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Where to Drink Coffee. La guida Phaidon ai migliori bar del mondo

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Dopo il successo di Where Chefs Eat e Where to Eat Pizza, la casa editrice Phaidon dedica un volume ai migliori indirizzi per bere caffè nel mondo. Ancora una volta, raccomandati dagli esperti del settore.   

La casa editrice

In principio furono i libri d'arte, dalla monografia in grande formato su Van Gogh del 1936 a quella su Botticelli e sugli impressionisti francesi. Durante la Seconda Guerra Mondiale, poi, i fondatori Bela Horowiz e Ludwing Golschier furono costretti a trasferirsi in Inghilterra a causa delle persecuzioni antiebraiche, e da lì cominciarono a lanciare, dopo il '45, le collane “pocket” sulla storia dell'arte, seguite dal grande lavoro “The Story of Art” di Ernst Gombrich. Bisogna attendere il 2006 perché la casa editrice Phaidon allarghi il proprio orizzonte anche alla gastronomia, con la pubblicazione de “Il cucchiaio d'argento”, e poi, nel 2009, del libro su Ferran Adrià, divenuto da subito un bestseller fra gli appassionati del genere, “Un giorno a El Bulli”. E ancora l'imponente raccolta in sei volumi sulla “Modernist Cuisine”, o testi più curiosi come la guida ai ristoranti preferiti dagli chef (“Where Chefs Eat”), cult dell'editoria gastronomica venduti nelle librerie di tutto il mondo, e il più recente “Where to Eat Pizza”, una raccolta minuziosa curata da Daniel Young, senza contare l'ultimo libro firmato Massimo BotturaIl pane è oro.

 

Il bar oggi

Dopo la cucina e la pizza, è la volta del caffè, un prodotto che continua a registrare un crescente interesse, sempre più spesso sotto la lente di ingrandimento della stampa di settore. E lo sappiamo bene noi del Gambero Rosso, che da 18 anni ci dedichiamo alla raccolta delle migliori insegne della Penisola con la guida Bar d'Italia, un contenitore di oltre 1330 indirizzi, fra format diversi, con formule studiate ad hoc e cucite su misura, capaci di intrecciare con disinvoltura proposte differenti. I bar, infatti, sono locali che nel tempo hanno saputo rinnovarsi, cambiando pelle più volte ma mantenendo intatta la propria anima, quella di riferimento cittadino e punto di ritrovo del quartiere. Con un approccio diverso, però, in grado di rispondere alle molte esigenze della clientela nei diversi momenti della giornata.

 

Il libro

Un panorama, dunque, da monitorare con attenzione. Per farlo, ancora una volta Phaidon si è affidato al giudizio degli addetti ai lavori – baristi, esperti di caffè, assaggiatori – che hanno stilato una lista dei loro locali di fiducia. Creando così una mappa di 600 realtà sparse in 50 Paesi. “È eccitante per coloro che amano – e fanno – il caffè, vedere quanto in fretta il mercato si sia sviluppato”, spiegano gli autori Liz Clayton e Avidan Ross. “Il processo di selezione per Where to Drink Coffee è stato un viaggio interessante, in particolare per tutto il mondo dei caffè specialty, resi popolari anche grazie a una certa catena multinazionale a marchio verde”. Il volume si apre con l'introduzione degli autori, e un interessante e utile glossario con tutti i termini del settore, dai metodi di estrazione alle diverse tipologie di bevande.

 

Gli indirizzi

Tra le segnalazioni, non manca la patria della tazzulella, presente con 8 indirizzi. C'è l'immancabile omaggio a Francesco Sanapo e la sua Ditta Artigianale a Firenze, fra i primi in Italia a credere nel movimento della Third Wave. Un locale che ha fatto storia, spianando la strada anche a tanti altri giovani baristi impegnati nella diffusione della cultura del caffè di qualità, “uno dei bar più dinamici di sempre, con persone che entrano e escono tutto il giorno, fino a tarda sera, sorseggiando il loro espresso”, per dirla con le parole di Scott Rao, uno dei più grandi conoscitori di oro nero a livello internazionale e fra i collaboratori della guida.

 

A Milano è Taglio a fare la parte del leone, “una coniugazione fra grandi caffè e cultura gastronomica italiana tradizionale”, mentre a Bologna spicca Caffè Terzi di via Oberdan, e ci sorprende non trovare Aroma, una delle prime caffetterie d'autore dello Stivale, recentemente insignita come miglior bar d'Italia dalla giuria di Barawards. Ma la delusione più grande è per la piazza romana, da un anno a questa parte rappresentata da Faro – Luminari del Caffè, senza dubbio il bar numero uno della Capitale, con un team solido di baristi preparati e una selezione di chicchi d'eccellenza delle migliori torrefazioni italiane e straniere. Un nome che manca all'appello, mentre vengono segnalati due indirizzi di stampo tradizionale con un'offerta piuttosto consueta, Sant'Eustachio e Tazza d'Oro. Un manuale utile, dunque, ma non completo perché – come hanno ricordato più volte gli autori – il mondo caffeicolo è in continuo movimento. Una rivoluzione che, fra nuove aperture e trasformazioni, sembra destinata a continuare ancora a lungo.

 

Where to Drink Coffee | ed. Phaidon | Euro 21,21

 

a cura di Michela Becchi

 

 

 


In viaggio nella Champagne: da Epernay a Reims tra vigneti, cantine cooperative e grandi maison

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Visitare per la prima volta la Champagne può essere spiazzante, ma anche i neofiti con le giuste dritte possono scoprire l’anima di questo fantastico territorio e del vino più famoso al mondo.

Il segreto per andare oltre lo Champagne da cartolina fin dalla prima visita, sta nel dedicarsi sì alle stelle che la rendono riconoscibile nel mondo (Dom Pérignon, Krug, Taittinger, Veuve Clicquot tra i tanti), ma senza fermarsi qui. Per capire realmente cos’è la regione champenoise bisogna visitare le piccole maison, parlare con chi qui vive tutto l’anno, dal vigneron (viticoltore) che lavora con la famiglia fino al grande chef de cave (maestro di cantina) che si occupa delle bottiglie più richieste al mondo.

 

Posizionata a circa 150 chilometri a nord-est di Parigi, l’area di produzione a denominazione protetta (Aoc) si estende per poco più di 34mila ettari con 320 cru (comuni) dislocati in cinque dipartimenti: la Marna (66%), l’Aube (23%), l’Aisne (10%), la Haute-Marne e la Seine-et-Marne. Per quanto riguarda invece i vigneti, sono quattro le grandi zone che segnano le maggiori differenze: la Montagne de Reims (dove si coltivano prevalentemente Pinot Nero e Pinot Meunier con una piccola parte di Chardonnay), la Vallee della Marne (Pinot Meunier), la Côte des Blancs (esclusivamente Chardonnay) e la Côte des Bar (quasi esclusivamente Pinot Nero). I paesi che godono storicamente della denominazione “grand cru” sono 17, mentre 44 sono classificati “premier cru”. Questa piccola parentesi spiega per grandi linee l’organizzazione territoriale della Champagne e delle diverse zone produttive in un’area molto vasta.

 

Tra i patrimoni Unesco dove è nato il vino più famoso del mondo

È la zona di Reims a costituire il cuore della regione: Montagne de Reims, Côte des Blancs e Vallée de la Marne; qui sono tutti i 17 comuni grand cru: un quadro di piccoli giardini, magnifiche maison e antichi castelli che compongono un’opera paesaggistica di raro pregio. Tant’è che i Coteaux, Maisons et Caves de Champagne dal 2015 sono iscritti nella lista del Patrimonio mondiale Unesco. Ma è Epernay, attraversata dall’Avenue de Champagne, a essere considerata la vera capitale dello Champagne: non a caso si dice che “berlo qui è come ascoltare Mozart a Salisburgo”. Interamente circondata da vigneti, con le sue splendide facciate di ville e case borghesi che ospitano alcuni grandi marchi, vede sotto di sé oltre cento chilometri di cantine che si snodano a decine di metri di profondità (in tutta la regione sono 600 i chilometri di gallerie visitabili sottoterra che ospitano le preziose bottiglie).

Da queste parti, nella vicina abbazia di Hautviller, il monaco benedettino Dom Pierre Pérignon diede vita all’avventura, ignaro di ciò che sarebbe divenuto il mondo dello Champagne, ma estremamente consapevole di ciò che stava realizzando: fu lui, alla fine del Seicento, ad avviare la coltivazione di uve pinot noir, pinot meunier e chardonnay e fu lui a inventare la tecnica del loro equilibrato assemblaggio, che è l’essenza di questo vino. Il luogo di culto è visitabile, la porta dell’abbazia è sempre aperta, lì è sepolto il monaco benedettino. Blindata è invece la parte adiacente acquistata nel 1829 da Pierre-Gabriel Chandon, marito di Adélaïde Moët e socio del papà di costei, il grande Jean-Rémy Moët: qui vive l’anima delle bottiglie Dom Pérignon e lo chef de cave Richard Geoffroy trova la sua ispirazione per creare la perfezione (la cantina è visitabile solo su invito).

images/epernay_avenue_de_Champagne

Epernay e l'Avenue de Champagne

Scegliere Epernay come punto di partenza è la decisione migliore, perché nei suoi dintorni sono diversi gli itinerari che è possibile seguire: a pochi chilometri verso est si incontra Ay con le sue case a graticcio, si prosegue passando da Mutigny per i suoi panorami sui vigneti, da Louvois dove sorge il castello appartenuto al ministro di Louis XIV, e finalmente si raggiungono le seducenti cittadine di Bouzy e Ambonnay. I percorsi da compiere da una maison all’altra sono comodi da fare in auto (ma se si vuole anche degustare, meglio il taxi!); Reims dista da Epernay appena 30 chilometri, e da Les Riceys (Cote des Bar a sud) circa 170, attraversando verticalmente l’intera regione. Lungo il tragitto che bordeggia il fiume Marna c’è l’imbarazzo della scelta tra le realtà produttive da visitare.

Una buona opzione per chi è ancora vergine del luogo potrebbe essere quella di iniziare proprio dalla Avenue de Champagne a Epernay, un rettilineo lungo più di un chilometro ai cui lati si alternano gli alti cancelli dorati dai grandi nomi come Moët & Chandon,Pol RogerPerrier-JouetBoizel per citarne alcune, tutte visitabili a pagamento e su prenotazione. Ma non è Champagne solo quel che luccica.

 

Ay tra maison e cantine cooperative

In una manciata di chilometri si raggiunge il paesino di Ay dove bussare alla porta della maison Deutz, fondata qui da Wiliam Deutz e Pierre Geldermann nel 1838 e oggi tra le maison d’eccellenza. “Qui l’80% della produzione (circa due milioni di bottiglie) è rappresentato dal Brut Classic che matura 36 mesi sui lieviti e riposa nelle cantine che vanno dai 20 ai 55 metri di profondità”, racconta il giovane brand manager. Assaggiare i vini e visitare la maison, vale assolutamente la pena per iniziare con un ottimo assaggio.

E perché non scoprire anche una cooperativa? Sono molte in Champagne e la più antica (1921) si trova proprio ad Ay: è la Collet-Cogevi a cui centinaia di agricoltori conferiscono le proprie uve per la produzione di una dozzina di etichette. I vini sono ben fatti e la visita è d’obbligo perché questa realtà dimostra le tante declinazioni che lo Champagne può avere. La Collet offre ai visitatori un viaggio culturale negli anni ’20, epoca d’oro per la Champagne: ogni anno artisti internazionali sono chiamati a esporre qui loro opere che reinterpretano l’Art Déco; e un grande museo ripercorre la storia di questo vino, dal legame con la cultura contadina del territorio fino ai diversi aspetti produttivi.

 

 

Fleury-la-Rivièr e i fossili marini

Con venti minuti di guida, si giunge al villaggio di Fleury-la-Rivière dove si incontra la prova vivente di quanto possa la passione umana: qui messieur Thibaut, della maison Legrand-Latour, ha scavato personalmente nel sottosuolo della sua proprietà alcune gallerie lunghe centinai di metri, riportando alla luce i fossili marini che milioni di anni fa abitavano queste lande. Thibaut è un viticoltore prestato alla geologia che con la sua passione offre la possibilità a chi visita l’azienda di capire cos’era prima la Champagne: una terra ricoperta d’acqua, come dimostrano le grandi conchiglie che compaiono lungo il percorso che offre una prospettiva particolare con il suo approccio geo-enologico che fa protagonista il terroir.

 

Baslieux-sous-Châtillon e il pinot meunier

Proseguendo lungo la strada principale si entra nella Vallée della Marne:andate a Baslieux-sous-Châtillon per scoprire la terra del pinot meunier. Sarà Eric Taillet, nella cantina che porta il suo nome, a raccontare questo vitigno che in pochi vinificano in purezza. “Sono stato il primo a farlo, il mio amore per il meunier è così grande che ho fondato anche l’associazioneMeunier Institutin cui sono associati oltre cento produttori con i quali condivido la mia passione”. Oggi Taillet è giunto alla quinta generazione con sei ettari e una figlia che studia marketing a Bordeaux. Agricoltura molto tradizionale senza alcun lavoro meccanico e 35mila bottiglie prodotte: dalla fine degli anni ’90 ha raggiunto grande splendore e i suoi vini valgono la sosta in una zona meno turistica e più wild.

 

Sacy e i premier cru

Venti chilometri verso nord-ovest, l’incontro giusto nella Montagne de Reims è a Sacy, presso la maison Duménil. “Il mio bisnonno Emile-Paul Duménil ha fondato l’azienda, ma oltre a coltivare le vigne possedeva anche una drogheria e un caffè qui vicino, a Chigny-Les-Roses: non avrebbe potuto immaginare che la produzione avrebbe avuto il successo che conosciamo oggi, a distanza di 140 anni!” sorride la simpatica pronipote, Frédérique Poret, nel ripercorrere la storia della maison “Oggi, insieme a mio marito Hugues, coltiviamo i nostri vigneti tutti premier cru… e a malapena riusciamo a far tutto tra vigna e cantina”. Uno spettacolo per gli occhi e un piacere gusto olfattivo.

 

Vrigny e l'azienda bodinamica

Prima di giungere a Reims bisogna transitare da Vrigny ed ecco che si arriva alla porta della famiglia Lelarge-Pugeot. I due titolari hanno lo stesso nome, Dominique. “Ci siamo conosciuti all’università di viticoltura di Beaune e mai avrei pensato di lasciare la mia terra enoica, la Borgogna, per la Champagne ma così è stato” spiega la signora Pugeot “Non ho rimpianti, abbiamo nove ettari in cui il vitigno dominante è il pinot meunier. E siamo anche tra i pochissimi a produrre vini fermi in questa zona: non poteva mancare un po’ della mia terra, così riserviamo una parte della cantina alle barrique, soprattutto per il pinot nero e il meunier”. Un’azienda di famiglia da qualche anno vocata alla biodinamica che mostra come si lavora facendo piccoli numeri e grande qualità. Assolutamente da visitare.

 

Cattedrale di reims di_Hubert_de_Santana

 

Reims e le grandi maison

Finalmente si arriva a Reims, con i suoi centoventimila abitanti e le università che i ragazzi frequentano arrivando un po’ da tutta la regione. Qui convivono i nomi delle grandi maison come Taittanger (l’unica potenza rimasta tutta in mano a una sola famiglia proprietaria di un piccolo impero fatto di 288 ettari distribuiti su 37 cru tra Montagne de Reims, Pierry e Côte des Blancs) e famosa per la Cuvée Comtes de Champagne realizzata da solo chardonnay invecchiato per almeno dieci anni nelle antiche cantine a 18 metri sotto terra. Da qui, dunque, ripartite per un viaggio al contrario, perdendovi però tra filari e le colline che disegnano la Champagne, accompagnati dai venti che arrivano dall’Atlantico, e calpestando il terreno ricco di gesso e tufo, caratteristiche uniche di questo grande territorio da vino.

 

INDIRIZZI

 

mangiare

Le Jardin - Reims – 64, boulevard Henry Vasnier - tel. +33326249000 - lescrayeres.com
Formula brasserie firmata dallo chef Philippe Mille in cui mangiare la migliore insalata di escargot della zona

Chateau Sacy - Sacy - rue des Croisettes - tel. +33326076038 - chateaudesacy-reims.fr

Raffinato château in cui soggiornare circondati dai vigneti. All’interno anche un valido ristorante

L'Ecurie - Epernay - 33, avenue de Champagne - tel. +33326325472 - champagnedevenoge.com

In questo Champagne bar & shop si possono mangiare pochi ma buoni piatti e acquistare bottiglie a prezzi vantaggiosi. A disposizione anche quattro appartamenti in cui pernottare.

Hostellerie La Briqueterie - Vinay - 4, route de Sézanne - tel.+33326599999 - labriqueterie.fr

Un luogo incantevole in cui vivere un’esperienza notevole immersi nel verde, dalla cucina al relax che offre la struttura.

Attis - Chenay - 3, place Boisseau - tel. +330326040633
Un nuovo ristorante gestito da una squadra giovane che propone percorsi ben studiati con prodotti della zona.

 

comprare

 

Au 36 – Hautvillers – 36, rue Domaine Pérignon - tel.+33 (0) 326515837 - au36.net

A due passi dal luogo di culto di Dom Perignon, il miglior luogo dove comprare (e assaggiare) Champagne a prezzi di cantina

Entre Cave et Jardin - Hautvillers - 178, rue Henri Martin - tel.+33 (0)326593981

Fornitissimo negozio vintage in cui trovare centinaia di gadget a tema Champagne

Café du Palais - Reims - 14, Place Myron Herrick - tel. +33 (0)326475254 - cafedupalais.fr

Un cafè retrò nel centro cittadino in cui fare una piacevole sosta tra statue ed opere d’arte

Chocolat Vincent Dallet - Reims - 47, cours Jean-Bapstiste Langlet - tel.+33 (0)326354053 - chocolat-vincentdallet.fr

Il luogo giusto dove comprare i tipici biscotti rosa

 

 

dormire

 

Le Clos des Terres Soudées - Vrigny - 25, rue Saint-Vincent - tel.+33 (0)326039762 - closdesterressoudees.fr

Residenza in cui pernottare e partecipare ai workshop sul vino organizzati per gruppi. Soluzione b&b e ristorante

Château de Cuisles - Cuisles - 4, route départementale - tel.+33 (0)326517489 - chateau-de-cuisles.com

Una bellissima maison che ospita la produzione di Champagne e château in cui soggiornare tra natura e vigneti

La Demeure des Sacres - Reims - 29, rue Libergier - tel. +33 (0)6 79068068 - la-demeure-des-sacres.com

Nel centro della città una soluzione b&b informale e curata

The Parenthesis - Reims – 83, rue Clovis - tel. +33 (0)613107554 - laparenthese.fr

Guest house nel cuore di Reims da scegliere se si viaggia in gruppo (fino a 15 persone)

 

a cura di Giovanni Angelucci

 

QUESTO È NULLA...

Abbiamo raccontato la regione della Champagne nel numero di gennaio del Gambero Rosso, in questi giorni in edicola, un'edizione tutta nuova in cui troverete una panoramica completa delle tappe imperdibili di un viaggio nella terra delle bollicine più famose al mondo. Prime tra tutte, le crayères, in particolar quelle di Ruinarte Taittinger, cave di gesso che creano labirinti sotterranei che si spingono fino a quasi 40 metri di profondità, e poi il giardino segreto di Krug, Reims con la sua cattedrale. È un servizio che include anche due racconti inediti, uno di Emiliano Gucci e uno di Nicola Ravera Rafele e completa un più esteso speciale sullo Champagne, con gli appunti di degustazione di ben 90 etichette, interviste a enologi, e uno sguardo ai dati di produzione, vendita e consumi.

Il numero lo potete trovare in edicola o in versione digitale, su App Storeo Play Store. Abbonamento qui.

 
 

Bar Crenn a San Francisco. L'omaggio ai classici della cucina francese di Dominique Crenn

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Un bar à vin d'autore, a San Francisco, proprio accanto al celebre Atelier Crenn. Dietro al progetto c'è sempre Dominique Crenn, che nel piccolo spazio progettato come un salotto vuole omaggiare la terra che le ha dato i natali, e la sua grande tradizione gastronomica. Coinvolgendo gli chef più famosi di Francia.   

L'omaggio alla Francia

Da qualche mese, la pagina Instagram di Dominique Crenn - natali francesi e una lunga carriera americana da colonna portante dell'alta ristorazione al femminile - non lascia adito a dubbi. Dal cassetto dei ricordi, la chef patronne dell'Atelier Crenn di San Francisco (2 stelle Michelin) ha rispolverato il suo legame con la tavola dell'infanzia trascorsa in Bretagna. E l'ispirazione per il suo nuovo progetto, il Bar Crenn che inaugurerà il prossimo 20 febbraio proprio accanto all'Atelier, arriva dritta dalla storia della cucina tradizionale francese, nel senso più classico e prestigioso del termine. Lo testimoniano le foto di letture pomeridiane alla riscoperta di ricette codificate dai grandi maestri di Francia, da Auguste Escoffier a Paul Bocuse; lo conferma la stessa Dominique, a poco più di un mese dall'apertura del Bar. La nuova insegna sarà uno spazio intimo e accogliente, un bar à vin pensato per presentare al pubblico di San Francisco – tra le città gastronomicamente più all'avanguardia d'America – le etichette di una cantina che privilegia la viticoltura naturale e le storie di vigneron indipendenti.

Il bar à vin di San Francisco. Con le ricette dei grandi chef

L'orizzonte di riferimento è chiaramente quello dei domaine francesi, con una carta a rotazione in aggiornamento costante, a cura del maitre sommelier Matt Montrose. In parallelo procederà la cucina, con interpretazioni moderne del ricettario francese (“serviremo cibo molto tradizionale e molto francese” ha ribadito la chef, che lascerà fuori dal nuovo spazio l'avanguardia dell'Atelier) e un tributo agli chef più famosi di Francia. In questa direzione, l'omaggio di Dominique alla storia della ristorazione di casa passa dal coinvolgimento di Alain Ducasse, Yannick Alléno, Guy Savoy, Sylvestre Wahid, Eric Frechon, e molti altri celebri colleghi: a ognuno di loro, la chef ha chiesto di donare una ricetta legata alla tradizione di cui si sono fatti ambasciatori nel mondo.“Loro sono i pilastri della gastronomia francese, io sono solo un'allieva” ha raccontato la Crenn a Eater.

Le creazioni, con la firma di chi le ha ideate, finiranno sul menu del Bar (non il primo esperimento del genere in città, dove il ristorante del Moma, in Situ, propone un insieme di “repliche” dei classici di grandi cuochi di tutto il mondo), accanto ai piatti studiati dalla squadra di Dominique. Una serie di proposte da condividere, tra terrine e souffle, omelette ai ricci di mare e aragosta alla bretone.

Ma lo spin off di casa Crenn, atteso da più di un anno, servirà anche cocktail a bassa gradazione alcolica: una selezione di drink da sorseggiare piacevolmente spizzicando del cibo, perfetti per l'ora dell'aperitivo. E anche il contesto, concepito come un salotto con tanto di piccola biblioteca su progetto di Karan Brady, aiuterà gli avventori a rilassarsi. Con l'idea di accogliere prima o dopo cena i clienti dell'Atelier, per l'aperitivo o il dessert.

 

Bar Crenn – San Francisco – www.barcrenn.com

 

a cura di Livia Montagnoli

 

Dove comprare il tè a Genova: 3 negozi seri e specializzati

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Pensando a Genova, la prima parola che viene in mente è mix. Di etnie, di storie, di mestieri, di leggende. In questa città poliedrica, la ristorazione sta iniziando finalmente a cambiare passo, con nuove insegne e vecchie realtà che raccontano un panorama in evoluzione. E anche il mondo del tè comincia ad acquisire maggiore importanza, e lo testimoniano queste 3 insegne specializzate. 

La signora del mare, la superba, la dominante. Sono solo alcuni dei soprannomi che Genova - crogiolo di umanità che scrittori, poeti e cantautori hanno raccontato nei loro versi - si è conquistata nei secoli. Passeggiando fra i caruggi, il dedalo di stradine della città vecchia che costeggiano palazzi nobiliari e chiese antiche, il ricordo delle antiche vicende dei genovesi si respira a pieni polmoni. Ma Genova, forte della sua tradizione, continua sempre più a crescere, tendendosi verso il futuro. Anche dal punto di vista gastronomico. E mentre ristoranti, bar d'eccellenza e format innovativi stanno gradualmente rivoluzionandone il panorama, l'antico rituale del tè torna alla ribalta, riproposto dalle botteghe storiche e gli indirizzi più recenti, con gusto e consapevolezza. Ecco tre valide insegne da appuntare in agenda se siete appassionati di infusi e tisane.

Pasticceria Gelateria Mangini

English Breakfast, Darjeeling, tè affumicato, tutto firmato Damman Frères, una delle realtà di tè più storiche d'Europa, nata a Parigi nel 1692, in seguito alla decisione di re Luigi XIV di affidare al Signor Dammann il privilegio della vendita in Francia di caffè, tè e cioccolato. Il primo stabilimento di importazione venne inaugurato nel 1825 a Batavia, nell’attuale Indonesia, ma solo cent'anni dopo i fratelli Robert e Pierre Dammann hanno dato ufficialmente vita alla sociétè de négoce Dammann Frères. Da allora, il marchio è diventato un punto di riferimento per il tè di qualità in tutto il mondo, un'azienda a tutti gli effetti presente in 62 nazioni e che conta oltre 10 boutique. È a questo brand d'eccellenza che il team di Mangini si affida per la sua sala da tè, con pasticceria e gelateria annessa. Una bottega storica nata nel 1876, e dal '57 proprietà dei Rossignotti, industriali pasticceri di Sestri Levante, che continuano la tradizione dolciaria del locale producendo torte, paste, pasticcini, praline, torroni e cioccolato. Da gustare in abbinamento a un'ampia selezione di tè sfusi, disponibili anche per l'acquisto.

Pasticceria Gelateria Mangini - Genova - piazza Corvetto, 3 r - 01 0564013 - facebook.com/pages/Mangini

Pasticceria Liquoreria Marescotti

Un'altra insegna storica, attiva fin dal 1780 nella duecentesca Loggia Gattilusio. Fatto un primo restauro, i Marescotti, originari di Novi Ligure, proposero una fusione fra la pasticceria classica della Corte Sabauda e quella genovese, offrendo anche vini aromatici e vermouth di propria produzione. Il locale divenne così famoso che, per soddisfare l'alta richiesta, la famiglia dovette richiedere la collaborazione della vicina Pasticceria Cavo. Oggi, la bottega vanta arredi, ottoni e marmi di una volta, oltre a un'offerta gastronomica di prima scelta. Il rituale del tè qui è ancora immerso in quell'atmosfera ottocentesca che lo ha reso celebre in tutta Europa, fra tazze dipinte a mano e preziose ceramiche. Tutto il tè (Damman  Frères o La Via del Tè) viene venduto sfuso e confezionato a mano dal team del locale. I clienti possono, inoltre, acquistare anche l'attrezzatura necessaria per preparare la bevanda in casa, dalle teiere ai bollitori. Ad accompagnare infusi, tè e tisane, gli amaretti di voltaggio, cavallo di battaglia del laboratorio Cavo (che ancora oggi collabora con Marescotti), e la torta di Mazzini, storica ricetta locale a base di mandorle.

 

Marescotti

Pasticceria Liquoreria Marescotti – Genova – via di Fossatello, 35 r – 01 02091226 - facebook.com/Pasticceria-Liquoreria-Marescotti-di-Cavo

Valy cakes & tea room

Torte in pasta di zucchero, dolci tradizionali, una serie ampia e colorata di cupcakes dai mille gusti, specialità di stampo anglosassone, dalla carrot cake alla red velvet, dalla cheesecake ai brownies. Tutte fatte in casa da Valeria Todde, giovane pasticceria alla guida del laboratorio non distante dal Porto Antico, appassionata di dolci americani golosi e decorati ad hoc. Un'insegna più moderna e dal gusto contemporaneo, aperta da appena 4 anni ma che si è già imposta come uno dei migliori indirizzi per quanto riguarda l'arte più dolce a Genova. Ad accompagnare le tante prelibatezze, tè e infusi di qualità, da gustare comodamente seduti nella caffetteria/sala da tè aperta nel 2014 in via Vesuvio, dove Valeria coniuga il gusto delle sue creazioni a quello delle tisane più pregiate. Tè nero, tè deteinato, speziato, special jasmin, infusi di frutta, alla liquirizia e oolong: tante le tipologie di prodotti fra cui scegliere, da degustare in loco oppure acquistare per casa.

 

Cupcakes

Valy cakes & tea room – Genova – via Vesuvio, 24 – 01 08620943 - facebook.com/valysbakery/

a cura di Michela Becchi

Dove comprare il tè a Milano: 6 negozi seri e specializzati

Dove comprare il tè a Bolzano e Merano: 3 negozi seri e specializzati

Dove comprare il tè a Bologna: 4 negozi seri e specializzati

Dove comprare il tè a Firenze: 3 negozi seri e specializzati

Dove comprare il tè a Palermo: 4 negozi seri e specializzati

Dove comprare il tè a Torino: 8 negozi seri e specializzati

Dove comprare il tè a Pescara: 3 negozi seri e specializzati

 

Nuovo futuro per i mercati comunali di Milano. Obiettivo prioritario di Palazzo Marino

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Sono 23 le strutture storiche coinvolte nel piano di rilancio promosso dal Comune di Milano per rinnovare l'eredità dei mercati coperti della città. Sul piatto condizioni più favorevoli per i concessionari, ripensamento dei vincoli merceologici, via libera alla somministrazione di cibo, sostegno alle idee innovative.   

Il mercato come luogo di socialità

L'amministrazione milanese in carica – ma a ben guardare anche la precedente – non ha mai fatto mistero del suo interesse per la riqualificazione dei mercati rionali. L'esempio più concreto è quel Mercato del Suffragio ripensato alla fine del 2015 per accogliere artigiani di tutto rispetto (pensiamo al pane di Davide Longoni, che del progetto è stato fautore, in prima linea) e dotato di uno spazio attrezzato per vivere di cibo consumato sul posto, eventi culturali, iniziative di quartiere. Una dimensione privilegiata, certo, seppur in qualche modo snaturata della sua dimensione più popolare. Ma comunque un'idea di valorizzazione di spazi comuni andata decisamente a buon fine. E peraltro servita da incentivo per progetti più attinenti alla natura e alla storia del mercato coperto, come il rinnovamento della struttura di Lorenteggio o il rilancio del mercato di piazza Wagner. Mentre storia a sé fa il mercato della Darsena, trainato dall'entusiasmo di Giuseppe Zen da tempi non sospetti. Di “fondamentali luoghi di socialità e presidio territoriale” parlava qualche mese fa l'assessore al commercio Cristina Tajani ribadendo l'impegno di Palazzo Marino a proposito del rilancio del maggior numero di plateatici possibile. Incentivando la costituzione di cooperative e consorzi in grado di presentare progetti originali e portarli a buon fine, con il sostegno (anche economico) del Comune.

 

Il futuro dei mercati coperti. Gli obiettivi del 2018

E nei primi giorni del 2018 si rinnova l'intenzione a favorire innovazione e socialità all'interno dei mercati cittadini: alla fine di dicembre, la giunta ha approvato le linee di indirizzo per il rilancio della rete mercatale nata negli Anni ‘50, 23 strutture distributive in tutto che tramandano la memoria sociale e commerciale di Milano, ma necessitano adeguamenti – anche strutturali – alle esigenze di consumo moderne. E quindi via libera alla creazione di spazi per la somministrazione di cibi e bevande “sul modello dei food market presenti in tutte le capitali europee”. Il lavoro di Palazzo Marino in questa direzione, per ora, ha privilegiato la definizione di condizioni attrattive per potenziali investitori che vogliano scommettere sul futuro dei mercati. La formula che più piace al Comune, infatti, passa dall'individuazione di gestori unici, anche di natura consortile, che possano accentrare la gestione delle strutture, e per questo garantisce un ampliamento dei tempi di concessione, fino a 15/20 anni. Altro punto all'ordine del giorno è la caduta di vincoli merceologici troppo rigidi, con l'obiettivo di stimolare la concorrenza e la competitività, migliorando l'offerta commerciale complessiva. E poi c'è la chiamata alle armi: nuovi bandi e avvisi pubblici per incentivare il rinnovo generazionale degli operatori, ripristinando i numerosi banchi sfitti, anche grazie alla riqualificazione degli impianti e del contesto edilizio.

 

Milano Food City 2018. L'invito a partecipare

E dal bisogno di partecipazione collettiva nasce anche l'avviso pubblico per la presentazione di progetti, eventi e attività che animeranno la seconda edizione della Milano Food City, in programma dal 7 al 13 maggio 2018. Fino al 31 gennaio, i soggetti interessati – chef, aziende, ristoranti, cooperative, fondazioni – potranno presentare progetti volti alla valorizzazione del settore gastronomico, da concretizzare con appuntamenti aperti al pubblico diffusi sul territorio urbano. E chissà che anche quest'anno tra i contesti privilegiati non figurino proprio i mercati, protagonisti di molte iniziative nel corso dell'edizione 2017. Sul sito del Comune termini e dettagli dell'avviso.

 

a cura di Livia Montagnoli

Birre affumicate. Scoprire le rauchbier in 7 assaggi

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Sembrerebbero una stravaganza moderna. Invece le birre affumicate hanno un passato molto antico. Di seguito il racconto e la selezione di 7 grandi rappresentanti di questa categoria.

Storia o leggenda?

Il loro nucleo geografico e storico va collocato in una graziosa cittadina tedesca dell'Oberfranken, l'Alta Franconia. Stiamo parlando di Bamberga, una delle tante "Venezie del Nord", famosa per i suoi canali ma soprattutto per i suoi birrifici, tra quelli che più hanno preservato un modo antico di fare (e di "vivere") la birra. La storia, che sfuma, per l'appunto, nei contorni poco limpidi della leggenda, lega la nascita delle rauchbier (birre affumicate) alla più importante struttura religiosa della città, il Duomo Imperiale dei Santi Pietro e Giorgio. La costruzione, antichissima, risalente al 1004 d.C., subì due gravi incendi: uno nel 1081, l'altro nel 1185. Il fumo scaturito da uno di questi due eventi distruttivi avrebbe influito sulla produzione di un maltificio nelle vicinanze, affumicandone il malto destinato alla birrificazione.

In realtà, molto più verosimilmente, un certo sentore affumicato nella birra probabilmente è stato la normalità fino a quando i malti venivano essiccati a fiamma viva. I progressi tecnico-produttivi, soprattutto la scoperta del carbone coke, permisero, in una fase successiva, di ridurre sempre di più l'affumicatura del malto, e di conseguenza anche quella della birra.

In Franconia, e soprattutto a Bamberga, però, la tradizione delle rauchbier ha resistito pervicacemente e ancora oggi i numerosi birrifici della città propongono con successo questo stile antico. Ma le rauchbiertedesche non sono l'unico esempio di birre affumicate. Questi sentori affascinanti e intriganti hanno contaminato anche stili e tradizioni brassicole di altri paesi e oggi molti birrai, tra cui quelli italiani, si misurano con i malti affumicati.

 

Qui sotto, alcuni esempi di birre affumicate italiane.

 

{gallery}rauchbier{/gallery}

 

Ghisa

La creatura di Giampaolo Sangiorgi è stata tra le prime realtà del movimento artigianale italiano e da Lambrate, il quartiere di Milano che ospita il birrificio e i due pub di proprietà, la sua fama ha raggiunto tutto il Paese fino a raggiungere anche Berlino che ospita un altro dei loro locali. La Ghisa è una delle creazioni più conosciute del birrificio, una smoked stout che gioca tra tostature e morbide affumicature. Rotonda nell'attacco di bocca che ricorda il cioccolato, si fa man mano più intensa e spigolosa quando si incontrano il caffè e le note torrefatte.

 

Abbinamento: involtini di manzo con scamorza e speck

Stile: Smoked Stout

Gradazione Alcolica: 5% vol.

 

Ghisa | Lambrate | Milano | via Sbodio, 30/1 | birrificiolambrate.com

 

Mutta Affumiada

Nato nel 2008, Il Birrificio di Cagliari si appresta a festeggiare il primo decennio di attività, due lustri vissuti tra successi e giudizi più che positivi provenienti sia dalla platea degli addetti ai lavori che da quella degli appassionati bevitori. La Mutta Affumiada, oltre all'utilizzo di malti affumicati, prevede nella ricetta anche il mirto essiccato, materia prima di cui la regione è ricca. I due ingredienti si rincorrono già al naso, con i sentori affumicati al nastro di partenza seguiti subito dalla balsamicità del mirto. In bocca, stesso schema: il corpo scorrevole e lineare è perfettamente in armonia con il profilo olfattivo; il finale invece è tutto dedicato all'aroma e alla freschezza del mirto.

 

Abbinamento: lonza arrosto al mirto

Stile: Mirto Smoked

Gradazione Alcolica: 6% vol.

 

Mutta Affumiada | Il Birrificio di Cagliari | Cagliari | via Newton, 24 | ilbirrificiodicagliari.com

 

 

Affumiada

Tertenia è un piccolo comune della provincia di Nuoro: è qui che ha sede il Birrificio Lara guidato da Gianni Piroddi e da Francesca Lara. Il birrificio è divenuto "agricolo" nel 2011: significa che le materie prime, cereali soprattutto, sono autoprodotti (ed è stata avviata anche una produzione di luppolo). La Affumiada è una alta fermentazione che si rifà alle rauchbier di Bamberga (che però sono basse fermentazioni). Prodotta con malti d'orzo e frumento affumicati, presenta all'olfatto un piacevole aroma che gioca con note tostate e accenni speziati. In bocca è intensa e rotonda, con un finale gradevolmente dolce, non stucchevole, reso ancora più piacevole dai rimandi affumicati e tostati.

 

Abbinamento: fiore sardo

Stile: Weizen Rauch

Gradazione Alcolica: 6% vol.

 

Affumiada | Lara | Tertenia (OG) | via Gennargentu, 14 | birralara.it

 

Don Zaucher

Il progetto Stavio nasce nella Capitale nel 2011; non è solo una beer firm, ormai tra le più apprezzate di Roma, ma anche un locale dove oltre a una bella rosa di birre (proprie ma non solo), si possono trovare una nutrita selezione di salumi, un'interessante proposta di cucina fredda e un'intelligente carta di vini naturali. La Don Zaucher è una delle birre più conosciute della beer firm, nonché tra le ricette più particolari del panorama italiano. Note affumicate e scorze d'arancia amara: accostamento sulla carta poco probabile; Marco Meneghin, il birraio della cricca, invece li abbina in maniera esemplare. Il risultato è una lager a tutta beva, ma non banale, con incroci gusto-olfattivi intriganti e mai scontati, sorso dopo sorso.

 

Abbinamento: arista con arance e speck

Stile: Smoked aromatizzata alla buccia d'arancia

Gradazione Alcolica: 5,2% vol.

 

Don Zaucher | Stavio | via Antonio Pacinotti, 83 | stavio.it

 

{gallery}rauchbier 1{/gallery}

 

Drago della Selva

Già il nome del birrificio dà un'idea di quanto i fratelli Claudio e Gennaro Cerullo tengano al loro territorio. Il Monte Amiata infatti domina il panorama di Arcidosso, il piccolo comune toscano culla del birrificio nato nel 2006. In una gamma davvero folta e sfaccettata, non poteva mancare una birra affumicata. La Drago della Selva viene prodotta con una parte di malti affumicati al fumo di torba provenienti dalla Scozia: questo fa sì che il profilo olfattivo rimandi a certi whisky, ricordi che poi tornano subito sulla birra quando la freschezza erbacea del luppolo inizia a fare capolino nel bouquet. Un sorso intenso, un corpo non pesante e un gradevole finale speziato, piacevolmente amaro e torbato chiudono il cerchio.

 

Abbinamento: aringhe affumicate al cartoccio

Stile: Peated Ale

Gradazione Alcolica: 6,9% vol.

 

Drago della Selva | Amiata | Arcidosso (GR) | via Curtatone, 13 | birra-amiata.it

 

Fumo Lento

Luciano Landolfi ha vissuto tutti gli step della carriera brassicola; prima homebrewer, poi beer firm e infine, nel 2015, il birrificio a Latina. Subito le sue birre hanno grande successo, dapprima nella capitale, poi anche sul territorio nazionale; merito di un progetto ben definito e di un livello qualitativo della produzione in costante crescita. La Fumo Lento è una smoked baltic porter che al naso ricorda sentori di bacon, uniti a note di liquirizia e caffè. Stesso registro in bocca su un sorso scorrevole, giustamente poco effervescente, con un finale morbido e avvolgente.

 

Abbinamento: torta cioccolato e whisky

Stile: Smoked Baltic Porter

Gradazione Alcolica: 7,5% vol.

 

Fumo Lento | East Side | Latina | s.da Regionale 148 Pontina, 134 | eastsidebrewing.it

 

Mr. Peat

Raffaele, Andrea, Andrea e Riccardo sono quattro giovani amici che dopo le prime esperienze casalinghe decidono di iniziare a fare sul serio e pochi anni fa hanno aperto il proprio birrificio nella periferia sud di Roma, sull'Ardeatina. Quella che proponiamo qui è una collaboration beer nata insieme agli amici di Ritual Lab, birrificio di Formello (Roma). Si tratta di una smoked cream ale, prodotta con l'utilizzo di malti peated (torbati) che conferiscono un piacevole e affascinante aroma affumicato. A completare il tutto contribuiscono la miscela di luppoli americani e inglesi a dare note fruttate e fresche e la dolcezza controllata del miele di sulla, che rimette le componenti amare in perfetto equilibrio.

 

Abbinamento: fettuccine al salmone affumicato.

Stile: Smoked Cream Ale

Gradazione Alcolica: 4,5% vol.

 

Mr. Peat | Rebel's Microbrewery | Roma | via Ardeatina, 931 | rebelsmicrobrewery.it

 

a cura di William Pregentelli

 

QUESTO È NULLA...

Questo articolo è uscito sul numero di dicembre del Gambero Rosso, insieme a uno speciale sui panettoni - ne abbiamo degustati e classificati 34 - il racconto dell'Enoteca Pinchiorri con una Annie Féolde ritratta da Alberto Blasetti in un'inedita versione molto molto rock, e di Lido 84 di Riccardo e Giancarlo Camanini, un approfondimento sull'Amarone e molte altre cose. Peccato averlo perso!

Il Gambero Rosso lo potete trovare in edicola o in versione digitale, su App StorePlay Store. Ma per non perdere nessun numero, abbonatevi qui.

 

 

Printemps du Gout. La nuova food hall dell'orgoglio francese negli storici magazzini di Parigi

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Due piani interamente dedicati al cibo, con vendita a scaffale di 2500 prodotti francesi, cantina, spazi degustazione, libreria gastronomica, 4 tra chef e artigiani del gusto per portare a tavola l'eccellenza della gastronomia nazionale. E un ristorante con terrazza panoramica sulla città. I magazzini Au Printemps scommettono sul cibo. 

Food hall mania

Se è vero che il fascino della buona tavola continua ad alimentare le speranze di chi individua nelle potenzialità del settore enogastronomico un potente alleato per la ripresa economica, l'investimento che va per la maggiore, in Europa e al di là dell'Atlantico, ha eletto nel modello della food hall una panacea per tutti i mali. Capace di riunire in un unico, grande spazio gastronomia e ristorazione, la formula del tempio di delizie che somma intrattenimento e velleità di educazione al gusto ha trovato in Italia un campione indiscusso nell'Eataly di Oscar Farinetti (che di recente ha decisamente ampliato l'orizzonte con il parco di Fico). E non è raro ricondurre a imprese del genere un fine protezionistico, che nel segno del corporativismo promuove l'eccellenza di una determinata cultura gastronomica, al motto di “l'unione fa la forza”. Di fatto, nell'epoca in cui il cibo ha conquistato ogni palcoscenico possibile, la corsa a dotarsi del proprio spazio gastronomico sembra coinvolgere tutti. E i grandi centri commerciali, che dell'intrattenimento fanno un presupposto per stimolare il commercio, offrono un'idea concreta del fenomeno. Sull'offerta gastronomica selezionata e di qualità, meglio se in partnership con grandi nomi del settore, scommettono da tempo El Cort Ingles nei suoi molteplici punti vendita spagnoli, le Galeries Lafayette a Parigi, La Rinascente in Italia (a Milano, e più di recente a Roma). Presto anche Harrods, a Londra, vivrà la sua rivoluzione del gusto (The Taste Revolution, entro il 2019). Solo per citare i gruppi più conosciuti sulle principali piazze europee.

I formaggi di Laurent Dubois

Au Printemps scommette sul cibo

Da poche ore, con un po' di ritardo considerando la storia che porta in dote, anche i grandi magazzini Au Printemps, icona dello shopping parigino, sfoggiano la propria ambiziosa food hall. In Boulevard Haussmann, i magazzini nascevano nel 1865 con l'idea di portare in città una ventata d'aria nuova, non distante dall'imponente edificio che solo 30 anni dopo, nel 1895, avrebbe visto nascere le Galeries Lafayette. Magniloquente esempio di architettura ottocentesca, con incursioni Art Nouveau, come la celebre cupola realizzata nel 1923, Printemps entrerà nella storia della moda parigina, rinnovandosi nel corso di tutto il XX secolo. L'ultima sfida, dunque, operativa da un giorno appena, si chiama Printemps du Gout, un grande spazio di 1700 metri quadri al settimo e ottavo piano del reparto Magasin Homme, tutto dedicato all'enogastronomia nazionale. Epicerie, cantina (1000 etichette francesi, un centinaio di champagne e 350 referenze di whisky) e vendita a scaffale con oltre 2500 referenze da 350 produttori di Francia (tre anni ci sono voluti per selezionarli) al settimo piano, mercato gastronomico con ristorante e tavoli in terrazza all'ultimo piano dell'edificio, con vista panoramica su Parigi.

Printemps du Gout

Un'operazione importante (100 milioni di euro l'investimento stanziato per la riqualificazione che sta interessando l'intero complesso) che potrà contare su molti validi alleati. Quattro i nomi di riferimento: il pasticcere Christophe Michalak, lo chef Akrame Benallal alle prese con una proposta di mare e verdure agli Ateliers Vivanda, il boulanger Gontran Cherrier a dirigere il laboratorio di panificazione con proposta di panini gourmand e viennoiseries per la colazione, Laurent Dubois nello spazio dedicato ai formaggi, con 80 proposte dal territorio nazionale e una carta informale tra croque monsieur e dessert al latte.

Il pane di Gontran

Ognuno potrà disporre di un corner di degustazione dedicato, 260 coperti in tutto, di cui una settantina all'aperto, in terrazza. Poi, tra qualche mese, aprirà il ristorante gastronomico al nono piano, con 150 posti in terrazza a disposizione. Il nome di chi lo guiderà è ancora top secret. Mentre ha già trovato spazio una piccola libreria gastronomica inclusa nel percorso. L'obiettivo è quello di conquistare i parigini, ma soprattutto quel 40% di clienti stranieri che ogni anno visitano i magazzini, con un'offerta che presenti al meglio la storia e il presente della gastronomia francese. E prezzi per tutte le tasche. Sicuramente il progetto ha già incentivato nuovi sodalizi, come quello tra Thierry Marx, chef del Mandarin Oriental a Parigi, e la Maison Dubernet, specializzata in foie gras e charcuterie: insieme proporranno in degustazione nella boutique dedicata allo storico brand una nuova linea di prodotti messa a punto con la collaborazione dello chef.

 

Printemps du Gout – Parigi – Boulevard Haussmann, 64 - www.printemps.com

 

a cura di Livia Montagnoli

Massimo Bottura presenta la Gucci Osteria di Firenze, da Modena nel mondo. Il video

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Un Massimo Bottura entusiasta per l'inizio della nuova avventura fiorentina è quello che intrattiene gli ospiti della cerimonia inaugurale del Gucci Garden, tra un piatto di tortellini al Parmigiano Reggiano e un bun ispirato all'Oriente. La parola allo chef. 

Massimo Bottura al Gucci Garden

Si presenta in sala con una rosa stampata a decorare la divisa da chef (evidente lo zampino di Alessandro Michele, capo creativo di Gucci), al collo una catenina in omaggio alla vacca bianca modenese, “una razza che 17 anni fa abbiamo salvato, insieme a Davide Paolini, un avvocato di Modena e l'assessore all'Agricoltura”. È raggiante Massimo Bottura, che in occasione della cerimonia inaugurale del Gucci Garden, il 9 gennaio scorso, si fa animatore della festa, mentre i camerieri sfilano con vassoi di tortellini al Parmigiano Reggiano e intorno tutti apprezzano il menu cosmopolita studiato dallo chef della Francescana insieme alla messicana Karime Lopez per il primo progetto italiano fuori da Modena del team Bottura. Alla Gucci Osteria, il piccolo ristorante incastonato nell'ambiziosa operazione di rinnovamento di Palazzo della Mercanzia, avamposto della maison fiorentina affacciato su piazza della Signoria, Bottura ha lavorato con grande coinvolgimento, per l'amicizia di lunga data che lo lega a Marco Bizzarri e per la fiducia accordata a un progetto moderno e di respiro internazionale, coordinato da Alessandro Michele. E il menu non potrebbe parlare più chiaro: “Abbiamo la tostada della tradizione di Karime, il bun studiato da Taka, i tortellini modenesi, il dessert al cioccolato che piace molto a mio figlio Charlie”.

Cosmopolita e di territorio. Da Modena nel mondo

Una summa eterogenea e complementare di piatti che attingono a suggestioni molto diverse tra loro, anche per orizzonti geografici, eppure viaggiano all'unisono per merito di una visione creativa che non sembra disposta a porsi limiti, quella che da sempre anima la cucina di Massimo Bottura. E che con tutta probabilità sarà molto efficace nel contesto internazionale del Gucci Garden. Il pensiero, però, corre costante a Modena, e al territorio emiliano: “Oggi ci sono solo tre caseifici che fanno il parmigiano in purezza di Bianca, tra cui Rosola: sentite che profondità di sapore”, suggerisce agli astanti mentre presenta i suoi tortellini. “La salsa è fatta con acqua e Parmigiano Reggiano, perché l'acqua è verità: non puoi mentire con l'acqua, se compri una materia prima straordinaria, poi la ritrovi al palato. E soprattutto c'è pulizia nel sapore”. Mentre è una sorta di sincretismo gastronomico il segreto di invenzioni come il Taka bun – ispirato alla tradizione orientale di Taka Kondo, con l'insalata marinata nello yuzu, e la pancia di maiale laccata all'aceto balsamico “che ti rimanda alla modenesità” - o l'hot dog di chianina, con gelatina di cotechino ad ammorbidire la carne. Questa e altre storie – come il progetto della “Charlie & the Tortellini Factory” legato all'esperienza del Tortellante – nel video girato alla presentazione del Gucci Garden. Fino al promesso spaghetto di mezzanotte, per l’occasione tramutatosi in una intensa cacio e pepe chiusura umami e speziata, per una serata scoppiettante che parrebbe dare avvio a un progetto gastronomico davvero da seguire.

 

Gucci Osteria - Firenze - Gucci Garden, piazza della Signoria, 10


Ferramenta a Sant'Arcangelo di Romagna. I piatti di Valerio Braschi per Rino Mini

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Il patron del gruppo Galvanina ci riprova a Sant'Arcangelo di Romagna. Dopo il debutto nel 2015, a un anno dalla chiusura, Ferramenta riapre al pubblico in veste rinnovata. Gastronomia, cucina, pizzeria e oyster bar per rilanciare il locale. Con la collaborazione del Masterchef Valerio Braschi. 

Da Galvanina alla ristorazione

La prima prova di Ferramenta, a Sant'Arcangelo di Romagna, risale alla fine del 2015. Allora il ristorante di piazza Ganganelli, nel bello spazio rinnovato di un edificio quattrocentesco, sommava le intenzioni di più soci. Il più celebre tra loro, Rino Mini, oggi che il locale riapre al pubblico dopo lo stop di quasi un anno dalla precedente gestione, è ancora lì. Proprietario unico di un'insegna che ha richiesto tempo per essere ripensata, trovando un'identità più precisa e allineata agli obiettivi del patron. Rino Mini, in Romagna, lo conoscono tutti. Imprenditore navigato, è a capo del gruppo Galvanina, brand affermato nel settore di acqua e bevande analcoliche in bottiglia, che presto, grazie a un investimento di oltre 12 milioni di euro si ingrandirà a comprendere un nuovo stabilimento sul territorio, lanciando sul mercato l'acqua di Rimini, l'Acqua San Giuliano. Ma al ristorante di Sant'Arcangelo, sin dall'inizio, ha sempre tenuto molto. E ora, con un progetto tutto nuovo, riparte con uno spazio che mette al centro il prodotto, quello del territorio e una selezione da tutta Italia, protagonista in cucina e sugli scaffali che allineano oli extravergine e aceti, spezie e legumi secchi, la frutta sciroppata e i sott'oli di produzione propria, la pasta di Gragnano, caffé, succhi di frutta biologici. Tutto in vendita, insieme a utensili e stoviglie di grande manifattura.

L'Officina del gusto di Sant'Arcangelo

Non a caso l'insegna recita pure Officina del gusto, e può contare su un'offerta diversificata che cambia nel corso della giornata. Nel 1850, il locale ospitava la Trattoria del Commercio, poi trasformata nella celeberrima Ferramenta Semprini, omaggiata non solo dal nome della nuova insegna, ma pure per lo spirito che ha guidato i lavori di restyling: banconi di legno, ferro e vetro in abbondanza, teche in ferro battuto per il vino, tanta manualità. Concessione al brand per i lampadari realizzati con bottiglie Galvanina, e divanetti in pelle. In cucina (a vista), invece, strumentazioni e attrezzature all'avanguardia, come il forno X-Oven alimentato con carbonella di legno di mangrovia cubana, per ridurre i tempi di cottura delle carni (in arrivo da 12 Paesi del mondo, e ben visibili dalla sala nelle celle di conservazione).

A guidare la squadra, lo chef Leonardo Rossetto, per coordinare una proposta che spazia dalla pasta fresca alle ricette della tradizione romagnola, alle alternative vegane. Pesce fresco dell'Adriatico, verdure bio, carne e salumi di maiale di Simone Fracassi e Onesto Ghirlandi, polli Bresse. E poi la pizza, con un forno a legna dedicato, affidato a Mimmo Fabozzi. O l'Oyster e raw bar per l'aperitivo, con bancone scenografico in legno e marmo dirimpetto alla ghiacciaia dei primi anni '50: in carta ostriche nazionali e champagne, sushi, assaggi di Pata Negra e prosciutti italiani, la finocchiona di Fracassi, pani caldi e focacce. Proposta di cocktail per la sera, gelato e pasticceria tradizionale per ogni momento della giornata. Da bere anche la birra Ferramenta tipo lager prodotta in esclusiva da Amarcord e vini italiani e francesi, con l'insolita trovata del caveau personalizzato, con cassette di sicurezza dove riporre la propria selezione di etichette.

 

Le ricette di Valerio

Non ultima, la collaborazione con il giovane Valerio Braschi, vincitore della scorsa edizione di Masterchef e originario di Sant'Arcangelo: a lui il compito di ideare piatti che periodicamente saranno proposti in menu, per offrire uno spunto in più ai commensali.

 

Ferramenta – Sant'Arcangelo di Romagna – piazza Ganganelli 19/20 - ristoranteferramenta.com

Culinary Gardeners: i consulenti agricoli amanti dell'arte

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Farm to table. Si chiamano Culinary Gardeners i consulenti agricoli che creano orti biodinamici a misura di chef.

Un passato nell'arte - musica lui, pittura lei - e un presente con le mani nella terra, senza disperdere l'eredità delle vite precedenti ma impiegandola in questa. Un approccio olistico che in parte si rifà ai principi della biodinamica, in parte dipende da un'attitudine personale, guidata da uno sguardo orizzontale capace di armonizzare principi, passioni e istinto imprenditoriale. Questo alla base di Culinary Gardeners, progetto nato a Modena una decina di anni fa.

 

La storia

Un anno in India con una Ong impegnata nella ricostruzione post tsunami ha segnato il punto di non ritorno per Davide Rizzi e Lorena Turrini: da quell'esperienza estrema, intensa e durissima, capiscono che è arrivato il momento di cambiare vita. Nasce l'esigenza di un contatto diretto e appagante con la natura e la voglia di creare qualcosa di più autentico. Si accostano all'agricoltura e scelgono la biodinamica come strada maestra “per dare vita a prodotti più sani e nutrienti, che poi è lo stesso motivo per cui Rudolf Steiner, negli anni '20 del '900, ha inventato la biodinamica: perché c'erano problemi con la qualità dei prodotti. C'era bisogno di cibi che potessero dare migliore sostegno alle persone” spiega Davide. Un concetto che loro amplificano: “Puntiamo a dare un buon nutrimento non solo per il fisico, ma anche per lo spirito: vedere cose belle, stare in un ambiente sano, creare giardini armonici; la bellezza influenza la qualità della vita, del lavoro e del cibo che questo produce”. Nel loro progetto – e in coincidenza con le teorie steineriane - l'agricoltura è passaggio verso la natura e la bellezza, in un percorso che mira all'armonia come relazione tra le cose. “Iniziammo a frequentare il mondo che gira intorno alla biodinamica, andammo a imparare da chi già faceva agricoltura secondo questo modello. E ci si apre un mondo”. Quello dell'incredibile rete che collega discipline apparentemente lontane. E a un certo punto, si ritrovano agricoltori. Il primo incarico è in un relais nel senese “da lì è partito tutto”.

Il lavoro con le aziende turistiche o agrituristiche

L'obiettivo era riorganizzare l'orto, creare un luogo bello, migliorare la qualità e la quantità dei prodotti impiegati nelle cucine del ristorante. O meglio dei ristoranti: quell'albergo di charme, il Borgo Santo Pietro, ospita il ristorante Meo Modo (Due Forchette per il Gambero Rosso e Stella Michelin) ed è cugino stretto della Bottega del Buon Caffè di Firenze (altro Due Forchette e Stella), della stessa proprietà. Le cose vanno bene, il passaparola fa conoscere loro e quello strano lavoro da agricoltori e consulenti agricoli al servizio dei cuochi. I loro clienti sono in gran parte strutture ricettive, per le quali creano degli orti non solo funzionali, ma così belli da diventare parte integrante dell'offerta turistica: “Organizziamo visite guidate alla scoperta dei prodotti dell'orto, in cui facciamo conoscere e assaggiare gli ortaggi. Talvolta la visita all'orto fa parte dei corsi di cucina della struttura”, in cui prima di imparare a cucinare, si impara a scegliere i prodotti e fare la spesa. L'attitudine didattica, mai verbosa, è quella che punta a valorizzare l'unicità della cucina italiana a partire dai suoi giacimenti agricoli.

 

Farm to table

La loro è una figura nuova, e la novità sta in quel puntare alla migliore ristorazione secondo il principio del farm to table, nel farlo con uno sguardo moderno e imprenditoriale (ma senza rinnegare un ideale di sostenibilità ad ampio spettro), nell'avere la bellezza come punto fermo e nel considerare le implicazioni gastronomiche della loro attività agricola.“A volte è il cuoco a chiederci qualcosa che vuole cucinare, spesso siamo noi a suggerire o far scoprire un prodotto che poi darà vita a un piatto”. In questa funzione di raccordo tra la terra e la tavola, è fondamentale che i prodotti siano al massimo delle loro qualità e che chi li usa sappia valorizzarle nei piatti. Anche avere prodotti non standardizzati è importante, perciò cercano varietà poco comuni o addirittura nuove, create ad hoc. Così cambia la figura del contadino nel terzo millennio. “Anche si parla molto di materia prima e si cerca maggiore qualità, il ruolo del contadino è ancora secondario, occorre portare in primo piano le competenze degli orticoltori che collaborano con gli chef”. E che sanno dare un'ossatura teorica al loro lavoro.

 

Arte in orto

Per certi versi lavorano alla stregua di architetti paesaggisti, “facciamo consulenze su come costruire orti basati sulla bellezza, su come nutrire anche la vista e lo spirito, cerchiamo di sensibilizzare i clienti”, arricchiscono di sculture i terreni agricoli progettati secondo precisi criteri estetici, quasi a creare spazi di contemplazione in cui bello e buono intrecciano i loro confini; merito dalla varietà delle piante, diverse per colori e forme, oltre che gusto. È un po' la sintesi delle loro vite, quelle passate e quelle presenti, che si trovano in una relazione circolare, come nella migliore concezione olistica. Del loro percorso di musicista e pittrice rimane l'amore per l'arte, così i loro progetti nel verde includono anche l'organizzazione di concerti e sessioni di musica per le piante, happening di pittura estemporanea, visite guidate, “siamo andati verso la natura, la bellezza e l'armonia”. Sembra un gioco di parole: arte in orto.

La banca dei semi

Per capire cosa coltivare in un posto bisogna conoscerlo bene” spiega Davide, che parla di clima, terreni, ma anche astronomia “le parole pianta e pianeti hanno una matrice simile, e non solo in italiano: evidentemente c'è una relazione nota già nell'antichità” aggiunge. Hanno una banca dei semi che conta circa 1700 varietà: “quando viaggiamo per il mondo, ne riportiamo sempre qualcuno. Proviamo a vedere se si acclimatano, e spesso abbiamo risultati positivi”. Un esempio? Lo spinacio rosso o verde del Malabar, “che non è uno spinacio” o gli alchechengi di vari gusti e colori. “Prodotti qui sono molto meglio: quelli importati non sono raccolti a piena maturazione perché poi devono fare un lungo viaggio fino alle nostre tavole”. Con un enorme impatto sull'ambiente e sui costi dati dallo stoccaggio e dal trasporto. Da questi semi se ne generano altri: “in biodinamica i semi rinnovati sono migliori e più forti, c'è molto lavoro prima di distribuirli alle aziende con cui lavoriamo: a volte anche 3 o 4 anni per rigenerarli, stabilizzarne i caratteri e migliorare la loro adattabilità al nostro territorio”. Di volta in volta si scelgono i migliori, e quelli più adatti per ogni orto. Tutto questo va ad ampliare il vocabolario di sapori cui gli chef possono attingere. Perché l'attività di è sempre rivolta a creare patrimoni gastronomici sani, buoni, nutrienti. E anche vari. “Ogni ortaggio nuovo è un arricchimento del menu” .

 

A chi si rivolgono

Davide e Lorena ristrutturano orti e terreni agricoli, consigliano cosa coltivare, suggeriscono modifiche per migliorarne la salubrità e la produttività dei terreni, la varietà delle specie coltivate, la bellezza dei luoghi, sempre a partire da un approccio biodinamico. Ci sono le strutture turistiche e agrituristiche che vogliono ottimizzare i loro spazi, aumentando la varietà, quantità e la qualità dei loro raccolti puntando al massimo di sapore, valori nutrizionali, bellezza;migliorare il rapporto con la cucina; trasformare l'orto in una attrazione per la clientela. “Si rivolgono a noi anche aziendeagricoleche vogliono passare a un tipo di agricoltura più sostenibile” aggiunge Davide “e che così, contando su un raccolto di qualità e quantità maggiori, possono rivolgersi a un certo tipo di ristorazione”, quella blasonata che vuole prodotti non standardizzati. Sempre stati impegnati sui terreni di altri non hanno mai prodotto in proprio,“non abbiamo mai avuto neanche il tempo, ma nulla vieta di farlo in futuro”. Per ora comincia la vendita di prodotti a loro marchio, con un mix di spezie.

La ricerca

Il prossimo anno li vedrà a Ibiza, in due importanti strutture turistiche. Nell'isola riprenderanno le loro consulenze che integrano agricoltura, cucina, innovazione ma nel frattempo, in quello che si potrebbe definire un anno sabbatico, Davide e Lorena portano avanti un lavoro con un istituto di ricerca, per studiare nuove varietà migliorate. Insomma, invece che cercare varietà antiche, come accade sempre più spesso, puntano a crearne di nuove capaci di rispondere ad alcune esigenze attuali: “grano senza glutine, o piante che resistano alla siccità, che come abbiamo visto nei mesi scorsi ormai è il nemico da sconfiggere”. Poi ancora migliorare la produttività di alcune colture e lavorare al disinquinamento di terreno, acqua, semi e aria. “Dove c'è inquinamento l'agricoltura non va” spiega Davide “e anche nella conversione al biologico, dopo i 3 anni previsti, rimangono residui chimici. Noi proponiamo un'alternativa al biologico, stiamo avendo risultati più in fretta e in modo completamente pulito, senza alcun uso di chimica, con diserbanti che non sono veleni, tanto che potresti anche berli”. La creazione di piante nuove, sempre nel rispetto della natura e dell'ambiente, apre un ulteriore potenziale per il mercato della ristorazione: i cuochipossono costruire menu potendo contare su ortaggi nuovi, praticamente tailor made. Senza mai uscire dal recinto della biodinamica. “Il nostro primo obiettivo è lavorare sulla qualità” ma in modo non ottuso, aperto alle esigenze dei giorni nostri e quelle di un mercato ancora vergine.

http://www.culinarygardeners.com/

 

a cura di Antonella De Santis

 

 

Peliti's, il Vermut indiano

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Vi raccontiamo la storia di Federico Peliti, un pasticcere italiano in India, alla corte della Regina Vittoria, che ha ideato un vermut con un mix di spezie indiane e di erbe piemontesi, fra esotismo e tradizione. 

Fra Torino e il vermut o vermouth (alla francese) c’è una lunga storia. Con tanto di data ufficiale: 1786, quando nella bottega di piazza Castello (che oggi non esiste più, ed è ricordata da una targa all’angolo con via Viotti) Antonio Benedetto Carpano iniziò a produrre e vendere del vino bianco aromatizzato con le spezie, prima fra tutti l’artemisia, in tedesco – il Carpano pare fosse un fan di Goethe – per l’appunto vermut. Tra fine ‘700 e fine ‘800 a Torino e nel Torinese si contano decine di produttori, alcuni diventati famosi – Martini con il socio Rossi, Gancia, Cinzano... - altri tornati in auge in questi ultimi anni, merito del revival del vermouth, anche – forse soprattutto - in versione mixology. Tra questi, un vermouth che ha una storia davvero unica: il Peliti’s. Il genitivo sassone ci mette sulla strada. Si tratta di un vermut (usiamo la grafia originale) che ha a che fare con il mondo anglosassone, ma secondo un’angolazione speciale: passando per l’India.

Federico Peliti

Federico Peliti: un carignanese a Calcutta

Tutto comincia con una famiglia di mastri da muro e agrimensori originaria della frazione Ganna del comune di Valganna, nel Varesotto, arrivata a Carignano, nelle campagne attorno a Torino, alla metà del Settecento per costruire il Duomo e stabilitasi in Piemonte. Federico nasce nel 1844. È un giovane pieno di talento artistico, allievo di Vincenzo Vela all'Accademia Albertina. Si diploma nel 1865, e poi nel 1867-68 entra in contatto con alcune ditte di confettieri e pasticceri fornitori di Casa Savoia, e diventa decoratore di dolci. Quando Richard Bourke, VI conte di Mayo, diventa viceré delle Indie britanniche, nel 1869, bandisce un concorso proprio a Torino, all’epoca una delle capitali della pasticceria europea, per scegliere il pasticciere che dovrà seguirlo in India. Ed è Federico Peliti ad aggiudicarsi il posto. Inizia così l’avventura indiana, a Calcutta, dove le sue creazioni di pasticceria riscuotono grande successo. Quando Lord Mayo viene assassinato nel 1872 Peliti decide di rimanere in India, mettendosi in proprio. Apre una pasticceria, con annesso ristorante frequentato dalla high society inglese. Le sue foto (era pure appassionato di fotografia) testimoniano una “vita indiana” sorprendente per un piemontese, all’epoca. Antesignano del catering (è rimasto nella memoria un pranzo organizzato in Birmania per il Principe di Galles nel 1891, con trasporto di portate , tavoli, sedie in treno e in battello), Peliti ingrandisce la sua attività a Shimla, capitale estiva dell'India britannica, dove apre un albergo e un ristorante, citato da Kipling – amico di Peliti - nel racconto Il risciò fantasma. A Shimla costruisce Villa Carignano (oggi scomparsa) e inizia a fare la spola fra India e Italia per organizzare l’esportazione di prodotti.

Il vermut e le ricette ritrovate

E il vermut? Peliti crea una distilleria proprio per la produzione di un vermut esclusivo, il Peliti’s, confezionato dal 1877 espressamente per la Casa Reale inglese su richiesta del Re Edoardo VII. Vermut che riscuote un enorme successo, vincendo medaglie alle varie esposizioni internazionali: a Calcutta, a Parigi, a Torino. Il segreto di questo successo sta nella formula, mix di spezie indiane e di erbe piemontesi, sulla base del moscato del Monferrato. Fra esotismo e tradizione.

Dopo la morte di Federico Peliti, anche il suo vermut viene progressivamente dimenticato e la produzione cessa negli anni ‘40. Finché entra in scena la pronipote, Letizia Peliti, che qualche anno fa, riordinando documenti e lettere nella casa di famiglia di Carignano dopo la morte dei genitori, ritrova le ricette del bisnonno Federico, che suo padre aveva pazientemente recuperato accarezzando il sogno di produrre nuovamente il vermut di casa.

Il caso vuole che il genero di Letizia, Antonio Salvatore, sia un esperto del settore: a Torino si occupa di uno dei locali di tendenza del quartiere di San Salvario, il Lanificio, e già produce, insieme al socio Filippo Camedda, un amaro un po’ insolito a base di chinotto: l’Amarot.

La rinascita del Vermut Piliti's

Il bisnonno aveva messo a punto molte ricette” - spiega Letizia Peliti – “ne abbiamo recuperate una quarantina e insieme ad Antonio ne abbiamo scelte due, la XXII, più classica, e una decisamente indiana , la XXXVII, che utilizza spezie esotiche, soprattutto il cardamomo, all’epoca consigliata dopo un piatto al curry. E io sono davvero felice di aver realizzato il sogno di mio padre di vedere rinascere il vermut di famiglia”.

Ma come è stato accolto questo “vermut indiano” a Torino? “C’è molto interesse, il vermut attraversa una vera riscoperta, e noi abbiamo creato un prodotto di grande qualità, utilizzando solo Moscato piemontese e spezie selezionatissime, e curando ogni dettaglio”. Ci racconta Antonio Salvatore. “Le etichette per esempio, che Filippo ha realizzato con particolare raffinatezza, riprendono i colori e i disegni dei tatuaggi di henné e dei tessuti indiani”. Un bel prodotto che i due soci stanno cercando di spingere anche all'estero, sopratutto in America dove c'è grande interesse.

Come si degusta al meglio il Peliti’s? “Il rosso è perfetto per le miscelazioni, ma lo proponiamo anche in purezza, il bianco è più insolito, da degustare da solo, per coglierne tutta la complessità. In tal senso vorremmo aprire, sempre qui a Torino, uno spazio degustazione con uno show room, per far provare ai torinesi appassionati di vermut e ai turisti un “nuovo” storico prodotto che ha un tocco in più: è frutto dello spirito visionario di un piemontese-indiano protagonista di un’incredibile avventura”. Per la cronaca: Federico Peliti non ha mai preso la cittadinanza britannica ed è tornato in Piemonte poco prima della guerra. È morto a Carignano, nel 1914, ed è sepolto nel cimitero della cittadina.

 

www.pelitis.com

Per gustare un Peliti’s: Lanificio San Salvatore - Torino - via Sant’Anselmo 30 – 011 0867568

 

a cura di Rosalba Graglia

 

 

 

 

Non solo Calandre: la galassia Alajmo. Altissima cucina, made in Italy, business milionari

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Un impero del cibo made in Veneto: quello della famiglia Alajmo, che parte a Rubano, in provincia di Padova e arriva fino a Parigi. Ma non finisce qui.

Ristoranti gastronomici, bistrot, caffè: Alajmo Spa è una galassia composta da dieci insegne, nove in Veneto, tra Sarmeola di Rubano, Selvazzano Dentro e Venezia, e una sola (per ora) fuori Italia, a Parigi. Un impero del cibo da 205 dipendenti, con un fatturato consolidato nel 2017 di 15 milioni di euro. A tenere le fila sono naturalmente i fratelli Alajmo.

 

Raffaele e Massimiliano Alajmo. foto Lido VannucchiRaffaele e Massimiliano Alajmo. foto Lido Vannucchi

 

Alajmo è una collezione di posti unici, una Wunderkammer di piccole meraviglie, ognuna diversa dalle altre. Non c’è un modello a cui ci ispiriamo, decidiamo noi che percorso fare. Il nostro obiettivo? Inglobare ancora altre chicche”. Piccole meraviglie che fanno però un impero del food ormai da 205 dipendenti e 15 milioni di fatturato. A capo di tutto i due fratelli, Raffaele e Massimiliano, che il Chief Financial Officer del Gruppo, Fabrizio Masiero, soprannomina ‘Dolce&Gabbana’ e che le cronache gastronomiche dipingono sempre come lo Yin e lo Yang. Diversi ma complementari: Raffaele Alajmo è il manager dal piglio militaresco, Ceo dell’azienda, Massimiliano Alajmo è il virtuoso, lo chef&pasticcere con Tre Forchette sulla guida del Gambero Rosso e con Tre Stelle già nell’edizione della guida Michelin 2003 (il più giovane nella storia ad averle ottenute, ad appena 28 anni di età) che si occupa di modellare tutti i contenuti culinari, nella perenne ricerca del gusto primordiale e della “verità” degli ingredienti. Insieme a loro, naturalmente, il resto della famiglia: la sorella Laura, con una vocazione per la pasticceria e il packaging, che segue più direttamente il Calandrino; il papà e Presidente Erminio, che è anche Presidente Fipe Veneto e Vicepresidente Nazionale Fipe; e naturalmente mamma Rita, regina indiscussa della pazientina (tipico dolce padovano): fu lei a prendere la prima stella a Le Calandre nel 1992 e ancora oggi va nel laboratorio di pasticceria ogni volta che può.

 

calandre_by_Sergio_CoimbraLe Calandre. Foto: Sergio Coimbra

Il brand Alajmo

Alajmo è oggi un vero e proprio brand, la cui estensione parte naturalmente dalla casa madre, Le Calandre, un ristorante-destinazione in una non destinazione. Le linee di business sono tre: quella dei locali gastronomici/gourmet che corrisponde al 43% – con Le Calandre e il Ristorante Quadri a contenersi la pole position in termini di fatturato – quella dei caffè/bistrot al 50% – qui è il Grancaffè Quadri il primo in assoluto – e la parte eventi, capace di generare il 7% del fatturato.

Caffè Stern Sergio_CoimbraCaffè Stern. Foto: Sergio Coimbra

Business e responsabilità sociale

Un business con un alto tasso di responsabilità sociale: nel 2004 è nato Il Gusto per la Ricerca(da un’idea dei due fratelli sviluppata insieme al dott. Stefano Bellon): pranzi di alto profilo il cui ricavato viene destinato al 100% a Enti che finanziano la ricerca scientifica nel campo delle malattie neoplastiche infantili, a strutture che ospitano bambini in condizione di forte disagio e a realtà locali di assistenza che operano sul territorio. In 14 anni sono stati raccolti e donati 1.825.543,58 euro di cui hanno beneficiato 19 associazioni.

A dispetto dell’attitudine all’internazionalizzazione, il filo conduttore della società si conferma il motto di sempre: ‘ciò che diventa, era’. In altre parole, sguardo al futuro, ma con solide radici nel passato: “L’intenzione” spiega Raffaele “è di fare sempre qualcosa che abbia dei valori, senza scorciatoie. Oggi, per esempio, è molto difficile bere un caffè potabile: stiamo andando in una direzione industriale e si stanno eliminando la capacità e la bravura dell’uomo. Noi lavoriamo con il torrefattore Gianni Frasi e scegliamo macchine e macinature manuali. Questa attenzione è la stessa che mettiamo nel fare un toast o un cioccolatino. Se si utilizza un certo olio extravergine d’oliva a Le Calandre, lo stesso olio verrà usato in tutti gli altri locali. Non vogliamo economizzare: al Caffè Quadri, anche se siamo in piazza, usiamo bicchieri fatti a mano, esattamente come al ristorante”.

Grancaff_Quadri_outside_by_Sergio_CoimbraGrancaffè Quadri. Foto: Sergio Coimbra

E la gestione su tanti fronti sembra essere più stimolante che complicata, almeno dal punto di vista di Massimiliano: “Mi consente di non concentrarmi su un unico obiettivo e di non pensare sempre e solo alla stessa cosa, con il rischio di perdere la traccia. In questo modo posso rilassare la mente e lavorare una volta su una brioche, un’altra su un piatto, un’altra ancora su un evento sartoriale. C’è un fil rouge che collega tutto e così diventa possibile che una preparazione di pasticceria contamini un prodotto da ristorante, come il burro d’olio, o viceversa che il risotto capperi e caffè diventi un panettone capperi e caffè. Per noi non c’è distinzione tra cucina e pasticceria, i processi sono gli stessi, il ragionamento è simmetrico”.

 

 

Sala_Quadri2_Bob_NotoQuadri. Foto: Bob Noto

Alta finanza e fine dining

Nel 2009 la famiglia si trovò a un bivio: “Avevamo la testa grande il doppio del normale” è Raffaele a ricordare “ma con un corpo piccolo, facevamo fatica a stare in equilibrio. Potevamo fermarci e ridimensionarci, facendo i ristoratori classici, oppure crescere, consentendo l’ingresso di un investitore. Abbiamo fatto una riunione di famiglia, io ho proposto una virata e abbiamo deciso di andare avanti creando la Alajmo Spa (prima esisteva la società di famiglia Interland srl)”. Il giro di boa si compie dunque con l’acquisizione del Quadri a Venezia – tre locali in uno con affaccio su Piazza San Marco: ristorante, bistrot e caffè – e l’ingresso con il 24,8% di quota della Venice Spa, controllata di Palladio Finanziaria, attiva nel private equity. L’alta finanza entrava nel mondo del fine dining: un’operazione inedita sul mercato italiano.

 

E così a fine 2010 la Alajmo Spa raddoppiava, sia in termini di fatturato – da 5 a 10 milioni di euro – che di dipendenti – da 80 a 150. “Il nostro settore è sempre più complicato”spiega Raffaele “con tantissime leggi e adempimenti. Oggi le mezze misure fanno più fatica: o sei iperleggero, con un’azienda agile con pochi dipendenti, oppure ti strutturi per bene, perché quando sali di organico la gestione diventa impegnativa e onerosa e serve una visione globale”.

 

Amo. Foto: Federico NeroAmo. Foto: Federico Nero

Da Quadri ad Amo

Proprio questo mese, il Quadri chiuderà per un importante rinnovo curato da Philippe Starck che coinvolge la conformazione stessa dello spazio, i tavoli, le sedute, i tessuti alle pareti (con un lavoro di ricerca sui disegni storici della Fondazione Bevilacqua La Masa), gli stucchi e i lampadari, naturalmente nel rispetto dei vincoli di un luogo tutelato. È il terzo locale che porta la firma della superstar del design contemporaneo, dopo il Caffè Stern nello storico Passage des Panoramas a Parigi, e Amo, novità della collezione veneziana, inaugurato all’interno del centro commerciale di lusso T-Fondaco dei Tedeschi. Il bilancio del primo anno di vita di questo bistrot casual (ma non troppo) è positivo: “Siamo partiti in sordina” racconta ancora Raffaele “ma ora è esploso e sta lavorando molto bene. Amo è un locale eclettico che cambia durante il corso della giornata e che piace molto per la formula trasversale e décontracté. Ci sono tanti dettagli curati ma anche molte difficoltà di gestione: la lunghezza dell’orario di servizio, l’apertura 365 giorni all’anno, la cucina nel mezzanino, i magazzini a 200 metri di distanza e la possibilità di far arrivare le merci esclusivamente dalle 6 alle 8 del mattino”.

È uno dei molti scogli che si trovano ad affrontare nel loro percorso che continua ad avanzare.

 

 

a cura di Federico De Cesare Viola

foto di Paolo della Corte

 

 

QUESTO È NULLA...

Abbiamo raccontato la storia della famiglia Alajmo nel numero di gennaio del Gambero Rosso, in questi giorni in edicola, con le parole di Federico De Cesare Viola e gli scatti di Paolo della Corte. Un servizio in cui parliamo anche dei prossimi progetti di Massimiliano e Raffaele. Che paiono non fermarsi mai, e il nuovo headquarter e centro di produzione lo dimostra. Lo dicono anche i numeri: quelli delle tappe della loro vicenda professionale (ne abbiamo contate 20), e quelli della Alajmo Spa (che abbiamo sintetizzato in un grafico cui vale proprio la pena di dare un'occhiata), e quelli delle insegne che fanno loro capo. Allora abbiamo voluto capire come si riesca a moltiplicare insegne e format senza perdere la propria identità. Insomma: come fanno a creare tutti questi locali così diversi e così, indiscutibilmente, Alajmo? E come la mettono con i menu? Abbiamo dato voce anche a Erminio Alajmo, decano della famiglia, Presidente di Alajmo Spa, e padre dei fratelli Alajmo. Da lui tutto è partito.

Il numero lo potete trovare in edicola o in versione digitale, su App StorePlay Store. Abbonamento qui.

 

 

Nasce Treccani Gusto in collaborazione con Qualivita, alleati per promuovere la cultura enogastronomica

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Sapere enciclopedico ed enogastronomia insieme nel nuovo progetto editoriale Treccani-Qualivita Un modo per ridefinire l’apporto culturale dei prodotti italiani Dop e Igp nell'Anno del cibo italiano. 

L'alleanza Treccani-Qualivita

La cultura italiana abbraccia la cultura enogastronomica. Nell'Anno nazionale del cibo italiano, nasce Treccani Gusto, il progetto finalizzato alla creazione di contenuti editoriali, alla ricerca di un linguaggio comune, che possa dare voce a un racconto sulle eccellenze enogastronomiche del Belpaese.

Per la realizzazione del progetto hanno unito le forze l'enciclopedia Treccani, da oltre 90 anni punto di riferimento nella diffusione della cultura italiana con la sua esperienza editoriale e le tecnologie sviluppate per il portale www.treccani.it (500 mila visitatori al giorni), e la fondazione Qualivita, impegnata insieme a consorzi di tutela e istituzioni nella valorizzazione delle produzioni agroalimentari di qualità italiane Dop e Igp.

 

Il progetto

Nel dettaglio, Treccani Gusto sarà costituito da una nuova edizione dell'annuale Atlante Qualivita sulle produzioni agroalimentari e vitivinicole italiane Dop, Igp e Stg; da un magazine digitale per raccontare i diversi aspetti dell’ambito agricolo, alimentare e turistico; da una banca dati con glossario specialistico e ricettario.

Siamo convinti che ci sia bisogno, oggi più che mai, di fare sistema e di promuovere in forma autorevole l’immagine dell’Italia produttiva nel mondo” è il commento del direttore generale di Treccani Massimo BraySono certo che Treccani potrà diffondere presso un pubblico attento e sensibile alla qualità il messaggio più alto che proviene dal comparto agroalimentare italiano: è possibile produrre ricchezza rispettando e valorizzando il nostro territorio, il nostro paesaggio, la nostra identità”.

Gli fa eco il direttore generale della Fondazione Qualivita Mauro Rosati: “Con questo progetto ci poniamo l’ambizioso obiettivo di contribuire alla conoscenza delle complesse esperienze rurali, agricole e alimentari italiane affinché possano divenire una vera e propria cultura mainstream”.

Conclude soddisfatto il ministro delle Politiche Agricole Maurizio Martina:“L’iniziativa di Treccani apre nel migliore dei modi l’Anno nazionale del cibo che mi auguro possa diventare un punto di riferimento per diffondere conoscenza e consapevolezza. Perché non c’è sviluppo senza cultura”.

 

a cura di Loredana Sottile

Le migliori 5 pizzerie a taglio di Roma

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Quando si parla di arte bianca, a Roma la protagonista è da sempre lei: la pizza a taglio, croccante e saporita, da gustare camminando come vero street food oppure con calma, godendosi una cena golosa. Le insegne migliori della Capitale.

La pizza a taglio a Roma

In principio fu la pinsa, antenata dell'attuale pizza recentemente recuperata e introdotta di nuovo sul mercato, una pasta leggera e facilmente digeribile a base di farina di frumento, soia e riso, che fa riferimento ai classici della cucina dell'Antica Roma. Ma bisogna attendere la fine degli anni '50 perché il fenomeno della pizza in teglia così come oggi la conosciamo inizi a diffondersi nella Capitale. A iniziare, gli artigiani più innovativi, in cerca di un guadagno maggiore e di un modo intelligente per recuperare gli impasti avanzati. Un prodotto, dunque, di storia recente, ma che in pochi decenni è riuscito a creare un tassello fondamentale della tradizione gastronomica capitolina e – ormai possiamo dirlo – nazionale. In passato piuttosto croccante, sottile e ricca di condimento, oggi la pizza in tranci assume forme e declinazioni diverse, dai tempi di lievitazione alla tipologia di farine scelte. Per la nostra ricerca delle insegne migliori, abbiamo voluto cominciare con un focus su Roma, patria di questa prelibatezza che ancora oggi detiene un numero invidiabile di indirizzi d'eccezione. Ecco i migliori secondo la guida Pizzerie d'Italia del Gambero Rosso.

Pizzeria Sancho – Fiumicino

La regia è quella di Franco Di Lelio, oste dall'istinto innato che intrattiene e consiglia i clienti sulle delizie che approdano al banco. Ma sono i giovani figli Emiliano e Andrea a occuparsi di impasti, topping e abbinamenti. Alla base di tutto, le farine di un piccolo mulino marchigiano, mentre per i condimenti si passa dalle verdure locali al pescato fresco del giorno, acquistato direttamente dai pescherecci del lungomare di Fiumicino. E poi salumi, carni e formaggi di prima scelta. Fra le specialità della casa, la marinara ricoperta di alici fresche, oppure la bianca ripiena di tonno, pomodoro e maionese fatta in casa, la pizza in crosta di patate di Avezzano farcita di porchetta (un classico), e la lasagna: topping di pomodoro, mozzarella e parmigiano, ripiena di ragù bianco e besciamella, finita in forno al momento del servizio. Imbattibili, poi, i fritti, asciutti e saporiti, ma anche i golosi maritozzi salati.

 

Sancho

Pizzeria Sancho – Fiumicino – via di Torre Clementina, 142, a – 06 6580690 - www.facebook.com/PizzeriaSancho1969/

Panificio Bonci – Roma

Il pioniere di una rivoluzione: trasformare la pizza a taglio in un prodotto tanto gourmet quanto etico. Gabriele Bonci continua a stupire il palato dei romani con le sue creazioni da maestro, realizzate con tecnica impeccabile e materie prime d'eccellenza, prodotti legati a un'agricoltura sana e fatti da artigiani responsabili. Nel panificio le pizze sono un po' diverse rispetto al Pizzzarium: più semplici e “da forno”. C'è la pizza ripiena con la porchetta, la semplice rossa, quella ripiena con cicoria oppure la pizza con cipolle, pomodorini e pecorino. Ma impasti e condimenti qui cambiano di continuo, assecondando il ritmo delle stagioni e l'estro del maestro. Al Panificio, poi, si va anche per assaggiare specialità di rosticceria come il pollo arrosto con le patate, i pomodori con il riso e gli sformati di verza. A fare la parte del leone, infine, il pane, prelibatezza declinata in tante sfumature, tutte golose e realizzate ad arte. Non mancano, inoltre, biscotti, frolle, croissant, sfoglie e torte da forno. Le pizze e il pane di Gabriele Bonci si trovano anche all'interno del Mercato Centrale.

 

Panificio Bonci

Panificio Bonci – Roma – via Trionfale, 36 – 06 39734457 - www.facebook.com/Panificio-Bonci-119762528184245/

Mercato Centrale - Roma – Stazione Termini - via Giovanni Giolitti, 36- http://www.mercatocentrale.it/roma/

Pizzarium – Roma

Ancora un punto firmato Bonci, il primo da lui creato, ormai un tempio della pizza a taglio, punto di ritrovo di romani e turisti affamati. Il blend di farine selezionate dall'artigiano dà vita a un impasto perfettamente digeribile, una base croccante, sottile ma tenace, dalle alveolature ineccepibili e una sofficità da manuale. Tutte le materie prime provengono da piccole aziende agricole di nicchia, scelte da Gabriele in persona. Ci sono le pizze classiche, sempre gustose, e poi le varianti più originali, elaborate e cucinate con maestria, come quella con pomodoro, polpa di melanzane e mandorle, oppure ancora la bufala, funghi e prosciutto crudo, e la rossa con pesto di pomodori, peperoni e pinoli tostati. Da poco più di un anno a questa parte, poi, le creazioni di Pizzarium possono essere gustate anche al Carrefour Market di via Fracassini, un progetto significativo che ha segnato l'ingresso dell'arte bianca di alta qualità nella gdo.

 

Pizzarium

Pizzarium – Roma – via della Meloria, 43 – 06 39745416 - www.facebook.com/pages/Pizzarium/157316287629478

Pizzarium c/o Carrefour Market – Roma - via Cesare Fracassini, 66- 06 3212248

Pommidoro – Roma

Continua a crescere anno dopo anno questa insegna di Centocelle, un quartiere che sta vivendo un vero fermento gastronomico, segnato anche da questa piccola pizzeria in via della Acacie gestita da Mirko Rizzo. Un prodotto che fa onore alla tradizione cittadina che vuole una base croccante e fragrante, ma che supera gli standard convenzionali con quel quid in più di leggerezza e cura dovuto a un lungo studio e una ricerca continua su impasti, lievitazioni e cotture. La base, leggermente più alta della classica teglia romana, è ben alveolata e soffice, croccante al punto giusto, perfetta per accogliere topping classici come il pomodoro, la bufala, le patate, i funghi, ma anche ingredienti di stagione abbinati fra loro con gusto e creatività. Dalla fantasia di Mirko nascono specialità d'autore come la provola e cavolo rosso, la mortadella e salsa al tartufo, la zucchine con mozzarella di bufala e alici di Cetara, senza dimenticare la golosa bianca con salsiccia cruda spalmata e cotta al momento. Da Pommidoro però si viene anche per provare i fritti, squisiti, asciutti, equilibrati e mai banali, dai supplì classici a quelli creativi con tonnarelli cacio e pepe, fino all'immancabile fritto di baccalà e ceci del venerdì. Da pochissimo, il pizzaiolo ha intrapreso una nuova avventura con la pizza tonda - in perfetto stile romano, sottile e croccante - insieme al giovane Jacopo Mercurio (ex Mani in Pasta): 180g., ancora una volta a Centocelle.

 

Pommidoro

Pommidoro – Roma – via delle Acacie, 1a – 391 1691322 - www.facebook.com/pommidoropizza/

Prelibato – Roma

Pane in tante forme e tipologie, e un banco di pizza che si riempie a ogni ora con una pizza alla pala degna di nota: è il forno di Stefano Preli, il cuoco-lievitista che 4 anni fa ha scelto di portare il meglio dell'arte bianca nel cuore del quartiere Monteverde. La base è fragrante, dai buoni profumi di grano e un condimento sempre in equilibrio e di grande piacevolezza. I gusti variano di continuo, e vanno dalla margherita a quella con patate e ortaggi di stagione, e poi le varianti più golose come l'amatriciana e la provola e speck. Non mancano, infine, i grandi lievitati delle feste, soffici e profumati, le ottime torte rustiche, le focacce e i dolci da forno, fra crostate e biscotti di ottima qualità.

 

Prelibato

Prelibato – Roma – v.le di Villa Pamphili, 214 – 06 93577165 - www.facebook.com/FornoPrelibato/?ref=br_rs

a cura di Michela Becchi

Pizzerie d’Italia del Gambero Rosso 2018 | pp 384 | euro 8,90 | La guida è acquistabile in edicola, libreria e on line

Guida Pizzerie d'Italia 2018 del Gambero Rosso. Elenco dei migliori e dei premiati

Le 6 migliori pizzerie di Caserta e dintorni

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Le 5 migliori pizzerie agricole d'Italia: l'arte bianca che si ispira alla terra 

Christian Mandura a Palazzo Saluzzo Paesana. Dal Geranio a chef di palazzo a Torino

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Il giovane chef piemontese, con trascorsi al Noma e al Cambio di Matteo Baronetto, stupisce da un paio d'anni alla guida del Geranio di Chieri. Ora una nuova esperienza lo porta a Torino, come “chef di palazzo”. Si comincia dal ciclo di cene Les Saveurs du Palais, prima di pensare a un posto tutto suo in città. 

Dalle colline torinesi al Noma

Sul suo curriculum c'è scritto Noma, Del Cambio (con Matteo Baronetto)... Solo per citare le esperienze più significative che ha collezionato in giro per l'Italia e il mondo. Ma Christian Mandura, 27 anni portati con la sicurezza di chi ha un solido bagaglio alle spalle, per trovare se stesso in cucina ha dovuto (voluto) tornare a casa. Anche quando casa significa Chieri, tranquilla cittadina piemontese alle porte di Torino, 15 chilometri a est del capoluogo. Lì ha mosso i primi passi dopo l'alberghiero, sulle colline che circondano la città, alla Taverna di Fra Fiusch di Revigliasco, un indirizzo che più tradizionale non si può per legame con il territorio e la cucina piemontese, eppure moderno negli intenti, “il modello per la trattoria torinese dei giorni nostri prima che nascesse il Consorzio”. Ma Christian, che ai fornelli ha sempre visto muoversi con confidenza sua madre, fino a qualche anno fa alla guida di un circolo con cucina informale, quella di sostanza per i lavoratori in pausa pranzo, il pallino per l'alta cucina l'ha coltivato dall'inizio: “Prima è arrivata la Toscana, a Le Sale di San Vincenzo, un passaggio a Londra, poi ancora Italia. Finché non sono partito per il Noma, e di nuovo a casa, a Torino, per imparare al fianco di Matteo Baronetto”. Tappe di peso nell'influenzare quella visione gastronomica che oggi ha trovato maturità e personalità nel suo ristorante, il Geranio (79 punti sulla guida del Gambero Rosso), arrivato poco più di due anni fa a riportarlo con i piedi per terra. Ma nel senso più positivo, e propositivo del termine.

 

Sperimentazione e sostenibilità economica

Riposta la valigia nell'armadio, insieme a mamma Anna Maria, Christian metteva a frutto gli anni trascorsi in viaggio, con una certa dose di coraggio e insospettabile lucidità gestionale. Due costanti che ricorrono nel suo percorso, per certi versi poco incline al compromesso quando si tratta di decidere cosa mettere nel piatto, eppure molto centrato su un obiettivo che accomuna cucine grandi e piccole: far tornare i conti. Ma questo, Christian l'ha imparato solo confrontandosi in prima persona con la gestione di un ristorante: “Allo scadere della concessione al circolo, con mia madre abbiamo preso un nuovo locale, scegliendo da subito di impostare anche un discorso serale, piuttosto spinto per il contesto. Non volevo interrompere il percorso fatto fin lì, piuttosto riversare le mie ambizioni in una dimensione nuova, e personale”. A pranzo, dunque, la cucina rassicurante della mamma, la sera spazio per l'esperienza gastronomica del Geranio: 25 coperti per sperimentare una degustazione finanche spiazzante, una quindicina di snack con tante proposte vegetali, materia prima reperita sul territorio, sperimentazioni ardite. “Ma il discorso doveva funzionare, essere sostenibile. Abbiamo tolto la carta, che comunque ha costi non indifferenti, puntato sulla clientela in arrivo da Torino e da tutto il Piemonte. All'inizio, devo ammetterlo, il menu era più estremo, poi abbiamo trovato un equilibrio, con l'obiettivo di proporre menu intelligenti”.

Il menu intelligente

Cosa intenda per menu intelligente Christian oggi non fa fatica a spiegarlo: “Da Redzepi ho appreso un grande insegnamento: per ogni cosa ci sono un tempo e un luogo giusti. All'inizio non lavoravamo così, i clienti faticavano a capire. Allora ho fatto un passo indietro, privilegiato il confronto”. Senza perdere in modernità e forza creativa, tanto che il Geranio – con un ottimo rapporto qualità/prezzo, 48 euro per la degustazione più lunga – lavora bene tutta la settimana, e nella mappa italiana degli indirizzi che valgono il viaggio ha conquistato un posto ben saldo. Ecco perché per Christian è il momento giusto per guardare oltre, con la fiducia per affrontare una nuova sfida, complementare al Geranio, che tra l'altro, entro il 2018 dovrebbe raddoppiare a Torino, con un format diverso, “un nuovo approccio, ma con la nostra identità, per presentarci in modo più internazionale e raggiungere obiettivi differenti”. La ricerca per lo spazio giusto in città è già cominciata, intanto però Christian ha aderito con entusiasmo al progetto che prenderà forma a Palazzo Saluzzo Paesana a partire dalla fine di gennaio.

Chef di palazzo

Un'operazione ambiziosa, all'interno di uno degli edifici storici di Torino (fondato nei primi decenni del Settecento per i Marchesi Saluzzo, conserva arredi d'epoca e volte affrescate, con gli spazi affacciati sul grande cortile interno, e oggi sede di rassegne culturali ed eventi privati), che lo vedrà nelle vesti di “chef di palazzo”. I lavori si sono protratti per mesi, vincolati al placet delle Belle Arti per ottenere le autorizzazioni necessarie a muoversi entro i limiti del valore storico e artistico. E il motivo è presto detto: cuore delle attività sarà la nuova cucina di palazzo ricavata al piano nobile dell'edificio, “come una quinta sala che dialoga con gli spazi storici, dov'erano le vecchie cucine, 30 anni fa trasformate in bagni. Dopo 9 mesi di lavori abbiamo uno spazio funzionale, con mattonelle a vista, marmo, materiali di pregio. Una cucina professionale dotata di fuochi che è un unicum tra i palazzi storici di Torino”. Ma il ruolo di Christian quale sarà? “Lavoreremo in tre direzioni per fornire un'offerta gastronomica e un servizio all'altezza del contesto, perché il cibo sia la cornice di un bel quadro. Io seguirò la supervisione di tutta la parte food”. Quindi sicuramente a supporto di eventi privati, “almeno per il primo anno, per un discorso di sostenibilità economica”, ma soprattutto per consentire al pubblico di vivere un'esperienza gastronomica inconsueta riappropriandosi di uno spazio storico della città.

Les Saveurs du Palais

Prima di concretizzare un discorso più stabile – con una proposta di ristorazione abbinata alle mostre temporanee, dedicata agli artisti ospitati a palazzo – si comincia con un ciclo di appuntamenti ribattezzato Les Saveurs du Palais: 6 cene per cominciare, una volta al mese, di martedì, “il giorno di chiusura del Geranio, così saremo presenti con tutta la squadra, in cucina e sala”. Ogni cena (solo 50 coperti su prenotazione al costo di 120 euro per 4 portate, con abbinamento vini e performance finale, tra teatro, musica, arte) seguirà un filo logico calato nella storia del luogo e del territorio: “Avremo una serata dedicata ai Savoia, un'altra all'influenza della Francia, un appuntamento con la cacciagione per celebrare il Ritorno dalla caccia, l'omaggio alla primavera, con Fiori e germogli. Poi, il 19 giugno, l'Anticipo d'estate, prima di cominciare a lavorare su nuove idee. Una bella sfida per me, che spesso in cucina procedo d'istinto, e invece ora mi divertirò a studiare contesti e storie lontane nel tempo: dovrò esprimermi in modo contemporaneo, ma facendo un discorso di storicità”.

Le cene a palazzo

L'approccio creativo, invece, sarà sempre il suo, “ma con materie prime diverse (al Geranio da tempo non si lavora più con i distributori, e tutto è frutto di rapporto diretto con i produttori, ndr) e nuove idee. Al Geranio ormai abbiamo un'identità che facciamo fatica a spostare: questa è una bella opportunità per cimentarsi con qualcosa di nuovo”. Data d'esordio il 30 gennaio, quando il calendario prevede “La Prima”, “un debutto a Palazzo per presentarmi a Torino, con 4 piatti che mi hanno rappresentato nel mio percorso al Geranio, 4 must che non riesco più a togliere, nonostante la nostra cucina sia fatta di cambi anche settimanali”. Un esempio? “I tajarin ai funghi porcini, che al Geranio serviamo freddi, da mangiare con le mani. A palazzo li trasformerò in un risotto mantecato all'olio, con polvere di porcini e polvere di prezzemolo. Devo pur sempre adeguarmi a un servizio diverso!”.

Il servizio, appunto, sarà ugualmente curato nel dettaglio: 5 tavoli in tutto, uno sistemato nella Sala Reale, “che un tempo faceva da cornice ai pasti ufficiali. Ci piaceva l'idea di utilizzarla”. E pure la possibilità di fare un giro in cucina, “progettata per essere vissuta anche dal pubblico. Quando lavoreremo con le mostre, alcune opere potranno essere esposte proprio in cucina”. A conferma di quanto il progetto viva di sinergie tra discipline diverse. Una bella sfida in divenire.

 

Les Saveurs du Palais – Torino – Palazzo Saluzzo Paesana – dal 30 gennaio al 19 giugno 2018 – www.palazzosaluzzopaesana.it

Geranio - Chieri (TO) - via Fenoglio, 4 - www.geranioristorante.it 

 

a cura di Livia Montagnoli


Food in Vogue. 200 scatti di grandi fotografi alle prese col cibo nella storia del fashion magazine

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Foto d'autore e testi che raccontano com'è cambiato nel tempo il nostro rapporto col cibo sotto la lente di ingrandimento di Vogue. Tutti raccolti in un libro che celebra l'interesse della celebre rivista di moda per la cultura gastronomica. E il suo sguardo rivoluzionario sul tema.   

Cultura gastronomica, moda e lifestyle

Nature morte che immortalano la tavola firmate Irving Penn – che per Vogue ha scattato con continuità dagli anni Quaranta fino alla fine della sua lunga carriera, 66 anni “al servizio” del magazine – ritratti di personalità del settore gastronomico, testi che circoscrivono le tendenze del food che hanno caratterizzato gli ultimi decenni di storia americana. C'è tutto il glamour del cibo nell'ultima pubblicazione a cura del più celebre magazine di moda e lifestyle del mondo, che ha chiuso il 2017, ricorrenza del 125esimo anno dalla fondazione (nel 1905 Condè Nast editava il primo numero dopo l'acquisizione della testata, nata nel 1892), con l'uscita del libro Food in Vogue. Una celebrazione della storia della rivista, delle sue intuizioni e del lavoro di chi per anni ha raccontato il cambiamento di mode e costumi su scala internazionale anche attraverso il cibo e le fotografie d'autore ad esso dedicate sulle pagine del magazine. Oltre 300 pagine per raccogliere 200 scatti iconici, che pescano nel passato di grandi chef all'epoca in cui cominciavano ad affermarsi, richiamano alla memoria celebri servizi e raccontano com'è cambiato il nostro rapporto col cibo, e i suoi protagonisti, nel corso del tempo. Un testo che quindi ha molto a che fare con l'evoluzione della cultura gastronomica, i cambiamenti sociali, la moda, e celebra un legame imprescindibile tra i due ambiti di interesse: “Il cibo è parte del nostro mondo, delle nostre vite” per citare Anna Wintour, alla guida del gruppo, “impossibile per noi non considerarlo”.

 

Anticonvenzionale e pionieristico. Il cibo di Vogue

Per questo Food in Vogue (a cura di Fred Woodwart, storico art director di Condè Nast; edizione Abrams Books) recupera pure articoli di Jeffrey Steingarten, critico gastronomico di Vogue di lunga data (ancora in attività), e vecchi contributi delle firme che hanno sollecitato il crescente interesse per il mondo del cibo sulle pagine del magazine, da Tamar Adler (direttamente dalla cucina di Alice Waters) a Oliver Strand, accostandoli a inedite interviste di backstage. Ma a giocare la parte del leone sono indubbiamente le foto, originali esempi di food photography di Raymond Meier, Helmut Newton, Tim Walker, James Wojcik, Eric Boman (suo il provocatorio scatto del coniglio di pezza che entra in pentola, apparso sul numero di ottobre 2014). Grandi fotografi alle prese con una rappresentazione del cibo non convenzionale e pionieristica: “Noi non “facciamo” cibo come lo fanno gli altri magazine”, ripeteva diversi anni fa ai suoi redattori Phyllis Posnick, come ricorda oggi Taylor Antrim. Eppure per molto tempo l'interesse per la cultura gastronomica del magazine è rimasto piuttosto marginale: ancora negli anni Settanta la testata proseguiva dritta per la sua strada, guardando solo marginalmente al mondo del cibo.

Ma le cose erano destinate a cambiare con l'arrivo di Anna Wintour, che a Jeffrey Steingarten affidò il ruolo di food columnist di Vogue. Diventò una presenza fissa: viaggiava per il mondo alla scoperta di nuove suggestioni, era affascinato dalle scienze alimentari, sperimentava in prima persona nell'estemporaneo laboratorio allestito nella cucina di casa. Poi lo raccontava ai lettori, con rigore e piglio ironico. Della “rivoluzione” gastronomica partecipò pure Irving Penn, storico fotografo del magazine, che già alla fine degli anni Quaranta firmava avanguardistiche still life dedicate al cibo, ma soprattutto negli ultimi 20 anni della sua vita sarà particolarmente prolifico in questo senso. L'obiettivo delle sue foto? Sorprendere il lettore, fin quasi mettendolo a disagio. Sollevare il dubbio. Food in Vogue persegue lo stesso intento, enfatizzando la curiosità che ha sempre caratterizzato l'attenzione del magazine per l'universo del cibo.    

 

a cura di Livia Montagnoli

Sigilli al Mercato Centrale di Roma. Chiusura temporanea per carenze igienico-sanitarie. La pietra dello scandalo? I carciofi

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Chiuso fino a data definirsi il Mercato Centrale di Termini, punito per inadempienze di carattere tecnico e igienico-saitario dopo diversi sopralluoghi della Asl. Ma come sono andate le cose? E cosa succede adesso? La parola a Umberto Montano. 

Sigilli al Mercato Centrale

Chiuso per inadempienze igienico-sanitarie il Mercato Centrale di Roma. La notizia è di quelle che bucano rapidamente il web, specie perché a essere coinvolto è l'ambizioso spazio messo in piedi da Umberto Montano alla stazione Termini per condensare una serie di esperienze gastronomiche degne di nota – tra cui la cucina di Oliver Glowig, il laboratorio di Gabriele Bonci, la pizza di Pier Daniele Seu – in una zona della città piuttosto sprovvista di ritrovi di qualità. E infatti, questo è indubbio, in oltre un anno di attività (il Mercato esordiva nella Capitale nell'autunno 2016) l'operazione è riuscita a riabilitare quella Cappa Mazzoniana a lungo abbandonata al proprio destino, gettando nuova luce su un'area altrimenti caratterizzata da degrado e illegalità. Poi ci sono i numeri, 200 persone impiegate e un'affluenza giornaliera di 5-7mila persone durante la settimana, con picchi di 12mila accessi quotidiani nel weekend. La cronaca recente, però, solleva il dubbio sull'effettivo rispetto delle norme igienico-sanitarie della struttura, sottolineando carenze di tipo tecnico strutturale e igieniche rilevate dalla Asl Roma 1 durante reiterati sopralluoghi al mercato.

 

Le carenze tecniche e igieniche del Mercato

Ma cos'è successo, di preciso? “Qualche tempo fa, dopo un primo sopralluogo, ci sono state contestate alcune carenze tecniche relative al piano dei magazzini” spiega adesso Umberto Montano, amareggiato, ma fiducioso che tutto posso presto risolversi nel migliore dei modi. Due le problematiche riscontrate, “facilmente sanabili, ma giustamente segnalate”: piani di lavoro non lavabili e pavimentazione da adeguare alle norme vigenti. Adeguamenti di natura strutturale, dunque, che si sommano però alla contestazione che avrebbe fatto scattare il provvedimento delle ultime ore: la pulizia dei carciofi nel corridoio di passaggio - “un elemento che ci è sempre piaciuto per il folclore del gesto” - non è conforme alle regole sanitarie, dunque non praticabile. “Alla prima reprimenda della dottoressa Cappiello, nostro principale interlocutore, abbiamo pensato di rimediare spostando la pulizia dei carciofi all'interno della bottega di pertinenza, comunque a vista, ma separata da una vetrata. E qui faccio ammenda, perché ho creduto che la soluzione fosse sufficiente, senza chiedere un ulteriore confronto con la Asl”. A questo si è aggiunto un ritardo nell'adeguamento dei magazzini, “dovuto pure ai rallentamenti nell'arrivo delle vernici durante il periodo festivo, ma questo non ci giustifica, avremmo dovuto chiedere una proroga, invece ho sottovalutato la questione”, precisa Montano.

 

La sanzione della Asl

Fatto sta che l'ultimo sopralluogo, a scadenza del periodo fissato per l'adempimento delle prescrizioni comminate, ha trovato la situazione nei magazzini immutata. Ma il disappunto delle autorità è cresciuto specialmente a proposito dell'affaire carciofi, “e questo a mio avviso è il motivo per cui ora ci troviamo a parlare di una punizione smodatamente elevata rispetto alla risibilità delle carenze contestate”. Insomma, piena ammissione di colpa da parte di Montano, che però non nasconde lo stupore con cui ha recepito il provvedimento di chiusura temporanea (fino a data da definirsi) del Mercato. Una decisione certo grottesca, se calata nel contesto di riferimento dell'Esquilino, dove ben poche attività passerebbero indenni i controlli sanitari. Però Montano è chiaro: “Il funzionario ha l'obbligo di verificare, e noi non possiamo pretendere di aver ragione se abbiamo sbagliato, né tanto meno assolverci nel confronto con chi ci circonda. Indubbiamente hanno fatto il proprio dovere, mi duole che la pena sia così salata”.

Nel frattempo, “in una notte i lavori in magazzino li abbiamo portati a termine; porteremo il verbale di chiusura alle autorità e poi ci affideremo ai tempi della burocrazia, aspettando con ansia che tutto si risolva per il meglio”. E continua facendo appello alla diplomazia l'imprenditore fiorentino: “Se questa è una ragione per riflettere sui rapporti con la città e costruire sinergie efficaci con le autorità locali, ben venga il provvedimento. Trasformiamo l'accaduto in positivo, e torneremo presto più forti di prima”. Ma quando?  

 

a cura di Livia Montagnoli

Pub e birrifici a Milano. Gli 11 migliori da non perdere

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Nella Milano da bere, negli ultimi anni, si sta verificando una rivoluzione riguardo alla proposta brassicola. I pub con una valida proposta si moltiplicano, molti dei quali collegati a realtà produttive più o meno grandi. Noi abbiamo selezionato 11 locali che, per vari motivi, vale la pena di provare.

Au Vieux Strasbourg

Un indirizzo storico, di ispirazione alsazana, che dal 2003 conduce per mano appassionati e neofiti alla scoperta delle birre. Antonio di Lello – Master in spillatura belga – gestisce con cura maniacale l'impianto a 8 spine con grande professionalità (anche se non mancano certo proposte in bottiglia). La stessa che dedica al servizio e alla diffusione della cultura birricola, con proposte di abbinamento ai piatti, note di degustazione, suggerimenti e consigli di cui è sempre prodigo.

Au Vieux Strasbourg – Milano - via Strambio, 29 – 02 70630062 

 

Baladin

Baladin

Baladin è una garanzia, e non solo per le famose birre nate a Piozzo, ma anche per quella capacità di declinare il marchio in varie espressioni. I locali a firma Baladin ormai sono parecchi, con una matrice comune fatta di buona birra, atmosfera rilassata, cibo irresistibile. Panini e hamburger certo, ma non solo: tartare, fritti, salumi, cosciotti, zuppe e via discorrendo. Per una proposta che può accontentare palati e gusti diversi, con il plus, recente, della mano di Renato Bosco per pizza DoppioCrunch, focacce farcite, panini al vapore, pane in cassetta ai cereali per toast e club sandwich. Varietà e qualità sono il punto isso, esattamente come per la birra, di cui si offre una buona selezione, come ci ha – da anni – abituato Teo Musso nei suoi locali dove non mancano anche appuntamenti di presentazione di birre, libri e tanto altro. E intanto si attende l'apertura di un Pop and Toast sui Navigli in primavera.

Baladin – Milano - via Solferino 56 - 02 6597758 - www.baladin.it

 

La Belle Alliance

30 tra spine e pompe, per una scelta ampia tra le migliori espressioni brassicole mondiali e non solo italiane. Lo stile è spartano: niente servizio al tavolo né fronzoli: solo tanta e tanta birra. Da accompagnare con taglieri di salumi e formaggi, hamburger e la tipica cucina da pub, robusta e appagante: gulash, stinco e cammin facendo. Con l'immancabile proiezione di partite (calcio e rugby) a rinsaldare l'atmosfera da pub d'oltremanica. 

La Belle Alliance – Milano - via Evangelista Torricelli, 1 - tel 3355238597

Birrificio Italiano

Il primo locale ufficiale a marchio Birrificio Italiano, la creatura di Agostino Arioli, si trova a un passo dalla Stazione Centrale, ha spazi ampi e ricercati, stilosissimi. In primo piano l'offerta birraria, con 12 spine e 2 pompe per ospitare la produzione del birrificio, ma l'offerta comprende anche birre da invecchiamento e una proposta gastronomica da gastropub, ma articolata, con stuzzichini e qualche piatto più strutturato, sulla falsariga del menu proposto al quartier generale dello storico birrificio lombardo (in attività dal 1996), a Lurago Marinone. Disponibili anche birre in bottiglia.

Birrificio Italiano – Milano -via Ferrante Aporti, 12 - 375 566 7632 - https://www.facebook.com/BirrificioItalianoMilano/

 

Fuori Fusto

Ancora un locale di proprietà di un birrificio, nel caso specifico, I Tri Bagai di Rozzano in provincia di Milano, a un passo dalla birreria, i cui prodotti occupano 4 delle 6 spine. Le altre vanno a rotazione in quella che chiamano birrosteria. Perché accanto al beverage, qui anche la proposta gastronomica è ben curata, con prodotti selezionati tra Lombardia ed Emilia. Tra i nomi chiamati in causa da Alberto Cavenaghi e Stefano Torre, quello di Davide Longoni per il pane.

FuoriFusto - Milano - via Silvio Spaventa 19 - 328 4426805 - www.fuorifusto.it

 

Hops Beer Shop

Un centinaio di etichette, in bottiglia e lattina, in bella mostra sulla parete, e 4 spine a muro, tutto declinato sulle creazioni di microbirrifici. Hops Beer Shop è il gemello (diverso) dell'omonimo locale di Trieste, ma integra la vendita di birra (le proposte cambiano spesso con sorprese e chicche che fanno la gioia degli appassionati) con una proposta gastronomica che alterna tartine, selezioni di salumi e formaggi, tartare, panini e altre proposte fredde.

Hops Beer Shop - Milano - via Montebello 14 - 02 8945 2517- http://www.hopsbeershop.com/

Impronta Birraia

Craft beer italiane e straniere, con primo fornitore, partner e compagno di avventure, Raimondo Cetani, ovvero Hibu, birrificio agricolo lombardo con 40 ettari di terreno tra Basilicata e Lombardia dedicati alla coltivazione di orzo e luppoli, una realtà che dedica grande cura alle ricette e alla scelta delle materie prime e del processo di produzione. Per accompagnare la birra (14 spine) ci sono pollo, ribs, hamburger e altri piatti a base di carne, oltre a piadine, taglieri, panini vari. Nello spazio, ospitato all'interno dell'ex fabbrica Richard Ginori, vengono ospitati anche concerti, eventi di varia natura e brunch domenicale completano l'offerta.

Impronta Birraia – Milano - via Tucidide 56 - 02 37072071 - https://www.improntabirraia.com/

 

Lambiczoon

La sua passione sono le acide e le fermentazioni spontanee, come dichiara apertamente sin dall'insegna, ma Nino Maiorano seleziona birre di tutto il mondo in vari stili, le migliori proposte brassicole, frutto di anni di ricerca ed esperienza allo Sherwood Pub di Nicorvo e in giro per il mondo. Dalla cucina arrivano patatine fritte, carni di Piemontese e un vasto assortimento di taglieri selezionati presso un'azienda agricola cremonese. Frutto di attenta selezione anche il pane per gli hamburger (croccante e compatto, capace di contenere il ricco ripieno senza cedimenti). Dolci in chiusura (con il birramisù a base di birra artigianale in prima linea a dare coerenza al tutto).

Lambiczoon – Milano - via Friuli, 46 - 0236534840 - http://www.lambiczoon.com/

 

Lambrate

Tra gli indirizzi imperdibili per gli amanti della birra, al primo posto in città, c'è sicuramente il Birrificio Lambrate. Un'istituzione, e non solo per i milanesi: un vero apripista che già sul finire degli anni '90 iniziava la produzione. Questo di via Adelchi, capitanato dal “monarca” Giampaolo Sangiorgi, è il loro brewpub (il primo, il secondo invece, che punta anche a una maggiore proposta gastronomica, è a via Golgi 60). Le birre, anche crude, sono quelle firmate dal mastro birraio Fabio Brocca, ma non solo, perché in questo stanzone un po' spartano, sulle panche o al bancone, la scelta è ampia e mai banale. Da mangiare, panini, hamburger, bruschette, e via discorrendo.

Birrificio Lambrate - Milano - via Adelchi 5 - tel. 02 70638678 - via Golgi 60 – 0284961890 - - www.birrificiolambrate.com

La Ribalta

Uno dei nuovi punti di riferimento per gli amanti della birra del capoluogo lombardo, quello di Riccardo Berenato, complici la costanza qualitativa tanto nella birra di produzione propria, quanto nell'offerta del locale legato al birrificio, ospitato in una nuova costruzione nel quartiere Bovisa. Qui impianto di produzione a vista, ambiente accogliente, una buona offerta gastronomica e una serie di appuntamenti con la musica dal vivo hanno velocemente fidelizzato una clientela, che anche nelle giornate calde si accomoda nel cortile esterno.

La Ribalta – Milano - via Cevedale, 3 – 0239329002

Sloan Square

Quasi 40 tra spine e pompe, oltre 400 etichette provenienti da tutti i luoghi caldi per la birra, in particolar modo quella artigianale: Stati Uniti, Belgio, Germania, Inghilterra, Danimarca. Sloan Square è un locale articolato in cui si va ber la vasta selezione di birre, per i concerti e le standup comedy, per i corsi, gli appuntamenti di degustazione, cene speciali, anteprime e tutto quel che contribuisce a sviluppare cultura birraria. Tanto da bere, ma anche tanto da mangiare-

Sloan Square – Milano - piazzale Cadorna, 2 - 0289095064

 

a cura di Antonella De Santis

 

José Avillez per El Corte Ingles. Due nuovi format per lo chef portoghese, nella nuova food hall d'autore di Lisbona

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Il gruppo spagnolo porta il progetto Gourmet Experience, inaugurato a Madrid nel 2010, nella capitale portoghese. E riunisce sotto lo stesso tetto, al settimo piano del suo centro commerciale, grandi chef e artigiani. Due nuovi ristoranti per Avillez: Tascachic e Jacaré.  

Gourmet Experience by El Corte Ingles

Neanche il tempo di salutare la nuova food hall dei magazzini Printemps a Parigi – che così entra nella nutrita schiera di centri commerciali che scommettono sul valore aggiunto dell'enogastronomia – che il gruppo spagnolo El Corte Ingles, veterano del genere, rivendica l'attenzione per l'ultima iniziativa legata al progetto Gourmet Experience. Presente con moltissime filiali su tutto il territorio della penisola iberica, nelle principali città spagnole l'azienda scommette da tempo su un'offerta gastronomica complementare all'esperienza di shopping, coinvolgendo di volta in volta i protagonisti del panorama della ristorazione locale. L'esempio forse più celebre è quello madrileno di calle Serrano (proprio a Madrid il format esordiva nel 2010, con il sostegno di Martin Berasategui e Dani Garcia), dove l'area gourmet di El Corte Ingles riunisce sotto lo stesso tetto  la cucina messicana di Punto Mx, lo street food StreetXo di David Munoz e i gelati di Rocambolesc, a firma Jordi Roca. Stavolta però i riflettori si spostano in Portogallo, a Lisbona, nella più grande sede cittadina della capitale lusitana, dove il gruppo inaugura per la prima volta un grande spazio dedicato alla Gourmet Experience, dopo mesi di cantiere che hanno ripensato l'ultimo piano del complesso per ospitare 17 diversi ristoranti e corner gastronomici.

 

Gourmet Experience a Lisbona

Sette dei quali a firma di chef stellati portoghesi e spagnoli: Josè Avillez, ambasciatore della moderna cucina d'autore nazionale in città, Henrique Sa Pessoa, Pepe Solla Roberto Ruiz, partner consolidato dell'operazione con Punto Mx che a Lisbona debutterà con Barra Cascabel (variazione pop di Salon Cascabel), in collaborazione con Avillez. Così, al settimo piano dell'edificio di Avenida Antonio Augusto de Aguiar, su 5mila metri quadri con terrazza panoramica sulla città, prende forma un'opportunità per sperimentare insieme differenti espressioni di cucina d'autore in uno spazio informale, con aree condivise per fermarsi a mangiare nella zona food hall, ma anche spazi indipendenti a disposizione degli chef per costruire il proprio ristorante su misura.

 

I nuovi progetti di José Avillez

Della possibilità ha certamente beneficiato José Avillez, che al Corte Ingles lancia due nuovi format di ristorazione – Tascachic e Jacarè, cui si aggiunge Cascabel – e si conferma prolifico ideatore di formule alternative al fine dining (Belcanto), come dimostra il successo del Cantinho do Avillez (senza dimenticare la versatilità del Bairro do Avillez, dove in una sorta di cittadella gastronomica lo chef ha riunito molteplici esperienze d'assaggio, dalla cucina peruviana alla bottega, al cabaret gourmet). Da Tascachic Avillez presenterà la sua idea di cucina contemporanea portoghese tra petiscos e portate principali, per una spesa media di 35-40 euro; Jacarè (alligatore in portoghese), invece, recita lo slogan “carnivoro vegetariano”, coniugando una linea di carne alla brace, burger e piatti vegetariani. Da Barra Cascabel, invece, si mangia al banco, spizzicando tacos e altre specialità messicane, in abbinamento ai cocktail della casa. Completano l'esperienza nella food hall i crudi di pesce e le ricette da taverna portoghese dello stellato Henrique Sa Pessoa (Balcao), temaki, ceviche e proposte esotiche (O Poke), la cucina galiziana d'autore di Pepe Solla a prezzi contenuti (Atlantico), la cucina basca di Aitor Ansorena. E poi specialità del territorio e proposte per tutte le ore della giornata, dal cioccolato Godiva alle conserve La Gondola, alla gelateria Nannarella.

 

Gourmet Experience El Corte Ingles – Lisbona – Avenida Antonio Augusto de Aguiar, 31 – www.elcorteingles.pt

 

a cura di Livia Montagnoli

Libri. Il pane di Vicovaro, un pane storico finito nellʼoblio

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Il pane, un bene quotidiano. Ma se questo bene da un momento all'altro scomparisse, che succederebbe? In un libro si racconta la storia del pane di Vicovaro, in provincia di Roma, e di come sia scomparso lasciando buona parte della popolazione senza un impiego. 

L'autore

A narrare la storia di questo pane storico finito nellʼoblio, Luigi Rinaldi, maestro della scuola elementare di Vicovaro e figlio di fornaia. “Innamorato del pane e dei suoi molteplici significati, ho deciso di svolgere una ricerca che dura ormai da qualche anno, incontrando persone anziane o meno che, a vario titolo, hanno contribuito con la loro attività a far conoscere questo meraviglioso alimento, fatto da mani semplici e allo stesso tempo sapienti, portavoci di una cultura secolare tramandata da generazione in generazione”. Luigi ha così deciso di mettere su carta il patrimonio orale della storia del pane di Vicovaro. Un prodotto che fino agli anni ʼ70 era uno dei grandi pani del Lazio.“Poi, però, è scomparso dallʼorizzonte alimentare ma soprattutto è mancato allʼeconomia, alla cultura e alle colture di tutto il quadrante a est di Roma”. Sul finire del ʻ900, intorno ai diciannove forni attivi che producevano oltre duemila pagnotte al giorno, ruotava qualcosa come il 30% delle popolazione di Vicovaro. A mezzo secolo di distanza restano solamente i ricordi di Luigi come base per rimettere al centro dellʼattenzione questo alimento a trecentosessanta gradi.

Farine, cereali e speranze

Il territorio della Valle dell'Aniene, strutturalmente vocato ad una marginale agricoltura collinare e di montagna, dagli anni '50 ha visto tale marginalità ridotta pressoché all'inconsistenza”. Ci spiega il curatore Antonio Menconi profondo conoscitore della cultura agroalimentare e della panificazione.È accaduto in tutta Italia, in Europa, nel mondo: l'agricoltura locale fatta di piccoli appezzamenti, borghi e comunità locali, di artigianato e agricoltura di prossimità ha inevitabilmente ceduto il passo all'urbanizzazione. “Nella Valle dell'Aniene farro, orzo, segale e grano duro hanno sostenuto materialmente e culturalmente intere generazioni: colture abbarbicate su campetti sottratti con caparbietà a sassi e neve (e animali concorrenti), sono state la vera ricchezza di popolazioni che hanno avuto un saggio rapporto col territorio. Il pane di Vicovaro, condivide con buona parte dei pani dell'Appennino Centrale - dal "pane cafone" campano a quello "acido" abruzzese - soprattutto una storia fatta di coltivazioni su piccoli appezzamenti e moliture locali in impianti spesso mossi da canalizzazioni di ruscelli. Poi i vari pani della "dorsale appenninica" hanno diverse declinazioni produttive, anche se a volte difficilmente distinguibili: sono tutti figli di quell'agricoltura, di quell'artigianato, di lievitazioni acide, della povertà”.

Copertina del libro sul pane di Vicovaro

La finalità del libro

Purtroppo attualmente nel bacino dell'Aniene operano pochi molini direttamente connessi all'agricoltura locale: l'obiettivo del libro ma soprattutto del progetto - sostenuto da Arsial (società per lo sviluppo e lʼinnovazione dellʼagricoltura della Regione Lazio) col contributo di Assopanificatori Roma, Pani Tradizionali e Slow Food Lazio - è riportare i giovani a investire speranze in questo settore. Un libro non fine a stesso, dunque, ma nato con l'obiettivo di recuperare l'intera filiera produttiva che un tempo animava Vicovaro e la Valle dell'Aniene a partire dal recupero di un vecchio forno. “Il libro è un primo strumento per coinvolgere la popolazione locale, in particolare i giovani, sul considerare le attività agricole e artigianali come nobili, nobilitanti, economicamente soddisfacenti e redditizie. Crediamo che il pane visto come "distretto", possa fornire grandi pani ma soprattutto energie e ricchezza a un territorio molto depresso. Partendo dal prossimo recupero di un primo forno storico a legna, vogliamo tracciare un solco come modello, anche dal punto di vista commerciale: il pane di Vicovaro, che abbiamo definito "Vicovaro Storico", deve tornare nelle vicine piazze di Roma e Tivoli (naturali bacini d'utenza) proponendosi come il "pane di casa", vale a dire un cibo prodotto con criteri etici familiari: sensato rapporto con la terra e oculata gestione di farina e lieviti (a pasta acida)”.

Il libro che verrà presentato il 3 febbraio 2018 a Vicovaro, può essere richiesto sul sito www.panevicovaro.it

 

a cura di Annalisa Zordan

 

 

 

 

 

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