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Pizzeria Valle I Calanchi. Fra i calanchi abruzzesi, una nuova pizzeria tradizionale di qualità

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Procedono i lavori per la nuova (terza) insegna firmata Valle, artigiano specializzato nella pizza in teglia che rappresenta un punto di riferimento per gli amanti dell'arte bianca nella provincia di Teramo. Ecco cosa cambia nella pizzeria che aprirà il prossimo 6 dicembre ad Atri.

Il pizzaiolo

In principio fu Fratelli Valle, a Roseto degli Abruzzi, in provincia di Teramo, locale specializzato nella pizza in pala alla romana arricchita con le specialità gastronomiche abruzzesi, aperto nel 2009 e accolto da subito con grande entusiasmo dalla clientela locale, grazie all'impasto realizzato con farine selezionate e ingredienti di prima scelta, e l'alta qualità delle materie prime. Dopo qualche anno arriva Compagnia della Pizza, nel cuore di Giulianova (Teramo), uno spazio che coniuga la pizza tonda – da asporto oppure acquistabile a spicchi – e quella in teglia, con impasti prodotti con farine non raffinate e talvolta anche da grani autoctoni, come quello antico di Solina. Due insegne moderne e dallo stile contemporaneo, che hanno fondato il loro successo sulle lunghe lievitazioni e ingredienti ricercati, entrambe riconosciute con Due Rotelle dalla guida Pizzerie d'Italia del Gambero Rosso. È un percorso fatto di studio ed evoluzione continua, quello di Valerio Valle, giovane pizzaiolo con le idee ben chiare, che dopo neanche 10 anni dalla sua prima avventura, è pronto per aprire il terzo punto a suo nome. Ancora una volta nella sua terra, l'Abruzzo teramano, ad Atri,proprio di fronte alla Riserva Naturale del WWF Calanchi, celebre per i profondi solchi nel terreno che delineano il carattere del territorio. Con un'offerta insolita che ripensa il modo di approcciarsi alla pizza, tornando al passato con stile e tecnica.

Da alta a sottile: la rivincita della pizza romana

Si parla sempre di più di pizza gourmet, un prodotto che io stesso ho sposato tempo fa, ma per questa prossima tappa ho intenzione di tornare un po' agli anni '80/90, quando la pizza più diffusa era quella sottile e croccante”. In un momento in cui, più che mai, imperversano foto di alveoli, cornicioni rigonfi, impasti ad alta idratazione, il giovane Valerio sceglie di rifarsi alle tendenze del passato, reinterpretandole a modo suo: “Ci stiamo spostando verso nuove direzioni, ma non voglio che la tradizione venga perduta. Per cui, via libera alla classica pizza croccante, ma con tecniche moderne, farine meno raffinate e lunghe lievitazioni”. Per una pizza anni '80 da maestro.

Le materie prime

A cominciare dai prodotti: “Utilizzeremo farine macinate a pietra, tra cui anche quella di Grano solina dell'Appennino Abruzzese, un presidio Slow Food a cui siamo molto legati”, e poi sale integrale di Trapani e altre eccellenze regionali, come la liquirizia di Atri e il pecorino Canestrato Castel del Monte, ventricina del vastese, lo zafferano dell'Aquila e molte altre ancora. “Siamo in piena campagna, per cui ci affideremo molto ai piccoli produttori della zona, seguendo sempre le stagioni”. Ad accompagnare le pizze, una 15ina di vini del territorio e birre artigianali di Opperbacco, microbirrificio di livello di Notaresco, in provincia di Teramo.

Il menu

Tutte le pizze saranno cotte in forno, e ogni tre mesi all'impasto classico sarà affiancata una variazione sul tema, “come quello a base di 7 cereali oppure con l'aggiunta di peperoncino”. Le ricette cambiano di continuo, e a realizzare le pizze, dopo il primo periodo di avviamento che vedrà protagonista Valerio in persona, ci sarà una squadra di ragazzi formati da lui. Con circa 130 posti a sedere, il locale offre anche una cucina di tradizione, “anche in questo casa rivisitata in maniera più raffinata, ma senza snaturane l'identità originaria”. Ai fornelli, Sonia Ferretti, segretario dell’Associazione Cuochi di Teramo ed esperta di cucina abruzzese, oltreché amante della ristorazione vegan: “Cercheremo di dare ampio spazio ai clienti vegani, sia per le pizze che per i piatti”. Ci saranno, quindi, gli spaghetti con le pallottelle, e poi altre ricette più nuove e originali, che prendono ispirazione dal passato. Per un menu articolato in grado di soddisfare diverse esigenze. Curiosi di provarlo?

Pizzeria Valle I Calanchi | Atri (TE) | contrada Santa Lucia, 3 | dal 6 dicembre 2017

a cura di Michela Becchi


Festival International de Photographie Culinaire. In Francia la fotografia artistica si ispira al cibo

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Oltre 20 fotografi francesi e internazionali, per l'ottava edizione dell'unico festival di fotografia artistica al mondo che traccia un legame con il mondo del cibo. Gastronomia e haute couture è il tema del 2017, con più di 70 scatti in mostra tra Parigi, Bordeaux, Tolosa e Valencay. 

Arte, fotografia e cibo

Il Festival International de Photographie Culinaire è “l'unica manifestazione culturale internazionale per professionisti che unisce l'universo della fotografia artistica con il mondo del cibo”. Il primo punto del manifesto del festival nato in Francia nel 2009 non lascia adito a dubbi. All'ottava edizione, la rassegna fotografica itinerante – due mesi, tra novembre e dicembre, in viaggio tra Parigi, Bordeaux, Valencay e Tolosa – mette in comunicazione il mondo delle food photography internazionale, facendo incontrare i professionisti del settore in un contesto che molto ricorda i Salon des arts, a vantaggio di amatori e collezionisti appassionati del genere. Non a caso, le fotografie selezionate sono considerate a tutti gli effetti opere d'arte frutto di personalità creative ben delineate, al pari di nature morte calate nel XXI secolo. Quest'anno, il festival “del bello e del buono” si concentra sul legame tra gastronomia e haute couture, che prende forma negli scatti di 24 fotografi di tutto il mondo, ognuno in mostra con 3 differenti interpretazioni del tema. E la manifestazione itinerante, dopo l’esordio a Parigi lo scorso 2 novembre, si sposterà a Bordeaux (dal 17 al 19 del mese), prima di arrivare a Tolosa dal 14 al 17 dicembre, e al castello di Valencay, fino ai primi mesi del 2018.

 

Gastronomia e Haute Couture

Dichiarato il legame tra alta moda e cucina, creazione gastronomica e abiti da passerella: cuochi e stilisti girano il mondo in cerca di ispirazione, ricevendo gli stimoli esterni che sollecitano l’attività artistica, nel segno dell’originalità della proposta, e della qualità del prodotto. Padrini dell’iniziativa lo chef Christian Le Squer (alla guida del George V di Parigi) e lo stilista Franck Sorbier. Le fotografie in mostra, che sviluppano il tema dato, arrivano però (anche) a dimostrare l’esasperazione della componente estetica del cibo, diventato negli ultimi anni soggetto prediletto di tanti aspiranti fotografi. Oltre all’esposizione, gli scatti selezionati saranno in gara, per contendersi l’assegnazione di 4 premi ambiti: il Grand Prix du festival, il Grand Prix per la foto più capace di raccontare il patrimonio culturale attraverso uno scatto, il Grand Prix dell’Alimentation, il premio del pubblico, assegnato dai visitatori presenti alla mostra. C'è chi rappresenta il desiderio peccaminoso di una madeleine e chi borsette foderate di prosciutto, chi composizioni astratte che accostano texture diverse di formaggi, chi origami di melanzane che simulano abiti d'alta moda. Qualche concessione al kitsch, tanti modi differenti per rappresentare il cibo, spesso in relazione al corpo femminile, che diventa chiave di lettura inedita della realtà, astratto dal suo contesto di riferimento. Come a voler ribadire il concetto che anche l'ispirazione gastronomica può ambire a essere musa per la fotografia d'arte.

 

www.festivalphotoculinaire.com/index.html

 

a cura di Livia Montagnoli

 

ABCheese: Eleonora Baldwin e i formaggi. Il Branzi e lo stracchino all’antica delle Valli Orobiche

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Sempre alla ricerca di antiche tradizioni casearie, Eleonora Baldwin con ABCheese ci introduce a due prodotti tipici della Valle Imagna, in provincia di Bergamo.

Esplorando la Valle Imagna, una valle prealpina bergamasca che confluisce da destra nella Val Brembana, si scoprono formaggi dalle antiche origini e sapori ormai dimenticati. Il Branzi, per esempio, è un prodotto a latte intero di vacca a pasta semicotta; mentre lo stracchino all’antica delle Valli Orobiche, un formaggio grasso di breve stagionatura a pasta molle, che ha rischiato di andare perduto.

Ma vediamoli da vicino, a partire da un prodotto unico, il Branzi.

Branzi

Branzi

Prodotto nelle valli Orobiche, il Branzi è uno dei più antichi e tipici formaggi del bergamasco. Prende il nome dal paese dell’alta Valle Brembana, luogo di nascita di questa produzione tradizionale. In quanto a caratteristiche organolettiche e produttive il Branzi è analogo ad altri formaggi alpini, come il Bitto valtellinese, la Fontina valdostana, il Montasio friulano e lo Sbrinz svizzero.

Storia e Territorio

Benché le sue origini moderne ne registrino la nascita negli anni ‘50, il Branzi esisteva già in epoca napoleonica, quando chi lo voleva percorreva decine e decine di chilometri per venire ad acquistarlo in occasione della Fiera di San Matteo il quarto sabato di settembre, un avvenimento annuale di grande importanza per l'intera valle.

I malgari che anticamente portavano le proprie mandrie a pascolare negli alpeggi dell’alta valle del fiume Brembo, portavano poi nei caseifici di Branzi i formaggi da loro prodotti in quota. In autunno, le fiere di paese come la Fiera di San Matteo attiravano i commercianti della regione, e questi si contendevano le forme di quel formaggio così caratteristico, il cui gusto è da sempre determinato dalle particolari caratteristiche presenti nel pascoli di quei monti.

Il Branzi si produce sia in quota sia in collina in Alta Val Brembana (Val Carona, Val di Foppolo, San Simone, Branzi e comuni limitrofi) e prende il nome dal comune di Branzi (BG) che si trova alla confluenza delle tre Valli Alte del fiume Brembo.

 

Lavorazione e Stagionatura

La coagulazione del latte intero vaccino avviene dopo 30-35 minuti alla temperatura di 35-37° C grazie all'aggiunta di caglio liquido di vitello. Il coagulo ottenuto deve poi essere rotto in grumi di piccole dimensioni. Dopo questa fase, la cagliata è scaldata a una temperatura di 45° C. Una volta che il coagulo si è depositato sul fondo, si passa all'estrazione della cagliata, che è poi trasferita negli appositi contenitori di legno foderati di tessuto naturale. Per ultimare la lavorazione si passa alla pressatura e alla salatura del prodotto.

Il Branzi nasce in tre stagionature: il periodo fissato dal disciplinare per il prodotto fresco è dai 45 ai 90 giorni; il Branzi semi-stagionato invece invecchia da 91 a 180 giorni; lo stagionato (o stravecchio) matura oltre i 6 mesi.

 

Analisi e Assaggio

Il Branzi si presenta con uno scalzo diritto o leggermente concavo, alto 8-9 cm. La crosta è liscia, giallastra, elastica e sottile. All’interno, la pasta è tenera, di colore paglierino e con un’occhiatura leggera. Gli odori che si sprigionano dalla forma aperta sono di pascolo, di burro cotto e di latte caldo. Al palato, il sapore è dolce e delicato, tendente al piccante man mano che matura. Il peso delle grandi forme rotonde varia dai 10 ai 12 kg.

Visto il suo carattere versatile, il formaggio da tavola Branzi si trova perfettamente a suo agio anche in cucina, dove è utilizzato per preparare la famosa polenta taragna e altri piatti locali come pizzoccheri o la fonduta, che hanno appunto bisogno di un protagonista filante e saporito.

 

Stracchino

Stracchino all’antica delle Valli Orobiche

Chi crede che lo stracchino sia un formaggio moderno, frutto di una caseificazione di massa, si sbaglia di grosso. La storia e la produzione dello stracchino all’antica delle Valli Orobiche lo dimostra.

 

Storia e Territorio

Siamo a Corna Imagna, nell’alta Valle Imagna, dove la tradizione casearia è antica e radicata profondamente nel Dna dei suoi abitanti. La storia economica e sociale di queste terre è sempre stata basata sull’allevamento delle vacche e sulla produzione di latte, burro e stracchino. Questi prodotti, un tempo, erano alla base della micro-economia domestica delle famiglie del paese. Negli anni Ottanta, però, l’introduzione di nuove norme igienico-sanitarie ha costretto tante piccole aziende di montagna a chiudere. Le nuove normative, seppur legittime, non si potevano applicare alle tradizionali piccole stalle della Valle. Molti allevatori di bestiame della zona sono stati costretti ad abbandonare completamente l’attività casearia, mentre altri si sono dovuti limitare alla vendita del latte fresco, senza produrre affatto il formaggio, a profitto delle grandi industrie casearie del fondo valle.

Dal 2011 una piccola cooperativa ha ridato vita all’antica tradizione casearia dello strachì. “Il tesoro della bruna” - questo il nome preso in prestito alla razza bovina tipica di questo territorio, la bruna-alpina - coniuga il rispetto della cultura locale con la tutela del paesaggio montano, puntando sul coinvolgimento di chi ha continuato a produrre il formaggio “all’antica”. Nasce così la Casa dello Stracchino: 6 piccoli allevatori tutti nel raggio di mezzo chilometro, ciascuno con poche mucche (una trentina in tutto) che hanno unito le proprie forze e le loro piccole quantità di latte, redatto un disciplinare e regolamentato la produzione dei loro formaggi.

Fra questi, la punta di diamante è lo stracchino all’antica delle Valli Orobiche, una produzione già tutelata e riconosciuta con un Presidio di Slow Food, prodotto in Val Brembana, Val Taleggio, Val Serina e Valle Imagna con latte vaccino crudo intero appena munto (da qui il nome della tecnica di lavorazione, “a munta calda”). Non tutti sanno però che lo stracchino all’antica delle Valli Orobiche è il progenitore di molti formaggi lombardi, quali il Taleggio, Gorgonzola e il Salva Cremasco.

Il nome stracchino deriva dal termine dialettale lombardo in riferimento alle vacche che scendevano stanche – stracche – dagli alpeggi.

 

Lavorazione e Stagionatura

La tradizione vuole che per produrre lo strachì si usi latte appena munto, facendo una cagliata alla temperatura naturale della mungitura, ovvero 37° C circa, ottenuta con l’aggiunta di caglio di vitello liquido. Dopo 20-40 minuti, la cagliata così ottenuta è incisa con una croce e sminuzzata perché affiori il siero. Questa rottura avviene in due fasi successive, sino a ottenere un coagulo abbastanza soffice e grosso per mantenere tenero il formaggio. 

La pasta è quindi messa a spurgare per 12-24 ore in piccole forme – un tempo si usavano le cassette di legno, dette fassaröl – per la stufatura che dura un giorno e mezzo a circa 20° C con il 90% di umidità, sino a che le forme si ricoprono di una leggera muffa bianca. La temperatura e l’umidità sono fondamentali: se gli stracchini dovessero raffreddare, questi potrebbero "scappare" cioè perdere la forma quadrangolare e sformarsi.

A questo punto le forme sono salate a mano sulle due facce, e poi fatte riposare nelle cantine, distese su tessuti naturali, a una temperatura che non scende mai sotto i 12° C. Il formaggio è pronto già dopo 15 giorni dalla sua nascita, ma la maturazione può durare anche 30 giorni.

 

Analisi e Assaggio

Lo stracchino all’antica delle Valli Orobiche ha forma di parallelepipedo a base quadrata, con lato di 18-20 cm, scalzo diritto e irregolare alto 4 cm, ciascuna forma pesa circa 1,5 kg.

La crosta è morbida e umida; la superficie è rigata e di colore bianco. Aprendo la forma, la pasta è molle, di colore avorio con occhiatura rada, di dimensione fine-media, irregolarmente distribuita.

L’odore è fresco, con sentori balsamici che richiamano il verde dei pascoli in estate, o le fragranze del fieno umido quando la dieta delle vacche è invernale. In bocca, il gusto vira dal suadente cremoso del sotto-crosta, al pungente del cuore che è leggermente più compatto e friabile.

Questo splendido formaggio si abbina bene con vini poco alcolici, pane caldo e – come suggerisce il casaro – con confettura di bacche di sambuco. Una meraviglia!

 

Il prossimo viaggio di ABCheese nel mondo dei formaggi d’Italia? Scopritelo domenica alle ore 18 su Gambero Rosso Channel canale 412 di SKY Italia.

 

a cura di Eleonora Baldwin

Gourmet Food Festival. Carlo Cracco parla della Stella perduta e dei nuovi progetti

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Carlo Cracco perde una Stella Michelin e pensa che in fondo sia giusto così. Ecco la videointervista al più noto chef star italiano durante Gourmet Food Festival 2017.

Archiviata da poco l’inaugurazione del nuovo Garage Italia Customs, aperto pochi giorni fa a Milano insieme nientemeno che a Lapo Elkann - bell'esempio di recupero urbano della storica stazione di servizio dell'Agip voluta da Enrico Mattei, progettata da Mario Bacciocchi e riportata a nuova vita da Michele De Lucchi - Carlo Cracco è di nuovo sulle pagine dei giornali, anche stavolta non solo quelli di settore, per il clamoroso risultato della guida Michelin Italia, presentata il 16 novembre a Parma, che ha declassato il suo ristorante da due Stelle a una. Una notizia di quelle ghiotte, che assicurano schiere di lettori visto il carisma mediatico del cuoco veneto. Tanto da oscurare tutte le altre novità - incluso un nuovo ristorante a Tre Stelle - proposte dalla guida rossa.

Insegne multiple

Insomma Cracco, nel bene e nel male, fa notizia. E conquista le prime pagine dei quotidiani catturando l'attenzione soprattutto di quelli che pare non aspettassero altro che coglierlo in fallo, per il gusto di bacchettare il più famoso cuoco televisivo con la più populistica delle cantilene: “non sta mai in cucina”. Come se il suo essere dietro o davanti ai fornelli possa essere decisivo per la qualità della cena. “Ho 30 coperti, comunque non potrei cucinare io tutto, in cucina sono sempre con la mia squadra”. Del resto, ricorda, andava in tv anche prima dell'invasione degli chef sul piccolo schermo, e senza che questo suscitasse scalpore. Forse perché non si trattava di programmi così popolari.

Che invece possa aver pesato, nella valutazione degli ispettori della Rossa, il dispendio di energie profuso nelle sue nuove iniziative imprenditoriali, con Garage Italia e il trasferimento del suo ristorante principale dalla vecchia sede di Victor Hugo a quella in Galleria, è opinione che non convince, perché nella stessa guida troviamo ad esempio Enrico Bartolini, uno che conquista stelle a passo di carica, e allarga insegna dopo insegna la sua collezione, che a breve toccherà quota 6. Ma certo, in qualche modo questo trasloco c'entra e Cracco arriva quasi a convincersi che forse la decisione della Michelin è stata la più giusta, per ricominciare partendo da un gradino più in basso, “senza posizioni acquisite o dovute, iniziando una nuova storia puliti”. Senz’altro un grande incassatore.

Il trasferimento

Valutare un ristorante che sta per trasferirsi pone le guide di fronte al dubbio di come trattarlo: perché da un indirizzo all'altro, a parità di brigata e di menu, potrebbe cambiare comunque molto. E potrebbe essere, nei fatti, un ristorante diverso (noi in alcuni casi inseriamo la scheda del nuovo ristorante senza alcun giudizio, sospendendo la valutazione). Questo spiega la perdita di una Stella? È da vedere, perché se è vero che la Michelin sapeva che il Cracco di via Victor Hugo avrebbe chiuso entro poche settimane dall'uscita del volume (ultimo servizio 23 dicembre), cosa che avrebbe potuto mettere in forse la sua presenza in guida, è pur vero che in questo caso il locale in guida c'è, e con un voto abbassato. Se non si possono dare Due Stelle a un posto che non ha ancora aperto (così è per il Cracco in Galleria) e si è in dubbio se farlo in prossimità della sua chiusura (come è per via Hugo), allora non se ne dovrebbe assegnare neanche una. Così non è stato, invece. Perché la Rossa ha scelto di lasciare in guida il (“vecchio”) ristorante Cracco (segnalandone il trasferimento), ma di farlo con una valutazione più bassa.

Quando ti tolgono qualcosa ti spiace sempre” ammette Cracco. Ma aggiunge anche che ha alle spalle 34 anni di cucina, e quest'esperienza conterà pur qualcosa. Quando ha deciso di spostarsi a Milano, ricorda, tutti lo presero per matto, perché – si diceva – a Milano si mangiava male e nessuno era interessato al buon cibo. È stata una sfida: “mi sembrava una buona base di partenza”. Ora la sfida è recuperare posizioni con il suo nuovo locale. Il primo suo vero progetto in solitaria da chef-imprenditore.

Ristorante Cracco | via Victor Hugo, 4 | tel. 02 876774 | www.ristorantecracco.it/ristorante/

a cura di Antonella De Santis

Trattoria dell'Acciughetta. Storia di un ristorante di qualità a Genova

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I genovesi lo sanno bene: via Prè è sempre stata una zona da evitare. Ma non più, perché il quartiere, come tutta la città, sta cambiando. Ed è in pieno fermento gastronomico. Fra i primi a crederci, un giovane duo alla guida di Trattoria dell'Acciughetta.

La ristorazione a Genova

Una cucina libera dalle briglie della tradizione e proiettata verso una contaminazione ragionata e trasversale tra repertori regionali e culture gastronomiche diverse. Così la guida Ristoranti d'Italia 2018 del Gambero Rosso ha recensito la tavola di Trattoria dell'Acciughetta di Genova, una novità per il capoluogo ligure che per la prima volta fa il suo ingresso nel volume che premia i migliori locali italiani. Un ristorante nato a piazza Sant'Elena, alle spalle di via Prè, simbolo del contrabbando angiportuale nel dopoguerra, e quartiere ostico negli anni '70, un angolo complesso, di certo non invitante per le attività commerciali e ristorative. In una città che è da sempre amalgama di culture diverse, di dominatori e dominati, un crogiolo di umanità che scrittori, poeti e cantautori hanno raccontato nei loro versi, un luogo dalla storia lunga e tortuosa che ha visto nascere e morire una Repubblica. Eppure, Genova è una città che guarda al futuro. Dopo essere rimasta per tempo ancorata a modelli obsoleti, la ristorazione oggi sta vivendo un momento di rinascita, grazie al lavoro di giovani operatori del settore che stanno iniziando ad approcciarsi con uno sguardo sempre più aperto e dinamico al mondo del cibo, dando un nuovo respiro al panorama cittadino.

La scommessa di Giorgia

Chi va, chi ritorna. C'è chi viaggia solo andata, e chi sceglie di dare una seconda opportunità alla sua terra d'origine. È il caso di Giorgia Losi, giovane titolare laureata in comunicazione digitale, e per tempo alle prese con il marketing all'interno di un'agenzia di Milano, che nel 2015 decide di lasciare il suo lavoro per avventurarsi in un nuovo inizio, tanto entusiasmante quanto incerto: “Un giorno mio papà mi disse che i proprietari del piccolo ristorante in via Prè stavano cedendo l'attività. La scrivania mi stava stretta da un po', e così ho deciso di cogliere l'occasione al volo e prendere in gestione il locale”. Non senza riserve: “I consumatori locali non sono disposti a spendere più di 30 euro a testa, spesso ordinano il vino della casa, e in generale sono molto attenti al prezzo e poco alla qualità” Inizia a farsi largo, poi, una fetta di consumatori più giovani preparati e attenti, ma l'offerta è ancora poco adeguata: “Non ci sono, per esempio, locali etnici validi, anche se il panorama sta gradualmente cambiando”. Una cucina ricercata è possibile anche qui, grazie al lavoro di comunicazione e racconto: “Sono responsabile di sala e spiego sempre ai clienti la storia che c'è dietro ogni piatto, il valore dei prodotti e del lavoro in cucina. Solo così si può pensare di migliorare la situazione”.

La cucina

Ai fornelli, Simone Vesuviano, chef 22enne entrato nel ristorante 10 giorni dopo l'inaugurazione, oggi socio alla pari di Giorgia: “Siamo nati come trattoria tradizionale, ma la cucina si è evoluta in fretta. Partiamo sempre dai prodotti tipici, che reinterpretiamo in maniera più fresca, con tecniche innovative e moderne”, racconta il giovane cuoco. “C'è una proposta classica, pensata soprattutto per i turisti che vogliono provare la vera cucina genovese, come le trofie al pesto e la panissa fritta, e poi ricette più contemporanee”. La specialità? Naturalmente l'acciuga: “Il piatto più richiesto sono le Cinque Sfumature di Acciuga, una crocchetta di acciuga su fonduta di acciuga con crudité, cialda e colatura di alici di Cetara”. Oppure gli spaghettoni freschi con broccoli, pomodoro fresco, acciuga e scorza di limone, “e poi il morone, pesce tipico locale, con carciofi e aglio nero”. Il menu segue il ritmo delle stagioni, e quello giornaliero del pescato, basandosi principalmente su materie prime regionali, ma non solo. Notevole anche la carta dei vini, con più di 30 etichette, “molti provenienti da piccole aziende di nicchia”, e bella anche la lista delle birre artigianali, “perlopiù di produttori liguri, come Birra Plurale, Artana, Nadir e tanti altri”.

Il team

Una scommessa ben riuscita, quella di Giorgia e Simone, che fin da subito sono riusciti a destare l'interesse della clientela locale: “Non abbiamo mai avuto grandi problemi, per fortuna. È stato stimolante riuscire a riportare la clientela in questa zona, da tempo abbandonata. Oggi abbiamo molti ospiti genovesi, ma anche stranieri grazie al passaggio di turisti che c'è in questa via, per vicinanza con la stazione, l'acquario, e anche il porto”. Un lavoro di squadra svolto con cura e determinazione da Simone, Matteo Rebora e Kley Fortunato in cucina, e da Giorgia e Daniele Pennisi in sala. “L'attività di un ristorante va svolta a più mani, con il sorriso e la voglia di trasmettere agli altri la passione per il mondo del cibo, cercando di fare informazione sui prodotti di qualità”, spiega Giorgia. Che aggiunge: “Siamo molto aperti a collaborazioni fra addetti ai lavori, spesso organizziamo cene con colleghi, e lezioni di cucina. Fare rete in questo settore è fondamentale: se il panorama cittadino migliora, cresciamo anche noi; mi auguro che a Genova possano nascere sempre più insegne di livello”. Le preferite in questo momento? “Santamonica, il Marine all'interno di Eataly, e il Gradisca Café per i cocktail”, a cui Simone aggiunge, “il Voltalacarta, per una cucina di tradizione, e pizzeria Savô”.

Progetti per il futuro

35 coperti più altri 70 nel dehors esterno, “utilizzato solo nella stagione estiva, periodo in cui c'è una clientela molto diversa, più turistica”. Un ristorante piccolo che sta continuando a far parlare di sé, raccogliendo i favori della stampa locale e non solo: “Dopo circa 5 mesi dall'apertura, non abbiamo più avuto un tavolo libero”. Nel futuro di Trattoria dell'Acciughetta, per ora, nessun progetto prestabilito, “siamo soddisfatti del punto a cui siamo arrivati, e vogliamo continuare a dedicarci all'attività, cercando di migliorare sempre di più”. Ma qualche idea inizia a farsi largo: “Non pensiamo a un altro ristorante, ma non ci dispiacerebbe creare uno spazio incentrato sul cibo da strada”. Per ora, genovesi e turisti, potranno continuare a gustare le specialità della casa in via Prè, a Piazza Sant'Elena, proprio in quell'area di accesso al Porto che per tanto tempo è stata debitamente evitata. Perché la qualità può trovare casa anche qui, dove sembrava impossibile.

Trattoria dell'Acciughetta | Genova | Piazza Sant'Elena | tel. 010 8693918 | www.acciughetta.it/

a cura di Michela Becchi

Gourmet Food Festival 2017. Al via alla rassegna gastronomica di Torino: si comincia con riso e pizza

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Si aprono le danze al Lingotto di Torino per Gourmet Food Festival, festa del cibo ideata da GL Events Italia con la complicità del Gambero Rosso, un momento di condivisione fra produttori e consumatori, chef e artigiani. A inaugurare la manifestazione, Carlo Cracco, Igles Corelli, Gino Sorbillo. Che pongono l'accento sui piatti più popolari della tradizione italiana. 

La (buona) cucina per tutti

Apre le porte al Lingotto Fiere di Torino la prima edizione di Gourmet Food Festival. E subito mantiene le promesse. La rassegna promossa da Gl Events con il supporto di Gambero Rosso per l’organizzazione delle attività pratiche e divulgative dedicate alla cultura del cibo nelle sue dinamiche più varie è dedicata al pubblico che vuole avvicinare il mondo dell’enogastronomia senza tecnicismi di sorta, e rappresentazioni ostili di un mestiere, specie quello del cuoco, fin troppo mitizzato. Eppure non perde in competenza e qualità della proposta, con un programma che non rinuncia a coinvolgere i grandi nomi della cucina, della panificazione, della pasticceria. Ponendoli davanti a una sfida: parlare in modo chiaro per coinvolgere una platea trasversale, e trasmettergli il piacere di condividere conoscenze, trucchi, aneddoti del mestiere. Presentando nel piatto un prodotto che è valorizzato perché conosciuto, e quindi utilizzato con rispetto. Da un lato quindi ci sono i grandi nomi sul palco (4 per altrettanti temi da sviluppare, allestiti nell’Agorà del Padiglione 1), dall’altro un pubblico accorso numeroso per vedere da vicino i propri beniamini all’opera, ma anche – e soprattutto – per imparare divertendosi.

 

Il risotto di Carlo Cracco

I primi a raccogliere la sfida, nel pomeriggio torinese, sono Carlo Cracco e Igles Corelli. Entrambi alle prese con un risotto, entrambi capaci di catturare l’attenzione di chi hanno di fronte, seppur per motivi, e con abilità, diversi. Apre le danze lo chef vicentino, chiacchieratissimo nelle ultime ore (con qualche esagerazione che sfiora la gogna mediatica) per la perdita di una stella sull’ultima edizione della guida Michelin. Lui però si presenta con la disponibilità di sempre, si concede a foto e abbracci di chi lo attende a fine lezione, e ancor prima sul palco, prodigo di consigli per cucinare un risotto perfetto, lui che del risotto ricorda il profumo di quello preparato in casa dalla nonna: “Sono veneto, e per me il risotto è un piatto importante. Mi ricorda l’infanzia, ed è la prima ricetta con cui mi sono cimentato da giovane”. Certo la sua esperienza in materia gli arriva pure dai trascorsi marchesiani, come dall’impatto con quella che molti considerano la capitale del risotto, Milano. A Gourmet Carlo Cracco presenta un Riso e Latte dolce, una versione molto personale di un ricordo casalingo. E al pubblico che lo ascolta con un rigore quasi religioso spiega perché: “Oltre a essere un piatto che meglio di tanti altri rappresenta l’italianità, il risotto è un’ottima base creativa, una tavolozza per sperimentare”.

 

Cracco è nazionalpopolare. E ci piace per questo

Il ricordo corre a una delle prime prove in carta nel ristorante di via Victor Hugo (che il 23 dicembre chiuderà definitivamente i battenti, in attesa del trasloco in Galleria, “spero entro la fine di gennaio; è il primo progetto che realizzo in completa autonomia, e avevo decisamente sottostimato i tempi”): un risotto mantecato con mascarpone e rafano, una crema raffinata di acciughe nel piatto, scorza di limone e un piccolo cerchio di cioccolato amaro a chiudere la composizione. Bella da vedere, equilibrata all’assaggio. Poi però dispensa pure consigli alla portata di tutti: il soffritto con cipolla o scalogno, la tostatura per 3 minuti, finché il chicco non diventa traslucido, il brodo caldo per mantenere sempre il bollore. E la mantecatura, rigorosamente fuori dal fuoco, “con burro freddo, a fiocchi, perché il riso incameri al meglio il grasso”. Carlo Cracco, da un lato, paga il suo essere nazionalpopolare. Ma tra le sue qualità migliori – oltre a essere un cuoco di grande talento “lavoro da 34 anni, e l’esperienza conta. Quando ho aperto nel 1999 a Milano molti non hanno capito. Che vai a fare a Milano, non si mangia bene, non ci sono buoni ristoranti, dicevano. E invece ora la città ha una concentrazione di bravi chef incredibile. Io ci ho scommesso dall’inizio” – c’è proprio quella di saper reggere il ruolo, e prestarsi al gioco. Anche nei momenti più difficili: “Quando ti tolgono qualcosa, ti dispiace sempre. Ma la storia dello chef televisivo è una paranoia tutta italiana: all’estero, se vai in tv, meriti considerazione in più. Il nostro lavoro è anche saper gestire bene una brigata”.

 

Igles Corelli e la cucina circolare

Al lavoro di squadra, e all’insegnamento sul campo, è molto legato anche Igles Corelli, maestro di tanti giovani chef di talento. Il suo passato è uno spaccato importante della storia della cucina italiana, a cominciare dal Trigabolo di Argenta. Molti, arrivati al Lingotto attirati dai successi televisivi di Igles su Gambero Rosso Channel, la sua storia non la conoscono.  Lui si presenta con la semplicità di sempre, incarnando alla perfezione lo spirito di Gourmet: il linguaggio è conviviale e alla portata di tutti, anche quando si tratta di introdurre concetti di cucina complessi. Il racconto godibile, il profumo del risotto che sobbolle in pentola conquista tutti. Per essere a Torino ha lavorato dalle prime ore del mattino: sul palco porta la sua cucina circolare, “che non è una cucina di riciclo, ma un diverso approccio agli ingredienti”, a spreco zero. Mentre spiega la sua idea di risotto - rigorosamente Carnaroli o Vialone nano, tostatura in olio evo, cipolla stufata a parte, mantecatura fuori dal fuoco, “e tanti assaggi, per trovare l’equilibrio giusto” – dispensa trucchi facilmente replicabili a casa, frutto di una profonda conoscenza della materia prima. Qualche esempio curioso? Il segreto per fare un buon brasato, “fermando la cottura della carne a ¾ del tempo previsto: un passaggio al freddo per permettere alle fibre della carne di allargarsi, tirando dentro i liquidi. Poi, di nuovo sul fuoco. E il brasato resta umido”.  Sfata qualche mito – “la carne va salata dall’inizio e girata più volte in cottura” – e prima di servire il suo risotto al Mojito regala un’ultima verità: “La ricetta è una guida, ma in cucina non è legge. Perché in cucina si parla di equilibri”. A ognuno trovare il suo.

 

Pizza fritta: da specialità dei poveri a piatto internazionale

Due pile di mattoni poste a sostegno dei bruciatori collegati alla bombola del gas. Il profumo della farina, del lievito, l'odore di olio bollente sempre più pungente, il calore della frittura, il chiacchiericcio dei passanti che si fermano a osservare quei gesti ritmici e cadenzati. È la scena tipica di una qualsiasi domenica della Napoli del secondo dopoguerra, di una città in preda alla fame, dove anche l'utilizzo del forno a legna era diventato un lusso. La Napoli delle massaie, delle donne che scendevano nelle piazze a vendere fagotti di pasta lievitata che per decenni hanno rappresentato il piatto povero partenopeo per antonomasia. È l'antica storia della pizza fritta il punto da cui il maestro Gino Sorbillo comincia a spiegare le sue creazioni, conosciute e apprezzate in tutta Italia e non solo.

 

Ma è anche il racconto di zia Esterina, la donna a cui il pizzaiolo ha dedicato ben tre insegne (la storica di Napoli, una a  Milano e una a New York), “una bravissima cuoca con una gestualità unica, in grado di stendere e lavorare la pasta come nessun altra”. È una “danza” l'impasto, “un insieme di atti precisi e attenti, da compiere con attenzione ma senza fretta”. Una sincronia di movimenti che dà vita a una specialità “generosa, che poteva – e ancora oggi può – essere acquistata per pochi spiccioli”. Una ricetta umile che ha fatto il giro della Penisola e del mondo, conquistando il palato dei consumatori più scettici: “Come sempre, in questi casi, all'inizio le persone sono diffidenti verso quei piatti che sono stati da sempre destinati alle famiglie meno abbienti. E poi la pizza fritta è una tradizione tutta napoletana non facile da comprendere: a Milano, per esempio, i primi tempi non ha riscontrato molti favori. Oggi, i meneghini la mangiano camminando, proprio come fanno i napoletani, mantenendo così l'identità originaria del piatto, quella di cibo da strada goloso e democratico”.

 

I segreti del maestro

Ricetta semplice, sì, ma non scontata. Manualità a parte, infatti, per realizzare una pizza fritta d'autore occorrono ottime materie prime e una conoscenza profonda delle lievitazioni. Per la sua pizza da maestro, Gino utilizza 1 litro di acqua e 1,5 chilogrammi di farina, 45 grammi di sale, e 1 grammo di lievito ogni litro d'acqua. Prima regola: mani asciutte, “per afferrare il panetto e stenderlo a meglio”, seconda regola, la pressione durante la stesura, “dall'alto verso il basso e mai dall'interno verso l'esterno”, terza regola, avere pazienza, “bisogna prendere la mezzaluna per le 'orecchie' e adagiarla con calma nell'olio caldo, facendo immergere dapprima la parte centrale e poi i lembi esterni”. Questo il momento cruciale: “La pizza deve galleggiare; se va a fondo, significa che c'è qualcosa che non va nella lievitazione, oppure che abbiamo bucato la pasta”. Pochi i passaggi da tenere a mente, “ma fondamentali: senza di questi, difficilmente otterremo un buon risultato. L'arte bianca è sentimento ma anche precisione”.

 

a cura di Livia Montagnoli e Michela Becchi

Gourmet Food Festival 2017. Il concetto di artigianalità: esperti a confronto al Lingotto di Torino

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È uno dei temi più discussi di sempre in ambito enogastronomico, quello dell'artigianalità, un concetto ampio, da trattare e approfondire da diverse prospettive. I professionisti del pane, gelato, dolci e cioccolato ne hanno discusso durante la seconda giornata del Gourmet Food Festival di Torino. 

Il pane è civiltà

Cultura gastronomica, evoluzione alimentare, civiltà. Secondo giorno con gli appuntamenti di Gourmet Food Festival al Lingotto di Torino per scoprire l’universo dell’artigianalità. Un legame, quello dell’uomo con la terra e il cibo che porta in tavola, che passa attraverso la rivoluzione agraria: “Senza pane non esisterebbe la civiltà” ricorda sul palco Davide Longoni. Il maestro panificatore di stanza a Milano è arrivato a Torino per raccontare il pane, e restituirgli la sua dignità. Il pane come bene quotidiano ed emblema di sapienza artigiana. Ma pure di conoscenza del terroir, per usare un termine caro al mondo del vino, che in fondo può applicarsi anche all’infinito patrimonio di grani di cui dispone l’Italia (“52 solo per contare quelli siciliani, di cui oltre una ventina messi a coltura”). Longoni la sua battaglia per la valorizzazione dell’artigianalità la porta avanti da anni, lavorando da tempi non sospetti sulla rivalutazione della panificazione: “è credenza comune che il pane sia un alimento semplice, ma il processo che c’è dietro è invece estremamente complesso”. Il suo intervento sviluppa quindi, ricorrendo al parallelo con il mondo del vino, l’idea di un prodotto con le sue peculiarità organolettiche, olfattive, tattili, visive, gustative, da avvicinare con una curiosità nuova. Perché anche il pane si presta a essere degustato. E valorizzarlo vuol dire innanzitutto riscoprire le sue origini agricole, chiamando in causa non solo il lavoro di chi coltiva la terra, ma l’intera filiera di trasformazione del grano, partendo dalla figura del mugnaio. È un processo di riscoperta che si nutre di grande dedizione, competenza tecnica e quella dose d’amore che basta per raccontare la storia da un nuovo punto di vista.  Partendo dalle piccole idee, come i sacchetti di stoffa che Davide ha fatto realizzare da una sarta, perché il pane si conservi meglio, “fino a 20 giorni”. Ai clienti che acquistano in negozio, propone uno sconto sul pane per chi sceglie di acquistare il sacchetto: “Un piccolo gesto per dare valore al prodotto, scommettendo una volta di più sull’artigianalità”.

Degustare il pane

Poi racconta del suo patto con i piccoli agricoltori che si impegnano a coltivare grani dimenticati per lui; di nuovo uno scambio proficuo, al giusto prezzo, per valorizzare una filiera messa in ginocchio da un prezzo di mercato del grano che penalizza chi lo coltiva. Intanto in platea si assaggia il pane, tre diverse lavorazioni, farine selezionate con cura per restituire profumi e sfumature di gusto diverse: “Il profumo del pane è un elemento quasi proustiano, ti porta in altre dimensioni, racconta il terroir”. Il merito, generalmente, è tutto della crosta, che grazie alla caramellizzazione degli zuccheri (la famosa reazione di Maillard) conferisce al pane il suo odore caratteristico. Alle note di degustazione – l’olfatto, il colore, la consistenza della crosta e quella della mollica – alterna consigli per utilizzare il pane in cucina. Come lui, sui palchi dell’Agorà, sono tante le maestranze dell’eccellenza gastronomica italiana che si alternano per raccontare il mondo dell’artigianalità del cibo. Con un linguaggio pop, come comun denominatore della manifestazione comanda.

 

Il cioccolato al latte. E la grande scuola torinese

Il risultato si apprezza anche quando con i riflettori si confrontano i grandi nomi del cioccolato torinese. Per parlare di cioccolato al latte  - e sfatare il mito che sia la pecora nera della famiglia del cioccolato di qualità – il panel di relatori coinvolge Guido Castagna, Stefania Siracusa per Gobino, un mito del cioccolato piemontese come Bruna Peyrano, ma pure il pasticcere Andrea Monti e lo chef Nicola Batavia (patron del Birichin di Torino, e inventore del format The Egg), oltre a Claudio Pistocchi, che gioca fuori casa per portare l’invenzione che l’ha reso celebre quasi 30 anni fa, la celeberrima Tortapistocchi (“una torta ganache, praticamente il ripieno di un cioccolatino fatto torta”, a Torino proposta anche nell’ultima variante con uvetta e rum di Martinica). Il tema li porta a confrontarsi sull’evoluzione del settore, con un dibattito che non sempre procede sullo stesso binario, a testimoniare quanto il principale valore dell’artigianalità resti la sua molteplicità di intenti, obiettivi e risultati. C’è Guido Castagna, cultore del cioccolato fondente, che per interpretare il cioccolato al latte ha pensato di provocare con un “fondente al latte, al 70% di cacao Arriba”: una versione piacevolmente spiazzante, che accontenta tutti. Il maestro cioccolatiere torinese porta sul palco soprattutto il proprio sostegno al territorio e alla filiera agricola: “Basti pensare che le bucce del cacao sono reimpiegate come foraggio per le vacche, e ne stimolano la produzione di latte in modo naturale. Un bel modo per chiudere il cerchio, abbattendo gli scarti”. Bruna Peyrano si spende per ricordare l’importanza del terroir, e dispensa pillole di storia vissuta da protagonista. Sulla storia del cioccolato torinese si incappa pure quando con un viaggio a ritroso nel tempo si rintraccia l’origine del gianduiotto, “il primo surrogato nella storia del cioccolato”. Nel mezzo ci sono le provocazioni gastronomiche di Nicola Batavia, che al pubblico suggerisce insoliti abbinamenti da replicare a casa: un risotto con topinambur mantecato al cioccolato bianco, uno scampo crudo con scaglie di cioccolato al latte, e via dicendo sull’onda di una creatività capace di uscire dalle cucine professionali.

La bellezza dell'errore

Alberto Marchetti, Marco Serra, Davide Ferrero, Giulio Rocci, Massimiliano Scotti: cinque maestri dell'arte fredda a confronto. Tutti schierati in difesa del gusto e del concetto di “fatto in casa”, pronti a tutelare il valore delle creazioni originali, del carattere unico dei prodotti artigianali. Degli errori, di tutte quelle imprecisioni che rendono piatti, dolci e praline delle vere specialità. Ma determinati anche a sdoganare quei preconcetti secondo i quali piccolo equivale a buono, e grande azienda è sinonimo di una qualità inferiore. Perché è possibile raddoppiare, triplicare, replicare più e più volte l'offerta senza rinunciare al gusto, pur andando ad apportare delle piccole modifiche. Questo il pensiero di Massimiliano Scotti di Vero latte a Vigevano, mastro gelatiere e grande studioso delle materie prime, sempre alla ricerca dei prodotti più pregiati. “La qualità di un gelato deve rimanere la stessa anche se prodotto in un luogo diverso, ma necessariamente il sapore cambierà: le uova di Torino non sono come quelle di Roma, il latte fresco varia di pascolo in pascolo, e così via”. È proprio in questa caratteristica che risiede il fascino dell'artigianalità: “La mia crema pasticcera non sarà mai identica a quella di un mio collaboratore, e mi auguro che non lo diventi mai. Ogni ricetta ha la sua personalità, composta anche dalla mano di chi la esegue”. Ad abbracciare in pieno la sua filosofia, tutti i colleghi, in particolare Alberto, che aggiunge: “Se potessi aprirei un'altra sede ancora: alle volte la quantità può andare di pari passo con la qualità”. E se lo dice lui, che attualmente conta due punti vendita torinesi, uno ad Alassio, uno a Milano, più il progetto Casa Marchetti, gelateria, laboratorio e anche magazzino, possiamo crederci.

 

Abbinamenti: mieli e formaggi

Ancora sul fronte dolce, il miele, nettare degli dei, prezioso alleato contro diversi malanni e ottimo sostituto dello zucchero, adatto per ogni esigenza e tutte le età. Un prodotto versatile, solitamente pensato come dolcificante, ma che può rappresentare una valida alternativa agli zuccheri in cucina. “I mieli più delicati, come quello di acacia, vanno bene per tisane, tè, infusi, caffè. Ma quelli dal profilo aromatico più strutturato possono essere impiegati anche nella preparazione di ricette salate”, spiega l'apicoltore Luca Galli. Qualche esempio? “Il miele di castagno è il più intenso e persistente, per cui può essere accostato a una carne rossa dal gusto deciso”. Vero protagonista dell'evento, però, è stato il più classico dei connubi, quello fra miele e formaggi. Un rituale antico, tipico della tavola italiana (ma non solo), perfetto per iniziare o concludere un pasto. Una congiunzione ormai consolidata ma che può riservare delle sorprese, se studiata su misura da esperti del settore: “Per un gorgonzola possiamo optare per il miele di melata”, uno dei più particolari, “perché ottenuto non dal nettare ma da questa sostanza (la melata, appunto) prodotta dal metabolismo di afidi e altri piccoli insetti che si nutrono della linfa di alcune piante da cui le api, in mancanza di nettare, producono il miele”. Ma non solo: “Per gli erborinati dal sapore più forte come il gorgonzola, i più coraggiosi possono azzardare l'abbinamento con il miele di castagno, solitamente caratterizzato da note di resina, legno, e nuance affumicate”. Per la toma, l'eucalipto, “per niente balsamico come si tende a pensare, ma dagli aromi selvatici che rimandano al brodo e ai funghi secchi”, miele d'ambro su grana padano e parmigiano, “ma possiamo provare anche dei sapori più delicati, come l'acacia, se vogliamo mantenere le note dolci del formaggio”. Come sempre, dunque, spazio alla creatività, “non stancatevi mai di provare nuovi abbinamenti: non esistono regole fisse, ciò che conta è saper assaggiare ogni prodotto, così da poter ragionare su contrasti e assonanze, somiglianze e differenze”.

 

a cura di Livia Montagnoli e Michela Becchi

 

Gourmet Food Festival 2017. Secondo giorno: dalla pasta alla pesca

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I grandi chef e la cucina di casa. I consigli di Peppe Guida e Gianfranco Pascucci. Il maestro della pasta secca e lo chef che nobilita il pesce meno conosciuto. Entrambi sul palco del Lingotto, per raccontare una cucina alla portata di tutti. 

La (buona) cucina per tutti

La seconda giornata al Lingotto Fiere di Torino per  la prima edizione di Gourmet Food Festival apre nel segno della continuità con quanto visto nelle prime ore: grandi nomi dell’alta ristorazione a servizio di un pubblico di appassionati, con l’obiettivo - dichiarato - di mettere a disposizione di tutti le loro competenze, senza eccessivi tecnicismi che possono risultare oscuri ai più, ma con tante informazioni e conoscenze utili e facilmente comprensibili, che possono aiutare tutti a fare una cucina migliore, più sana, saporita, sostenibile. È infatti con questo spirito che è nata la rassegna promossa da Gl Events con il supporto di Gambero Rosso: trasferire le competenze dell’alta ristorazione alla cucina di casa. Sono nomi importanti nel panorama della ristorazione nazionale, ma hanno accettato di tradurre le loro competenze per metterle a disposizione di tutti. Perché ognuno possa, nella propria quotidianità, mangiare meglio. A partire dal piatto più familiare per gli italiani: la pasta.

Peppe Guida, il mago della pasta

Tre semplici ingredienti, e il pranzo è fatto. Quando si parla di pasta, la prima cosa che emerge è la sua versatilità: si presta per elaborate ricette d’autore come per piatti da fare in un lampo e con pochissimi ingredienti, tanto da essere il più classico dei “salvacena”. Ma da dove si deve partire per un primo piatto di alta scuola? Ci risponde Peppe Guida, dell’Antica Osteria Nonna Rosa, protagonista del primo incontro di sabato mattina: “da una buona pasta”. Sembra una risposta ovvia, ma non è così. Perché il prodotto di qualità, soprattutto quando si parla di pasta secca, non è sempre riconosciuto. “Assaggiatela pura, deve avere il sapore del grano” spiega Guida, che conta ben 12 pasta secche in menu, ognuna con sugo espresso. Un mago che riesce a fare meraviglie con pochissimo: le materie prime del suo orto, una buona pasta di Gragnano, il pesce del mare di fronte a Vico Equense, dove si trova il suo ristorante. A lui si deve molta della ritrovata fortuna della pasta secca nei grandi ristoranti, dove la pasta fresca rappresenta, sì, una prova d’autore con le sue molte interpretazioni, ma anche un prodotto più semplice da gestire, per via della velocità di cottura (che consente anche di ripartire da zero nel malaugurato caso di errori). Con la generosità che gli riconosciamo, arriva al Lingotto con una doppia proposta: parte con i suoi celebri spaghettini all’acqua di limone di cui vi abbiamo parlato solo pochi giorni fa.

Uno dei piatti di pasta più cliccati del web. Ingredienti? Pasta, limone e provolone del monaco. Con la pasta cotta in un tegame largo (abbastanza da contenerla) con un poco di acqua dove sono state lasciate in infusione per una notte le bucce di limone, un elisir profumatissimo da aggiungere man mano che la pasta lo richiede. Qualcosa di simile alla pasta risottata che, spiega Peppe Guida, prima deve subire metà della cottura in modo tradizionale, in acqua salata. Questo assicura il rilascio di amido e la cremina conseguente che, in alcune ricette, è il tocco d’artista. A patto, però, che la pasta sia di alta qualità e che la cottura sia perfetta, al dente ma senza eccessi, in modo da avere il massimo della piacevolezza al morso e la massima digeribilità. Come indovinare la cottura senza rischi? “Assaggiate sempre”. Più semplice di così...

Gli spaghettini vengono scossi nel tegame fino a che non ammorbidiscono. Solo allora si può cominciare a mantecare con delicatezza. È un formato fragile, bisogna usare la massima attenzione perché non si rompa. La risottatura è una tecnica che si adatta molto a spaghetti e linguine, ma attenzione: non tutte le ricette si adattano a questo tipo di preparazione, in alcuni casi la cremosità non migliora il piatto.

A chiudere il piatto, una grattugiata di provolone del Monaco fresco (un’alta stagionatura lo renderebbe troppo invadente), di buccia di limone e un po’ di polvere di foglie di limone essiccate. Un segreto, questo, che arricchisce di sfumature vegetali la componente citrica e impiega una parte abitualmente considerata di scarto. Come realizzarla? Sbollentare le foglie più giovani del limone, freddarle in acqua e ghiaccio, essiccare a bassa temperatura (intorno ai 40/50 gradi per diverse ore) e poi ridurre in polvere.

 

Il pesce. Dalla Campania...

Seconda ricetta per Peppe Guida: le candele rotte con stracotto di mare. Una pasta cotta direttamente nel sugo, “minestrata” la chiama lo chef, realizzato a partire da un fondo di mare con il polpo e le teste di totani, calamari, seppie. Una lunga cottura - circa due ore - che sfrutta i succhi caramellati del pesce, allungando con acqua prima e pomodoro poi. Solo a pochi minuti dalla fine si aggiunge il corpo tritato degli altri pesci per lasciarne intatta la consistenza a creare un piacevole rimando con le candele - “un formato difficile da realizzare, soprattutto nell’essiccazione” spiega Guida - che lui rompe in pezzi piccoli e irregolari, a memoria di certe paste spezzate tipiche di alcune ricette di casa. A chiudere una salsa di alghe, anche in questo caso nessun esotismo: sono quelle della costa vicino al suo ristorante, sbollentate e ghiacciate e infine passate con aglio e olio e frullate con una aggiunta di colatura di alici.

 

… al Piemonte, passando per il Lazio

Il tempo di un cambio di palco e salgono in postazione due dei maggiori interpreti del mare: Gianfranco Pascucci di Pascucci al Porticciolo di Fiumicino, e Beppe Gallina dell’omonima e (giustamente) famosa pescheria del mercato di Porta Palazzo a Torino, da che da qualche tempo affianca la somministrazione del prodotto cucinato alla vendita del crudo. Insieme conducono una bellissima lezione a quattro mani a tema ittico. Un discorso che parte da una premessa necessaria: il mare (e i suoi frutti) vanno rispettati. Per questo occorre che ci sia sempre più conoscenza, tra chi il pesce lo lavora - pescatore, venditore o cuoco - ma anche tra chi lo mangia. Ognuno, nella catena che va dal mare al piatto e oltre, deve fare la sua parte, e ognuno ha una responsabilità.

Da una parte Fiumicino, con un’area di pesca che va dalla riva per le telline alla profondità per i crostacei (come raccontato nella trasmissione del Gambero Rosso di cui Pascucci è protagonista, Come è profondo il mare, e nel libro omonimo che uscirà tra pochi giorni) dall’altra il mare ligure, riferimento di Beppe Gallina che in sole 4 ore dal momento della pesca, riesce ad avere sul proprio banco il magnifico pesce che poi lavora. Sempre diverso, perché diverse sono le stagioni. “Questo” dice Beppe Gallina “subito dopo il fermo pesca, è un momento straordinario: ci sono moscardini, calamari, polpi, mazzancolle; mentre ad agosto troviamo pesce di lampara: alici, sarde, palamite”.

Rispettare la stagionalità del pesce assicura un prodotto più gustoso, nutriente, ma anche più economico, e salva i nostri mari dallo sfruttamento indiscriminato. Per questo è importante una campagna di sensibilizzazione al pari di quella che c’è stata per il pesce azzurro, perché occorre ampliare il panorama alimentare anche a pesci meno noti, si tratti di centrolofo, morone, occhiate: affidarsi a quel che regala il mare, dunque, senza pretendere a tutti i costi un prodotto se non disponibile.

 

Il muggine, questo sconosciuto

E la testimonianza del tesoro che si nasconde in pesci ritenuti di poco valore arriva da Gianfranco Pascucci, che porta  in assaggio un muggine in due versioni. Per molti un pesce di poco conto, da evitare, che vive nelle acque limacciose e non ha valore gastronomico. Il motivo di tale cattiva nomea è che è un pesce con una grande adattabilità: riesce a vivere nelle acque dolci e in quelle salmastre, e perfino in ambienti inquinati, non è raro infatti trovarlo nei porti. Conoscerne l’area di provenienza è fondamentale, e in questo le etichette aiutano: a leggerle si trovano zona e metodo di pesca e molte altre informazioni. Quello che usa Gianfranco Pascucci viene pescato nell’oasi WWf di Burano, vicinissimo a Fiumicino, una riserva naturale in cui la pesca è controllata e regolamentata. “Di muggine, o cefalo, ne esistono oltre 70 qualità, ognuna con caratteristiche e abitudini di vita diverse. Se ne consumano solo 5 tipi, abitualmente. Alcuni di grandissimo pregio, come la bosega, che ha carni magre e di qualità che non hanno nulla da invidiare alle migliori spigole” spiega Beppe Gallina.

Pascucci la mette a marinare in sale e zucchero per 8 minuti, la passa velocemente in acqua bollente, con la tecnica shabu shabu e brucia la pelle con un cannello. In questo modo estrae gli oli essenziali, che si riconoscono distintamente dal colore giallo e dall’aroma di bottarga. Basta eliminare la pelle e girare il pesce perché la carne si insaporisca di questo prezioso aroma: “così abbiamo un muggine che è più di un muggine” sintetizza lo chef. E restituisce un carpaccio di straordinario sapore e corpo. Perché l’obiettivo del cuoco è di interpretare e valorizzare al meglio il prodotto. Nel caso del pesce, c’è un enorme lavoro che Pascucci sta portando avanti, superando il tradizionale dualismo crudo/cotto, per applicare tecniche e ragionamenti presi a prestito da altre categorie di prodotto come affinamenti o stagionature. Nel caso del muggine, un passaggio di 3 giorni nel miso e una stagionatura nelle erbe restituisce una consistenza nuova, fondente e un ventaglio di aromi inaspettato. Per fare questo, ovviamente, serve sensibilità e conoscenza del prodotto, che esclude qualsiasi standardizzazione dei procedimenti a favore di una lavorazione tailor made per ogni esemplare.

 

Il consiglio degli esperti

Andare al mercato e guardare i banchi per capire chi lavora con un prodotto autentico, stagionale, vivo, chi cambia esposizione quotidianamente, chi fa ricerca, informazione, chi diffonde conoscenza. Insomma: chi lavora bene.

Un odore forte, entrati in pescheria, tradisce un pescato di bassa qualità o una mancanza di pulizia dei locali “che per me vale quanto un prodotto scadente” dice Gallina. Diffidare da banchi stracolmi di prodotto: il pescato italiano non è moltissimo, inoltre un negozio vuoto a fine giornata assicura un prodotto freschissimo il giorno successivo; dubitare da chi fa molto stoccaggio.

Una volta individuato il pescivendolo di fiducia, ascoltare i suoi consigli: avrà tutto l’interesse a favi tornare. Cercare di capire, leggere le etichette, ascoltare i consigli: non tutti gli allevamenti sono uguali, ci sono anche quelli virtuosi, così come non tutto il pescato è uguale, dipende dai metodi e dalle zone di pesca. Così un prodotto abbattuto a bordo potrebbe essere migliore di uno fresco.

Ascoltate il vostro pescivendolo anche per la scelta della tipologia di pesce secondo il piatto che volete fare: per alcune preparazioni vanno bene anche pesci meno nobili (e cari).

Nelle pescherie, oggi, si può chiedere di pulire e preparare il pesce. Chiedete gli scarti, è la base per fumetti o salse di grandissima intensità che vi consentiranno di fare più di un piatto con una sola spesa.

Usare sempre coltelli e taglieri perfettamente asciutti per lavorare il pesce, pena il deperimento precoce del prodotto. Per questo motivo bisogna fare attenzione a come si mantiene dopo l’acquisto: “a volte si conserva per molto meno di 3 giorni”.

Le grosse pezzature si prestano a salature preventive e marginature. Perché non provarle in casa? Mentre è bene imparare a cuocere in modo corretto il pesce da spina: una volta scottato dalla parte della pelle un passaggio veloce al forno con un po’ di liquido lascia le carni umide e morbidissime.

 

a cura di Antonella De Santis

 


Il vino più antico del mondo? "Risale al Neolitico e si trova in Georgia"

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Un team internazionale di ricercatori, tra cui cinque italiani, ha rilevato le tracce della bevanda in alcuni frammenti di giare di terracotta nei pressi di Tiblisi. Lo studio, pubblicato su Pnas, porta indietro la datazione al 6.000 avanti Cristo. 

Il vino più antico del mondo ha 8000 anni

Il vino più antico del mondo ha circa ottomila anni, proviene dalla Georgia ed è stato scoperto grazie al lavoro di un team internazionale di cui fanno parte anche cinque italiani. La notizia è particolarmente importante nell'ambiente scientifico legato alla vitivinicoltura. E le prove sembrano essere quantomai certe, visto che i composti chimici che provano l'esistenza del vino ci sono tutti: gli acidi malico, citrico, succinico e tartarico. Questa evidenza, rilevata con moderne tecniche di analisi, ha portato il gruppo di ricercatori, guidati da David Lordkipanidze (Museo Nazionale Georgiano), ad affermare di essere di fronte al più antico esempio della produzione di vino al mondo. Le tracce di questa bevanda "millenaria" sono state evidenziate nei frammenti di otto giare in terracotta risalenti al 6.000 a.C., nel periodo Neolitico, in due siti archeologici (Shulaveri Gora e Gadachrili Gora) nei pressi di Tiblisi, capitale della Georgia, nel Caucaso meridionale.

 

I precedenti

Lo studio, pubblicato su Pnas (rivista dell'Accademia delle scienze degli Stati Uniti), dice che le tracce evidenziate hanno 8 mila anni, tra cinquecento e mille anni in più di quanto si pensasse finora, dal momento che le più vecchie testimonianze erano quelle rinvenute nelle giare di Hajji Firuz Tepe, nei monti Zagros dell'Iran (a 500 km dai siti di Shulaveri e Gadachrili), che furono fatte risalire al 5.400-5.000 avanti Cristo, in un lavoro eseguito da Patrick McGovern del Penn Museum di Filadelfia e pubblicato su Nature nel 1996. L'esito del più recente studio emerge dall'applicazione simultanea dei metodi più avanzati in ambito archeologico, archeobotanico, climatico e chimico. I diciotto ricercatori, tra cui anche cinque italiani provenienti dall'Università di Milano e dal Museo lombardo di storia dell'agricoltura (Osvaldo Failla, Gabriele Cola, Luigi Mariani, Elisabetta Boaretto, Roberto Bacilieri) si sono basati sulle tecniche più moderne, come la gas-cromatografia di massa e la spettrometria a infrarossi. Analizzando i frammenti di terracotta, nella sede dell'Università della Pennsylvania, hanno di fatto identificato le impronte del vino, ovvero i quattro acidi, dando ancora una volta prova di come la coltura della vite fosse fortemente radicata in queste aree fin dai tempi più antichi.

 

Il Caucaso è la culla della viticoltura

Ancora una volta, la scienza conferma come il Caucaso sia stata la culla della viticoltura mondiale, in particolar modo nell'area tra mar Caspio e Mar Nero, caratterizzata da fertili colline a circa mille metri di altitudine, oggi caratterizzate da climi tendenzialmente aridi con piovosità annua tra 350 e 550 millimetri e temperature medie di 13 gradi, ma in antichità interessate da climi più miti, con la vite eurasiatica che si era ben adattata. Dagli studi sono emerse conferme non solo sulla diffusione della viticoltura ma anche sull'uso del vino tra le popolazioni di questa area a nord dell'antica Mesopotamia, appartenenti alla cosiddetta cultura di "Shulaveri-Shomutepe". Di questi eventi ancestrali di vinificazione, fanno sapere i ricercatori dell'Università di Milano, restano tracce nel mito di Dioniso e nel racconto biblico di Noé che produce il primo vino dopo la fine del diluvio. Il monte Ararat, in cui secondo la tradizione si sarebbe arenata l'Arca, dista poco più di 200 km dall'area di scavo.

Difficile, tra le due località di Hajji Firuz Tepe e di Shulaveri e Gadachrili, determinare quale abbia la priorità in relazione alla produzione vinicola e alla cosiddetta domesticazione della vite selvatica, nonché alla sua diffusione. Per gli studiosi, stabilire ciò richiederebbe ulteriori ricerche sul dna delle viti selvatiche. Sta di fatto che, proprio come la cultura vinicola della Georgia contemporanea, il vino probabilmente serviva anche come medicinale, era una sostanza che alterava la mente e una merce molto apprezzata. Per tale motivo, divenne fulcro di culti religiosi, elemento dell'alimentazione, delle economie e della società in generale.

 

Il gruppo di ricerca italiano non si ferma e sta lavorando a un nuovo studio. Dopo aver contribuito a contestualizzare a livello climatico e biologico la presenza della vite nell'areale archeologico indagato in Georgia, ora studia gli effetti che la variabilità del clima ha avuto nelle fasi successive all'evento di prima vinificazione e fino ai giorni nostri. C'è molto da scoprire ancora sulla storia del vino. Infatti, molte altre regioni del Vicino Oriente, in particolare l'ampio arco montuoso al confine nord della Mezzaluna Fertile, restano da investigare e tutte da studiare da un punto di vista scientifico.

 

http://www.pnas.org/

a cura di Gianluca Atzeni

Guida Berebene 2018 del Gambero Rosso. Ecco i premiati

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Dal 1991 il Gambero Rosso pubblica una guida ai vini con un buon rapporto qualità/prezzo. Quest'anno sono ben 773 le etichette meritevoli di essere assaggiati. Ecco i migliori.

Era il 1991 quando, tra i Quaderni del Gambero Rosso, venne pubblicato il primo Almanacco del Berebene. All'epoca, il variopinto volume, raccontava 1500 vini dall'ottimo rapporto qualità prezzo, stabilendo il tetto alle 10.000 lire, nel tempo poi diventate 10 euro. Da quel novembre sono passati 28 anni, e ancora oggi il Berebene è lo strumento che accompagna appasionati ed esperti all'acquisto intelligente.

 

Il panorama vitivinicolo italiano

L’Italia del vino è in ottima forma, e l’ultima edizione della guida Vini d’Italia del Gambero Rosso l’ha dimostrato sul campo, offrendo un quadro esaustivo e capillare della migliore produzione vinicola sul territorio nazionale. La nota di merito in più, considerando una fascia di prezzo che non superi i 13 euro a bottiglia – nuovo limite massimo - è rilevare come sia sempre più facile reperire grandi vini a prezzi più che ragionevoli. E questa è la missione della guida Berebene, che ogni anno premia proprio quelle etichette che si cpntraddistinguono per il rapporto qualità/prezzo.

 

Quali etichette

Il risultato è un insieme di piccole e piccolissime realtà che restituiscono il profilo di un’Italia enoica varia e interessante, che merita di essere scoperta e di essere assaggiata. Tanti vitigni autoctoni, molti sconosciuti ai più, ma anche etichette riconducibili alle denominazioni più blasonate, prodotte da grandi cantine cooperative che lavorano con qualità.

Insomma, giunta alla 28esima edizione, la guida Berebene (a cura di Stefania Annese e William Pregentelli) ha ben chiara una verità: in Italia, oggi, non si fa nessuna fatica a rintracciare vini con queste caratteristiche. Tanto che, rispetto alle 718 referenze citate l’anno scorso, l’edizione 2018 annovera ben 773 vini meritevoli di entrare in selezione, comprese le bollicine. L'introduzione degli spumanti è stata tra le novità inserite nella scorsa edizione insieme all'innalzamento della fascia di prezzo da 10 a 13 euro, un cambiamento connaturato a una pubblicazione di questo genere, che deve tener conto degli aumenti dei prezzi di listino e anche del fatto che per poche monete rischiavano di essere escluse etichette davvero preziose, vini che raccontano territori ed esperienze tanto quanto le etichette più blasonate e costose.

 

Bianchi, rossi, rosati. I Premi Nazionali

Come sempre poi, nelle prime pagine, spiccano nove etichette, tre di bianco e tre di rosso, tre di rosato suddivise tra nord, centro e sud: sono i nostri miglior rapporto qualità/prezzo nazionale, riconoscimenti che vanno a quei vini che incarnano lo spirito della pubblicazione, ottimi sia per il palato che per il portafogli e in più facilissimi da reperire.

 

La presentazione e la grande degustazione

Domenica 19 novembre al Lingotto Fiere di Torino, in occasione della presentazione di Berebene 2018, ospitata all’interno di Gourmet Food Festival si avrà l'occasione per assaggiare una nutrita schiera dei vini premiati. Appuntamento alle 16.30 in sala rossa per la premiazione riservata a produttori e invitati, poi, dalle 18 alle 21.30, porte aperte in sala gialla per la grande degustazione Berebene 2018.

Ai banchi d’assaggio i vini premiati per l’ottimo rapporto qualità/prezzo. La degustazione è acquistabile online sullo store del Gambero Rosso, o presso la Città del gusto Torino, che organizza l’evento; ma anche il giorno della degustazione in fiera, fino a esaurimento. Costo d’ingresso 20 euro (10 per chi ha acquistato il biglietto per Gourmet Food Festival).

 

Guida Berebene 2018 del Gambero Rosso | Prezzo: 11,90 | disponibile in edicola, libreria e online

 

Dopo l'appunamento di Torino, vi aspettiamo a Napoli (24 novembre) e Roma (26 novembre) per degustare ottimi vini dal piccolo prezzo.

> Partecipa alle degustazioni 


Di seguito gli Oscar qualità prezzo Nazionali e Regionali assegnati dalla guida Berebene 2018 del Gambero Rosso

 

Miglior rapporto qualità/prezzo Nazionali - Vini Bianchi

Gambellara Classico La Bocara '16 di Cavazza 

Vernaccia di San Gimignano Selvabianca '16 de Il Colombaio di Santa Chiara

Vermentino di Sardegna Camminera '16 di Audarya


Miglior rapporto qualità/prezzo qualità/prezzo Nazionali - Vini Rossi

Rossese di Dolceacqua '16 di Maccario Dringenberg

Colli del Trasimeno Gamay Divina Villa Etichetta Bianca '16 di Duca della Corgna

Vento di Mare Nero d'Avola '16 di cantine Ermes. 


Miglior rapporto qualità/prezzo qualità/prezzo Nazionali - Vini Rosati

Valtènesi Chiaretto RosaMara '16 di Costaripa

Cerasuolo d'Abruzzo Superiore '16 di Barone Cornacchia

Tramari '16 di Cantine San Marzano.

 

Miglior rapporto qualità/prezzo regionali

Valle d'Aosta
Petive Arvine '16 Chateau Feuillet

Piemonte
Barbera d'Asti Libera '15 Bava

Liguria
Colli di Luni Vermentino Pianacce '16 Giacomelli

Lombardia
Lugana di Sirmione Giovanni Avanzi '16 Avanzi

Trentino
Sauvignon Vich '15 La Vis Valle di Cembra

Alto Adige
A. A. Lagrein '16 Cantina Convento Muri Gries

Veneto
Soave Cl. Clivus '16 Cantina Sociale di Monteforte d'Alpone

Friuli Venezia Giulia
Collio Bianco'15  Roncùs

Emilia Romagna
Lambrusco di Sorbara Secco Sergio Scaglietti '16 Donelli

Toscana
Rosso di Montepulciano '16 Podere Le Bèrne

Marche
Offida Passerina '16 Giacomo Centanni

Umbria
Todi Grechetto Montorsolo ‘16 Cantina Peppucci

Lazio
Est!Est!!Est!!! di Montefiascone Poggio del Cardinale ‘16 Antica Cantina Leonardi

Abruzzo
Pecorino Sup. Ferzo ‘16 Codice Citra

Molise
Falanghina ‘16 Di Majo Norante

Campania
Irpinia Aglianico Taurì ‘15 Antonio Caggiano

Basilicata
Aglianico del Vulture Gricos ‘15 Grifalco della Lucania

Puglia
Salice Salentino Rosso ‘15 Mocavero

Calabria
Cirò Rosso Cl. Sup. ‘14 ‘A Vita

Sicilia
Grillo Cavallo delle Fate ‘16 Tasca d’Almerita

Sardegna
Mandrolisai Fradiles ‘15 Fradiles

 

 

Gourmet Food Festival 2017. Al via la rassegna gastronomica di Torino: si comincia con riso e pizza

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Si aprono le danze al Lingotto di Torino per Gourmet Food Festival, festa del cibo ideata da GL Events Italia con la complicità del Gambero Rosso, un momento di condivisione fra produttori e consumatori, chef e artigiani. A inaugurare la manifestazione, Carlo Cracco, Igles Corelli, Gino Sorbillo. Che pongono l'accento sui piatti più popolari della tradizione italiana. 

La (buona) cucina per tutti

Apre le porte al Lingotto Fiere di Torino la prima edizione di Gourmet Food Festival. E subito mantiene le promesse. La rassegna promossa da Gl Events con il supporto di Gambero Rosso per l’organizzazione delle attività pratiche e divulgative dedicate alla cultura del cibo nelle sue dinamiche più varie è dedicata al pubblico che vuole avvicinare il mondo dell’enogastronomia senza tecnicismi di sorta, e rappresentazioni ostili di un mestiere, specie quello del cuoco, fin troppo mitizzato. Eppure non perde in competenza e qualità della proposta, con un programma che non rinuncia a coinvolgere i grandi nomi della cucina, della panificazione, della pasticceria. Ponendoli davanti a una sfida: parlare in modo chiaro per coinvolgere una platea trasversale, e trasmettergli il piacere di condividere conoscenze, trucchi, aneddoti del mestiere. Presentando nel piatto un prodotto che è valorizzato perché conosciuto, e quindi utilizzato con rispetto. Da un lato quindi ci sono i grandi nomi sul palco (4 per altrettanti temi da sviluppare, allestiti nell’Agorà del Padiglione 1), dall’altro un pubblico accorso numeroso per vedere da vicino i propri beniamini all’opera, ma anche – e soprattutto – per imparare divertendosi.

 

Il risotto di Carlo Cracco

I primi a raccogliere la sfida, nel pomeriggio torinese, sono Carlo Cracco e Igles Corelli. Entrambi alle prese con un risotto, entrambi capaci di catturare l’attenzione di chi hanno di fronte, seppur per motivi, e con abilità, diversi. Apre le danze lo chef vicentino, chiacchieratissimo nelle ultime ore (con qualche esagerazione che sfiora la gogna mediatica) per la perdita di una stella sull’ultima edizione della guida Michelin. Lui però si presenta con la disponibilità di sempre, si concede a foto e abbracci di chi lo attende a fine lezione, e ancor prima sul palco, prodigo di consigli per cucinare un risotto perfetto, lui che del risotto ricorda il profumo di quello preparato in casa dalla nonna: “Sono veneto, e per me il risotto è un piatto importante. Mi ricorda l’infanzia, ed è la prima ricetta con cui mi sono cimentato da giovane”. Certo la sua esperienza in materia gli arriva pure dai trascorsi marchesiani, come dall’impatto con quella che molti considerano la capitale del risotto, Milano. A Gourmet Carlo Cracco presenta un Riso e Latte dolce, una versione molto personale di un ricordo casalingo. E al pubblico che lo ascolta con un rigore quasi religioso spiega perché: “Oltre a essere un piatto che meglio di tanti altri rappresenta l’italianità, il risotto è un’ottima base creativa, una tavolozza per sperimentare”.

 

Cracco è nazionalpopolare. E ci piace per questo

Il ricordo corre a una delle prime prove in carta nel ristorante di via Victor Hugo (che il 23 dicembre chiuderà definitivamente i battenti, in attesa del trasloco in Galleria, “spero entro la fine di gennaio; è il primo progetto che realizzo in completa autonomia, e avevo decisamente sottostimato i tempi”): un risotto mantecato con mascarpone e rafano, una crema raffinata di acciughe nel piatto, scorza di limone e un piccolo cerchio di cioccolato amaro a chiudere la composizione. Bella da vedere, equilibrata all’assaggio. Poi però dispensa pure consigli alla portata di tutti: il soffritto con cipolla o scalogno, la tostatura per 3 minuti, finché il chicco non diventa traslucido, il brodo caldo per mantenere sempre il bollore. E la mantecatura, rigorosamente fuori dal fuoco, “con burro freddo, a fiocchi, perché il riso incameri al meglio il grasso”. Carlo Cracco, da un lato, paga il suo essere nazionalpopolare. Ma tra le sue qualità migliori – oltre a essere un cuoco di grande talento “lavoro da 34 anni, e l’esperienza conta. Quando ho aperto nel 1999 a Milano molti non hanno capito. Che vai a fare a Milano, non si mangia bene, non ci sono buoni ristoranti, dicevano. E invece ora la città ha una concentrazione di bravi chef incredibile. Io ci ho scommesso dall’inizio” – c’è proprio quella di saper reggere il ruolo, e prestarsi al gioco. Anche nei momenti più difficili: “Quando ti tolgono qualcosa, ti dispiace sempre. Ma la storia dello chef televisivo è una paranoia tutta italiana: all’estero, se vai in tv, meriti considerazione in più. Il nostro lavoro è anche saper gestire bene una brigata”.

 

Igles Corelli e la cucina circolare

Al lavoro di squadra, e all’insegnamento sul campo, è molto legato anche Igles Corelli, maestro di tanti giovani chef di talento. Il suo passato è uno spaccato importante della storia della cucina italiana, a cominciare dal Trigabolo di Argenta. Molti, arrivati al Lingotto attirati dai successi televisivi di Igles su Gambero Rosso Channel, la sua storia non la conoscono.  Lui si presenta con la semplicità di sempre, incarnando alla perfezione lo spirito di Gourmet: il linguaggio è conviviale e alla portata di tutti, anche quando si tratta di introdurre concetti di cucina complessi. Il racconto godibile, il profumo del risotto che sobbolle in pentola conquista tutti. Per essere a Torino ha lavorato dalle prime ore del mattino: sul palco porta la sua cucina circolare, “che non è una cucina di riciclo, ma un diverso approccio agli ingredienti”, a spreco zero. Mentre spiega la sua idea di risotto - rigorosamente Carnaroli o Vialone nano, tostatura in olio evo, cipolla stufata a parte, mantecatura fuori dal fuoco, “e tanti assaggi, per trovare l’equilibrio giusto” – dispensa trucchi facilmente replicabili a casa, frutto di una profonda conoscenza della materia prima. Qualche esempio curioso? Il segreto per fare un buon brasato, “fermando la cottura della carne a ¾ del tempo previsto: un passaggio al freddo per permettere alle fibre della carne di allargarsi, tirando dentro i liquidi. Poi, di nuovo sul fuoco. E il brasato resta umido”.  Sfata qualche mito – “la carne va salata dall’inizio e girata più volte in cottura” – e prima di servire il suo risotto al Mojito regala un’ultima verità: “La ricetta è una guida, ma in cucina non è legge. Perché in cucina si parla di equilibri”. A ognuno trovare il suo.

 

Pizza fritta: da specialità dei poveri a piatto internazionale

Due pile di mattoni poste a sostegno dei bruciatori collegati alla bombola del gas. Il profumo della farina, del lievito, l'odore di olio bollente sempre più pungente, il calore della frittura, il chiacchiericcio dei passanti che si fermano a osservare quei gesti ritmici e cadenzati. È la scena tipica di una qualsiasi domenica della Napoli del secondo dopoguerra, di una città in preda alla fame, dove anche l'utilizzo del forno a legna era diventato un lusso. La Napoli delle massaie, delle donne che scendevano nelle piazze a vendere fagotti di pasta lievitata che per decenni hanno rappresentato il piatto povero partenopeo per antonomasia. È l'antica storia della pizza fritta il punto da cui il maestro Gino Sorbillo comincia a spiegare le sue creazioni, conosciute e apprezzate in tutta Italia e non solo.

 

Ma è anche il racconto di zia Esterina, la donna a cui il pizzaiolo ha dedicato ben tre insegne (la storica di Napoli, una a  Milano e una a New York), “una bravissima cuoca con una gestualità unica, in grado di stendere e lavorare la pasta come nessun altra”. È una “danza” l'impasto, “un insieme di atti precisi e attenti, da compiere con attenzione ma senza fretta”. Una sincronia di movimenti che dà vita a una specialità “generosa, che poteva – e ancora oggi può – essere acquistata per pochi spiccioli”. Una ricetta umile che ha fatto il giro della Penisola e del mondo, conquistando il palato dei consumatori più scettici: “Come sempre, in questi casi, all'inizio le persone sono diffidenti verso quei piatti che sono stati da sempre destinati alle famiglie meno abbienti. E poi la pizza fritta è una tradizione tutta napoletana non facile da comprendere: a Milano, per esempio, i primi tempi non ha riscontrato molti favori. Oggi, i meneghini la mangiano camminando, proprio come fanno i napoletani, mantenendo così l'identità originaria del piatto, quella di cibo da strada goloso e democratico”.

 

I segreti del maestro

Ricetta semplice, sì, ma non scontata. Manualità a parte, infatti, per realizzare una pizza fritta d'autore occorrono ottime materie prime e una conoscenza profonda delle lievitazioni. Per la sua pizza da maestro, Gino utilizza 1 litro di acqua e 1,5 chilogrammi di farina, 45 grammi di sale, e 1 grammo di lievito ogni litro d'acqua. Prima regola: mani asciutte, “per afferrare il panetto e stenderlo a meglio”, seconda regola, la pressione durante la stesura, “dall'alto verso il basso e mai dall'interno verso l'esterno”, terza regola, avere pazienza, “bisogna prendere la mezzaluna per le 'orecchie' e adagiarla con calma nell'olio caldo, facendo immergere dapprima la parte centrale e poi i lembi esterni”. Questo il momento cruciale: “La pizza deve galleggiare; se va a fondo, significa che c'è qualcosa che non va nella lievitazione, oppure che abbiamo bucato la pasta”. Pochi i passaggi da tenere a mente, “ma fondamentali: senza di questi, difficilmente otterremo un buon risultato. L'arte bianca è sentimento ma anche precisione”.

 

a cura di Livia Montagnoli e Michela Becchi

Grandi chef, dieta sana e spreco alimentare. Italia e Spagna unite per un mondo migliore

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L’enogastronomia oggi, oltre che un fondamentale motore economico, è più che mai una forma di cultura e un’espressione di creatività. Se ben gestita, può diventare anche uno straordinario veicolo di valori etici e sociali. Lo scambio tra Italia e Spagna per la Settimana della Cucina Italiana nel mondo. 

ITmakES Food&Wine

Italia e Spagna condividono da tempo la medesima filosofia in ambito culinario ed enologico, oltre a molte similitudini nel settore dell’economia agricola, che produce gli ingredienti base della Dieta Mediterranea. Il progetto ITmakES Food & Wine,ideato e promosso dall’Ambasciata d’Italia a Madrid - all’interno del più ampio programma della seconda Settimana della Cucina Italiana nel mondo (iniziativa della Farnesina, dal 20 al 26 novembre) -propone un approccio innovativo nei rapporti di cooperazione tra i due Paesi in ambito enogastronomico.

La cucina è un ponte tra Italia e Spagna- ha spiegato l’ambasciatore Stefano Sannino presentando l’iniziativa - e la società civile lo ha capito prima ancora dei nostri rispettivi governi. ITmakES Food & Wine è una piattaforma per promuovere nuove opportunità in ambito sociale, lavorativo e della salute. Anche attraverso la buona cucina possiamo fare qualcosa in più perché il mondo sia migliore”.

Sfruttando l’immagine e la popolarità dei grandi cuochi, e grazie all’indiscusso appealdella buona cucina e del buon vino made in Italy,si vuole sensibilizzare il pubblico su temi come l’alimentazione sana, la sostenibilità, l’innovazione e la solidarietà, oltre a creare nuove opportunità di lavoro per giovani professionisti. All’iniziativa hanno aderito moltissimi settori della società civile italiana e spagnola: enti pubblici e privati, ristoratori, imprenditori, giornalisti e critici gastronomici.

Ramon Freixa (credits Ramon Freixa)

I protagonisti

Alla manifestazione partecipano gli chef spagnoli Ramón Freixa (Hotel Unico, Madrid), Juan Antonio Medina (ristorante A’Barra, Madrid), Fernando del Cerro (Casa Josè, ad Aranjuez), Julio Fernández (ristorante Abantal, Siviglia) e Arturo Martínez (Capritz a Terrassa - Barcellona, una stella Michelin). Tra gli italiani, Pino Cuttaia (La Madia di Licata) insieme con l’andaluso Julio Fernández, lunedì 20 a Siviglia dedica una cena a Sicilia e Anadalusia: cibo, etica e legalità. Carlo Cracco, invece, sarà ospite con il collega Martínez allo IED di Barcellona per parlare del futuro del cibo (venerdì 24), mentre parteciperà alla cena benefica intorno sul temaLombardia e Catalogna: cibo, creatività e innovazione sabato 25. Il napoletano Alfonso Caputo, chef della Taverna del Capitano, firma il menu di mare della cena di gala nell’ambasciata d’Italia a Madrid (giovedì 23).

Non solo però grandi ristoranti, rinomati chef e menu stellati. ITmakES Food & Wine affronterà in Spagna anche il tema dello spreco alimentare e dell'indigenza, fenomeno sociale in preoccupante crescita anche nelle metropoli dell’Occidente.

 

Chef contro lo spreco alimentare

Buen@provecho (buon appetito in spagnolo) è l’iniziativa che coinvolge lo stesso Caputo, che cucinerà il 22 novembre per la mensa pubblica della Hermanidad del Refugio (antico centro di accoglienza per indigenti a Madrid), utilizzando le eccedenze alimentari di mercati rionali della città; l’evento è in collaborazione con Equoevento, ong italiana che ritira e distribuisce gli avanzi di cene, banchetti e matrimoni.

Altrettanto innovativa e interessante è l’iniziativa di venerdì 24, dal titolo Special Cook - La salute nel tuo piatto. Si svolge nell’Ospedale universitario de Tajo de Aranjuez(incantevole località a 40 chilometri da Madrid) per iniziativa del gastroenterologo italiano Oreste Lojacono e della ong milanese Officinebuone. Un piccolo masterchef vedrà sfidarsi ai fornelli della mensa dell’ospedale i due giovani cuochi italiani Stefano De Venuto (Trattoria di Brera, Madrid) e Paolo Valentino (Ristorante Liberty, Milano), alle prese con piatti succulenti, ma semplici e adatti all’alimentazione controllata dei malati. La giuria è composta da 15 pazienti, capitanati dallo chef Fernando del Cerro.

Dedicato infine ai nuovi talenti della cucina di domani, è il concorso Prepara il tuo futuro, per sommelier (21 novembre a Madrid) - che hanno già partecipato a un corso di degustazione di vini italiani - e cuochi (febbraio 2018); il concorso è aperto a giovani italiani e spagnoli, purché minori di 35 anni. In palio un corso alla Scuola internazionale di cucina italiana Alma, con sede a Parma. In giuria questa volta, tra critici enogastronomici e giornalisti, ci sarà il celebre chef madrileno Ramón Freixa.

 

a cura di Federica Lonati

 

 

 

Il nuovo ristorante di Frescobaldi a Firenze, in piazza della Signoria. L'intervista a Diana Frescobaldi

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Alla vigilia dell'inaugurazione del nuovo ristorante del celebre gruppo vinicolo toscano, Diana Frescobaldi ci racconta obiettivi e speranze dietro al progetto di ristorazione che porterà il marchio di famiglia nel cuore di Firenze, in società con i partner inglesi.  

Dopo Londra, si torna alle origini. La squadra è quella consolidata fuori confine, in partnership, al 50%, con la Good Food Society di Levent Buyukugur e Sanjay Nandi, che ha concretizzato i piani inglesi di Diana Frescobaldi, sotto il cappello della società Lilium. Così, dopo il ristorante aperto nella capitale britannica nel 2014, ora arriva un nuovo ristorante, nel cuore di Firenze, affacciato su Palazzo Vecchio, in posizione privilegiata su piazza della Signoria. Si inaugura martedì 21 novembre, con la cucina di Roberto Reatini (in arrivo dall'esperienza londinese) e i vini della celeberrima cantina toscana, con una carta che accosta alle etichette delle Tenute Frescobaldi una selezione di referenze rintracciate tra le migliori cantine italiane.

In tavola, invece, si privilegia la toscanità, con piglio contemporaneo: pane e pasta fatti in casa, ricette di famiglia riportate in auge, prodotti stagionali del territorio. A pranzo e cena, 7 su 7, ma pure nelle ore pomeridiane, per incontrare le esigenze del pubblico internazionale, con un menu ideato ad hoc. In tutto 130 coperti, tra sala principale, privè del secondo piano, cocktail bar e dehors, su progettazione dello studio spagnolo Lazaro Design. Senza dimenticare che, a Firenze, la famiglia già gestisce con successo il wine bar con cucina Dei Frescobaldi, in via dei Magazzini dal 2002. E la strategia di diversificazione del marchio, con forte attenzione per l'ospitalità e l'alta cucina, è nei piani del gruppo da diversi anni a questa parte.

In occasione dell’apertura del nuovo ristorante Frescobaldi, abbiamo incontrato Diana Frescobaldi, che ci ha raccontato le novità e i progetti futuri.

 

Perché la scelta del trasferimento?

Avremmo sempre voluto uno spazio fuori più ampio, tanto apprezzato nel centro storico della nostra bella città e che il nostro attuale ristorante di via de' Magazzini, che ci ha dato e sta dando ancora grandi soddisfazioni, non ha. Attualmente abbiamo dei limiti strutturali, legati anche alla cucina, che non permetteva di fare, per esempio, pasta fatta in casa e fritti. Un anno fa siamo venuti a conoscenza di questa opportunità in piazza della Signoria, proprio quando stavamo decidendo per dei lavori di manutenzione del nostro ristorante. Piazza della Signoria è una delle piazze più belle al mondo e, spostarsi lì, sarebbe stato un incremento d'immagine per l'azienda. Avremo 65 posti all'esterno su Palazzo Vecchio, che personalmente non smetterà mai di emozionarmi ogni volta che ci passo. Anche all’interno i coperti saranno 65, leggermente meno rispetto a Via de' Magazzini, ma avremo una saletta privè da 20 posti sempre sulla piazza, e novità, rispetto al ristorante di Via de' Magazzini, un cocktail bar.

 

Che investimento è stato fatto e chi sono i partner dell’iniziativa?

L’investimento complessivo è di 2,5 milioni. I partner dell'iniziativa, Levent Buyukugur e Sanjay Nandi, sono gli stessi con cui abbiamo aperto il ristorante Frescobaldi in Mayfair a Londra. L'intenzione era di portare un po' di novità a Firenze pur restando in un'offerta classica sia nel decoro che nel menu, mai dimenticando il nostro DNA fiorentino.

 

Chi sarà il nuovo chef?

Lo chef sarà Roberto Reatini, che è stato alla guida del ristorante Frescobaldi di Londra Mayfair per tre anni, fin dall'apertura.

 

Quale sarà l'impostazione della nuova filosofia culinaria?

L'intenzione è di offrire una cucina toscana classica con un tocco, a volte, di contemporaneità. 



Continuerà la formula ristorante wine bar?

Noi siamo in primis dei produttori di vino, quindi l'anima del wine bar ci sarà sempre, ossia sarà sempre possibile prendere un bicchiere di vino abbinato a salumi toscani e non. 

 

Sviluppo del brand: previste nuove aperture?

L'intenzione è di aprire nelle principali città, ma un passo alla volta. Prima apriamo e consolidiamo il nuovo ristorante fiorentino, poi si vedrà. 

 

Ristorante Frescobaldi | Firenze | piazza della Signoria | dal 21 novembre 2017

 

a cura di Leonardo Romanelli

Gourmet Food Festival. La cucina per tutti, dalla carne al dolce alla pizza, con Christian Milone, Iginio Massari e Simone Padoan

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L’ultima giornata di Gourmet Food Festival, al Lingotto di Torino, porta sul palco altri volti noti dell’enogastronomia italiana, ben felici di confrontarsi con una manifestazione pop. Con Christian Milone si scopre come scegliere la carne, Iginio Massari racconta come realizzare il dolce perfetto. E Simone Padoan svela i suoi segreti per la pizza. A casa propria. Intanto i maestri della pizza si raccontano.

Il bollito piemontese

È domenica mattina, e Torino si sveglia baciata da un bel sole autunnale. Al Lingotto Fiere, dalle prime ore del mattino si riparte per l’ultima giornata di Gourmet Food Festival. E l’Agorà si scalda col racconto di tradizioni molto familiari per i torinesi, che dell’infanzia ricordano il profumo di bollito della domenica mattina, in tavola per il pranzo del giorno di festa. È il ricordo più caro a Christian Milone, che tra i profumi della cucina è cresciuto sopra al ristorante di famiglia, a Pinerolo, dove oggi dirige la Trattoria Zappatori, con una personalità che gli ha permesso di conquistare l’attenzione della critica e la fiducia di un pubblico in cerca di una nuova rappresentazione della cucina di territorio. In Piemonte il bollito è un’arte, si prepara con 7 tagli diversi, accompagnato dai bagnetti. Per Christian, spesso frastornato dagli odori invadenti della cucina del piano di sotto, “il profumo del bollito, così delicato e morbido, è il momento più felice di quando ero bambino. Ho ricominciato a cucinarlo al ristorante solo per tornare a sentirne l’odore”. Sul palco di Gourmet arriva accompagnato dalla mostarda Fredo, con la carne di fassone della macelleria Mastro Taricco di Robilante. Il taglio scelto – la vena – privilegia una percentuale di grasso e collagene importante, nonostante “la carne di fassone di collagene e grasso ne presenti percentuali piuttosto basse”.

Christian Milone

La carne. Come sceglierla

A parlare sul palco, protagonista insieme a Christian Milone della lezione sulla carne – come sceglierla, riconoscerla, utilizzarla in cucina – è Fabrizio Lombardi, il volto di una delle più celebri macellerie del territorio, recentemente sbarcata anche a Torino, dopo 35 anni di attività a Robilante, dove si macellano le carni dell’allevamento di proprietà, 100 capi di fassone piemontese da filiera corta. Un tripudio di piemontesità, per un incontro che parte dalle basi – quanti sanno che il fassone è una recente “modificazione genetica ipertrofica naturale della razza piemontese, allevata solo dal 1870”? – e arriva in tavola, con la consueta, generosa, dose di consigli pratici che portano lo chef a dialogare in modo semplice e diretto con una platea di amatori e appassionati. “La prima domanda da fare al macellaio?” provoca Taricco “Chiedergli se la carne che vende è fresca: se la risposta è sì, allora uscite subito!”. Sulla carne, la sua percezione visiva, il suo utilizzo in cucina, moltissimi sono i luoghi comuni da sfatare: “La carne non va consumata fresca, richiede una frollatura di almeno tre settimane, perché la fibra si rilassi. La pratica però ha finito col perdersi perché è antieconomica: la carne frollata perde il 20-25% di peso”. Il consiglio più utile, al contrario, è quello di diffidare dai banchi ricolmi di carne rossa in modo innaturale – “rossa inviperita” l’aveva definita sabato sullo stesso palco Cristiano Tomei dell’Imbuto di Lucca, diffidando il pubblico in sala dall’acquistare i soliti tagli, per privilegiare invece parti meno utilizzate, come la pancia del manzo, e razze autoctone del territorio, la garfagnina nel suo caso – senza timore di acquistare una carne più scura, “con il grasso giallo come quello che potreste trovare nelle macellerie dei Paesi Baschi”, gli fa eco Milone.

Vitello tonnato christian Milone gourmet

Il vitello tonnato

A Gourmet, lo chef di Pinerolo interpreta a modo suo un altro grande classico della cucina piemontese (“che non rinuncia mai alla carne”): il vitello tonnato, con un girello di fassone di Mastro Taricco, frollato per tre settimane. La sua è una gestione attenta del prodotto, rispettosa delle caratteristiche nutrizionali della carne: “Abbiamo smesso di cuocere la carne alla ‘spera in Dio’, come diceva mio padre”. Ma pure il ricorso obbligato alla tecnologia è bandito, soprattutto quando diventa superfluo, o peggio ancora deleterio. Prima di essere affettato il suo girello viene cotto a 82° C, fino al raggiungimento di 54° C al cuore. Tutto si completa con una salsa tonnata che alla ricetta classica – uova, tonno e capperi sotto sale – unisce aceto e caramello al peperoncino. Completa una foglia di insalata riccia, per l’equilibrio amaro. Con un ultimo appello all’orgoglio piemontese, che rintraccia le origini della carne cruda nella tradizione del territorio, prima che Cipriani, a Venezia, avesse l’intuizione di “inventare” il carpaccio (all’albese), all’inizio degli anni Cinquanta.

Iginio Massari

Pasticceria casalinga con Iginio Massari

Ma nell’ultima giornata di Gourmet c’è spazio anche per il maestro della pasticceria italiana, Iginio Massari, che intorno al palco richiama il pubblico delle grandi occasioni. Chi meglio del grande pasticcere bresciano, del resto, può raccontare i dolci “dei sentimenti”? Di competenza tecnica, e conoscenza dei processi di trasformazione e reazione della materia, Massari ne ha da vendere. Ma la sua lezione è un invito a cimentarsi con i dolci fatti in casa, senza paura di incappare negli errori più comuni (almeno non dopo aver appuntato i consigli del maestro): dosi e pesi approssimativi, eccessiva manipolazione delle masse montate a base di grassi, cotture scorrette per temperatura e gestione del vapore. “Per fare il cibo bisogna avere conoscenza di cosa e come si utilizza”. Più semplice di così. E invece no, persino nei laboratori di pasticceria: “Negli ultimi 20 anni la professione è andata sfumando, invece le regole bisogna rispettarle”. Persino lui, un mostro sacro del mestiere, quando si confronta con i lieviti – specie il panettone, “il dolce più difficile di tutti” – ha il dubbio di sbagliare: “Dominare la natura della fermentazione è un percorso molto complesso”.

Massari dolci

I dolci dei sentimenti

In parallelo corre la preparazione storica e la curiosità verso la tradizione: “Non c’è innovazione senza conoscenza del passato. L’evoluzione avviene per necessità, o attraverso leggi definite”. In questo senso la sua “è una pasticceria trasgressiva: non c’è progresso senza trasgressione”. E l’obiettivo di un bravo professionista dev’essere uno: fare qualità. Senza troppi giri di parole. La dimostrazione pratica è la crostata con confettura d’albicocche che Iginio porta sul palco. Ogni passaggio ha il suo significato: “La confettura non deve mai superare di oltre il 25% la percentuale del peso della frolla. E la griglia non è un vezzo, è necessaria perché produce vapore in cottura, garantendo alla confettura di restare entro i 96° C e non stracuocersi”. La crostata, insieme al plum cake, secondo il maestro sono dolci che in casa non dovrebbero mai mancare. Il suo dolce dei sentimenti, invece, “è la millefoglie di mia mamma: non sono ancora mai riuscito a replicare la sua crema”. Applausi a scena aperta e assaggi che conquistano tutti, mentre Iginio si congeda ricordando quando da bambino cadde in una vasca di crema alla vaniglia, “proprio come Achille immerso per ottenere l’invulnerabilità”. Il dono “magico” ricevuto in sorte dal maestro, oggi, è sotto gli occhi di tutti. Per la gioia di chiunque ami la pasticceria.

simone padoan

La pizza. Una questione di scelte ben precise

Arriva da quel tempio del lievitato – pizza, pane, dolci - che è I Tigli di San Bonifacio, Simone Padoan,che in una lezione densa di nozioni preziose mette giù, uno dopo l'altro, consigli e idee per la pizza fatta in casa. Non senza di aver avere ricordato, prima, il ruolo di divulgatore e di anello di congiunzione tra artigiano e consumatore di chi prepara e somministra il cibo, sia esso cuoco o pizzaiolo. La sua pizza, ricordiamolo, è di quelle cosiddette “a degustazione”, grandissima base elaborata secondo un'idea di pizza del tutto personale, frutto di scelte precise dalle farine alla lavorazione, e grandissimi condimenti quasi sempre cucinati e non solo assemblati. In un contesto in cui ospitalità, carta dei vini, materie prime, procedure e attenzioni sono da grande ristorante, con tanto di cucina a vista. Pur senza mai mancare di mettere al centro di tutto la pizza. “Anche in questo prodotto si deve trovare il proprio percorso e lavorare per esprimersi attraverso quello” suggerisce Padoan. Partire dal risultato che si vuole ottenere e andare a ritroso, individuando ingredienti, lavorazioni e cotture a partire da quello. Perché ci sono tante arti dietro una pizza: quella dell'impastare, quella del lievitare, quella di stare al forno. Ai Tigli ci sono 7 tipi di impasti: 2 per cotture espresse (con idratazione più bassa, cuoce 4 minuti in forno a legna), 2 leggermente più acidi, con pasta di recupero, gli altri per doppia cottura (10 minuti a 260° e 3 a 280-290°) ad alta idratazione, anche oltre l'80%; per inserire più acqua nell'impasto aggiunge una parte di farina integrale gelificata, che ha la caratteristica di trattiene umidità, la stessa caratteristica del lievito madre e della fibra delle farine integrali. La doppia cottura permette di avere una parte croccante esterna e una morbida dentro, ma solo eliminando l'acqua in eccesso, che fuoriesce come vapore dall'alveolo non schiacciato ma tagliato di netto, per questo seziona il prodotto con il coltello.

padoan

La pizza in casa

Croccante e friabile, così vuole le sue pizze Padoan. Questo risultato si ottiene con farine con alto valore proteico e un impasto (ad alta idratazione e molto lavorabile) arricchito da un grasso. In alternativa, invece, Padoan usa farine dal basso valore proteico (sempre integrali o semintegrali che hanno un valore nutrizionale più alto e con un rilascio più lento, scongiurando il rischio di picco glicemico) adatte a lavorazioni più brevi: i suoi sono impasti fragili che richiedono una grossa manualità.

Il tutto, però, senza demonizzare tecniche più casalinghe: “va bene anche il lievito di birra in piccole quantità per preparare una biga, più grezza, o un preimpasto più lavorato con aggiunta di olio e sale” dice e poi dà la sua ricetta: “due grammi di lievito di birra per un chilo di farina e 450 grammi di acqua da impastare e far maturare per 16-18 ore a circa 17-18 gradi prima di fare un secondo impasto, con altri 100 grammi di farina dolce”. Un grammo o poco più di sale aiuta a la maglia glutinica e il controllo della fermentazione. L'impasto riposa, poi suddiviso in palline, lievita per circa 3 ore e mezzo fino a triplicare di volume. Per la cottura, una pietra in refrattario per le stufe in maiolica è il segreto per avere temperature altrimenti difficili da raggiungere in casa. Si acquista nei negozi di edilizia ed è un volano di temperatura, immagazzina calore e permette di cuocere la pizza – in teglia o direttamente sulla piastra – a temperature più alte.

 

a cura di Livia Montagnoli e Antonella De Santis

 

 

 

Piatti e cocktail d'arte. Il trailer con Mauro Uliassi per la seconda stagione su Sky Arte

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Manca poco all'inizio della seconda stagione di Piatti e cocktail d'arte, la produzione di Sky Arte che sviluppa le relazioni tra arte e cucina, con i piatti degli chef e i cocktail d'autore. Dopo la prima serie con Gualtiero Marchesi, è ora la volta di Mauro Uliassi, affiancato dal bartender Dario Comini e dal critico Francesco Bonami.

Il programma

Gennaio 2017. Sky Arte decide di avventurarsi in una nuova produzione in cinque puntate, insistendo ancora una volta sull'ormai assodato connubio arte/cucina, “Piatti e cocktail d’arte”, con la partecipazione di Gualtiero Marchesi, del bartender Dario Comini, e del critico Francesco Bonami. Allo chef, il compito di tradurre l'opera di cinque grandi personalità dell’arte contemporanea (Manzoni, Fontana, Pollock, Malevic e Burri) in piatti, traendo ispirazione dalle loro creazioni per sperimentare con gusti, aromi, sapori, contrasti, consistenze, armonie. A ideare il programma, Didi Gnocchi per 3d Produzioni, con la regia e la direzione artistica di Michele Mally.

Novembre 2017. Dopo il successo della prima edizione, il format torna ancora una volta con Comini, Bonami e Mauro Uliassi, che realizzerà cinque portate ispirate a cinque diversi artisti contemporanei, fra cui il fotografo senigallese Mario Giacomelli.

La seconda stagione e il trailer

Sullo sfondo, le spiagge di Senigallia, le stesse che fanno da cornice al celebre ristorante di Uliassi. Ma non solo. Nel trailer, infatti, si intravede anche il bancone del Nottingham Forest di Milano, regno di Comini, e altre anticipazioni suggeriscono che ci saranno anche scene girate a Firenze, nella nuova serie in onda su Sky Arte a partire da mercoledì 22 novembre, ore 20.15. Perché se il programma si focalizza sul legame fra arte e cucina, per Uliassi la prima fonte di ispirazione resta il mare, che èossessione per poeti, fotografi, pittori e cantautori”. Elemento celebrato da artisti di ogni tempo e luogo, da sempre al centro di racconti, leggende, tele, poemi e sculture: il mare è origine ed epilogo delle ricette e dei percorsi di degustazione ideati dal cuoco. È proprio dalle acque che parte il viaggio dello chef con Comini e Bonami,un viaggio artistico tutto da gustare”. Per scoprirne di più, basta sintonizzarsi su Sky Arte, canale 120, il prossimo mercoledì. Intanto, per i più curiosi, qualche scena dal trailer.

Piatti e cocktail d'autore | Sky Arte HD, canale 120 | dal 22 novembre 2017

a cura di Michela Becchi


Caffè, moka, tè. Consigli per l’uso da Gourmet Food Festival

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Un barista professionista che svela i trucchi per una moka perfetta sul palco del Lingotto. È solo uno dei molteplici protagonisti di Gourmet Food Festival. Ecco i suoi consigli.

Le regole per la moka perfetta

Cioccolato, torte, lieviti, dolci d'autore di ogni tipo. Ma ad accompagnare ogni colazione o pausa merenda, ci sono sempre loro, il tè e il caffè, le due bevande più apprezzate e consumate in tutto il mondo (dopo l'acqua, ça va sans dire). Nella patria dell'espresso, poi, non c'è giornata che non inizi senza quei gesti ripetuti, quel gorgoglio così familiare e il profumo che accomuna tutte le case degli italiani. È il rituale della moka, caffettiera brevettata nel 1933 sulle rive del Lago d'Orta, a Omegna, da Alfonso Bialetti, uno strumento che qualsiasi amante del caffè sa utilizzare. O no? A chiarire ogni dubbio, Giulio Panciatici di Orso Laboratorio Caffè di Torino, che spiega passo dopo passo quali accortezze tenere per ottenere un buon risultato. A cominciare dall'oro nero, “in grani, da macinare al momento, così da conservare più aromi e profumi”, per passare poi all'acqua, “meglio se in bottiglia, e tiepida, per far sì che il caffè venga su prima senza bruciarsi”. Sdoganando, infine, tutti i falsi miti che ruotano attorno all'amata bevanda: “Niente collinetta con la polvere di caffè, che va livellata in modo da ottenere una superficie piana”. Si pone sul fuoco, si attende, inizia a gorgogliare: “Ora è tempo di spegnere, perché l'ultima parte dell'estrazione porta con sé aromi più cupi che non vogliamo in tazza”.

Riconoscere un buon caffè

Moka a parte, il mondo del caffè è ampio e ancora sconosciuto, e il pubblico sempre più curioso. Ecco, dunque, le domande di rito su cappuccini, espressi, schiuma: “Intanto una differenza sostanziale, quella fra arabica e robusta, che spesso troviamo insieme nelle miscele di tanti bar. Maggiore acidità e sentori più floreali e fruttati nella prima, note di cioccolato, nocciola, tostatura nella seconda”, che presenta anche maggiore corpo, “caratteristica molto amata dagli italiani ma chenon è indice di qualità”. Basta creme spesse e dense, dunque, “guardiamo, piuttosto, l'equilibrio, la pulizia e l'aromaticità della tazza”. L'arabica, certamente, è la specie migliore, “ma non fatevi ingannare dalle etichette, perché dire 100% arabica equivale a dire 100% nebbiolo per un vino”, una definizione non sufficiente, perché a fare la differenza sono l'origine, la piantagione, la raccolta, la lavorazione. Un consiglio per orientarsi al bar e durante gli acquisti? “Siate sempre curiosi: chiedete al vostro barista quali caffè ha a disposizione, siate più esigenti”. Senza dimenticare mai di controllare l'igiene, “fondamentale nei bar”, a cominciare dall'ormai popolare purge, “l'erogazione dell'acqua dalla macchina che permette di eliminare i residui del caffè precedente e pulire le doccette”, per finire con la pulizia completa della macchina espresso, “io la faccio ogni sera”, senza dimenticare di guardare la lancia vapore, “che va pulita sempre dopo ogni cappuccino”.

… E il tè

Via i fornelli, via il macinacaffè, via le grandi macchine. Per realizzare un buon tè in casa basta un semplice strumento, spesso utilizzato per la preparazione di caffè, ma che può rivelarsi un valido alleato anche per chi è alle prime armi e vuole iniziare a cimentarsi con l'infusione di tè in foglie. È la french press, una caffettiera che si compone di uno stantuffo a rete metallica e una caraffa. “Si comincia versando un po' di acqua calda nella contenitore, per scaldarne le pareti, e poi si aggiunge il tè in foglia”, in questo caso un prodotto firmato Mariage Frères. “Dopo aver riempito la caraffa, e dopo una pre-infusione di circa 3 minuti, andiamo ad abbassare lo stantuffo verso il fondo, in modo da comprimere le foglie di tè e separare la parte liquida da quella solida”. Il risultato è una bevanda dalla trama aromatica complessa ed elegante, ma attenzione, perché in questo caso non ci sono regole fisse: “Per la moka possiamo provare a stabilire dei parametri generici, ma per il tè, proprio come per l'espresso e il caffè filtro, è difficile fornire delle indicazioni, perché ogni prodotto vuole la sua tipologia di acqua, a una determinata temperatura per un tempo specifico”. Una vera arte, quella del rituale del tè che, proprio come il caffè, rappresenta una liturgia a tutti gli effetti: “Stiamo parlando di due bevande che hanno da sempre un ruolo sociale importante nella vita delle comunità di tanti Paesi. Non dimentichiamocelo mai”.

a cura di Michela Becchi

Cucina Italiana nel Mondo, tra celebrazioni e guide digitali

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La guida Top Italian Restaurants del Gambero Rosso nasce per portare ordine nel vortice della ristorazione italiana all’estero in cui spesso l’Italian Sounding soffoca il vero made in Italy. Un fenomeno tanto preoccupante che ha riunito tre Ministeri (Beni Cuturari, Esteri, Politiche Agricole) e molte istituzioni, a lavorare alla seconda Settimana della Cucina Italiana nel Mondo, dal 20 al 26 novembre 2017.

Italiano autentico e italian sounding

Questione di secondi. Questione di dente. Dettagli che tradiscono l’identità di chi lavora in cucina. Sensibilità, prodotti, pregi e difetti, ce li portiamo dietro ovunque andiamo. E un cuoco campano tirerà la cottura sempre un po’ di più, anche se lavora da vent’anni a Hong Kong. Anche se non è più tornato. Viaggiando con una certa continuità, e in modo scientifico, siamo andati incontro a esperienze fantastiche, comiche, in rari casi tragiche. La guida Top Italian Restaurants del Gambero Rosso, online da fine ottobre, nasce proprio per rimarcare un’autenticità d’intenti, per riconoscere il lavoro di chi, fuori dai nostri confini, fa ricerca, dà valore al prodotto d’origine, lo abbina, lo comunica. Tutto questo in un contesto globale nel quale l’Italian Sounding è più norma che eccezione. Al punto da costituire un danno ingente – economico e di immagine – per l'Italia.

Proprio per correre ai ripari e contribuire alla diffusione della nostra enogastronomia più autentica (con le dovute conseguenze per il turismo e l'export) è stata indetta la Settimana della Cucina Italiana nel Mondo - quest'anno dal 20 al 26 novembre - giunta alla sua seconda edizione. Un'iniziativa che prende vita a partire dai nostri avamposti fuori dai confini nazionali, istituzionali e non solo: sono infatti ambasciate, istituti di cultura, consolati, che affiancano il lavoro che, quotidianamente, fanno i ristoranti, le enoteche e le pizzerie che portano avanti il vessillo della nostra tradizione gastronomica più vera. Insegne che emergono per qualità e autenticità nel mare magnum delle molte attività con un richiamo solo di facciata alla nostra tradizione. Sono infatti più di 100mila gli esercizi stimati nel mondo che si rifanno alle nostre tradizioni, 370 circa al momento, quelli selezionati nella guida Top Italian Restaurant. Una nicchia, sicuramente, ma che ben racconta un cambio di passo della proposta, con una nuova generazione di chef di talento, con piglio e visione internazionale, capaci di ravvivare le nostre filosofie. Contando finalmente su una disponibilità di ottime materie prime in ogni parte del globo in tempi rapidissimi. La cucina italiana all’estero non si esporta a colpi di serate con chef firmati o collaborazioni e consulenze spot, più o meno proficue dicono le nostre visite, ma con una proposta seria modulata giorno per giorno, spiegata, fatta di piatti riportati in cucina dal cliente e comprensione del gusto locale. La cultura gastronomica si trasmette ai consumatori mediante l'esperienza concreta del prodotto e della cucina italiana, la spiegazione delle loro specificità, la narrazione dei nostri territori, come tenta di fare, per il secondo anno, l'iniziativa che vuole essere solo un momento di elaborazione di un lavoro di concerto tra diverse realtà che deve continuativo.

 

Prodotti top e ricette immancabili

Vitello tonnato e tiramisù i piatti più presenti all'estero; burrata, ‘nduja e tartufo i prodotti usati con più malizia in cucina. Perché spesso si ricorre a qualche prodotto iconico (o alla sua opaca riproduzione) per accreditarsi come italiano. Ma in mezzo a un mare di proposte di chef improvvisati e catene straniere che sfruttano i nostri nomi (eclatante il caso di Vapiano con i suoi 180 ristoranti in più di 30 Paesi, ma anche Pizza Hut e Starbucks per certi versi si servono di una certa allure italiana per fatturare miliardi) ci sono anche punte di vera eccellenza. Oggi a Tokyo, come a Hong Kong o San Francisco, si possono fare esperienze di cucina italiana superiori ad alcune città del nostro Paese. No, non esageriamo. È una questione di sensibilità gastronomica del posto, ma anche d’investimenti che attirano professionalità e talenti. Si è innescato un processo competitivo, s’importano materie prime sempre più di nicchia, cambia il rapporto con il territorio circostante. “La buona ristorazione italiana all'estero è cresciuta in maniera sproporzionata, la qualità degli chef e degli ingredienti che si usano è molto più alta di quello che si possa pensare in Italia. Qui in California le piccole aziende agricole locali che producono frutta e verdura negli ultimi anni sono più presenti e lavorano molto vicino agli chef, dandoci una mano a crescere la verdura che in California non si trova. Ad esempio io mi faccio piantare le cucuzze siciliane, le melanzane violetta, erbe mediterranee”, racconta Accursio Lotà, del Solare Restaurant a San Diego, fresco vincitore del Barilla Pasta World Championship. Una proposta di sapori di casa sempre più mirata e contemporanea, in linea con una clientela super esigente, che viaggia, che conosce i prezzi dei nostri prodotti e dei nostri vini.

 

L’arte dell’impasto

Di pari passo, il mondo sta scoprendo la complessità dell’arte italiana della pizza. Si moltiplicano forni costruiti secondo il dettame partenopeo anche in Australia, farine e relativi blend scelti con cura maniacale, impasti alternativi. Aprono pizzerie gourmet, pinzerie, la pizza napoletana non ha mai vissuto un periodo d’oro come quello attuale. Impasto soffice e arioso e grandi carte dei vini: la pizzeria sta diventando il luogo dove bere assai bene, con proposte mai viste nei locali cugini italiani. Come quella messa a punto dal sommelier tedesco Sebastian Georgi con il suo progetto 485Grad. Nel 2015 ha aperto il primo locale nel vivace quartiere latino di Colonia, a fine 2015 ha raddoppiato nella zona sud sempre a Colonia. Successo clamoroso, nel 2016 ha aperto anche a Dusseldorf, e da qualche mese sono due le insegne in città. Impasto ben eseguito, cornicione importante, impasto ad alto tasso d’idratazione, ingredienti selezionati e una selezione di Riesling, Champagne ed etichette italiane di culto da perdere la testa. Il tutto a prezzi intelligenti. La pizza diventa un pretesto per bere bene.

 

 

Ci spostiamo a Parigi con il caso di Gennaro Nasti. Nel 2015 apre la pizzeria napoletana Popine. Dodici mesi più tardi capisce che Parigi è la piazza giusta per osare e rilancia con l’apertura di Bijou, nostro premio per la pizzeria dell’anno: “Dopo il successo di Popine, hanno aperto più di 10 pizzerie in città: una al mese. Avevo bisogno di evidenziare e marcare il territorio, fare qualcosa che amavo. Ho creato 6 tipi d’impasti. Ogni impasto si porta dietro un vino e un ingrediente. Cucino sulla pizza, voglio far capire che la pizza è cultura. Ho trenta posti e una brigata da ristorante gastronomico, con tanto di sommelier. Devo dare dignità al prodotto, i miei clienti devono venire qui per vivere un’esperienza”, commenta Gennaro. Importa praticamente tutto dall’Italia: “persino il basilico”. La carta mette in fila 150 etichette di vino importanti. Non c’è nemmeno scritto pizzeria nell’insegna di Gennaro, ma in poco più di un anno è già diventato il locale di riferimento in città nel suo genere. E se ci spostiamo sul fronte della pizza romana, troviamo una serie clamorosa di aperture, sull’esempio della celebre Montesacro a San Francisco, dove Gianluca Legrottaglie ha creato un’enoteca/pinzeria deliziosa. Per dire, anche a Mosca ne hanno aperte tre nel giro di pochi mesi, sulla scia del successo della pinzeria dello chef bresciano Valentino Bontempi. Pizza & vino è il connubio vincente anche di Luigia, cinque le pizzerie in Svizzera. “E prestissimo apriremo a Dubai perché il mercato è finalmente pronto per apprezzare la nostra pizza napoletana”, annuncia il proprietario Enrico Coppola.

 

 

Dubai, nuova Mecca del food

Nel 2018 Dubai è pronta ad accogliere anche il nuovo ristorante di Bottura, mentre in autunno arriverà anche la cucina firmata da Niko Romito che dopo l’apertura al Bulgari Hotel di Pechino sbarcherà nel Golfo. Eppure, sembrano faticare tremendamente i ristoranti fine dining aperti dai nostri chef all’estero, spesso durano meno dei nostri governi. Siamo stati di recente due volte a Dubai e anche qui la cucina italiana sembra inchiodata alla sua tradizione. Quando varcano la soglia di un locale italiano, i clienti vogliono prodotti che evocano il nostro territorio, vogliono viaggiare, vogliono essere più rassicurati che sorpresi. È un tema comune trasversale alle grandi città: “non ci definiamo ‘ristorante italiano” ci spiegano da Rigo’, che premiamo come nuovo miglior opening “perché qui a Londra se sei italiano o cucini la tradizione oppure sei un pizzaiolo. Non è concepibile che tu faccia cucina di ricerca, d’autore e gastronomica. Per farla abbiamo dovuto per certi versi camuffare la nostra italianità che comunque è ben immaginabile per chi è del campo e riesce a intravedere il nostro dna”. Anche Pinchiorri – tornando a parlare di Dubai – ha dovuto radicalmente cambiare offerta in città. “Tanti ristoranti italiani vengono portati a Dubai senza calarsi nel tessuto di questa città, senza integrare quest’anima fatta di 200 nazionalità. Bisogna avere un’identità forte e spiegarla al cliente. Anche qui vogliono ora una cucina di prodotto. La sfida è gestire i costi di gestione, e un personale che va e viene, mantenendo la costanza”, commenta Pietro Piero Giglio, manager del nuovo Borro Tuscan Bistro. Il piatto più richiesto qui negli Emirati? Che domande, Pici all’aglione.

 

a cura di Lorenzo Ruggeri

 

Se volete saperne di più della cucina italiana nel mondo, dalle scelte – tutte tricolori - del sindaco di New York Bill De Blasio e famiglia, ai piatti che non possono mancare in un ristorante italiano all'estero secondo Niko Romito, fino ai 5 indirizzi imperdibili per mangiare italiano in oriente, leggete il servizio completo sul Gambero Rosso di novembre: ci sono mappe, ulteriori interviste e tante illustrazioni di Marcello Crescenzi. Un numero tutto rinnovato che potete trovare in edicola o in versione digitale, su App Store o Play StoreAbbonamento qui 

Il nuovo volto della Cina. Viaggio in tre tappe nell'Oriente del vino

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Approfondita conoscenza delle denominazioni italiane, interesse crescente da parte di giovani e donne, materie prime da far invidia ai migliori locali tricolori. Altro che Paese da istruire. Sono passati 7 anni dalla prima degustazione del Gambero Rosso in Cina e oggi il Paese è veramente pronto

Il Worldtour del Gambero Rosso riparte dalla Cina

Sigarette accese in degustazione, sbadigli, sguardi persi nel vuoto. Una delle nostre prime degustazioni in Cina fu uno shock. In sette anni, il rapporto con il vino, nello specifico, quello degli addetti ai lavori, è radicalmente cambiato. Di certo, è cambiato anche il nostro approccio, perché un atteggiamento squisitamente tecnico qui non ripaga, bisogna fare uno sforzo in più: calarsi e rimettersi in gioco. E, anno dopo anno, abbiamo visto un pubblico sempre più giovane avvicinarsi al vino, sempre più volti femminili, sempre più curiosi e affamati.

 

Pechino e le nuove generazioni

L’evento di Pechino si è tenuto nel nuovo Intercontinental di Sanlitun, il quartiere modaiolo dei grandi ristoranti (e delle pizzerie). Le domande, il modo di degustare e parlare di vino confermano che ci sono ormai basi solidissime per costruire un percorso di crescita, e i numeri - lo vedremo tra poco – supportano la tesi. “Perché l’Etna Rosso non è una Docg se questa è la qualità media? Qual è la differenza tra versante Nord e Sud”?. Sono solo alcune delle domande sollevate in uno dei tre seminari proposti. Le carte dei vini a Pechino stanno finalmente uscendo dal binomio Toscana-Piemonte, sta cambiando la ristorazione, ci sono trattorie con taglio regionale, pizzerie gourmet e nuove aperture firmate. “Il mondo del vino italiano non sta considerando ancora la nuova generazione cinese e un mondo che è soprattutto femminile e aperto all’innovazione. La nostra comunicazione è ancorata a un pubblico maschile, di businessman. Oggi in Cina c’è un consumo diverso, un altro approccio, vogliono vini più facili, con un packaging accattivante”, commenta Francesco Paganelli, che da più di 25 viaggia tra Cina e Giappone e da 10 lavora come export manager per il Gruppo Cevico.

 

Shanghai, dove il vino fa tendenza

Se a Pechino, viste anche le temperature, il gusto è ancora molto legato a vini concentrati e muscolosi, a Shanghai si vendono sempre più vini freschi e bollicine con moderato contenuto alcolico, continua Francesco. Anche qui – l’evento del Gambero ha attirato più di 1200 persone - il cambio di passo sembra proprio dettato dagli operatori, importatori e giornalisti che cercano sempre più finezza e bevibilità, pur ammettendo divergenze con le richieste del mercato.

È in atto un grande cambiamento sul vino italiano. Le vendite stanno decollando e non vedo come questo trend possa fermarsi, almeno fino al 2019. Dovete considerare che il vino è qualcosa entrato da poco nel lifestyle dei cinesi. Vedo il 1997 come data spartiacque, in quell’anno abbiamo ripreso il controllo di Hong Kong, ci siamo aperti al mondo, al commercio, sono arrivati tantissimi expat, soprattutto qui a Shanghai. I ventenni di oggi sono cresciuti con il vino, sono stati influenzati dagli occidentali, sono ora abituati a bere vino a tavola. Ancora questa generazione ha poca capacità di spesa, sta finendo gli studi, ma a breve avranno molti più soldi e cambieranno il mercato. I risvolti sul vino italiano possono essere enormi”.

Su cosa punto? Sono pronto a scommettere sui vini lombardi per il futuro. Hanno tutto: storia, appeal, diverse tipologie che qui possono sfondare”, aggiunge Ray Chen, direttore vendite di Sinodrink.

Più che trend e cambiamenti di gusto, diversi manager e sommelier di ristoranti italiani a Shanghai rimarcano l’importanza di guidare la scelta, come fa, ad esempio, Gian Luca Fusetto, food & beverage director di 8 ½ Otto e Mezzo Bombana, in Cina da ben 9 anni:“Bisogna creare un rapporto di fiducia, poi si fanno guidare completamente. Qui da Bombana hanno imparato a bere maturo, anche sui bianchi. E la presenza del vino italiano è finalmente profonda grazie al coraggio di professionisti, che hanno filtrato e portato cose nuove. Shanghai corre a ritmo diverso rispetto al resto della Cina, qui si sono messe le basi, sono molto ottimista ma c’è da lavorare tanto nel resto della Cina, nelle città di terza fascia dove ancora non arriviamo”.

 

Meno controlli sul vino europeo

Un ottimismo sospinto anche dalla sospensione, fino a settembre 2019, dell’Harmonized Certificate che avrebbe portato ulteriori analisi e controlli sul vino europeo. Il momento è caldo.

I dati forniti dal centro Eusme, relativi al periodo Gennaio-Agosto 2017, certificano che l’Italia è diventata il quarto paese per esportazioni, scavalcata la Spagna, con una quota del 6.6%, pari a 107 milioni di dollari. Numeri in crescita, ma ancora incredibilmente esigui se si pensa alle dimensioni del mercato e alla quota francese, che da sola vale oltre il 43% di tutta la torta.

Le cantine italiane devono capire che la Cina ha regole e logiche commerciali completamente diverse rispetto a Stati Uniti o Europa. Nella vendita non si può replicare quel modello, dobbiamo calarci nella prospettiva cinese. Sono estremamente ottimista, ma ricordiamo che parliamo di Cina: qui il governo può cambiare le carte in tavola dalla mattina alla sera”, sorride Francesco Paganelli.

 

È ancora Hong Kong la porta dell'Oriente

E Hong Kong come si muove? Come al solito, fa storia a sé. A differenza della Cina continentale, qui non occorrono licenze d’importazione, non ci sono dazi e tassazioni, tutti possono importare, non è imprescindibile la conoscenza della lingua cinese. Di riflesso la competizione è spietata, la conoscenza media decisamente superiore. L’evento del Gambero Rosso, come di consueto, si è tenuto il giorno prima della decima edizione della Hong Kong Wine & Spirits Fair (9-11 novembre). I nostri intervistati in fiera evidenziano una minore presenza di buyer da altri Paesi asiatici, ma allo stesso tempo una domanda che finalmente si sposta sui vini di fascia alta, sui grandi vini, con un prezzo medio della domanda in crescita. Il Gambero Rosso tornerà ad Hong Kong in primavera, in occasione di HK Vinexpo (29-31 maggio), con una masterclass d’approfondimento su italian wines & spirits ed un grand tasting.

 

Decima edizione per Hong Kong Wine & Spirits Fair

Intanto, la Fiera che si è appena conclusa è stata anche l'occasione per per annunciare un'importante novità doganale. Il Governo di Hong Kong – ospite d'onore della manifestazione – ha, infatti, comunicato che il vino riesportato da Hong Kong usufruirà di sdoganamento immediato una volta arrivato nei porti di destinazione. Agevolazione che prima era limitata a cinque distretti - Pechino, Shanghai, Tianjin, Guangzhou e Shenzhen - e che adesso sarà estesa a 42 distretti. In questo modo, Hong Kong si riconferma porta principale per la Cina. "Nei primi otto mesi di quest'anno” ha dichiarato il vice direttore esecutivo di HKTDC, Benjamin Chau “le importazioni di vino di Hong Kong hanno raggiunto 7,5 miliardi di dollari. La maggior parte dei vini è stata importata dalla Francia, dal Regno Unito e dall'Italia. Le importazioni dagli Stati Uniti e dall'Italia hanno registrato una crescita rispettivamente del 16% e del 22%”.

 

Honk Kong scopre l’Oltrepò Pavese

Ottimi responsi per la prima degustazione a Hong Kong interamente dedicata al metodo classico dell’Oltrepò Pavese, ai suoi 3mila ettari di pinot nero e una vocazione che pesca in una tradizione di oltre 150 anni. Sette le cuvée presentate, per una lineup di alto profilo. Abbiamo visto facce stupite, incredule al costo delle etichette assaggiate, e non si può certo dire che gli operatori locali non siano abituati ad assaggiare ogni giorni nuovi territori e stili. “Ma qual è il posizionamento in Italia di questi prodotti? Come mai non ne abbiamo sentito prima? Con questa qualità e questi prezzi si possono aprire straordinari occasioni di mercato se si ha una strategia”, dice a caldo Lina Au Yeung della Camera di Commercio di Hong Kong. A volte bisogna andare all’estero per comprendere la portata di ciò che abbiamo per le mani…

 

a cura di Lorenzo Ruggeri

 

 

Questo articolo è uscito sul nostro settimanale Tre Bicchieri del 16 novembre

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La Settimana della Cucina Italiana nel Mondo. I protagonisti e gli appuntamenti della seconda edizione

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Chef con la valigia e tanti appuntamenti di carattere culturale per l'edizione 2017 dell'iniziativa istituzionale che valorizza il ruolo della cucina italiana e il sistema agroalimentare tricolore. Tra i protagonisti, tanti volti noti della ristorazione d'autore, da Cristina Bowerman a Carlo Cracco, a Norbert Niederkofler e Igles Corelli. L'agenda. 

L'identità della cucina italiana

Anticipata dalla conferenza di presentazione presso il Ministero agli Affari Esteri della Farnesina del 10 novembre scorso, la seconda edizione della Settimana della Cucina Italiana nel Mondo prende il via contando sulla partecipazione di ristoranti, associazioni culturali, scuole di cucina, accademie che promuovono il made in Italy enogastronomico all'estero 365 giorni all'anno, e fino al 26 novembre apriranno le porte al pubblico per raccontarsi una volta di più, con il favore dei riflettori puntati addosso. All'iniziativa collaborano attivamente anche le istituzioni, tramite il coinvolgimento delle ambasciate italiane nel mondo, perché fare sistema è l'obiettivo primario di un'operazione culturale che sposa gli interessi economici e politici di un settore strategico per l'Italia. I punti all'ordine del giorno li abbiamo già esplicitati qualche giorno fa, tracciando le urgenze di una comunicazione che intorno ai valori della cucina italiana dovrebbe essere in grado di costruire un'identità forte, e riconoscibile (a questo proposito, il Gambero Rosso dice la sua con la prima edizione della guida Top Italian Restaurants). Intanto tanti chef di casa nostra hanno imbracciato la valigia e nei prossimi giorni li ritroveremo ai quattro angoli del mondo, in veste di ambasciatori d'eccezione della buona ristorazione italiana (molti di loro, non a caso, hanno sottoscritto il patto degli Ambasciatori del Gusto).

 

I protagonisti, gli appuntamenti

A Toronto, il 21 e 22 novembre, arriva lo chef più chiacchierato degli ultimi giorni, Norbert Niederkofler, neo tristellato d'Italia. Il volto del St. Hubertus parteciperà alla rassegna Sotto una buona stella – che in precedenza ha coinvolto pure Massimo Bottura - protagonista di una cena a 4 mani con Rob Gentile, presso il ristorante Buca Yorkville. I proventi dell'evento solidale saranno devoluti a sostegno degli studenti della George Brown Chef School, per permettere loro di partecipare a stage presso l'Alma. Cristina Bowerman, nel frattempo, atterra all'altro capo del mondo, star della cucina italiana a Tel Aviv (Israele) dal 20 al 23 novembre, tra cene di gala, masterclass, tavole rotonde sulla cucina al femminile. E ambasciatrice in rosa, dallo Skopje Marriott Hotel, sarà pure la giovane Caterina Ceraudo, protagonista nella capitale macedone di una cena per 100 invitati. Più fitta l'agenda di Moreno Cedroni, che non teme il jet leg: il 23 novembre lo chef di Senigallia cucinerà all'Ambasciata italiana a Praga, il 28 volerà in Australia, presso il consolato d'Italia ad Adelaide, supervisionando la cena di gala dedicata al made in Italy. Anche Corrado Assenza si presta al gioco con grande disponibilità. Il maestro pasticcere di Noto sarà prima giurato a Santiago del Cile, il 21 novembre, in occasione di un concorso di cucina locale; poi, il 26 novembre, porterà i suoi dolci a Barcellona (nell'ambito della rassegna ITmakES). I nomi coinvolti, del resto, sono moltissimi: Eugenio Boer in Turchia (a Smirne), ma anche a Mosca con Andrea Ribaldone e Luigi Nastri, presso l'Ambasciata d'Italia a Mosca; Enrico Cerea a Tokyo; Oliver Glowig a Il Cairo, per la cena a 4 mani sulle rive del Nilo, al Vivo Restaurant; Marco Sacco a Hong Kong, per una serie di lezioni di cucina alla Polytechnic University; Massimo Spigaroli all'Accademia Italiana di Cucina di Pechino, dove preparerà una cena in omaggio alla tradizione dell'Emilia Romagna; Igles Corelli a Seoul; Accursio Craparo a San Francisco, ospite di Michael Tusk al Quince.

 

La tradizione e il futuro del cibo

E poi ci sono l'Italia della tradizione – moltissimi gli appuntamenti con la cucina di Pellegrino Artusi, dall'Albania all'Argentina, altrettanti gli eventi dedicati alla pasta fresca – e quella della cucina che fa spettacolo, con Giorgione protagonista a Buenos Aires (il 21 novembre) e Valerio Braschi (ultimo, giovanissimo, Masterchef) star a Nuova Delhi, dove sarà sotto i riflettori per tutta la Settimana. E ancora le iniziative promosse dai ristoranti italiani all'estero – segnaliamo Le ore allegre a Parigi, con menu promozionali e specialità della Penisola proposti al pubblico francese dalle insegne tricolore della città – e gli approfondimenti di carattere culturale: Massimo Montanari, a Chicago, racconterà agli studenti delle università cittadine l'Italia prima dell'Italia (come il cibo ha creato la nostra identità); Nicola Perullo sarà a Bruxelles il 21 novembre per la tavola rotonda sulla Verità del cibo, e poi a Beirut, in Libano, per un convegno su arte e cibo. All'Istituto Italiano di Cultura di Copenaghen, invece, si rappresenta una rassegna cinematografica in tre tappe: La cena, La cena per farli conoscere, Vinodentro.

 

Il calendario degli eventi

 

a cura di Livia Montagnoli

The Taste Revolution. A Londra, la rivoluzione di Harrods per creare una nuova food hall

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Un grande lavoro di rinnovamento degli spazi che coinvolgerà il reparto gastronomico dei grandi magazzini di Harrods nei prossimi due anni. A Londra, la rivoluzione del cibo di qualità avviene anche negli spazi di lusso, con un forno d'autore e una caffetteria d'eccellenza.

La ristrutturazione

Entro il 2019, i nostri clienti potranno avere accesso al più grande emporio gastronomico del mondo. In nessun altro luogo ci sarà una simile combinazione di servizio e varietà d'offerta. I clienti potranno annusare, toccare, assaggiare tutti i prodotti durante gli acquisti: vogliamo creare una magia mai vista prima”. Con queste parole ambiziose, il direttore del reparto Food & Restaurants di Harrods, Alex Dower, ha annunciato la trasformazione che coinvolgerà a breve l'intera Food Hall del grande magazzino di lusso londinese. “Non vediamo l'ora di aprire le porte agli appassionati foodies della città, per mostrare loro la rivoluzione del gusto che cambierà i nostri spazi”. Un rinnovamento che rappresenta il più grande lavoro di ristrutturazione fatto all'interno del magazzino dagli anni '80, che sarà portato avanti dal David Collins Studio di Londra, maggiore studio di design e architettura di interni di lusso del Regno Unito. The Taste Revolution (la rivoluzione del gusto) è il nome del progetto, completato entro i prossimi due anni, con una nuova concezione degli spazi, incentrata soprattutto sulla panetteria e la caffetteria.

Il forno e la pasticceria

Sarà il panettiere Lance Gardner a coadiuvare l'attività del forno, insieme al team da lui formato che sarà alle prese con creazioni artigianali d'eccezione. Tutte preparate al momento, di fronte agli occhi dei clienti, nel laboratorio a vista con soffitti alti e scaffali, pensati per accogliere le pagnotte fresche di giornata. Fra le specialità del panificio, baguette lievitate per 48 ore e croissant sfogliati come vuole la tradizione francese, a base di burro Montaigu, e poi ancora pani e focacce, pizze e dolci da forno, per un'offerta completa e articolata, dinamica e in grado di cambiare pelle più volte durante l'anno, assecondando le esigenze dei clienti. Non mancherà, poi, un angolo pasticceria, curato dal maitre chocolatier Alistair Birt, giovane artigiano 27enne. Torte da forno, éclair, pasticcini, biscotti e, naturalmente, praline e bon bon di ogni genere saranno disponibili presso il banco pasticceria, con occhio di riguardo particolare per i pregiati cacao.

La caffetteria e il grab and go

Altra grande novità, l'area caffetteria con torrefazione annessa, affidata al maestro torrefattore Bartosz Ciepaj, più volte in gara per il Coffee Masters di New York, torneo multidisciplinare che rappresenta il cuore pulsante del New York Coffee Festival. Con il suo team, Bartosz si cimenterà nella tostatura di diversi microlotti di caffè, invitando i clienti a provare le diverse tipologie di oro nero comodamente seduti al Coffee Bar, dove potranno assaggiare i prodotti offerti e creare una miscela personalizzata scegliendo fra le diverse origini a disposizione. Ma non finisce qui, perché dietro il bancone ci si va anche per un Espresso Martini o un Coffee Negroni, cocktail che prendono ispirazione dai drink più classici, a cui si aggiunge il gusto unico delle note del caffè, miscelando sapientemente le qualità di entrambe le bevande secondo i dettami della Coffee in Good Spirits. Nel nuovo punto Roast and Bake, poi, situato all'entrata che affaccia su Basil Street, ci sarà anche una selezione di panini, insalate, club sandwich e piatti take-away.

Mangiare da Harrods oggi

Un progetto innovativo e necessario, soprattutto per uno spazio come Harrods, da sempre sinonimo di shopping sfrenato e lusso, dove il cibo non ha mai ricevuto l'attenzione che meriterebbe. Una destinazione turistica, prima ancora che un magazzino per gli acquisti, nata proprio per promuovere la cultura dei prodotti di nicchia per idea di Charles Henry Harrod, droghiere dell'Essex che nella prima metà dell'Ottocento scelse di scommettere sul tè più pregiato e altri prodotti alimentari ricercati per iniziare un'attività commerciale più ampia. Un esperimento che ha dato i suoi frutti, e che ha iniziato col tempo a inglobare anche i negozi vicini, per essere venduto, nell'85, per ben 300 milioni di sterline, e poi ancora nel 2010 alla Qatar Holding per 1,5 miliardi di sterline. Un magazzino che ha iniziato la sua strada proprio con il cibo, quindi, ma che ha poi perso interesse sul fronte gastronomico nel corso dei decenni. Oggi, infatti, da Harrods si trovano ancora tè sfusi da tutto il mondo, tisane e infusi di frutta di diversi marchi, oltre alla nota miscela della casa, ma mancano punti di ristoro di qualità. Gli attuali responsabili sembrano averlo capito, e infatti già da qualche tempo è possibile fare acquisti a prova di buongustaio presso il Gourmet Grocery, uno store dedicato a spezie, condimenti, oli, aceti di tutto il mondo e specialità come il foie gras o i tartufi. E presto, anche nella nuova food hall.

Harrods | Londra | Brompton Road, 87/135 | tel. +44 2084795100 | www.harrods.com/en

a cura di Michela Becchi

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