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Fichi d'India: il libro della FAO per promuovere la coltivazione della pianta

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Originario del Messico ma naturalizzato in tutto il bacino del Mediterraneo, il fico d'India è uno dei frutti più apprezzati da grandi e piccini. E una preziosa risorsa per il territorio e la nostra salute. A confermarlo, la FAO, che per tutelare il prodotto ha lanciato un libro informativo sulla pianta.

Il fico d'India: storia e proprietà

Gli Atzechi lo chiamavano nopalli e lo consideravano un frutto sacro: il fico d'India è uno dei prodotti più antichi della storia dell'uomo, nato sull'altopiano del Messico ma diffusosi in breve tempo in tutte le civiltà affacciate sul Mediterraneo. Il nome stesso, infatti, secondo la leggenda, sembra essere derivato dall'italiano Cristoforo Colombo che, credendo di essere approdato in India, fu fra i primi europei ad assaggiare il frutto, ribattezzandolo con il nome con cui ancora oggi è conosciuto. Spazi aridi, terreni vulcanici, fra i tre e cinque metri di altezza e un tronco senza rami: sono queste le caratteristiche della pianta, presente in diverse tipologie e forme, e diffusa soprattutto nel Sud Italia. La polpa può essere di diversi colori, dal giallo (Sulfarina) al bianco (Muscaredda) fino ad arrivare al rosso (Sanguigna), e queste tre tipologie si trovano distribuite un po' ovunque su tutto il territorio. Nella tradizione contadina più antica della pianta non si butta via niente, e anzi, ne vengono utilizzate diverse parti: le pale, private di spine, venivano infatti usate in passato per “conzare” (condire) le insalate, oppure tagliate a metà e infornate, consumate poi per curare diversi malanni come le tonsilliti o la febbre. I fiori, invece, hanno proprietà diuretiche, e ancora oggi sono disponibili presso diverse erboristerie, da utilizzare per infusi e tisane. I frutti sono la parte più gustosa e ricca di proprietà nutraceutiche, a cominciare dal potassio, magnesio, calcio, fosforo, senza dimenticare le vitamine A e C.

Il fico d'India in Sicilia

In particolare, il fico d'India è uno dei simboli della Sicilia, al punto che spesso si ritrova a fare da contorno a cartoline e quadri rappresentativi dell'isola. Nella regione, sono ben 4000 gli ettari dedicati alla coltivazione della pianta, così profondamente radicata nella cultura gastronomica dell'isola che l'estate scorsa ha portato alla nascita di una nuova realtà di tutela e promozione di questo frutto, il Distretto Produttivo del Ficodindia di Sicilia, una squadra di professionisti del settore che si propone di valorizzare al massimo la produzione e il consumo del fico d'India siciliano. Con l'obiettivo di fare rete fra i quattro maggiori poli produttivi delle zone di Santa Maria del Belice, Roccapalumba, San Cono e Belpasso, in modo da creare le giuste sinergie per essere quanto più competitivi possibile sul mercato regionale e nazionale.

Il progetto della FAO

Il frutto rappresenta, dunque, una risorsa importante per la nostra salute, ma anche per l'alimentazione e il foraggio del bestiame nelle zone aride, in Sicilia e non solo. Per questo, la FAO ha riunito esperti del settore per condividere le proprie conoscenze nel tentativo di aiutare gli agricoltori e i responsabili politici a fare un uso più strategico ed efficiente di questa specialità naturale spesso dimenticata. Inoltre, per diffondere le tecniche agronomiche, la FAO e l'ICARDA ( Centro internazionale per la ricerca agricola nelle aree aride) hanno lanciato lo studio Crop Ecology, Cultivation and Uses of Cactus Pear, un libro con informazioni aggiornate sulle risorse genetiche della pianta, sui suoi tratti fisiologici, su quali suoli preferisce e sulla vulnerabilità ai parassiti. Il volume offre anche suggerimenti su come sfruttare le qualità culinarie della pianta, com'è stato fatto per secoli in Messico. "I cambiamenti climatici e i crescenti rischi di siccità sono motivi validi per aggiornare gli umili cactus allo stato di raccolti essenziali in molte aree", ha affermato Hans Dreyer, Direttore della Divisione Produzione e Protezione delle Piante della FAO. Non solo: la presenza di cactus può contribuire anche al miglioramento del suolo, agevolando così la crescita di altre piante. Come si legge nel libro, infatti, in Tunisia, per esempio, i raccolti di orzo sono aumentati notevolmente da quando il fico d'India viene coltivato nello stesso appezzamento di terra.

Il fico d'India contro la siccità

In particolare, la pianta può rivelarsi un valido alleato per combattere l'annosa questione della siccità. Durante le recenti problematiche nel sud del Madagascar, infatti, il cactus si è rivelato una fonte cruciale di cibo, foraggio e acqua per la popolazione locale e gli animali. La stessa zona aveva sofferto inoltre di una grave carestia anche e soprattutto in seguito allo sradicamento della pianta, che alcuni consideravano una specie invasiva, ma che è stata poi prontamente reintrodotta. Il fico d'India, poi, può diventare parte integrante di sistemi agricoli e zootecnici sostenibili, che strizzano l'occhio all'alimentazione sana e soprattutto al mondo del biologico, nel pieno rispetto del territorio.

a cura di Michela Becchi


Colazioni del mondo. Brasile: açai bowl, bolo de fubà, pão de queijo, frutta tropicale

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Profumi esotici, frutti dolci e succosi ma anche sapori più netti e decisi, come quello del formaggio a latte crudo. La giornata in Brasile comincia con una tavola colorata e gustosa: ecco le specialità tipiche della prima colazione.

La colazione in Brasile

Mai come nel caso del Brasile, la gastronomia locale rappresenta il risultato di una serie di contaminazioni diverse che sono andate a sovrapporsi fra loro nel corso dei secoli. La cucina tradizionale, infatti, è il frutto di tre culture: quella dei colonizzatori portoghesi (ancora predominante nella pasticceria), quella delle genti africane deportate per secoli (la più amata a livello popolare) e quella autotocna degli indios, recentemente recuperata e rivisitata in chiave contemporanea. Un Paese vasto che, come sempre in questi casi, mantiene ben definite le sue tante identità regionali. Quella del Nord-Est, per esempio, presenta una cucina basata su crostacei (granchi e gamberetti), pesce e carne secca, mentre quella bahiana, tutta latte di cocco e olio di palma, contempla una tavola più ricca e golosa, c'è poi la zona del Minas Gerais con i suoi piatti di pollo e maiale, ma la gastronomia più suggestiva resta quella amazzonica, ricca degli incredibili prodotti locali, fatta di sapori autentici e dal gusto antico. Ma cosa si mangia al mattino? Frutta esotica, dalla papaya al cocco, dalla maracuja all'açai, ma anche torte di mais, panini al formaggio, salumi e sorbetti di frutta.

Açai: il superfood brasiliano

Fra i tanti frutti, è l'açai quello che meglio rappresenta l'unicità agroalimentare brasiliana e la biodiversità del Paese. Si tratta di una bacca di colore blu-nero simile al mirtillo, diffusa nella regione dell’estuario del Rio delle Amazzoni. Ricco di proprietà nutraceutiche, l'açai è considerato un superfood per il suo elevato contenuto di antiossidanti, acidi grassi monoinsaturi (in particolare di acido oleico e palmitoleico), acidi grassi non sintetizzabili dall’organismo e precursori della vitamina A. Secondo alcuni studi scientifici condotti presso l'Università Federale di Rio de Janeiro, l'estratto ricavato dalle bacche di açai è efficace percombattere i germi che minacciano il nostro organismo, e anche per ridurre gli effetti negativi di una dieta scorretta. Ricco di fibre vegetali, il frutto presenta anche proprietà anti-infiammatorie che contribuiscono a supportare il sistema immunitario e a prevenire le reazioni allergiche.

 

acai

Açai bowl: il sorbetto per una colazione ricca e nutriente

Le bacche vengono consumate spesso fresche, accompagnate da yogurt, cereali, o come finale di una colazione salata a base di pane, salumi e formaggi. Il modo più popolare e creativo di mangiarle, però, è l'açai bowl (açaí na tigela in brasiliano), ovvero una sorta di sorbetto a base di frutta arricchito con cereali e banane. Per realizzarlo, occorre frullare la polpa di açai congelata insieme a banane, mirtilli o altri frutti locali, e qualche cucchiaio di latte di mandorla, cocco oppure yogurt, e miele a piacere per dolcificare. Il risultato è una sorta di sorbetto, simile alla granita siciliana, denso e corposo, di colore viola scuro e dal gusto intenso, fortemente aromatico e fresco, da arricchire con fettine di banane, bacche di açai fresche e granola, un agglomerato di frutta disidratata, frutta secca e cereali tostati.

 

Acai bowl

La storia: il piatto degli atleti

Questo piatto è divenuto in breve tempo conosciuto e apprezzato anche negli Stati Uniti, grazie alla popolarità conferitagli dagli hawaini che, scoperta la ricetta, decisero di adottare questa specialità come dolce nazionale, rendendolo noto ai tanti turisti in visita dagli States. La storia della ciotola di frutta colorata, però, è indissolubilmente legata alla cultura amazzonica. Secondo la vulgata popolare, nasce per opera di una famiglia di professionisti delle arti marziali – popolarissime in Sud America – che introdusse la purea di açai nella propria dieta. Da allora, l'açai iniziò a fare capolino fra i menu degli atleti di Rio, dove veniva proposto come piccola concessione dolce alla fine dei pasti, accompagnato da gelato, sorbetto, granola e frutta, per un apporto energetico adeguato a chi pratica sport a livello agonistico.

Bolo de fubà, la torta delle festas juninas

Esiste una grande varietà di dolci in Brasile e spesso sono arricchiti di frutta, soprattutto cocco fresco o disidratato, solitamente usato in abbinamento al cioccolato o al cacao, un'altra grande eccellenza di questa terra rigogliosa. Fra le varie prelibatezze, però, la più consumata durante la prima colazione è un dolce molto semplice, il bolo de fubà, una torta di farina di mais soffice e profumata, da gustare in purezza oppure accompagnata con frutta o confetture. In origine veniva preparata in occasione delle festas juninas, le tipiche celebrazioni di metà estate per festeggiare la raccolta di mais, e onorare Sant'Antonio e San Giovanni. Giornate scandite da musica, spettacoli e naturalmente tanto cibo, quando la festa riempie le strade brasiliane, dove inizia a spargersi l'aroma fragrante della farina di mais, burro, latte e vaniglia che compongono il bolo de fubà.

 

bolo de fuba

Pao de quijo: la manioca e il formaggio di Minas Gerais

Non mancano, poi, proposte salate. Pane, affettati e formaggi vanno per la maggiore, ma durante il fine settimana e nelle occasioni di festa, quando il tempo per dedicarsi alla cucina è maggiore, è il pao de queijo a farla da padrone, un piccolo panino croccante all'esterno e soffice all'interno, con un cuore di formaggio morbido e filante. Alla base dell'impasto, farina di tapioca, amido del tubero della manioca - pianta tipica dell'America Latina - uova, sale e latte. La farcia è a base di queijo de minas (o queijo minas), un formaggio fresco prodotto con latte bovino crudo, originario del Portogallo e diffuso attorno alla metà del Settecento nella regione di Minas Gerais, a cui deve il nome. Consumato anche in purezza per la prima colazione, il formaggio è spesso utilizzato nella preparazione di torte e soufflé, grazie alla sua consistenza cremosa che lo rende adatto anche per le ricette dolci.

 

manioca

Il pane degli schiavi

L'origine di questo si fa risalire al Settecento, durante la colonizzazione della regione centrale del Paese, quando i colonizzatori, date le difficoltà di importazione di prodotti dall'estero - farina di granoturco in primis - hanno iniziato a sperimentare con ingredienti locali, fra cui la manioca. Come la mandorla amara, però, questo tubero contiene una parte di cianuro, e il processo per renderlo commestibile è lungo e laborioso. Una volta sbucciata, grattugiata, immersa nell'acqua e fatta asciugare, la manioca rilascia una sorta di polvere edibile. È proprio questa farina di scarto che gli schiavi affamati del XVIII secolo iniziano a raschiare dalle ciotole per cercare una nuova forma di sostentamento in grado di rifocillarli dopo il duro lavoro. Nascono allora le prime palline di farina di tapioca e acqua cotte su fuoco, panetti a cui successivamente, dopo la fine della schiavitù nel 1888, venne aggiunto il queijo de minas, come simbolo di abbondanza e libertà.

 

Pao de queijo

Frutta tropicale: la ricca biodiversità del Brasile

Che sia dolce o salata, sulla tavola della colazione in Brasile non può mancare la frutta, uno dei prodotti più apprezzati ed esportati in tutto il mondo, molto spesso sotto forma di polpa congelata. Citare tutte le specialità ortofrutticole locali è impossibile, ma non si possono non menzionare prelibatezze uniche come il mango, nativo dell’India orientale e della Birmania e diffuso nei secoli scorsi nelle zone tropicali di altri continenti, principalmente grazie ai portoghesi che lo hanno introdotto dapprima nell’Africa occidentale e poi in Brasile, o la papaya, ricca di vitamine C, E, A, e della papaina, enzima dalla potente azione coadiuvante della digestione. O ancora la maracuja, detta anche “frutto della passione”, disponibile nella versione gialla oppure color porpora, (quest'ultima originaria del Sud del Brasile), spessissimo utilizzata nei cocktail. E poi ananas, cocco, açai, lime, goiaba, frutto del Messico meridionale molto coltivato anche in Brasile, e l'acerola, dal colore rosso acceso e il gusto acidulo, tipico della parte nord orientale del Paese. La lista continua, fra sapori e profumi ricchi e persistenti, colori vivaci e sensazioni aromatiche dal carattere deciso. Un modo per consumarli? Freschi, tagliati a fettine, come accompagnamento di yogurt, pane o torte dal gusto delicato, oppure frullate, in sorbetti (come l'açai bowl), granite, gelati, smoothie e bevande gustose e ricche di proprietà benefiche. Per una colazione sana che non rinuncia al gusto.

 

acerola

La ricetta: Bolo de fubà di Lorenza Barletta e Ludovica Frigieri

Ingredienti

3 uova

100 g. di burro

200 g. di farina 00

250 g. di farina di mais

300 ml. di latte intero

2 cucchiaini di lievito

100 g. di zucchero

zucchero a velo q. b.

Montare gli albumi a neve e mettere da parte. Sbattere i tuorli con il burro a temperatura ambiente e lo zucchero, fino a ottenere una crema. Aggiungere le due farine e il lievito, alternandole al latte, continuando a mescolare. Infine aggiungere gli albumi, facendo attenzione a non smontare l'impasto. Imburrare e infarinare una teglia da ciambella, scaldare il forno a 200°C e cuocere per 40 minuti. Quando il bolo sarà pronto e tiepido, spolverizzare con dello zucchero a velo e guarnire a piacere.

a cura di Michela Becchi

Colazioni del mondo. Francia: croissant, madeleine, crêpes

Colazioni del mondo. India: naan, upma, puttu, masala chai

Colazioni del mondo. Regno Unito: English breakfast, porridge, muffin inglesi

Colazioni del mondo. Stati Uniti: cereali, pancakes, doughnuts, bagel, French Toast

Lotta allo spreco con 500mila euro del Mipaaf. I 10 progetti premiati: focus sul packaging intelligente

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Premia 10 progetti innovativi il bando promosso dal Mipaaf l'estate scorsa per contrastare lo spreco alimentare. Per ognuno 50mila euro di finanziamento. Spazio a packaging intelligenti, progetti di trasformazione degli scarti, software di gestione. 

500mila euro da destinare alla lotta contro lo spreco alimentare. Con questo budget a disposizione, l'estate scorsa, il Mipaaf lanciava il bando destinato a promuovere progetti innovativi e concreti per contrastare un'emergenza sempre attuale. Dotata finalmente di un sistema normativo all'avanguardia (e pionieristico) che a più di un anno dall'entrata in vigore sta raccogliendo buoni frutti grazie alla sua impostazione premiale, che incentiva le donazioni, l'Italia si mostra coesa davanti all'urgenza di limitare una piaga che accomuna tutti i Paesi del mondo. E l'iniziativa del Mipaaf si orientava proprio nella direzione di stimolare la partecipazione collettiva, sollecitando i progetti di solidarietà sociale, sviluppo tecnologico, gestione intelligente delle risorse. Con un unico obiettivo: ridurre lo spreco e redistribuire le risorse alimentari. Per le proposte più convincenti 50mila euro a disposizione attinte dal tesoretto di 500mila euro stanziato per l'operazione.

A distanza di qualche mese, il 2018 si apre con i nomi dei vincitori del bando, che “è stato un successo, con tantissime candidature ricevute nel giro di poche settimane” esulta Maurizio Martina. 10 i progetti premiati, “tutti dal forte taglio innovativo per contribuire a centrare l'obiettivo di recuperare 1 milione di tonnellate di cibo a favore dei più bisognosi. Abbiamo un modello di lavoro che ci rende unici in Europa e che punta ad incentivare e semplificare il recupero più che a punire chi spreca. Questo bando è la conferma del nostro approccio positivo anche per combattere lo spreco casalingo, che rappresenta oltre il 50% del totale. In questo senso lo studio di nuovi packaging intelligenti è cruciale" conclude il ministro. Ecco allora chi potrà contribuire alla causa con il finanziamento del Mipaaf.

 

Recover: Il Cnr di Nanotecnologia presenta una soluzione per riutilizzare gli scarti ittici industriali (gusci di cozze e vongole, scaglie e lische di pesce) nella produzione di materiali biomedicali a base di calcio fosfato.

 

Shelfie: Una piattaforma software che ottimizza la gestione delle eccedenze favorendo l'interazione tra consumatori, aziende, strutture caritative, ristoranti. In concreto il sistema gestisce offerte e promozioni su prodotti invenduti e piatti pronti inutilizzati.

 

NetFood: Ancora un sistema di gestione informatizzato lungo la filiera impresa-soggetto donatario-utente finale, a cura di Onlus.

 

Scarto Bene: Una piattaforma di selezione delle donazioni di aziende agricole, ortomercati, Gdo e Op da destinare a enti di beneficenza o a coltivatori, per il consumo animale, la produzione di energia, la distribuzione a famiglie bisognose.

 

Food Packaging: Produzione di imballaggi di tipo edibile o biodegradabile sviluppati dall'Università di Modena e Reggio Emilia.

 

Food Packaging: Il progetto dell'Università di Napoli Federico II si propone di produrre imballaggi edibili e a ridotto impatto ambientale con conservanti naturali che aumentino la shelf-life di prodotti alimentari.

 

Bio-conversione di scarti di acciuga: Produzione di idrolizzanti proteici derivanti dagli scarti della lavorazione dell'acciuga, aventi attività antiossidante, anti-ipertensiva ed ipocolesterolemizzante su progetto dell'Università di Messina.

 

Da scarto a risorsa: Riutilizzare gli scarti di mele e patate per usi alternativi, dall'alimentazione animale al compostaggio, alla distilleria: è il progetto della Scuola superiore di studi Sant'Anna.

 

Packaging attivi e intelligenti: Il progetto prevede di estendere la shelf-life dei prodotti ortofrutticoli ed informare il consumatore sul grado di maturazione della frutta attraverso l'impiego di imballaggi intelligenti e attivi.

 

Trasformazione delle eccedenze ortofrutticole: Italmercati, con gli operatori aderenti, mediante la realizzazione in loco di un laboratorio di trasformazione e confezionamento, gestito da un'organizzazione no profit, destinerà i prodotti recuperati a persone in difficoltà, monitorando le eccedenze disponibili e valorizzandone l'utilizzo sia come prodotto fresco che trasformato.

 

a cura di Livia Montagnoli

1968-1977: i 10 anni in cui è nata la cucina italiana moderna

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Prendi un periodo storico peculiare, tra le contestazioni del 1968 e quel 1977 che vide Gualtiero Marchesi aprire il suo ristorante a Milano. Analizza questo decennio, parla con i protagonisti di allora, senti i giovani chef di oggi ... E scopri che proprio in quegli anni si è formata la vera identità (oggi più solida che mai) della cucina italiana contemporanea

1968-1977: il decennio che ha creato la ristorazione italiana

Il superamento (senza sciocche rottamazioni anzi gradualmente e con infinito rispetto) di una certa cucina aristocratica e di corte, la nascita del concetto stesso di brigata, l’attenzione e la ricerca delle materie prime, l’invenzione di una cucina da ristoranteche non fosse solamente una cucina da casa rielaborata verso il lusso, l’idea della pasticceria e dello chef pasticcere, un rapporto di attenzione ma non di sudditanza con la Francia, l’esigenza a un certo punto di fare i piatti al momento e non di riscaldarli dopo l’ordine del cliente. Tanti dettagli e tanti passaggi che oggi ci appaiono assolutamente scontati, impostazioni che ci sembrano così da sempre. Non è così. Molti di questi modelli sono nati nel decennio che intercorre tra il 1968 e il 1977.

Abbiamo scelto questo intervallo di tempo (tra la contestazione del Sessantotto da un lato e l’apertura a Milano del ristorante di Gualtiero Marchesi dall’altro) con l’obiettivo di analizzarlo, di approfondirlo, di chiedere ai protagonisti che guardano con fascino, studio e attenzione a un momento storico peculiare. Un momento storico in cui nasceva la grande cucina internazionale francese contemporanea, così deflagrante da oscurare qualsiasi altra cosa. Ma un momento storico durante il quale probabilmente si andava definendo l’identità della cucina italiana attuale. 

Il San Domenico di Imola

La storia sarà lunga e piena di protagonisti, ma non può che iniziare con lui: chef Valentino Marcattilii. Il ‘68? Per me erano le bastonate che prendevo dai più grandi davanti ai cancelli di scuola! Certo, erano anni di grande movimento, di passione...”. Marcattilii, classe 1954, era un ragazzo quando agli inizi degli anni ’70 viene chiamato al ristorante San Domenico di Imola: lui lavorava dietro al bancone del bar a poca distanza, mentre suo fratello Natale era già in sala nel nuovo progetto di Gianluigi Morini, aperto nel 1970. Bastò poco più di un anno perché quel progetto cominciasse a cambiare le carte in tavola nel modo di fare ristorazione in Italia. “Morini aveva un progetto, lui sì che era contaminato dalle idee di svecchiamento che si respiravano in quegli anni. Non gliene fregava nulla di portare a tavola tagliatelle burro e salvia, ravioli e castrato, che erano i piatti bandiera dell’Emilia Romagna”racconta Valentino “Il cuoco che avevano, però, non capiva, forse non aveva la voglia né la testa per pensare di fare altro. Io ero proprio alle primissime armi in cucina, stretto tra le idee di Morini e le padelle che volavano (e ho appreso subito che volavano basse!) tra il cuoco e la sua morosa ai fornelli con lui” .

Era il 1973: Gianluigi Morini voleva fare un ristorante nuovo, diverso da quello di Peppino e Mirella Cantarelli che avevano sì grandissimi Champagne, Bordeaux e la più grande carta dei Borgogna, ma erano in campagna e proponevano selezioni speciali di Parmigiano e di culatello. “Allora il culatello, il Reggiano e l’aceto balsamico non è che girassero molto neppure da noi. Ma Cantarelli stava in campagna, Morini aveva altre idee”ricorda Valentino “Gianluigi era amico di Veronelli e gli chiedeva spesso se aveva idea di come trovare un cuoco che potesse essere adatto al suo progetto. Fu così che ebbe inizio la sfida: portare la cucina alta, quella delle grandi case aristocratiche, quella che in pochissimi potevano mangiare, nelle cucine di un ristorante borghese, per tutti”.

L'incontro con Nino Bergese

Il racconto dell’aggancio e della conquista di Nino Bergese alla causa è divertente e sintomatico sia dei tempi che del carattere di quella grassa Emilia che fa da ponte verso la sanguigna Romagna, la regione che allora era il simbolo gastronomico del paese.

Partiamo da Imola con una Cadillac, tanto per non smentirci da bravi sbrasoni romagnoli. Lui era già in pensione, aveva da poco chiuso a Genova il suo ristorante Dalla Santa a vicolo Indoratori: dalla terrazza di casa sua ci faceva vedere lo spettacolo del mare di Pieve Ligure e ci indicava le ville degli Agnelli, dei Marzotto e dei Borromeo… Lui ci aveva lavorato in quelle case, dopo la caduta dei Savoia di cui fu l’ultimo cuoco. Ci guardò negli occhi e sorrise: 'E voi vorreste portarmi in una terra di nuvole a lavorare in mezzo alla nebbia?' Tornammo a Imola con la coda tra le gambe. Poi un amico di Morini ci spiegò che avevamo fatto i soliti romagnoli sbruffoni e ci consigliò di scrivergli una lettera strappalacrime che finiva così: 'non è possibile che il suo sapere finisca con la sua morte…'. Dopo due settimane ci telefonò avvertendoci che sarebbe venuto una domenica a pranzo per vedere la zona. Figurarsi come eravamo sulle spine qui”.

Il pranzo al San Domenico

Ricorda ancora emozionato Marcattilii “Decidemmo di preparargli i tortellini in brodo di cappone poi e i tortelli di erbe e ricotta di pecora al burro e salvia. Il sugo di arrosto che usava la Mirella Cantarelli a Samboseto io non sapevo neppure cosa fosse… Per secondo feci una fesa di vitello glassata con crema di limone e dei medaglioni di cipolla fritti: avevo visto qualcosa del genere sempre da Cantarelli. Per dolce facemmo ananas alla Hilton: non so se fosse un nome inventato da noi o se esisteva davvero. Era il frutto tagliato a metà e svuotato, riempito di gelato con nocciole e torrone e sopra la polpa a cubetti ricoperta di panna montata e colatura di amarena con un pizzico di Vov, che allora andava per la maggiore. Sul ciuffetto, una zolletta di zucchero imbevuta di alcol e flambé. L’era un dulsaz! Un dolciaccio, ma se lo finirono tutto”.

La seconda vita del cuoco dei re e re dei cuochi

Insomma, inizia così il rapporto tra San Domenico e il “cuoco dei re e re dei cuochi” come lo definiva Veronelli. Il primo accordo era: 10 ricette a 100mila lire ciascuna, oltre al pagamento dell’albergo Campana sulla piazza Matteotti. “Ma in realtà”ricorda Valentino “finì che lui restò con noi. Appena Veronelli seppe la cosa, la scrisse sui giornali e quella consulenza assunse un rilievo ben più ampio: Bergese amava stare qui, spesso venivano a mangiare i suoi clienti di Genova e lui ritrovò una seconda vita. Andavamo spesso in giro a provare altre cucine: lui amava sempre mangiare ravioli di formaggio e castrato”.

La cucina dell'epoca

Erano anni di passaggio, quelli. Nei ristoranti dei grandi alberghi si faceva la cucina internazionale (quella di origine franco-russa, dell’aristocrazia del secolo precedente): andava il filetto alla Voronoff, il filetto alla Wellington, i grandi tagli di carne in crosta. C’erano una decina di grandi posti: il Charleston a Palermo, la Sacrestia a Napoli (avevano un babà gigante spettacolare), Sabatini a Firenze e Savini a Milano dove si faceva una cucina regionale di lusso, magari potevi trovare la salsiccia deglassata al Madera... Poi, i ristoranti del Baglioni a Venezia, del Grand Hotel di Milano, quello del Principe di Piemonte a Torino dove si mangiavano dei fantastici tajarin al tartufo bianco. Sempre in quegli anni alla Cesarina di Bologna nascono i tortellini alla panna, piatto cult che sarà da allora sempre un mito per tutti, in particolare per i bambini che ne vanno sempre matti. E all’Harry’s Bar di Cipriani prendono vita i Tagliolini ripassati in forno con la besciamella che poi verranno riproposti da Alfredo a New York: un piatto che farà furore negli Usa dove ancora è sinonimo di cucina italiana!

Le trattorie, in realtà, stavano diventando border-line: si cominciava a scimmiottare una cucina simil moderna, a imitare senza averne la tecnica e la tradizione i piatti di Paul Bocuse o dei Troisgros visti su giornali e riviste, nascevano le terrine tricolori, gli aspic, i pasticci di fegato e cose simili, mai visti in Italia. C’era l’eco di quella che si cominciava a conoscere come Nouvelle Cousine, ma se ne viveva solo l’ombra riflessa. Anche perché, nonostante la Nouvelle Cuisine, Bocuse continuava a fare il suo pollo in vescica, la costata di bue o la zuppa alla Valery Giscard d’Estaing. In Francia, la cultura e la disponibilità delle materie prime c’era davvero, sapevano lavorare e valorizzare le materie che entravano in cucina, non le sciocchezze che vedevo nei giornali italiani… Da noi, poi, non c’era neppure il mercato. Io ho fatto il mio primo stage dai Troisgros, a Rennes; quando son tornato mi chiedevo: e ora che faccio? Lì avevano il petto d’anatra, qui dovevo comprare l’anatra intera. Se avessi dovuto preparare 10 carrè d’agnello, avrei dovuto acquistare 10 agnelli! Tanto che nel 1976 partivamo con Annie Feolde ogni giovedì e ci facevamo i mercati di Nizza e di Valbonne, quelli dove i Tre Stelle francesi andavano a fare spesa”.

La rivoluzione San Domenico e il dopo Bergese

È così che il San Domenico dà il via a un’operazione fondamentale per la ristorazione italiana: declinare nella cucina agile di un ristorante per tutti i piatti della nobiltà e dell’alta borghesia italiana, osservando la Francia dove stava avvenendo una cosa simile e puntando su due elementi fondamentali: mercato e tecnica. “Alla morte di Nino Bergese, nel ’77, ero probabilmente io, suo allievo prediletto (gli stavo sempre appiccicato, non mi perdevo una parola ed è a lui che devo tutto ciò che ho appreso) quello che in cucina aveva più visione, da poter portare avanti l’obiettivo del San Domenico.”

La Francia era l’unico luogo cui guardare, così la cucina si è anche un po’ mescolata con quella francese. Io qui non trovavo ingredienti: a partire dalle erbette aromatiche fresche come la verbena o la santoreggia, il dragoncello o la melissa. Con la Annie andavamo a comprarle vicino a Nizza, poi al mercato compravamo le carni e il foie gras freschi, poi tenevamo tutto nei frigo a 1-2 gradi, per farcele durare. Facevo anche continui stage in Francia: alla Pyramide, da madame Point, il tempio della nuova cucina francese. Le vedova del grande Fernand (morto vent’anni prima) mi regalò il mio primo robocop, un robot da cucina, e con lei acquistai le prime splendide pentole di rame che ancora usiamo in cucina ogni giorno e che ogni tanto portiamo a ristagnare. Andavo da Vergé...”il racconto di Valentino scava nei ricordi, procede a flash...

Il passaggio verso la modernità: dalla Francia all'Italia. La nascita dei ristoranti

E continua a tracciare il passaggio alla modernità della cucina italiana. “Tornando dalla Francia, cominciavo anche a cambiare i piatti di Bergese: i suoi erano cotti in precedenza, rispetto al servizio, e venivano poi riscaldati: erano piatti di casa, per quanto altolocata. Io cominciai a farli al momento, con le salse lavorate a parte. In realtà, non mi interessava rifare in Italia i piatti che vedevo in Francia: il mio obiettivo era apprendere bene la tecnica per poter fare bene i nostri piatti espressi. Marchesi aprirà il suo locale in Bonvesin de la Riva 12 anni dopo di noi. Abbiamo cominciato al San Domenico a fare una cucina familiare di alto livello in un ristorante e ad avere una brigata di cucina. Allora mica c’erano le brigate. Il primo pasticcere di ristorante che faceva dolci al piatto credo di averlo portato io in Italia: Pascal Piermattei, che lavorava nella brigata di Roger Vergé, venne da noi e poi andò a lavorare da Perbellini. Dalla fine degli anni ’70 io, mio fratello Natale e Gianluigi Morini facevamo periodicamente settimane di full immersion in Francia: andavamo a visitare due Tre Stelle al giorno, metodicamente, per capire come funzionavano sia la sala che la cucina. Ma non per carpire le ricette dei piatti, bensì per capire l’approccio, la filosofia”. Era la fine degli anni '70: dopo, è arrivata la cucina italiana moderna.

 

a cura di Stefano Polacchi

foto per concessione di TOILETPAPER magazine: Maurizio Cattelan and Pierpaolo Ferrari

 

QUESTO È NULLA...

Abbiamo raccontato l'epopea di quegli anni pioneristici nel numero di gennaio del Gambero Rosso, in questi giorni ancora in edicola. Nel servizio, 14 pagine tra testi, grafici e affascinanti illustrazioni, abbiamo vistocome sono cambiati i piatti del San Domenico nell'epoca del dopo-Bergese, dal risotto all'Ammiraglia al famoso uovo in raviolo, all'anatra al torchio. Non solo: abbiamo raccolto la testimonianza di Gualtiero Marchesi - che ci ha raccontato i suoi anni '70 nel suo ultimo articolo prima della sua scomparsa - e la riflessione del suo allievo Riccardo Camanini, chef e studioso della storia della gastronomia. Nel servizio anche il ragionamento sulle differenze tra Italia e Francia nella lettura di Matteo Lorenzini, il ritratto di un posto mitico come l'Harry's Bar fatto da Flavio Birri, poi ancora Fulvietto Pierangelini, Alessandra Meldolesi, Vanessa Roghi, Laura Mantovano. A completare il tutto, le immagini d Toiletpaper (alcune le vedete anche qui) magazine targato Maurizio Cattelan e Pier Paolo Ferrari. A dir poco un articolo da collezionare.

 

Il numero lo potete trovare in edicola o in versione digitale, su App StorePlay Store. Abbonamento qui.

Saremo una scuola rock! Parola di Igles Corelli, in arrivo alla Gambero Rosso Academy

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Lo chef è il nuovo Coordinatore del Comitato Scientifico di Gambero Rosso Academy. E si presenta con le idee chiare: “Punteremo tutto su innovazione, nuove tecniche e strumenti all'avanguardia”. 

Il cuoco moderno è accattivante. Tre mesi sono pochi per insegnare la tradizione di un Paese come il nostro, e poi quello di cui hanno bisogno le nuove generazioni che si affacciano al mondo della ristorazione professionale è la familiarità con le nuove tecniche e le nuove strumentazioni. Se dovessi riassumere con una parola la linea delle scuole, direi senza esitazione Innovazione. Con la I maiuscola”: parla chiaro Igles Corelli, presentandosi nella nuova veste di Coordinatore del Comitato Scientifico di Gambero Rosso Academy. E in dote porta, sin dall'inizio, le idee che hanno costruito la sua storia in cucina: “Modernità non significa necessariamente ignorare il passato. Piuttosto ridurre gli sprechi, ottimizzare i processi, valorizzare le materie e gli sforzi delle cucine. La ristorazione del presente non si rivolge più a piccole nicchie. Quella del futuro dovrà rispondere velocemente e con prodotti di sempre maggiore qualità. Insomma: bisogna far capire ai ragazzi che il futuro della ristorazione è fatta di grandi numeri”. E allora, come si procederà alla Gambero Rosso Academy per formare i cuochi di domani? “Rimodelleremo completamente la figura del cuoco, gli insegneremo a realizzare ricette innovative e al contempo efficaci. Su tutto punteremo a portare la qualità su vasta scala usando tecnologie all'avanguardia con una filosofia di cucina circolare, utilizzando tutto il prodotto, azzerando gli scarti e soprattutto gli sprechi”.

Senza dimenticare l'importanza di saper fare squadra, lavorare in sinergia col gruppo, ottimizzare gli sforzi e i mezzi a disposizione, sapersi confrontare con l'innovazione in cucina: “Una cucina che funziona è una cucina snella e fluida dove apparecchiature come roner, i circolatori termostatati o gli ultrasuoni lavorano in sinergia con la brigata, alleviandone gli sforzi. Questo campo è molto importante, come lo è l'incontro con i grandi artigiani. Nel corso della mia esperienza ho incontrato moltissimi professionisti che saranno reclutati e inseriti nella pianificazione didattica”. Insomma le idee ci sono, tante, chiare, garantite dall'esperienza di un maestro della cucina italiana, che solo qualche giorno fa ha chiuso l'esperienza alla guida dell'Atman di Villa Rospigliosi, per meglio concentrarsi sulla Capitale, dove si dividerà tra il progetto delle Mercerie e il suo nuovo ruolo di responsabilità alla Città del gusto di Roma. Eccolo, nelle videointervista che lancia il suo esordio.

In ultimo una parola sugli stage: “È fondamentale scegliere dove svolgere l'apprendistato in funzione della visione di ciascuno. Ben vengano gli stage per imparare, ma solo se fatti per migliorare la propria visione di cucina, per affinarla e consolidarla. Non per crearla ex novo”.

“Sono soddisfatto che Igles abbia accettato l’incarico di condividere nuovamente con noi la sfida importante che ci permette di innovare la nostra offerta formativa per il futuro, declinandola sulle diverse professionalità di cui una moderna ristorazione ha sempre più bisogno. Igles è un pezzo di storia del Gambero Rosso, già da quando nacquero le Scuole: il percorso ora continua.” Afferma Paolo Cuccia, Presidente di Gambero Rosso.

 

Ora si comincia a lavorare. In bocca al lupo a Igles Corelli.

 

a cura di Saverio De Luca

La baguette è il simbolo della Francia, e Macron chiede il riconoscimento dell'Unesco. Pizza docet

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Protetta dalla legge Raffarin (1993), la produzione artigianale di baguette è un vanto della gastronomia francese. Ora però i panettieri di Francia sono di nuovo sul piede di guerra, preoccupati dalla concorrenza di un mercato industriale che livella l'offerta a ribasso. E col sostegno di Macron avanzano la candidatura Unesco, incoraggiati pure dal riconoscimento ottenuto dai colleghi pizzaioli. 

La baguette come la pizza?

Chi non perde occasione per evidenziare la rivalità tra italiani e cugini d'Oltralpe c'ha messo poco a formulare l'equazione pizza = baguette. Del resto proprio Emmanuel Macron, che negli ultimi giorni si è speso con molto calore per perorare la causa dei panettieri di Francia capitanati dal maitre boulanger Dominique Anract, non ha perso occasione per avanzare il parallelo con la recente conquista dei pizzaioli napoletani, che dall'Unesco, dopo un iter lungo più di nove anni, si sono visti riconoscere il valore del proprio mestiere, ora annoverato tra i beni immateriali patrimonio dell'umanità. Ma dietro al sostegno alla candidatura Unesco per il pane più famoso di Francia si sommano motivazioni che vanno ben oltre il puro e semplice spirito di emulazione, legate piuttosto alla necessità di proteggere quella panificazione artigianale minacciata dall'omologazione del mercato a ribasso (tra i confini nazionali, come all'estero, dove la baguette è più spesso una copia alla lontana dell'originale). Un po' come avviene con la pizza nel mondo, che se da un lato può contare su una serie di ambasciatori d'eccellenza, paga comunque alla sua notorietà un gran numero di imitazioni di bassa lega.

 

In difesa del mestiere artigiano

Il 12 gennaio scorso, quindi, il consueto incontro all'Eliseo tra il presidente francese e la confederazione nazionale di panettieri e pasticceri (all'inizio di ogni anno l'associazione dona simbolicamente al presidente una gallette de rois benaugurale) ha portato una serie di nodi al pettine, sottolineando l'importanza di valorizzare una tradizione che da secoli tramanda quel savoir-faire – la sapienza artigianale – che oggi in Francia si esprime attraverso l'attività di 33mila boulangerie artigianali e impiega 180mila persone in tutto il Paese. E con lei quel sistema basato sull'apprendistato in bottega che assicura il ricambio generazionale preservando la trasmissione del know how, ma oggi rischia di scomparire insieme alle attività commerciali artigianali messe in crisi dall'aggressività della grande distribuzione. Non è la prima volta che i panettieri francesi si riuniscono battaglieri per perorare la causa: 25 anni fa, nel 1993, la legge Raffarin rispondeva alle preoccupazioni del settore artigianale formulando un regolamento per inquadrare la produzione della baguette tradizionale, inventata all'inizio del XX secolo, e oggi vincolata da un disciplinare che elenca gli ingredienti ammessi (una miscela di farina di frumento, acqua, lievito, sale, banditi additivi e acido ascorbico), ritenuto però fin troppo generico dagli artigiani più integerrimi. E oggi il 70% dei francesi, secondo un recente sondaggio di CHD Expert, considera il simbolo della panificazione nazionale la migliore delle alternative in commercio, tanto da recarsi abitualmente, almeno una volta alla settimana, in una panetteria artigianale per fare rifornimento. Il dato non sembra confortare Dominique Anract, che sanziona l'acquisto inconsapevole, e sempre più diffuso, di un prodotto di scarsa qualità: “Considerando la qualità del pane nei supermercati, non è possibile non essere indignati. Il pane è congelato, viene dalla Romania, non si fa nulla a regola d'arte”. E, ammonisce: “Il pane è l'immagine della Francia, proprio come la Tour Eiffel”.

 

La candidatura Unesco

Ecco perché la decisione di avanzare la candidatura della baguette all'Unesco rivela da un lato il tentativo di sollecitare i consumatori a prendere consapevolezza della valenza simbolica e nutrizionale di un buon prodotto artigianale, dall'altro il desiderio di raccontare al mondo il prestigio della tradizione artigiana francese. La richiesta, rilanciata da Macron, fa dunque appello al sentimento nazionale, chiamando esplicitamente in causa la mobilitazione italiana per la causa dei pizzaioli napoletani, che seppur lunga e complessa ha raccolto di recente i frutti sperati. Sul piano economico, la baguette conserva il terzo posto sul podio dei prodotti gastronomici più consumati del paniere francese, dietro al vino e al formaggio, con una produzione annuale che sfiora i sei miliardi di pezzi ogni anno, nonostante il consumo procapite sia decisamente calato negli ultimi decenni. Dal canto suo, Macron rilancia queste considerazioni per sostenere la candidatura: “La Francia è un paese di eccellenza nel pane, perché la baguette è invidiata nel mondo intero. Bisogna preservarne l’eccellenza e il `savoir faire´ ed è per questo che bisogna inserirla nel patrimonio. Non solo il nome della baguette ma i suoi ingredienti e il modo di farla”.

 

E allora il Prosecco?

Ma in questo rimpallo di valori artigianali e tradizioni enogastronomiche giocato al confine tra Italia e Francia, il nostro Paese rivendica di nuovo i riflettori per sé. Ed è Coldiretti, nelle ultime ore, a giocare la carta del confronto a parti invertite per sostenere con forza la candidatura del Prosecco – delle colline di Conegliano e Valdobbiadene, per essere precisi, come avvenuto con Langhe e Roero - avanzata all'inizio del 2017: “Se c'è riuscita la Champagne (nel 2015, ndr), possiamo farcela anche noi”. Tanto più, sottolinea Coldiretti, “che nel 2017 le bollicine italiane vendute all'estero sono state il doppio di quelle francesi”. Come a dire che di forzare il confronto proprio non si può fare a meno. E se invece cominciassimo semplicemente a rivendicare il giusto valore per il mestiere artigiano, a prescindere dalla nazionalità?

 

a cura di Livia Montagnoli

Gualtiero Marchesi. Il ricordo di Alfio Ghezzi di Locanda Margon

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Continuiamo a raccogliere il ricordo degli allievi di Gualtiero Marchesi. È il turno di Alfio Ghezzi, chef di Locanda Margon che ha lavorato con lo chef all'Albereta, a Cannes e a Roma. Lo faremo molto ampiamente anche dalle pagine del nostro mensile di febbraio, in edicola da fine gennaio.

Che piatto cucineresti per me?” Con questa domanda Gualtiero Marchesi, nel suo salottino all'Albereta, cerca di intuire meglio il giovane che ha davanti, che poi sarà futuro chef al Majestic Barriere di Cannes, uno dei locali sotto la consulenza Marchesi. È il 2004, e il ragazzo è Alfio Ghezzi, oggi alla Locanda Margon delle Cantine Ferrari, proprietà famiglia Lunelli. È il primo incontro ravvicinato con il Maestro, per Ghezzi, ma non con la cucina marchesiana conosciuta qualche anno addietro, tra il 1996 e il 1997 a Verona, dove era commis di Silvano Prada in un locale a consulenza Marchesi; “ma il signor Marchesi non lo avevo mai incontrato”. A quella domanda Ghezzi non ci pensa su troppo: “maialino con crauti, un piatto tipico della tradizione trentina”. Un risposta non scontata da dare al Maestro della tavola moderna italiana: “volevo fargli capire la mia cucina, ma sapevo che forse era molto distante dal suo concetto: più minimale, raffinato”. La risposta piace a Marchesi che rimane molto colpito “forse questo è stato l'elemento che più ha apprezzato in quella conversazione”, e non solo per quel richiamo al suo territorio “ma per la visione semplice della cucina”, di sapore di sostanza, di gusto, non troppo elaborata né trasformata. “Alla fine credo che questo sia un po' il concetto fondamentale della cucina su cui poi ci si può lavorare, come ha fatto lui, per togliere e raggiungere l'essenzialità”. All'Albereta Ghezzi trascorrerà qualche mese prima di andare a Cannes.

Le passeggiate sulla Croisette di Cannes

Nel ristorante di Cannes la cucina è quella del Maestro, con i suoi piatti più famosi letteralmente trasportati oltralpe.“Marchesi è stato il primo cuoco in Italia con una cucina codificata, sua, riconoscibile e riconducibile a lui”. E quindi fattibilmente replicabile. Non c'è solo il raviolo aperto, la seppia con il suo nero o il risotto. “Ci sono moltissimi piatti iconici di Marchesi, quei suoi classici che noi portavamo in Francia”. Nei tre anni circa di permanenza a Cannes, gli incontri con il signor Marchesi, come ancora oggi lo chiama, non sono frequentissimi: “veniva ogni due o tre mesi” racconta “erano degli incontri densi”. Passeggiano sulla Croisette e parlano di lavoro, del menu e di cosa c'è da migliorare. Ma non solo: “Si era stabilita una sorta di affinità elettiva”, ricorda Ghezzi, appassionato di design, studi in lettere moderne, una sensibilità per la letteratura quanto Marchesi per l'arte. In quelle lunghe camminate Marchesi parla dei suoi progetti e delle sue cose “c'era un continuo passaggio dal livello dell'arte, della letteratura, la musica a quello della cucina”, una costante – questa – che ha caratterizzato tutta la vita del cuoco recentemente scomparso. “Credo che con me apprezzasse la possibilità di portare avanti questo tipo di dialogo”.

L'Osteria dell'Orso e il sogno di un viaggio in Italia

Ho sempre avuto una grande passione per Viaggio in Italia di Goethe che ho letto molte volte”racconta Ghezzi “il mio sogno era di fare – appena laureato – un viaggio sulle tracce di Goethe e di questo libro, che si sofferma molto su Roma”. Poi la laurea non è arrivata ma a Roma è andato lo stesso, all'Osteria dell'Orso dove ha lavorato circa un anno e mezzo, dopo Luca Fantin. “Quando sono arrivato ho cominciato a rileggere il libro e la parte su Roma, su cui Goethe si sofferma molto dato che vi sosta due volte per diversi mesi, dopo essere passato per Firenze e dopo essere stato in Sicilia”. Nel libro Goethe parte dal capoluogo toscano e dopo alcune ore di viaggio arriva a Roma “dove si ferma per mangiare, rifocillarsi e far riposare i cavalli in una Ostaria. Che è proprio l'Osteria dell'Orso”. Ghezzi racconta questo passo a Marchesi e circa duecento anni dopo quel famoso viaggio in Italia si crea di nuovo la magia “Il signor Marchesi comincia a fantasticare su un evento ispirato proprio a quelle pagine”. Qualche settimana dopo, arriva una mail da Marchesi che riporta le righe che parlano dell'arrivo di Goethe all'Ostaria: lo chef, libro alla mano, vuole seguire le tracce di Goethe dalla parte della cucina. L'evento poi non si farà mai.

L'arrivo in cucina

Goloso, energico, a ogni passaggio nei suoi ristoranti Marchesi si affaccia in cucina, dove ruba la mozzarella o assaggia il gelato, “ne era goloso, a volte lo prendeva persino con la tesserina della stanza d'albergo” poi la sera si siede a tavola e assaggia “faceva i suoi commenti, gli appunti erano sempre sull'essenzialità e la concentrazione. Ma non pretendeva si facessero solo i suoi piatti, andavano bene quelli di altri purché fossero espressione della sua filosofia”. I temi fissi? “L'importanza delle forme, il gusto, la concentrazione” e poi la pulizia nel piatto “uno dei suoi insegnamenti era di non creare mai mix con carne, vegetali, salse, ma tenere questi elementi sempre separati per non sporcare tutto”. Per Alfio Ghezzi, come per molti allievi del Maestro, più che un oggetto, una tecnica o una ricetta, la consegna del magistero di Marchesi è una sorta di eredità intellettuale che si condensa in una filosofia del togliereche, ancor oggi, si ritrova in molti piatti. Un'attitudine alla pulizia.

Sette penne, sette asparagi e tartufo neroSette penne, sette asparagi e tartufo nero

Il concetto di equilibrio ecologico

Si chiama Sette penne, sette asparagi e tartufo nero, “uno dei piatti che mi ha affascinato di più” e che all'epoca ha fatto impazzire molti addetti ai lavori e non: “lì si traduce un altro tema fondamentale nella vita professionale marchesiana: l'equilibrio ecologico, che vuol dire rimettere un ingrediente nel suo mondo. E se questo non può avvenire direttamente, cercare una vicinanza attraverso le forme”. Così gli asparagi sono tagliati a becco di flauto allo stesso modo delle penne, in modo da avere lo stesso profilo, “quando si mettono in bocca ci sono gusti diversi, ma una sensazione simile data dal rimando tra le forme, in bocca come alla vista”. Un concetto molto caro a Ghezzi, reintepretato in un omaggio al Maestro: “Ziti e capelonghe - che inizialmente doveva chiamarsi 7 ziti e 7 capelonghe - rappresenta lo stesso concetto di equilibrio ecologico delle forme, quello che si crea nell'alternare uno zito e una capelonga con il suo fondo di cottura”. Questo piatto esprime anche un altro principio fondamentale per Marchesi, quello che unisce essenzialità e semplicità. “Diceva che un piatto semplice non è mai banale perché parte da due o tre ingredienti, e se ne sbagli uno, sbagli il 50% del piatto e tutti riconoscono l'errore, se invece fai un piatto con 10 ingredienti uno potrebbe non accorgersene”.

Marchesi alla Locanda Margon

Lo scorso anno è venuto qui per le riprese del suo film” racconta ancora Ghezzi. “Assaggia alcuni piatti e poi mi fa 'non male questo ragazzetto'. Per me è stato importantissimo averlo da noi e sentire cosa diceva”. Ancheperché lo chef di casa Lunelli è tra gli allievi che a un certo punto hanno deciso di seguire una propria strada, per Ghezzi una strada che riporta in Trentino. Ma in un altro territorio, come cambiano gli insegnamenti del Maestro? “In un'altra zona cambiala cultura, il microclima, e al microclima Marchesi ha dato sempre molta importanza perché incide sulle coltivazioni, i prodotti, le abitudini alimentari” spiega Ghezzi “ma anche se ti adegui a un altro territorio, l'approccio deve essere sempre lo steso: rispetto e salvaguardia del prodotto, da cui devi cercare di tirar fuori le caratteristiche organolettiche migliori e che non deve essere alterato troppo”.

Perle di TrentodocPerle di Trentodoc

E a proposito dei suoi piatti? “Gli sono piaciuti molti gli spaghetti cotti in un liquido a base di bollicine TrentoDoc Ferrari Perlé”. Non può che apprezzarne la semplicità, perché si presentano come spaghetti in bianco. “Ma ne apprezzava anche l'acidità”. L'acidità, un altro dei concetti portanti della sua cucina “basti pensare al burro acido nella mantecatura del risotto: diceva sempre che la cucina non deve essere atona e piatta, ma avere continuamente dei picchi, e l'acidità dà freschezza e conferisce proprio questo picco”. E poi c'è la pasta, uno dei grandi temi di riflessione di Marchesi, da quando - erano gli anni '80 - la esclude completamente dal menu a quando, anni dopo, l'ha inserita cambiando però il modo di fruirne: “Per noi italiani la pasta è una cosa molto succulenta, con fondo e sugo. Per Marchesi no. Un piatto esemplificativo è l'astice con i maccheroni, non maccheroni con astice. Dove la pasta è l'elemento accessorio. È una visione molto internazionale”. Quella del grande Maestro della moderna cucinaitaliana.

 

Locanda Margon - Ravina (TN) - via Margone, 15 – 0461349401 – www.locandamargon.it

 

a cura di Antonella De Santis

Enrico Pezzotti al Turano Resort. Una nuova sfida per valorizzare il pesce di lago

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Dopo la fine dell'esperienza reatina, Enrico Pezzotti si trasferisce sul lago del Turano, alla guida della cucina del rinnovato Turano Resort. In tavola il pesce d'acqua dolce e i prodotti del territorio. Ospitalità a 360 gradi per gli ospiti della struttura, 13 camere, spa e una colazione da chef. 

Da Rieti al lago del Turano

L'avevamo lasciato a Rieti, Enrico Pezzotti, alle prese con il piccolo ristorante con vista su Porta Romana che poco meno di due anni fa segnava il suo ritorno in cucina. Ma nel suo passato, lo chef romano che da anni vive a Rivodutri, vanta esperienze importanti, alla guida de La Trota prima dei fratelli Serva (era la fine degli anni Novanta), poi executive chef presso l'Aleph e l'Esedra di Roma, prima di tornare sul territorio reatino, per la consulenza alla Tenuta Due Laghi. Con Nostrale, invece, Pezzotti auspicava di portare in città la sua idea di cucina di territorio, in un contesto accessibile, informale e curato. Chiusa la parentesi reatina, da qualche settimana lo chef è di nuovo impegnato ai fornelli al Turano Resort, struttura ricettiva a picco sul lago del Turano che risponde a un'idea più ambiziosa di accoglienza e ospitalità lontano dal caos cittadino, ed è certo più incline alle sue corde per potenzialità di crescita e libertà d'espressione. La struttura, sulle rive del lago artificiale dove la costa si incunea nell'acqua in località Colle di Tora (a una quarantina di minuti in macchina da Rieti), esiste del 1948, in attività fino al 1988 come albergo e ristorante, e successivamente più volte ampliata e ristrutturata, chiusa definitivamente nel 2008.

Il ristorante del Turano Resort

Di recente, però, una nuova proprietà ha deciso di rilanciare il complesso, che oggi, dopo una profonda ristrutturazione, ambisce a proporsi come resort di riferimento per il turismo regionale (e non solo) che specie nel fine settimana, e con maggiore costanza con l'arrivo della bella stagione, affolla le località affacciate sul lago. Il nuovo ristorante guidato da Enrico Pezzotti – semplicemente Turano – si inserisce così nel progetto di rilancio della struttura, 13 camere e una spa per gli ospiti, che soggiornando al resort potranno usufruire pure di un servizio di ristorazione di qualità, colazione compresa. Ma l'insegna è aperta anche al pubblico esterno, per ora solo dal venerdì alla domenica (a pranzo e cena) e operativa a pieno regime dal periodo di Pasqua, all'inizio di aprile: “Siamo partiti in sordina, ma la squadra è già affiatata, ho portato in brigata diversi ragazzi che hanno già lavorato con me. La zona è molto vocata per il turismo enogastronomico, e noi vorremmo proporci come riferimento attraverso la valorizzazione del pesce d'acqua dolce, in omaggio al territorio e alla mia storia in cucina”. Per la “rivincita” del pesce d'acqua dolce Enrico Pezzotti si è sempre battuto, e del lago conosce tutte le potenzialità, le specie più pregiate, “come il luccioperca, che nulla ha da invidiare al pesce di mare”, come quelle più rare e più difficili da lavorare, “le mie preferite: bisogna saperle trattare, bilanciarle in sapidità, rielaborarle in cucina, ma danno una grandissima soddisfazione”. Ecco perché il suo menu – per ora si ordina alla carta, con la possibilità di concordare con lo chef un percorso degustazione, a regime nei prossimi mesi – prevede pure dei ravioli in zuppetta ripieni di pesce di lago (“una sorta di cacciucco di lago”) che sfruttano specie come l'aspio e l'abramide, pressoché sconosciute, “piene di spine, una bella sfida in cucina”.

Il pesce di lago in cucina

Tra le proposte anche carpaccio di pesce persico con finta maionese di pinoli e rape rosse candite, lingua di vitello croccante con gamberi di fiume, acqua di pomodoro e foglie di senape (il Mosaico di lingua di vitello e gamberi), carbonara di lago con ventresca di carpa e uova di pesce, “di trota, coregone, vogliamo sfruttare tutto ciò che ci regala il lago, tanti prodotti selvatici che ci permettono di lavorare su preparazioni diverse”. Il pesce - dall'anguilla al luccio, al pesce persico - arriva direttamente dal Turano, fornito da una cooperativa di pescatori del luogo, ma pure dai bacini d'acqua dolce dell'Italia Centrale, “fino al Trasimeno”. E la disponibilità, ancor più che per il mare, è strettamente connessa alla stagionalità, che influenza moltissima la reperibilità della materia prima. La carne, invece, arriva da una storica macelleria di Colle di Tora; frutta e verdura, ugualmente, da contadini del territorio. Si lavora per proporre “una cucina tradizionale con tecniche moderne, e chiaramente parliamo di tradizione tra virgolette”: tanti gli accostamenti tra carne e pesce di lago, altrettanti i cavalli di battaglia dello chef, come l'uovo al vapore, “che in questa stagione serviamo col tartufo nero”. E molto lavoro su pasta, pane, pasticceria: “Facciamo tutti noi, compresi croissant, crostate e dolci per la colazione, disponibile anche in versione salata”.

In sala una cinquantina di coperti, che con la primavera aumenteranno, grazie all'apertura della terrazza affacciata sul lago.

 

Ristorante Turano - Colle di Tora (RI) - Turano Resort, via Parodi, 93 - www.turanoresort.it

 

a cura di Livia Montagnoli


Kasher. Laura Ravaioli e i segreti della bsisa

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La Bsisa è una delle preparazioni tipiche degli ebrei nordafricani in particolare libici, tunisini ed algerini. Ma non può essere considerata semplicemente una ricetta dolce, ma una tradizione bellissima.

Nel suo ultimo programma su Gambero Rosso Channel, Kasher, Laura Ravaioli racconta i segreti della cucina degli ebrei di Libia. Una cucina frutto di un affascinante incontro di storie e di tradizioni. La puntata di stasera ci porta alla scoperta della bsisa.

Ma partiamo dall'inizio: cosa è la bsisa? È un dolce tradizionale a base di una miscela di farine, in genere grano e orzo macinati finissimi, con l'aggiunta di varie spezie come coriandolo, finocchio, cumino. Prima di essere mangiata si aggiunge dell'olio di oliva che trasforma la polvere in un impasto molto gustoso.

La cerimonia

Questo dolce è legato a una bella cerimonia durante la quale non si fanno preghiere particolari ma solo benedizioni di auguri di prosperità e successo. Non è una festa comandata, ma una cerimonia che si svolge nelle case - e non in sinagoga - per questa ragione ha acquisito piccole sfumature diverse da famiglia a famiglia pur mantenendo sempre il rito della bsisa. Quando si porta a tavola il piatto con la polvere che costituisce la base del dolce - farine, zucchero e spezie - vi si mettono dentro i gioielli e le chiavi di casa. Tutti i membri della famiglia e gli ospiti presenti mettono un dito dentro la polvere quando il capofamiglia versa lentamente dell'olio d'oliva cantando la filastrocca: “Ia Fettah, ia fettah blà Meftah, Ia Attai Bla Mennà, Terzekna Uterzek Mennà, ia Fettah eftah alena, ada am mabruk alena!” che, tradotto, significa: “Signore, tu che apri, tu che apri senza chiavi, tu che sai dare con mano generosa, tu che dai senza chiedere, concedi il bene a noi! Affinché noi a nostra volta possiamo fare del bene agli altri, spalanca le porte del bene e sia questo un anno felice per tutti noi”.

Le origini della tradizione

L'occasione principale, la più solenne, in cui viene consumata la bsisa è a Rosh Chodesh Nissan, il primo giorno del mese ebraico di Nissan, che cade 14 giorni prima della Pasqua Ebraica, Pesah, poiché nella Torah è scritto che proprio il 1° di Nissan è stato inaugurato il Tabernacolo da Mosè, un Tempio portatile, il Mishkan in cui erano custodite le tavole della legge che ha accompagnato gli ebrei durante l'esodo. Nel libro dell'Esodo (35; 21-30) è scritto che il Signore, tramite Mosè, chiese agli ebrei nel deserto di raccogliere - secondo la generosità di ciascuno - oro, argento e quant'altro necessario alla costruzione del Tabernacolo, oltre all'olio per l'illuminazione e ad aromi e spezie per gli incensi. Tutti gli ebrei parteciparono con offerte generose lasciandole a terra a disposizione di chi si occupava della costruzione. Molto generose furono anche le donne che si privarono dei monili che avevano addosso lasciandoli sulla sabbia. Nella bsisa, che ha un po' l'aspetto della malta, si usa mettere monete o oggetti d'oro proprio in ricordo delle offerte degli uomini e dei monili che le donne lasciarono sulla sabbia davanti al Tabernacolo in costruzione.

Nella cerimonia della bsisa vengono racchiusi tutti gli elementi più simbolici di questa storia: i gioielli, l'olio, le spezie, la grande gioia, e le chiavi auspicio di un ottimo inizio. Proprio per i bei significati che racchiude in sé, gli ebrei libici hanno la tradizione di impastare un po' di bsisa per ogni ricorrenza gioiosa, la servono durante ogni tipo di inaugurazione: una nuova casa, un negozio o in occasione di lieti eventi che riguardano un nuovo inizio come la nascita di un figlio o un matrimonio.

Bsisa

Ingredienti

2 bicchieri colmi di farina di orzo, va bene la farina di frumento, farro o misto

1 bicchiere abbondante di zucchero

1/3 di bicchiere di semi di coriandolo macinato (cusbara)

1/3 di bicchiere scarso di semi di finocchio macinato

Frutta secca mista a piacere, in questo caso abbiamo messo:

4 cucchiai di anacardi tostati

3 cucchiai di noci

6 cucchiai di nocciole tostate

5 cucchiai di mandorle tostate

3 cucciai di mandorle

3 cucchiai di datteri tagliati a pezzetti

Per la decorazione e buon auspicio a piacere: confetti colorati a seconda della ricorrenza, rossi per un matrimonio; rosa o celesti per una nascita oppure semplicemente bianchi e monete di cioccolato per inaugurazione di attività commerciali o di una nuova casa.

Setacciate la farina e tostatela leggermente nel forno o anche sul gas, in padella a fiamma bassa, mescolando di tanto in tanto ogni tanto fino a che non sia perfettamente asciutta; fate la stessa cosa con le spezie, separatamente: setacciatele e poi tostatele. Una volte che la farina e le spezie si sono raffreddate iniziamo la preparazione. In un ciotola da portata si mette la farina, si aggiungono le spezie, in questo caso coriandolo e finocchio per una sapore più delicato ma si può usare anche il cumino, si aggiunge lo zucchero e poi la frutta secca, si mescola con cura si decora a piacere.

Quando si porta a tavola, il capofamiglia ci mette dentro la chiave di casa e quella del suo “negozio”, la donna di casa mette le fedi nuziali e una moneta d’oro, le ragazze mettono un monile. Tutti i presenti mettono il dito mignolo nella ciotola e si aggiunge lentamente dell’olio d’oliva per impastarlo, cantando in arabo la tradizionale filastrocca ben augurante.

 

Kasher - Gambero Rosso Channel - canale 412 di Sky lunedì alle ore 21.30, a partire dal 27 novembre 2017

 

a cura di Laura Ravaioli

 

 

Panzerotti Bites, lo street food pugliese alla conquista di New York

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La ricetta è quella classica della tradizione pugliese, la formula quella ormai insuperabile dello street food. Storia della coppia barese che ha esportato il panzerotto oltreoceano, spopolando nella Grande Mela.

La novità

Venti posti a sedere, tre tavoli, un divano e qualche poltrona nel piccolo locale di Smith Street a Brooklyn, New York, un'insegna di apertura recente che ha già cominciato a conquistare cuore e palato degli americani. È il gusto autentico della cucina pugliese, fatta di sapori antichi e rispetto delle stagioni, a incuriosire la stampa statunitense e non solo. In particolare, è il panzerotto, uno dei cibi di strada più celebri della tradizione meridionale, il protagonista assoluto di questo locale, nella versione classica ma anche nelle varianti più originali e creative. La storia dietro questa nuova apertura è quella che accomuna gran parte degli italiani che hanno scelto di creare una propria realtà all'estero: il sogno, i dubbi, il calcolo dei rischi, l'azzardo, l'avventura. E, fortunatamente, come spesso accade, il meritato successo.

Gli ideatori

È la storia di Vittoria Lattanzio e Pasquale De Ruvo, coppia nel lavoro e nella vita che ha scelto di scommettere sulla specialità fritta per portare nella Grande Mela la cultura del mangiare di strada pugliese. Un percorso già battuto da altri giovani imprenditori, come Gianni Perillo, amante della tavola originaria di Altamura che, dopo essersi ritrovato senza lavoro, ha scelto di re-inventarsi una vita trasferendosi nella capitale britannica e aprendo il suo Panzerotto Blues all'interno del mercato di Greenwich. Laurea in lingue straniere lei, barista professionista lui, Vittoria e Pasquale hanno deciso, dopo tanto duro lavoro non ripagato, di lasciare la Puglia e mettersi in viaggio, tentando la fortuna a New York.

Il locale

Analisi del mercato, costi, opportunità, rischi: grazie all'aiuto di alcuni parenti di Vittoria da tempo residenti negli States, la coppia ha potuto usufruire di un percorso di accompagnamento e startup imprenditoriale che li ha aiutati ad aprire i battenti poco più di due settimane fa. Ma cosa si mangia da Panzerotti Bites? Fagottini di pasta lievitata dalle farce più disparate, dalla tradizionale pomodoro e mozzarella al pesce, dalla ricotta ai funghi, senza dimenticare la versione dolce con le creme spalmabili, il caffè e il cocco. “Il panzerotto è uno dei pochi prodotti culinari che mancava in un quartiere così ricco di specialità come Brooklyn”, spiegano Vittoria e Pasquale. “L'idea ci è sembrata rivoluzionaria”. E in effetti, nonostante l'alta affluenza di ristoranti, bistrot, caffetterie, pasticcerie, gelaterie e format di tutti i tipi all'italiana, il quartiere non è rimasto indifferente a questa novità tricolore, che ha da subito destato l'interesse degli addetti ai lavori, a cominciare da Jennifer Gould Keil del New York Post, che ha dedicato un intero trafiletto al panzerotto sulla sua rubrica “Side Dish”.

La tradizione del panzerotto

Le materie prime sono tutte italiane, perlopiù pugliesi, e vengono lavorate nella cucina a vista, in modo che tutti i clienti possano seguire la preparazione meticolosa di ogni fagotto. Obiettivo della coppia, infatti, è quello di far conoscere agli americani l'antica tradizione del panzerotto, dalla scelta degli ingredienti alla preparazione dell'impasto, dalla cottura fino alla consumazione. Nel locale il pubblico può leggere persino il modo migliore per mangiare questa specialità: “How to eat panzerotto” è un vademecum per i più golosi in cui sono indicate tutte le modalità per gustare al meglio la prelibatezza made in Puglia. Nel primo minuto, per esempio, “bisogna solo sentire il profumo”, mentre dopo due minuti, è tempo del primo morso, “sporgendosi in avanti di 15 gradi”. La consumazione a tutti gli effetti comincia dal quarto minuto, “chinandosi in avanti di 45 gradi per evitare di scottarsi”. Abolite, ovviamente, le posate: non è street food se non si sporcano le mani.

Panzerotti Bites – New York – Smith Street, 235 - +1 347 7200269 - www.facebook.com/PanzerottiBitesBrooklyn/

a cura di Michela Becchi

La ripartenza del Povero Diavolo. Giuseppe Gasperoni in cucina e il manifesto dei cuochi sognatori

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Da marzo alla guida della cucina di Torriana arriverà il giovane Giuseppe Gasperoni, romagnolo per nascita e identità gastronomica. A lui il compito di guidare la brigata, ma pure di gestire la storica Osteria, con la collaborazione iniziale del patron Fausto Fratti e di sua moglie Stefania, che poi passeranno il testimone. E intanto, su idea di Fausto, nasce il movimento dei cuochi sognatori, per difendere il legame tra cibo e paesaggio. 

 

Nel futuro di Torriana

Il 2018 del Povero Diavolo porta con sé novità importanti. A Torriana, nell’ultimo anno e mezzo, il patron Fausto Fratti e sua moglie Stefania hanno lavorato lontano dai riflettori per assicurare continuità alla locanda che per un lungo periodo ha incrociato il suo destino con quello di Pier Giorgio Parini, prima che lo chef decidesse di voltare pagina. Mesi di riflessione che non sono certo trascorsi con le mani in mano, e che nel piccolissimo borgo in provincia di Rimini hanno portato, a più riprese, cultori della materia e giovani chef, fermo restando il desiderio di proporsi come fucina di talenti - con l’esperienza di Spessore e Incipit – e centro di divulgazione dell’eccellenza enogastronomica, con la festa di inizio estate della Collina dei Piaceri. Nel frattempo, la ricerca del nuovo chef che avrebbe preso il comando della cucina dell’Osteria è continuata. E oggi c’è il nome che concretizza la ripartenza, quello di un giovane di talento scelto per le sue motivazioni e per l’esperienza maturata sin qui, nonostante all’anagrafe dichiari appena 27 anni.

 

Giuseppe Gasperoni alla guida del Povero Diavolo

La prossimità, di intenti e geografica, è certamente stato un criterio che ha orientato la scelta: lui, Giuseppe Gasperoni è romagnolo, e figlio d’arte. Da marzo sarà non solo a capo della cucina dell’Osteria del Povero Diavolo, ma pure gestore dell’attività, per conto di Fausto e Stefania. Un grande attestato di stima che non nasconde le aspettative riposte in questo nuovo inizio, con l’entusiasmo di scoprire ciò che sarà. Cresciuto nella cucina di Casa Zanni – storica attività di ristorazione del riminese, a Villa Verucchio, gestita dalla sua famiglia e per decenni punto di ritrovo per gli estimatori della tipicità romagnola – Giuseppe ha maturato prestissimo il suo legame con il gusto, filtrato attraverso la lente della tradizione di un territorio ricco di storia, protetto dalla tranquillità di una dimensione domestica che ti fa apprezzare le cose più semplici. La passione per il cibo, quindi, si è trasformata ben presto in curiosità: a 16 anni, in vacanza dall’alberghiero, la prima stagione estiva al mare, presso l’albergo di Lido di Savio, poi dal 2008 l’esperienza più significativa, al fianco di Riccardo Agostini (che al Povero Diavolo era maturato, e oggi lascia idealmente il testimone al suo allievo) al Piastrino di Pennabilli. Sei anni per forgiare il carattere e un metodo di lavoro, mentre nel 2012, per qualche mese, sperimentava da vicino l’impostazione di una cucina blasonata, con lo stage nel team di Enrico Crippa, a Piazza Duomo: “Crippa è un perfezionista instancabile, con una grande disciplina. La lezione che ho fatto mia è il concetto di semplicità, che mi ha colpito e convinto. La tua cucina dev’essere chiara e accessibile, anche se laboriosa e complessa alla fine deve risultare semplice, mi ha detto Enrico un giorno”. Ora è il momento di mettere in pratica gli insegnamenti, nel doppio ruolo di mente creativa e guida capace di motivare la brigata (che ha formato personalmente) e far tornare i conti: un approccio che di lui farà un giovanissimo chef imprenditore, dopo l’esperienza gestionale a Casa Zanni dell’ultimo periodo. "Giuseppe diventerà il proprietario vero e proprio del Povero Diavolo" racconta Fausto "Noi lo affiancheremo per un periodo sufficientemente lungo a capire come facilitare il passaggio di consegne. Per i primi mesi continueremo a essere presenti, chiaro che se la collaborazione dovesse rivelarsi vincente, da parte nostra c'è tutta la disponibilità a preseguire con l'affiancamento."

Fruibilità e condivisione

E quindi comunque, per Gasperoni sarà un salto verso un futuro da costruire, con la fondamentale collaborazione dei padroni di casa, per fare in modo che il Povero Diavolo resti “una casa d’accoglienza aperta a tanti stimoli”, com’è stato finora. Nel piatto prodotti locali, fruibilità, il racconto di una storia romagnola vera perché personale. In testa tanti progetti, e la voglia di continuare a far vivere Scorticata di attività ed esperienze condivise con “amici, colleghi, curiosi del mondo dell’enogastronomia”. Quindi ancora Incipit, Spessore, La Collina dei Piaceri. E da subito una nuova iniziativa, che risponde agli stimoli di un “manifesto dei cuochi sognatori”, da un’idea di Fausto Fratti: "All'idea dei cuochi sognatori penso da una vita. Mi piacerebbe raccontare il nostro territorio in tutte le sue sfumature, ne ha bisogno anche Rimini e noi, che ormai siamo pensionati, abbiamo ancora tanto da dare a questa terra. I cuochi ci stimano, e hanno risposto alla chiamata: devono capire che è bello incontrarsi, e fare sinergia con le amministrazioni. Una bella sfida, di certo non mi annoio."

Il manifesto dei cuochi sognatori

Il movimento raccoglie un gruppo di chef accomunati dalla passione per la cucina e per il paesaggio, interpretati nella loro dimensione estetica e identitaria: “I colori, i silenzi, i luoghi magici, il profumo del cibo, l’abilità di chi lo produce, la bellezza di certi borghi, scorci, edifici, panorami, la peculiarità della nostra terra, dei suoi prodotti, della sua storia, la cultura di chi l’abita o l’ha abitata, l’arte nelle sue creazioni più o meno note, lo sguardo sul mare e la natura ibrida delle nostre tradizioni gastronomiche fra mare e campagna”. Un immaginario cui dare senso con un progetto itinerante che porterà il gruppo dei cuochi sognatori a cucinare in contesti insoliti, nascosti e ricchi di poesia, con il supporto del Comune di Rimini e del sindaco Andrea Gnassi. Quindi chiese, conventi, teatri, pescherecci, spazi lontani dalla mondanità, per celebrare il connubio tra cucina di qualità e pregio ambientale, al servizio di un’offerta turistica che faccia leva sulle ricchezze romagnole, tradizione gastronomica in testa: “Dopo anni d’inerzia e torpore Rimini e la sua provincia stanno cambiando pelle, molte attività sono in fermento, importanti opere strutturali e architettoniche mutano la fisionomia della città, crediamo sia il momento di spargere semi fertili che matureranno in futuro” riassume Fausto. Il primo appuntamento è in programma per il 18 gennaio, al convento dei Frati Minori di Villa Verucchio, con una brigata di 9 cuochi al lavoro nel refettorio per presentare una cena tipicamente invernale, con le carni fresche della “smettitura” del maiale.

Poi un calendario di incontri che vedrà avvicendarsi i cuochi che hanno aderito al manifesto: Silver Succi del QuartoPiano Rimini, Riccardo Agostini del Piastrino di Pennabilli, Paolo Raschi del Ristorante Guido di Miramare, Omar Casali del Maré di Cesenatico, Massimiliano Mussoni della Sangiovesa di Santarcangelo, Remo Camurani del Ca’ Murani di Faenza, Mariano Guardianelli dell’Abocar Due Cucine di Rimini, Andrea Bartolini e Gregorio Grippo de La Buca di Cesenatico, Tiziano Rossetti dell’Osteria Angolo Divino di Urbino, Claudio Di Bernardo del Grand Hotel di Rimini, Fabio Drudi. E, chiaramente, Giuseppe Gasperoni.

Lunga vita al Povero Diavolo.

 

Osteria del Povero Diavolo - Torriana (RN) - via Roma, 30 - www.ristorantepoverodiavolo.com 

 

a cura di Livia Montagnoli

I 6 migliori mieli di rododendro nella loro annata migliore

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Chiaro, cristallizzato, gentile al naso e in bocca, prodotto solo in alta montagna. È il miele di rododendro. Qui la classifica uscita sul numero di gennaio del Gambero Rosso.

Il più delicato e raro figlio dei fiori e delle api. Chiaro, cristallizzato, gentile al naso e in bocca, è prodotto solo in alta montagna, nell'arco alpino oltre i mille metri d'altezza, e soltanto in annate particolarmente fortunate. Come nel 2017, grazie a condizioni climatiche che hanno permesso una produzione di miele di rododendro piccola ma di qualità, e in alcuni casi purissima. In classifica i prodotti reperibili in Italia nel segmento di nicchia.

Miele di rododendro, l'annata 2017

Nell'annata che verrà ricordata per la produzione eccezionale di miele di rododendro non potevamo non dedicargli una classifica: era una tentazione troppo appetitosa. Da anni non si vedevano gli splendidi fiori di questo arbusto rosseggiare tra giugno e luglio nell'arco alpino, dalla Valle d'Aosta al Friuli, nelle praterie soleggiate dai mille metri d'altezza fino a oltre i 2500 metri. Grazie a un 2017 baciato da condizioni climatiche particolarmente favorevoli: l'inverno nevoso che ha protetto le piante dal gelo, l'alta umidità e il sole velato in estate anche alle quote più alte. Ma non è solo questa la ragione che rende l'uniflorale di rododendro uno dei più rari, pregiati, richiesti e pagati, tutelato dal Presidio Slow Food Mieli di Alta Montagna. È anche uno dei mieli più incontaminati, grazie alla provenienza da zone marginali e ad altitudini estreme dove non arrivano le coltivazioni e gli additivi chimici usati in agricoltura (soprattutto gli erbicidi, tra i quali il glifosato). Più in alto si spinge l'apicoltore con le arnie in spalla in questa estrema transumanza verticale, più salgono le api, con la spintarella provvidenziale delle correnti ascensionali, più il miele di rododendro sarà puro, anche sotto il profilo della rispondenza alla classe merceologica del prodotto.

Le caratteristiche organolettiche

E la purezza si misura nella natura gentile, la più delicata tra i monofloreali, espressa in tutte le sue forme: colore chiaro (giallo pallido allo stato liquido, dal bianco all'avorio, al beige tenue quando cristallizzato), profumi e aromi timidi tra il floreale lieve dei fiori bianchi, il vegetale e il fruttato che richiama le cose dolci e la frutta trasformata (succo di pera, lampone, caramella alla frutta, confettura di piccoli frutti di montagna, sciroppo di zucchero), il gusto dolce, raffinato e poco persistente, la bocca fresca di anguria, melone bianco, anguria e muschio bagnato. Non sarà difficile avvertire anche la propoli, la cera e perfino la neve! Nella riservata espressività raggiunge la sua personalità piena, la preziosa natura aristocratica. Due i panel presenti alla degustazione: quello convenzionale, che ha valutato la piacevolezza dei prodotti in assaggio, e quello specializzato nell'analisi sensoriale del miele guidato da Lucia Piana, la più grande esperta italiana in materia, che ha registrato la corrispondenza dei mieli alla classe.

La classifica

Al panel di degustazione hanno partecipato: Indra Galbo (redazione del Gambero Rosso),Marco Greggio (agronomo e docente di analisi sensoriale), Antonio Menconi (esperto di analisi sensoriale di pane e olio), Mara Nocilla (redazione del Gambero Rosso), Lucia Piana (esperta di analisi sensoriale del miele e docente nei corsi di formazione professionale in Italia e all'estero), Marco Radicioni (titolare della gelateria artigianale Otaleg! di Roma), Giancarlo Romagnoli (assaggiatore esperto di miele) ed Elvan Uysal (giornalista di enogastronomia).

Miele Thun. Ph Andrea Di Lorenzo

1 - Mieli Thun

È rarissimo, quasi un miracolo, un miele di rododendro puro e fedele all'essenza di partenza. L'uniflorale di Andrea Paternoster, quasi un chilometro zero raccolto vicino a Vigo di Ton, sulle Dolomiti del Brenta, è talmente bello e preciso da non sembrare vero. Ha tutte le carte della delicatezza tipiche del rododendro. Il colore del miele, ancora allo stato liquido, molto asciutto e leggermente torbido, piacevolissimo al palato, è dorato pallido come certi vini del nord Europa. Il naso ricorda il confetto, il floreale fine, la vaniglia, la mandorla dolce e la cera, caratteristici dell'acacia, se non fosse per la minore intensità e persistenza e per il richiamo al lampone specifici della “rosa delle Alpi”. La bocca timida e zuccherosa è più floreale che fruttata, con i fiori bianchi e la violetta che hanno la meglio sul lampone e la pera, oltre a ritorni di confetto e una leggera nota balsamica.

250 g prezzo 8,80/12 euro

Mieli Thun - Ton (TN) - fraz. Vigo di Ton via Conte Zdenko, 8 – 0461657929 - mielithun.it

 

Adi Apicoltura. Ph Andrea Di Lorenzo

2- Adi Apicoltura

Fabio Jacovanelli offre sempre grandi prestazioni e gradite sorprese. Come la nuova collezione Le Esperienze, una linea in tiratura limitata e numerata, che raccoglie mieli biologici provenienti da essenze botaniche rare e con una purezza elevatissima. Il miele di rododendro di questa selezione, raccolto sui monti della Valsassina, è con tutti e due i piedi nella classe. Chiaro, di un luminoso beige-avorio, al naso esprime una leggera nota chimica tipica dei mieli di alta montagna e i giusti richiami ai fiori bianchi e alla frutta gialla (mela, pera, cachi). In bocca è lui! Delicatissimo, elegante, di una dolcezza quasi stucchevole e con le classiche sensazioni zuccherose e fruttate (caramella, gelée), più sentori di mais e cereali tostati. Peccato per la cristallizzazione un po' grossolana e ruvida, ma tipica , che distoglie dal gusto.

250 g prezzo 14,80/17 euro

Adi Apicoltura - Tornareccio (CH) - via A. De Gasperi, 72 – 0872868160 – adiapicultura.it

 

Miele La Margherita. Ph Andrea Di Lorenzo

3 - La Margherita

Il miele di rododendro di Margherita Fogliati, Presidio Slow Food Mieli di Montagna, raccolto nel Parco Orsiera-Rocciavrè, nell'area alpina tra la Val Susa e la Val Chisone, è al limite della categoria, un po' troppo intenso, aromatico e persistente per colpa (o per fortuna) del tiglio, ma ancora fedele all'origine botanica. Consistenza pastosa a cristallo medio, colore chiaro e luminoso, profumo fruttato, caldo e gentile che ricorda il succo di pera e lo zucchero filato (con un leggero accento mentolato), dolcezza robusta, “palestrata”. Anche il palato è nel binario del rododendro per i sentori di caramella alla frutta e i ritorni di pera rinforzati da lievi note di uva, fiori e confetto, ma deraglia leggermente a fine bocca nell'accento balsamico del tiglio. Bella la texture dal cristallo fine e cedevole che dà freschezza.

500 g prezzo 8/12 euro

La Margherita - Rivoli (TO) - corso Francia, 152 - 0119913469 – apicolturalamargherita.it

 

Miele Mario Bianco. Ph Andrea Di Lorenzo

4 - Mario Bianco

L'uniflorale di Mario Bianco, della linea Mieli d'Autore, raccolto nel Parco del Gran Paradiso Ceresole Reale, è un bel miele che si annuncia affascinante e piacione già nell'aspetto: liquido, molto asciutto, di un luminoso colore dorato freddo appena più scuro del dovuto. L'odore, di un'eleganza forse un po' troppo sofisticata per un rododendro, richiama il lampone, la frutta trasformata, la propoli, una sensazione calda, un ricordo di pera, pesca e fiori bianchi, ma alla lontana anche torrone, confetto, mandorla dolce, zucchero filato, cera, uva aromatica. Il palato è più di miele di alta montagna che di rododendro puro per una complessità espressa in diverse direzioni: una lieve nota balsamica di fiori di tiglio, un vago sentore di resina e di agrume che ricorda il mandarino e la scorza d'arancia vintage su una base di pasticceria e di caramella di frutta e un fondo bocca di marron glacé.

250 g prezzo 7/9 euro

Mario Bianco - Caluso (TO) - via Morteo, 20 – 0119833441 – mieleitalia.com

 

Miele Mariangela Prunotto. Ph Andrea Di Lorenzo

5 - Mariangela Prunotto

Un bel miele della fascia alpina piemontese, forse un po' borderline rispetto alla classe ma accattivante e balsamico, mammoso ma spregiudicato, con la tenerezza dei dolciumi e l'alito fresco del tiglio. Ha personalità, persistenza e muscoletti sotto un faccino d'angelo. Proprio per questo l'uniflorale di Mariangela Prunotto è buono, piace, ma è un po' distante dal classico rododendro. Aspetto ancora tra il liquido e il fluido di tonalità dorato spento, appena più scuro del dovuto, texture seducente, odore di montagna ma più intenso, dolcezza spiccata, ha una bocca importante con la canonica base di caramella al lampone, confettura di frutti di bosco e succo di pera sul quale si allunga la zampa balsamica e persistente di tiglio, seguita da codazzo di altre sensazioni: pera, fiori bianchi, ricordi di resina, pinolo e cuoio.

400 g prezzo 8-10 euro

Mariangela Prunotto - Alba (CN) - fraz. Mussotto via Osteria, 14 – 0173441590 – mprunotto.com

 

Miele Brezzo. Ph Andrea Di Lorenzo

6 - Brezzo

Il monofloreale di Brezzo, raccolto nell'Alta Valle Maira, nel Cuneese, è al limite della denominazione per una leggera presenza di altre essenze aromatiche che ne cambia il profilo classico. La bella nuvola cremosa di cristalli fini di una solare tonalità sabbia è un po' più scura di come dovrebbe essere. Al naso le tipiche note calde e fruttate sono accompagnate da discrete interferenze del castagno (note animali, bosco, cuoio, funghi, resina, conifere, sapone di Marsiglia). In bocca inizialmente sembra rientrare nei ranghi grazie all'esuberante dolcezza, ai freschi richiami al succo di pera e al melone bianco invernale e ai lontani ricordi di fiori bianchi. Ma subito torna il castagno (una dose omeopatica ma capace di spostare il profilo del miele), si aggiunge lieve la traccia balsamica e la persistenza del tiglio mentre scompare la componente fruttata.

500 g prezzo 12,50/14,80 euro

Brezzo - Monteu Roero (CN) - fraz. Tre Rivi, 87 – 017390109 - brezzo.it

 

a cura di Mara Nocilla

foto di Andrea Di Lorenzo

 

QUESTO È NULLA...

Nel numero di gennaio del Gambero Rosso, un'edizione tutta nuova in questi giorni in edicola, trovate anche un focus sul millefiori di alta montagna (voi le sapete le differenze tra questo e il miele di rododendro?) e i consigli per usare il miele, in versione dolce, salata oppure abbinato ai formaggi a latte crudo che abbiamo selezionato sempre all'interno di questo numero. La sezione delle classifiche, inoltre, include le descrizioni e i consigli per abbinare 5 oli nuovi.

Il numero lo potete trovare in edicola o in versione digitale, su App Store o Play Store Abbonamento qui

Bruges, l'addio di Hertog Jan. Chiusura a Tre Stelle per Gert De Mangeleer

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Chiuderà alla fine del 2018 il ristorante di Gert De Mangeleer e Joachim Boudens, in attività da 13 anni e dal 2012 insignito con le Tre Stelle. L'obiettivo? Fermarsi all'apice del successo, per rilanciare con nuove esperienze, dal raddoppio di L.E.S.S. alla ristorazione informale.   

Chiusure d'autore

Il 22 dicembre 2018 l'ultimo servizio di Hertog Jan. Poco meno di un anno per spingersi alla periferia di Bruges, località Zedelgem, e provare la cucina che nel 2012, e senza mai dare segni di cedimento, faceva conquistare a Gert De Mangeleer le tre stelle Michelin, unico superstite tristellato del Belgio insieme a Hof Van Cleve, dopo la chiusura del longevo De Karmeliet, in attività dal 1983 alla fine del 2016, con i tre macaron appuntati sul petto dal 1996. Una cucina moderna, quella di De Mangeleer, di territorio, tante verdure dell'orto, per una visione perfezionata col tempo, in 13 anni di attività, insieme al socio Joachim Boudens. Nell'estate 2014, i due traslocavano (con un investimento di oltre 4 milioni di euro, ampiamente ripagato dai numeri degli ultimi anni) nel nuovo spazio che resterà in attività fino al prossimo dicembre, quando l'insegna chiuderà definitivamente le porte per salutare tutti “all'apice del successo”. Un caso che allunga la lista delle defezioni celebri nel mondo dell'alta ristorazione: per rintracciarne una altrettanto nota non bisogna andare lontano, citando lo stop di Kobe Desramaults, oggi ripartito di slancio ad Anversa (ma anche questo sarà un progetto a tempo), ma pure all'altro capo del mondo si registrano le decisioni irreversibili di chef affermati come Gaggan Anand e Andrè Chiang. Ma, precisa la coppia dell'Hertog Jan, “questo non è un addio, piuttosto un nuovo inizio”.

Chiude Hertog Jan. Progetti per il futuro

Cosa significa in concreto non tardano a spiegarlo per confortare chi resterà orfano di una delle tavole più rappresentative della ristorazione d'autore belga ed europea: nuovi progetti, idee in divenire, una nuova storia. Così, dietro al desiderio di riappropriarsi di una vita normale, riscoprendo “il piacere delle piccole cose”, si nasconde anche la voglia di cimentarsi con un progetto che risponda alle esigenze del presente, lavorando sempre al meglio delle proprie possibilità, ma trascendendo “dall'impostazione tradizionale di un ristorante”. A cominciare dall'evoluzione di L.E.S.S., acronimo del concept che ha esordito qualche tempo fa nella vecchia sede del ristorante, a Sint Michiel, un ritrovo informale per amanti della buona cucina che omaggia la tradizione spagnola, con prodotti e vini in arrivo dalla penisola iberica e serviti in tavola al motto di “love, eat, share, smile”. Parole che certamente orienteranno le scelte future del team, che nei prossimi mesi si concentrerà sul trasloco di L.E.S.S. nel centro di Bruges, in uno spazio che comprenderà anche wine bar e laboratorio di pasticceria con vendita al pubblico. Del resto la decisione di concludere l'esperienza Hertog Jan non è arrivata come un fulmine a ciel sereno, e ha richiesto oltre un anno di discussione per arrivare alla consapevolezza che fosse la giusta risoluzione di un lungo e soddisfacente lavoro di squadra.

Con nuove energie a disposizione, dunque, De Mangeleer e Boudens penseranno anche a raddoppiare l'esperienza del bistrot in una nuova città, e nel frattempo lavoreranno sul perfezionamento di un'esperienza esclusiva in uno spazio “segreto” per servire un massimo di 200-300 persone in un anno, “numeri che al ristorante facciamo in 2 o 3 giorni”. E poi si lavora su un'idea di ristorazione fast food, tutta in divenire, che prenderà ispirazione dai viaggi in programma quando ci sarà più tempo a disposizione. Intanto però c'è un presente da onorare fino in fondo: “Vogliamo che il 2018 sia l'anno più bello di Hertog Jan”.

 

Hertog Jan – Zedelgem, Bruges – www.hertog-jan.com

 

a cura di Livia Montagnoli

Mappa gourmet dei borghi d'Italia. La nuova app di Coldiretti per l'anno del cibo italiano

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Il 2018 è un anno dedicato alla cultura gastronomica tricolore. Dopo la campagna social dei musei italiani per valorizzare il profondo legame arte/cibo, arriva l'iniziativa di Coldiretti per promuovere la tradizione dei borghi italiani.

La produzione dei borghi

5.567. È il numero dei borghi che compongono l'affascinante panorama della Penisola italiana, piccoli Comuni al di sotto dei 5mila abitanti, dove vivono circa 10 milioni di italiani. È qui, in queste località caratteristiche che punteggiano lo Stivale, che si produce il 92%dei prodotti di origine protetta (Dop e Igp), oltre al 79% dei vini italiani più pregiati. Quella della cosiddetta “Italia minore”, infatti, è una cucina fatta di tradizioni secolari, ricette antiche, manualità e gesti ripetuti nel tempo, una storia avvolta nel mito, prodotti autentici, sapori netti e decisi, una tavola schietta e senza fronzoli che rispecchia a pieno il carattere identitario del luogo da cui ha origine. Il rapporto Coldiretti-Fondazione Symbol “Piccoli Comuni e tipicità”, da poco pubblicato nella Gazzetta Ufficiale dell'Unione Europea, offre un'istantanea della dimensione produttiva di ogni singola regione, evidenziando ancora una volta il ruolo determinante che i produttori dei borghi italiani ricoprono nel settore agroalimentare nazionale.

La legge Realacci a tutela dei piccoli Comuni

Un patrimonio immenso che potrà essere ulteriormente valorizzato e promosso grazie alla legge Realacci (la n.158 del 6 ottobre 2017), che contiene misure per il sostegno dei piccoli Comuni, un testo ottenuto dopo un iter lunghissimo, che ha visto l'impegno di decine di associazioni, prime tra tutte Coldiretti e Legambiente, e di migliaia di cittadini. Una norma che prevede una serie di semplificazioni e di misure per favorire il turismo di qualità, per la promozione dell’agroalimentare a filiera corta, ma anche la diffusione della banda larga, strumento essenziale per ampliare l’universo comunicativo e produttivo di territori ritenuti finora marginali. E che investe anche sulla dotazione dei servizi più razionale ed efficiente, sulla manutenzione del territorio e la messa in sicurezza di strade, scuole e del patrimonio edilizio pubblico.

L'iniziativa di Coldiretti

Ancora a favore dei Comuni più piccoli, il progetto di Coldiretti, in collaborazione con Symbola, che dopo l'annuncio del 2018 anno del cibo italiano, vuole promuovere quello in corso come “Anno europeo del patrimonio culturale”. L'obiettivo? Restituire valore ai riconoscimenti Unesco legati alla tavola, come la Dieta mediterranea, la vite ad alberello di Pantelleria, i paesaggi delle Langhe Roero e del Monferrato, Parma città creativa della gastronomia, e la più recente Arte del pizzaiuolo napoletano. La sfida è quella di rilanciare un nuovo modello di economia più a misura d’uomo, che tiene insieme sviluppo e sfide tecnologiche, benessere e vitalità delle comunità. Dopo l'iniziativa della campagna social dedicata al rapporto fra arte e cibo (con l'account Instagram @museitaliani), l’anno nazionale del cibo italiano nel mondo continua con la mappa gourmet dei tesori nascosti nei borghi d’Italia, che raccontano la storia di un patrimonio naturale, paesaggistico, culturale e artistico senza eguali per la popolazione locale.


L'app

Tante le prelibatezze che caratterizzano le diverse cucine regionali. C'è il Vin Santo di Vigoleno nell'omonimo borgo a Vernasca, in provincia di Piacenza, che con circa 5mila bottiglie prodotte ogni anno si contende il titolo della più piccola Doc d'Italia con il vino Loazzolo, realizzato nel paesino dell'Astigiano che conta solo 358 anime. E poi il carciofo violaceo di Montelupone nel Maceratese (detto “scarciofeno”), la mortadella di Campotosto, le lenticchie di Ustica, la treccia di Santa Croce di Magliano, l'aglio di Resia, i fagioli di Sarconi. La lista, lunga e complessa, continua fra formaggi, salumi, ortaggi singolari, erbe spontanee, legumi, prodotti da forno, farine e cereali. Per trovare queste e molte altre prelibatezze made in Italy meno conosciute, per tutto il 2018 sarà attiva una nuova app firmata Coldiretti, Farmers for you, che raduna i migliori mercati, le fattorie, e le botteghe, per una mappa gastronomica che conta oltre 10mila punti in tutta Italia.

a cura di Michela Becchi

Il cameriere, la professione del futuro

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Economia aziendale for dummies: inquadrando un locale come una qualsiasi azienda, la sala corrisponde allarete di vendita. E proprio per questo è fondamentale per il successo del locale stesso. Ragionamento logico, ma ancora troppo poco applicato.  

A inizio anno si fanno sempre previsioni per i mesi avvenire, ma proviamo a farne una che vada oltre i canonici 365 giorni: il mestiere del futuro nel mondo della ristorazione è il cameriere, ma anche il maître o qualsivoglia compito in sala. È una questione di economia aziendale: osservando un qualsiasi locale - che sia pizzeria, pub o ristorante vero e proprio - e inquadrandolo da un punto di vista di struttura funzionale, di fatto è suddiviso in produzione, amministrazione e vendita; come ogni azienda. Di conseguenza in un locale la cucina o la pizzeria rappresentano la produzione, la cassa e il commercialista che c’è dietro corrispondono all'amministrazione e la sala è la vendita.

Dalla teoria alla pratica (sbagliata)

Ciononostante, a pensarci, quale è la parte più “debole” dei locali in cui andate, qual è la parte che spesso è meno curata in prima battuta rispetto alla produzione? Probabilmente in molti di voi risponderanno “la sala”. Già, perché in questi anni si è vista una specie di corsa, di escalation verso la produzione migliore, quindi via con chef e pizzaioli sempre più quotati, che abbiano un nome, con conseguente aumento della spesa. E poi, in sala, per compensare i costi dei primi, ci si ritrova gli stagisti o persone che fanno il cameriere come ripiego e non come scelta professionale. Eppure, proprio perché - come detto - si è andati verso un miglioramento della qualità della produzione, questa dovrebbe essere raccontata, spiegata al cliente, altrimenti perde molto della sua importanza, rendendo vano lo sforzo dello chef o del pizzaiolo.

L'importanza del cameriere nell'“azienda ristorante”

Purtroppo è piuttosto difficile che il racconto venga fatto (e bene) dal personale che non ha come motivazione il diventare un professionista della sala. Tuttavia nell’azienda ristorante bisogna saper vendere. Bisogna saper vendere anche a chi non comprerebbe, e qui risiede la bravura del personale di sala, che deve avere sì doti personali, ma anche e soprattutto deve essere preparato e deve aver studiato materie come la comunicazione non verbale o la prossemica. Invece, nelle lezioni di scuola alberghiera o anche nei corsi privati è raro vedere materie simili. Non solo, questi corsi sono sempre meno frequentati, almeno rispetto a quelli relativi alla cucina, quindi alla produzione. È facile immaginare che la causa sia anche la televisione che propone chef di successo, e che questa sia la molla dell’ambizione che fa scegliere questa strada, con la sicurezza di guadagnare (e apparire), piuttosto che l'altra.

La scorretta remunerazione

Certo, va anche considerato che da noi non si applica neanche una corretta remunerazione del cameriere. Sempre seguendo le logiche aziendali, dovrebbe essere pagato come un venditore qualsiasi, ovvero con un fisso più una percentuale, che potrebbe essere la mancia istituzionalizzata o una percentuale sui ricavi, così come avviene in vari paesi esteri, dove l’approccio aziendale alla ristorazione è più consolidato. È facile infatti incontrare qualche ragazzo o ragazza che siano andati a fare il cameriere in America o a Londra e che raccontino proprio di quanto guadagnavano, spesso più dello chef o del pizzaiolo. Il contrario di ciò che avviene da noi, ma esattamente quanto avviene in azienda tra impiegati e commerciali. Creare maggiore possibilità di guadagno per il personale di sala anche da noi sarebbe probabilmente la molla per riempire i corsi e guardare alle posizioni di maître e cameriere con altro occhio, anche da parte di chi si affaccia al mondo del lavoro. Il problema principale, dunque, è il cambio di mentalità che dovrebbe coinvolgere titolari, dipendenti e clientela. Un cambiamento che ci auspichiamo possa avvenire nel lungo periodo anche perché ne va della professionalità di chi incontriamo a servirci a tavola. Non dimentichiamo, infatti, che andare a mangiare fuori significa principalmente stare bene in un locale, e in questi termini la sala gioca sicuramente un ruolo molto importante. Il termine tecnico è “fidelizzazione del cliente” che è garanzia di ricavi fondamentale per qualsiasi azienda. Azienda, appunto, come dicevamo all’inizio.

 

a cura Marco Lungo


Il vino, di generazione in generazione. Il Vermentino di Gallura

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Le famiglie del vino al cambio generazionale. Parliamo di giovani leve che affiancano i patriarchi e danno nuova linfa alle attività di famiglia, attraverso percorsi innovativi per raccontare il territorio. È la volta del Vermentino di Gallura.  

Continua l’appassionante racconto del cambio generazionale nelle case vitivinicole della Penisola. Questa volta andiamo in Sardegna, in particolare nella Gallura.

La Sardegna e la Gallura

Arrivare in Sardegna non è semplice, come è noto i collegamenti col continente sono scarsi e costosi. E a volte si ha come la sensazione di attraversare delle atmosfere, un po’ come la sonda Cassini – Huygens attorno a Saturno. Ma una volta arrivati sull’isola le peripezie del viaggio vengono totalmente ripagate da un territorio fine e articolato, lontano anni luce dagli stereotipi che gli gravitano attorno. La Sardegna ti sorprende, e lo fa anche attraverso l'arte. Con le opere di Maria Lai, il jazz di Paolo Fresu e la letteratura di Grazia Deledda, solo per citare alcuni nomi, attuali o passati. Una bellezza a trecentosessanta gradi che tocca l'intera isola. Compresa la parte nord-est, ovvero quella che va dal fiume Coghinas, fino a San Teodoro, la Costa Smeralda e l’arcipelago della Maddalena. È la Gallura, l’unica DOCG della regione.

Il Vermentino di Gallura

Dal punto di vista enologico la Sardegna è un’isola capace di mostrare le sue prodezze e le sue sconfitte senza mezzi termini e forse proprio per questo rappresenta una delle sfide più avvincenti di tutto il comparto. In particolare la Gallura - che gode di una certa notorietà grazie alla vicinanza con la Costa Smeralda - con il vermentino. Un grande vitigno mediterraneo, complici le condizioni pedoclimatiche uniche: suoli composti da disfacimento granitico, venti di maestrale e di scirocco, boschi di querce secolari, fiumi e macchia mediterranea che circondano la maggior parte dei vigneti e sanità diffusa delle uve. In più un aspetto fondamentale: la grandissima manodopera sarda che proprio in questi ultimi tempi sta acquistando competenza agronomica, uscendo pian piano da una concezione imprenditoriale basata sulla stagionalità per entrare in quella della specializzazione di settore. Tanto basta per sperare in un’audace nouvelle vague di produttori desiderosi di realizzare vini icone del Mediterraneo. Di seguito alcuni esponenti.

Vigneti di Vermentino di Gallura

Vigne Surrau

Testimone di un’antica realtà rurale originatasi nello stazzo - insediamento agropastorale tipico del territorio - la famiglia Demuro porta avanti questa tradizione in chiave moderna, grazie a un gusto imprenditoriale giocoso e risoluto, intellettuale e politico, capace di contaminare un territorio atavico con un piglio avveniristico. Il background manageriale dei Demuro si basa sulla storia di Giovanni e Mariarosa che sono stati capaci di trasmettere ai loro 12 figli la cultura del lavoro, della casa e del vivere in una comunità. Reinvestire sempre per crescere insieme: questo concetto ha attraversato le vite dei loro figli, alcuni dei quali hanno saputo sfruttare la nascita della Costa Smeralda per divenire prima imprenditori edili di successo e poi chiudere il cerchio tornando alla terra con l’azienda vitivinicola Surrau.

Lo stile di famiglia

Tino Demuro è di sicuro il più avvincente sostenitore di questa avventura, un Indiana Jones ante litteram, capace di maneggiare curiosità, rischio e novità con destrezza e concretezza. Fortemente influenzato dall’amicizia con Fabrizio De Andrè e dalle abilità del Principe Karim Aga Khan IV, demiurgo della Costa Smeralda, sta lasciando oggi a figli e nipoti giovialità, efficienza produttiva e distributiva e l’utilizzo dell’arte, in particolare la fotografia, come linguaggio per identificare la Sardegna e la Gallura nel mondo. La bella cantina, un esempio di bioedilizia riuscita, ospita spesso delle retrospettive fotografiche esilaranti, non ultima quella su Maria Lai. Bene, ma quali sono i punti di discontinuità con le new generation? Sicuramente il coming out da una logica aziendale per entrare in quella territoriale, favorendo la nascita di una comunità vitivinicola capace di valorizzare ogni singola identità, diventando così glocal.

I vini

Le vigne della tenuta Surrau sono ripartite in 7 appezzamenti dislocati in diverse zone della piana di Arzachena e le colline di Luogosanto. La gestione agronomica dei vigneti è altissima. Per intenderci basti considerare il progetto Ga-Vino. Uno studio di ricerca finanziato dall’UE, in partnership con Agris Sardegna, Università di Sassari e CNR, che sta fornendo al team agronomico Surrau gli strumenti giusti per interpretare il linguaggio della vite ed esaltarlo. Poi sono il vento, l’escursione termica e la maturazione delle uve a fare il resto. L’interpretazione della cantina ha un savoir faire finemente bilanciato tra acciaio, cemento e vetro per i bianchi e barrique per i rossi. Il Branu 2016, è un Vermentino di impatto, classico , giovane e sapido. Lo Sciala 2016 è una versione superiore: luminoso, complesso ed elegante, con una struttura agile ed equilibrata. Finisce in un attimo, soprattutto se accompagnato da una fregola sarda con arselle. La versione vendemmia tardiva 2014 è interessante ma meno scattante. Lo Sciala 2010 è un vino marino, intenso, bronzeo. Arriva al palato con decisione e facilità, regalando un affondo fresco-sapido che sa di Mediterraneo. Da gustare ascoltando Creuza de mä di Faber. Last but not least il Brut Millesimato (Metodo Classico da uve Vermentino) 2014: una bollicina sulfurea, calibrata e corrispondente.

Vigneti di Vermentino di Gallura

Masone Mannu

Arrivando in località Su Canale, frazione del comune di Monti, si viene accolti da profumi di macchia mediterranea quali elicriso, alchimissa (lavanda selvatica), mirto, corbezzolo, cisto e ginepro. Qui è immersa la cantina Masone Mannu, situata in una vallata a conca distante solo 10 chilometri dal mare, che si sviluppa su un corpo unico al tempo stesso elegante, selvaggio e minimalista. L'azienda è forse uno degli esempi più belli e riusciti di team bulding.

Lo stile

Il merito di Michele Ghirrà, il fondatore, è stato quello di creare nel 2003 l’azienda valorizzando un luogo unico. Concentrandosi su un miglioramento fondiario del vigneto e incrementando la produzione del Vermentino che qui ha trovato un territorio d’elezione. La nuova acquisizione avvenuta nel 2014 per conto di un fondo di investimenti dell’Azerbaigian, con sede a Londra, non ha svalutato o snaturato nulla, anzi, ha incrementato il tutto con un upgrade fondamentale. Un’iniezione di liquidità usata con discrezione, capace di custodire la visione enologica e le maestranze locali e al tempo stesso di virare sul biologico. Diversamente, l’investimento sul territorio si è arricchito di una visione internazionale capace di prestare attenzione al dettaglio, senza lasciare nulla al caso. Mantenendo quello che c’era dandogli solo più definizione e un approccio globale.

L'enologo

Dal 2006 Roberto Gariup, enologo friulano cresciuto alla corte di Marco Felluga e trapianto in Sardegna per sfida e per amore, gioca il ruolo di playmaker imprimendo una personalità ben precisa allo stile e all'evoluzione del vermentino, che nelle sue mani diventa un vino carismatico e longevo. Persuaso che la macerazione sia la via maestra per dare alla luce un grande Vermentino gallurese figlio del suo territorio, riconosce nel vento di settembre la capacità di influenzare il gusto del vino. Il magic touch dello scirocco è nel fermare l’estate sulle uve regalando vini sapidi, mentre quello del maestrale di favorire l’escursione termica esaltando aromaticità e verticalità.

I vini

Abbiamo assaggiato due anteprime, frutto di una sperimentazione che portano avanti da anni in cantina: il 47 giorni macerato è un Vermentino graffiante, espressivo nelle note di elicriso. Reattivo al palato e con un finale ammandorlato da brivido, un macerato mediterraneo in chiave friulana. Il 30 giorni macerato mette d'accordo tutti: è tardivo, affascinante, avvolgente e persistente. I due vini a breve verranno introdotti sul mercato. Il Roccaìa 2016 è cangiante, fermentativo nelle note floreali con cenni agrumati e iodati. Assaggio teso, cala un po’ nel finale ma è figlio di un’annata calda. Il Petrizza 2016 è arioso, salino, generoso e composto, di grande corrispondenza gusto-olfattiva. Ideale con pasta e ricci. Il Costarenas 2016 vendemmia tardiva(anch'esso un'anteprima), è un vino con un sottofondo dolce- sapido a rilascio lento, con un ritmo caldo e fruttato, da provare con culurgiones con crema di zucca arrostita e scaglie di mandorle. Il Roccaìa 2013, è un vino intellettuale. Macchia mediterranea nel bicchiere allo stato puro, è invitante, materico e agile. Un vino complesso ma goloso. Da gustare ascoltando Life on Mars?di David Bowie, magari accompagnandolo con un carpaccio di ombrina. Il Costarenas 2011 è affumicato, sulfureo, meditativo; perfetto con una tartare di tonno e semi di sesamo. In fine, il Collezione privata 2009: carnoso, morbido, sapido, progressivo e piccante; trasmette perfettamente le potenzialità evolutive del Vermentino di Gallura.

Vigneti di Vermentino di Gallura

Vini Mura

Entrando nel confine sud della DOCG si entra nella vallata Azzanidò. Lungo la strada si ha la sensazione di stare sul set di “C’era una volta il West” ma una volta arrivati presso la cantina Mura il set cambia, e ci si sente piuttosto sull’isola di Lost. Il comune di appartenenza è quello di Loiri Porto San Paolo, a pochi chilometri a sud di Olbia e dalle spiagge incantevoli di Porto Istana, Capo Coda Cavallo e l’Isola di Tavolara. Il vigneto, uno tra i più vecchi della DOCG, si sviluppa per 9 ettari davanti alla cantina. Tutto intorno una vegetazione inizialmente bassa composta da cisto, ginestra e lentisco, pian piano si alza con il corbezzolo arrivando fino a querce e pini. Qui, la ventilazione costante data dall’incontro tra due correnti ventose, una proveniente dal mare e l’altra dalla montagna, oltre a favorire la quiescenza della vite, dona al luogo un carattere vivace, in continuo movimento.

Lo stile di famiglia

Nata negli anni '70 dalla capacità visionaria di Filippo Mura, l’azienda è diventata nel tempo un esempio di imprenditoria sarda capace di scrivere la sua storia con le proprie mani basandosi sulle maestranze del luogo e le caratteristiche del territorio. Quello che Filippo e Giovanna Rosa hanno lasciato ai loro quattro figli è stato l’insegnamento che la Sardegna non è solo una terra di conquista straniera. Un ottimismo ricorrente e la capacità di saper leggere la situazione sono i punti di continuità con la nuova gestione, oggi soprattutto nelle mani di due figli: Salvatore e Marianna. I punti di discontinuità sono la specializzazione agronomica ed enologica dei due fratelli e una forma mentis capace di correre i rischi di impresa con preparazione e consapevolezza tecnica oltre a una predisposizione caratteriale a lasciar si che “le lampadine si possano accendere in ogni momento”.

Il lavoro dell'enologo

A Marianna Mura, secondo enologo donna nella storia dell’isola, va dato il merito di aver contribuito alla ridefinizione del lavoro femminile in Sardegna. Con una sensibilità unica e una base di studi in biologia ha poi virato verso enologia terminando il suo percorso in Friuli, anche lei presso Marco Felluga, compiendo svariati viaggi in Georgia. La sua visione della vigna e del vino è a trecentosessanta gradi ed è capace di interpretare e portare tutta la biodiversità del terroir nei suoi vini. Considerare il vermentino un vitigno figlio del Mediterraneo le ha permesso di sviluppare una tecnica di vinificazione basata sul bâtonnage e la macerazione delle uve in barrique, dando così un’interpretazione unica e personale al Vermentino gallurese. Un Vermentino 2.0 che porta nel suo DNA i ricordi macerati che caratterizzavano l’interpretazione del padre.

I vini

Il Prisma 2016 è un Vermentino capace di esprimere chiaramente il suo intento: luminoso, floreale, con cenni mentolati, scorrevole e sapido. Il Cheremi 2016 è affascinate e generoso. Gioca poco sul frutto e molto su erbe aromatiche e tonalità iodate. Goloso e saporito ha un gran portamento con un finale lunghissimo. Da provare con polpo e farina di ceci. Sienda 2016 è magnetismo ed equilibrio allo stato puro. Oro alla vista ha una profondità sapida, profumi intensi e complessi di macchia mediterranea e cenni agrumati. Vivace e reattivo all’assaggio restituisce nel bicchiere l’unicità del suo territorio. Audace con un finger food made in Gallura come un piccolo burger di pecora, casizolu, giardiniera e salsa bbq, oppure perfetto con una zuppa gallurese. In alternativa compagno di “Que rest-t-il de nos amours” di Trenet interpretata da Richard Galliano, Jan Lundgren e Paolo Fresu.

 

Vigne Surrau - Arzachena (OT) - Località Chilvagghja, Porto Cervo - 0789 82933 - vignesurrau.it

Masone Mannu - Monti (OT) - Località S.S. 199 km 48 - 0789 47140 - masonemannu.com

Vini Mura - Loiri (SS) - Località Azzanidò - 340 260 2507 - vinimura.it

 

a cura di Emanuele Schipilliti

 

Per leggere Il vino, di generazione in generazione. Il Montepulciano d'Abruzzo Colline Teramane clicca qui

Per leggere Il vino, di generazione in generazione. Il Vino Nobile di Montepulciano clicca qui

Per leggere Il vino, di generazione in generazione. Le Rive e le famiglie del Prosecco clicca qui

Per leggere Il vino, di generazione in generazione. L'Orvieto clicca qui

 

A scuola da Andoni Luis Aduriz e Dominique Crenn. La borsa per giovani chef della World's 50 Best

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Primo anno per l'iniziativa promossa dall'organizzazione presieduta da William Drew in collaborazione con BBVA, che premierà un giovane aspirante chef con un'esperienza di tre mesi nelle cucine del Mugaritz e dell'Atelier Crenn. Ecco chi può partecipare. Il vincitore proclamato a Bilbao, in occasione della cerimonia dei World's 50 Best Restaurants. 

Premiare il talento per il futuro della cucina

Mio padre non aveva la possibilità di pagarmi gli studi e io non potevo permettermi di frequentare i corsi di cucina fondamentali per la mia formazione”, così parla oggi Andoni Luis Aduriz, patron del Mugaritz di San Sebastian, che solo al talento e alla sua pervicacia deve il successo arrivato a coronare un percorso iniziato in salita. Ma lo chef basco, tra le figure più celebrate nel panorama dell'alta ristorazione internazionale, consapevole delle difficoltà comuni a tanti ragazzi desiderosi di intraprendere il suo mestiere, sa quanto sia importante una buona formazione per il futuro della ristorazione, “ e sostenere il talento è un dovere di chi ce l'ha fatta”, con l'idea di democratizzare l'accesso al sapere gastronomico. Torna sull'argomento, e si impegna in prima persona, in occasione del lancio della prima borsa di studio per aspiranti chef promossa dalla World's 50 Best Restaurants in collaborazione con il Banco Bilbao Vizcaya Argentaria. La città basca sarà protagonista della prossima cerimonia di premiazione dei migliori 50 ristoranti del mondo, in programma il 19 giugno 2018. E sul palcoscenico salirà pure il vincitore della borsa, che tra giugno e settembre avrà un'opportunità unica per apprendere i segreti del mestiere nella squadra di due tra i ristoranti più acclamati del mondo: il Mugaritz di Aduriz e l'Atelier di Dominique Crenn a San Francisco. Sei settimane da spendere a San Sebastian, altrettante a disposizione in California.

 

La borsa di studio. Come partecipare

La partecipazione è aperta agli chef con almeno un anno (e massimo tre) di esperienza in una cucina professionale e agli studenti di un corso di cucina diplomati da non più di un anno; maggiorenni e di ogni nazionalità. Le candidature possono essere presentate entro il 5 febbraio 2018 tramite application form disponibile sul sito dell'iniziativa (cui allegare referenze del proprio tutor o del datore di lavoro). Il nome del vincitore sarà rivelato nel mese di aprile, dopo una triplice scrematura a opera di una commissione scientifica che annovera figure in forze all'organizzazione della 50 Best, e gli chef direttamente coinvolti nel progetto, Andoni Luis Aduriz e Dominique Crenn: la prima selezione indicherà 20 candidati idonei, chiamati a inviare due video di presentazione, uno per raccontare obiettivi, ambizioni, visione, l'altro dedicato a un piatto rappresentativo del proprio percorso. Poi, si procederà a scegliere i tre finalisti, che in videoconferenza saranno chiamati a convincere la commissione. Il nome del prescelto sarà rivelato il 18 aprile.

La vita è fatta di ispirazioni date e ricevute” dice a proposito della sua adesione la chef francese d'adozione americana “si tratta di essere curiosi, ma anche di offrire alle nuove generazioni la possibilità di imparare quello che noi abbiamo imparato in passato. Partecipare a questo programma di formazione è un regalo per noi, perché ci aiuta a comprendere cosa stiamo facendo oggi e dove andremo in futuro”. La borsa coprirà per intero le spese di viaggio e alloggio del giovane vincitore. E se l'iniziativa avrà successo, l'organizzazione è già pronta a replicare il prossimo anno. Per ora, in bocca al lupo a chi vorrà partecipare.

 

Per informazioni https://wrbookings.50bestscholarship.com/

 

a cura di Livia Montagnoli

Noma 2.0. Redzepi offre cena gratuita a due fortunati che sosterranno il progetto Mad

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Manca sempre meno al nuovo Noma 2.0, l'ambizioso progetto di Redzepi che sta tenendo il mondo della gastronomia con il fiato sospeso. Le prenotazioni per la cena di inaugurazione sono già sold out da tempo, ma per i più fortunati, non tutto è perduto. Ecco come vincere cena e pernottamento gratuiti.

Noma 2.0. Aspettando il grande giorno

Un luogo nuovo, con un approccio evoluto e uno spirito rinnovato. Il 2018 dell'alta ristorazione si apre con una delle notizie che, senza dubbio, caratterizzeranno più di ogni altra l'anno appena cominciato per i buongustai di tutto il mondo. L'attesa per l'apertura del Noma 2.0 – prevista fra meno di un mese – è spasmodica. Dopo aver trascorso la scorsa estate tra farmer svedesi, vagando per i boschi e frequentando le scogliere e la baie più nascoste per recuperare il giusto spirito e l'approccio verso il prodotto locale, René Redzepi si prepara ad aprire i battenti il prossimo 15 febbraio, con un menu stagionale, incentrato sui frutti di mare, le verdure e la selvaggina. Non c'è da stupirsi se le prenotazioni per la prima stagione siano andate esaurite quasi subito. Non poteva essere altrimenti per la più annunciata “seconda vita” del mondo della gastronomia, e di uno chef che ha dettato e stravolto le regole, scrivendo il manifesto della nuova cucina nordica, e contribuendo in prima persona a far crescere una generazione di cuochi. E non solo nella sua Scandinavia.

Progetto MAD

Ma non tutto è perduto, e per due fortunati c'è ancora la possibilità di prender parte alla cena inaugurale, a titolo completamente gratuito, con tanto di viaggio e pernottamento offerto. Lo chef, infatti, ha deciso di offrire la possibilità a due persone di provare la sua nuova cucina, con l'unica condizione di una donazione a MAD, associazione no-profit fondata da Redzepi nel 2011 che ha dato vita poi al simposio annuale, nel 2014 approdato anche a New York, pensato per sfruttare le potenzialità di un nuovo avamposto internazionale da cui coordinare le attività dell'organizzazione guidata dallo chef. Fino all'arrivo, nell'agosto 2015, alla divulgazione di un nuovo manifesto – frutto proprio delle riflessioni scaturite nell'ambito del progetto MAD –, VILD MAD, che tradotto si legge cibo “selvaggio” (wild food), una risorsa ideata per aumentare la consapevolezza alimentare di una platea quanto più allargata possibile, e incentrata soprattutto sul foraging. E recentemente trasformata anche in un'app gratuita, disponibile per App Store e Google Play, in lingua danese e in inglese, uno strumento essenziale per coinvolgere adepti del wild food di tutto il mondo – mentre i danesi possono già consultare sul sito dedicato il calendario dei corsi e delle iniziative sul territorio nazionale, con il contributo di 50 park ranger in tutta la Danimarca – che ha impegnato il team di MAD negli ultimi quattro anni.

La cena di inaugurazione

Come fare, dunque, per vincere la cena di inaugurazione con pernottamento? Basta fare una donazione tramite Omaze, piattaforma di raccolta fondi online che offre la possibilità di sostenere cause e progetti di tipo diverso. E sperare di essere i fortunati ospiti estratti a sorte. Per promuovere l'iniziativa, il team del Noma e Omaze hanno prodotto, inoltre, un video di 90 secondi, che offre una prima e curiosa panoramica del nuovo ristorante, svelando dettagli e particolari di uno dei locali più attesi dell'anno, dalla proposta del menu al servizio, passando anche per il nuovo laboratorio di fermentazione.

Per i meno fortunati, comunque, niente paura: il prossimo 18 gennaio si riapriranno le prenotazioni per cenare al Noma 2.0 nel mese di maggio. Non dimenticate di segnarlo in agenda!

Per chi volesse approfondire l'argomento Noma, poi, sull'ultimo numero di gennaio del Gambero Rosso, oltre a un'analisi sui 10 progetti di ricerca che più hanno impegnato il Nordic Food Lab negli ultimi 10 anni, Gualtiero Spotti ha raccolto le aspettative di 20 personalità del mondo dell’enogastronomia italiana e internazionale.

a cura di Michela Becchi

Ferrero alla conquista del mercato USA. Al gruppo di Alba i marchi dolciari di Nestlé negli States

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L'accordo è stato raggiunto sbaragliando la concorrenza del colosso Hershey, e vale 2,8 miliardi di dollari. Così il gruppo piemontese guidato da Giovanni Ferrero continua l'espansione negli Stati Uniti, dov'è presente dal 1969. E diventa il terzo gruppo dolciario sul mercato interno, dopo Mars ed Hershey. 

Obiettivo internazionalità. Innovazione e sviluppo

Un'operazione da quasi 3 miliardi di dollari, che al di là dell'evidente valore economico lancia la corsa al sogno americano di Ferrero. Di fatto, l'azienda piemontese conosciuta in ogni angolo del mondo grazie alla Nutella ha da tempo avviato un processo di internazionalizzazione scalare mirato a penetrare nuovi mercati con il fondamentale sostegno di una divisione ricerca e sviluppo all'avanguardia. In questa direzione, l'estate scorsa, Ferrero inaugurava il suo primo Innovation Center asiatico a Singapore, all'interno del potente incubatore del Singapore Economic Development Board. Un avamposto in più, sul modello del laboratorio di ricerca di Alba, per presidiare un mercato di grande importanza strategica, presentando prodotti orientati sul gusto e sulle esigenze dei consumatori orientali. Tanto che, all'esigenza di concentrarsi sull'innovazione dei processi industriali ha fatto seguito, qualche mese fa, il perfezionamento di una nuova divisione ribattezzata Open Innovation, sotto la guida di Aldo Uva. D'altro canto, però, gli Stati Uniti restano il traguardo di riferimento per moltiplicare il prestigio (e il fatturato, nel 2017 oltre la soglia dei 10 miliardi di euro) del gruppo dolciario.

 

Ferrero negli States. Dal Nutella Cafè alla conquista del mercato

E negli States la strategia di Ferrero si è orientata finora su due orizzonti complementari: da un lato potenziare il brand sentiment facendo appello al proprio prodotto di punta, la Nutella; dall'altro pianificare una serie di acquisti importanti e mirati a scalare il mercato interno di settore, dominato dai big Mars e Hershey (concorrente diretto nell'operazione Nestlé). Al primo obiettivo risponde il format del Nutella Café, concetto di ristorazione informale destinato a moltiplicarsi sul territorio a stelle e strisce e nel mondo dopo il debutto a Chicago alla fine della primavera scorsa, con ottimo riscontro di pubblico. La seconda priorità, invece, fa registrare un deciso balzo in avanti nelle ultime ore, al termine di una trattativa vincente, che ha portato Ferrero ad acquisire tutti i marchi americani di Nestlé. In valore finanziario, l'accordo costa al gruppo di Alba 2,8 miliardi di dollari, ma consente all'azienda di mettere le mani su un giro d'affari di circa 900 milioni di dollari: tale è la cifra generata dall'attività dolciaria di Nestlé negli Usa nel 2016, secondo il comunicato diffuso da Ferrero. Una ventina di brand in totale che passano dal pacchetto della multinazionale svizzera al gruppo presieduto da Giovanni Ferrero (subentrato alla guida a settembre 2017): tra questi, Wonka, Butterfinger, Raisinets (tra i più noti, per il cioccolato), e diversi marchi di caramelle (esclusi invece i prodotti da forno, e, per ovvi motivi, il marchio globale KitKat), oltre all'esclusiva sul marchio Crunch negli Stati Uniti.

 

L'operazione Nestlé

Un bottino che Ferrero non esita a definire “un portafoglio eccezionale di marchi iconici ricchi di storia e di grande riconoscibilità”, e giustifica sogni di gloria, specie considerando le acquisizioni che nel 2017 avevano portato nel paniere Ferrero altri due marchi statunitensi, Fannie May e Ferrara Candy Company. Così il gruppo di Alba diventa la terza più grande azienda dolciaria nel mercato statunitense (dove è presente dal 1969 con le caramelle Tic Tac), e potrà contare pure sugli stabilimenti statunitensi di Nestlè, anch'essi passati di mano, per implementare la produzione sul territorio, finora affidata all'attività di due stabilimenti. E ora Ferrero spinge decisamente sull'acceleratore “per nuove, entusiasmanti opportunità di crescita nel più grande mercato dolciario del mondo”.   

 

a cura di Livia Montagnoli

Street food alla toscana. Un viaggio attraverso il cibo da strada meno conosciuto della regione

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Seconda puntata della rubrica dedicata agli street food regionali meno conosciuti. Andiamo alla scoperta di quelli toscani, assieme alla ricetta di uno storico forno fiorentino.

La Toscana è la culla della ribollita, del ragù di cinghiale e della bistecca alla fiorentina. Ma anche di tante altre preparazioni che fanno del suo patrimonio gastronomico un ricettario vastissimo, capace di raccontare questa regione spaziando dal mare alla terra, dalla tradizione agricola e pastorale alle contaminazioni con le zone limitrofe. Una cucina schietta e di sostanza, che può rivelare spunti interessanti pure per quanto riguarda il cibo da strada. Così, dopo la Sicilia, andiamo alla scoperta degli street food toscani meno conosciuti.

Tra leggenda e verità, il ciaffagnone di Manciano

Un prodotto all’insegna della semplicità: il ciaffagnone di Manciano, in provincia di Grosseto, si prepara unendo acqua, uova e farina. Si ottiene così un impasto dalla consistenza semi liquida e che, dopo la cottura in una padella unta con il lardo, deve risultare finissimo. Una volta pronto, viene ripiegato e guarnito con del pecorino grattugiato. Insomma, una sorta di crêpe in salsa toscana.

Ed è proprio alla celebre ricetta francese che fa riferimento la leggenda nata attorno alla storia del ciaffagnone, secondo cui quest’ultimo, dopo essere arrivato in Francia grazie a una signora di Manciano che lavorava alla corte di Caterina de’ Medici, avrebbe affascinato i cuochi d’Oltralpe e ispirato l’invenzione della crêpe. “Il racconto, forse diffuso da un ristoratore mancianese, non ha però fonti attendibili e si scontra con i dati storici, dato che all’epoca Manciano non faceva parte del Granducato di Toscana”, ci spiega Lucio Niccolai, autore del libro “Il ciaffagnone mancianese: un cibo ancestrale”. Questa è solo una delle tante narrazioni (alcune molte più attendibili) che attribuiscono l’origine di piatti francesi a ingredienti toscani, esportati grazie a Caterina de’ Medici, come nel caso delle cipolle di Certaldo che sarebbero poi diventate le protagoniste della tipica soupe à l’oignon. È molto più verosimile, invece, che il ciaffagnone faccia parte di quell’ampia gamma di pietanze legate alla pratica della transumanza - ne sono un altro esempio i tortelli alla lastra casentinesi - dato che viene mangiato espresso, può sostituire un pasto o comunque essere abbinato al companatico e si cuoce velocemente, anche se prima l’impasto deve riposare per circa due ore.

Ciaffagnone, street food toscanoCiaffagnone

Le due varianti del ciaffagnone e l'origine della parola

Simile al ciaffagnone è la migliaccia di Pitigliano, “che ha uno spessore maggiore e soprattutto ne rappresenta la versione dolce: dopo esser stata ripiegata, viene impreziosita con lo zucchero, prima del quale probabilmente si usava il miele”, sottolinea l’esperto. “Un altro tipo di ciaffagnone è quello di San Casciano dei Bagni, nel senese: pure questo è più spesso rispetto al mancianese e si condisce come fosse un cannellone, con un sugo di carne all’interno e una spolverata di formaggio come guarnizione finale”, conclude Niccolai.

Non si hanno informazioni certe nemmeno per quanto riguarda l’origine della parola: lo storico e studioso di tradizioni popolari Alfio Cavoli ha raccolto una serie di ipotesi - potrebbe derivare da “ciaff”, espressione onomatopeica che indica il rumore provocato dall’impasto quando viene versato sulla padella calda, oppure significherebbe “qualcosa di tirato via”, cotto e mangiato al momento - nessuna delle quali può però essere confermata con sicurezza.

Che ci metto nel panino oltre il lampredotto? Trippa, bollito misto e poppa

Passeggiando per le strade e i mercati di Firenze, è davvero impossibile non incontrare lampredottai e trippai, i quali devono il loro nome proprio alle frattaglie che, dopo essere state cucinate, diventano generose farce per i panini. Da un lato c’è appunto il lampredotto, ottenuto da uno dei quattro stomaci del bovino (l’abomaso), dall’altro la trippa, che si ricava da più cavità dello stesso organo dell’animale. Oltre queste preparazioni più conosciute, ne esistono altre non meno gustose, come ad esempio il bollito misto (o lesso). “Si tratta di varie parti del bovino che sono fatte bollire nel brodo vegetale per circa 5 ore: all’interno del panino vengono poi insaporite con sale, pepe e salsa verde”, ci racconta Lorenzo Nigro, titolare del banco Il Lampredotto - Lorenzo Nigro all’interno del Mercato Centrale fiorentino, dove dal 2014 delizia i clienti riprendendo le ricette di sua nonna, portando nel frattempo avanti l’attività di produzione e vendita di trippa e lampredotto avviata dal nonno (con la ditta Eredi L. Nigro). Conoscenza della materia prima e solido legame con il passato, dunque, che permettono a Lorenzo di vendere anche quella che oggi è diventata una rarità: la poppa, ossia la mammella della mucca. “Va bollita e tagliata a fettine, che lascio successivamente in infusione con olio, prezzemolo, peperoncino, sale e pepe; infine la servo su un crostino”, continua Nigro. La poppa si può mangiare pure nel panino, che oggi è però più facile trovare riempito con la lingua (sempre del bovino), condita con la salsa verde.

Il pane

E il pane? Se ne utilizzano vari tipi, tra cui la rosetta piacevolmente croccante, ma è sempre meno comune il tipico semelleo chifelle, rotondo e all’olio (queste due parole potrebbero derivare dai termini tedeschi semmele kipfel, di cui il primo significa non a caso panino e il secondo cornetto). Un pane che un tempo era spesso quello dei giorni precedenti, magari indurito e più difficile da masticare. È da qui che nasce l’usanza di bagnarlo con il sugo della carne subito prima di farcirlo. A completare il quadro della tradizione, il rito di addentare il panino innaffiandolo con il gottino (il bicchiere da osteria) di vino rosso.

Pizza sfoglia, street food toscanoPizza sfoglia

Merenda aretina, con la pizza sfoglia

Anche Arezzo ha un cibo da strada che la caratterizza: la pizza sfoglia. Non se ne conoscono le origini, ma probabilmente ha iniziato a diffondersi qualche decennio fa. Turisti e visitatori, magari meno avvezzi a questa preparazione, possono facilmente constatare come, all’interno dei confini cittadini, non ci sia bar o forno che non la venda. È generalmente presentata in porzioni dalla forma rettangolare, composte da due strati di pasta sfoglia che raccolgono un ripieno a base di salsa di pomodoro e mozzarella a cui a volte è aggiunto il prosciutto cotto. Insomma, uno spezza fame appetitoso, che deve risultare croccante in superficie e morbido all’interno. Al di fuori della regione, lo stesso tipo di impasto è comunque spesso protagonista della gastronomia da passeggio, come dimostrano le sfoglie catanesi e la pizzetta sfoglia (circolare) cagliaritana.

Coccoli, street food toscanoCoccoli con stracchino e prosciutto crudo

La pasta del pane fritta

C’è un detto, molto popolare in Toscana, secondo cui “fritta è buona anche una ciabatta”. Se all’amore per il fritto si aggiunge l’arte di creare una pietanza gustosa riciclando gli avanzi, ecco che prende forma uno degli street food più comuni in tutta la regione: la pasta del pane fritta. Individuarne un’unica e insindacabile ricetta è impossibile, perché ogni territorio (anzi, ogni casa) ha la sua e i nomi che indicano il prodotto, oltre alla forma che gli viene data prima di friggerlo, variano da zona a zona.

A Firenze, ad esempio, ci sono i coccoli (sotto la ricetta del forno Pugi, una garanzia per i fiorentini dal 1925, che oggi annovera quattro punti vendita). Si tratta di palline di pasta lievitata da assaporare nei coni di carta paglia oppure nel classico abbinamento con stracchino e prosciutto crudo. Non sappiamo con esattezza quale sia l’origine della parola: c’è chi la collega alle coccole, che sono i frutti del cipresso, chi invece sottolinea l’assonanza con i cuculli liguri (frittelle con farina di ceci). Nel Mugello e nel pratese si chiamano invece ficattole, forse perché in origine nell’impasto erano presenti i fichi; dalla forma più allungata. Sono tendenzialmente tagliati a bastoncino gli sgabei, tipici della Lunigiana, e le panzanelle (da non confondere con la panzanella, un tipico piatto a base di pane raffermo) della Versilia.

FratiFrati

I dolci non sono da meno: bomboloni e frati

E se fritta è buona pure una ciabatta, i toscani non potevano non mettersi alla prova anche sul fronte dolce. Come dimostrano ad esempio i fratai, presenti in varie parti della Toscana, da Livorno a Lucca. Il frataio è infatti colui che prepara i frati, le ciambelle fritte cosparse di zucchero la cui forma ricorda quella della chierica dei religiosi, che dai banconi delle friggitorie fanno bella mostra di sé assieme ai bomboloni, caratterizzati dallo stesso impasto, ma tondi e di solito farciti con crema o cioccolato. “Ognuno ha la propria versione di frati e bomboloni”. Ci racconta Umberto Sergi di Prodotti Sergio, un punto di riferimento in fatto di bomboloni per i lucchesi, che da sette anni ha annesso al laboratorio uno spazio dedicato alla vendita al dettaglio. “Ma io continuo a seguire la ricetta messa a punto da mio padre (Sergio, ndr), usando solo farina, acqua, zucchero, margarina, lievito, sale e aroma di limone. Poi, con lo stesso impasto faccio i cannoli, riempiti anch’essi con crema o cioccolato”. Il periodo di maggior richiesta è quello del Settembre Lucchese, un mese di eventi e manifestazioni che ha il suo cuore pulsante nel luna park allestito per l’occasione.

A Siena, le frittelle di riso

A Siena, invece, la figura più celebre è quella del frittellaio, colui che appunto realizza le tipiche frittelle di riso, un dolce dedicato a San Giuseppe, ma che in realtà è diffuso in tutto il periodo di Carnevale e si trova pure in altre parti della Toscana, come a Firenze. Anche se oggi sono rimasti in pochi a colorare la città con i loro banchi, i frittellai riescono comunque a mantenere vivo questo storico street food, che pare sia stato ideato dai falegnami senesi (San Giuseppe è non solo il patrono dei papà, ma pure di ebanisti e carpentieri). Il riso va cotto nel latte e aromatizzato all’arancia. Prima di friggere, c’è chi aggiunge al composto ottenuto rum o uvetta.

Neccio con ricottaNeccio con ricotta

Necci e castagnacci, le specialità a base di farina di castagne

Concludiamo il nostro viaggio con due pietanze che valorizzano un’altra eccellenza regionale: la farina di castagne, ingrediente principe, assieme ad acqua e sale, di necci e castagnacci, diffusi soprattutto in Versilia e Garfagnana. “La pastella deve essere semi liquida, va poi versata in dei padellini di rame che vengono messi in forno: è questa la versione tradizionale del castagnaccio”, racconta Arianna Bigongiari della pizzeria Da Felice a Lucca, locale nato nel 1870 solo come mescita di vino e produzione di castagnacci. Ma che oggi è conosciuta anche per lapizza Margherita, molto bassa e sottile, condita con pomodoro fresco e pepe. “Una volta cotti, tagliamo i dischi orizzontalmente: ne otteniamo così altri due, che farciamo con la ricotta e ripieghiamo a mo’ di cannolo”, specifica Arianna. Stessa forma e guarnizione caratterizzano la versione più comune dei necci, che però sono di solito più grandi e vanno cotti nel testo, dove prima di versare l’impasto bisogna posizionare le foglie di castagno, che conferiscono al prodotto il suo aroma caratteristico.

La ricetta dei coccoli del forno Pugi

Ingredienti per l’impasto

400 g di farina 00

300 ml di acqua

30 g di lievito di birra

Olio extravergine di oliva (un cucchiaio abbondante)

Sale q.b.

Zucchero q.b.

Per friggere

Olio di semi q.b.

Sciogliere il lievito in acqua tiepida (a parte) e un po’ di zucchero. A questo punto unire tutti gli ingredienti, fino a ottenere un impasto abbastanza molle. Lasciare riposare per almeno un’ora. Realizzare delle palline, da far riposare per circa 30 minuti. Friggere in olio di semi fino a quando non appaiono dorate e rigonfie.

 

DALLA NOSTRA GUIDA STREET FOOD

Trippa, bollito misto e poppa

Il Lampredotto - Lorenzo Nigro - Mercato Centrale di Firenze - via dell’Ariento, 2 – 3395402224 – mercatocentrale.it/artigiani/lorenzo-nigro-lampredotto

Da Nerbone – Firenze – Mercato Centrale di Firenze – via dell’Ariento, 2

Sergio Pollini Lampredotto – Firenze - via dei Macci (ang. Borgo La Croce) - 3347782350

Pizza sfoglia

Menchetti – Arezzo – via Avv. F. Croce, 11 – 0575350682 – menchetti.it

Coccoli

All'Antico Vinaio – Firenze – via dei Neri, 65 – 0552382723 – allanticovinaio.com

Forno Pugi – Firenze – via G. Orsini, 63-65 – 055689763 – fornopugi.it

Bomboloni e frati

Il Frataio Antica Friggitoria dal 1920 – Livorno – via del Cardinale, 9 – 0586884571 – anticafriggitoria.it

Il Forno delle Crete – Asciano – piazza G. Garibaldi, 5 – 0577718558 – ilfornodellecrete.com

Frittelle di riso

Forno Pugi – Firenze – via G. Orsini, 63-65 – 055689763 – fornopugi.it

Castagnacci

Pizzeria Da Felice – Lucca – via Buia, 12 – 0583494986 – facebook.com/PizzeriaDaFelice/

 

a cura di Agnese Fioretti

 

Street food alla siciliana. Un viaggio attraverso il cibo da strada meno conosciuto dell’isola

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