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Tour in France, sulla WebTv di Gambero Rosso vanno in scena i dolci di Giuseppe Solfrizzi

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Il maitre boulanger capitolino, patron di Le Levain a Trastevere, svela tutti i segreti per rifare a casa le sue ricette. Una nuova miniserie golosa online sulla WebTv di Gambero Rosso, da venerdì 10 novembre. Un appuntamento a settimana, per 6 puntate. Iniziamo con l'eclair. 

Abbiamo chiesto a Giuseppe Solfrizzi una cosa che non si aspettava. E non parliamo delle ricette dettagliate: quelle ce le ha date senza discutere dopo aver accettato la prima richiesta. Gli abbiamo chiesto di realizzare per la WebTv di Gambero Rosso una serie sulla boulangerie francese, e i suoi segreti, senza ricorrere all'aiuto di strumenti professionali.

 

Buona la prima

E il maitre boulanger di Le Levain, indirizzo goloso da non perdere non lontano dalle rotte più battute di Trastevere, ha raccolto la sfida con entusiasmo. Tutto quello che si vedrà nella serie web è stato interamente realizzato nelle aule attrezzate della Città del gusto di Roma. Niente escamotage o scorciatoie, il maestro Solfrizzi non ha portato dal suo laboratorio prodotti già pronti, ha realizzato tutto seguendo accuratamente le ricette e i tempi di preparazione, senza però poter fare affidamento sulle sue attrezzature. Ha steso la pasta a mano, cotto la meringa in presa diretta, farcito sul momento... Senza sbagliare un colpo, permettendoci di risparmiare una notevole quantità di tempo nel corso delle riprese e, dettaglio tutt'altro che trascurabile, di assaggiare le sue creazioni appena sfornate.

 

La serie

Volevamo un prodotto che non fosse mero intrattenimento. Doveva essere replicabile per davvero. Ecco perché il minutaggio delle ricette è importante: bando alle preparazioni da social media risolte in pochi secondi di montaggio. Tutto quello che sarebbe andato in video doveva poter essere realizzato in una cucina di casa, senza sifoni, abbattitori, forni stellari e così via. Anche per questo i video sono molto lunghi.

Parliamoci chiaro: quante delle ricette viste in tv o sul web sono effettivamente replicabili a casa? In quanti possono dire di avere un forno che superi i 250°C? E poi gli spazi, il tempo, la voglia di lavare tutto dopo...

Insomma, quello che abbiamo riscontrato è che pur avendo una grande passione per la cucina, l'atteggiamento dello spettatore è spesso passivo di fronte a ricette troppo complicate da replicare. I più ordinano una pizza a domicilio e si godono lo spettacolo di cotture che solo in un laboratorio professionale, dopo anni di duro studio e lavoro, sono possibili.

Ecco quindi la prima stagione di Tour in France. Croissant, éclair, millefoglie, tarte au citron, pain au chocolat e le immancabili madeleine in una versione che possiamo definire nuova, nonostante siano puntualmente fedeli alle ricette tradizionali della pasticceria d'Oltralpe. Nuova perché tutto si può rifare a casa, basta seguire le indicazioni del maestro. Sei puntate per cominciare, cui ne seguiranno altre, dedicate a chiunque voglia cimentarsi nella pasticceria domestica, divertendosi per la felicità di parenti e amici, chiamati a sondare il risultato, o anche per riempire una giornata di riposo con le preparazioni classiche della pasticceria tradizionale francese.

Un percorso guidato. Passo dopo passo

E non è tutto. Un po' come per la cucina ma di più, la pasticceria è una scienza esatta. Non sono ammessi sbagli e guai ad aggiungere un ingrediente alla “quanto basta”. In pasticceria si realizzano tutte le preparazioni che poi andranno, una volta assemblate, a creare il dolce. Ecco perché abbiamo pensato di ricreare in video un percorso logico-visivo incentrato sui singoli passaggi, da fruire in sequenza, o comodamente frammento per frammento. In buona sostanza la ricetta del millefoglie comprende la realizzazione della sfoglia, e della crema. Ma con Tour in France ci si può serenamente concentrare solo sulla crema, laddove non interessi la sfoglia, e impiegarla nel modo che più si preferisce.

 

a cura di Saverio De Luca


Mercato Centrale di Roma. Le riflessioni di Umberto Montano a un anno dall'inaugurazione

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Fare imprenditoria nel settore della ristorazione è sempre un rischio azzardato. Specialmente in alcuni quartieri. Umberto Montano ci è riuscito a Firenze, facendo il bis a Roma, e triplicando l'offerta poi all’interno del Centro Commerciale I Gigli, ancora nel capoluogo toscano. A poco più di un anno dell'inaugurazione capitolina, abbiamo chiesto all'ideatore le sue impressioni.

Il Mercato

5 ottobre 2016. Sotto la Cappa Mazzoniana, il Mercato Centrale a Roma Termini apre le porte ai consumatori romani, con una lista di botteghe d'eccellenza e un piano riservato alla ristorazione d'autore firmata Oliver Glowig. Figlio del già collaudatissimo format di successo a Firenze, un anno fa il mercato capitolino poneva le basi per una rivoluzione del concetto di spesa, pasto e gastronomia nella Città Eterna, grazie all'impegno di Umberto Montano, imprenditore della ristorazione che da anni lavora col gruppo EC Vacanze di Claudio Cardini. Lo avevamo salutato con un po' di timore, il progetto nato all'interno dello spazio visionario realizzato da Angiolo Mazzoni negli anni '30 alla stazione Termini, con l'auspicio che potesse funzionare, ma consci del rischio che l'Esquilino non fosse ancora pronto per accogliere uno spazio simile. Ambienti ampi, design studiato per conservare l'anima conviviale del mercato pur in uno spazio – a differenza di Firenze – che prima mercato non era. Artigiani all'opera dietro le botteghe, materie prime e piatti pronti ben esposti sui banconi, da acquistare e portar via o da consumare al momento.

L'inaugurazione

Un progetto realizzato in pochi mesi che non ha tardato a cogliere l'entusiasmo del pubblico.“Stanotte non ho chiuso occhio. Sono stato assalito da tutti i dubbi da imprenditore, forse per la prima volta”, ci raccontava Montano il giorno dell'inaugurazione. Perché gli obiettivi e i rischi del Mercato Centrale stavolta erano tanti, a cominciare dalla riqualificazione del quartiere Esquilino, una zona che, nonostante l'intenso flusso di stranieri dovuto al transito dei visitatori in partenza o in arrivo dalla stazione Termini, ha sempre fatto fatica ad aprirsi agli stimoli internazionali condivisi dalle maggiori capitali europee.

Il Mercato Centrale un anno dopo

In un anno lo abbiamo visto crescere, accogliere romani e turisti, viaggiatori in cerca di uno spazio dove rifocillarsi dopo il tragitto in treno. Lo abbiamo visto ospitare eventi e degustazioni, festival e seminari, ma come è cambiato il Mercato Centrale nei suoi primi 12 mesi? “Più che di cambiamenti, parlerei di piccole modifiche: il dinamismo è nel dna del format, che mantiene sempre integra la sua identità”. Un anno di successi, con 2 milioni e mezzo di accessi e oltre 200 dipendenti assunti, per un giro di affari di 15 milioni di euro. “L'80% del pubblico è romano, e questo ci fa molto piacere, perché significa che il Mercato si è inserito a pieno nel ritmo della vita cittadina. Cerchiamo spesso di organizzare eventi di vario genere, coniugando cibo e cultura, proprio come dovrebbe fare ogni mercato”.

La riqualificazione dell'Esquilino

Un po' per i nomi già conosciuti dagli appassionati gourmet, da quello di Bonci a quello di Beppe e i suoi Formaggi, passando per Galluzzi, un po' perché evoca i sapori dell'infanzia, il Mercato riesce a raccontare la cucina e la tradizione romana. In uno spazio, e il merito è doppio, che è sempre stato considerato respingente e commercialmente segnato come fallimentare. “Per progetti di questo genere c'è bisogno della partecipazione sinergica di tre elementi: l'imprenditore, che deve investire in spazi di interesse pubblico, la pubblica amministrazione, che deve sostenere le iniziative di questo genere, e i cittadini, che devono trovare il coraggio di abbandonare i pregiudizi e cominciare a frequentare zone apparentemente meno accoglienti”. In via Giolitti, queste tre componenti si sono fuse insieme in maniera armonica, “non è un gioco facile, ma in qualche modo ci siamo riusciti, e dobbiamo continuare a far sì che queste collaborazioni avvengano”.

Il futuro del Mercato

Il Mercato è uno spazio difficile da gestire, perché riunisce più anime, quella delle botteghe artigianali e quella della ristorazione, che è sempre più integrata all'interno dello spazio - consiglio a tutti di provare il brunch!”, racconta Montano mentre, al pianterreno, imperversano i festeggiamenti di consumatori e addetti ai lavori per celebrare il primo anno di vita di un ambiente sui generis, in grado di abbracciare un target ampio ed eterogeneo. Ma prima ancora un'idea, un concetto dinamico e in continuo movimento: “Le variazioni fanno parte del Mercato, altrimenti come facciamo a restare sempre attuali?”.La prossima mossa? “Per ora ci concentriamo sui nostri tre punti. Sperando di proseguire sempre al meglio, con l'entusiasmo che ci caratterizza”.

Mercato Centrale Termini | Roma | via Giolitti, 36-38 | www.facebook.com/mercatocentraleroma/

a cura di Michela Becchi

Novità a Roma. Come cambia Ponte Milvio: Tyler all'ex Crazy Bull, Iavicoli per Carolina Emporium

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Nel grande spazio del noto american bar, il team del Jolly Roger di Fregene sta per inaugurare un diner di impostazione americana, con una squadra di partner d'eccezione: Birra del Borgo, Jerry Thomas, Pergamino Caffè. Anche il Carolina Emporium passa di mano, e a ripensare il menu arriva Federico Iavicoli. 

Un american diner a Ponte Milvio

Tra gli abitué di Ponte Milvio, ricettacolo della movida di Roma Nord, quella del Crazy Bull è sempre stata conosciuta come la più grande piazza esterna privata della zona. L'american pub capitolino, col il suo bel cortile esterno e un gran numero di posti a sedere all'interno, è un ritrovo storico per gli amanti del genere, da diversi anni a questa parte. Tra qualche settimana, però, si cambia (non proprio) tutto. Cominciando dalla gestione, ora in mano alla squadra del Jolly Roger di Fregene, birreria stagionale di successo sul litorale romano. Nelle ultime settimane i ragazzi hanno lavorato per ripensare lo spazio, senza stravolgerne l'atmosfera, dal momento che Tyler– come reciterà la nuova insegna – si propone di raccontare il mondo dei diner americani anni Cinquanta. Un mix di suggestioni vintage, una proposta gastronomica ispirata ai classici del casual dining a stelle e strisce, ma soprattutto l'interpretazione attuale di una formula diventata persino stereotipo del mito americano. Per farlo, sotto le direttive del Jolly Roger si è costituita una formazione inedita, che vede schierati Birra del Borgo, il team del Jerry Thomas e Pergamino Caffè. A ciascuno il suo, per offrire una formula beverage articolata dall'aperitivo al dopocena - 18-2 sarà l'orario iniziale di apertura di Tyler - con le birre di Leonardo Di Vincenzo, la drink list della famiglia di Leonardo Leuci, Antonio Parlapiano, Alessandro Procoli e Roberto Artusio (ricordiamo che le due realtà già collaborano all'Osteria di Birra del Borgo), gli specialty coffee della caffetteria di piazza Risorgimento. In cucina, invece, si muoverà una squadra di giovani chef in arrivo da esperienze di livello, con l'idea di proporre un menu di cult dell'american style piuttosto riconoscibili, realizzati con prodotti scelti e un taglio più personale.

 

La cucina e i cocktail

Il pan brioche per i burger, per esempio, sarà tutto fatto in laboratorio, come il pane di segale per il pastrami, con carne affumicata al josper secondo ricetta della casa. Si lavora soprattutto sulla padronanza di cotture e tecniche di cucina per valorizzare i tradizionali onion ring, proposti con cipolla affumicata, o i nugget di pollo in abbinamento alla salsa mango e curry. Dal menu anche ribs di maiale glassate, uno o due tagli di carne italiana per la sezione steakhouse (“che non sarà il core business della nostra proposta”). Una linea dedicata sarà riservata alla cucina per celiaci. In sala sono rimasti i divanetti in pelle rossa, ma il nuovo progetto ha regalato allo spazio, quello più grande al piano strada, l'aspetto di un moderno diner che strizza l'occhio allo stile da loft americano: mattoncini a vista, lampade industriali, tavoli in ferro spazzolato. Al piano superiore, invece, una saletta polifunzionale circondata da pareti vetrate, con biocamino e atmosfera più intima, riservata agli eventi. Mentre l'esterno, il grande cortile all'ingresso potrà contare sul proprio bancone bar (il principale, lungo 9 metri, è in sala) e radunerà con la bella stagione una serie di food truck e realtà street food. Con tanti progetti in divenire, come l'idea di aprire le porte al coworking, durante la mattinata e nel pomeriggio. O l'intenzione di sviluppare una proposta aperitivo e dopocena originali, con abbinamenti pop come birra e popcorn gourmet, oltre alla carta dei cocktail disponibile dall'esordio: twist on classic dell'American bar anni Novanta (dal Long Island al Cosmopolitan) e drink d'autore realizzati con sciroppi e distillati homemade. Apertura prevista per l'ultima settimana di novembre.

 

Carolina Emporium. Con la cucina di Federico Iavicoli

A neanche 500 metri di distanza, all'inizio di via Cassia, anche il Carolina Emporium si appresta a cambiare gestione. Il locale è stato rilevato da un gruppo di soci che può contare sulla partecipazione di Federico Iavicoli, nome amato dalla Roma gastronomica che ricorda con dispiacere la chiusura di Spasso Food, a piazza Re di Roma. A oltre un anno dalla fine di quell'avventura, sarà lui a curare il menu del nuovo Carolina, con una proposta informale per il pranzo, un menu serale più ambizioso e tante idee originali da sviluppare, come il Mozzarella Emporium (9 variazioni sulla mozarella di bufala, dall'abbinamento con mela e tè nero alla classica in carrozza con alici), l'Oyster Bar con la selezione di Corrado Tenace, il Carbonara Corner all'ora di pranzo, per una proposta tradizionale, una carbonara con peperoni cruschi, una carburrata con scaglie di cioccolato. A pranzo anche sandwich, pastrami, brisket con salsa alla birra, Caesar's Salad, pinzimonio invernale, jacket potato. Dal menu della sera, invece, 6 crudi – la tartare di rapa rossa, i crudi di carne, il battuto di scampi con salsa al cachi, olio di nocciola e tapenade – 6 primi piatti di territorio e non solo, 6 secondi dalla padella alla brace, con idee interessanti come il burger di anatra con mayonnaise all'arancia. E per chi ha molta fame la versione rinforzata dei primi della tradizione: carbonara, amatriciana, cacio e pepe, purché siano 200 grammi!

Ricordando che il quartiere ha da poco beneficiato anche del restyling di 28 Birreria Gastronomica, frutto del sodalizio tra Caulier e Toccalmatto, che il 13 novembre ospiterà la cena tra “schiaffi e comfort” di Simone Cipriani, chef patron de l'Essenziale a Firenze (e protagonista di Cambio Menu su Gambero Rosso Channel).

 

Tyler | Roma | piazzale Ponte Milvio | dalla fine di novembre | https://www.facebook.com/TylerPonteMilvio/

Carolina Emporium | Roma | via Cassia, 14 

 

a cura di Livia Montagnoli

Tour en France, sulla WebTv di Gambero Rosso vanno in scena i dolci di Giuseppe Solfrizzi

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Il maitre boulanger capitolino, patron di Le Levain a Trastevere, svela tutti i segreti per rifare a casa le sue ricette. Una nuova miniserie golosa online sulla WebTv di Gambero Rosso, da venerdì 10 novembre. Un appuntamento a settimana, per 6 puntate. Iniziamo con l'eclair. 

Abbiamo chiesto a Giuseppe Solfrizzi una cosa che non si aspettava. E non parliamo delle ricette dettagliate: quelle ce le ha date senza discutere dopo aver accettato la prima richiesta. Gli abbiamo chiesto di realizzare per la WebTv di Gambero Rosso una serie sulla boulangerie francese, e i suoi segreti, senza ricorrere all'aiuto di strumenti professionali.

 

Buona la prima

E il maitre boulanger di Le Levain, indirizzo goloso da non perdere non lontano dalle rotte più battute di Trastevere, ha raccolto la sfida con entusiasmo. Tutto quello che si vedrà nella serie web è stato interamente realizzato nelle aule attrezzate della Città del gusto di Roma. Niente escamotage o scorciatoie, il maestro Solfrizzi non ha portato dal suo laboratorio prodotti già pronti, ha realizzato tutto seguendo accuratamente le ricette e i tempi di preparazione, senza però poter fare affidamento sulle sue attrezzature. Ha steso la pasta a mano, cotto la meringa in presa diretta, farcito sul momento... Senza sbagliare un colpo, permettendoci di risparmiare una notevole quantità di tempo nel corso delle riprese e, dettaglio tutt'altro che trascurabile, di assaggiare le sue creazioni appena sfornate.

 

La serie

Volevamo un prodotto che non fosse mero intrattenimento. Doveva essere replicabile per davvero. Ecco perché il minutaggio delle ricette è importante: bando alle preparazioni da social media risolte in pochi secondi di montaggio. Tutto quello che sarebbe andato in video doveva poter essere realizzato in una cucina di casa, senza sifoni, abbattitori, forni stellari e così via. Anche per questo i video sono molto lunghi.

Parliamoci chiaro: quante delle ricette viste in tv o sul web sono effettivamente replicabili a casa? In quanti possono dire di avere un forno che superi i 250°C? E poi gli spazi, il tempo, la voglia di lavare tutto dopo...

Insomma, quello che abbiamo riscontrato è che pur avendo una grande passione per la cucina, l'atteggiamento dello spettatore è spesso passivo di fronte a ricette troppo complicate da replicare. I più ordinano una pizza a domicilio e si godono lo spettacolo di cotture che solo in un laboratorio professionale, dopo anni di duro studio e lavoro, sono possibili.

Ecco quindi la prima stagione di Tour en France. Croissant, éclair, millefoglie, tarte au citron, pain au chocolat e le immancabili madeleine in una versione che possiamo definire nuova, nonostante siano puntualmente fedeli alle ricette tradizionali della pasticceria d'Oltralpe. Nuova perché tutto si può rifare a casa, basta seguire le indicazioni del maestro. Sei puntate per cominciare, cui ne seguiranno altre, dedicate a chiunque voglia cimentarsi nella pasticceria domestica, divertendosi per la felicità di parenti e amici, chiamati a sondare il risultato, o anche per riempire una giornata di riposo con le preparazioni classiche della pasticceria tradizionale francese.

Un percorso guidato. Passo dopo passo

E non è tutto. Un po' come per la cucina ma di più, la pasticceria è una scienza esatta. Non sono ammessi sbagli e guai ad aggiungere un ingrediente alla “quanto basta”. In pasticceria si realizzano tutte le preparazioni che poi andranno, una volta assemblate, a creare il dolce. Ecco perché abbiamo pensato di ricreare in video un percorso logico-visivo incentrato sui singoli passaggi, da fruire in sequenza, o comodamente frammento per frammento. In buona sostanza la ricetta del millefoglie comprende la realizzazione della sfoglia, e della crema. Ma con Tour en France ci si può serenamente concentrare solo sulla crema, laddove non interessi la sfoglia, e impiegarla nel modo che più si preferisce.

 

La prima puntata. Eclair al cioccolato

a cura di Saverio De Luca

Autentico, sintassi della cucina abruzzese. Il tour alla scoperta del gusto dell'Appennino

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Un evento itinerante che toccherà più punti dell'entroterra montano abruzzese, con un percorso di 8 giornate per conoscere e imparare a utilizzare in cucina le specialità del territorio, con l'aiuto di chef, artigiani e addetti ai lavori.

Cucina abruzzese: una crescita inarrestabile

Sembra destinato a non fermarsi più lo sviluppo della ristorazione abruzzese, che negli ultimi anni ha iniziato una fase di crescita esponenziale e inarrestabile, cominciando sempre di più a far parlare di sé in Italia e soprattutto all'estero. Un territorio frammentato che proprio nella sua diversità, nell'amenità dei suoi borghi antichi, ha trovato la forza che oggi la caratterizza, una ricchezza fatta di incredibili patrimoni naturalistici, artistici e gastronomici ancora da scoprire. Il lavoro di cuochi di talento e giovani imprenditori, così come la nascita di congressi e festival di settore, hanno contribuito nel tempo a far conoscere a un pubblico sempre più vasto le specialità di questa terra generosa e aspra, talvolta difficile, dove anche i luoghi apparentemente desolati pullulano di vita.

L'evento

A porre l'accento sulla tradizione abruzzese, una nuova manifestazione dedicata agli addetti ai lavori e agli appassionati, Autentico, sintassi della cucina abruzzese, un itinerario per conoscere la biodiversità dell'entroterra della Maiella e del Voltigno attraverso 8 appuntamenti pensati per incontrare piccoli artigiani, chef, agricoltori e professionisti del settore. Si comincia il prossimo 21 novembre, con la visita all' Azienda Agricola Pasqualone (Penne), a passeggio nell’orto, e dalla Società Agricola De Fermo (Loreto Aprutino), tra vigneti, cereali e legumi, facendo tappa per pranzo al ristorante La Bandiera di Civitella Casanova. Qui, i partecipanti potranno realizzare un menu completo insieme allo chef Marcello Spadone, utilizzando i prodotti selezionati durante l’esperienza mattutina. Il programma continua poi con la degustazione di olio extravergine di oliva presso l'Azienda Agricola Tommaso MasciantonioTrappeto di Caprafico di Casoli, in provincia di Chieti, con pranzo da Villa Maiella, il ristorante di Guardiagrele guidato da Peppino Tinari. E ancora la visita all'allevamento maiale nero d’Abruzzo, al Caseificio Alimonti, per concludere, il 13 dicembre, con un laboratorio di cucina con la famiglia Tinari. Ad accompagnare gli ospiti, il giornalista enogastronomico AlessandroBocchetti,che guiderà tutti i partecipanti nell’abbinamento con il vino, sempre made in Abruzzo, che dovrà accompagnare le specialità in assaggio, dal miele all'olio, dal pane alla carne.

I protagonisti

A coadiuvare le attività, i due chef Marcello Spadone e Peppino Tinari, abruzzesi doc che hanno cominciato il proprio percorso come cuochi di semplici trattorie di paese tra gli anni '60 e '70, due realtà a gestione familiare che hanno saputo rinnovarsi di generazione in generazione, raggiungendo livelli molto alti attraverso una ricerca approfondita su tecniche, cotture e materie prime. La Bandiera di Civitella Casanova, immersa tra le colline pescaresi, nasce alla fine degli anni '70, quando Anna e Giovanni decidono di convertire una rivendita di sali e tabacchi in ristorante. Negli anni '80 entra in scena il figlio Marcello che, dopo le esperienze presso l’Albereta di Gualtiero Marchesi e Il Luogo di Aimo e Nadia a Milano, rivitalizza i piatti della tradizione con tecniche innovative, mentre sua moglie Bruna inizia a curare un giardino con ortaggi ed erbe locali. Nel 2011 arriva la stella Michelin, segnando l'ingresso de La Bandiera nel firmamento dell'alta cucina italiana. Oggi, in cucina e sala ci sono Mattia ed Alessio, l'ultima generazione di una famiglia dedita all'ospitalità incline al calore umano e alla professionalità.

La storia di Villa Maiella, invece, comincia un decennio prima, negli anni '60, quando Ginetta e Arcangelo aprono i battenti di quella che all’epoca era una modesta “fiaschetteria”. La svolta avviene negli anni '80, quando il testimone passa al figlio Peppino, rientrato in Abruzzo dopo un’importante esperienza nella cucina dello chef Giovanni Spaventa, all’Hotel Cipriani di Venezia. Ai fornelli arriva anche la moglie Angela, eccelsa soprattutto nell’arte pasticcera, e nel 2009 finalmente, la stella Michelin e la decisione di intraprendere l’allevamento di suini neri abruzzesi allo stato semibrado, caratteristica che ancora oggi definisce l'identità del locale.

www.autenticoabruzzo.it/

a cura di Michela Becchi

50 candeline. Ecco come la Valpolicella cambia passo

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Sostenibilità, mercati esteri, difesa del marchio e rapporti con le Famiglie dell'Amarone d'Arte, dopo la sentenza del Tribunale delle imprese. Il Consorzio dei vini veronesi pronto a celebrare il cinquantenario della Doc con una serie di novità.

È una vigilia particolarmente movimentata quella che precede il cinquantenario della Dop Amarone della Valpolicella (1968), che si celebra il prossimo mese di febbraio in occasione dell'Anteprima. Un momento peculiare, delicato e ricco di novità: dalla svolta sostenibile, a cui il Consorzio di tutela darà presto un deciso colpo di acceleratore, alle strategie di crescita sui mercati esteri, dalla difesa del marchio dentro e fuori confine, fino al complesso rapporto col gruppo di aziende appartenenti alle Famiglie dell'Amarone d'Arte, destinato probabilmente a cambiare dopo la recente sentenza del Tribunale delle imprese di Venezia sull'uso della Dop.

Tutti elementi che restituiscono un quadro dinamico in tutti i sensi. A cominciare dalla vendemmia appena conclusa che, in questo vasto territorio della provincia di Verona divenuto simbolo dell'eccellenza italiana nel mondo, non ha subito particolari scossoni. Rispetto al resto d’Italia, infatti, come fa sapere il Consorzio per la tutela dei vini Valpolicella, attraverso la direttrice Olga Bussinello, i danni alla produzione (derivanti dalla combinazione di gelate primaverili, siccità e grandinate) sono risultati "contenuti" grazie a una capillare presenza di impianti di irrigazione, utilizzati nella maggior parte dei vigneti, e da episodi grandinigeni che hanno interessato poche aree e circoscritte. Pertanto, da un punto di vista qualitativo, lo stato fitosanitario dell'uva è risultato "ottimo, con uve sanee di grande qualità".

I numeri del Consorzio

Il Consorzio per la tutela dei vini Valpolicella, nato nel lontano 1924 – anno in cui l'Italia viveva ben altri climi, non solo dal punto di vista meteorologico – vanta un fatturato vitivinicolo complessivo di 550 milioni di euro (secondo le stime dell'Osservatorio vini Valpolicella), di cui 330 di solo Amarone. In particolare, per questa Docg, ottenuta nel 2010, i livelli di produzione riferiti al 2016 sfiorano i 15 milioni di bottiglie, includendo anche la piccola Docg Recioto. L'obiettivo principale dei produttori veronesi, soprattutto durante il recente mandato di Christian Marchesini, è stato evitare l'inflazione dell'offerta di Amarone, salvaguardando allo stesso tempo il Valpolicella Doc, il cosiddetto vino entry level della denominazione. Come riferisce la direttrice Bussinello, negli ultimi cinque anni il trend di commercializzazione ha disegnato una linea costante sui 13 milioni di bottiglie, con una punta nel 2016 di 14,8 milioni, tra Amarone e Recioto. La domanda che da sempre ha fatto discutere questo territorio è stata se fosse opportuno mettere un tetto alle produzioni di Amarone: "Parlare di 'tetto massimo' è difficile, considerando che" sottolinea Bussinello "l'Amarone è commercializzato in 80 diversi Paesi esteri, con variegate opportunità e problematiche, in un contesto di confronto costante con l'universo-mondo del vino". I timori generali sono sempre stati il deprezzamento delle Doc a seguito di un eccesso di prodotto sul mercato. "Per quanto riguarda il prodotto entry level della nostra denominazione, il Valpolicella Doc" prosegue "sono già state attuate delle misure di salvaguardia, anche della sua qualità e autonomia con le modifiche al disciplinare del Valpolicella Ripasso".

Andrea SartoriAndrea Sartori

 

Anche per il presidente consortile, Andrea Sartori (Casa vinicola Sartori), i circa 15 milioni di bottiglie non rappresentano ancora un tetto massimo in volume. Come, invece, sembrano essere gli ettari vitati in Valpolicella, che entro il 2017 dovrebbero toccare per la prima volta quota ottomila: "Il vigneto può considerarsi chiuso" spiega Sartori "e questo aumento è dovuto all'impianto di vigneti che fanno parte di diritti acquisiti. Ritengo che ci fermeremo per puntare a una stabilizzazione". Tra gli strumenti che consentono al consorzio di garantire l'equilibrio c'è la decisione di ridurre la percentuale di cernita delle uve destinate alla produzione di Amarone e di Recioto, che è stata portata al 40% (rispetto a un massimale del 65%). Obiettivo del consorzio di tutela è soprattutto mantenere costanti i livelli di redditività: "Da sei anni" spiega la direttrice Bussinello "stiamo adottando più misure per mantenere la redditività fondiaria della filiera. Attualmente un ettaro di Valpolicella ha una rendita fondiaria vicina ai 25 mila euro e un costo di mercato tra 400 e 500 mila euro". Intanto, il mercato del grande rosso veronese è sostenuto: si va dai 315 euro/ettolitro per il Valpolicella Classico agli 850 euro/ettolitro per l'Amarone.

La tutela internazionale

Insomma, una filiera che sta cercando il delicato equilibrio tra produzione e prezzi. E che, allo stesso tempo, deve fare i conti con l'altrettanto delicato tema della difesa e della tutela del marchio. L'Amarone è un vino prevalentemente da esportazione, con circa sei bottiglie su dieci vendute fuori confine. I principali clienti sono Germania (18%), Stati Uniti (11%), Svizzera (11%), UK (10%), Svezia (7%) e Canada (7%). Ogni anno, per proteggere le denominazioni Amarone, Ripasso, Valpolicella e Recioto, il consorzio investe oltre centomila euro che, come fa notare il presidente Sartori, appaiono ancora troppo pochi. L'area del Nord Europa è quella considerata più a rischio di contraffazioni. L'ultimo caso in ordine di tempo è stato scoperto un mese fa proprio nel primo Paese di destinazione, la Germania, dove un imbottigliatore tedesco ha messo in vendita un prodotto denominato "Vecchio Amarone", in una bottiglia del tipo borgognotta, in cui si riporta in italiano la dicitura "imbottigliato in Germania". Dietro le frodi, va ricordato, non ci sono sempre produttori stranieri ma spesso ci sono soggetti di origine italiana. Al consorzio (a cui spetta il compito di difendere il marchio Dop) non resta che agire tramite i suoi avvocati finché una sentenza non sancirà il ritiro del falso Amarone dal mercato.

 

I rapporti con le Famiglie dell'Amarone d'Arte

Sempre in materia di tutela e difesa del marchio, è arrivata l'attesa, quanto prevedibile, sentenza del Tribunale delle imprese di Venezia in merito alla questione dell'uso del termine Amarone da parte delle Famiglie dell'Amarone d'Arte, l'associazione nata nel 2009 su iniziativa di una decina di cantine storiche della Valpolicella, col tempo diventate 13, presiedute da Maria Sabrina Tedeschi e impegnate nella valorizzazione dei vini di qualità. Dopo oltre due anni, la decisione dei giudici dello scorso 24 ottobre fa chiarezza sulla possibilità che questo gruppo di imprese possa utilizzare per scopi promozionali il nome di una Dop europea, come tale protetta secondo precise regole comunitarie. La sentenza di primo grado è destinata a fare giurisprudenza in ambito vitivinicolo. In particolare, i giudici hanno chiesto la rimozione di qualsiasi riferimento del termine Amarone dalla denominazione sociale "Famiglie dell'Amarone d'Arte", disponendo il divieto dell'uso dell'ologramma dalle bottiglie di vino, inibendo loro di fare promozione con riferimenti a disciplinari diversi da quello di produzione. Una decisione che potrebbe modificare i rapporti reciproci e riportare maggiore serenità nell'ambiente veronese: "È auspicabile una ricomposizione che porti ad allineare energie e obiettivi verso una crescita condivisa del territorio e della filiera", recita una nota del consorzio. E il presidente Sartori confida al Gambero Rosso: "Mi auguro che si arrivi a trovare una quadra e che si ricompongano i rapporti". Sarebbe davvero una sorpresa e una buona notizia per il cinquantenario che la denominazione si accinge a festeggiare, in concomitanza con la quindicesima edizione dell'Anteprima Amarone in cui sarà presentata l'annata 2014.

 

Logo RRR

Il percorso sostenibile

Una tra le più importanti novità potrebbe essere legata proprio ai temi della viticoltura sostenibile. Il consorzio di tutela sta, infatti, proseguendo il lavoro sul protocollo di certificazione Riduci-risparmia-rispetta (Rrr): oggi sono circa un migliaio su ottomila gli ettari vitati interessati da pratiche di agricoltura sostenibile. E le prime bottiglie con il bollino sono già sul mercato da quest'anno: "Stiamo cercando di far capire ai nostri agricoltori" sottolinea Sartori "che non si tratta solo di rispetto dell'ambiente ma anche di aspetti commerciali". Poi il presidente avverte: "Considerando che in diversi mercati si parla di sostenibilità e vini organici, occorre portarsi avanti su questi temi. Altrimenti ce lo imporrà il mercato". In primis, uno specifico accordo con l'Università di Padova consentirà, a partire dal 2018, di avviare uno studio sui costi effettivi dell'applicazione del protocollo Rrr. Ma il vero sogno nel cassetto, che potrebbe diventare realtà tra qualche mese, è fare rete, a livello internazionale, sul tema della viticoltura sostenibile. Creare una sorta di filo conduttore che leghi la Valpolicella ad altre importanti aree dei vari continenti e che consenta a questo territorio di condividere conoscenze e competenze molto utili sia sul fronte interno sia in chiave export. Un convegno, in occasione dell'Anteprima di Verona, nella prima settimana di febbraio 2018, sarà la sede più adatta per annunciare questo importante cambio di passo.

 

Di Amarone parleremo anche sul numero di dicembre del Gambero Rosso in occasione dei 50 anni della cantina Bertani, in cui ci sarà una degustazione esclusiva di vecchie annate dell'azienda, a partire dalla prima etichetta che riportava l'indicazione di Reciotto. 
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Valpolicella in cifre

19 comuni in provincia di Verona

7.844 ettari vitati nel 2016

2.286 viticoltori

286 cantine

7 cooperative

14,9 milioni di bottiglie di Amarone e Recioto, 18,3 milioni di bottiglie di Valpolicella Doc, 27,7 milioni di bottiglie di Ripasso

 

principali Paesi clienti:

Germania (18%), Usa (11%), Svizzera (11%), Uk (10%)

550 milioni di euro il giro d'affari stimato

330 milioni di euro il fatturato del solo Amarone

(fonte Consorzio di tutela e Osservatorio vini Valpolicella, dati 2016)

 

a cura di Gianluca Atzeni

 

Il grande cinema in ospedale: al Gemelli di Roma con la Cinegustologia. E col concorso

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Proiezioni gratuite e incontri 'cinegustologici' in partnership con Gambero Rosso e MediCinema all'ospedale Gemelli di Roma. Il progetto promosso per allietare la degenza dei pazienti, che scommette sul ruolo terapeutico di un buon film.  

Il cibo sul grande schermo. In ospedale

Allietare la permanenza dei pazienti nella struttura ospedaliera attraverso la proiezione di film, nazionali e internazionali, in una sala allestita ad hoc: contempla anche la cinegustologia l'iniziativa presentata presso la Terrazza degli Aranci del Rome Cavalieri, Waldorf Astoria Hotels & Resorts, casa dello chef Tre Forchette Heinz Beck, il progetto Doc Wine Travel Food® promosso da Gambero Rosso, attraverso la Fondazione Gambero Rosso, con la Fondazione Policlinico Universitario A. Gemelli e MediCinema Italia Onlus in collaborazione con la Fondazione Cinema per Roma, per la promozione e la valorizzazione degli effetti benefici del food&wine, inseriti in un contesto culturale in cui è il cinema a tracciare i confini.

Circa l'80% dei pazienti che hanno assistito alle proiezioni si sono sentiti come a casa, o, almeno, non all'interno di un ospedale” ha raccontato Celestino Pio Lombardi, primario di chirurgia endocrina del policlinico Gemelli di Roma e responsabile scientifico di MediCinema. “Si tratta di un supplemento alla terapia medica ordinaria. Le grandi case di produzione ci forniscono i film che i pazienti, con i loro accompagnatori (parenti, amici e familiari), potranno vedere gratuitamente”.

E non è tutto: durante la proiezione di alcune delle pellicole in programma, Gambero Rosso, attraverso la sua Fondazione, proporrà, in collaborazione con Cinegustologia, degli assaggi gastronomici che aiuteranno gli spettatori, attraverso il gusto, a percepire ancora meglio le sensazioni lasciate dal film, alla presenza di nomi noti della ristorazione italiana.

 

Il concorso

Gambero Rosso lancia la terza edizione del concorso Doc Wine Travel Food rinforzando la sua attenzione alle produzioni audiovisive a tema enogastronomico, con forte attenzione ai territori. Il concorso è aperto a registi amatoriali e professionisti, nonché agli studenti delle Accademie di cinematografia e delle Università italiane che potranno presentare le loro produzioni audiovisive a tema food&wine. I progetti più meritevoli, selezionati da una giuria di esperti, verranno premiati durante l’edizione 2018 della Festa del Cinema di Roma.

Il Bando sarà disponibile dal 1°dicembre 2017, nella sezione speciale sul sito www.gamberorosso.it/it/doc-wine-travel-food.

 

a cura di Saverio De Luca

New York e la ristorazione d'autore. Bouley at Home e The Lobster Club al Seagram Building

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Dopo la chiusura di Bouley, in attesa di trasloco, David Bouley torna in città con un nuovo progetto ambizioso, in un grande spazio al Flatiron District, per raccontare la cucina salutare a modo suo. Al Seagram Building, invece, inaugura l'ultimo sgargiante tassello dell'ex Four Seasons, a cura di Major Food Group. 

New York non dorme mai

Sulla mappa delle costellazioni Michelin, New York avrà pure rischiato di perdere il suo primato stellato a vantaggio della West Coast – con San Francisco punta di diamante della cucina d'autore statunitense – ma in città la ristorazione che conta continua a muovere freneticamente le proprie pedine sullo schacchiere. Un tritacarne che mette a dura prova persino i veterani del settore quello dell'imprenditoria gastronomica newyorkese, dove macinare numeri con l'idea giusta è fondamentale per non soccombere alla concorrenza e agli affitti elevati. Persino il leggendario Le Cirque, prostrato dai debiti, sembra destinato a chiudere battenti alla fine dell'anno, mentre David Chang, abituato a non sbagliare un colpo, è stato costretto a ripensare la formula di Nishi, anello più debole della catena Momofuku. E invece ricomincia in grande stile il percorso lastricato di successi dell'Eleven Madison Park, tornato operativo da qualche settimana dopo un profondo restyling. Poi ci sono i grandi nomi all'esordio in città, come Grant Achatz, con i cocktail firmati The Aviary approdati al Mandarin Oriental, e gli chef blasonati che si mettono in gioco su terreni nuovi, Mark Ladner in testa, con Pasta Flyer (ma da quasi un anno pure il team Humm-Guidara presidia il segmento fast food con Made Nice).

 

Bouley at Home

Le ultimissime novità newyorkesi, però chiamano in causa altri celebri chef imprenditori molto apprezzati in città. David Bouley, classe 1953, è davvero uno dei più longevi protagonisti della scena gastronomica americana. Seguace della scuola francese, nel 1987 apriva a TriBeCa l'insegna più nota, Bouley, che nei decenni a seguire avrebbe moltiplicato in un gran numero di formule alternative, dalla Bouley Bakery al caffè Danube, al suggestivo Bouley Botanical. Circa un anno fa, ormai superati i 60, l'annuncio di un nuovo step: il periodo sabbatico, il trasloco di Bouley in uno spazio più raccolto, sempre a TriBeCa, con l'idea di dedicarsi principalmente alla cucina salutare. Originariamente prevista per la metà del 2017, la riapertura di Bouley nel nuovo locale di Harrison street è stata rinviata più volte, e probabilmente non si concretizzerà prima della primavera 2019. Nel frattempo lo chef ha battezzato l'ennesimo concept alternativo, Bouley at Home, al Flatiron District: “Non un semplice ristorante, ma una comunità orientata alla salute e alla nutrizione”. Un vecchio pallino di Bouley, quello della cucina consapevole del proprio ruolo educativo, che nel nuovo spazio polifunzionale trova espressione in più contesti: si può mangiare al bancone - tre che attraversano la dining room (24 coperti, per un menu degustazione da 10 portate, a 225 dollari), con  vista sulla cucina super accessoriata -  partecipare alle lezioni della scuola di cucina, comprare il pane prodotto in laboratorio. Sotto lo stesso tetto anche un centro di ricerca alimentare e la base logistica per un servizio di catering d'autore. L'idea è quella di condividere il più possibile il lavoro di cucina con gli ospiti della struttura, in uno spazio piuttosto fluido, interattivo, con display ben visibili alle pareti, pensato per essere esplorato. Niente camerieri: le posate sono nel cassetto, davanti a ogni postazione.

 

The Lobster Club al Seagram Building

Intanto al Seagram Building inaugura The Lobster Club. Il nome inganna, ma l'ultima impresa del team delle meraviglie Major Food Group – Mario Carbone, Rick Torrisi eJeff Zalaznick – è ispirata alla cucina giapponese. Due anni fa il gruppo rilevava gli spazi dello storico Four Seasons di Manhattan (la primavera scorsa il passaggio di consegne ufficiale). Ambizioso il progetto per far brillare di luce nuova le sale mitologiche del Seagram Building, nel rispetto della storia del luogo. A maggio scorso  la prima riapertura, il Grill, con un menu dedicato alla carne. Poi, alla metà di luglio, la celeberrima The Pool, concentrata sulle suggestioni del mare. Da qualche giorno, al piano strada, l'ultima trasformazione, nei locali dell'ex Brasserie, che più degli altri spazi hanno subito l'impulso creativo del team. In cucina c'è Tasuku Murakami, in arrivo da esperienze stellate. La sala – il progetto è di Peter Marino -  è un tripudio di colori sgargianti, divanetti verde acido e poltroncine salmone, con un pavimento sopra le righe ispirato al dripping di Jackson Pollock. In menu tempura, gyoza, pietanze cotte sulla griglia (robata). Ma pure ostriche, alette di pollo, cocktail d'aragosta, ovviamente sushi e sashimi, pur consapevoli di non voler rappresentare un autentico sushi bar. Di tradizionale, del resto, ci sarà ben poco. E il locale è destinato a diventare un ritrovo di tendenza in città, con la sua voglia di fare festa, condividere, farsi vedere. A prezzi contenuti, per chi non se la sente di spendere 200 dollari al piano di sopra.

 

Bouley at Home  | New York | 31 West 21st Street | www.davidbouley.com

The Lobster Club | New York | 98 East 53rd Street 

 

a cura di Livia Montagnoli


Berebene 2018. La presentazione della guida al Lingotto. E le degustazioni a Torino, Napoli, Roma

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Giunta alla 28esima edizione, la guida Berebene del Gambero Rosso continua a premiare le etichette col miglior rapporto qualità/prezzo d’Italia. 773 le proposte segnalate quest’anno, tutte non oltre la soglia dei 13 euro a scaffale. Il 19 novembre appuntamento a Torino, con presentazione e degustazione aperta al pubblico. Poi Napoli e Roma. 

Berebene 2018. La guida che premia il rapporto qualità/prezzo

L’Italia del vino è in ottima forma, e l’ultima edizione della guida Vini d’Italia del Gambero Rosso l’ha dimostrato sul campo, offrendo un quadro esaustivo e capillare della migliore produzione vinicola sul territorio nazionale. La nota di merito in più, considerando una fascia di prezzo che non superi i 13 euro a bottiglia, è rilevare come sia sempre più facile reperire grandi vini a prezzi più che ragionevoli. E questa è la missione della guida Berebene, che ogni anno assegna un premio per il miglior rapporto qualità/prezzo alle etichette che si assestano non oltre la soglia dei 13 euro a scaffale, e che valgono l’assaggio. Il risultato è un insieme di piccole e piccolissime realtà che restituiscono il profilo di un’Italia enoica varia e interessante, che merita di essere scoperta. Tanti vitigni autoctoni, molti sconosciuti ai più, ma anche etichette riconducibili alle denominazioni più blasonate, prodotte da grandi cantine cooperative che lavorano con qualità. Giunta alla 28esima edizione, la guida Berebene (a cura di Stefania Annese William Pregentelli) ha ben chiara una verità: in Italia, oggi, non si fa nessuna fatica a rintracciare vini con queste caratteristiche. Tanto che, rispetto alle 718 referenze citate l’anno scorso, l’edizione 2018 annovera ben 773 vini meritevoli di entrare in selezione, comprese le bollicine, al loro esordio in guida.

 

Le grandi degustazioni Berebene

Potrà scoprirlo di persona, chi domenica 19 novembre sarà presente al Lingotto Fiere di Torino, in occasione della presentazione di Berebene 2018, ospitata all’interno di Gourmet Food Festival. Appuntamento alle 16.30 in sala rossa per la premiazione riservata a produttori e invitati, poi, dalle 18 alle 21.30, porte aperte in sala gialla per la grande degustazione Berebene 2018. Ai banchi d’assaggio i vini premiati per l’ottimo rapporto qualità/prezzo. La degustazione è acquistabile online sullo store del Gambero Rosso, o presso la Città del gusto Torino, che organizza l’evento; ma anche il giorno della degustazione in fiera, fino a esaurimento. Costo d’ingresso 20 euro (10 per chi ha acquistato il biglietto per Gourmet Food Festival). Poi Berebene comincerà il suo tour per la Penisola, partendo da Napoli: venerdì 24 novembre, a Palazzo Caracciolo, la Città del gusto Napoli replica l’appuntamento con la degustazione, in abbinamento alle specialità culinaria pensate per l’occasione, in un percorso tra mare e terra, dolce e salato, per esaltare i piaceri della tavola. Appuntamento dalle 19, in via Carbonara 112, al costo di 25 euro a persona. Ultima tappa, a Roma, domenica 26 novembre, allo Sheraton Rome Hotel, dalle 16 alle 20. Costo d’ingresso 20 euro.

 

Tutte le informazioni sulle degustazioni Berebene 2018

Settimana della Cucina Italiana nel Mondo. A che punto è l'Italia?

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Italian sounding, export, cultura e tradizioni. La Settimana della Cucina Italiana nel Mondo è l'occasione per riflettere su quale posizione occupano la cucina, il cibo e il vino italiani all'estero.

La seconda Settimana della Cucina Italiana nel Mondo (dal 20 al 26 novembre) mette a fuoco alcuni temi chiave che, insieme all'aspetto più edonistico dell'appuntamento, sono gli obiettivi di questo lavoro di sinergia tra istituzioni (i Ministeri diAffari Esteri, Beni Culturali, Politiche Agricole), Ice (Istituto Commercio Estero) Enit (Agenzia Nazionale del Turismo), università, ambasciate, associazioni varie, tra cui gli Ambasciatori del Gusto che – dice Cristina Bowerman – ha spinto perché ci fosse, anno dopo anno, un tema unico su cui lavorare e un lavoro di comunicazione sui social network in grado di coinvolgere, collegare e raggiungere quante più persone in ogni angolo del mondo.

Mentre si scaldano i motori dell'evento diffuso – oltre 1000 appuntamenti enogastronomici in 100 paesi del mondo sul tema dell'associazione di cibo e vino di qualità - si fa il punto dello stato dell'arte dell'agroalimentare italiano e della sua posizione nello scacchiere globale, con la conferma dell'obiettivo – lanciato durante Expo 2015 – di portare l'export di settore a 50 miliardi di euro entro il 2020. “Obiettivo alla nostra portata” dice il Ministro Angelino Alfano nell'introduzione alla giornata di presentazione “visto che a oggi siamo quasi a 40 miliardi, su un valore complessivo di 132 miliardi di euro per l'intero comparto”. Un ottimismo condiviso anche da Luigi Pio Scordamaglia di Federalimentari che porta un dato rilevante: negli ultimi 10 anni la crescita media del settore è stata circa del 7% l'anno. E aggiunge che l'obiettivo non si può raggiungere aumentando la quantità di prodotto venduto fuori dall'Italia - per sua natura di quantità contenute e qualità alta - ma ampliare il numero di aziende che esportano con interventi e investimenti a sostegno della presenza nei mercati stranieri.

 

Gli obiettivi della Settimana della Cucina Italiana nel Mondo

Diversi gli obiettivi che convergono nella SCIM: la comunicazione del prodotto italiano, la sua tutela dalle contraffazioni, la spinta a posizionare meglio i nostri prodotti sugli scaffali internazionali, il sostegno alle due candidature Unesco, quella della pizza napoletana che verrà valutata tra poche settimane, e quella dei paesaggi delle colline del Prosecco e Valdobbiadene (“un esempio positivo della presenza dell'uomo sul territorio” dichiara Innocente Nardi del Consorzio di Tutela “in modo non solo conservativo ma evolutivo, che rappresenta una sostenibilità economica e ambientale”), per la quale occorrerà attendere il prossimo anno, la crescita della sicurezza alimentare e un migliore uso del territorio. Tutte cose raggiungibili grazie a un lavoro di quella che il Ministro degli Esteri chiama “diplomazia economica” che passa anche dal piatto che si porta in tavola. “Dietro un piatto e un prodotto c'è un territorio e un metodo di produzione” ribadisce Andrea Olivero del Mipaaf che pone l'attenzione anche sulle denominazioni di origine, sul sostegno alle aree terremotate (anche loro con una importante tradizione agroalimentare), sullo stile di vita che il nostro cibo sottende, sulla cultura della condivisione che ci rappresenta, “per un'Italia vista non solo come paese del bello, ma anche come paese del bello condiviso”. Un aspetto che ha un legame stretto con la convivialità e lo stare in tavola. E che ha un enorme potere attrattivo dal punto di vista turistico, tanto che il progetto del 2018 del Ministero dei Beni Culturali, riguarderà proprio il turismo gastronomico, come ricorda Debora Bianchi.

 

Comunicazione ed export: due punti chiave

Alla comunicazione sta lavorando l'Ice, con prodotti multimediali, quali – per esempio – il video che racconta come oltre ai canonici 4 elementi – aria, acqua, terra, fuoco – in Italia se ne possa individuare un quinto, fatto dalla connessione dell'uomo con la sua storia e il suo saper fare elaborato nel tempo, con la natura e i suoi frutti migliori. Una connessione che dà vita all'eccezionale patrimonio agroalimentare italiano che trova un ambasciatore d'elezione nella cucina. Ma l'Ice è in prima linea anche per la lotta contro il fenomeno dell'italian sounding che ha un impatto economico e di immagine pesantissimo per il nostro paese. “il modo più efficace per combatterlo” dice Michele Scannavini di Ice “è aumentare la presenza dei nostri prodotti, quelli autentici”, per questo racconta di un impegno a sostegno dell'export delle imprese italiane, anche quelle medie o piccole che da sole non avrebbero la forza di essere presenti suoi mercati stranieri con attività promozionali, accordi con la catena di grande distribuzione Walmart e altre operazioni: un investimento di 10 milioni di euro il cui ritorno è stato valutato in 100 milioni.

 

Il ruolo centrale del vino

Riporta al ruolo del nostro territorio nella storia dell'evoluzione e della diffusione del vino sin dai tempi antichi Roberto Miravalle del master in Gestione del Sistema Vitivinicolo dell'Università di Milano, a creare un fil rouge con la sessione della giornata in cui si ragiona su come il vino possa essere da veicolo per il territorio italiano, magari collegandolo ai siti Unesco, suggerisce Vincenzo De Luca del Maeci, sottolineando come l'enorme crescita del settore vitivinicolo negli ultimi 20 anni ha portato, come conseguenza diretta, una riscoperta non solo di vitigni ma anche dei loro territori, diventando un fondamentale volano turistico. Il vino, insomma ha un ruolo centrale, anche come apripista di alcuni mercati stranieri, suggerisce Luca Bianchi (Mipaaf) – che ricorda anche la strategia adottata in Cina con l'accordo con il gigante dell'e-commerce Alibaba - così come possono esserlo le varie denominazioni di origine, perché certificano non solo la qualità dei prodotti, ma anche quella del processo produttivo e di un saper fare tutto italiano, ma anche del territorio da cui provengono. Puntare su questi significa sostenere l'Italia all'estero. Anche se è proprio la varietà, anche delle denominazioni, a rendere il vino italiano più difficile da comunicare, replica Antonello Maietta dell'Associazione Italiana Sommelier, che ricorda la specificità del lavoro dell'associazione negli anni proprio per far conoscere la caratteristica polifonia ampelografica nostrana.

Al pari di quanto abbiano fatto, in oltre 30 anni, le guide Vini d'Italia che, ricorda Paolo Cuccia, presidente del Gambero Rosso, sono ormai tradotte in inglese, tedesco, cinese e giapponese. Uno strumento attraverso il quale le nostre migliori cantine vengono conosciute all'estero, cui si aggiungono i molti eventi di degustazione e promozione (circa 50 in 30 paesi) che permettono agli operatori di mezzo mondo di conoscere e testare direttamente i nostri prodotti. Non solo. Il vino, si diceva, fa da pioniere per l'ingresso del made in Italy agroalimentare in molti mercati, ma molto fanno anche i nostri ristoranti sparsi nel mondo: sono loro a far conoscere i nostri prodotti, sono loro a educare i consumatori, un ruolo fondamentale che parte dell'estero e arriva nei territori in cui si producono le nostre tipicità. A questi locali fondamentali per il sistema Italia, abbiamo dedicato una guida digitale, Top Italian Restaurant LINK che seleziona e valuta i migliori ristoranti italiani nel mondo. Ma Cuccia va oltre sollevando il tema, ancora mai toccato, della formazione, suggerendo come l'internazionalizzazione delle nostre aziende debba passare anche per una formazione degli imprenditori italiani che sappia spingerli in modo più consapevole verso i mercati stranieri.

 

Tutela dell'agroalimentare e ricchezza dei territori

Gaetano Esposito di Assocamere estero sottolinea come uno degli obiettivi sia creare anche all'estero consumatori più educati e consapevoli, un obiettivo da raggiungere con un lavoro certosino sul territorio e sui canali social, ma non solo, perché un quarto degli eventi di questa settimana della cucina italiana nel mondo fa capo alle 50 Camere di Commercio all'estero. Tra i prossimi obiettivi, una serata della pizza italiana, con degustazioni e masterclass, per far conoscere agli operatori stranieri, l'autentica pizza tricolore che, come spiega Alfonso Pecoraro Scanio, più che uno stereotipo italiano, è un archetipo, con la sua capacità di veicolare i più grandi prodotti tricolori, a partire da mozzarella e pomodoro. Un archetipo italiano, dice, ma che non deve essere ad appannaggio solo degli italiani, ma deve essere diffuso anche all'estero, “vogliamo che tutto il mondo venga in Italia a conoscere e imparare a fare la vera pizza”. Perché la pizza, e con essa tutta la cucina, è il vettore di valori culturali e agroalimentari (testimonianza ne sia anche il fatto che il famoso ricettario di Pellegrino Artusi ha avuto un ruolo nell'alfabetizzazione degli emigranti nei che hanno appreso lingua e tradizioni attraverso quel volume, sottolinea Giordano Conti di Casa Artusi), così l'artigiano che porta in tavola il piatto, è solo l'ultimo tassello di una lunga filiera che nasce nella terra e si conclude con il consumatore. Su questa responsabilità dei cuochi richiama Salvatore Bruno della Federazione Italiana Cuochi.

Settimana della Cucina Italian nel mondo | dal 20 al 26 novembre 2017 | www.fic.it/news/tutte-le-news/181-ii-settimana-della-cucina-italiana-nel-mondo

 

a cura di Antonella De Santis

Under. Nel 2019 in Norvegia arriva il primo ristorante sott'acqua d'Europa firmato Snøhetta

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In principio furono le Maldive, seguite da Dubai. Nel 2019 sarà la volta dell'Europa stupire il pubblico con il primo ristorante sott'acqua, che aprirà i battenti in Norvegia su progetto di Snøhetta. Le prime anticipazioni.

Ristoranti sottomarini

Attenzione puntata su design, arredi, servizio e originalità dell'offerta al ristorante: il mondo del cibo di qualità continua a raccogliere seguaci a tutte le latitudini, incentivando così una clientela sempre più esigente. Menu a parte, a influenzare il giudizio dei commensali è spesso l'ambiente, che spesso contribuisce a rendere unica l'esperienza complessiva del pasto. Così anche gli architetti e i designer si cimentano con progetti sempre più originali e ricercati; accade, poi, che molti creativi decidano di spingersi oltre i canoni classici dell'architettura, sperimentando nuovi format insoliti. È il caso dei ristoranti sottomarini, fenomeno di tendenza da qualche anno a questa parte, a cominciare dalle Maldive dove l'Ithaa Undersea Restaurant si trova ben cinque metri sotto il livello del mare. The Red Sea Star in Israele, invece, offre ampie vetrate vista Mar Rosso, mentre all'interno dell'Anantara Kihavah Villas, di nuovo alle Maldive, è stato costruito Sea, un ristorante ottagonale immerso nell'oceano. Senza dimenticare i tavoli del Al Mahara Restaurant, situato nel celebre edificio Burj Al Arab di Dubai, che si affacciano su un enorme acquario esteso dal pavimento al soffitto, per offrire uno sguardo inedito sulla vita marina.

Il primo esperimento in Europa

Anche l'Europa si prepara ad accogliere il suo primo ristorante sottomarino, progettato dall'azienda norvegese Snøhetta, studio di architettura che vanta un portfolio di lavori internazionali notevoli (la riqualificazione di Times Square a New York, la Norwegian National Opera and Ballet, Les Lumières Pleyel a St. Denis, in Francia, e HouseZero, l'edificio in legno interamente sostenibile che ospita l'Harvard Center for Green Buildings della Harvard University School of Design, tanto per citarne alcuni). Il locale subacqueo si chiamerà Under, e aprirà i battenti nel 2019 in Norvegia, nel villaggio di Båly, uno dei punti più a sud della costa del Paese. Un ristorante sì, che assolverà anche il ruolo di centro di ricerca di biologia marina, “un periscopio affondato”, come lo ha definito l'architetto, “una forma monolitica” che emerge dall'acqua e si appoggia alla costa rigogliosa. Strutturato su tre livelli e in grado di ospitare 100 persone, il ristorante “è molto più di un acquario: si tratta di una parte integrante del paesaggio marino, posizionata ben 5 metri sotto la superficie dell'acqua”.

 

Under

L'architettura

Nel rispetto dell'ecosistema marino, con cui l'edificio dovrà coesistere in maniera armoniosa. Realizzato con pareti in calcestruzzo spesso, non lavorate per permettere a cozze e mitilli di aggrapparsi alla struttura, Under si propone di diventare una barriera per i molluschi, attirando così anche altre specie marine. La grande vetrata panoramica di 13 metri consentirà invece agli ospiti di osservare i pesci del Mare del Nord. All'ingresso, luci basse e legni di quercia, elemento naturale pensato per essere complementare al calcestruzzo esterno. “Uno dei maggiori vantaggi di questo edificio è il modo in cui coniuga natura e terra, partendo dal tubo che collega l'ingresso in superficie con il ristorante sott'acqua, facendo provare al pubblico una sensazione finora mai sperimentata”, ha commentato Rune Grasdal, architetto del progetto.

L'offerta

A segnare la transizione fra costa e oceano, un wine bar, posto appena sotto l'ingresso, nel livello intermedio, dedicato ai più pregiati champagne francesi. Ai fornelli, lo chef danese Nicolai Ellitsgaard Pedersen del ristorante Boen Gård 1813, che proporrà un menu basato sul pescato locale: merluzzi, cozze e la specialità più tipica della zona, l'alga tartufo. In un ambiente accogliente e familiare: “È importante che le persone si sentano al sicuro”, ha spiegato Grasdal, “dovrebbe essere un'esperienza eccitante, ma al contempo confortevole”.

www.under.no/

a cura di Michela Becchi

foto di Snøhetta

La focaccia e i suoi derivati. 6 specialità della Valle d'Aosta e la ricetta delle tegole

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Il Lou Mécoulinè uno dei lievitati più celebri della Valle d'Aosta, una sorta di panettone dalle origini antichissime. Ma la tradizione regionale vanta anche altri prodotti da forno, dal pane nero alle tegole. 6 eccellenze valdostane e una ricetta d'autore.

Come tutte le regioni di confine, la Valle d’Aosta ha sviluppato nei secoli una cultura gastronomica peculiare. Così anche i suoi prodotti da forno sono strettamente legati al territorio: il gusto robusto delle farine locali sposa il sapore della frutta secca, spesso elemento centrale nei dolci che trova spazio anche nella panificazione. Qui, vi raccontiamo 6 focacce (e simili) tipiche, con la ricetta delle tegole della Pasticceria Morandin, Due Torte nell’edizione 2017 della guida Pasticceri&Pasticcerie del Gambero Rosso.

Crêpes alla valdostana

Farcite con fontina e prosciutto cotto e ricoperte di besciamella, le crêpes alla valdostana vengono gratinate in forno e servite calde, croccanti all'esterno e soffici e cremose all'interno. Una ricetta presa in prestito dalla tradizione francese, che può essere rivisitata in chiave dolce o salata, utilizzando gli ingredienti più disparati, dalle confetture al miele, dai formaggi ai salumi, dalle salse alle creme spalmabili. In Valle d'Aosta, le cialde sottili vengono dapprima cotte su una piastra rovente, per essere poi passate in forno per conferire una consistenza e un gusto più deciso al prodotto. Alla base della ricetta, latte, uova, burro e farina, da quella bianca a quella integrale, senza dimenticare la tipica farina di segale locale. Già preparate nel Medioevo con acqua e vino, le crêpes così come oggi le conosciamo iniziano a diffondersi nel Quattordicesimo secolo, in Francia ma anche in altri Paesi europei, in diverse varianti, come i pancakes anglosassoni o i waffles belgi.

Flandze

Una focaccia dolce a base di farina, latte, lievito, burro, tuorlo d'uovo, amido di mais e zucchero che prevede due diversi impasti: la flandze (o flantze) viene cotta tradizionalmente in forno a legna, e servita con frutti di bosco e panna montata. Un pane solitamente preparato con farina di frumento e segale, e arricchito con uvetta, mandorle e noci, un tempo riservato alle occasioni di festa e preparato dalle comunità dei vari borghi nei forni del villaggio. Nata e sviluppatasi principalmente nella valle centrale, la flandze è oggi diffusa in diverse zone della regione, e disponibile tutto l'anno, ideale per la merenda ma anche per la prima colazione.

Focaccia valdostana

Una schiacciata a base di pasta lievitata, ripiena di fontina valdostana, prosciutto crudo e olio extravergine di oliva. Le origini della ricetta sono remote e sconosciute, ma si tratta di una specialità che si tramanda da secoli nelle famiglie valdostane, che hanno apportato nel tempo le dovute modifiche a seconda delle esigenze e degli ingredienti a disposizione in dispensa. Nascono così la versione con le patate, con formaggi locali, e poi quella classica con la variante della grappa nell'impasto, distillato che da sempre rappresenta un fedele alleato per la gente di montagna, utilizzato per scaldarsi durante i mesi più rigidi.

Lou Mécoulin

È la versione valdostana del panettone, un lievitato aromatico e ricco di sapore, alto e soffice, realizzato con latte, panna, uova, zucchero, burro, olio d'oliva, lievito, e poi insaporito con l'uvetta macerata nel rum. Una ricetta antica che da secoli contraddistingue le feste natalizie regionali, che richiede una lunga preparazione, a cominciare dalla macerazione dell'uva passa (per almeno tre ore), per finire con la lievitazione (circa 12 ore). Se ne trovano, oggi, diverse declinazioni, perlopiù con l'aggiunta di cioccolato o frutta secca, ma quella più un voga resta la tradizionale, profumata e dal gusto unico. 

Pane Nero

La segale è uno dei cereali più antichi, tornato alla ribalta soprattutto negli ultimi anni, con la crescente attenzione da parte degli addetti ai lavori per le diverse tipologie di farine. Diffusa soprattutto nelle zone di montagna, la segale necessita di una temperatura inferiore a quella del frumento per crescere e svilupparsi. Proprio per la diffusa presenza di questa farina nasce la ricetta del pane nero, dal sapore deciso e lievemente acidulo, con mollica compatta e crosta dura e sottile. La pagnotta di colore scuro è solitamente preparata con segale unita a farina di grano, ma la si può trovare anche nella versione 100% segale, spesso aromatizzata con semi di cumino o finocchio. In passato, questa specialità era riservata per un giorno di festa, l'equinozio di inverno, e veniva consumata nei vari borghi per celebrare l'inizio della stagione. Il pane veniva impastato dagli uomini nella stalle più grande del paese, per essere poi essiccato sulle rastrelliere (ratelé in dialetto locale), e successivamente distribuito alla varie famiglie grazie ai segni di riconoscimento fatti in superficie. Oggi lo si può trovare tutto l'anno, e viene impiegato spesso anche nelle ricette di dolci e pasticci, oltre che per le zuppe, bagnato nell'acqua o nel vino.

Tegole

La storia delle tegole valdostane si lega a quella della famiglia Boch, pasticceri da generazioni che, ispirati da un viaggio in Normandia, le inventarono negli anni '30. Il nome deriva dalla forma ondulata che queste schiacciatine dolci assumevano quando venivano messe ad asciugare dopo la cottura, ma oggi le tegole in commercio sono nella gran parte dei casi piatte. Per prepararle occorrono farina 00, zucchero, mandorle bianche, nocciole, burro e albumi d’uovo, anche se negli ultimi decenni ne è nata anche una variante al cioccolato che ha ottenuto una discreta popolarità. Per praticità, al posto di mandorle e nocciole spesso vengono utilizzate le rispettive farine. I valdostani usano mangiare queste specialità croccanti a colazione o a merenda, intingendole nel tè, ma sono ottime anche anche da sole, magari farcite con un velo di marmellata.

La ricetta: le tegole della Pasticceria Morandin, Aosta

Ingredienti

200 g. di nocciole già tostate (o di farina di nocciole)

100 g. di mandorle già tostate (o farina di mandorle )

100 g. di farina per biscotti

200 g. di zucchero

8 albumi d’uovo

1 bacca di vaniglia

1 piccola noce di burro

Tostare le nocciole e le mandorle nel forno, a 180°, per 15 minuti circa. Al termine toglierle dal forno, eliminare le bucce e setacciarle, lasciando che si raffreddino. Frullare le mandorle, le nocciole, lo zucchero e la bacca di vaniglia, facendo attenzione a non scaldare troppo il tutto. Mettere in una ciotola il composto ottenuto, unire le chiare d’uovo e la farina per biscotti: miscelare fino ad ottenere un impasto morbido e omogeneo. A questo punto, con l’aiuto un sac à poche, create delle piccole montagnette in una teglia, precedentemente unta con una noce di burro. Battere la teglia sul tavolo facendo allargare le montagnette di pasta fino a che non diventeranno rotonde e sottili. Per dare una forma migliore alle tegole, si può usare uno stampino, togliendo la pasta in eccedenza. Infornare a 180° per 6/7 minuti circa.

a cura di Michela Becchi

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Il ristorante dell’Archivio Storico a Napoli. Le ricette dei Borbone al Vomero

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Dal sartù ai vermicelli aglio e olio, alla parmigiana di melanzane in bianco. Le ricette sono quelle dei monzù, i cuochi francesi alla corte dei Borbone, durante il Regno delle due Sicilie. La tavola è quella dell’Archivio Storico, celebre cocktail bar del Vomero, che ora diventa anche ristorante. 

Il cocktail bar del Vomero a tema storico

La suggestione del Regno delle due Sicilie, all’Archivio Storico di Napoli – il cocktail bar di via Scarlatti che prende in prestito un nome inconsueto – si è respirata sin dal primo giorno d’apertura, più di quattro anni fa. Complice una ricostruzione accurata, ispirata all’estro del designer francese Philippe Starck, lo spazio sotterraneo del Vomero, nel caveau dell’omonima caffetteria, è ispirato ai cinque sovrani borbonici, Carlo, Ferdinando I, Francesco I, Ferdinando II e Francesco II. Una sala ciascuno, tra quadri, cimeli, bandiere che invitano a viaggiare indietro nel tempo, fino a incrociare i fasti ottocenteschi dei Borbone. Quando il locale aprì, nel 2013, la supervisione del bar fu affidata ad Alex Frezza, oggi apprezzatissimo padrone di casa del più celebre ritrovo per amanti del bere miscelato in città, L’Antiquario. Con l’idea di valorizzare i classici prestando particolare attenzione ai prodotti italiani, dagli amari ai vermouth, ai bitter autoprodotti. Col tempo l’ambientazione del luogo ha finito per influenzare anche la carta dei drink, ora concertata dal bar manager Alberto Ferraro: recuperare la tradizione del bere di epoca borbonica è diventato un obiettivo dichiarato. Spazio dunque a distillati e liquori locali, come il rosolio, che evocano la memoria degli acquavitari, i venditori di strada che nella Napoli ottocentesca servivano grappe con un cesto attaccato al collo.

 

Il ristorante borbonico

Negli anni, il locale – gestito da Luca Iannuzzi – si è fatto conoscere, accentuando il legame con la dimensione storica. E da qualche giorno, approfondendo lo stesso filone, ha inaugurato un ristorante molto particolare, dedicato alla cucina borbonica. In cucina c’è lo chef Roberto Lepre, ma le ricette sono quelle ricavate dai libri di corte dei monzù, i cuochi francesi che esaudivano i desideri di sovrani e nobili ospitati a corte. A tutti gli effetti uno spaccato delle pietanze in auge sulle tavole altolocate tra XVIII e XIX secolo: la parmigiana, bianca, con melanzane e zucchine fritte nello strutto – la prima menzione nel ricettario del cuoco galante scritto nel 1793 da Vincenzo Corrado – il gattò di patate derivato da una ricetta molto apprezzata in Francia nella seconda metà del Settecento, i “vermiculi aglio e uoglie”, antenati degli spaghetti aglio e olio, già descritti in un manuale del 1837. Poi il sartù (dal francese Sor tout, “copri tutto”, col pangrattato a fare da mantello), la genovese, i polipetti alla Luciana.

 

Le ricette

L’interpretazione moderna, al ristorante dell’Archivio Storico, ha richiesto qualche variazione sul tema, e così la parmigiana è proposta in vasocottura, il gattò diventa un’aria di patata al pepe di Sichuan, arricchita da provolone del Monaco e croccante di salame, lo stoccafisso un tocchetto di mussillo in tempura di riso con maionese di alga nori. Agli spaghetti aglio e olio si accosta un battuto di dentice al limone, il “zuffritto” alla napoletana arriva in tavola con una spuma di patata Polvica e scaglie di tarallo. Dalla storia anche le zuppe, di fagioli “dente del morto” con mandorle e scorfano rosso, di cicerchie con gambero rosso e lardo, di patate con spaghetti di friarielli e polpette di maiale nero casertano. Tra i dolci, il babà, ricetta che viaggia attraverso l’Europa delle corti, prima di approdare in Campania, per diventarne uno dei dolci simbolo più conosciuti nel mondo, servito all’Archivio con crema alla vaniglia e amarena; ma anche la mela annurca cotta al passito, con crumble di cannella e pepe verde. Del resto, nelle intenzioni del patron Luca Iannuzzi, l’Archivio Storico ha sempre rappresentato un omaggio alla memoria di Napoli, e ai suoi fasti (“Con i Borbone, i Meridionali sono stati, per l’ultima volta, un popolo amato, rispettato e temuto in tutto il mondo”, recita l’incipit della storia del locale).

 

Archivio Storico | Napoli | via Alessandro Scarlatti, 30 |  www.archiviostorico.com

 

a cura di Livia Montagnoli

Colazione da Tiffany, ora è realtà. Il Blue Box Cafè nella mitica gioielleria sulla Fifth Avenue

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Immortalate per sempre nella storia del grande cinema americano, le vetrine della celebre gioielleria di New York sono legate al ricordo del portamento inconfondibile di Audrey Hepburn, elegante persino mentre sbocconcella un croissant in strada. L’ultima trovata della maison per rilanciarsi evoca proprio l’immaginario del film, con l’esordio del caffè ristorante al quarto piano del flagship store. 

Il film diventa realtà

Caffè è croissant, e in alternativa un toast all’avocado che ci riporta immediatamente al presente. Eppure, varcata la soglia del nuovo caffè firmato Tiffany – il primo nella storia della celeberrima gioielleria newyorkese, con le inconfondibili pareti azzurre in omaggio al colore della maison – la tentazione di fantasticare sul passato è forte. Un passato immaginario, certo, ma così abilmente concertato (e recitato) da aver fatto strage di aspiranti Audrey Hepburn per molti decenni a venire, sin dall’uscita nelle sale, nel 1961, del film che avrebbe reso immortale la gioielleria sulla Fifth Avenue, e con lei la briosa protagonista di Colazione da Tiffany, furba, squattrinata, elegante in modo irresistibile. Il titolo della pellicola, dal romanzo di Truman Capote, è perlopiù fuorviante: solo all’inizio del film, nella prima scena in cui compare in azione, Holly consuma rapidamente la sua colazione fantasticando davanti alle vetrine della gioielleria. Ma all’indomani dell’inaugurazione del ristorante di Tiffany, al quarto piano dell’edificio che ospita il flagship store di Manhattan, è difficile resistere alla tentazione di associare finzione e realtà. Il titolo è già pronto, scolpito negli annali della storia del cinema: Colazione da Tiffany. E l’operazione è stata resa possibile dal restauro di uno storico spazio che oggi si presenta inconfondibilmente griffato, dagli arredi alle pareti, alle stoviglie, total light blue, e già attira lunghe file di clienti desiderosi di sorseggiare un caffè da Tiffany. O meglio, al Blue Box Cafè, come recita l’insegna ideata da Reed Krakoff, direttore artistico del marchio.

 

Colazione (e pranzo) al Blue Box Cafè

Di lusso moderno si parla per identificare un’esperienza certo non alla portata di tutte le tasche, ma comunque accessibile (a patto di trovare posto, non si accettano prenotazioni), con la colazione rinforzata da 29 dollari – caffè e croissant e poi a scelta, toast all’avocado, uova tartufate, salmone e bagel – e il pranzo a prezzo fisso servito per 39 dollari, che però danno diritto solo a un antipasto e a un’insalata. Per l’ora del tè, invece, la spesa sale a 49 dollari, con una selezione di snack salati e dolci, e piccoli sandwich. Ma volendo ci si può accomodare solo per un caffè (5 dollari) e una fetta di torta al cioccolato (12). Un menu semplice, quindi, senza troppi colpi di scena, perché certo non sarà la bontà dell’offerta gastronomica (anche se dalla casa sottolineano la stagionalità e la qualità dei prodotti, ripensati alla maniera “unica” di Tiffany) a fare il successo di quella che molti considerano un’efficace trovata commerciale per far parlare di sé. La riapertura del quarto piano, tra l’altro, ha portato all’esordio contestuale di un negozio di articoli per la casa firmati Tiffany, che lancia un nuovo catalogo di oggetti pronti a diventare un must, e non smentisce la sua fama: “questa nuova collezione innalza banali oggetti di uso comune e li trasforma in qualcosa di cui non si potrà più fare a meno”. Un set di due tazze, per esempio, si porta a casa con 95 dollari, ma chi ha sempre desiderato una ciotola firmata per il suo cane, può averla per 125 dollari; più economica la mug souvenir da 55 dollari. Chiara l’intenzione di risollevare le sorti di un’azienda che, per quanto solida e longeva (fondata nel 1837, alla metà degli anni Cinquanta è l’emblema del lusso americano), negli ultimi anni ha accusato la crisi, con vendite e guadagni in calo, e una concorrenza sempre più agguerrita. La soluzione era già in casa. Citofonare Audrey Hepburn.

 

Blue Box Cafè | New York | Fifth avenue and 57th street | www.tiffany.com/Locations/EventDetail.aspx?eventid=1063

 

a cura di Livia Montagnoli

 

Fico Eataly World a Bologna. Cos’è, com’è nato, come funziona, cosa ci piace e cosa no

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Sta per aprire al pubblico Fico Eataly World a Bologna. È un grande centro commerciale dedicato al cibo, il più grande parco a tema sul tema (infatti ricorda un poco Expo2015) e anche un luogo che ambisce a formare le coscienze di grandi e piccini. Qui abbiamo scritto cosa ci suona e cosa non ci suona di un progetto indubbiamente unico e affascinante.

Dopo aver proposto una bella anteprima qualche giorno fa ed essere stati i primi ad entrare con delle telecamere dentro la struttura, oggi, a poche ore dall’inaugurazione, è il tempo di ipotizzare una riflessione più posata e profonda sull’apertura a Bologna di Fico – Eataly World. Del resto si tratta del parco a tema dedicato all’alimentazione e all’agroalimentare più grande del mondo e sarà, siamo pronti a scommetterci, oggetto di dibattito diffuso nei prossimi mesi. Ma il progetto è gigantesco e dunque difficile da contenere nelle definizioni. Come tutte le cose grandi, ciascuno si sta facendo la propria idea di cosa davvero sia Fico e dunque non è superfluo elencare in primo luogo cos’è questa nuova realtà e da dove viene.

Fico - gli esterniFico - gli esterni

Fico. Cos’è e da dove viene

Fico viene da un bisogno. Un bisogno pubblico, amministrativo. C’era una volta il Centro Agro Alimentare di Bologna (CAAB) in una zona periferica della città. Pensato negli anni Settanta come piastra logistica, aprì negli anni Novanta quando già il business in quel settore stava cambiando e divenne presto superato. Il Comune di Bologna, socio di maggioranza della struttura, aveva un problema: a differenza di altri comuni italiani, quello felsineo decise di non lasciare la patata bollente all’amministrazione successiva e provò a farsi venire idee per risolvere. Fico nacque “cittadella del cibo”, o qualcosa del genere. Eravamo nel 2012, primo cittadino di Bologna era già Virginio Merola, un amministratore in gamba e decisamente concreto. “Dobbiamo fare un grande contenitore sul cibo, perché non chiamiamo Farinetti, guardate cosa ha combinato con Eataly!?” devono essersi detto il sindaco e i suoi collaboratori. E così andò. Oggi Eataly, come tutte le aziende che si occupano di retail e di grande distribuzione, deve fronteggiare mille difficoltà operative e di bilancio, ma all’epoca era una potenza di fuoco: c’era New York e il nuovo punto vendita di Roma, il più grande del pianeta. Inoltre la creatura di Oscar Farinetti stava preparando grosse cose in occasione di Expo 2015 a Milano.

Fico - -Pasta Di MartinoFico - -Pasta Di Martino

Quale partner migliore? Per rispondere davvero alla domanda si sarebbe dovuto fare un regolare bando europeo, ma si preferì di no. Anche perché l’imprenditore piemontese accettò e l’affare si chiuse su chiamata diretta: Bologna ci metteva lo spazio, sì, ma neppure un euro di soldi pubblici. E poi ci metteva qualche corsia preferenziale burocratica tra permessi, urbanistica, accessibilità. Farinetti e le Coop reperivano i quattrini necessari a partire (una sessantina di milioni) e i contenuti. Questo modello di business va tenuto a mente perché il Fico di oggi è conseguenza di tale impostazione.

FICO-Oscar_Farinetti_e_PrimoriOscar Farinetti e Tiziana Primori

Le cose andarono per il meglio. In soli 4 anni Farinetti e le Coop grazie a capacità manageriali e a dirigenti volitivi (in primis Tiziana Primori) riescono a portare a dama un progetto sconfinato, inclusa l’invenzione del nome-brand: FICO, fabbrica italiana contadina. In qualsiasi altro contesto sarebbero stati necessari vent’anni, oggi invece sebbene manchi ancora un collegamento tramviario con la città, Eataly World è realtà concreta senza neppure la necessità di far forzature come nel 2012 successe a Roma quando Farinetti aprì il suo mega negozio al quartiere Ostiense senza aspettare i permessi del Municipio. E tra poco, di fronte ad Eataly World, il fondo del gruppo Prelios che ha coadiuvato l’investimento, edificherà anche un albergo.

 

 

Come funzionano le fabbriche?

I numeri del progetto erano impressionanti e lo restano anche nella realizzazione in via di inaugurazione. 10 ettari, di cui 8 al coperto. 150 aziende coinvolte (quasi tutte già fornitrici di Eataly o di Coop), 700 posti di lavoro più l’indotto, 40 fabbriche che altro non sono che luoghi in cui le aziende non solo vendono e somministrano ma anche producono con impianti veri e propri (Baladin ha realizzato qui un birrificio, Granarolo fa qui la mozzarella e via dicendo), 6 aule didattiche, 6 giostre educative a tema, un centro congressi da 1000 posti, 47 punti di ristoro (alcuni dentro le fabbriche, altri indipendenti, alcuni di street food, alcuni di ristorazione tradizionali, alcuni addirittura di alta ristorazione gastronomica firmato da Enrico Bartolini), il mercato, le botteghe, il bazar, 200 capi di bestiame negli allevamenti circostanti, 2000 cultivar negli appezzamenti dimostrativi.

 

 

Fico, in pianta, è una sorta di grande ‘elle’, al centro una pista ciclabile che la percorre tutta (centinaia le bici a tre ruote, brandizzate da Bianchi, mentre la navetta interna è brandizzata da Trenitalia) e ai lati i camminamenti pedonali sui quali si affacciano i chioschi e le fabbriche, all’esterno delle fabbriche le aree esterne, coerenti con le fabbriche stesse.

 

Per capirci, la fabbrica di Granarolo ha all’esterno i recinti con le vacche, la fabbrica di Urbani Tartufi ha all’esterno vivai per farsi a casa la propria ‘piantagione’ di tartufi (sic) oltre che una tartufaia dimostrativa

 

 

La fabbrica dell’olio del Frantoio Roi ha all’esterno una aiuola con alcune varietà di ulivi. E così via. Il sistema delle fabbriche è ancor più interessante non tanto perché permette alle aziende di fare formazione ai clienti (questo aspetto è anzi quello più controverso e ne parleremo dopo), quanto perché è ideale come banco di prova per nuovi prodotti.

 

 

Se dobbiamo lanciare sul mercato qualche nuovo formato di pasta” ci spiega Giuseppe Di Martino che qui ha store e ristorante ma soprattutto un pastificio di tutto rispetto “prima lo facciamo debuttare qui, vediamo come reagisce il pubblico e poi andiamo sulla massa”. Sostanzialmente insomma il sistema delle fabbriche consente alle aziende e ai brand di spostare in un luogo condiviso, assieme a tanti altri colleghi che fanno lo stesso, il tradizionale centro di formazione, dimostrazione & ricerca aziendale dove tradizionalmente le aziende più illuminate e aperte accolgono clienti, turisti, scolaresche, distributori. Oggi lo si può fare in un luogo accentrato, al cospetto di milioni di contatti all’anno. C’è da dire che le fabbriche sono proprio… fabbriche. C’è davvero molto poco di “contadino”, nel senso più retorico del termine, in un grande pastificio come quello di Di Martino, in una significativa centrale del latte come quella di Granarolo o nel laboratorio di pasticceria iper robotizzato come quello di Balocco… Chiamarle “Fabbriche contadine”, perché? Non basta allestire un pollaio e una porcilaia (tutti dimostrativi, mai operativi realmente) per definirsi “contadini”. Ma un progetto così sconfinato ha fisiologicamente elementi fuorvianti, questo è uno e ne vedremo altri in seguito.

 

{gallery}Fico Due{/gallery}

 

Consumo di suolo zero

Per costruire tutto questo non si è mangiato comunque un solo cm quadrato di terreno visto che gli architetti (Thomas Bartoli ha fatto davvero un buon lavoro, per altre considerazioni sull’architettura leggi qui) hanno utilizzato quel che c’era già e che era poco sfruttato. Ma perché proprio Bologna? Risponde Farinetti: “siamo al centro del Mediterraneo, la stazione ferroviaria è fantastica e qui tutti sono vicini, la regione è un simbolo dell’agroalimentare e dell’innovazione e a differenza di Milano Bologna ha una ricettività alberghiera meno congestionata”. E allora si parte: ingresso gratuito, anche parcheggio gratuito per le prime ore e target a 6 milioni di visitatori. Che sembra una sproposito ed è parecchio, ma è grossomodo quel che fa l’outlet di Serravalle Scrivia o quel che totalizza Eataly New York che sì sta a Madison Square ma che è pur 18 volte più piccolo.

 

 

Il ruolo di Fico

Questa non è la mecca del consumismo, è il luogo dove si impara il cibo e dove si fa la lotta agli sprechi”. Durante la conferenza stampa di presentazione (2000 giornalisti per la visita in anteprima) il mantra era un po’ questo qui. Ma il mantra resta questo percorrendo la struttura. Grazie ad uno storytelling efficace e coinvolgente (già visto e rodato ormai da 10 anni in Eataly e gran vanto della casa), Fico ti lascia l’impressione di stare in un luogo dove per te sono state selezionate le migliori realtà del made in Italy, ti convince che una visita approfondita può soddisfare gran parte delle tue necessità di conoscenza sull’agroalimentare del paese con più biodiversità al mondo. Questo convincimento è ancor più efficace sui turisti (specie quelli che mordono e fuggono, ovvero la maggioranza) e ancor di più sui ragazzi. E uno dei target, comprensibilmente, sono proprio i giovani nella fascia tra 8 e 16 anni, nel momento, dice Farinetti, “in cui si comincia a pensare con la propria testa”.

 

A questo punto del progetto sopraggiungono gli interrogativi più controversi. Perché fin qui abbiamo sostanzialmente descritto un centro commerciale. Un supermercato evoluto. Anzi, di più. Eataly e Coop hanno concepito il progetto di retail shop sul food più innovativo del mondo. Qualcosa che dà reali risposte all’attuale crisi del retail e alla crisi ulteriore che verrà. Una innovazione che tanti copieranno, che parte dall’Italia e rispetto alla quale tutti dovremmo essere orgogliosi. Già oggi è infatti complicato convincere il consumatore a recarsi in un punto vendita, l’appeal dell’e-commerce è soverchiante. Domani, quando grazie alla tecnologia (dei droni ad esempio) quasi tutte le difficoltà logistiche e di delivery saranno superate, sarà plausibile la prospettiva di supermercati e grocery store strutturalmente mezzi vuoti. Si salveranno in pochi, si salveranno solo quei progetti capaci di completare l’esperienza, di saper aggiungere elementi di intrattenimento e di crescita, capaci di unire all’acquisto anche la somministrazione (come Eataly fa da un decennio), il coinvolgimento, l’interazione, la partecipazione (come appunto fa Fico). Sarà solo in questi spazi che le famiglie continueranno ad andare a fare la spesa: i supermarket tradizionali non avranno più grande motivo di esistere. A fronte di questi stravolgimenti di mercato, Fico – Eataly World dà delle risposte straordinarie e replica alle difficoltà di un settore con delle idee e dei modelli che saranno benchmark.

 

VenchiVenchi

 

Perché puntare così tanto sulla formazione e la didattica?

Ma se hai inventato il centro commerciale più strepitoso del pianeta, perché sforzarti per raccontarlo e “venderlo” come uno spazio di formazione? Perché cercare di malcelare la parte commerciale portando davanti quella turistica, didattica o addirittura formativa? Tra l’altro se a livello commerciale Fico – Eataly World non ha rivali nel suo genere, a livello didattico alcuni dubbi vengono eccome. Il quoziente di ‘credibilità didattica’ c’è, ma è francamente inferiore, tanto per fare un raffronto a cui Fico si richiama con evidenza, per fino al lunapark di Expo 2015. Salvo alcune linee seguite direttamente dalla Fondazione Fico (dove sono presenti anche le 4 università partner), la didattica è tutta demandata alle aziende. E così il consumatore meno avveduto rischia di essere centrato a pieno dal formidabile storytelling eatalyano e di andarsene via convinto al cento per cento che il miglior olio del paese sia quello di Roi, che il miglior panettone italiano sia quello Balocco e che il miglior pollo sia quello di Amadori. Peccato che tutto questo sia falso. Attenzione: non si tratta di aziende scadenti, tutt’altro. Siamo di fronte a onesti operatori del made in Italy, società di tutto rispetto. Ma sono lì, a Fico, non perché siano state selezionate, come si potrebbe pensare, da un ente certificatore terzo, bensì perché sono storiche partner commerciali di Farinetti e di Coop o perché hanno accettato di essere presenti in Fico con le condizioni che Fico ha offerto (zero affitto, ma 20% sugli incassi da vendita di prodotto e 30% sugli incassi da ristorazione: un business model che necessita di spalle larghe e che non lascia troppo spazio ai veri artigiani). A dispetto della insistita narrazione, salvo alcune eccezioni, qui non ci sono le eccellenze assolute del made in Italy come si sarebbe portati a credere: proprio no! Solo (e non è poco, beninteso) buone aziende.

Ciò nonostante il coinvolgimento emotivo della narrazione è tale che una buona percentuale dei destinatari della filiera didattica di Fico andranno via da Bologna forti della convinzione che in Italia il miglior cioccolato è Venchi, la miglior passata Mutti e Rossopomodoro la miglior pizza napoletana in assoluto. Questo accade – o può accadere – quando si eccede nel mescolare commercio e didattica. In alcuni casi a mitigare questa anomalia ci sono i consorzi, che dovrebbero essere il vero punto di mediazione, quando si parla di educazione alimentare, tra produzione e consumo. E però a Eataly i consorzi non sono molti: mele, parmigiano, grana, prosciutto e mortadella. E per fortuna che il disciplinare del Parmigiano Reggiano, per pochi chilometri, non consente di produrre in loco altrimenti anche nella omonima fabbrica si sarebbe ceduto alla retorica del “fatto al momento” che pervade altre fabbriche e che può essere forse interessante a fini dimostrativi, non certo educativi.

E poi che tra i tanti aspetti innovativi di Fico, quello della formazione lo è forse meno di tutti. In fondo ogni buon commerciante fa, indirettamente, formazione. Gli conviene, fidelizza, coinvolge e appassiona i suoi clienti. Ancor più gli esercizi di qualità. Pensiamo al banchista della nostra gastronomia di fiducia, al nostro enotecario, tutti ci hanno insegnato tantissimo. E lo stesso vale per chi produce direttamente: ogni azienda vinicola ad esempio si è ampliamente attrezzata in questo senso. Ogni bravo verduraio al mercato ci spiega che l’Italia ha centinaia di cultivar di mele spesso troppo trascurate, da Fico questo semplice concetto ha bisogno per essere veicolato della sponsorship cubitale di Melinda sul grande portale d’ingresso.

Fico

Il confronto con il progetto di Lione

La pervasività dei brand che è misurata, ben tarata e giustamente distribuita se guardiamo Fico come un centro commerciale, diviene forzata se guardiamo Fico come il luogo di conoscenza e apprendimento dove andranno in gita scolastica i nostri figli. Starà agli addetti della Fondazione Fico governare queste anomalie e l’eccessiva contiguità tra merceologia generale e brand, tra business e educazione che ha fatto storcere il naso perfino a noi che siamo soliti considerare business e educazione due facce della stessa medaglia. Ma queste anomalie hanno un’origine e l’abbiamo svelata all’inizio dell’articolo: l’assenza di finanziamenti pubblici.

I temi dell’educazione alimentare sono così strategici che appare increscioso che lo stato italiano lasci che siano dei privati, da soli, ad occuparsene. Senza sostenerli, senza entrare nella partita, senza investire massicciamente. La Città internazionale dell’alimentazione, che aprirà a Lione tra 2 anni e che dichiara fin da oggi di essere l’unica alternativa europea a Eataly, si sta realizzando con 200 e passa milioni di investimenti pubblici. Tanti soldi? No: nulla! Se davvero la sfida è quella di insegnare alla generazione che avrà 20 anni nel 2030 come si mangia, come si evitano patologie, come si tutela e si rispetta davvero la terra, i suoi tempi, le sue caratteristiche, la sua diversità, allora 200 milioni sono briciole perché la prospettiva è di risparmiare alcuni miliardi (miliardi, all’anno!) sulle spese del servizio sanitario nazionale che in Francia, così come in Italia, rappresenta la percentuale monster del 7% sul Pil.

E allora se in un progetto davvero straordinario come Eataly World ci sono nei, incompletezze e passaggi poco trasparenti le colpe sono da andare a ricercare non certo nella rapacità degli imprenditori (ce ne fossero di questo lignaggio, al di là delle poco costruttive critiche che sovente Farinetti è costretto a subire), ma nella solita italica assenza di lungimiranza da parte delle primarie istituzioni governative: il Ministero dell’Educazione, certo, quello dell’Agricoltura, chiaro, ma ancor di più del Ministero della Sanità. Ad oggi l’unica presenza, assai timida, è quella del Ministero dell’Ambiente. In assenza di finanziamenti pubblici, gli sviluppatori privati si sono dovuti affidare in toto alle aziende: delle due, l’una. Si tratta di una questione cruciale, lo hanno capito a Bologna e la stanno cavalcando in ogni modo, non resta da attendere che lo comprendano pure a Roma. Certo è che se non c’è arrivato questo governo, appare velleitario nutrire speranze sul prossimo.

 

{gallery}Fico uno{/gallery}

 

Fico è comunque una ficata

Tutto ciò premesso, Fico è e resta una gran ficata. Ma non per quello che hanno cercato di inculcarvi con uno storytelling fuorviante in questi anni di cantiere. Non è interessante tanto perché è “contadino” (la parte campestre risulta patetica rispetto a qualsivoglia fattoria didattica), quanto perché invece dà la possibilità di osservare da vicino processi autenticamente industriali e applicazioni nel settore alimentare della grande meccanica di precisione italiana. Non è interessante tanto perché ci fa imparare delle cose (anzi abbiamo qualche riserva che ce le insegni in maniera davvero indipendente), quanto perché è la più avanzata e geniale risposta alla crisi del commercio al dettaglio. Non è interessante perché seleziona e sdogana piccole eccellenze come una sorta di preteso Salone del Gusto permanente, ma perché coinvolge, mette a sistema e lancia una sfida a industrie di qualità già strutturate contribuendo al loro salto dimensionale (e in questo senso è un modello replicabile, magari da altre parti d’Italia). Non è interessante tanto per la trita retorica su natura&terra, ma semmai perché offre una robusta alternativa indubbiamente meno alienante ma non meno appagante alle famiglie che per non pensare troppo a cosa fare passano regolarmente i fine settimana negli shopping mall tra cibo spazzatura, vestiti che non possono permettersi e insegne di cattivo gusto.

Fin qui le nostre idee. Le vostre non potrete che costruirvele andandoci. Il consiglio è di farlo senza dubbio.

 

a cura di Massimiliano Tonelli


Peppe Guida dell'Osteria Nonna Rosa: il guru della pasta

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La pasta secca italiana ha il suo riferimento assoluto: Peppe Guida, chef di Nonna Rosa a Vico Equense, è il guru di spaghetti, paccheri, penne e vermicelli. Li propone nella loro massima semplicità, come ingrediente assoluto, insieme al pesce appena pescato e ai prodotti appena raccolti dal suo orto. Qui spiega i suoi segreti.

Quello che colpisce, nella tavola di Peppe Guida, è l’impatto assoluto che si ha con la pasta secca made in Italy. Come se fosse qui l’avamposto della perfetta declinazione di quella che è la vera bandiera dello stile di vita italiano che tanto è amato nel mondo. “Anche se poi” sorride Peppe “vedo che più sale la quotazione di un ristorante e meno si usa la pasta secca in cucina. È un clamoroso errore. Mi rendo conto che con la pasta si semola di grano duro chi cucina rischia molto: se si sbaglia una cottura, serve almeno un quarto d’ora per farne un’altra, mentre con la pasta fresca o ripiena i tempi sono molto più rapidi. Ma l’esperienza gastronomica è un’altra cosa”. E si sente, per esempio nei vermicelli con le alici (e un tocco di tonno) dove la cremosità del condimento (senza l’aggiunta di alcun grasso di nessun tipo) accompagna in maniera strepitosa la consistenza perfetta dello spaghetto e la sapidità data dal pesce che si fonde con l’amido cremoso ceduto dalla pasta.

Peppe Guida. Foto Francesco VignaliPeppe Guida. Foto Francesco Vignali

Parola d'ordine: semplicità

La strada della semplicità, da Peppe, è portata ai massimi livelli. A partire dagli ingredienti. La pasta è solo quella del Pastificio dei Campi di Gragnano di cui lui è un grande estimatore e ambasciatore nel mondo. E poi c’è l’orto, il suo orto, realizzato intorno al casale che ha adibito a scuola di cucina, residenza di campagna e laboratorio di panetteria e pasticceria. Da qui vengono verdure appena raccolte che finiscono insieme alla pasta o nella splendida giardiniera che continua a preparare la nonna Rosa (la mamma di Peppe che festeggia 86 primavere e che ogni mattina alle 6 sta in cucina) e di cui ancora non si riesce a eguagliare sapori e consistenze. “Un’altra cosa che non riusciamo a copiare perfettamente sono le sue polpette” racconta Peppe mentre giriamo tra i filari del suo orto “fritte o stufate al ragù. Quest'estate durante la processione della Madonna di Nomea cui la nostra famiglia è tradizionalmente legata, e che passa davanti all'Osteria, la mamma ha fatto i panini di pizza con polpette fritte e melanzane a funghetto che ha offerto a tutti i fedeli: ha fatti felici tutti. Noi, ancora oggi, iniziamo i nostri catering con le polpette e li chiudiamo con le zeppole di patate e cannella: due classici della cucina familiare di qui”.

 

Quella di Peppe Guida è una bella storia che comincia tra partite di calcetto e scorribande con gli amici. “Alla sera, poi, facevamo le spaghettate tra noi ed ero sempre io a cucinare. Per la pasta ho sempre avuto una grande passione” ricorda Peppe cercando nella sua memoria il filo conduttore che lo ha portato prima all’Osteria, poi a Castellammare e ancora al ristorante Gemma di Capri (al Lido Le Ondine di marina Grande) e, ultimo nato, al Pasta Bar Di Martino Sea Front, in piazza Municipio, nel cuore di quella Napoli con vista sul Vesuvio che da sempre conquista chiunque ci si avvicini. “Uno di quegli amici se ne andò alle Bermuda a fare il pizzaiolo: dopo qualche anno si ricordò di me e delle nostre cenette e mi chiese se volevo andare là anche io a cucinare. Non l’avevo mai fatto, ma lui insistette tanto. Arrivai, carico di libri e riviste di cucina”. Come andò? “La prima cosa che preparai fu una pasta e fagioli del giorno prima ripassata con pepe e pecorino: conquistai tutti. Vuoi farti amico un napoletano? Fagli un piatto così”. Sono passati anni, e la situazione oggi è un'altra, ma certe cose non cambiano mai: “Un paio di mesi fa ho fatto un catering molto importante, in una villa di proprietà della Napoli bene e che conta: abbandonato in un cantone ho notato un enorme barbecue, così l’ho acceso e ho messo una donna a cuocere le melanzane alla griglia: si è fatta subito la fila. Poi, avevo portato con me una grossa padella di rame, di cui io sono un vero maniaco: ho fatto una tiella di patate rotte, con una cucchiaiata di strutto, cipolla e peperoncino dolce verde... Tutti in fila per la tiella. Avevamo in programma di cucinare molta carne, si aspettavano scampi e gamberoni alla griglia: alla fine sono passati in secondo piano. La padrona di casa a fine serata era emozionata”.

Pasta foto Francesco VignaliPasta. Foto Francesco Vignali

Capire la pasta

Ecco, questa per Peppe è la semplicità, l’anima della sua cucina. Non c’è una ricetta precisa, una regola segreta: l’unico ingrediente davvero speciale è la capacità di sentire la pasta mentre si cuoce, di capirla, di conoscerla a accompagnarla nel viaggio verso il piatto, con amore e usando tutta l’esperienza accumulata in anni di vita e di cucina. Proprio Peppe Guida, poco tempo fa, ci aveva dato dei preziosi suggerimenti per riconoscere la pasta di qualità.

 

Perché il vero e unico segreto è davvero questo: la qualità della pasta che in cottura cede amidi e prepara da sé la base del condimento, la cremina che conquista i palati di tutto il mondo. E di conseguenza, la freschezza e la qualità estrema degli ingredienti che l’accompagnano e che ne devono rispettare l’alto lignaggio. Nascono così piatti estremi e al tempo stesso fatti quasi di nulla: come i celebri spaghettini all’acqua di limone. “Ero a Identità Golose, dovevo fare un intervento tra Ciccio Sultano e Cristina Bowerman. Loro avevano scatole e contenitori pieni di preparazioni per i loro piatti, buste e sacchetti… Io salgo sul palco con un pacco di pasta, una brocca di acqua e un tocco di provolone. Erano quelli i miei ingredienti. L’acqua di limone era il condimento per una pasta che parlava da sé. Tanto che a grande richiesta ho dovuto ripetere il piatto per tre volte”. Un successo. Idem a Parigi, al congresso Cultural: “mi hanno chiesto di riproporla anche il giorno dopo. Sempre a Parigi, c'era caviale, scampi e tartufi, io mi presentai con una brocca di estrazione di radici di prezzemolo e aglio dolce che si ottiene sbollentando diverse volte l’aglio (senza anima) in acqua: con l’acqua dell’ultima cottura frulli l’aglio al minipimer ed è fatta la pasta di aglio che profuma e non lascia tracce nell’alito! L’estrazione di radici di prezzemolo e gambi viene addizionata con un po’ di acqua gasata che ne preserva colore e lucidità. Cuoci la pasta risottandola nell’acqua di prezzemolo, la mantechi con la crema di aglio e la guarnisci con polvere di peperone di Senise. Un aglio e olio senza nessun grasso”.

Peppe Guida. Foto Francesco VignaliPeppe Guida. Foto Francesco Vignali

 

La sua terra e i suoi prodotti

Ciò che colpisce nelle ricette di Peppe Guida non è la grande varietà degli ingredienti, ma il modo di trattarli per esaltarli al massimo, ottenendo sapori unici nei suoi piatti. Sono quasi sempre frutti della sua terra, che lui valorizza e tratta con massimo rispetto. Peppe Gguida è protagonista anche sul Gambero Rosso Channel con il programma Questa terra è la mia terraUn programma organizzato per grandi temi chiave del lavoro dello chef.

Uno è il limone, alla base di moltissimi piatti dolci e salati come per esempio i famosi spaghettini di cui vi diamo la ricetta (ma è solo la prima, rimanete collegate e ve ne daremo molte altre), ma con cui Peppe Guida produce anche marmellate sublimi, polveri di foglie essiccate, limoncello e altro ancora che scoprite seguendo il programma. Un altro argomento è la cucina del giorno dopo: come creare piatti sublimi con gli avanzi della cena del giorno prima (un esempio su tutti le zeppole di pasta e fagioli). E ancoral’orto, il suo orto dove tutto è trattato con la passione che lo contraddistingue e che quindi passa direttamente dal campo alla cucina. Poi la montagna, nello specifico il monte Faito, che regala prodotti spesso insospettabili e che testimoniano le tradizioni legate alle contrade della zona.

 

Ma un'altra occasione per conoscere da vicino Peppe Guida è a Gourmet Food Festival, il grande evento che porta al Lingotto di Torino i più grandi chef italiani, per conoscere da vicino loro e i loro segreti. Peppe Guida parlerà ovviamente di pasta, dando qualche consiglio per gli acquisti e qualche dritta per la cottura. Il titolo del suo appuntamento è “La pasta e la prova cottura”, sabato 18 alle 10,30.

Spaghettino acqua di limone foto Vignali

 La ricetta. Spaghettino all'acqua di limone, olio e provolone

È un piatto che nasce tra la Penisola Sorrentina e Capri: lo spaghetto al limone era un classico negli anni '80, come le pennette alla vodka. Si condivano le penne con burro, panna e parmigiano. Era un piatto gettonatissimo. Partendo da questa tradizione moderna e molto territoriale, ho voluto fare uno spaghetto al limone che riconsegnasse dignità al limone della Penisola: un agrume che, appena lo nomini, conquista subito cuore, fantasia e palato di tutti” commenta Peppe, che spiega velocemente un piatto semplicissimo, dove conta la freschezza e la qualità degli ingredienti e l'esperienza ai fornelli.

Si ammorbidiscono appena in acqua bollente gli spaghettini che si fanno poi risottare a cottura nell'acqua di limone. Si finisce mantecando con un provolone del Monaco molto fresco”.

 

L'acqua di limone

È la sublimazione dell'aroma e della rotondità del limone della Penisola. Si mettono le bucce di limone (in quantità a piacere, a seconda dell'intensità del frutto e del gusto personale, ma per un litro di acqua ci vorranno almeno 4-5- limoni) in infusione in acqua a 75° e si lascia per una notte. Poi si filtra: è pronta da usare per risottare la pasta.

 

Antica Osteria Nonna Rosa | Vico Equense (NA) | Pietrapiano, via privata Bonea, 4 | tel. 081 8799055 | www.osterianonnarosa.it

Gourmet Food Festival | Torino | Lingotto Fiere, via Nizza, 294 | dal 17 al 19 novembre 2017, venerdì dalle 17 alle 23, sabato dalle 10 alle 23, domenica dalle 10 alle 20 | www.gourmetfoodfestival.it

Questa terra è la mia terra va in onda il martedì ore 21.30 solo su Gambero Rosso Channel, Sky 412

 

a cura di Stefano Polacchi 

 

 

Chambre Séparée a Gand. Com'è il nuovo ristorante di Kobe Desramaults

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Dopo la chiusura di In de Wulf, alla fine del 2016, il più celebrato chef belga si rimette in gioco a Gand, con un ristorante a tempo, che chiuderà tra 3 anni. Sofisticato, per pochi commensali e rigorosamente vietato ai gruppi. Si cucina in forno a legna e sul fuoco vivo, davanti agli ospiti. 16 in tutto. 

Quello che è bene sapere da principio è che il nuovo ristorante di Kobe Desramaults, a Gand, sarà un'avventura a tempo. Tre anni ancora, poi l'edificio che lo ospita sarà demolito, e la cucina chiuderà definitivamente i battenti. Una consapevolezza che, se possibile, rende ancor più esclusiva la performance cui il commensale è chiamato ad assistere. Uno spettacolo di cucina architettato dall'inizio alla fine con scrupolo estremo, messo in scena dal più celebre direttore d'orchestra della moderna ristorazione belga, l'anticonformista Kobe Desramaults, che alla fine del 2016, dopo oltre 10 anni alla guida del ristorante di famiglia, nella campagna di Dranouter, salutava tutti, inseguendo un'evoluzione professionale (e personale) diventata necessità. A 23 anni, ereditando il testimone di In de Wulf, imprimeva una decisa svolta alla più convenzionale cucina da bistrot francese dell'insegna a gestione familiare, promuovendo una cucina di ricerca stimolata dall'isolamento quasi magico delle campagne circostanti, fino alla conquista della stella Michelin. Oggi Kobe ha 37 anni, e dall'inizio dell'estate scorsa guida il suo ristorante nel centro di Gand, Chambre Séparée. Un cambiamento necessario, per dirla con le parole di Kobe, che dopo anni trascorsi nel silenzio della campagna fiamminga, quel ristorante cresciuto con lui, grazie all'indiscutibile talento che gli è valso molti riconoscimenti internazionali, aveva cominciato a viverlo come una prigione dorata. Specie perché, maturando una differente visione di cucina, la ristorazione proposta fino ad allora sembrava non appassionarlo più.

 

Una nuova idea di cucina

Qualche mese prima dello stop, infatti, Desramaults anticipava i suoi piani per il futuro, specificando ciò che sarebbe stato dopo la fine di In de Wulf. E quindi tutto quello che della fortunata esperienza avrebbe portato con sé in città, ma soprattutto quel che per certo sarebbe cambiato: niente più lunghissime permanenze intorno a un tavolo, né pranzi per grandi gruppi di persone, a vantaggio di un ritmo stimolante per l'ospite, e per il cuoco. Facilmente riconducibile, per chi ama il Giappone e la sua cultura gastronomica, all'esperienza di un sushi bar di livello. Progetto concretizzato a Gand (o Gent, che dir si voglia), dove Desramaults gestisce da diversi anni la panetteria De Superette (mentre ha chiuso il Bistrot de Vitrine, l'altra insegna informale aperta nella cittadina fiamminga). Chambre Séparée, su progetto di Frederic Hooft, è un locale elegante e raccolto al piano strada di un edificio che ospita uffici in centro città. Uno spazio distinto, ispirato nel design degli interni, all'eleganza composta dei ristoranti anni Ottanta e Novanta, apparentemente distante da quell'immaginario rock è un po' sfrontato chiamato spesso in causa per descrivere Kobe e la sua cucina.

 

Chambre Séparée

La nuova vita dello chef belga, però, riparte proprio con l'idea di rompere col passato, offrendo agli ospiti – solo 16 per servizio, con prenotazione online massimo per due persone, fino a 4 solo durante la settimana, per il turno delle 21.30 – uno spazio sofisticato, accogliente, che enfatizzi la cucina sincera (a vista) della brigata. Moquet verde e poltroncine dalla linea vintage all'ingresso, dunque, ma anche tanto legno, e l'immancabile presenza del fuoco. Sì, perché Kobe alle sue cotture sul fuoco vivo – col suggestivo forno a legna e le griglie regolabili in altezza sul lungo braciere (qualcuno ricorderà Extebarri, ma anche la cultura del robata giapponese) – non rinuncia. E dal contrasto tra un trattamento fin quasi grezzo della materia prima e la sequenza di piatti delicati e sottili che sfila in tavola nasce l'aspetto più accattivante della performance. Due ore in tutto (non un minuto di più) per 20 piccoli assaggi che si avvicendano a ritmo sostenuto, disegnando un percorso chiaro “per un tempo di rappresentazione perfetto, come quello di un film o di una piece teatrale”. Un unico menu degustazione per tutti, quindi, senza possibilità di ordinare alla carta. Tanti ingredienti vegetali, ma anche prodotti pregiati, trattati con personalità... L'aragosta, il piccione. E abbinamento guidato con vini naturali, infusi, succhi di frutta. Costo a persona: 210 euro (escluse bevande).

 

Chambre Séparée | Gent | Keizer Karelstraat, 1 | www.chambreseparee.be

 

a cura di Livia Montagnoli

Foto di An Gyselinck

Ikea Cookbook. Il nuovo manuale di istruzioni per le ricette firmato Ikea

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Quello fra Ikea e il mondo della ristorazione sembra essere un legame destinato a rafforzarsi nel tempo, e dopo le ricette da mangiare, arrivano i libretti di istruzioni per le ricette casalinghe. Mentre il gigante svedese continua a crescere e svilupparsi su più fronti.

Ikea nel settore alimentare

La strategia di tante campagne di comunicazione è da sempre raffinata e sottile, l'approccio un po' cinico e disincantato, pragmatico e con quel tocco di ironia che non guasta: Ikea, colosso svedese del fai da te, ha cominciato la sua avventura nel mondo del cibo già da tempo, fra progetti innovativi e creazioni originali. Gli ultimi dati divulgati dal gruppo indicano, infatti, quanto stia crescendo la percentuale di fatturato relativa alla somministrazione e vendita di prodotti alimentari, quasi 2 miliardi di dollari nell'ultimo anno. E le recenti trovate commerciali, dall'apertura di pop up indipendenti nelle grandi città come Parigi e Milano al coinvolgimento di cuochi amatoriali per catturare l'interesse della rete, testimoniano l'intenzione di accrescere l'appeal del format gastronomico firmato Ikea.

I progetti del 2017

Fra le ultime iniziative, l'incubatore di start up, progetto di accelerazione di impresa nato per valorizzare i lavori più rivoluzionari del settore gastronomico, e poi la più recente The Ikea Recipes Series, un ricettario da comporre e mangiare, un grande foglio con le istruzioni che non è altro che una ricetta edibile (stampata con inchiostro commestibile), da completare con gli ingredienti di riferimento, in arrivo dagli scaffali della bottega svedese. Prima ancora è stata la volta di Growroom, innovativa struttura di compensato pensata per ospitare erbe aromatiche, ortaggi, fiori e piante, e progettata all'interno di Space 10, laboratorio di ricerca di Copenhagen lanciato da Ikea nel 2015, mentre la scorsa primavera il gigante svedese lanciava l'idea di ristoranti e caffè stand alone, indipendenti dal punto vendita “tradizionale”: un progetto ancora tutto da definire e decifrare, che punta a implementare l'offerta gastronomica.

Il ricettario

Continuano le scommesse nel mondo alimentare, con un prodotto sui generis che ripensa l'idea del classico ricettario della mamma. Disegni minimali ed essenziali in perfetto stile Ikea che spiegano dosi e passaggi delle varie preparazioni: questo il concetto alla base dell'Ikea Cookbook, un quaderno pensato per “montare” i piatti passo dopo passo. A firmare il progetto, il graphic designer Zsolt Liber, che ha ricreato ogni step, dagli impasti alla cottura, alla maniera dei libretti di istruzioni per il montaggio di un mobile. Un'iniziativa che ripensa il modo di cucinare e di approcciarsi ai fornelli, con infografiche e indicazioni semplici e precise (l'azienda svedese ha specificato che le istruzioni saranno più facili e chiare di quelle solitamente utilizzate per i mobili). Il libro si inserisce all'interno del più ampio progetto, Ikea Easy Recipe Series, e comprende una ricca collezione di ricette della tradizione svedese. Rimarcando ancora una volta l'attenzione sempre più focale che Ikea sta riservando al cibo: “Credo fermamente che ci sia del potenziale”, ha detto il direttore di Ikea Food Michael La Cour, che aggiunge “mi auguro che fra un paio di anni i nostri clienti possano dire che Ikea è un grande posto dove fermarsi a mangiare, che vende anche mobili”.

a cura di Michela Becchi

Princi apre a Seattle. Il primo concept store della bakery milanese con (per) Starbucks

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A un anno dall'accordo stipulato con Howard Schultz, Rocco Princi porta la sua esperienza trentennale nella panificazione negli States, con l'esordio del primo punto vendita firmato Princi all'interno della Roastery Starbucks di Pike street. Prossimi step Shangai e Milano. 

Starbucks e Princi insieme. L'accordo

L'annuncio di un accordo tra Starbucks e Princi, nell'estate 2016, lasciava margine a una serie di indiscrezioni piuttosto ghiotte per il brand meneghino, storico nome della bakery made in Italy, e marchio nazionale più conosciuto nel mondo tra le realtà del settore. Tra i piani di espansione del colosso americano della caffetteria, infatti, la definizione di alleanze strategiche per avvalorare la crescita del brand portava Howard Schultz a stipulare una joint venture internazionale vantaggiosa per tutti i partner coinvolti nella trattativa. A cominciare da Princi, l'azienda fondata a Milano più di 30 anni fa da Rocco Princi, e poi cresciuta come catena di panetterie con servizio al tavolo, sbarcata anche a Londra. Nell'accordo con Starbucks, Princi figurava come fornitore esclusivo per i punti vendita premium del gruppo, da New York a Shangai, pure in vista dell'esordio italiano della catena di caffetterie, con l'apertura milanese allora prevista per il 2017 (e poi slittata al 2018). La sfida più grande, però, avrebbe riguardato la formulazione di un negozio a proprio marchio – Princi sull'insegna – in giro per il mondo, con il supporto dell'azienda statunitense. Da qualche giorno, il primo concept store di panetteria e ristorazione è operativo all'interno della Starbucks Reserve Roastery di Seattle, il quartier generale del gruppo fondato nel 1971, in attesa di aprire a Shangai il prossimo mese (il 5 dicembre), e poi Milano alla fine del 2018. Seguirà un piano di sviluppo già programmato, da new York a Tokyo, e Chicago. Per l'apertura di negozi monomarca Princi, con il supporto economico della Angel Capital Management, invece, bisognerà aspettare la primavera 2018.

Il banco di Princi. Da Starbucks

Intanto è nel grande locale americano che Princi rivela le sue carte, con il bel banco a elle ricolmo di prodotti di panetteria fresca, realizzati secondo la ricetta della casa, e il pane sfornato ogni giorno dai forni a vista (3, in grado di lavorare per 20 ore al giorno). Oltre 100 le referenze proposte al banco, con un grande assortimento di dolci da colazione (croissant, crostate alla frutta, muffin, pain au chocolat, plum cake, fino al tiramisù) e un'offerta salata proposta nell'arco dell'intera giornata, tra focacce farcite, quiche, panini, croissant salati, pizza a taglio, zuppe e insalate. E all'ora dell'aperitivo sfizi salati con accompagnamento alcolico, dalla birra al vino: una novità introdotta qualche tempo fa nei negozi “roastery”. Molti degli ingredienti utilizzati sono importati dall'Italia, 25 in esclusiva per Princi. E una commessa guiderà i clienti all'acquisto, spiegando loro caratteristiche e qualità delle diverse specialità made in Italy. L'idea di Schultz, conquistato dall'artigianalità di Princi, è quella di presentare all'America un prodotto ancora poco conosciuto, dolci da forno italiani, focacce e lievitati cotti in forno a legna.

In cambio, Starbucks si impegnerà a sostenere la crescita autonoma del partner, quando nel 2018 proverà a lanciarsi con pù forza nel mondo della caffetteria (sempre a partire dalla proposta di una moderna bakery di respiro internazionale), con caffè a marchio Starbucks. I vantaggi, com'è logico, se li spartiscono entrambe le parti: per la catena americana è la prima prova con prodotti da forno “homemade”, Princi invece guadagnerà in solidità e appeal sui mercati di tutto il mondo. E in vista dello sviluppo del sodalizio, Schultz avrebbe già acquistato una cucina laboratorio di supporto per le produzione di cibo a Chicago, dove Princi dovrebbe esordire nel 2019. Si gioca d'anticipo, per recuperare i 5 anni spesi dal Ceo di Starbucks per convincere Rocco Princi della bontà del progetto, come hanno rivelato a posteriori i diretti interessati. A Seattle il risultato è sotto gli occhi di tutti: si apre alle 7 del mattino, con chiusura alle 23.

 

Princi | Seattle | 1124 Pike street | www.starbucks.com

 

a cura di Livia Montagnoli

Artigianale vs industriale. La sfida dei panettoni, a Gourmet Food Festival

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Tutto quel che c'è da sapere sui panettoni, a Gourmet Food Festival di Torino. Appuntamento imperdibile con i più importanti maestri lievitisti, alla scoperta del dolce di Natale per antonomasia. 

Non è Natale senza panettone, dolce imprescindibile sulla tavole delle feste dicembrine. Ma come sarà il nostro panettone delle festività di fine anno? Di tradizione o di tendenza? Alto o basso? Mignon o over size? Superaccessoriato di farciture, glasse e condimenti arditi (e spesso improbabili), o essenziale, nudo, senza neanche canditi e uvetta? Ma soprattutto sarà artigianale o industriale? Qualche anticipazione di quel che ascolteremo (e assaggeremo) a Gourmet Food Festival.

Artigianale vs industriale. Riconoscerli

Nell'incontro dedicato al re dei grandi lievitati italiani, il 17 novembre dalle 18.30 alle 19.30, spiegheremo le differenze tra i due tipi di panettone e come deve essere quello artigianale, di pasticceria e di filiera. Lo faremo alla nostra maniera, facendo seguire la pratica alla teoria, il gesto alla parola, l'assaggio alla spiegazione, con l'aiuto di un maestro pasticciere di alta scuola, Pasquale Marigliano,che con il lievito e i suoi dolci compagni di viaggio ci parla. E con l'amichevole partecipazione di uno chef, Nicola Di Tarsia, che del panettone ci proporrà un impiego multitasking, destagionalizzato e creativo, e il maestro gelatiere Marco Serra, titolare dell'omonimo laboratorio del sottozero a Carignano, nell'hinterland di Torino. In assaggio, oltre al panettone di Pasquale Marigliano, anche quelli di Salvatore De Riso, altro maestro pasticciere di prim'ordine, e di Iginio Massari, il più famoso artista del panettone e il suo più efficace ambasciatore nel mondo.

La nascita del panettone moderno

Dolce antichissimo, addirittura fatto risalire al Mille, non nasce così come lo conosciamo oggi. Era un pane tozzo e addolcito. Come per gli spaghetti e la pizza, nel corso del tempo sono state modificate la forma e la ricetta. “La chiave di voltaè stato Angelo Motta”, spiega Achille Zoia, maestro “lievitista” con due Boutique del Dolce nella Brianza, “èstato lui a introdurre il sacchetto per contenere la spinta dell'impasto e costringerlo ad allagarsi in verticale. La seconda svolta l'abbiamo data noi, Iginio Massari ed io (tra i fondatori dell'Accademia Maestri Pasticceri Italiani, n.d.r.), mettendo a punto la ricetta con doppio burro e doppio zucchero, ispirata alla torta Paradiso”. Nasceva così, circa 30 anni fa, il panettone moderno, ad alto cilindro cupolato, dall'impasto superlievitato e ricco di ingredienti.

Secondo la legge

Dal Natale 2006 il panettone si riconosce dal nome. In base al decreto del 22 luglio 2005 dei Ministeri Sviluppo Economico e Politiche Agricole e Forestali, entrato in vigore nel febbraio del 2006, il panettone e i grandi lievitati dolci della tradizione italiana dovranno essere confezionati secondo un disciplinare che regola sia la tecnica di produzione sia la qualità e la percentuale degli ingredienti, a tutela della ricetta, della genuinità e del sapore. Dovranno esseri figli di una lievitazione naturale da pasta acida e contenere almeno il 16% di burro (il 20% nel pandoro), uova di gallina categoria A (fresche, e con non meno del 4% di tuorlo), scorze di agrumi canditi (come minimo il 20%), lievitazione naturale a pasta acida, oltre a farina di frumento e sale. Tra gli ingredienti facoltativi la norma include latte e derivati, miele, malto, burro di cacao, zuccheri, aromi naturali, emulsionanti (mono e digliceridi degli acidi grassi), conservanti (acido sorbico e solfato di potassio) e fino all'1% di lievito di birra. Sono previste le versioni superaccesoriate di farciture, bagne, coperture, glasse, decorazioni, frutta e, per quanto riguarda il panettone, anche una variante impoverita, senza canditi e uvetta. Ci sono pure le versioni mignon denominate, pacioccosamente, panettoncini.

I prodotti non conformi al decreto, confezionati con ingredienti di qualità scadente e più economici – margarina, strutto e grassi idrogenati al posto del burro, uova liofilizzate invece di quelle fresche, zucca in sostituzione delle più profumate e gustose scorze di limone, arancia e cedro per quanto riguarda i canditi – non si possono chiamare panettone ma devono essere identificati con nomi diversi, per esempio Dolce di Natale o altre denominazioni di fantasia. Quindi prima dell'acquisto occhio all’etichetta e verificare l'aderenza di nome e ingredienti alle indicazioni di cui sopra. Anche perché la normativa vale solo per i prodotti italiani e non per quelli del resto d’Europa.

Impasto del panettoneFasi di lavorazione del panettone nel laboratorio di Iginio Massari

Perché la lievitazione naturale a pasta acida

Il decreto del 22 luglio 2005 vuole tagliare fuori tutti gli agenti lievitanti chimici, i cosiddetti baking, per restituire ai lievitati da ricorrenza una grande leggerezza e sofficità, la caratteristica alveolatura allungata e filante e il loro aroma caratteristico. Perché il panettone è la quintessenza della lievitazione naturale: come dice Gabriele Bonci, pizzaiolo romano integralista che possiede una trentina di lieviti di cui due in pista tutti i giorni, “è l'istituzione della pasta lievitata, il punto d'incontro tra la panificazione e la pasticceria, più del panettone non puoi fare”. Sulla lievitazione a pasta acida prevista dalla normativa del decreto arieggiano aliti di scetticismo. Mauro Morandin, grande pasticciere e cioccolatiere di Saint Vincent, Aosta, figlio del grande Rolando (maestro lievitista che nonostante il pensionamento ancora insegna in corsi dedicati e continua a formare generazioni di artigiani del panettone), teme che si aggiri la norma del decreto “facendo pasta acida con il lievito di birra anziché partire dalla pasta madre”. Un dettaglio tutt'altro che marginale del quale si parlerà nell'incontro di venerdì 17 novembre.

Degustazione virtuale del panettone artigianale

L'occhio. Nella versione alta o bassa che sia, all'esterno il panettone si presenta ben sviluppato a cupola, con la crosta aderente alla pasta e di tonalità biscotto; un colore troppo scuro, cuoio antico o marrone intenso, indica una sovracottura, che potrebbe dare al dolce sentori eccessivamente tostati, se non di bruciato, e una nota amara al sapore. La mollica è di un giallo credibile non troppo acceso (la tonalità eccessivamente intensa spesso è dovuta a pigmenti prodotti per via sintetica aggiunti ai mangimi delle galline). Canditi e uva sultanina sono presenti in modo generoso, ben distribuiti e in giusta proporzione tra loro.

Il tatto. Il coltello cede al taglio senza fare resistenza. La struttura è soffice, setosa e leggermente umida, con alveolatura allungata e irregolare ma omogenea: “allo strappo si sfoglia in modo elastico e tende a fare il filo”, spiega Massimiliano Lunardi, pasticcere figlio d’arte e titolare insieme al fratello Riccardo del forno di famiglia a Quarrata, Pistoia, “mentre nel panettone fatto con un lievito diverso dalla pasta madre le occhiature sono tonde e regolari, le fette si sbriciolano e la mollica si asciuga velocemente”. Una volta aperto, il panettone conserva elasticità e sofficità per diverso tempo.

Il naso. Il profumo ricorda gli ingredienti di partenza: note di burro, vaniglia, agrumi e lievito naturale, senza forzature olfattive.

La bocca. Il gusto è pulito, equilibrato e rotondo, accompagnato dalle note avvertite al naso senza artificiosità o pungenze, e da una tessitura morbida, setosa e fondente. “Il panettone artigianale fa godere tutti i sensi, quando si taglia canta”, sorride Alessandro Boglione della storica pasticceria Converso di Bra, Cuneo, “ogni fetta ha una faccia, è diversa l’una dall'altra come uno sguardo, ha un’untuosità naturale e sottile, una leggerezza scioglievolissima”. Buchi e cavità non dovrebbero essere presenti nella pasta, ma potrebbero anche essere la spia che non sono stati usati i mono e digliceridi degli acidi grassi (E471), emulsionanti consentiti dalla legge e usati dall'industria per mantenere soffici i prodotti e allungarne la shelf-life almeno fino a 6 mesi.

Gli altri usi del panettone: l'arte del riciclo e abbinamenti agrodolci

Ce la insegna in cinque mosse Nicola Di Tarsia, chef del ristorante torinese Berbel, che usa il panettone in versione salata per sdoganarlo dal ruolo esclusivo di dolce delle feste natalizie. “Impiegatelo al posto del pane in un panino agrodolce insieme a salumi, formaggi o latticini”, è il consiglio di Di Tarsia. Oppure asciugato e tostato per renderlo croccante come un grissino, abbinato per esempio al parmigiano reggiano, “un dolce salato per finire il vino a tavola, pour la bouche!”. Altra idea multitasking è il panettone al posto di pane e burro: “il burro è già dentro! Si tosta appena e si completa con una spolverata di fior di sale, un pesce d'acqua dolce, una fetta sottile di salmone, con l'affumicatura che arrotonda il gusto, o di pata negra”. Molto interessante anche il tandem con le zuppe, con i crostini di panettone al posto del pane o del pancarré: “nel consommé, in un brodo vegetale o di carne, oppure nella zuppa pavese, con l'uovo che si cuoce nel liquido bollente”. Volete fare un'impanatura aromatica e agrodolce? “Essiccate e frullate il panettone e usatelo in sostituzione di grissini e pane raffermo, per esempio con pesci bianchi, il piccione, la carne di maiale, l'anatra per un accostamento dolce/salato da grand soirée. Come ci insegna l'Oriente da migliaia d'anni”.

 

Gourmet Food Festival | Torino | Lingotto Fiere, via Nizza, 294 | dal 17 al 19 novembre 2017, venerdì dalle 17 alle 23, sabato dalle 10 alle 23, domenica dalle 10 alle 20 | www.gourmetfoodfestival.it

Per info sugli altri appuntamenti: www.gamberorosso.it/it/gourmet-food-festival

Per tutti gli appuntamenti dell'area La dolce vita. Dal croissant al caffè

 

a cura di Mara Nocilla

 

 

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