giapponese, vietnamita e thailandese ma con piatti reinventati in stile contemporaneo, in una versione tutta orientale della cucina fusion. A realizzarla,chef provenienti da differenti regioni che mettono in scena un mix tra pietanze classiche e creazioni originali con abbinamenti inaspettati. Per esempio, le vongole sake(vongole veraci cotte in un pentolino con il sake), o l’anatracon mangofresco e salsa di mango oppure i gamberi long jing cotti con tè long jing in brodo di pollo. Interessanti anche le proposte del Sushi Restaurant dove uramaki, nigiri, sashimi o gunkan sono proposti con ingredienti nuovi, tra gli altri gli uramaki hot salmon (roll di riso ricoperto con salmone flambè con tartare di salmone, maionese della casa, cipolline) o il vegetariano con avocado, mango e alghe con salsa di mango e granella di pistacchi. Ma ci sono anche carpacci come quello di manzo e uova di quaglia, oppure la tartare di gambero rosso di Mazara con fondo di avocado in salsa di tartare, o ancora carni o pesce alla griglia. Pane e pasta di vari tipi sono fatti in casa dalla brigata di cucina.

One night in Beijing - Firenze - Via Il Prato, 14/r- 055 260 8885- http://www.onenightinbeijing.it/index.html

 

Salaam Bombay

Il benvenuto contenuto nel nome del locale è rivolto a chi ha voglia di immergersi in un’esperienza per scoprire la cultura culinaria di un Paese immenso, un vero e proprio continente, con sapori, tradizioni, religioni, dialetti diversi. A poca distanza dalla stazione di Santa Maria Novella, sui viali circondari, il ristorante offre un’ampia selezione dei piatti della cucina indiana: non solo riso, curry e chutney, ma un insieme di diverse preparazioni e innumerevoli ingredienti che quasi sempre tiene fede a caratteristiche quali la semplicità e l’equilibrio. Così, una pietanza un po' pesante sarà sempre attenuata da una base acida, digestiva, sotto forma di pomodori, aceto o limone. Fondamentali i mix di spezie, mentre per noi insolito è l’uso della frutta: il fico, per esempio, è considerato come una verdura; il mango e la papaya sono cotti come delle verdure; la castagna d'acqua si sgranocchia come una caramella e i semi di anguria sono un antipasto. Interessante la proposta di piatti tandoori. Servizio anche a domicilio.

Salaam Bombay - Firenze - Viale Fratelli Rosselli, 45r - 320 283 4587- http://www.salaambombay.it/

 

Tehran

A due passi da Palazzo Vecchio ecco un piccolo ristorante con volte a mattoni e pareti cariche di foto che propone cucina persiana nella sua veste più tradizionale, con qualche pietanza per iniziare il pasto per poi passare a una serie di piatti unici più consistenti, accompagnati da riso basmati. Si può iniziare così col kuku sabzi, sformatino/frittata a base di uova, verdure tritate, erbe aromatiche e noci; o con un mazè, sempre a base di verdure, combinate in diversa maniera con lo yogurt; o con un involtino di foglie di vite ripieno di riso, carne, legumi. Tra i piatti forti i celo (cengè, bademjan o giuge, con carne di manzo i primi due, di pollo l’ultimo), in cui la cottura alla griglia segue la marinatura, altri piatti di carne e alcuni vegetariani. I sapori si alternano piuttosto bene, non virano mai sul piccante e ben si accompagnano con il dugh, una bevanda composta da yogurt allungato con acqua, mescolato con sale e erbe aromatiche, più o meno frizzante a seconda del grado di fermentazione. Per finire gelatina di melograno e pistacchi; o il rosaifi, gelato crema di panna, essenza di rose e pistacchi. Prezzi contenuti.

Tehran – Firenze - Via dei Cerchi, 25r - 055 094 5695

 

Thai Firenze

Un nuovo tentativo di proporre la cucina tailandese in città arriva ad opera di alcuni ragazzi fiorentini, che hanno scelto la zona tra Statuto e Careggi per dare corpo al loro progetto: un locale in cui prevalgono il legno e le stuoie con una saletta riservata in cui si può cenare seduti sui cuscini. La ricca selezione di piatti consente una bella esperienza sensoriale tra aromi e sapori del lontano Oriente. Si può scegliere tra antipasti, zuppe, insalate di vari tipi o cadere nelle scelte più classiche, come Tom Yam Seafood, la zuppa con gamberi, scalogno, succo di lime e peperoncino; green currycon pollo nel latte di cocco, spezie e verdure; il manzo al Massaman,una delle ricette più antiche. Più recenti sono piatti come il pad thai, con tagliatelle di riso saltate con verdure e gamberi o la versione khaocon riso. Ad accompagnare i piatti, birre tailandesi e qualche corretta proposta di vini italiani.

Thai Firenze – Firenze - via Gian Domenico Romagnosi, 7R - 334 9872680

 

 

a cura di Leonardo Romanelli

Marco Felluga. L'elogio al Pinot Bianco

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Nel nuovo numero del mensile del Gambero Rosso abbiamo intervistato Marco Felluga, che dall'alto dei suoi 90 anni e delle 60 vendemmie è considerato da tutti il papà del Collio.

Dall'alto dei suoi 90 anni e delle 60 vendemmie Marco Felluga è il papà del Collio e dei grandi bianchi friulani. Ha speso la vita con passione per promuovere le potenzialità vinicole del suo territorio. E ancora indica una strada: dare il giusto peso al Pinot Bianco, grande espressione di questa terra.

La storia di Marco Felluga

In tutti questi anni di lavoro mi sono tanto divertito”. E non ha mai smesso di fare del proprio meglio al fine di promuovere la doc Collio, le potenzialità di questo territorio, la longevità dei grandi bianchi italiani. Perché se Bordeaux sta alla Toscana per i grandi rossi, il Friuli (e in particolare il Collio) ben si difende con i suoi bianchi rispetto alla tecnologia enologica tedesca e punta a competere nel mondo con i suoi vini che – in base alla classificazione del Collio datata 1787 – erano ritenuti già preziosi dall’Impero asburgico “in ragione della loro bontà”. Marco Felluga, ai suoi primi 90 anni (celebrati con un libro firmato da Walter Filipputti: “Una storia di intuizioni”), non sente la stanchezza del tempo passato, semmai la nostalgia degli eventi trascorsi troppo velocemente: “In tutti questi anni ho sempre cercato di portare avanti un discorso coerente di territorio, di promozione e identitario. Grazie anche allo spirito consortile è stato possibile unire le forze dei singoli produttori e rafforzare l'immagine stessa del Collio. Ma nel nostro lavoro non si arriva mai, perché ogni anno ci sono nuovi progetti e bisogna cercare di fare sempre vini più buoni”. Così afferma Marco, uomo visionario, arguto, un personaggio di estrema sensibilità. Il rapporto con il vino è nel dna della famiglia Felluga da oltre cent'anni. Giovanni, papà di Marco, inizia a produrre vino in Istria per poi trasferirsi a Grado negli anni Venti per vendere Refosco e Malvasia. Da lì di nuovo in viaggio, la famiglia arriva a Gradisca d'Isonzo, nel Collio, dove scopre un territorio unico, speciale: è la prima zona in Italia a ottenere il riconoscimento della doc e nel 1964 ad avere un Consorzio di Produttori. La famiglia resta unita fino al 1956, anno in cui Marco si separa da suo fratello Livio, classe 1914, mancato nel 2016 a 102 anni (altro patriarca del vino friulano). È nel Collio, terra di confine e crocevia di popoli e culture, che Marco Felluga crea nel 1956 l'azienda che porta il suo nome a Gradisca d’Isonzo e nel 1967 acquista la tenuta Russiz Superiore che si distingue per l’emblema dei principi di Torre Tasso, a Capriva del Friuli. Il simbolo del Leone va sulle etichette dei vini, in ricordo del legame tra la Serenissima e il Collio Goriziano.

Vigneti nel Collio friulano

Il Collio

La fascia collinare del Collio si articola in una forma a ferro di cavallo” – dice Alessandro Sandrin, enologo di Marco Felluga dal 2012 – “Comprende le colline della provincia di Gorizia, tra i fiumi Isonzo e Judrio, e va da Dolegna fino a San Mauro. Noi siamo proprio nella parte centrale. Nel sottosuolo, al centro dei vigneti di Russiz Superiore, è stata scoperta un'antica barriera corallina che continua a dare la caratteristica salinità ai vini e a restituire anche tantissimi reperti fossili. Qui il terreno è caratterizzato dalla stratificazione di marna e arenaria che in friulano chiamano ponca, sarebbe il cosiddetto flysch: è un terreno particolare che incamera acqua e garantisce una buona riserva idrica per tutto il periodo della vendemmia”.

Marco lavora alla costruzione prima del Consorzio Collio, poi si adopera a ottenere l'agognata doc che arriva nel 1968; nel 1970 comincia a spingere per trasformare il Collio in una zona d'elezione per i grandi vini bianchi italiani. “Per questo ho cercato di comunicare le mie idee anche con scelte più audaci. Ricordo l'incontro con Oliviero Toscani con cui cercammo di rivoluzionare l’immagine dei vini del Collio Goriziano utilizzando una foto dirompente: una bellissima modella di colore stringeva al seno nudo una bottiglia di vino; sullo sfondo la scritta “l’unico bianco che amo è il bianco più buono del mondo”. Arrivarono le critiche e togliemmo la foto di mezzo. L'azione di immagine finì lì, ma fu un grande dispiacere. Vedevo più produttori disposti a spendere soldi per la propria cantina piuttosto che a comunicare il proprio lavoro. Ma se tu non fai conoscere il tuo prodotto, nessuno saprà quello che fai e che cosa sei”, si infervora Marco.

Marco e Roberto FellugaMarco e Roberto Felluga

Come lavora l'azienda

Sono 60 le vendemmie che ha alle spalle Marco Felluga. Da oltre vent’anni è affiancato dal figlio Roberto: a lui il ruolo di buon custode della tradizione nell’estremo rispetto del territorio e del gusto. “L'azienda non ha una certificazione biologica, ma operiamo come se l'avessimo”– spiega Alessandro – “Utilizziamo ad esempio il letame per fertilizzare il terreno, a riprova che la tradizione agricola ben si sposa con le nuove tecniche enologiche. L'80% dell'intera produzione si concentra sulla valorizzazione dei vitigni bianchi come friulano, ribolla gialla, pinot bianco o sauvignon: tutti perfetti da bere giovani, ma molto interessanti se lasciati affinare per alcuni anni. Sono tutte uve figlie delle selezioni massali realizzate da Marco, che permettono di preservare il patrimonio genetico delle migliori uve autoctone friulane”. E poi c’è Roberto che ha ereditato questo patrimonio vitivinicolo e con esso l’impegno di difenderlo, di non cedere all'omologazione del gusto. Ma anche quello di aggregare più aziende italiane con l'obiettivo di affrontare insieme i mercati esteri con le loro etichette diverse per territorio, storia e cultura, ma sempre attente alla qualità elevata e al rispetto dell’ambiente.

Botti di Russiz Superiore

Il Consorzio delle famiglie del Vino e i progetti futuri

Insieme ad altre 13 aziende abbiamo creato il Consorzio delle famiglie del Vino con l'obiettivo di far emergere la qualità dei nostri prodotti all'estero e raccogliere in modo sinergico la sfida dei mercati internazionali”– sorride Marco – “Le mie aziende esportano attualmente il 40% in 50 paesi nel mondo. Tra i nuovi progetti c’è quello di porre ancora più attenzione all'ambiente: la sostenibilità, il rispetto per la natura e la valorizzazione delle peculiarità del territorio non sono nuovi trend, sono da sempre parte della nostra filosofia di vita. Il mercato oggi non chiede solo vino buono, ma un prodotto che sia in armonia con l'ambiente. È per questo che entrambe le aziende si trovano a essere capogruppo di un progetto legato alla viticoltura sostenibile che ha tra gli obiettivi quello di diffondere e applicare i principi della sostenibilità e rafforzare l'immagine del settore vitivinicolo friulano”. E se Marco rappresenta la storia e Roberto il presente, sarà Ilaria, la figlia di Roberto, a traghettare questo impero verso il futuro. Anche se Marco di cose da dire ne ha ancora un certo numero. “Mi è rimasto un unico rimpianto, un progetto che spero gli altri porteranno in avanti: far conoscere meglio le grandi potenzialità di uno dei vitigni autoctoni del Collio, il pinot bianco. Fornisce un vino prezioso e profumato che ancora non ha trovato il posto che merita sul mercato, soffocato dal muro mediatico e dalla moda internazionale del pinot grigio. Sarebbe bene che i produttori si impegnino per fargli avere il giusto spazio, la visibilità che merita”. A testimoniarlo, nel numero di febbraio del Gambero Rosso, c'è una verticale di sei annate di Pinot Bianco di Russiz Superiore.

 

a cura di Stefania Annese

foto di Tiziano Scaffai

 

QUESTO È NULLA...

Nel numero di febbraio del Gambero Rosso, un'edizione tutta nuova in questi giorni in edicola, trovate un servizio di 8 pagine dedicato al Collio,che include una verticale di sei annate di Pinot Bianco di Russiz Superiore, gli indirizzi preferiti, con mappa inclusa, di Marco Felluga (Un'anticipazione? L'Argine a Vencò c'è!) e un bellissimo racconto di Nicola Ravera Rafele.

Il numero lo potete trovare in edicola o in versione digitale, su App Store o Play Store

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Perù: Virgilio Martinez apre Mil. Il ristorante a 3500 metri d'altezza con vista sulle rovine Inca

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Dopo anni di lavoro nel centro di ricerca di Cusco, dove ha sede la fondazione Mater Iniciativa, Virgilio Martinez apre al pubblico un nuovo ristorante per raccontare la cucina ancestrale della Ande. E proprio sulle vette andine, nei pressi dello scenografico parco archeologico di Moray, Mil prende forma per servire un'esperienza gastronomica estrema. 

Il ristorante sulle Ande

Il prossimo 27 febbraio, Virgilio Martinez presenterà al mondo Mil, il suo nuovo ristorante. Semplice riassumerla così, senza considerare quella che sarà la peculiarità endemica (il termine non è casuale) di Mil, e cioè il suo legame intrinseco col territorio che lo circonda, nei pressi delle rovine Inca di Moray, a 3500 metri sul livello del mare, 74 km dalla città di Cusco, dove da tempo opera il centro di ricerca Mater Iniciativa, fondato dallo chef per alimentare la catalogazione dei prodotti commestibili peruviani. Tutt'altro panorama rispetto al brulicare delle strade di Lima e al suo fermento da capitale (anche gastronomica) del Perù. Pur stabilendo il suo quartier generale in città, al Central (nel 2017 ha traslocato nel quartiere di Barranco), Martinez non ha mai smesso di interpretare il ruolo di ambasciatore della biodiversità peruviana tout court, con studi sempre più mirati a riscoprire prodotti dimenticati e specie vegetali commestibili, attingendo alla grande varietà microclimatica e ambientale di un Paese che riunisce oceano e foresta pluviale, grandi vette e laghi d'altura. E approntando un percorso gastronomico che proprio per fasce d'altitudine racconta la ricchezza della cultura gastronomica nazionale. La cucina di Mil, invece, sarà cassa di risonanza di un territorio sconosciuto ai più, fin quasi ostile per le difficoltà logistiche da superare per raggiungere il ristorante: prodotti delle Ande e tecniche del passato, recuperate presso le comunità locali.

 

Tecniche ancestrali e prodotti d'altura

E Martinez ci tiene a ribadirlo sin dalle premesse: “Parleremo dell'ignoto, e lo faremo in modo estremo”. Quasi a mettere in guardia chi pensasse di trovare l'ennesima tavola gourmet, con l'unico accorgimento di riscoprirla trapiantata tra le montagne. Mil non sarà niente di tutto questo: focalizzato sulla ricerca, racconterà la cucina ancestrale delle Ande. Punto di contatto con la proposta del Central sarà invece l'idea di articolare il menu in base all'altitudine d'origine degli ingredienti utilizzati, con una differenza sostanziale nella definizione del range d'indagine, limitato ai prodotti in grado di crescere sulle vette andine, ad altitudini decisamente estreme per molte specie vegetali. Quindi il pesce arriverà solo dai laghi di montagna, le pietanze di carne verteranno su maiali allevati in altura e alpaca, molti saranno i tuberi e le radici, o i cereali coltivati dalle popolazioni andine (nei due ettari di terreno a disposizione del team), che del resto hanno sempre foraggiato la cucina di Martinez. Da bere, in abbinamento con ogni portata, drink a base di frutta, peperoncini e fermentati di grano andini (come la chicha, servita anche liscia), vini prodotti in altitudine, un paio di birre prodotte da microbirrifici andini e alcune bevande alcoliche prodotte dal legno.

 

Il menu. Alpaca, alghe di lago, fiori andini

Tra i piatti anticipati da Eater, alpaca brasato cotto nel suo grasso con patate disidratate, alghe di lago e quinoa nera da mangiare con le mani, condividendola con gli altri commensali; o pancia di maiale cotta in forno a legna con legumi e fiori andini. Ma anche tuberi e patate cotti nel tradizionale forno huatia, all'aria aperta, e poi conditi con miele, cacao fresco, semi, un dolce servito durante le cerimonie locali. E, non per caso, il pasto principale della giornata sarà il pranzo, per permettere ai commensali di apprezzare il panorama circostante, dalle finestre affacciate sulle rovine del sito archeologico, da cui l'edificio – una sessantina di coperti in tutto, perfettamente integrato nella natura, con corte interna e copertura in paglia – dista poche centinaia di metri: “Non semplicemente un ristorante” conferma lo chef “ma un laboratorio che si concentra sulla cultura del Perù, la sua identità e il legame profondo con i prodotti della terra”. Il menu, sette portate con abbinamento, sarà proposto a circa 115 euro.

E quando mancano solo pochi giorni all'pertura di Mil, prevista per il 27 febbraio, Martinez fa già sapere di avere in programma altre sorprese: a giugno, gli sforzi saranno nuovamente concentrati su Lima, dove si lavora sul completamento di Kjolle, l'altra insegna che in estate chiuderà il cerchio. Prima, però, Virgilio sarà in Italia, ospite, ancora una volta, sul palco di Identità Golose (dal 3 al 5 marzo, a Milano).

 

a cura di Livia Montagnoli

 

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