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Il Villaggio contadino della Coldiretti arriva a Napoli per il weekend

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Due giorni alla scoperta dei prodotti della terra, dal vino all'olio, senza dimenticare gli ortaggi. A Napoli inaugura il Villaggio contadino della Coldiretti sul lungomare Caracciolo, dove rimarrà dal 24 al 26 novembre 2017.

Il Villaggio

Tempo di mercatini di Natale, fiere, bazar. Con l'inizio dello shopping delle feste, e l'arrivo del Black Friday, anche a tavola nascono iniziative pensate per offrire a tutti la possibilità di assaggiare piatti e prodotti ricercati a un buon prezzo. Con questi propositi arriva a Napoli, sul lungomare Caracciolo, il Villaggio contadino della Coldiretti, attivo dal 24 al 26 novembre 2017, un ritorno alle radici del made in Italy, con i sapori antichi della tradizione, dalla pasta di grano Senatore Cappelli al riso Vialone nano. Una festa dedicata alle eccellenze agroalimentari italiane, all'insegna della biodiversità e della riscoperta dei prodotti del territorio, tutti quegli alimenti che costituiscono il vasto panorama agricolo campano e non solo. Ma non finisce qui, perché l'evento arriva in concomitanza con il Black Friday, e per l'occasione gli agrichef prepareranno piatti gourmet inseriti in menu studiati ad hoc disponibili a soli 5 euro.

Il programma

Spazio, dunque, alla spesa per i regali di Natali e la cena, con il grande mercato a Km0 di Campagna Amica: carne 100% italiana, farina, olio extravergine di oliva, pomodoro, mozzarella, e tante specialità delle aree terremotate, che saranno offerte dagli agricoltori duramente colpiti dal sisma dello scorso anno che, con pazienza e sacrificio, stanno continuando a lavorare e impegnarsi per riprendere il controllo della propria attività. Non mancheranno, poi, gli stand di street food, dal gelato di latte d'asina alle seadas, senza dimenticare la pizza napoletana e la carne alla brace. Un appuntamento all'insegna della convivialità, durante il quale verranno presentate indagini e ricerche condotte negli ultimi tempi in campo agroalimentare, ma le vere protagoniste della manifestazione sono sempre le razze d'eccellenza, le più ricercate e meno conosciute, come il cavallo napoletano, la pecora bagnolese, il maiale nero casertano, e tutti gli animali di cortile che animano la campagna come le anatre, i conigli, le oche e le galline.

Gli appuntamenti

Un evento che chiama a raccolta anche i più piccoli, che nell'Agriasilo potranno imparare a mungere gli animali, cavalcare asini e degustare l'olio extravergine di oliva, oltre a prendere parte a lezioni nell'orto e nel giardino. Ci saranno, inoltre, seminari di economia domestica e cosmesi naturale, oltre a un'area sportiva in collaborazione con il Coni. Infine, in esposizione, i trattori storici e quelli di ultima generazione, insieme a tutti gli strumenti utilizzati nelle campagne in passato. Laboratori, attività, forum: al Villaggio Contadino si discute anche del futuro del cibo, dello spreco alimentare e di tutte le tematiche più calde del settore, grazie alla partecipazione dell'Università di Pollenzo e degli studenti dell'Istituto Alberghiero.

L'obiettivo

Un festival che rappresenta il primo vero Black Friday della cucina in Italia: “Tra gli acquisti più gettonati degli italiani, tecnologia, abbigliamento, prodotti di bellezza ed enogastronomici, a conferma della crescente riscoperta della tavola, che si esprime con la preparazione fai da te di ricette personali o con omaggi per gli amici che ricordano i sapori e i profumi della tradizione”, ha spiegato Coldiretti in una nota. E continua: “A Napoli sarà presentato con 10mila agricoltori il nuovo censimento del patrimonio enogastronomico nazionale per le nuove idee in cucina, e non mancheranno i consigli degli agrichef contadini della Coldiretti, che saranno al lavoro per far scoprire le ricette storiche 'salva tipicità' conservate da generazioni nelle campagne”.

Villaggio Contadino | Napoli | dal 24 al 26 dicembre 2017 | www.coldiretti.it

a cura di Michela Becchi


Libri. Le ricette di Petronilla di Stefania Barzini

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Petronilla è un nome noto fra gli appassionati di enogastronomia, conosciuto come firma storica de La Domenica del Corriere in tempo di guerra. Ma chi si cela dietro questo pseudonimo? Stefania Barzini lo racconta nel suo ultimo libro.

L'autrice

Dopo aver trascorso 6 anni a Los Angeles tenendo corsi di cucina regionale italiana, Stefania Barzini rientra in Italia e comincia una lunga collaborazione con il Gambero Rosso, sia con il canale televisivo che con la rivista. Lavora, poi, come consulente nell'organizzazione di eventi e manifestazioni del settore e nel frattempo persegue la sua passione principale: la scrittura. In particolare, continua la sua ricerca in campo gastronomico e pubblica libri dedicati al cibo, la cucina, l'esperienza della tavola di ieri e oggi. Recupera ricette antiche, restituisce valore a prodotti e tecniche di una volta, alla ricerca di quel legame con la storia che è alla base del successo della cucina italiana nel mondo. Dopo L'ingrediente perduto e Fuori sincrono, Stefania si diletta stavolta con Petronilla e le sue ricette risalenti alla Seconda Guerra Mondiale.

La protagonista

Petronilla, uno degli pseudonimi di Amalia Moretti Foggia, pediatra appassionata di cucina che, dalla fine degli anni '20, cominciò a dispensare consigli culinari dalle colonne de La Domenica del Corriere. Suggerimenti utili, divenuti ancor più preziosi durante la guerra, periodo in cui “la cuoca che non fu mai cuoca”, come lei stessa amava definirsi, illustrò la realizzazione di piatti poveri, composti da pochi ingredienti a basso costo e facilmente reperibili anche durante quegli anni difficili: dalla farina al latte, dal riso all'olio d'oliva. Pietanze sostanziose e nutrienti, in grado di fornire il giusto apporto calorico. Una donna da sempre impegnata ad aiutare le famiglie meno abbienti, Amalia, al punto che fondò lei stessa una Poliambulanza dedicata alle donne – mamme, ragazze, bambine – più povere, dopo la laurea in medicina. Un personaggio eclettico: una studiosa, ricercatrice, scrittrice, rimasta sempre nell'ombra dei suoi nomi fittizi: Petronilla per la cucina, Dottor Amal per i consigli di alimentazione e stile di vita sano.

Il libro

Quasi cent'anni dopo, un'altra donna, anch'essa amante della buona tavola, ha deciso di raccogliere i suoi scritti in un libro. Nel volume edito da Guido Tommasi Editore, Le ricette di Petronilla, Stefania propone, commenta e reinterpreta in chiave contemporanea le preparazioni che, dietro lo schermo di un nome d'arte diventato celebre, entrarono nelle case e nelle cucine dei lettori italiani, ispirando i pranzi e le cene di migliaia di famiglie. Ad arricchire ancora di più le pagine, il materiale d’archivio raccolto nel tempo da Gianfranco Moretti Foggia, nipote di Amalia e memoria storica della sua famiglia. A firmare la prefazione,Maria Giuseppina Muzzarelli, scrittrice, storica e professoressa di Storie, Culture, Civiltà all'Università di Bologna, che riassume la storia di Amalia, una donna “comune e d'eccezione”, dalla vita di “un’ordinaria straordinarietà”. Ma soprattutto, “una delle colonne più salde della Domenica”, caso unico in un tempo in cui il giornalismo era ancora materia prettamente maschile.

Le ricette che riflettono la storia

La forte personalità della cuoca che non fu mai cuoca la si evince in ogni sua ricetta. Amalia spiega ai lettori i cambiamenti che il nostro organismo subisce nel corso degli anni, offrendo consigli pratici per mantenersi in forma, pillole sull'alimentazione ma anche l'educazione fisica, ponendo l'accento sul valore dello sport e denunciando le cattive abitudini dell'epoca. “È molto Novecento farsi sempre trasportare dalla carrozza, dall'automobile, dal tranvai, dal treno. Comodo invero, e dolce, ed allettante e assai... Moderno, ma... Quanto contrario a ciò che esige la sovrana Natura!”.

Siamo di fronte a un volume che recupera le ricette più antiche, e che, in questo modo, offre un'istantanea della cucina del passato, dei suoi cambiamenti e le sue evoluzioni, ma anche uno spaccato della società dell'epoca. Si passa infatti da cucchiai colmi di ogni genere di ingrediente, a ricette sempre più povere, come la“torta squisita senza uova, senza burro e persino senza zucchero.... Che farà correre con il pensiero a quel famoso “pan di Spagna” del tempo che fu”. Niente più piatti succulenti e dolci farciti: le ristrettezze economiche trasformano radicalmente il modo di interpretare e approcciarsi alla cucina, questo almeno fino al1945. Dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, il ricettario cambia nuovamente pelle, tono, adeguandosi alla nuova atmosfera di ottimismo per la pace ritrovata, con la ricetta della ciambellona: “Grande allegria! La guerra è finita! Ora sai. Ora è certo. Egli ritorna”. Ecco la funzione della “squisitissima ciambellona” e, più in generale, del cibo nella prima metà del Novecento:celebrare “la tanto sospirata riunione”.

Le lettrici

Nei suoi scritti si lascia intuire un dialogo molto serrato, diretto e aperto fra Amalia e i suoi lettori. Si potrebbe definire una sorta di blogger ante-litteram che creava appositamente dei personaggi femminili fittizi come pretesto per i suoi articoli: è a loro che si rivolge nei suoi scritti, per aiutarli in cucina e assisterli nella realizzazione dei piatti più complessi. C'è la “cognatona grassa”, maestra di arte culinaria, Gemma, “arca di scienza friulana”, Giovanna, appassionata di carne in scatola, prodotto che considerava “uno dei più geniali ritrovati nella modernità”. Sono i primi esempi di donne moderne, quelle che trascorrono più tempo fuori dalle mure domestiche, dedicando diverse ore della giornata al lavoro. E che, una volta, rincasate passano“dai libri mastri dell’ufficio alle pagnotte”.

La ricetta: Torta di frutta

Ingredienti

1 uovo intero e 1 tuorlo

250 g. di zucchero

1 limone

150 g. di farina

5 cucchiai di latte freddo

1 cucchiaio colmo di lievito per dolci

Burro q.b.

500 g. di pere o mele

1 pizzico di cannella

Sbattere bene l'uovo, il tuorlo e 150 grammi di zucchero, unire la buccia del limone e mescolare. Aggiungere la farina, alternandola con il latte freddo. Unire il lievito e amalgamare bene. Versare il composto in una teglia precedentemente unta con un po' di burro, e coprire il tutto con fettine di mele o pere. Aggiungere lo zucchero restante con la cannella e cospargere con qualche ciuffetto di burro fuso. Cuocere a 180°C per un'ora abbondante. Far intiepidire la torta prima di servirla.

Le ricette di Petronilla | ed. Guido Tommasi Editore | Euro 18.00

a cura di Michela Becchi

Libri sul cibo per l'estate. Bee Happy. Storie di alveari, mieli e apiculture

Libri sul cibo per l'estate. Lima, Cucina dal Perù

Libri sul cibo per l'estate. Mozzarella in carrozza. Ricette d'artista

Libri sul cibo per l'estate. Omicidi all'acqua pazza

Libri sul cibo per l'estate. Cibi di Strada – Il Sud

Libri sul cibo per l'estate. Il balsamico della tradizione secolare

Libri sul cibo. La cucina di Afrodite di Christina Loucas

Libri. Cocktail Safari di Stefano Nincevich ww

Ricette di Natale. Il nuovo libro di Angela Frenda

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A tutta tradizione, vegano o senza glutine? A ognuno il suo menu delle feste. A suggerire la ricetta giusta ci pensa Angela Frenda con il suo ultimo libro.

Un mese a Natale. Prima di farsi prendere dall'ansia per le incombenze che le feste portano con sé, procediamo per gradi e pensiamo a quanto di bello c'è in quei giorni. Ovvero i momenti che si trascorrono con chi si ama e la convivialità che contraddistingue le feste più importanti dell'anno quasi più dell'albero e del presepe. In queste settimane si rinfrescano le tovaglie più belle e si prepara il servizio buono: la tradizione è tradizione e si rispetta anche in questo. Per arrivare preparati e organizzare tutto con calma ci pensa la nuova fatica editoriale di Angela Frenda, food editor del Corriere della Sera, dal titolo Ricette per Natale che raccoglie 60 pietanze pensate proprio per i giorni di festa – e quelli subito precedenti - suddivise in 4 capitoli, per ogni gusto, preferenza e abilità.

Angela Frenda

Il volume: 60 ricette per 4 occasioni

Ci sono gli Sfizi, piatti poco strutturati, ideali per i giorni che precedono le feste, ma perfetti anche per chi sceglie tavole più informali, ma sempre di gusto; i Pranzi, con ricette di sicuro effetto, le Cene che raccolgono piatti della tradizione e quelli più scenografici e i Passepartout, che mettono insieme proposte salvacena che rassicurano anche i più inesperti.

E ce ne è davvero per tutti i gusti, perché a Natale la cosa importante è stare insieme: ecco dunque che alle ricette più tradizionali (ma di tante tradizioni diverse) si uniscono quelle vegetariane, senza glutine, leggere (o meglio alleggerite), veloci. Con l'unico obiettivo: di trascorrere in cucina il giusto tempo, senza stress o ansie, ma solo con il piacere di cucinare. Ognuno secondo la propria attitudine e le proprie abilità. Ecco allora, pagina dopo pagina e fotografia dopo fotografia, comparire cose come la minestra maritata di baccalà e ricotta, e la pasta e patate, le linguine al limone e la zuppa di ceci, limone e cumino, il ragù e il cheeseburger, passando per pollo arrosto, roast beef alla senape, vitello tonnato, fino all'applepie.

Noi ci siamo fatti regalare 4 ricette, una per ogni capitolo – più una quinta, perfetta anche nel dopo-festa per riutilizzare gli avanzi del panettone - sicuri che sapranno darvi qualche spunto per le prossime giornate.

Blinis Angela Frenda

Blinis con cotechino e panna acida

I blinis sono delle deliziose e morbide focaccine di origine russa, che in genere nei banchetti invernali per le feste sono servite come antipasto, accompagnate da panna acida, salmone affumicato oppure caviale. Io li propongo spesso -preparati con la farina di grano saraceno - con qualche fettina di cotechino, uno degli ingredienti più adatti per festeggiare l’arrivo del nuovo anno.

Capitolo: Sfizi. Preparazione:15 minuti + riposo. Cottura: 10 minuti. Ricetta: senza glutine. Abbinamento:ZoninValpolicella Ripasso Superiore Doc 2015

 

Ingredienti per 12 blinis

100-110 ml. di latte o latticello

80 g. di farina di grano saraceno

20 g. di zucchero

1 uovo

½ bustina di lievito (non vanigliato)

sale q.b.

olio extravergine

di oliva o burro

per ungere la padella

 

Per guarnire

100 g. di panna acida

1 cotechino già cotto

erba cipollina q.b.

 

Preparazione

Iniziate a preparare l’impasto dei blinis. Separate il tuorlo dall’albume e montate a neve quest’ultimo con un pizzico di sale. Più il composto sarà montato, più i blinis saranno soffici e leggeri. Per capire quando è pronto capovolgete la ciotola, vi assicuro che non avrete dubbi. A parte, mescolate la farina di grano saraceno, lo zucchero, il lievito e il tuorlo. Aggiungete prima il latte o il latticello (che potete preparare mescolando la stessa quantità di yogurt e latte con qualche goccia di succo di limone) a filo e, infine, l’albume, amalgamando il tutto dolcemente con una spatola dal basso verso l’alto. In questa versione, grazie al grano saraceno l’impasto avrà un gusto inconfondibile che ben si sposa con la dolcezza e la sapidità del cotechino.

Ungete leggermente una padella, ponetela sul fuoco e, quando sarà calda, abbassate la fiamma e versate un po’ di composto. Fate cuocere da un lato e, appena i bordi cominciano a colorarsi e la superficie a cospargersi di bollicine, girate e cuocete dall’altro lato. Quando tutti i blinis sono pronti, mescolate la panna acida e tagliate il cotechino a cubetti (in commercio esiste anche quello senza glutine). Guarnite i blinis con qualche cucchiaio di panna, alcuni cubetti di cotechino e un po’ di erba cipollina.

Parmigiana pece spada Angela Frenda

Parmigiana di pesce spada

Di parmigiana, soprattutto nella mia famiglia, non si è mai stufi. Questa, con il pesce spada e senza mozzarella, è una versione del piatto che arriva dal Cilento ed è una variante marinara della ricetta classica. Perfetta da preparare in anticipo per pranzi o cene prefestivi.

Capitolo: Pranzi. Preparazione:15 minuti + riposo. Cottura: 1 ora e 10 minuti. Ricetta: alleggerita. Abbinamento:Rocca di Montemassi Calasole MaremmaToscana Doc 2016

 

Ingredienti per 8 persone

900 g. di melanzane

600 g. di passata di pomodoro o di pomodori pelati

500 g. di tranci di pesce spada

50 g. di Parmigiano Reggiano grattugiato

2 spicchi di aglio

origano secco q.b.

½ cucchiaino di zucchero

olio extravergine

di oliva q.b.

sale q.b.

 

Preparazione

Lavate le melanzane, asciugatele bene, eliminate il picciolo e affettatele a uno spessore di 5 mm. Cospargetele di sale grosso e adagiatele in uno scolapasta. Copritele con un piatto e ponetevi sopra un peso. Lasciatele così per almeno un’ora, in modo che perdano la loro acqua amarognola, poi sciacquatele bene sotto l’acqua corrente, asciugatele con carta da cucina, cuocetele su entrambi i lati su una griglia rovente e tenetele da parte.

A questo punto occupatevi del sugo. Pelate l’aglio e schiacciatelo. Scaldate qualche cucchiaio di olio extravergine di oliva in una padella dal fondo spesso, aggiungete l’aglio e la passata di pomodoro. Regolate di sale e zucchero, cuocete a fuoco basso per 30 minuti e alla fine aggiungete un pizzico di origano. Versate un po’ di sugo in una pirofila e copritelo con uno strato di melanzane, uno di pesce spada tagliato a fette di circa 1 cm di spessore e una manciata di parmigiano. Continuate così fino a esaurimento degli ingredienti. Formate l’ultimo strato con le melanzane, il sugo di pomodoro e il parmigiano. Cuocete nel forno già caldo a 200 °C per 30 minuti.

Esiste anche una variante più saporita di questa ricetta, che prevede la frittura delle melanzane.

 

Salone angela frenda

Arrosto di salmone in crosta di pistacchio

L’arrosto di salmone è un secondo piatto genuino, colorato e - dettaglio non indifferente - rapido da preparare. Perfetto insomma per tutta la famiglia anche in occasione di una lunga cena natalizia, magari proprio per la Vigilia. Il trucco in più? Insaporire il trito di pistacchi che fa da crosta al salmone con un mix grossolano di erbe aromatiche e pomodori secchi.

Capitolo: Cene. Preparazione:10 minuti. Cottura: 20 minuti. Ricetta: veloce. Abbinamento Gavi

 

Ingredienti per 4 persone

4 filetti di salmone

100 g. di pistacchi sgusciati

3 cucchiai di pangrattato

3-4 pomodori secchi

basilico q.b.

prezzemolo q.b.

olio extravergine

di oliva q.b.

sale q.b.

pepe q.b.

 

Preparazione

Sbollentate i pistacchi in un pentolino di acqua calda per circa 1 minuto, poi scolateli, passateli sotto l’acqua fredda e trasferiteli su un canovaccio asciutto. Strofinate bene in modo da asportare tutte le pellicine: in questo modo ricaverete un’impanatura di colore verde acceso. Tritate grossolanamente i pistacchi in un mixer insieme a qualche foglia di basilico e di prezzemolo lavata e asciugata e a 2 pomodori secchi, frullando a più riprese per non far surriscaldare troppo la frutta secca. Mettete il composto ottenuto in un piatto e aggiungete un pizzico di sale e di pepe e il pangrattato. Mescolate fino a ottenere un composto omogeneo.

Pulite il salmone, eliminate la pelle e, passando delicatamente la mano sui filetti, individuate le eventuali lische ed eliminatele con l’aiuto di una pinzetta. Sciacquate i filetti e asciugateli con carta da cucina, passateli in un piatto con dell’olio e disponeteli in una teglia foderata con carta da forno. Cospargeteli con la panure di pistacchi e pomodori secchi. Copriteli con qualche altro pezzettino di pomodoro secco, completate con un filo di olio extravergine di oliva e cuocete in forno già caldo a 180 °C per 20 minuti. Sfornate, lasciate intiepidire leggermente e servite.

Appke pie Angela Frenda

Apple Pie

Il profumo della torta di mele la mattina è un classico per svegliare e chiamare a raccolta la famiglia nei giorni di festa. La versione che preparo più spesso è ispirata alla ricetta tradizionale inglese, con il guscio di pasta brisée. Ottima tiepida, da accompagnare con una pallina di gelato alla vaniglia o della panna fresca montata.

Ricette: Passepartout. Preparazione: 20 minuti + riposo. Cottura: 1 ora. Abbinamento: Moscato d'Asti

 

Ingredienti per 8 persone

Per la base

600 g. di farina 0

300 g. di burro

20 ml. di acqua fredda

2 cucchiai di zucchero

1 pizzico di sale

 

Per il ripieno

7 mele Granny Smith

180 g. di zucchero

di canna (più altro per spolverizzare)

3 cucchiai di farina di mandorle

1 limone (il succo)

1 cucchiaio di cannella in polvere

1 cucchiaino di estratto di vaniglia

1 albume

 

Preparazione

Preparate la base di pasta brisée: su una spianatoia disponete la farina setacciata a fontana e mettete al centro il burro freddo tagliato a cubetti. Lavorate gli ingredienti formando delle briciole. Aggiungete l’acqua, il sale e lo zucchero e impastate fino a ottenere un composto omogeneo a cui darete la forma di una palla. Avvolgetela nella pellicola e fatela riposare in frigorifero per 30 minuti.

Preparate il ripieno. In un tegame unite le mele pelate e ridotte in cubi di 1,5 cm, il succo del limone, lo zucchero, la cannella e l’estratto di vaniglia e cuocete il tutto per 20 minuti, fino a quando le mele si saranno ammorbidite. Trasferite in una ciotola e fate raffreddare.

Preriscaldate il forno a 210 °C. Dividete in due parti l’impasto e stendetelo in due sfoglie dello spessore di 4 mm ciascuna. Foderate una tortiera da 20 cm di diametro con l’impasto, spolverizzate con la farina di mandorle e riempite con le mele. Coprite con l’altra sfoglia di pasta, sigillate i bordi ed eliminate gli eccessi. Incidete la superficie con 5 tagli a raggiera: serviranno per far uscire l’umidità in eccesso. Spennellate con l’albume e spolverizzate con lo zucchero di canna. Cuocete per i primi 20 minuti a 210 °C, poi a 175 °C per altri 20-25 minuti. Servite tiepida.

 

Budino di panettone Angela Frenda

Budino di panettone

Se dopo le feste di Natale vi è avanzato del panettone e non sapete cosa farne, questa ricetta di riciclo - un budino morbido con cioccolato, mandorle e cannella - fa per voi. L’ha codificata la food writer italo-inglese Anna Del Conte. E io gliel’ho subito “rubata”. Perché è geniale!

Capitolo: Cene. Preparazione15 minuti. Cottura: 1 ora e 5 minuti. Ricetta: classica. Abbinamento Recioto di Gambellara

 

Ingredienti per 4-6 persone

250 ml. di panna fresca

300 ml. di latte intero

200 g. di panettone

100 g. di zucchero semolato fine

3 uova

2 cucchiai di rum

1 cucchiaio di Marsala

cannella in polvere q.b.

burro q.b.

 

Per guarnire

scaglie di cioccolato q.b.

mandorle a lamelle q.b.

 

Preparazione

Cominciate portando a ebollizione in un pentolino dal fondo spesso la panna e il latte con un pizzico di cannella e lo zucchero. Quando il composto è ben amalgamato, spegnete la fiamma e fate raffreddare. Nel frattempo, sbattete le uova con una frusta e unitele al composto tiepido.

Preriscaldate il forno statico a 160 °C e imburrate uno stampo da budino. Tagliate il panettone a fette o a pezzi grossolani e bagnateli nel rum e nel Marsala, o in qualsiasi altro distillato che trovate in casa, l’importante è che almeno uno dei due sia dolce, come il Marsala, appunto. Disponete il panettone nello stampo da budino e versatevi sopra il composto preparato in precedenza.

Procedete con la cottura a bagnomaria. Mettete lo stampo in una teglia da forno e versate nella teglia l’acqua bollente necessaria a coprire circa 2/3 dello stampo. Cuocete nel forno caldo per circa 60-75 minuti, fino a quando inserendo uno stuzzicadenti ne verrà fuori asciutto. Con una spatola staccate i bordi del budino dallo stampo. Poi, quando si sarà raffreddato completamente, rovesciatelo su un piatto da portata. Decoratelo con scaglie di cioccolato e mandorle a lamelle e servite.

 

Ricette per Natale. I 60 piatti perfetti per i giorni di festa | Angela Frenda | 192 pp. | 9,90 euro

 

a cura di Antonella De Santis

 

 

 
 
 
 

La storia dell'Adare Manor di Limerick. Da edificio storico a struttura moderna con cucina gourmet

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Una terra aspra e difficile da coltivare, che nel tempo ha saputo dare i suoi frutti. La tavola irlandese oggi ha molto da offrire, e a dimostrarlo sono (anche) gli alberghi di lusso. Il caso di Adare Manor a Limerick, storica struttura ristrutturata che ora vanta una cucina ancora più gourmet.

Limerick

Una città poco chiacchierata ma che racchiude in sé una delle più affascinanti sfaccettature dell'Irlanda, per i suoi paesaggi mozzafiato, i colori, la storia e le tradizioni folcloristiche. Attraversata dal fiume Shannon, nella parte sud-occidentale dell'isola, Limerick è stata per secoli, fino all'inizio del Novecento, una delle città più povere della nazione, oltre ad avere il triste primato del più alto tasso di criminalità. Oggi, finalmente, la località ha avuto il suo riscatto, e rappresenta uno dei principali snodi dell'economia irlandese. Una città rigogliosa, un amalgama di storie, di mestieri, di leggende e culture diverse, che conserva ancora intatta la sua personalità antica, ferma nel tempo, ma che riesce a guardare al futuro con uno sguardo ampio e dinamico.

La storia

A cominciare dal settore dell'ospitalità, che può fare affidamento su una serie di indirizzi validi, dai cottage di una volta agli hotel di lusso più moderni dal design accattivante. A intraprendere per primi questa strada, Lady Caroline Wyndham e Windham Henry Quin, contessa e conte di Dunraven, residenti fino al 1823 nella Manor House, una struttura costruita nei primi anni '20 del Settecento. Una storia che, come nella maggior parte dei racconti popolari irlandesi, è stata nei secoli impreziosita di dettagli fiabeschi e immaginari, ma che parte da fondamenta solide. Il conte si ammalò presto di una grave forma di gotta che lo costrinse in casa, e così la moglie gli suggerì di trasformare la loro abitazione in un edificio di lusso, su modello delle cattedrali europee, nella speranza che i lavori di ristrutturazione lo distraessero.

La ristrutturazione

Tanti i lavori, le costruzioni e i proprietari che si susseguirono nel corso dei decenni, fino ad arrivare all'Adare Manor così come oggi lo conosciamo, hotel cinque stelle di lusso in grado di accontentare anche i clienti più esigenti. Che ha recentemente riaperto i battenti dopo un (ennesimo) grande progetto di ristrutturazione durato 21 mesi che ha rinnovato l'immagine dell'edificio. Ad accogliere gli ospiti, un nuovo vialetto che divide in due un'area verde immacolata di 340 ettari, punteggiata da circa 20mila alberi. Niente più pietre rose, come nell'originale, ma solo pietre calcaree chiare sovrapposte ad avvolgere l'intero albergo. Cuore della struttura, la Sala Grande, ora trasformata in uno spazio con soffitti a volta e un ampio camino in marmo nero. Al piano superiore, la seconda stanza più grande d'Irlanda (dopo la biblioteca Long Room del Trinity College), The Gallery, ispirata dalla Galleria degli Specchi di Versailles, a lungo utilizzata per conservare i tesori che il conte e la contessa di Dunravens avevano accumulato durante i loro viaggi. Qui, accanto al coro fiammingo del XVII secolo è stato ideato un nuovo bar, dove i visitatori possono accomodarsi per gustare il tè del pomeriggio, godendosi la luce che filtra dalle vetrate originali. Alle 62 camere e suites si sono aggiunte, poi, altre 42 stanze nella nuova Sala Ovest, decorate con dipinti a olio del Diciannovesimo Secolo, stemmi antichi ristrutturati e vasche da bagno d'epoca. Nella tenuta, è inoltre possibile andare a pesca, fare ciclismo, dilettarsi con il tiro con l'arco e una serie di attività da svolgere all'aria aperta, tempo permettendo. E poi spa, sauna, bagno turco, piscina e anche un cinema.

Il ristorante

In un luogo simile, non può mancare di certo un'offerta ristorativa di livello. Prima della riapertura, 5 membri senior della cucina dell'Adare hanno intrapreso un viaggio di 9 giorni attorno all'isola per andare a conoscere di persona i migliori artigiani e tutti i piccoli produttori, allevatori, coltivatori nazionale che si impegnano a realizzare materie prime ricercate. La cucina trae ispirazione dalla tradizione irlandese, che nei piatti del menu viene rivisitata in chiave più contemporanea e reinterpretata con ingredienti di nicchia. Troviamo, così, la carne di cervo di Wicklow con cavolo rosso e fichi, la quaglia di Tipperary con orzo perlato e tante altre ricette che hanno come protagoniste le migliori specialità del Paese, una nazione che vanta una ricchezza agroalimentare invidiabile - se pur ancora poco conosciuta - che può fare affidamento su frutti di mare e di terra.

In abbinamento, i vini del territorio, ma anche stranieri, dalle migliori etichette francesi a quelle italiane, per una carta ampia e articolata, in grado di accompagnare le diverse portate. A coadiuvare il lavoro in cucina, lo chef Michael Tweedie, che lo scorso anno si è posizionato fra i migliori 10 chef di Irlanda e Regno Unito per la S. Pellegrino Young Chef. Cena a parte, un ruolo fondamentale lo ricopre il celebre afternoon tea, durante il quale è possibile gustare tè e infusi di pregio, accostati a sandwich d'autore, a base di prosciutto di Limerick brasato, salmone affumicato di Duncannon, e poi i tradizionali scones, dolci di origine scozzese molto diffusi anche nel territorio irlandese, farciti con panna, confetture e crema al limone.

Adare Manor | Limerick | www.adaremanor.com/

a cura di Michela Becchi

Sanchez Cantina a Copenhagen. Il ristorante di Rosio Sanchez, dal Noma ai tacos con il Messico nel cuore

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Fino al 2014 è stata in forze alla brigata del Noma, nel ruolo di pastry chef. Poi, dal 2015, è diventata regina dei tacos in città, portando a Copenhagen le sue origini messicane. Ora ci prova con un ristorante, ispirato alle cantine del Messico. Con la benedizione di René Redzepi. 

A Copenhagen la conoscono tutti come la regina dei tacos. Ma, senza troppo sforzo, nulla le ha  impedito di svestire i panni dell'ambasciatrice della cucina messicana all'estero per indossare la casacca blasonata del Noma, spalla fedele di René Redzepi nel ruolo di pastry chef. Proprio a lei, Rosio Sanchez, il capostipite della New Nordic Cuisine (che a gennaio 2018 tornerà in pista con il nuovo Noma, nella campagna alla prima periferia della città, già sold out fino al mese di aprile) deve l'idea (e il successo) della fortunata parentesi messicana, a Tulum, dove il Noma ha sperimentato la primavera scorsa uno dei suoi molteplici temporary restaurant.

 

Dal Noma ai tacos di Hija de Sanchez

A Copenhagen, Rosio – formatasi professionalmente a Chicago e fortemente legata alle sue origini messicane – si è stabilita definitivamente al termine della sua esperienza con Redzepi (nel 2014), ideando il format Hija de Sanchez, taqueria molto apprezzata da pubblico e critica, che oggi conta due punti vendita in città, il chiosco al mercato di Torvehallerne e uno spazio al Meatpacking district di Kodbyen, ex mattatoio che dall'inizio degli anni 2000 ha subito una profonda trasformazione, affollandosi di gallerie d'arte, ristoranti, bar e locali notturni. Semplice e immediata l'idea di Rosio: riproporre a una latitudine inconsueta l'atmosfera di un'autentica taqueria messicana, utilizzando i migliori ingredienti locali per valorizzare la cultura del taco. Tutto realizzato in loco, dalla tortilla di mais alla farcitura espressa, secondo disponibilità di mercato (comprese le opzioni vegetariane e gluten free), con lingua di manzo, cipolla e coriandolo fresco, uovo fritto e maiale croccante, pollo arrosto, mole negro, panna acida e semi di sesamo, pelle di pesce croccante, avocado, cipolla, salsa di uvaspina. Una proposta informale, colorata, economica, che la taqueria completa con chips di tortilla croccante e salse in abbinamento, quesadillas, gelati su stecco ispirati ai sapori tradizionali del Messico. E acque aromatizzate d'accompagnamento.

 

Sanchez Cantina. Il ristorante di Rosio

La novità dei prossimi giorni, a partire dal 30 novembre, si chiama semplicementeSanchez Cantina, e darà ulteriore profondità al progetto di Rosio, che per la prima volta potrà confrontarsi con un ristorante vero e proprio, al numero 60 di Istedgade, aperto per cena dal giovedì alla domenica. Sanchez, come lo definisce il sito anticipando l'esordio, “è un ristorante di quartiere ispirato al modello della cantina messicana”, dove Rosio appronterà la sua personale interpretazione della cultura gastronomica d'origine, mixando ingredienti messicani e scandinavi, “come se qualcuno stesse cucinando per voi in attesa di accogliervi a casa”. La carta proporrà quindi snack e piccoli assaggi per cominciare, qualche piatto principale, dessert e proposte del giorno, con approccio estremamente dinamico, in abbinamento a cocktail della casa, birre artigianali messicane, vini naturali e acque aromatizzate. Redzepi, che segue da sempre con molto calore le gesta della sua pupilla, ha già dato la sua benedizione su Twitter, certo che sarà “un nuovo ritrovo in città”. 46 coperti in tutto, e prenotazioni online già aperte da qualche giorno.

Cucina d'autore, firmata Noma, a Tulum

Intanto, per un curioso intreccio spazio-temporale, un altro dei ragazzi del Noma, Jose Luis Hinostroza – che con Redzepi ha lavorato in brigata al pop up messicano – ha deciso di lanciarsi nel suo primo progetto solista proprio a Tulum, dove la prossima primavera aprirà Natal, per servire cucina dell'America Centrale precoloniale, e riscoprire tecniche e ingredienti della cultura locale, come l'uso dei forni interrati tradizionali. Forte di un curriculum di tutto rispetto (oltre al Noma, passaggi al Celler de Can Roca e da Alinea a Chicago) il giovane chef messicano sta già destando un certo interesse, sebbene i lavori (affidati allo studio di designer di Città del Messico già all'opera per il pop up del Noma) cominceranno solo a febbraio 2018. Un altro progetto da seguire.

 

Sanchez Cantina | Copenaghen | Istedgade, 60 |  www.lovesanchez.com

 

a cura di Livia Montagnoli

Foto di Anthony Leigh

Evoluzione della cucina italiana a Mosca (ai tempi dell’embargo)

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Può esistere una cucina italiana senza prodotto italiano? Quando cadrà l’embargo dei prodotti alimentari provenienti dall’UE? Quali sono i risvolti? 

Siamo tornati a Mosca per l’evento Tre Bicchieri (che porta nel mondo le migliori etichette italiane, quelle premiate nella guida Vini d'Italia del Gambero Rosso proprio con i Tre Bicchieri) andato in onda il 23 novembre nelle sale del DI Telegraph, luogo simbolo delle telecomunicazioni del governo russo trasformato oggi in uno spazio di coworking. In apertura, la premiazione dei migliori ristoranti italiani in città selezionati nella nostra Top Italian Restaurants.

Lavorare d'ingegno

La necessità è la madre delle abilità: non mancano di certo creatività e spirito di adattamento. “Cerchiamo di riprodurre il gusto italiano e le nostre sensibilità con quello che troviamo qui a Mosca, alcuni prodotti arrivano comunque, in altri casi selezioniamo tra i fornitori locali, per esempio arriva un’ottima cacciagione dalla Crimea”, ci dice Andrea Impero, 27 anni, ciociaro, protagonista di Maritozzo, una delle novità più interessanti in città, aperto nell’ottobre 2016. Al piano terra bar e gastronomia, al piano superiore una bellissima e ampia cucina a vista, laboratorio del pane e della pasticceria. “Ho messo il pane al centro dell’esperienza, l’acidità del lievito madre, l’olio umbro che scende dalla focaccina calda, il casatiello campano. Voglio riprodurre i sapori di casa”

 

Tra gli assaggi, un’ottima lingua di manzo cotta 48 ore, salsa verde incisiva e maionese di topinambur; una carbonara che, in mancanza del pecorino e guanciale, esalta un triplo registro sapido: ricci di mare, caviale e bottarga. E poi carni alla griglia e un immancabile finale con un goloso maritozzo. Due Gamberi all’esordio e il premio Surgiva Taste&Design: le premesse per diventare il punto di riferimento in città ci sono tutte.

 

Valentino Bontempi pinza

La scoperta della pizza

Come miglior pizzeria, con una valutazione di Due Spicchi, troviamo  Pinzeria by Bontempi, con il locale bandiera proprio davanti alle cupole dorate della Cattedrale di Cristo Salvatore. “La soddisfazione più grande è vedere i russi finire una pizza a testa. Fino a poco tempo fa la condividevano anche in 6”, commenta Valentino Bontempi, arrivato a Mosca nel 2005. Il suo è un format collaudato, vincente e molto copiato: impasto basso e fragrante a lunga lievitazione farcita con ingredienti di qualità, insalate, laboratorio della pasta, carta dei vini fornita e prezzi democratici. Ha aperto la seconda insegna e procede al ritmo di 16mila pinze al mese tra i due locali. “Cosa piace? Vanno pazzi per la burrata. È incredibile, ne mangiano una intera anche solo per antipasto”, sorride Valentino che sta puntando sulla ristorazione dentro i mercati cittadini e pensa di lanciare presto un format aperto tutta la notte. E da bere? “Due bottiglie a coppia è la media qui, anche per questo tengo ricarichi sotto la media”. Dall’inizio dell’embargo sono cresciute in maniera esponenziale le aziende che producono formaggi e salumi, dalla burrata al prosciutto. “Imprenditori italiani stanno esportando macchinari e know how, la qualità dei prodotti locali è aumentata tanto”, aggiunge Valentino.

 

Mongillo, balzi rossi

L'autoproduzione 

Mi preparo i salumi, così come ho una stanza con le lampade per i friarielli”, ci racconta Emanuele Mongillo, l’anima campana di Balzi Rossi (satellite dello storico ristorante a Ventimiglia), premiato con il massimo punteggio: le Tre Forchette tricolore. La sua è una cucina creativa, ottima la sensibilità sulle paste, in un ambiente di certo singolare, da club russo, a dir poco sfarzoso. Tra gli assaggi, spiccano la tartare di tonno su gelatina di pomodoro, chips di pane e sedano rapa, e gli spaghetti al granchio su crema di broccoli e lime. Nessun compromesso sulle materie prime, piatti finemente decorati e un team di cucina interamente italiano. Da poco inaugurato il raw bar all’italiana tra carpacci e tartare; si chiude rigorosamente con un ottimo babà.

Semifreddo mosca

La ristorazione italiana in Russia

Com’è evoluta ristorazione italiana a Mosca? L’abbiamo chiesto a Nino Graziano, da 13 anni a Mosca, tra i pionieri degli chef italiani all’estero. Il suo ristorante Semifreddo – resident chef Luca Verdolini – è stato premiato con Due Forchette. “Quando sono arrivato a Mosca il piatto italiano più complesso era la pasta con i pomodorini e il basilico. Ora il livello della cucina italiana, qui come nel resto mondo, si è alzato tantissimo. Il merito è di tanti chef che hanno fatto propaganda utilizzando prodotti di alto livello. In giro per il mondo ci sono chef e ragazzi bravissimi che dedicano tutto se stessi alla cucina italiana”. Tra i piatti preferiti dai russi, segnala i pesci senza spine e una netta preferenza per la pasta secca su quella fresca. Ma gli effetti dell’embargo persistono: “Nascono pochissimi ristoranti italiani rispetto al passato, ne aprono 2/3 l’anno, un ventesimo rispetto a prima. Stanno fiorendo ristoranti georgiani, panasiatici, tantissimi esempi di fusion”, conclude.

Nino Graziano

Nino Graziano

 

Completano il quadro dei locali italiani premiati in guida Syr, il locale storico dello chef valdostano Mirko Zago, e Scrocchiarella, nuova apertura che punta forte sulla pizza al metro. 

 

Il punto della situazione 

Intanto, dopo due anni molto difficili, l’economia russa è ripartita e con essa il nostro export. Nei primi 8 mesi del 2017 l’agroalimentare italiano è cresciuto del 30%, mentre il vino segna un +45% in valore (138 milioni di euro), trainato dagli spumanti, secondo i dati comunicati da Roberto Cafiero dell’Ufficio Ice di Mosca. L’embargo alimentare è comunque in vigore fino a tutto il 31 dicembre 2018. Il divieto, lo ricordiamo, include carne, pesce, frutta, verdura e latticini.

 

Maritozzo | Russia | Mosca | Malaya Bronnaya Street, 24 | tel. +7 495 6268454 | http://maritozzo.ru/

Pinzeria by Bontempi | Russia | Mosca | Bolshoy Znamenskiy, 2с3 | tel. +7 499 6783009 | http://www.pinzeria.ru/

Balzi rossi | Russia | Mosca | Kudrinskaya pl., 1 | tel. +7 495 144 74 14 | http://www.balzi-rossi.ru/

Semifreddo | Russia | Mosca | Str. Timur Frunze 11, Building 55 | tel. +7 495 1815555 | http://www.semifreddo.ru/

Syr | Russia | Mosca | Sadovaya-Samotechnaya str., 16, bldg. 2 | tel. +7 495 6507770 | http://www.novikovgroup.ru/

Scrocchiarella | Russia | Mosca | Pokrovka Street, 1 | tel. +7 495 2803218 | http://scrocchiarella.ru/

 

a cura di Lorenzo Ruggeri 

 
 

La focaccia e i suoi derivati. 6 specialità del Friuli Venezia Giulia e la ricetta della gubana

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Una regione di confine con una gastronomia frutto dell’incontro fra culture diverse, che vanta, fra le altre specialità locali, una serie di lievitati che ben esprimono la vocazione multiculturale di questa terra. Ecco una raccolta di 7 prodotti da forno del Friuli Venezia Giulia, più la ricetta della gubana.

La pasticceria Ducale di Cividale del Friuli, in provincia di Udine, è l'esempio ideale di come si possa proseguire la tradizione continuando ad avere il successo meritato. Ogni giorno, infatti, turisti e abitanti del luogo, si mettono in fila per assaggiare le prelibatezze di Giovanni Zozenone, prima fra tutte la gubana, il dolce friulano per antonomasia. Ma non l'unico. La regione, infatti, può fare affidamento su un reparto di lieviti e prodotti da forno ampio e assortito, sia sul fronte dolce che su quello salato. Per concludere il nostro viaggio alla ricerca delle focacce tipiche d'Italia, abbiamo voluto radunare 6 specialità friulane, con la ricetta della gubana di Ducale.

Buiadnik

Un tempo cotto sotto la cenere dei focolari, avvolto nelle foglie di cavolo verza, il buiadnik è una sorta di torta biscottata tradizionalmente preparata in occasione delle feste di Natale. Oggi, l'impasto a base di farina di mais, farina di frumento, uova, zucchero, panna, lievito, uvetta e mele viene infornato nella classica piastra locale, la lebe, di cui assume la forma. Diffuso soprattutto a Resia, in provincia di Udine, il dolce viene servito in piccoli quadrati o rettangoli, e viene spesso aromatizzato con finocchio selvatico, cannella o carrube. La ricetta originaria, tramandata oralmente nei secoli, non prevede dosi o ingredienti precisi, ma può essere adattata a seconda dei prodotti che si hanno a disposizione e della stagionalità della frutta.

Colàz

Il nome significa “ciambelle del consiglio” e indica delle specialità diffuse in tutte le antiche comunità veneto-giuliane. Si tratta di dolcetti di cui si hanno testimonianze già dal 1500, quando un proclama ne limitava il numero da donare per le cerimonie. I colàz (o colàs) erano i tipici prodotti da cresima, e il loro uso era codificato in maniera precisa: prima di consumarli, i cresimandi dovevano legarli insieme con nastri di diversi colori e usarli, a mo’ di collana o di corona, sull’abito tradizionale. Tante le varianti nate negli anni, a cominciare dai kolàz de sopa, nel Carso triestino, preparati con l’impasto della pinza, la tradizionale focaccia locale, e condivisi anche con il Veneto, dove sono conosciuti come bussolà. La ricetta di base prevede farina, latte, zucchero, burro, lievito, scorza di limone e una presa di sale. L'impasto morbido ed elastico viene trasformato in piccoli cerchi di diverso diametro, spennellati con l’uovo e cotti in forno.

Grissino di Resiutta

Resiutta è un piccolo paese montano dalla storia antica e tortuosa, abitato sin dall'epoca romana. Si trova nel Canal del Ferro, nel Parco delle Prealpi Giulie, una zona prettamente contadina e pastorale, che ancora oggi conserva botteghe artigianali di una volta e ricette della tradizione rurale. Fra i prodotti di più lunga data, il grissino, striscia di pasta fragrante iniziata a diffondersi nei primi anni '30. Farina, acqua, sale, lievito, olio extravergine di oliva e un pizzico di zucchero sono gli ingredienti alla base dell'impasto che, ancora oggi, viene tirato a mano dai pancôrlocali. I filoni di pasta vengono poi tagliati in pezzature di circa 15 centimetri, per essere successivamente cotti in forno, e gustati in purezza o – meglio ancora – in abbinamento a salumi e formaggi del territorio.

Gubana

È nelle valli del Natisone, nella zona di Udine, che nasce la gubana (gubanca nel dialetto sloveno, gubane in friulano), il dolce regionale per eccellenza, preparato in occasioni particolari come le feste di Natale, Pasqua oppure per i matrimoni o le sagre paesane. Alla base di tutto, una pasta dolce lievitata a lungo, ripiena di noci, uva passa, pinoli, zucchero, grappa e scorza di limone, cotta in forno nella tradizionale forma della chiocciola (il nome deriva, appunto, dallo sloveno guba, che significa piega). Prime testimonianze di questa ricetta risalgono al 1409, anno in cui fu servita durante un banchetto preparato in occasione della visita di papa Gregorio XII a Cividale del Friuli, ma è solo dal 1990 che esiste un Consorzio per la protezione del marchio gubana, che si impegna a tutelare i produttori della zona dettando norme e parametri specifici da seguire per la realizzazione. Parente vicina di questo dolce è la gubanetta, dalle dimensioni ridotte e il diametro di circa 7 centimetri, ma anche il presnitz triestino, una guscio di pasta sfoglia farcito con gli stessi ingredienti ma cotto a forma di ferro di cavallo.

Pinza triestina

Una delle più classiche preparazioni pasquali che, come molte delle ricette più antiche, richiede tempo e pazienza. In passato, infatti, il lavoro per realizzare questa specialità lievitata iniziava la mattina presto, quando, dopo aver ritirato il rametto d'ulivo durante la messa della Domenica delle Palme, le massaie iniziavano a preparare il primo impasto della pinza, lasciato a maturare e poi re-impastato e fatto lievitare ancora altre due volte. Il panetto, dopo le tre lievitazioni, veniva poi cotto nel forno di quartiere, contraddistinto con un bigliettino di riconoscimento. Il risultato è una sorta di pan brioche dal sapore neutro, da mangiare a colazione o merenda, oppure come antipasto insieme a formaggi, salumi e sottoli, oppure ancora farcito con confetture, creme spalmabili, marmellate o conserve salate.

Putizza

Il nome è uno slavismo del dialetto triestino che prende in prestito la parola slava potica, derivatadal verbo poviti, che significa avvolgere, arrotolare, e non è difficile intuirne il motivo: la putizza (o potizza) è un lievitato dolce tipico della zona del Carso, tra Gorizia e Trieste, di origini remote e dalla caratteristica forma a chiocciola. La ricetta affonda le sue radici nel medioevo e ha attraversato secoli di storia: in origine era una specialità dei pastori luterani della seconda metà del Cinquecento, e se ne trovano poi testimonianze nella Vienna del Diciottesimo secolo. Secondo i racconti popolari triestini, però, la putizza così come oggi la conosciamo, venne presentata per la prima volta nel 1864 agli arciduchi austroungarici Massimiliano I del Messico e Carlotta del Belgio, in occasione di una festa al castello di Miramare di Trieste. La versione slovena originaria è quella tipica di una cucina povera, a base di ingredienti locali facilmente reperibili come la frutta secca, mentre la variante nostrana si arricchisce di cioccolato e pezzettini di biscotto, scorza di agrumi per profumare, miele e a volte persino marmellata.

La ricetta: la gubana di pasticceria Ducale di Cividale del Friuli, Udine

Ingredienti

Per la pasta

160 g. di zucchero

400 g. di farina

700 g. di latte

100 g. di uova

100 g. burro

10 g. di lievito

1 pizzico di sale

Per il ripieno

300 g. di noci

100 g. di nocciole

100 g. di mandorle

50 g. di confettura

70 g. di burro

20 g. di pinoli

120 g. di zucchero

40 g. di cubetti di arancio

50 g. di uova

100 g. di uvetta

1 bicchiere di grappa

1 bicchiere di amaretto, rum, vermouth e marsala

Sciogliere il lievito con farina, latte tiepido e uova, impastare e lasciar lievitare in un contenitore coperto la sera precedente. La mattina seguente, aggiungere le uova, la farina, lo zucchero, il burro e il sale. Lavorare energicamente la pasta. Dopo due ore di lievitazione, lavorare nuovamente la pasta e lasciar riposare. Dopo 20 minuti, dividere la pasta in diverse pezzature, lavorarla e tirarla sottilmente. Allargare la pasta e ungerla con un po' di burro fuso, distribuire in maniera omogenea il ripieno, arrotolare il panetto su se stesso e avvolgerlo nella tradizionale forma a chiocciola. Inserire l'impasto in uno stampo tondo e lasciar riposare per circa 3 ore. Una volta lievitato, spalmare sul dolce gli albumi d'uovo montati a neve con un po' di zucchero, e cuocere in forno per circa 40 minuti a 180°C. La gubana si conserva fino a 3/4 mesi.

a cura di Michela Becchi

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The Cheese Bar a Londra. La rivincita del formaggio nel Regno Unito

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Un truck dedicato al formaggio che si evolve e diventa un Cheese Bar, un'azienda della Cornovaglia che vince il primo premio, battendo migliaia di latticini da tutto il mondo, in un concorso internazionale. In Gran Bretagna è tempo per i formaggi di qualità.

La cultura casearia nel Regno Unito

C'è l'ormai celebre e internazionale cheddar, in diverse stagionature, il buxton blue, il derby alla salvia, lo stilton. Una serie ampia e variegata di eccellenze casearie di ogni tipo, disponibili in tante varianti, porta il marchio made in UK. Perché se Italia e Francia si contendono il titolo di più grandi produttori caseari fin dalla notte dei tempi, gli altri Paesi europei non sono certo da meno. Anzi, proprio perché sconosciute, le specialità straniere hanno cominciato negli ultimi anni a fare sempre più gola agli appassionati del genere, che durante fiere e manifestazioni di settore continuano a dimostrare un'attenzione crescente verso queste prelibatezze (ne è un esempio l'ultima edizione di Cheese 2017, che ha dato spazio e voce ai migliori produttori di tutto il mondo, Inghilterra e Irlanda in primis). A conferma del successo dei latticini inglesi, nuovi format e locali a tema continuano a raccogliere l'entusiasmo del pubblico nella capitale britannica, ma non solo. La stampa estera degli ultimi giorni è fortemente concentrata su questo argomento grazie anche ai riconoscimenti ricevuti di recente nei concorsi internazionali.

The World Cheese Awards

Come il World Cheese Awards, per esempio, contest di base a Londra che vede 250 giudici fra tecnici assaggiatori ed esperti del settore alle prese con l'assaggio di oltre 3mila formaggi da 35 Paesi di tutto il mondo. A guadagnarsi la medaglia d'oro nell'ultima edizione, Lynher Dairies, realtà di nicchia della zona di Truro, in Cornovaglia, che ha stupito la giuria con un formaggio a pasta semi-dura stagionato 16 mesi, “burroso, con note di caramello e un intenso aroma saporito”, dalla consistenza “a falde e quasi asciutta”, gradevole anche esteticamente, “visivamente stupendo”, come lo ha definito la buyer di formaggi di Whole Foods Cathy Strange. Con 75 punti su 80, Sarah Barnes, manager dell'azienda, è salita sul gradino più alto del podio grazie al suo Cornish Kern: “In gara, il nostro Kern è stato sottoposto a tanti giudizi diversi. Sono orgogliosa di vedere che ora sia il formaggio numero uno al mondo”.

Il Cheese Truck

Sembra essere, dunque, un momento propizio per i formaggi di qualità nel Regno Unito, soprattutto per cominciare a promuovere e a intensificare le campagne di comunicazione su questi prodotti, finora rimasti nascosti. Di cheddar, infatti, si parla ormai in tutto il mondo, ma le campagne inglesi hanno molto di più da offrire sul fronte caseario, dal burro (se ne trovano di ottima qualità) ai formaggi più stagionati, realizzati secondo tradizioni antiche, ricette e procedimenti di origini remote, con l'ausilio delle tecniche più moderne, alla ricerca di un gusto contemporaneo in grado di impreziosire ancora di più il prodotto finale. Sulla base di questa filosofia, qualche tempo fa Mathew Carver presentava a Londra la sua apetta innovativa: il Cheese Truck, una panineria su ruote pensata per offrire al pubblico sandwich e tramezzini farciti con formaggio grigliato di prima scelta. Stilton cotto sulla raclette, panino con cheddar e cipolle, brie a latte crudo aromatizzato al tartufo e molti altri i prodotti di punta del truck, divenuto da subito famoso anche attraverso le foto postate dai consumatori su Instagram, in grado di far venire l'acquolina in bocca anche ai meno golosi.

Da Truck a Bar, l'evoluzione di un format

Come spesso accade, le intuizioni più semplici – se studiate con intelligenza e criterio – si sviluppano in fretta, dando vita a formule più evolute ed elaborate. È proprio il caso di Mathew, che da pochi giorni ha dato vita a un locale a tutti gli effetti, il Cheese Bar. Con tanto di bancone, tavoli e sedie, nel piano sottostante di un club di burlesque del Camden Town Stables Market. Uno spazio intimo dominato da un lungo bancone di marmo chiaro lucente, con l'atmosfera tipica dei lounge bar nordeuropei, dove la star, in questo caso, è il formaggio, servito in tante varianti a seconda dell'estro e della fantasia del suo ideatore. Cambiano gli spazi, e si modifica anche il menu: in carta ora si trovano anche insalate, taglieri misti, piatti freddi e caldi preparati espressi. Un ulteriore (piccolo) passo in avanti per un settore che sembra destinato a crescere sempre di più.

The Cheese Bar | Londra | Camden Stables, 93/94 | www.thecheesebar.com/

a cura di Michela Becchi


Natale da chef. Alta cucina da cinepanettone: Massimo Boldi è Gualtiero Saporito

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Parodia dei ristoranti blasonati, sarcasmo dozzinale sul mondo dorato di chef e cucine onnipresenti in tv. Immancabile come ogni Natale, il film delle feste di Neri Parenti gioca la carta vincente del momento, e mette in scena improbabili chef e brigate disastrate. Un’analisi. 

Cucine dorate (?)

Cucine che diventano set, e studi televisivi che fanno spazio a fuochi a induzione e stoviglie d’ordinanza. Oggi, da qualche anno, parlare di cibo in tv è un biglietto da visita che non si nega a nessuno. Talent, reality, lezioni pratiche e collegamenti in esterna. Sfide all’ultima mantecatura e parate di prodotti che raccontano il territorio italiano. Del resto, anche se c’è voluto un po’ per scoprirlo, esiste forse argomento più nazionalpopolare del cibo? A muoversi su un terreno che porta indubbiamente risultati “facili” in termini di audience sono in molti, a partire dai più titolati, gli chef. Ma il passaggio in tv, la conquista di uno status symbol che porta i professionisti del mestiere a smarcarsi dai ritmi serrati della cucina e li proietta nel jet set, non sempre lavora a favore del diretto interessato, cui si contesta l’integrità e l’opportunità di tornare a lavorare nell’ombra: tutti che aspettano di scoprire il segreto per cucinare l’amatriciana perfetta, mentre a gran voce suggeriscono agli chef di tornare in cucina. Il successo si paga, e Carlo Cracco – capro espiatorio di una compagine di star chef sempre più nutrita – ne sa qualcosa. Eppure comunicare il cibo, e la cultura gastronomica di un Paese che intorno a un tavolo ha costruito buona parte della sua identità, dovrebbe essere obiettivo di grande valore; un tempo fu Mario Soldati, e dopo di lui Luigi Veronelli, quando l’Italia si riscopriva un po’ più ricca grazie al patrimonio di risorse agricole e tradizioni gastronomiche tramandate nel tempo (a tal proposito non perdetevi l’approfondimento sull’identità della cucina italiana negli anni Settanta che uscirà sul numero del magazine Gambero Rosso del mese di gennaio 2018).

 

Chef in tv. Da star a bersaglio

Oggi le strategie di comunicazione hanno spostato l’asse sull’ultimo anello della catena, proprio quello degli chef, nuovi eroi di un’epopea che li vede calcare i palchi da attori consumati, novelli guru del mangiare di qualità, e nei casi meno riusciti impacciati mestieranti a copione (o peggio ancora opinionisti da salotto televisivo). Una dinamica che se da un lato distribuisce allori, immancabilmente porta con sé parodie e goliardiche messe in scena. Linfa vitale per la comicità pungente di Maurizio Crozza, che un anno fa battezzava il personaggio del cuoco che parla con il cibo Germidi, liberamente tratto dallo chef vegano Simone Salvini; ultimo pallino di Antonio Albanese (già in passato alle prese con la parodia di un esilarante sommelier), che il nuovo libro lo dedica tutto al personaggio dello chef Alain Tonné, creato 15 anni fa e ora pronto a vestire i panni del protagonista assoluto in Lenticchie alla julienne (ne riparleremo). Tema ispiratore del cinepanettone 2017, che uscirà nelle sale il prossimo 14 dicembre. Natale da chef, per la regia di Neri Parenti e con Massimo Boldi nel ruolo di protagonista, è la consacrazione (o l’ennesima batosta?) dell’universo dorato delle cucine.

Natale da chef

O meglio la proiezione di tutti gli stereotipi che la comunicazione massiccia (e distorta) di quelle cucine ha saputo accumulare negli ultimi anni, ora alla berlina di una comicità che certo non brilla per sagacia e savoir faire, ma al cinema ci porta proprio tutti. Il fatto che quest’anno la produzione abbia scelto di giocare con chef blasonati e padelle la dice lunga su come siano cambiati i tempi. La trama, prevedibilmente, è solo un pretesto per mettere in scena battute dozzinali, gaffe e situazioni da cabaret, ma qualche spia di come l’universo della ristorazione professionale abbia finito per prestarsi a facili ironie la fornisce ugualmente. C’è il protagonista, Gualtiero Saporito (e ogni riferimento al maestro Gualtiero Marchesi non è puramente casuale, ma fischieranno le orecchie anche a Filippo Saporito, chef della Leggenda dei Frati di Firenze) interpretato da un Massimo Boldi che crede di essere un grande chef, e invece non fa altro che ideare ricette assurde e immangiabili. Intorno a lui, le macchiette di una cucina che cerca di darsi un tono, ma brilla per mancanza assoluta di professionalità: il sommelier astemio, la bella pasticciera pagata per uscire dalla torte e completamente incapace, l’aiuto cuoco che non riconosce i sapori. Insieme, l’improbabile gruppo si appresta a cucinare per il G7 riunito a Trento, con risultati che non richiedono un grande sforzo di immaginazione, e gag a profusione. “Una storia attuale”, la definisce Boldi, che mette al servizio di una parodia anticasta (con i capi di Stato piegati dal mal di pancia) il bersaglio facile della cucina stellata (con cameo di Gianfranco Vissani, pioniere degli chef in tv, che nel film recita la parte del critico gastronomico). È lui stesso, nelle interviste lancio di questi giorni, a ricordare Luigi Veronelli e il suo modo garbato di comunicare il cibo. E poi invoca l’agognato ritorno alla semplicità: tra chef disastrosi e sbruffoni, “meglio mangiare un semplice piatto di spaghetti al pomodoro”, chiosa. La semplicità ci salverà. Poco importa che un buon piatto di spaghetti al pomodoro bisogna saperlo cucinare. E semplice non è.

 

a cura di Livia Montagnoli

Olio extravergine di oliva. La campagna 2017 raccontata dai produttori

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Si parla di un'annata di qualità, di gran lunga migliore di quella del 2016. Ma l'olio è un prodotto che non vuole solo numeri, stime precise, percentuali. Perché a determinarne la qualità è prima di tutto la natura. Per capirne di più, abbiamo parlato con i produttori in persona, che ci hanno raccontato le loro impressioni.

L'annata

Un raccolto tra i più scarsi degli ultimi dieci anni, ma di qualità, per una stima di circa 320mila tonnellate prodotte, in aumento del 75% sull'anno precedente. Questi i dati Ismea relativi alla campagna olearia in corso (che, a oggi, ci sembrano un po' riduttivi), numeri diffusi fra produttori e assaggiatori nelle ultime settimane.

Quando si parla di extravergine, però, fare la conta della resa a fine raccolta non è sufficiente. Perché è vero, i produttori più ambiziosi hanno la responsabilità di farsi trovare preparati, pronti ad anticipare la raccolta quando necessario, a intervenire con i trattamenti o con l'irrigazione laddove non c'è altra scelta, ma la tecnica, lo studio e gli investimenti alle volte possono non bastare. Serve anche istinto, una conoscenza profonda delle piante e la rara abilità di prendere una decisione definitiva in breve tempo. Occorrono una serie di qualità per far fronte agli imprevisti della natura, da mettere in campo minuto dopo minuto. Senza preavvisi. Per fare un quadro più composito, abbiamo raccolto commenti, riflessioni, impressioni di chi ogni giorno lavora a contatto diretto con le piante: gli olivicoltori.

 

Garda: oli più leggeri, olive grandi e sane

Cominciamo dal Nord, dalla zona del Garda, condivisa da Lombardia, Veneto e Trentino Alto Adige. Un territorio caratterizzato dalla cultivar casaliva, solitamente delicata, elegante e dalla trama aromatica sottile, ma che può dare origine anche a oli dal fruttato più intenso.

 

Maria Paola Gabusi – Casa del Tempo Ritrovato, Toscolano Maderno (BS)

Non abbiamo avuto il problema della siccità, al contrario, ci sono state diverse grandinate che hanno messo a repentaglio l'annata. Posso ritenermi abbastanza soddisfatta, le olive erano grandi e belle, ma sono arrivate nei frantoi quando faceva ancora molto caldo. L'olio è molto buono ma ha profumi meno intensi, la sensazione di amaro è lieve, mentre quella di piccante è ottima. Il gusto complessivo è fantastico, ma spero che col tempo si sviluppino altri aromi; e poi le olive da mensa sono eccezionali.

 

Liguria: per fare qualità bisogna investire

Dalle grandinate alla siccità: nella terra della taggiasca (ma anche della colombaia, cultivar meno conosciuta ma in grado di restituire oli squisiti) i produttori sono corsi ai ripari affidandosi ai sistemi di irrigazione e alle ultime tecnologie di frantoio.

 

Domenico Ruffino – Domenico Ruffino, Finale Ligure (SV)

Una stagione molto asciutta, con precipitazioni minime, dove gli uliveti non irrigati hanno sicuramente sofferto di più. Abbiamo dovuto investire molto nell'acqua. Il nostro impianto, poi, è dotato di un sistema di raffreddamento delle olive nell'ultima vasca del lavaggio e in gramola. Non ci sono molte alternative: per ottenere buoni risultati in annate simili, occorre essere disposti a spendere.

 

Lazio: poco ma buono nella Tuscia, grandi risultati per le Colline Pontine

Ogni regione ha le sue sottozone, ma per il Lazio è doverosa una distinzione: Nord e Sud di Roma, zona della Tuscia - ovvero quella che gravita attorno alla provincia di Viterbo - e Sabina nella parte settentrionale, e l'area delle Colline Pontine nella parte meridionale, provincia di Latina.

 

Nicola Fazzi - Colli Etruschi, Blera (VT)

Qui nella zona della caninese (varietà di oliva tipica della Tuscia ndr) mediamente abbiamo perso dal 45 al 50% del prodotto. La qualità però è buona, nonostante i vari ostacoli che abbiamo incontrato durante l'anno, dalla gelata che ha condizionato la fioritura ai primi caldi estivi che hanno bruciato i petali. La caninese, però, è piuttosto resistente alla siccità, anche se questa ha comportato una maturazione anticipata: il 22 ottobre tutte le olive erano già invaiate. Raccogliendo in tempo, abbiamo avuto ottimi risultati.

 

Cosmo Di Russo – Az. Agr. Cosmo Di Russo, Gaeta (LT)

L'itrana (cultivar delle Colline Pontine ndr) è in splendida forma, non solo per quanto riguarda l'olio ma anche per le olive da mensa, che quest'anno saranno di qualità eccellente, specialmente quelle nere. La raccolta ha vissuto delle fasi alterne: abbiamo iniziato a settembre ma i frutti si erano rimpiccioliti talmente tanto da non avere quasi più polpa, per cui abbiamo interrotto e ripreso a ottobre. A fine mese il vento caldo aveva essiccato di nuovo le drupe, che si sono poi finalmente assestate grazie alla pioggia. Ora lavoriamo sul filo del rasoio, cercando di evitare la prossima ondata di precipitazioni prevista a breve. Sebbene ci siano state delle difficoltà, i risultati oggi sono molto soddisfacenti. Che dire? Le olive sono in ottimo stato, e non solo le mie: tutti qui in zona hanno buoni frutti, e questo consente al frantoio di lavorare meglio.

 

Umbria: caldo di produzione, ma nessun cambiamento drastico

Decrescono i numeri anche in Umbria, territorio da sempre dedito all'olivicoltura, ma la qualità resta alta, e il lavoro in campo e in frantoio non ha subìto particolari scosse.

 

Giulio Mannelli – Giulio Mannelli, Bettona (PG)

Abbiamo irrigato, ma non ovunque. Naturalmente, le piante senza acqua hanno sofferto di più, ma il moraiolo (cultivar umbra per antonomasia ndr) ha resistito bene. Le drupe erano buone, e gli oli sono piuttosto equilibrati. Il timore di molti era un amaro eccessivo per via del nocciolo molto sviluppato a causa del clima secco, ma posso affermare con piacere che i risultati sono stati molto soddisfacenti.

 

Toscana: raccolta anticipata, la qualità si salva stando in campo

Una regione dalla tradizione olivicola antichissima, che quest'anno è stata messa a dura prova dal clima secco dell'estate. Ma che, fortunatamente, si è salvata grazie alla cura spasmodica dei produttori più attenti.

 

Gionni e Paolo Pruneti – Frantoio Pruneti, San Polo in Chianti (FI)

Ci troviamo di fronte a un'annata caratterizzata dalla necessità di raccogliere in anticipo – solitamente iniziavamo il 20 ottobre – per via del caldo intenso che ha fatto maturare le olive prima del previsto. Non è stata una campagna abbondante, ma i frutti erano sani e, raccolti al momento giusto, hanno dato origine a ottimi oli. Il segreto sta nell'avere una sempre maggiore conoscenza del frantoio e della materia prima: solo chi scende in campo ogni giorno, ponendosi domande, osservando il ritmo della natura, può portare a casa un buon risultato. Nel settore olivicolo non si possono seguire dei manuali di istruzione, bisogna adeguarsi in maniera repentina. Noi, per esempio, abbiamo aggiunto dei macchinari di raffreddamento in frantoio per combattere le alte temperature.

 

Abruzzo: il lavoro più grande lo fa l'ulivo

E se l'intervento dell'uomo è fondamentale, non dimentichiamo mai chi sono i veri protagonisti dietro ogni bottiglia: gli ulivi.

 

Tommaso Masciantonio - Trappeto di Caprafico, Casoli (CH)

Sono stati tanti gli ostacoli incontrati nel corso dell'anno. La pianta, però, come spesso accade, si è auto-regolamentata. Gli ulivi sono forti e sanno adattarsi alle diverse condizioni pedo-climatiche. Questo è quello che è successo da noi, dove non interveniamo con i trattamenti: il terreno è calcareo, caratteristica che ha consentito all'acqua di non evaporare. Con le mie olive ho finito, ora continuo a frangere per conto terzi, e noto con piacere che anche gli altri produttori della zona sono riusciti a portare a casa un buon olio. Almeno quelli che hanno raccolto in tempo: di certo, questa non era l'annata ideale per prendersela con calma.

 

Puglia: bene per chi ha irrigato

Parola d'ordine: acqua. Per sopravvivere le piante pugliesi hanno dovuto essere irrigate al momento più opportuno. Per donare così frutti preziosi in grado di dar vita a oli di ottima qualità.

 

Sabino Leone – Canosa di Puglia (BT)

Sembrava un'annata impossibile, invece non possiamo lamentarci. Dagli uliveti non irrigati non abbiamo raccolto, ma quelli innaffiati hanno fruttificato molto bene: la materia prima è eccellente. Non abbiamo anticipato, ma sarà una raccolta ancora molto lunga, che si protrarrà per tutto dicembre. La parte del leone la fa la coratina, la più resistente e intensa, non male l'ogliarola, mentre la peranzana ha sofferto un po' di più. Comunque, c'è un'alta carica fenolica, dato molto positivo.

 

Calabria: siccità sotto controllo, le piante resistono

Che si tratti di ottobratica o carolea, la Calabria dell'olio dimostra il suo temperamento, mitigando la siccità con le sue piante secolari, vigorose e forti.

 

Consuelo Garzo – Sorelle Garzo, Seminara (RC)

La nostra varietà principale è l'ottobratica, famosa proprio per la sua maturazione anticipata: abbiamo iniziato a raccogliere il 3 ottobre e abbiamo continuato tutto il mese. Le quantità non sono quelle che speravamo, ma gran parte dei nostri ulivi sono secolari, per cui hanno resistito bene alle intemperie. Stiamo parlando di piante che hanno attraversato millenni di storia: ne hanno viste di peggiori.

 

Michele Librandi – Tenute Librandi Pasquale, Vaccarizzo Albanese (CS)

I giorni di pioggia della scorsa settimana hanno rallentato un po' il lavoro, ma hanno fatto bene agli alberi, perché i terreni erano molto asciutti. Abbiamo irrigato metà delle tenute, lasciando fuori gli alberi secolari. Le olive sono sanissime, non ci sono stati attacchi di mosca e ora, a fine novembre, stiamo ancora raccogliendo e i risultati continuano a essere buoni. Le quantità sono inferiori alle medie storiche, ma non pessime. In qualsiasi caso si tratta di un'annata singolare, dalla quale imparare: ogni inizio campagna è come il primo giorno di scuola.

 

Sicilia: un'annata da ricordare, all'insegna delle note amare

Come per il Lazio, una macro-suddivisione geografica qui è necessaria: Est e Ovest. Fortunatamente, buone nuove da entrambi i fronti, nonostante il calo notevole nella parte orientale.

 

Pietro Nicotra – Agrestis, Buccheri (SR)

Avremmo avuto circa un 50% di olio in meno se non avessimo curato le piante a dovere: la parte agronomica è fondamentale. Un calo, comunque, c'è, ma la qualità è ottima, più dello scorso anno, con tocchi amari più intensi e persistenti. Niente mosca, olive sane; unica pecca: la siccità, ma lavorando bene il terreno siamo riusciti a scampare qualsiasi pericolo.

 

Antonella Titone – Titone, Trapani

Le difficoltà sono quelle di sempre, aggravate dalle elevate temperature e dal clima caldo. Noi irrighiamo fin dall'inizio, perché è ciò che richiede la nostra terra; certo, quest'anno il caldo è stato eccessivo, per cui abbiamo incrementato i sistemi di irrigazione, anticipando l'acqua a giugno/luglio. La polpa si è sviluppata in maniera omogenea, le drupe sono grandi e in perfetto stato. Soprattutto, le analisi chimiche dell'olio sono perfette, e presentano una concentrazione fenolica davvero invidiabile, anche nei prodotti a base di cultivar solitamente più delicate, come la biancolilla. Oli amari, intensi, dal gusto deciso, una novità per noi, solitamente abituati a profumi molto avvolgenti ma sapori lievemente inferiori. Altra bella notizia? Abbiamo avuto la fortuna di avere anche un 10% in più di quantitativo.

 

Agrestis | Buccheri (SR) | via Sabauda, 86 | tel. 393 0271550 | www.agrestis.eu

Casa del Tempo Ritrovato | Toscolano Maderno (BS) | via Firenze, 10 | tel. 347 8784699 | www.casadeltemporitrovato.com

Colli Etruschi | Blera (VT) | via degli Ulivi, 2 | tel. 07 61 470469 | www.collietruschi.it

Cosmo Di Russo | Gaeta (LT) | loc. Pontone | tel. 07 71462201 | www.olivadigaeta.it

Domenico Ruffino | Finale Ligure (SV) | s.da del Borriolo, 9 | loc. Colle di Varigotti | tel. 348 4521161

Frantoio Pruneti | San Polo in Chianti (FI) | via dell'Oliveto, 24 | tel. 05 58555091 | www.pruneti.it

Giulio Mannelli | Bettona (PG) | via Montebalacca | tel. 07 59869023 | www.agrariamannelli.it

Sabino Leone | Canosa di Puglia (BT) | c.da Cefalicchio Masseria Covelli | tel. 393 8869444 | www.sabinoleone.it

Sorelle Garzo | Seminara (RC) | c.so Barlaam, 63 | tel. 09 66317478 | www.oliodolciterre.com

Tenute Librandi | Vaccarizzo Albanese (CS) | via Marina, 23 | tel. 09 8384068 | www.oliolibrandi.it/

Titone | Trapani | via Piro, 68 | fraz. Locogrande | tel. 09 23842101 | www.titone.it

Trappeto di Caprafico | Casoli (CH) | c.da Caprafico, 35 | tel. 0871 897457 | www.trappetodicaprafico.com

 

a cura di Michela Becchi

Falso made in Italy alimentare, un business da 60 miliardi di euro. Ma negli USA arriva l'autentico Culatello di Zibello

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Dati allarmanti che confermano la difficoltà di arginare un fenomeno diffuso su scala mondiale, quelli diffusi dall'ultimo dossier Coldiretti su La Tavola degli Inganni. Italian sounding e contraffazioni valgono 60 miliardi di euro, e sottraggono risorse al mercato italiano. Intanto Negroni segna un bel colpo negli States. 

Il falso made in Italy

Un fatturato da 60 miliardi di euro, contro i 40 miliardi che le esportazioni agroalimentari italiane si apprestano a superare nel 2017, facendo registrare un record che fa bene al cibo made in Italy e alle potenzialità di crescita del settore. Il primo dato, invece, è quello relativo all'indotto dall'agropirateria internazionale, che sull'italian sounding ha costruito un impero ai danni della reputazione della tradizione gastronomica più celebre nel mondo. Quella italiana, per essere chiari. Nonostante gli sforzi – si è appena conclusa la seconda edizione della Settimana della cucina italiana nel mondo – il fenomeno si autoalimenta prendendo forza proprio dall'appeal crescente che molti prodotti made in Italy esercitano sui consumatori stranieri. E non passa mai troppo tempo prima che Coldiretti aggiorni i dati di morti e feriti in battaglia, sciorinando numeri record di cui ci piacerebbe volentieri fare a meno: 60 miliardi di fatturato annuo, dunque, e 300mila posti di lavoro sottratti al mercato interno, stando all'ultimo dossier La Tavola degli Inganni, presentato a Napoli in occasione dell'apertura del museo del falso made in Italy alimentare sul Lungomare Caracciolo, nel villaggio contadino di Coldiretti.

 

Italian sounding. Chapaghetti e Zottarella

Ad avvalorare i numeri, una parata di prodotti e marchi improbabili, associati alle filiere tradizionali italiane, le più celebri, malamente imitate. La classifica dei prodotti più taroccati, come sempre, la guidano i formaggi del BelPaese, dalla mozzarella al Parmigiano Reggiano (e l'ormai altrettanto celebre alter ego Parmesan), in buona compagnia di Gorgonzola, Asiago, Pecorino romano, Fontina, Provolone; ma pure i salumi - dal San Daniele (ma made in Canada!) alla mortadela (sic) spagnola, al Salama Napoli di Croazia - si prestano alle contraffazioni più fantasiose, come l'olio extravergine, le conserve e il pomodoro San Marzano. Un mercato del tarocco particolarmente fiorente negli Stati Uniti, dove è sdoganata la commercializzazione di kit fai da te per produrre in casa vino (un'altra delle produzioni più martoriate all'estero), mozzarella, latticini, ma diffuso in tutto il mondo (pure nell'Europa unita), con la Thailandia capace di inventare una mozzarella di bufala in salsa tropicale. Capitolo a parte, e astratti dall'orizzonte di mercato i risultati sarebbero pure esilaranti, per la pasta, con i Chapaghetti prodotti in Corea, gli Spagheroni in arrivo dai Paesi Bassi, la Pomarola brasiliana. E ulteriore parentesi per tutte quelle produzioni di bassa lega che sfruttano l'immaginario mafioso associato alla cultura italiana, perpetuando un doppio danno di immagine: un fenomeno, sottolinea il dossier, particolarmente diffuso in Germania e Nord Europa.

 

La prima volta del Culatello di Zibello negli States. Con Negroni

Un quadro allarmante che non può limitarsi a lasciare l'amaro in bocca. E (più di) qualche azienda che si rimbocca le maniche per contrastarlo sul campo, per fortuna, c'è. L'ultima battaglia vinta si rintraccia in casa Negroni, che dopo 15 anni di iter burocratici ha ottenuto il permesso di importare il suo Culatello di Zibello sul mercato statunitense – la certificazione USDA-SFIF - finora precluso a questa specialità della tradizione salumiera italiana. Le procedure di certificazione hanno richiesto accertamenti su stabilimento di produzione e prodotto in tutte le sue componenti, marchio e packaging compresi (incredibile quanto sia molto più semplice immettere sul mercato prodotti contraffatti), con il supporto del Consorzio di Tutela del Culatello di Zibello Dop. Ora, il via libera del Dipartimento dell'Agricoltura americano attribuisce la dignità che gli spetta al Culatello di Zibello – e il New York Times gli dà il benvenuto, titolando “Quando dovete impressionare i vostri parenti italiani”, spiegandone usi, abbinamenti e somiglianza col prosciutto - al pari di prodotti come il Prosciutto di Parma e il San Daniele già ammessi sul mercato USA. Anche così, un passo dopo l'altro, si combatte l'italian sounding. 

 

a cura di Livia Montagnoli

Appunti di degustazione. Ruinart: la più antica maison di Champagne

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Sotto terra pareti bianche di gesso, volte scavate a mano che diventano guglie altissime da cattedrale gotica. Sopra il paesaggio della Champagne, nella sua capitale: Reims. Un susseguirsi di nomi altisonanti di maison che dominano la scena delle bollicine mondiali, l’immancabile pioggia leggera, e le porte di un cancello che si spalancano. Si entra da Ruinart: la più antica maison di Champagne.

La storia

La famiglia Ruinart era conosciuta sin dal XV secolo per l'attività nel settore tessile; il cambio di rotta ci fu con Luigi XV che, con un’ordinanza del 25 maggio 1728, permise il trasporto del vino in bottiglie. Fu una svolta: la commercializzazione fu molto semplificata dato che non tutti potevano permettersi le botti, unico contenitore fino ad allora ammesso. Nacque così, nel 1729, per volontà di Nicolas - ispirato dalla figura di Dom Thierry Ruinart - la maison, che si distinse subito per qualità ed eleganza dei prodotti. Dopo 6 anni, Nicolas Ruinart si dedicò completamente al più redditizio Champagne, dando il via a ben sette generazioni di storia e bollicine.

ruinart

foto: www.ruinart.com

Claude, figlio di Nicolas, cominciò a lavorare col padre nel 1764 trasformando la maison in Ruinart Pere et Fils: fu lui a spostare l’attività dal centro di Reims. In città gli spazi erano limitati e dovevano affittare le cantine dei vicini per far fronte alle richieste: Claude decise di trasferire tutto in un posto che offrisse spazi adeguati alle loro esigenze. La zona scelta, Saint Nicaise, era allora abbandonata perché poco sicura e troppo distante dalla città; ma a Claude interessavano gli ampi spazi disponibili, sopra e sotto il livello del suolo, nelle crayeres, le cave di gesso abbandonate dal XV secolo, cattedrali sotterranee i cui scavi sono cominciati in epoca romana e che oggi si spingono fino a 38 metri di profondità. Ruinart fu la prima di tante prestigiose maison a insediarsi lì, iniziò la costruzione degli edifici nel 1780, quando subentrò Irénée, figlio di Claude. Ricordato per le migliorie al collegamento tra le crayeres, Irénée fu un importante sindaco di Reims. Fu lui a convincere, nel 1825, re Carlo X a tornare a Reims per la sua incoronazione, la notte di Natale, secondo una tradizione iniziata nel 496. Impressionato dalla capacità di Irénée nel garantire la sua incolumità, il re conferì alla famiglia il titolo, il cui stemma è riportato sulle bottiglie, di visconti di Brimont. Fu Edmond Ruinart, soprannominato Il Viaggiatore, successore e figlio di Irénée, a esplorare nuovi mercati, la Russia nel 1827 e gli Stati Uniti nel 1831. Un precursore per i tempi.

ruiart. georgia russelGrande Libro di Georgia Russel

La maison e l'arte

Il percorso dei Ruinart è tracciato anche attraverso l’arte sin dai tempi della pittrice Mathilde Ruinart che nel 1867 arrivò fino in Giappone, proseguito con il primo manifesto sullo Champagne realizzato nel 1895 da Alfons Mucha su commissione di André Ruinart. Oggi la maison ospita opere di artisti contemporanei che, anno dopo anno, danno la loro visione di Ruinart: da Dustin Yellin che ha ripreso il diario di Edmond Ruinart per costruirne viaggi e avventure cristallizzate nel vetro, a Georgia Russell che nel suo “Grande Libro” del 2014, rappresenta il primo libro dei conti della casa - che riporta anche la prima vendita in Italia nel 1764 ai conti Durazzo a Venezia - un'elegante cascata di pagine intarsiate ispirate alle picconate nel gesso delle crayeres, in cui risalta la frase “Nicolas Ruinart padre nel nome di Dio e della Vergine Maria dà inizio al presente libro il 1° Settembre 1729”.

 

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Tra Champagne e gesso

Il reticolo di gallerie su più livelli accoglie la produzione Ruinart, un’infinita distesa di bottiglie in silenzioso e paziente affinamento, pronto a svelare ciò che la maison ha in mente per il suo futuro. Come il ritorno alla sboccatura manuale che avrà sempre più spazio, come dichiara Frederic Panaiotis, chef de cave della maison da maggio 2007: “La linea di sboccatura è il nostro fiore all’occhiello, ci avvaliamo della tecnologia jettingche ci assicura lo stesso livello di isolamento dall’ossigeno su tutte le bottiglie” spiega “Dopo la sboccatura, viene immesso un piccolissimo getto d’acqua ad altissima pressione che crea naturalmente la spuma e quindi anidride carbonica, togliendo aria. Abbiamo quindi lo stesso livello di ossidoriduzione in tutte le bottiglie, è un sistema usato nella produzione della birra ma non nello Champagne. Nel prossimo futuro” continua“dedicheremo una zona alla sboccatura a mano poiché abbiamo cambiato qualcosa nell’invecchiamento del Dom Ruinart, la nostra cuvée di punta, optando per il tappo di sughero dal millesimo 2010.

 

Lo scopo?

Fare qualcosa di diverso e possibilmente meglio, dare ancora di più evidenza allo stile Ruinart. Cambia molto nel risultato, sono 15 anni che facciamo prove in parallelo e i test sono incoraggianti. Per noi questa strada comporterà costi maggiori, in termini di manualità, formazione delle persone e tempo, ma vogliamo rendere ancora più chiaro cosa è per noi lo Champagne.

 

Quali tappi sono usati?

Questo è un aspetto fondamentale. Abbiamo provato con i tradizionali che utilizziamo sempre, e fatto delle prove anche con tappi tecnologici in sughero che eliminano il problema della TCA (tricloroanisolo) ma su cui non abbiamo certezze per la tenuta nel tempo. Parliamo di bottiglie con 10 anni di invecchiamento minimo ma che possono uscire a distanza di 20 o 30 anni, e questi tappi garantiscono 15 anni di invecchiamento. Oltretutto sui tappi c'è una tecnologia che migliora di anno in anno, è un mondo in costante evoluzione. Una risposta alla possibilità di poterli usare su tutta la produzione di Dom Ruinart probabilmente non l’avremo mai.

 

Il nostro percorso inizia tra immense gallerie nella zona “moderna”, circondati da bottiglie in vari formati con il tappo in sughero a testimoniare la scelta dalla maison. Fino all’annata 2015, ultima papabile a diventare Dom Ruinart ma che crea qualche dubbio in Frederic: “Abbiamo avuto uno chardonnay molto maturo, ho già assaggiato qualcosa e ho trovato i vini già pronti. Perfetti per un non millesimato ma non so se arriveranno a essere Dom Ruinart, con un invecchiamento di 10 anni e più”.

 

Hanno inciso anche le basse acidità?

No, l’acidità non è un problema. È la maturità aromatica a lasciarmi perplesso, annate mitologiche come il ’59 hanno acidità basse ma gli Champagne sono ancora perfettamente godibili. È un discorso prettamente organolettico: con gli olfatti già così definiti e pronti, il rischio di una curva rapida di maturazione è concreto.

 

La 2006 è sul mercato, la prossima annata?
2007, la 2008 non mi piace, o perlomeno è per noi un’annata che ha avuto qualche problema. So di essere in minoranza ma per me è un’ottima annata più per il pinot noir che per lo chardonnay. La paragono alla 1996 che in alcuni casi ha portato degli Champagne precocemente ossidativi all’olfatto a fronte di grandi acidità e struttura.

ruinart. bottiglie a testa in giù

Arriviamo in una zona in cui le bottiglie sostano capovolte a testa in giù, invece che orizzontalmente. “È un progetto partito con il 1998, dopo un piccolo esperimento con il 1996. Dopo l’invecchiamento, quando lo Champagne è pronto per la sboccatura, lasciamo alcune bottiglie in questa posizione: c’è una grandissima differenza sull’invecchiamento”. Spiega Frederic che nella bottiglia da sboccare il livello di ossigeno è sempre zero: all’inizio della seconda fermentazione tutto l’ossigeno interno viene consumato dai lieviti in due settimane massimo. Quando la bottiglia è in posizione orizzontale il pochissimo ossigeno che riesce a entrare del tappo va a contatto diretto col vino, un processo che nei 10 anni di invecchiamento ha comunque il suo peso. Quando la bottiglia è in posizione verticale ma capovolta, i lieviti esausti si depositano tutti sul tappo. Questi, ormai morti, catalizzano le molecole di ossigeno, evitando il contatto con il vino. “Abbiamo fatto prove sia con il tappo a corona che con quello di sughero e abbiamo visto che l’evoluzione è diversa, in fondo è un metodo usato dai nostri predecessori in molte maison, come ad esempio Diebolt Valois: addirittura loro applicarono questo metodo a un migliaio di bottiglie del 1953 e il vino è tutt’oggi incredibile, freschissimo. Da qui nasce un nuovo concetto di Dom Ruinart: la Reserve”.

Il viaggio continua tra le incredibili crayeres: un ambiente straordinario, dichiarato Monumento Storico della Francia nel 1831 e Patrimonio Mondiale dell'Umanità dall’Unesco nel 2015, rifugio della prima guerra mondiale per la popolazione che lasciò testimonianze del suo passaggio e della sua sofferenza. Un luogo dalle condizioni climatiche perfette per il lento invecchiamento del Dom Ruinart.

 

Dom Ruinart e Dom Ruinart La Reserve: la verticale

Facciamo una panoramica attraverso lo chardonnay. “Un mosaico di vigne, il nostro, con il 15% di proprietà distribuite intorno a Reims e il resto acquistato da conferitori. Per lo chardonnay lo potatura è 'di tipo Chablis', con una resa per ettaro più bassa del passato avendo sostituito il portainnesto delle viti con uno meno vigoroso” illustra Frederic “la conduzione della vigna è il più sostenibile possibile ma ragionata: la Champagne non è una zona facile in cui produrre vini, soprattutto per i problemi di botrytis e oidio”. In cantina, invece?“L’obbiettivo di Ruinart è preservare quanto più la freschezza e ridurre al minimo il contatto con l’ossigeno: soprattutto nel Blanc de Blancs base cerchiamo di preservare gli aromi primari e lasciarli intatti in bottiglia, una vinificazione 'gentilmente riduttiva' e una rotondità ricercata attraverso la fermentazione malolattica per ammorbidirne il sorso. Purezza aromatica al primo posto anche in cantina dove non c’è legno, solo acciaio.”

 

Il battesimo è con il Blanc de Blancs, da una base 2014, buona annata per lo chardonnay, completato dal 2012 e 2013 come vini di riserva, per mantenere la sensazione di freschezza. Il risultato è un mix di crema al limone, agrumi, fiori gialli, sottofondo minerale e polvere da sparo, miele e pesca ad addolcire. L’acidità al sorso si avverte, il dosaggio da brut a 8 gr/l allunga dolcemente il sorso che chiude piacevolmente amaro sulla scorza di limone. L’obbiettivo di Frederic con questo vino è sintetizzato dai numeri 1-4-10: 1 bottiglia, 4 persone, 10 minuti per finirla.

Il battesimo con il Dom Ruinart - il campione di famiglia da uve chardonnay delle vigne dei comuni di Le Mesnil, Avize, Choully, tutti Grand Cru - inizia con il millesimo 2006. Qui la ricchezza olfattiva e l’ampiezza si fanno più accentuate, con toni caldi che virano addirittura verso il tabacco, la polvere pirica, un olfatto stratificato in cui l’agrume diviene arancia, in chiusura con aromi di nocciola tostata. Bocca ricca, potente, ampia, morbida, rispetto al Blanc de Blancs sembra aggiungere una dimensione al sorso. E come sottolinea Frederic, senza cambiare una virgola nella lavorazione rispetto al precedente: sono le uve, i cru e il tempo di affinamento a determinare il risultato.

Il Dom Ruinart 2004 è un profluvio di pesca gialla e mandarino, tratti rocciosi e sassosi, chiaro, diretto e comunicativo, luminoso e floreale. Lunghissimo, l’acidità appuntita esprime un sorso dritto e verticale, agrumato e lunghissimo, interminabile e, se possibile, molto più giovane e da attendere rispetto al 2006.

 

ruinart

Un confronto riassume il percorso della maison: se il Dom Ruinart 1998 è un affascinante mix di camomilla e miele, tartufo bianco e porcini, curcuma e tabacco, un negozio di spezie e pasticceria dal sorso avvolgente e saporito, il protagonista della giornata è La Reserve 1998, frutto dell’affinamento su tappo a testa in giù. Uno Champagne di freschezza quasi irreale, giovanissimo, ripercorre alcuni dei tratti speziati e tartufati del coetaneo ma in un contesto a cui si aggiungono toni erbacei e balsamici di rosmarino e menta, cenni di cioccolato bianco e un sorso possente e scattante nell’acidità. Lungo, salino, elettrico.

 

La sublimazione di un lavoro che Frederic Panaiotis riassume dal punto di vista tecnico: “La differenza è il lavoro svolto in questi anni dall’ossigeno dopo la sboccatura. Sembrerà strano ma, anche nelle bottiglie prima della sboccatura, c’è meno ossigeno in quelle col tappo di sughero anche rispetto alla corona usata per il 1998 'normale', anche in posizione orizzontale come abbiamo fatto finora: con il tappo a corona l’ingresso di ossigeno è costante nel tempo, con il tappo classico no. All’inizio c’è più ossigeno perché è presente nel sughero stesso ma, con le reazioni chimiche dei tannini e la lignina tappo, si consuma e ne fa passare meno. Dopo 6-7 anni il bilancio è favorevole al tappo tradizionale”.

La giornata trova degna chiusura con Dom Ruinart 1985, un soffio di vento marino che abbraccia fiori gialli e agrumi disidratati, un liquido intriso di iodio e spezie orientali, tartufo e grafite, decadente ed emozionante, di acidità e freschezza ancora pulsanti e vive, un lunghissimo saluto lì dove il gesso custodisce la storia di un territorio e di una famiglia.

 

Ruinart | Francia | Reims | 4, rue des Crayères | tel. +33 3 2677151 | https://www.ruinart.com/it-it

 

a cura di Alessio Pietrobattista 

Kasher. Laura Ravaioli e i segreti del basìn

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La cucina ebraica è un incontro di storie e di tradizioni, frutto della contaminazione che, nei secoli, il popolo ebraico ha tessuto nei luoghi in cui si è stabilito. Da questo mosaico di culture è nato un originale profilo che mescola lingue, consuetudini, ricette e costumi eterogenei. In questa comunità multiculturale il cibo occupa un posto da protagonista. Che Laura Ravaioli ci racconta nel suo ultimo programma, su Gambero Rosso Channel.

Il programma

Laura Ravaioli è uno dei volti più noti di Gambero Rosso Channel: è lei che ci ha accompagnato, stagione dopo stagione, alla scoperta dei segreti della cucina, dentro e fuori dai nostri confini. E continua ancora oggi, raccontandoci la tradizione gastronomica degli ebrei di Libia. È la nuova serie dedicata alle ricette Kasher, dopo l'intermezzo estivo che ci ha portato alla scoperta dei panorami e dei sapori di Israele. Stavolta, invece, Laura rimane a casa, e lascia che siano i piatti a raccontare la storia. Che come sempre, nel caso della cucina giudaica, è una storia di viaggi e di incontri: un mosaico culturale che intreccia lingue, usi e costumi eterogenei, in cui la gastronomia è sempre la chiave di volta. “50 anni fa gli ultimi abitanti di quella millenaria comunità, lasciarono per sempre quella che era stata la loro casa e in questa drammatica fuga persero tutto, ma le tradizioni invece continuano a vivere nel cuore delle case e soprattutto intorno alla tavola” racconta Laura. Vedremo come si prepara il vero cuscus libico, come si beveva il tè a Tripoli e impasteremo la bsisa che più che un dolce è un modo di augurare prosperità e fortuna.

Tutto questo Laura Ravaioli ce lo racconta in Kasher, in onda tutti i lunedì su Gambero Rosso Channel sul canale 412 di Sky, alle ore 21.30, a partire dal 27 novembre 2017.

Basìn

La puntata di stasera, ci porta alla scoperta del basìn. Una piatto che non manca mai sulle tavole degli ebrei di Libia sia per Rosh Hashana, il Capodanno ebraico, che per Sukkot, la Festa delle Capanne. Ci sono infatti pietanze che si preparano soltanto in alcuni momenti speciali dell’anno, sono ricette che scandiscono il passare del tempo e delle stagioni e, con il loro profumo, con il loro aroma e il rituale della preparazione, ci ricordano che è giorno di festa. Il basìn è un saporito stracotto che viene servito con una fetta di polenta molto soda realizzata con la farina bianca di frumento.

La ricetta è della signora Ires Raccah Fellus.

 

Ingredienti

600 g. di farina 00 setacciata

1,5 l. di acqua

1 kg. cipolle bianche affettate o tritate molto finemente

1 kg. di fracosta di vitello/manzo Kasher tagliata a dadi di circa 4 cm

1 scatola pelati 

2 cucchiai di concentrato di pomodoro

1/1,2 kg. di patate di media grandezza, tagliate a quarti per il verso lungo

sale fino

pepe nero

peperoncino in polvere

cannella in polvere

olio extravergine d’oliva

 

Preparazione

Cominciate dalla polenta di farina: in una pentola dai bordi alti portate a bollore l’acqua, salatela quindi versatevi dentro tutta la farina; senza mescolarla o toccarla minimamente infilate al centro della massa un cucchiaio di legno. Dovrà cuocere per circa un’ora.

In un tegame abbastanza ampio mettete l’olio e fatelo scaldare quindi aggiungete le cipolle e fatele cuocere a fiamma moderata, sempre mescolando fino a che non siamo appassite completamente e abbiano assunto un bel colore oro scuro, a questo punto aggiungete immediatamente la carne e fatela rosolare a fiamma vivace, quindi aggiungete il concentrato e il pomodoro. Rosolate ancora mescolando continuamente.

Condite con sale, pepe nero, la punta di un cucchiaino di peperoncino e altrettanto di cannella. Quando la preparazione comincia ad asciugarsi coprite a filo con acqua calda, chiudete con un coperchio e lasciate cuocere per una trentina di minuti regolando la fiamma così che l’intingolo possa cuocere a bollore medio. Aggiungete anche le patate alla carne in cottura e, solo se necessario, aggiungete un altro poco di acqua, l’importante è che il sugo copra sia la carne che le patate; quindi rimettete il coperchio.

A questo punto, con un mestolo forato, tirate su la farina ormai cotta e rappresa in un blocco e trasferitela in un ciotola capiente rompendola in pezzi più piccoli così che si raffreddi.

Ora, se volete, potete usare una planetaria o un'impastatrice, oppure procedete a mano nel seguente modo: con molta pazienza sgranate la farina cotta rompendo attentamente tutti i grumi quindi rovesciate il tutto sul piano di lavoro.

Quando le patate risultano morbide prelevatene poco più della metà, mettetele in un ciotola e con una forchetta schiacciatele bene, aggiungetele alla farina in briciole, con un mestolo abbondante di sugo e un poco di acqua di cottura della farina e iniziate a impastare il tutto, aggiungendo nell’eventualità ancora un poco di acqua: il composto, alla fine, dovrà risultare liscio, omogeneo e dalla consistenza piuttosto soda. Le patate schiacciate e il sugo sono facoltativi, ma rendono il composto più morbido e di un gradevole colore rosato.

Dategli la forma di un filone e disponetelo nel piatto da portata servendo a parte la carne con le patate e il suo ricco sugo ormai pronto e ben caldo.

 

Il basìn si serve e si mangia così: tagliate il filone di polenta di farina a fette di 3-4 cm di spessore, la fetta viene messa nel piatto e sulla superficie si creano degli avvallamenti, serviranno a trattenere la carne e il suo sugo. Per assaporare al meglio questa preparazione quando si mangia, con la forchetta si stacca un pezzetto di polenta e lo schiaccia bene sul piatto così che raccolga il sugo quindi si gusta insieme a un bocconcino di carne.

 

Kasher \ Gambero Rosso Channel | canale 412 di Sky lunedì alle ore 21.30, a partire dal 27 novembre 2017

 

a cura di Laura Ravaioli e Antonella De Santis

15 anni di Food Law. Bruxelles festeggia l'anniversario del regolamento Ue sul cibo. Quali le prossime sfide?

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Nel 2002 l'Europa si dotava di un regolamento comunitario in materia di sicurezza alimentare, produzione, commercio e consumo del cibo. Un pacchetto di norme condivise per favorire la libera circolazione delle merci e garantire alti standard qualitativi a tavola. 15 anni dopo si tirano le somme, in vista di nuove sfide. 

Un regolamento sulla produzione e il consumo di cibo

Era il 28 gennaio 2002. L'Europarlamento ratificava il Regolamento 178/2002 in materia di sicurezza e processi alimentari. Così l'Unione Europea si forniva per la prima volta di regole condivise per garantire standard di produzione e rispetto delle più efficienti misure di salvaguardia della salute dei cittadini, in relazione al consumo di cibo. La necessità di varare una normativa comunitaria, all'epoca, era tanto più urgente a seguito degli scandali alimentari che avevano inquinato gli anni Novanta, che all'ordine del giorno ponevano il dovere di legiferare su ogni aspetto della catena “farm to table”, dal lavoro nei campi alla produzione di mangimi per bestiame, ai processi di trasformazione, confezionamento, trasporto e distribuzione sul mercato. Il Regolamento, con il suo apparato complesso di misure e prescrizioni cui tutti gli Stati menbri dell'Ue avrebbero dovuto adeguarsi negli anni a venire, sostituiva così la precedente Carta sulla sicurezza alimentare, varata nel 2000. E istituiva un organo di controllo indipendente, preposto alla consulenza scientifica, l'Efsa. Per gestire le situazioni di crisi e smistare le procedure d'emergenza, invece, nasceva il sistema di allerta Rasff, con il compito di individuare possibili rischi di contaminazione di alimenti e mangimi immessi sul mercato.

 

Gli obiettivi della Food Law

Il primo obiettivo del documento congiunto, indubbiamente, era quello di favorire la libera circolazione di alimenti sicuri e sani, per contribuire al benessere della comunità, ma pure per agevolare rapporti sociali ed economici sul mercato europeo. Uniformando procedure e principi in materia di alimenti delle singole legislazioni nazionali (e questo, come si è visto in seguito, non sempre a vantaggio delle produzioni tradizionali: basti pensare alla demonizzazione dei formaggi a latte crudo). 65 articoli in tutto per dirimere la nozione di “alimento” e le principali definizioni adottate nel settore, discutere i principi di trasparenza, tracciabilità, gli obblighi del commercio alimentare, circoscrivere i requisiti di sicurezza degli alimenti, regolare l'etichettatura dei prodotti comunitari ed extracomunitari. 15 anni sono trascorsi dall'entrata in vigore del Regolamento, e Bruxelles celebra i traguardi raggiunti lanciando la staffetta agli obiettivi futuri. Insieme, per riflettere sui benefici di questa food policy comunitaria e sui correttivi da adottare per migliorarsi, figure istituzionali e protagonisti del settore, riuniti alla Biblioteca Solvay di Bruxelles, sotto la guida di Vytenis Andriukaitis, responsabile della Commissione per la sicurezza alimentare al Parlamento Europeo. Una tavola rotonda allargata che ha toccato temi quali la fiducia del consumatore, il ruolo della libera concorrenza, la sfida della sostenibilità, il ruolo delle istituzioni.

 

15 anni dopo. Le sfide future

Ma è stata anche occasione per celebrare l'anniversario della Food Law (per l'Italia ha preso parte ai “festeggiamenti” Assolatte, che ricorda come il regolamento abbia favorito la libera circolazione delle merci: solo nel primo anno l'export di formaggi italiani aumentò del 17%). Mentre le nuove esigenze del sistema alimentare comunitario pongono l'Europarlamento a confronto con sfide ulteriori. Le nuove regole per il biologico e l'etichettatura relativa, per esempio, approvate pochi giorni fa dalla Commissione Agricoltura, in vista della ratificazione di un pacchetto che entrerà in vigore solo dopo un lungo iter, dal primo gennaio 2021, per imporre controlli più rigorosi, misure precauzionali anticontaminazione, tutela della biodiversità, disciplina severa delle importazioni. Ancora prima, però, la sfida più attuale coinvolge un novel food difficile da accettare alla luce della cultura gastronomica occidentale: gli insetti.

 

Via libera al consumo di insetti

Dal 1 gennaio 2018 anche l'Italia applicherà il nuovo regolamento Ue sui novel food, che permette la produzione, la vendita e il consumo di insetti commestibili, limitando il range a grilli, vermi della farina, bachi da seta, cimici d'acqua, farfalle delle palme, millepiedi (ma le specie commestibili sono ben 1900). Per molti una lista della spesa degli orrori, nonostante già dal 2013 la Fao sia impegnata in una campagna per promuovere il consumo di insetti, in quanto alimento economico, ecologico e sano (e quindi arma vincente contro la fame e lo spreco di risorse, idriche in primis). In attesa di scoprire come reagirà il mercato italiano, la Finlandia (dove il consumo di insetti è già sdoganato) battezza il primo pane alla farina di grilli, altamente proteica, ricca di vitamine, digeribile, e per questo consigliata dai nutrizionisti. L'idea è di una catena di panetterie molto diffusa nel Paese, la Fazer Bakery Company, che, fa sapere, realizza ogni pagnotta con l'equivalente di 70 grilli secchi. In Italia, invece, chi studia nuove soluzioni accantonando facili pregiudizi culturali è Felicetti, che già da qualche mese sperimenta, in collaborazione con lo chef Luciano Monosilio, una pasta secca realizzata con farina di grilli. Con la benedizione dell'Efsa. 

 

a cura di Livia Montagnoli

Les 100 Chefs 2018. La classifica fatta dagli chef: in testa Michel Troisgros, Enrico Crippa settimo

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Piuttosto sbilanciata a favore della Francia, la classifica del magazine Le Chef fa votare bistellati e tristellati di tutto il mondo per eleggere i colleghi più stimati. Podio alla Francia, col terzo posto di Joan Roca. Primo degli italiani Enrico Crippa, che entra in top 10. 

La classifica degli chef

Una classifica fatta dagli chef. Per gli chef. Quarta edizione per la lista stilata su iniziativa del magazine Le Chef, sommando le votazioni anonime – 5 nomi per ciascuno – di tristellati e bistellati Michelin. Per una graduatoria a dominanza francese sin dalle premesse, dal momento che la Francia conta da sola il doppio delle insegne stellate di ogni altro Paese del mondo (con l'Italia a inseguirla, però premiata soprattutto col macaron singolo, mentre più avare di soddisfazioni sono le categorie superiori). E quindi il peso dei suoi giurati – su 552 votanti complessivi - sarà determinante nel mettere in fila 100 tra i migliori rappresentanti dell'alta ristorazione internazionale, dal più stimato a scendere, in base al numero di preferenze ricevute. Dunque, senza sorprese, un anno dopo l'altro, in vetta alla classifica di Les 100 Chefs si avvicendano i numi tutelari dell'haute cuisine: in principio fu Pierre Gagnaire, poi Michel Bras. L'anno scorso, nel suo periodo di grazia, Alain Passard.

 

Vince Michel Troisgros

Per il 2018 la corona spetta a Michel Troisgros, erede della tradizione paterna alla storica Maison Troisgros di Roanne, recentemente trasferita con il suo patrimonio di ricette e rituali del mestiere nella nuova, suggestiva, sede di campagna di Ouches. La sua è un'ascesa netta: un anno fa era al diciassettesimo piazzamento. Lo segue, sul secondo gradino del podio, Yannick Allenò, mentre a negare la tripletta sul medagliere ci pensa Joan Roca, dalla Catalogna di El Celler de Can Roca. In generale, però, il numero di chef francesi, già nutrito nelle scorse edizioni, sale da 35 (nel 2017) a 41, frutto del “dinamismo della cucina francese”, spiegano i curatori del magazine. In top 10, sette sono i rappresentanti della Francia: oltre ai primi della lista, anche Arnaud Donckele, Pierre Gagnaire, Emmanuel Renaut, Alain Ducasse, Pascal Barbot. E nulla cambia per l'Italia nella classifica per nazioni, che la vede in quinta posizione, dietro a Francia, Giappone e Spagna ex-aequo, USA (ma va molto peggio all'America Latina, rappresentata solo dal brasiliano Alex Atala, mentre Gaston Acurio e Virgilio Martinez spariscono dal radar).

 

Soddisfazione per Enrico Crippa

La ristorazione tricolore, però, mette a segno un bel colpo con l'ottimo piazzamento personale di Enrico Crippa, ammesso nell'Olimpo dei primi 10, con il settimo risultato: nel 2017 era 37esimo, secondo rappresentante per l'Italia dopo Massimo Bottura, che pure sale dal 35esimo al 17esimo piazzamento. In totale sono 9 gli chef che rappresentano l'Italia, uno in più rispetto all'ultima edizione: confermati Massimiliano Alajmo (28), Nadia Santini(33), Heinz Beck (89), Stefano Baiocco (92), entrano ex novo Niko Romito(46), Fabio Pisani e Alessandro Negrini(93), Chicco Cerea (96. Escono Ciccio Sultano e Mauro Uliassi). Ma segnaliamo anche la 79esima posizione dell'italiano Paolo Casagrande, tre stelle appena confermate al Lasarte di Barcellona.

Si contano sulla dita di una mano le donne chef, quattro appena riescono a bucare la cortina dei colleghi, tra loro anche l'italiana (veterana) Nadia Santini, con Anne Sohie-Pic, Dominique Crenn, Elena Arzak: essere donna e (almeno) bistellata, del resto, sembra ancora un'impresa per poche. Primo per gli Stati Uniti, ancora una volta, Daniel Humm(19), campione della Danimarca René Redzepi (16).

 

La Top 10 di Les 100 Chefs 2018

Michel Troisgros – Maison Troisgros (Ouches, Francia)
Yannick Allenò – Allenò Paris (Parigi, Francia)
Joan Roca – El Celler de Can Roca (Girona, Spagna)
Arnaud Donckele – Residence de la Pinede (Saint Tropez, Francia)
Pierre Gagnaire – Restaurant Pierre Gagnaire (Parigi, Francia)
Emmanuel Renaut – Flocons de Sel (Megeve, Francia)
Enrico Crippa – Piazza Duomo (Alba, Italia)
Pascal Barbot– L’Astrance (Parigi, Francia) 
Seiji Yamamoto – Nihonryori Ryugin (Tokyo, Giappone)
Alain Ducasse – Plaza Athenée (Parigi, Francia)

 

La lista completa 

 

a cura di Livia Montagnoli


I migliori 10 prosciutti Umbri. Igp o non Igp, l’importante è la qualità

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Due classifiche per una top ten bifronte che abbraccia le migliori espressioni del prosciutto umbro: 6 Norcia Igp e 4 crudi “di montagna” di filiera regionale con un originale fuoriclasse. Tutti caratterizzati da un gusto sapido e rustico. Preparate pane sciapo e un buon vino rosso giovane: la degustazione comincia!

Dall'Antica Roma a Norcia sono nate generazioni di macellai ed esperti nei prodotti della maialata, legando storicamente la città di San Benedetto alla trasformazione delle carni suine. E se oggi norcino è, per definizione, colui che produce e vende i salumi, da Arnad a Sant'Angelo in Brolo, tuttora a Norcia e hinterland ci sono aziende specializzate che portano avanti la tradizione. A questa zona ombelico della salumeria italiana, danneggiata dal terremoto che un anno fa ha sconvolto il centro Italia, abbiamo voluto rendere omaggio nella classifica mensile attraverso il prodotto più nobile del maiale: il prosciutto.

Norcia Igp e crudo di montagna

La degustazione comparativa prende in esame il prosciutto di Norcia, il classico crudo dalla caratteristica forma a pera panciuta, rusticotto, tirato e sapido, che - come vuole il discipinare dell'Igp - viene prodotto a Norcia, Preci, Cascia, Monteleone Spoleto e Poggiodomo nei territori situati a oltre 500 metri d'altezza, utilizzando cosce di suini pesanti (senza nessuna indicazione sulla provenienza, quindi anche dall'estero, non solo da allevamenti italiani), con stagionatura non inferiore ai 12 mesi. Ma abbiamo voluto dare voce a tutte le migliori espressioni del prosciutto prodotto in Umbria, anche a quelle prive di certificazione.

Ne è uscita fuori una top ten con doppia classifica: Norcia Igp, con 6 classificati, ecrudi riserva di filiera umbra. In quest'ultima abbiamo un poker d'assi dove la regione cuore verde d'Italia la fa da padrona, dalla materia prima alla lavorazione, alla stagionatura (tranne un caso, comunque in Italia centrale), dove l'assenza di certificazione, anche in crudi prodotti a Norcia, è una precisa scelta aziendale per non avere i lacci e i lacciuoli imposti dal disciplinare ma in vista della qualità. Come i grandi Supertuscan orgogliosamente “vini da tavola”.

In entrambe le classifiche, i prosciutti sono quelli tipici dell'Italia centro-meridionale, rustici e saporiti. Gustateli con pane sciapo: perfetto quello di Terni lievitato con pasta madre, straordinario quello di Stroncone (e Strettura), un Terni antica maniera.

 

L'abbinamento

Abbiamo chiesto ad Antonio Boco, nome di punta nel team dei nostri degustatori per la guida Vini d'Italia cosa abbinare ai prodotti presi in esame. La risposta è stata chiara: “Basta pensare alle caratteristiche più rilevanti dei prosciutti umbri per capire al volo quali vini della regione possono essere stappati e quali lasciati in cantina. L’abbinamento non è una scienza esatta (vale la pena ribadirlo) ma è anche vero che i toni sapidi, a tratti salati di questi prosciutti, spesso accompagnati da note speziate decise, consigliano di evitare sia bianchi molto carichi che rossi molto tannici”. Ci spiega, Antonio, che in questi casi il rischio di un eccesso di code amare e spiacevoli cenni metallici è dietro l’angolo. Quali bottiglie scegliere, dunque? “Tra i bianchi suggeriamo dei Trebbiano Spoletino con qualche mese di affinamento sulle spalle: vini dal tratto verticale e acido di livello superiore, almeno rispetto alla media di queste latitudini, capaci di pulire la bocca bilanciando il sapore deciso del coscio stagionato, reggendo peraltro il confronto sul piano aromatico”. E se volessimo un rosso? “L’ideale è rappresentato da vini morbidi, freschi ma poco spigolosi sul piano fenolico. Dirigiamoci sicuri, allora, dalle parti del lago Trasimeno dove il locale Gamay (in realtà una grenache) offre bottiglie semplici quanto golose, immediate e seriche, senza increspature tanniche rilevanti. L’alternativa è rappresentata dal Ciliegiolo di Narni (magari nelle versioni che non conoscono affinamenti in legno) in cui vengono preservate la purezza del frutto e la delicata trama pepata che distingue la varietà”. E perché no una bollicina, specialmente come aperitivo. Molte sono le cantine, ormai, che si cimentano con i Metodo Classico, ma alcune etichette sono prodotte da anni non sospetti. Un consiglio? “Cercate dalle parti di Stroncone, nel ternano, vicino a Orvieto o Torgiano. Non ve ne pentirete”.   

 

La classifica

Tranne le prime classificate, le altre aziende sono in ordine alfabetico. I prezzi sono quelli medi al dettaglio

 

Norcia Igp

 

Ansuini

Antica Norcineria F.lli Ansuini

Nome storico a Norcia in fatto di salumi, con due realtà concorrenti. L'Ansuini in questione è l'azienda più grande, con sede a viale della Stazione. Da qui proviene la massima espressione del Norcia Igp in batteria, un prosciutto emozionale e d'altri tempi, campione di classicità, bellezza e gusto. Ottenuto da cosce di suini pesanti allevati in Italia e stagionato 16-18 mesi, ha una faccia perfetta, colorita e succosa, con un generoso strato di grasso roseo che avvolge il magro di colore rosso aranciato e ben marezzato. Bocca e naso richiamano tutta la rosa aromatica di un buon prosciutto: animale “gentile”, carne stagionata, cuoio, sentori di frutta secca giovane appena tostata (mandorla, nocciola), note floreali. La sapidità c'è ma si avverte solo all'inizio e compensata da un'avvolgente dolcezza. La struttura solubile e cremosa completa un morso da provare e riprovare.

Prezzo al kg 24 euro

Antica Norcineria F.lli Ansuini | Norcia (PG) | v.le della Stazione | tel. 0743 828604 - 0743 816809 | www.ansuininorcia.com

Poggio San Giorgio

Poggio San Giorgio - Riserva Casa Norcia

Un altro prosciutto di Norcia da podio. A oltre 900 metri d'altezza i fratelli Daniele e Alessandro Perticoni producono l'Igp (e selezioni speciali del crudo) da cosce di suini pesanti italiani, con aggiunta di pepe e poco aglio (solo alla prima salatura), stagionato 16/18 mesi. Bellissima la fetta succosa, con il muscolo rosso intenso aranciato attraversato da una marezzatura fitta e diffusa e avvolto da un candido abbraccio spesso e compatto. Il naso è suadente e gentile quanto caratteristico, con l'elemento animale evoluto e stagionato, la frutta secca giovane leggermente tostata e accenti floreali. La bocca mette in evidenza un grasso lievemente vintage ma accompagnato dalle affascinanti sensazioni olfattive, una sapidità giusta che incontra la dolcezza del grasso, una texture solubilissima.

Prezzo al kg 26 euro

Poggio San Giorgio - Riserva Casa Norcia | Norcia (PG) | fraz. Agriano via San Luca | tel. 0943 817794 - 0743 822142 | www.poggiosangiorgio.it

 

Lanzi

Rapporto qualità/prezzo

Lanzi

Un Norcia Igp da podio, ottenuto da cosce di allevamenti italiani e distribuito non prima di 14 mesi di stagionatura. Caratteristico fin dall'aspetto, con il magro rosso rubino accompagnato da una buona percentuale di grasso all'esterno e soprattutto all'interno. Il naso è interessante ed evocativo: esprime le giuste note animali, ingentilite da quelle floreali e fruttate di frutta secca leggermente tostata, con l'elemento primario un po' rustico e forse un po' indietro nella stagionatura ma preciso. La bocca conferma il naso e si arricchisce di una sapidità persistente, che si avverte soprattutto nel retrogusto, insieme a una lieve nota metallica e vintage. Nel complesso equilibrato e dolce nonostante la sapidità importante. Da gustare rigorosamente con pane sciapo.

Prezzo al kg 20-22 euro euro

Lanzi | Norcia (PG) | loc. Santa Scolastica, 1 | v.le della Stazione, 38 | tel. 0743 816119 - 0743 816076 | www.lanzisrl.it

 

Cataldi

Patrizi Prosciutti - Casa Cataldi

Patrizi-Casa Cataldi è uno dei salumifici che più di altri hanno subito l'insulto del recente terremoto dell'Italia centrale. “Abbiamo dovuto chiudere lo stabilimento di Frascaro, ci siamo momentaneamente trasferiti ad Agriano in un prosciuttificio in disuso” spiega Agostino Cataldi. Forse per questo il crudo assaggiato, pur fatto con le migliori intenzioni – solo cosce di suini pesanti allevati in Italia, pepe e aglio nella concia, stagionatura di almeno 16 mesi – non ha raggiunto i livelli che ci aspettavamo da un prosciutto presente nel segmento di nicchia ed è risultato piuttosto giovane, come confermano gli step della degustazione. Il muscolo ben marezzato, abbracciato da uno spesso strato di grasso rosato perlaceo e punteggiato dai gessetti di tirosina, si presenta di colore rosso rubino vivo e acceso. Ricordi ematici, brezze salmastre, sentori animali non evoluti e una struttura un po' fibrosa testimoniano una carne non del tutto trasformata. Ma ci sono anche buone e giuste le note di frutta secca e una dolcezza che smorza la sapidità.

Prezzo al kg 18,60/21 euro

Patrizi Prosciutti - Casa Cataldi | Norcia (PG) | sede legale: fraz. Frascaro | sede operativa: fraz. Agriano | tel. 0743 829329 - 335 6544393 | www.patrizinorcia.com

 

Renzini

Renzini - Lui

Lo storico salumificio di Montecastelli-Umbertide ha un prosciuttificio specifico per il Lui, il prosciutto di Norcia Igp e fiore all'occhiello di Renzini. Cosce di suino pesante nato, allevato e macellato in Italia, lavorazione manuale, 4% di sale, stagionatura di almeno 18 mesi a quota mille metri, un cappottino di pepe rosa in grani che ricopre la sugnatura. La sapidità è molto controllata, dettaglio più unico che raro per un prosciutto umbro. Il grasso è piacevole e preciso, la consistenza abbastanza solubile. Peccato un eccesso di gioventù, di stagionatura un po' indietro, come dimostrano il colore rosso vivo un muscolo, comunque ben marezzato e circondato da una spessa coltre di grasso niveo virato al rosa, e da un'aromaticità molto delicata dominata da sentori salmastri, ematici e metallici.

Prezzo al kg 28/35 euro

Renzini – Lui | Norcia (PG) | loc. Fontevena, 87 | tel. 075 9418600 | www.renzini.it

 

Valle Oblita

Valle Oblita

Cosce di suini nazionali, sale marino, pepe e aromi naturali per il Norcia Igp del prosciuttificio Valle Oblita, stagionato 14 mesi ad aria naturale a mille metri d'altezza su un'altura che domina la Valle Castoriana. Nell'aspetto è il classico prosciutto di montagna tirato e magro, sia all'interno che all'esterno del muscolo, che rimane un po' asciutto. Anche il naso richiama le caratteristiche note salmastre del “pregiutto” rustico, con grasso leggermente vintage e note di frutta secca (soprattutto noce), più richiami ematici, metallici e appena allappanti. Al palato la sapidità tende a dominare il gusto e a coprire gli aromi, che comunque evocano l'uso di buone carni.

Prezzo al kg 28/30 euro

Valle Oblita | Preci (PG) | loc. Montaglioni | tel. 0743 99163 | www.valleoblita.it

 

Crudo stagionato

Rustici

Il Sentiero del Gusto dei F.lli Rustici - Prosciutto crudo stagionato

Un signor prosciutto crudo stagionato, sul banco di gastronomie di nicchia. Si classifica primo per l'equilibrio, la tipicità e la struttura meravigliosa, morbida, succosa e omogenea: un petalo di carne che si scioglie in bocca. Le cosce provengono dall'allevamento che i fratelli Rustici hanno nella propria dell'azienda agricola vicino ad Assisi, dove i suini vivono allo stato brado alimentati in modo naturale; a un anno di età e a 180-200 chili di peso vengono macellati quindi le cosce vengono affidate a salumifici partner per la lavorazione e la stagionatura (quello degustato proviene dalla Gam di Montefiascone, stagionato 16 mesi). La concia prevede pepe e un po' d'aglio macerato nel vino. La fetta è quella del tipico prosciutto rustico stagionato, con il magro rosso intenso acceso attraversato da una buona marezzatura e circondato da uno spesso strato di grasso bianco rosato. Il profumo salmastro ricco di sentori animali puliti e di frutta secca tostata (mandorla in primis) fa pendant con una bocca bilanciata nel gusto e negli aromi, con una leggerissima nota ematica che si annuncia già al naso.

Prezzo al kg 45-50 euro

Il Sentiero del Gusto dei F.lli Rustici - Prosciutto crudo stagionato | Assisi (PG) | via Biagiano, 34 (via San Pietro Campagna) | tel. 075 816365 | www.ilsentierodelgusto.it

 

Poggio San Giorgio

RAPPORTO QUALITà/PREZZO

Poggio San Giorgio - Peduccio de Frate Ginepro

Se il Norcia Igp è un buon prosciutto crudo, il Peduccio de Frate Ginepro, fiore all'occhiello di Poggio San Giorgio, è un fluoriclasse. Un "pregiutto" figlio di cosce fresche di 15-16 chili provenienti da maiali di filiera certificata umbra, dalla nascita alla macellazione, condito con aglio, pepe e vino sia alla prima che alla seconda salatura, stagionato 18/20 mesi e ricoperto da sugna scura a base di ginepro macinato. La faccia è rusticotta, un generoso strato di grasso niveo che avvolge un muscolo piuttosto magro di tonalità rosso bordeaux, più scuro e asciutto sul lato della sugnatura. Il naso è di nobile prosciutto montanaro, con esuberanti sentori di animale buono e di carne stagionata (cuoio, stalla pulita), di frutta secca giovane appena tostata (soprattutto nocciola) e appena un ricordo ematico che invece di rovinare la festa al crudo gli dà carattere. La bocca è equilibrata, con una bella dolcezza che incontra una sapidità al giusto grado. Grasso quasi cremoso.

Prezzo al kg 24 euro

Poggio San Giorgio - Peduccio de Frate Ginepro | Norcia (PG) | fraz. Agriano via San Luca | tel. 0943 817794 - 0743 822142 | www.poggiosangiorgio.it

Ansuini Mastro Peppe

Antica Norcineria Fratelli Ansuini di Mastro Peppe - Casareccio di Mastro Peppe

È l'Ansuini di piccole dimensioni, con laboratorio e bottega nel centro storico di Norcia, vicino alla basilica di San Benedetto buttata giù dal terremoto un anno fa. Il Casareccio di Mastro Peppe è un crudo non certificato prodotto da Ansuini di via Anicia (che fa anche quello Igp) con cosce di suini di filiera umbra, allevati a Norcia dall'azienda agricola Fratelli Funari, con salatura a mano e stagionatura in cantine naturali, invecchiato 28 mesi. Un prosciutto serio, pulito, lineare, caratteristico, lavorato bene e con buona materia prima, aromi e spezie. Fettona verace di tonalità rosso rubino acceso, con uno spessore di grasso rosato non troppo alto ma con una fitta marezzatura che si insinua in tutto il muscolo. Il bouquet, di media intensità, è molto interessante con le consuete note di animale “buono”, sano e pulito, di frutta secca leggermente tostata e un ricordo vegetale e floreale che richiama il fieno ricco di essenze, più una lieve punta ematica. La sapidità è un po' alta, forse dovuta alla presenza di poco grasso all'esterno della fetta. Ottima texture. Da gustare rigorosamente con pane senza sale.

Prezzo al kg 27 euro

Antica Norcineria Fratelli Ansuini di Mastro Peppe - Casareccio di Mastro Peppe | Norcia (PG) | via Anicia, 105 | tel. 0743 816643 - 338 1476143 | www.norcineriaansuini.it

David Salumi

David Salumi - Nonno Moro

Un prosciutto particolare, che ha diviso il panel e per qualcuno da primo posto. La pervasività degli aromi, l'intenso sentore di aglio e dei condimenti aggiunti nella concia rendono il prosciutto Nonno Moro un fuoriclasse, poco coerente con il tipico crudo umbro. Ma è lo stile di tutti i prodotti David Salumi. Filiera rigorosamente umbra, dalla provenienza delle cosce (di suini pesanti allevati nella regione, macellati al raggiungimento dei 180 chili) alla lavorazione artigianale e alla stagionatura (circa 22-24 mesi) nell'alta collina ternana ai piedi del Monte Peglia, a circa 600 metri d'altezza. Faccia bellissima, larga, rustica e rubiconda, “avvinazzata”, con un fitto reticolo di grasso che attraversa il muscolo rosso bordeaux, affiancata da un'alta coltre di grasso bianco rosato. Il kobe del prosciutto! Il naso, all'inizio gentile, si fa via via intenso e persistente ed esprime un mondo: animale buono, carne stagionata, frutta secca “fresca” tostata, l'aglio e il pepe della concia (tra gli ingredienti insieme a sale, aceto ed E252), macchia mediterranea, cantina. In bocca le cose si complicano: l'aglio ritorna per qualcuno con troppa prepotenza e in modo stucchevole, per altri deliziosamente, lasciando comunque spazio agli altri aromi e a un gusto equilibrato tra sapidità e dolcezza. Consistenza solubile e di grande masticabilità. Gustatelo rigorosamente accompagnato con il pane sciapo, che diluirà il gusto e il profumo “esagerati” del Nonno Moro.

Prezzo al kg 40/50 euro

David Salumi - Nonno Moro 
| San Venanzo (TR) | via IV Novembre, 147 | tel. 075 875268 | www.davidisalumi.it

 

I prezzi sono quelli medi al dettaglio

Tranne le prime classificate, le altre aziende sono in ordine alfabetico

 

a cura di Mara Nocilla

 

Gambero Rosso di novembre. Un numero tutto rinnovato che potete trovare in edicola o in versione digitale, su App Store o Play Store. Abbonamento qui http://www.gamberorosso.it/it/store/abbonamenti

 

 

Guida Identità Golose 2018. E la Miglior food writer dell'anno è Annalisa Zordan, del Gambero Rosso

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Presentata all'Excelsior Hotel Gallia di Milano la nuova edizione della Guida ai Ristoranti d'Italia, Europa e Mondo di Identità Golose, online e in costante aggiornamento. Oltre 1000 indirizzi, 11 Storie di Gola, 13 Giovani Stelle. Grande orgoglio per Annalisa Zordan, Miglior food writer dell'anno. 

Gli indirizzi di Identità Golose

1912 risposte per mangiare in Italia e nel mondo. L'undicesima edizione della guida di Identità Golose, presentata oggi a Milano, mette in mostra cifre e protagonisti di un lavoro costante e continuo, forte (da tre anni ormai) di una piattaforma online gratuita e sempre in aggiornamento. Progetto satellite del congresso gastronomico che oltre 10 anni fa proiettava l'Italia degli addetti ai lavori tra i palcoscenici di peso della scena internazionale, la Guida ai Ristoranti d'Italia, Europa e Mondo curata da Paolo Marchi e Claudio Ceroni, con il fondamentale supporto di Gabriele Zanatta - e ben 98 collaboratori a firmare le schede - è cresciuta nel tempo con l'idea di restituire un quadro fortemente identitario (e per questo non necessariamente onnicomprensivo) della situazione ristorativa italiana e internazionale. Sono 907 le insegne recensite (al momento della presentazione) per il 2018, 645 gli indirizzi italiani, 68 le pizzerie. Ma alle schede si aggiungono i percorsi d'autore delle Storie di Gola, 11 racconti gastronomici divisi per città a firma di penne autorevoli e bendisposte a condividere suggerimenti e trucchi del mestiere, sommando così altri 170 indirizzi al computo totale (e pure gli 835 consigli degli chef). E poi ci sono i premi, 13 riconoscimenti speciali per chi durante l'anno si è particolarmente distinto nel proprio mestiere, le cosiddette Giovani Stelle.

 

Le Giovani Stelle

Ancora una soddisfazione, dopo la stella conquistata appena qualche giorno fa, per Matias Perdomo, che con Simon Press, suo braccio destro nella cucina di Contraste (Milano) vince il premio come Miglior Chef. La migliore nella compagine al femminile, invece, è Marta Scalabrini, chef patronne di Marta in Cucina, a Reggio Emilia. Gli stranieri sulla cresta dell'onda, vincitori del titolo assegnato al miglior chef internazionale (che per l'occasione si fa in tre), sono Mateu Casanas, Eduard Xatruch e Oriol Castro, i tre deus ex machina di una delle insegne più attenzionate degli ultimi mesi, Disfrutar a Barcellona. E si prosegue con i riconoscimenti al (ai) miglior sous chef – Davide di Fabio e Takahiko Kondo, colonne portanti dell'Osteria Francescana di Massimo Bottura – al miglior chef pasticcere Ascanio Brozzetti, alla miglior sommelier Ramona Ragaini, e alla rispettiva controparte maschile, Manuele Pirovano, al miglior maitre Mario Vitiello. Poi i premi speciali per la birra in cucina, Michelangelo Mammoliti de La Madernassa, il cestino del pane – il migliore è quello dell'Imago di Francesco Apreda – la sorpresa dell'anno, Federico La Paglia del Sikelaia di Milano.

 

La miglior food writer è Annalisa Zordan

Ma il riconoscimento che più ci inorgoglisce, perché è tutto il gruppo che lo riceve con grande soddisfazione, è quello per il Miglior Food Writer dell'anno, Annalisa Zordan, dal 2012 in forze al Gambero Rosso. Questa la motivazione del premio: “È premiata per la scelta di temi e storie sempre originali, espresse attraverso un punto d’osservazione inconsueto e un ricco vocabolario”, con l'aggiunta importante, sul palco dell'Excelsior Hotel Gallia, di Paolo Marchi: “Tutti hanno nostalgia del passato del Gambero, adesso non ne abbiamo più motivo visto il grande lavoro che stanno facendo”.

 

www.guidaidentitagolose.it

 

a cura di Livia Montagnoli

Mostra Mercato FIVI 2017. I nostri 10 assaggi dai vignaioli indipendenti

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La settima edizione della Mostra Mercato dei Vignaioli Indipendenti si è conclusa con numeri record: oltre 15mila visitatori, con un incremento di 6mila presenze. E 3mila etichette in degustazione. Ecco le 10 che ci hanno colpito di più.

FIVI 2017. I numeri della settima edizione della Mostra Mercato dei Vignaioli Indipendenti

Numeri da record per la settima edizione dellaMostra Mercato dei Vignaioli Indipendenti, che si è tenuta a Piacenza il 25 e 26 novembre. Hanno aderito all’iniziativa 510 vignaioli con circa 3mila etichette in degustazione. Il pubblico ha risposto in massa con oltre 15mila presenze in due giorni, 6mila in più rispetto allo scorso anno. Se pensiamo che alla prima edizione del 2011 parteciparono 208 produttori e 2.600 visitatori, ci rendiamo conto di quanto sia cresciuta d’importanza la manifestazione.

 

Fin dalle prime ore di sabato mattina, i padiglioni della Fiera di Piacenza sono stati invasi da appassionati del mondo del vino. Le corsie degli stand si sono ben presto affollate, non solo di calici da degustazione, ma anche di carrelli da supermercato. Sì, perché una delle caratteristiche della Mostra Mercato FIVI, è la possibilità di acquistare direttamente dai produttori i vini appena assaggiati. I prezzi promozionali, l’opportunità di parlarne con i titolari delle aziende, sicuramente contribuiscono a creare un’atmosfera di fiducia e simpatia, che invoglia all’acquisto. In un mondo sempre più dominato da un mercato globalizzato e standardizzato, tra gli appassionati del vino sembra crescere sempre più il desiderio di avvicinarsi ai piccoli produttori, per riscoprire il valore autentico del territorio. Forse è proprio questo rapporto diretto e personale uno dei principali motivi di successo della Mostra Mercato di Piacenza. Matilde Poggi, presidente FIVI, spiega così il risultato positivo della manifestazione: “Siamo convinti che il successo crescente del Mercato sia la diretta conseguenza della credibilità che ci stiamo guadagnando a livello istituzionale, in Italia come in Europa. Abbiamo le scarpe grosse e il cervello FIVI, le mani nella terra e la testa rivolta a una causa comune”.

Logo Fivi

FIVI: una storia di successo

La Federazione Italiana Vignaioli Indipendenti è nata nel 2008 e già si pensa all’edizione 2018 della Mostra Mercato per festeggiare il decennale. La FIVI raccoglie i vignaioli che coltivano direttamente le vigne, producono il vino con le proprie uve, imbottigliano e vendono il vino con il proprio nome in etichetta. Un insieme di produttori che ben rappresentano il panorama enologico italiano, costituito da molte piccole realtà, che con il loro lavoro portano avanti la storia e le tradizioni del territorio. La realtà produttiva italiana è infatti caratterizzata da molte piccole aziende di carattere familiare, che hanno trovato una casa proprio nella Federazione.

La FIVI è l’espressione di un mondo del vino che conserva ancora un profilo artigianale, fedele ai concetti d’autenticità e tipicità, che molti consumatori stanno riscoprendo come valori importanti. I produttori associati alla FIVI sono poco più di 1.100, in rappresentanza di tutte le regioni italiane, per un totale di circa 11mila ettari di vigneto, con una media di circa 10 ettari vitati per azienda agricola. Quasi 80 sono i milioni di bottiglie commercializzate e il fatturato totale si avvicina a 0,7 miliardi di euro, per un valore in termini di export di 280 milioni di euro. Gli 11mila ettari di vigneto sono condotti per il 51% in regime biologico/biodinamico, per il 10 % secondo i principi della lotta integrata e per il 39% secondo la viticoltura convenzionale.

 

I vini in degustazione

Il numero di vini in degustazione ha ovviamente imposto delle scelte. Quest’anno abbiano privilegiato un percorso di assaggi orientato ai vini prodotti con vitigni autoctoni, spesso da piccole realtà che ben rappresentano lo spirito di una manifestazione come la Mostra Mercato di Piacenza. Ecco i dieci vini, non necessariamente più buoni o famosi, ma più originali e interessanti che ci sono particolarmente piaciuti.

 

Metodo Classico Brut Donna Grazia di Guerrieri

Famosa da anni per il Cerasuolo di Vittoria e per il Frappato, la Cantina Guerrieri ci ha piacevolmente stupito con un Metodo Classico. Un Blanc de Noirs prodotto con uve nero d’Avola (60%) e frappato (40%) coltivate sulle colline dei Monti Iblei, in provincia di Ragusa. Affinato sui lieviti per 24 mesi, regala freschi aromi di ribes, lampone e agrumi. Al palato è cremoso, di buona struttura, con note fruttate ben equilibrate da vivace acidità.

 

Erbaluce di Caluso Brut M. Cl. '14 di Ilaria Salvetti

Il vitigno erbaluce sorprende sempre per la sua duttilità. Dalle sue uve si producono vini fermi, passiti e interessanti spumanti. Il Metodo Classico di Ilaria Salvetti si affina per 30 mesi sui lieviti e grazie a un dosaggio molto basso, porta in primo piano la freschezza e la raffinata finezza dell’erbaluce, con delicate note floreali e agrumate.

 

Derthona Timorasso Costa del Vento '13 Vigneti Massa

Non delude il “profeta” del Timorasso Walter Massa, che con il suo Costa del Vento 2013 ci regala un grande vino. Bouquet intenso e complesso, con note di susina, scorza d’agrumi, cenni balsamici, sentori di resina e idrocarburo. Al palato è ricco e profondo, attraversato da una tensione acida che rende il sorso dinamico e appagante.

 

Trebbiano Spoletino Trebium '16 Antonelli San Marco

Il Trebbiano Spoletino è un bianco di grandi potenzialità, che finalmente comincia a essere giustamente valorizzato da alcuni produttori umbri. Molto buono il 2016 di Antonelli San Marco, che fermenta in botti di rovere e matura sulle fecce fini per 6 mesi prima d’essere imbottigliato. Al naso esprime aromi freschi di fiori bianchi e agrumi. Il sorso, sostenuto da una tensione acida sempre vibrante, si distende su note di frutta bianca e maturi aromi tropicali.

 

Albana di Romagna Sânta Lusa '13 Ancarani

Sânta Lusa è un’Albana intensa e suadente, che nasce da uve leggermente surmature. Dopo una fermentazione sulle bucce di un paio di settimane, si affina in vasche di cemento per oltre un anno. Il risultato è un vino dai riflessi dorati, con aromi di frutta gialla matura, scorza d’agrumi, cenni di miele, ricordi di resina di pino e finale con lieve sensazione tattile di ruvidità tannica.

 

Etna DeAetna Rosato '16 Terra Costantino

È di rara finezza il rosato di Terra Costantino, prodotto in Contrada Blandano sul versante sud-est dell’Etna, con uve nerello mascalese (90%) e nerello cappuccio (10%). Il colore è un bellissimo rosa antico pallido, frutto di una semplice pressatura soffice delle uve, con aggiunta di una piccola parte fatta brevemente macerare in vasca. I profumi sono freschi e raffinati, con note floreali, d’agrumi e melograno. Il sorso è sottile ed elegante, fresco e sapido.

 

Brecciaro Ciliegiolo di Narni '15 di Leonardo Bussoletti

All’impegno di Leonardo Bussoletti si deve molto della riscoperta del Ciliegiolo di Narni. Un vino rosso piacevolissimo nella sua semplice immediatezza espressiva. Si affina per il 70% in acciaio e per il restante 30% in botte grande per circa un anno. Un calice dai profumi fragranti di ciliegia e piccoli frutti a bacca rossa, l’aroma è fruttato, morbido e fresco.

 

Lacrima di Morro d’Alba Bastaro '16 Tenuta San Marcello

Un altro rosso particolare, profumato e suadente, è il Lacrima di Morro d’Alba. Nasce dall’omonimo vitigno autoctono marchigiano, coltivato solo nel territorio collinare di sei piccoli comuni in provincia di Ancona. Affinato solamente in acciaio, conserva intatti i profumi primari di rosa, ribes e mora. Il sorso è morbido e leggermente aromatico, con note di frutti di bosco, tessitura tannica sottile e piacevole freschezza finale.

 

Volere Volare Primitivo '15 Pietraventosa

Volere Volare èuna versione di Primitivo che riconcilia con questo grande vitigno pugliese, troppo spesso vinificato con eccessive estrazioni e surmaturazioni, che lo rendono pesante, eccessivamente morbido e alcolico. Nasce sui terreni calcarei di Gioia del Colle questa elegante e fresca interpretazione del primitivo, che porta in primo piano la fragrante delicatezza del frutto, con tannini leggeri e finale rinfrescante.

 

Pepe Nero Vermentino Nero '15 di Castel del Piano

Chiudiamo con una rarità. Il vermentino nero in passato era un vitigno molto presente in Lunigiana, ma è stato progressivamente abbandonato per la sua buccia delicata, che lo rende difficile da coltivare. È merito dell’Azienda Castel del Piano aver conservato una vigna di questa interessante uva autoctona. Il vino è affinato solo in acciaio per esaltare gli aromi croccanti di piccola frutta rossa, impreziositi da sentori di macchia mediterranea e da note speziate con pepe nero in bella evidenza.

 

a cura di Alessio Turazza

foto di StudioCru

 

 

Novità a Roma. Un giovane talento per Giulia Restaurant, la cucina di Max Mariola a Prati. Aspettando Igles Corelli

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Da Tivoli al cuore di Roma, il giovane Pierluigi Gallo – scuola Niko Romito – ha trovato una nuova casa. Intanto, a Prati, si appresta ad aprire Stilelibero, con la consulenza in cucina di Max Mariola. E da Eataly Ostiense arriva il mare di Ponza, con Orestorante. Dai primi giorni di dicembre, però, occhio anche a largo Argentina: aprono Le Mercerie di Igles Corelli. E tanti altri suggerimenti per mangiare nella Capitale.  

Cosa succede a Roma in vista delle feste? Che la scena gastronomica locale, recentemente premiata da prime stelle pesanti (ma che dire, per contro, di alcune eccellenze lasciate ferme al palo da anni?), si avvicina in grande spolvero al periodo natalizio. Del resto le nuove aperture in città non sembrano conoscere tregua, e a onor di completezza ci piace annoverare nel computo delle novità anche i cambiamenti che ambiscono a fare la differenza.

 

Giulia Restaurant, con Pierluigi Gallo

Si fa un gran parlare, per esempio, del progetto Giulia Restaurant, già da qualche mese avviato nel cuore di Roma – proprio sul rettifilo di via Giulia, stretto tra il giardino di Palazzo Farnese e il lungotevere dei Tebaldi – dall'imprenditore Carlo Maddalena. Il motivo è presto detto: dopo l'addio repentino al ristorante Greg (che a Tivoli era riuscito a farsi notare nel giro di pochi mesi), il giovane Pierluigi Gallo rientra in cucina per cominciare una nuova avventura che genera molte aspettative. Per il suo curriculum, in primis, che lo vede legato alla scuola di Niko Romito. E per la personalità maturata nel tempo, supportato da un bagaglio di conoscenze classiche importante, dalla padronanza delle tecniche di cucina, dalla freschezza nel maneggiare ingredienti del territorio e mediterranei. Giulia Restaurant, peraltro, è un percorso a tutto tondo nell'arco della giornata – comprese tre camere per gli ospiti, tra cui la suite quadrupla con terrazzo – con l'offerta di caffetteria al mattino, la proposta veloce per pranzo (anche menu degustazione, 4 portate a 35 euro), il bancone in legno fulcro dall'area cocktail bar, fino al dopocena. Il momento migliore per sperimentare la cucina di Gallo, però, è la cena, supportata in sala dall'esperienza del maitre sommelier Antonello Manias; in tavola, quaglia, uva, cicoria e camomilla, gli gnocchi ripieni di spuntature, puntarelle e alici, lo Spaghettone Gentile ricci e cannolicchi, il pannicolo fondente, cavolfiore e mandarino. La domenica, invece, l'offerta vira sul brunch. In tutto 45 coperti, ricavati nello spazio ripensato all'interno di una palazzina che porta la firma di Marcello Piacentini, con 4 grandi vetrate su via Giulia, e accesso diretto dal lungotevere. Dalla prossima primavera, si potrà cenare anche in terrazza, 10 coperti con vista sulla città.

Foto di Lucilla Loiotile

Stilelibero con la cucina di Max Mariola

Dall'altra parte del Tevere, zona Prati, invece, si appresta ad aprire (dal 4 dicembre) Stilelibero. Il progetto, stavolta una novità a tutto tondo, scommette sull'accoppiata musica dal vivo e proposta gastronomica d'autore, con la firma di Max Mariola in cucina (i fedelissimi di Gambero Rosso Channel lo conoscono bene, tra i volti storici del canale), per un club con ristorante da vivere fino a tarda notte. Il design degli interni - con lo spazio destinato alle esposizioni temporane, il bel bancone del cocktail bar, la cantina a vista e la sala da 30 coperti affacciata sulla cucina - è di Tommaso Guerra; la cucina articola un menu di respiro internazionale, con ingredienti del territorio (e non solo, dalla battuta di carne piemontese con uova di quaglia al Jamon de Bellota servito con pane e pomodori del Piennolo, uso spagnolo). La domenica il pranzo in famiglia, e sempre disponibile al bar una carta di snack, club sandwich, taglieri di formaggi. Si apre tutti i giorni, dalle 16 alle 2.

 

Il mare di Ponza da Eataly, il ramen di Akira al Mercato Centrale

Tornando ai cambi in corsa, qualche ventata d'aria fresca si segnala in due dei poli gastronomici più in vista della città, accomunati dall'intenzione di riunire un gran numero di eccellenze sotto lo stesso tetto. Al terzo piano di Eataly Ostiense, nel ristorante che fu di Spazio (fino alla scorsa primavera), da qualche mese si avvicendano belle storie della ristorazione italiana. Ora, e probabilmente fino a gennaio, è il turno di Orestorante, storica insegna dell'isola di Ponza, e progetto di vita di Oreste Romagnolo. La cucina, chiaramente, verte sui prodotti del mare che lo chef patron conosce tanto da vicino; il menu è un insieme verace di piatti sinceri, legati a cotture tradizionali, che valorizzano gli ingredienti. A curare la cantina la spalla di sempre, Valentina, la moglie di Oreste.

Da uno scalo ferroviario all'altro della città, con una lista di botteghe d'eccellenza e un piano riservato alla ristorazione d'autore firmata Oliver Glowig, il progetto Mercato Centrale, dell'imprenditore Umberto Montano, ha compiuto da pochi mesi un anno di vita. L'ultimo arrivato nella food court è il ramen, lo street food nipponico per antonomasia, per la precisione, quello di Akira Yoshida, trentenne arrivato in Italia 13 anni fa e approdato nella Capitale nel luglio del 2016, in via Ostiense, dove ha portato la sua versione del ramen tradizionale declinata in diverse varianti. Porzioni abbondanti, prezzi competitivi: lo staff di Akira al Mercato proporrà ricette ormai popolari come il ramen Black Shoyu, il White Shio, più delicato, lo speziato Red Spicy e gli onigiri cucinati sul momento con tanti ripieni diversi.

 

Colazioni d'autore nel quartiere Africano

Per la pausa caffè, invece, da settembre gli amanti dell'oro nero possono fare affidamento su un nuovo indirizzo nel cuore del quartiere Africano, una zona insolita e ancora poco battuta in fatto di bar di qualità. A Largo Forano, e piuttosto in sordina, continua la sua fase di rodaggio Mosa, un locale polifunzionale ideato da Mauro Asoli e Marcello Ciummo, con un occhio di riguardo al reparto caffetteria grazie alla selezione di prodotti della torrefazione livornese Le Piantagioni del Caffè. Si comincia dalla prima colazione, con dolci freschi di pasticceria di buona fattura, dai lieviti con pasta padre ai biscotti secchi, abbinati a un buon espresso o un caffè filtro. Ma da Mosa si può anche mangiare o gustare un aperitivo di qualità, con i crudi e i carpacci di pesce, “non abbiamo una vera cucina, ma proponiamo piatti freddi, taglieri con prodotti di nicchia”, accompagnati da una selezione ampia e articolata di vini italiani.

 

Work in progress

Ancora qualche giorno, invece, perché Igles Corelli scopra le sue carte a largo Argentina, dove da tempo si lavora per approntare lo spazio fast ma gourmet de Le Mercerie: assaggi d'autore a piccoli prezzi, per una cucina che non rinuncia ad essere sartoriale, ma punta a conquistare un pubblico trasversale e internazionale. Un ultimo aggiornamento per gli appassionati della pizza. Si avvicina la data di apertura, più volte rinviata per motivi burocratici tipicamente romani, di 180 g Pizzeria Romana a Centocelle. Entro la prima settimana di dicembre, Jacopo Mercuro e Mirko Rizzo si preparano a dimostrare alla città cosa significa lavorare di qualità sulla pizza romana. Aspettiamo di provarla (poi, nei primi mesi del nuovo anno, arriverà anche la prima insegna in solitaria di Pier Daniele Seu, zona Porta Portese).

 

Giulia Restaurant | Roma | via Giulia, 245-249 | tel. 06 94892076 | www.giuliarestaurant.it

Stilelibero | Roma | via Fabio Massimo, 68 | dal 4 dicembre

Orestorante | Roma | Eataly Ostiense, piazzale XII ottobre 1492 | www.eataly.net

Mercato Centrale Termini | Roma | via Giolitti, 36-38 | www.facebook.com/mercatocentraleroma/

Mosa | Roma | Largo Forano, 14 | tel. 06 83662601 | www.facebook.com/mosacaffemangiaebevi/?ref=br_rs

180 g Pizzeria Romana | Roma | via Tor de Schiavi, 53 | dalla prima settimana di dicembre

 

a cura di Livia Montagnoli e Michela Becchi

L'Europa e il glifosato. Cosa è, cosa ne pensano le varie parti in causa

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Una catastrofe ambientale ed ecologica, secondo Slow Food. La vittoria dei pareri scientifici secondo la Coldiretti. Ma quali sono i dubbi in campo riguardo al glifosato?

Glifosato. Cosa è?

È un diserbante non selettivo, il più diffuso al mondo. La molecola viene assorbita dalle parti verdi e poi trasferita alle radici della pianta, che secca in una decina di giorni. È economico e semplice da usare, e trova impiego in agricoltura, ma anche nel giardinaggio e nella manutenzione del verde, quindi – per esempio – anche ai lati delle strade o tra i binari ferroviari. La molecola, sintetizzata negli anni '50, è stata introdotta sul mercato nel 1974, commercializzata con il nome di Roundup, e, fino a ora, ne sono stati quasi 10 milioni di tonnellate, con un'impennata da quando, negli anni '90, sono arrivate le prime colture OGM resistenti a questa molecola, per esempio la soia. Dal 2001 il brevetto, di proprietà della Monsanto, è scaduto, per cui oggi esistono sul mercato diversi erbicidi a base di questa molecola. Molti anche di produzione italiana.

 

Imputazione: cancerogeno. Condanna o assoluzione?

Dal 2015 il glifosato è stato inserito dall'IARC (Agenzia Internazionale per la Ricerca sul Cancro) nel gruppo 2A delle sostanze probabilmentecancerogene(che, ricordiamo, include anche la carne rossa LINK e alcuni prodotti usati dai parrucchieri) analizzando sia la molecola che i prodotti sul mercato che la contengono insieme ad altre sostanze (in combinazioni oggi praticamente non impiegate). La valutazione è stata fatta da un gruppo indipendente dello IARC, composto da 17 membri (tra cui Aaron Blair, epidemiologo dell'U.S. National Cancer Institute), che a sua volta è una costola indipendente dell'Organizzazione Mondiale della Sanità. Tra le perplessità che apre questo documento è il fatto che esiste uno studio - Glyphosate Use and Cancer Incidence in the Agricultural Health Study -finora il lavoro più ampio mai fatto in materia, che ha interessato decine di migliaia di agricoltori esposti a questo erbicida in un ampio arco di tempo - che esclude la correlazione tra cancro (in particolare linfoma non-Hodgkin) e glifosato, pubblicato (secondo alcuni, volontariamente) solo dopo l'uscita della valutazione dell'IARC. Proprio Aaron Blair ha dichiarato, durante un processo a carico della Monsanto, che questo studio dell'U.S. National Cancer Institute avrebbe potuto cambiare l'esito della valutazione dell'IARC. Nessuna prova che questi studi corposi siano stati insabbiati volutamente, ufficialmente non sono stati pubblicati per mancanza di spazio.

L'EFSA, l'autorità europea per la sicurezza alimentare di Parma, ha una posizione più rassicurante. Ma per molti, le sue valutazioni espresse non sono affidabili, in quanto riprese – parola per parola – da quelle degli stessi produttori (Glyphosate Task Force) in un rapporto presentato nel 2012 dalla Monsanto.

EFSA e IARC adottano procedure diverse, soprattutto riguardo l'analisi degli studi prodotti dalle stesse aziende produttrici (svolti secondo linee guida internazionali e in centri di ricerca certificati), le quali sono tenute a dimostrare la non dannosità di quanto mettono sul mercato. L'IARC lavora invece solo su pubblicazioni scientifiche.

Ma quello dell'EFSA non è l'unico parere che assolve (almeno in parte, sulla possibile cancerogenicità) il glifosato: si sono espresse in tal senso la FAO/OMS in un testo del 2016 sui residui di pesticidi nel cibo (nel caso del glifosato anche quando la soglia sfiora i 2 mg per chilo di peso corporeo) e l'ECHA, l'agenzia europea per le sostanze chimiche, e anche diverse agenzie per la sanità di molti Paesi.

La maggior parte degli esperti ritiene molto remoti i rischi per la salute per la popolazione che invece riguarderebbero chi è esposto al contatto, ovvero chi è impegnato in attività di tipo agricolo. Mentre non viene preso troppo in considerazione, in questa fase, l'impatto ambientale.

 

L'autorizzazione all'uso

La Commissione Europea doveva decidere la proroga dell'autorizzazione (in vigore dal 2002) entro la fine dell'anno e, dopo diversi rinvii, il 27 novembre questa è stata rinnovata per altri 5 anni. Un tempo molto più breve di quanto previsto, segno evidente dei dilemmi che pone questo prodotto. Grande peso ha avuto il Sì della Germania, fino a ora astenutasi. Francia e Italia sono, storicamente, contrarie (la Francia ha ribadito che ne vieterà completamente l'uso entro il 2022, l'Italia, nelle parole del Ministro Maurizio Martina, entro il 2020). Chi favoleggia di un interesse legato all'acquisizione della Monsanto da parte della Bayer, non valuta che il brevetto è ormai scaduto da oltre 10 anni. Sipossono mettere in atto strategie alternative? Di sicuro la rotazione delle colture e l'eliminazione meccanica delle erbe infestanti. Diserbanti della stessa efficacia, per ora, non ce ne sono.

Esulta Confagricoltura, l'associazione che riunisce imprese agricole di grandi e medie dimensioni che sottolinea come si sia evitato di rendere meno competitive le aziende comunitarie, considerando come, una scelta diversa, avrebbe avuto conseguenze sulle rese e i costi di gestione agricoli. Sempre Confagricoltura ha messo in luce alcune conseguenze favorevoli come la diminuzione delle emissioni di CO2 e l'erosione del suolo. Su questo occorrerebbe aprire un ulteriore parentesi.

Opposte le reazioni di organizzazioni in prima linea per un'agricoltura sostenibile e green, sopra tutte Slow Food, che definisce questa decisione come “una catastrofe ambientale ed ecologica” in contrasto con quanto espresso da oltre un milione di cittadini europei, aderenti all'European Citizen Initiative. Secondo Carlo Petrini “il voto rappresenta una decisione politica che antepone il profitto alla sostenibilità e alla salute dell'ambiente e delle persone” ottenuta a furia di riduzioni della durata del rinnovo. Tra 5 anni si conteranno i danni del glifosato, ammoniscono. Proteste anche dalla coalizione Stop Glifosato che riunisce 52 aderenti.

 

La posizione dell'Italia

Nel 2016 il nostro Ministero della Salute ha vietato l'uso del diserbante in aree frequentate dalla popolazione e da gruppi vulnerabili come malati e bambini (parchi, giardini campi sportivi e così via) e nelle zone agricole nel periodo della pre-raccolta, e ha imposto il ritiro dal commercio – prima – e il divieto di utilizzo – poi - di prodotti che vedevano abbinato il glifosato a sego polietossilata. La nostra AIRC, associazione italiana per la ricerca sul cancro definisce il glifosato come un caso esemplare di sospetta pericolosità verso il quale si sta adottando un principio di precauzione che ne limita e controlla l'uso. Di fatto l'Italia si avvia a una progressiva riduzione nell'impiego di questa sostanza. E già ora sottolinea all'Ansa il Ministro Martina“l'Italia già adotta disciplinari produttivi che limitano l'uso del glifosato a soglie inferiori del 25% rispetto a quelle definite in Europa”. Molti Consorzi, per esempio quello del Prosecco, hanno già annunciato che lo elimineranno completamente in breve tempo. Spinge per un blocco anche delle “importazioni di prodotti stranieri trattati con modalità analoghe” ovvero con l'uso di questo diserbante, la Coldiretti. L'esempio più emblematico è quello del grano duro dal Canada (sono circa 1,2 miliardi di chili di grano importati lo scorso anno dal Canada), e a tal proposito Coldiretti sottolinea come questo tema debba essere preso in considerazione nell'ambito dell’accordo di libero scambio tra Unione Europea e Canada (CETA). La pasta è uno dei terreni di scontro maggiore, proprio perché prodotta in buona parte con grano duro di importazione, in paesi in cui non vigono le restrizioni italiane sul glifosato. E perché nostro prodotto simbolo, consumato in Italia in quantità decisamente più elevate che nel resto del mondo. Tracce di glifosato sono state riscontrate negli alimenti, principalmente quelli a base di cereali, come pasta, biscotti, fette biscottate, in un test effettuato da Il Salvagente. Sui reali rischi di questi residui, attendiamo che si esprima il Ministero della Salute.

 

a cura di Antonella De Santis

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