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Un giornale (di carta!) che si occupa di enogastronomia. Cosa deve avere per funzionare?

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Belle foto, una carta migliore, illustrazioni, approfondimenti, belle ricette, storie e racconti da conservare. Su cosa deve puntare, negli anni che avvicinano al 2020, la carta stampata nel settore food&wine?

La carta è morta? Viva la carta! Anno dopo anno si annuncia la morte della carta stampata, ma ancora il funerale non è stato celebrato. Noi siamo sicuri che ci sia ancora un futuro per le riviste cartacee, anche ne settore de food&wine. E abbiamo chiesto ad alcune personalità del mondo dell'enogastronomia quale dovrebbe essere, secondo loro, la ricetta vincente. E lo abbiamo fatto proprio nei giorni in cui il nostro mensile esce con una veste rinnovata. Un primo cambiamento di tanti che seguiranno.

 

Corrado Assenza

Per me la carta deve essere densa di idee, il suo essere materiale, tangibile, deve avere contenuti reali e non vacui, consultabili in modo attento, più di quanto si faccia abitualmente su internet, da leggere e rileggere. Una carta/idea che abbia introspezione, cultura, spessore e grande profilo, che dia spazio ad aspetti quasi storici o storicizzati e alla più raffinata, elegante, saggia e sapiente innovazione. La carta deve incartare l'anima. Riuscire ad accogliere il segno d'autore, segni del tempo in cui siamo attraverso la cucina, foto e disegni.

Approfitto per lanciare un'idea, nata all'epoca dell'istituzione delle Stelle nella Guida Bar del Gambero, assegnate alle insegne e ai professionisti che per almeno dieci anni consecutivi hanno conquistato Tre Tazzine & Tre Chicchi (massimo punteggio). Diamo a questi nomi che da più di 15 anni sono leader della loro categoria, un ruolo nuovo, quello destinato a un pool di superesperti: che sia istituzionale, di rappresentanza della categoria, di formazione e valutazione di quanto c'è oggi e che loro stessi hanno contribuito a creare. Un po' come per taluni concorsi cinematografici in cui si chiama una giuria di esperti, a dare il premio della critica. Ecco bisognerebbe individuare questi esperti, un gruppo riconosciuto da ripetere in ogni categoria, che potrebbe trovare spazio nelle pagine cartacee così da definire un sorta di hall of fame operativo.

 

Allan Bay

Come deve essere e cosa deve fare una rivista cartacea del food&wine oggi? Semplice a dirsi, anche se non a farsi. Competere col web sulla quantità di notizie fresche è impossibile. Però il web ha una caratteristica: la tellurica bulimia, trovi tutto e di tutto, fake news incluse, e senza una forte preparazione specifica, che pochi hanno, ti perdi. Chi cerca notizie e commenti seri, non li trova. Quindi? Quindi bisogna evitare di competere col web e concentrarsi sulla qualità, sul servizio vero. Concentrarsi su poche cose, ma analizzandole bene, a fondo. Approfondire, ma sul serio. Evitare i contributi banali, i copia incolla dei comunicati stampa, le stupide classifiche che nessuno è in grado di stilare…

Solo puntando sulla qualità una rivista cartacea può salvarsi. Certo, i potenziali interessati sono una nicchia. Ma sono una nicchia importante. Ma alternative non ce ne sono. Poi fare bene con pochi soldi che oggi ci sono nella carta stampata non è facile: ma si deve fare.

 

Luigi Cremona

Penso (e mi auguro) che la carta rimarrà a lungo anche nell’epoca del web. Dalla parte sua il web ha l’immediatezza e l’universalità, alla carta affiderei il compito dell’approfondimento e dell’eleganza.

Quindi una rivista che sia bella, con belle immagini e una grafica studiata, e contenuti che privilegino lo spessore culturale, l’indagine, la retrospettiva. Che dia voce e spazio ad aspetti meno conosciuti, ad argomenti meno popolari ma importanti (un esempio? quelli economici con i costi e ricavi nel settore). Una rivista dove l’Italia sia ovviamente presente, importante, ma non dominante come ormai tutte le classifiche mondiali, di settore e non, giustamente ci fanno ricordare.

 

Fiammetta Fadda

Credo che dopo un iniziale o quasi iniziale, ormai, periodo di confusione, il mercato si dividerà in due tranche: da un lato le testate di gastronomia trasformate progressivamente in testate on line; dall’altro la carta di gran qualità fisica e grafica, un oggetto per intenditori e amatori, da sfogliare.

Ritengo che in questa fascia, necessariamente ristretta, confluirà però l’universo dei buongustai usciti dal mondo foodie giovanile per assestarsi sul piacere anche fisico del tatto, della bellezza delle immagini, della creatività gastronomica goduta con calma. Per fare un riferimento, quello che che, per le testate, è stato Grand Gourmet.

C’è poi un aspetto da non sottovalutare che riguarda la perfezione e la completezza delle ricette. Un passaggio in rete dice molto sulle approssimazioni e sugli errori tout court in cui si incappa, che si traducono necessariamente in insuccessi.

Infine c’è un piacere speciale, per chi ama la cucina, nella lettura di preparazioni perfettamente e sapientemente descritte da andare a ricontrollare con calma regalando al cucinare uno dei loro ruoli più significativi: generare pause di vacanza mentale e calma. Non è un caso che quando Margaret Thatcher aveva una decisione difficile da prendere si mettesse a fare il pudding.

 

Oscar Farinetti

Non è il mio settore, l'editoria, ma direi che qualsiasi attenzione si rivolge al mondo del cibo, oggi, deve essere di tipo olistico: bisogna parlarne a 360 gradi a partire dalla terra e non focalizzarsi solo sui piatti. Cosa che, tra l'altro, non è neanche un approccio italiano, perché l'Italia è in primo luogo una terra che ha una grande tradizione contadina. Prima si deve parlare dell'agricoltura, poi della trasformazione e solo dopo di quanto avviene al ristorante. Del resto ogni cosa buona o non buona deriva dalla campagna. I grandi chef sono quelli che rovinano il meno possibile le meraviglie della terra e lo stesso vale per i grandi enologi con il vino. Quindi io dico che la carta può avere ancora un grande futuro, ma deve parlare non solo del piatto ma della terra, della storia e delle tradizioni di un luogo. E lo stesso vale per le foto.

 

Annie Féolde

Quando una rivista è fatta bene, dà ai lettori la possibilità di comprendere di più quel che si fa in cucina, gli fa vedere dove si lavora bene, e li invoglia a visitare dei posti. Un giornale può aprire le porte e far capire la ricerca che fanno i grandi ristoratori. La cosa importante è spiegare e raccontare in modo interessante i ristoranti, ovviamente con la completezza delle informazioni che permettano poi ai lettori di raggiungerli.

La cosa importante, però, è che sia scritto da persone che abbiano una bella conoscenza della gastronomia, non solo regionale e italiana, ma direi quasi del mondo intero. Nei piatti ci sono delle differenze che rappresentano il paese, la sua storia, la mentalità, le difficoltà. Rappresentano la vita di quel luogo. Chi va a visitare dei posti per raccontarli deve capire tutto questo, e capire quel che si sta per mangiare, che è il risultato di una grande ricerca. Per questo è necessario avere persone preparate per potere scrivere di ristoranti. Ed è una formazione lunga, non bastano due o tre anni.

 

Paolo Marchi

Geniale, spiazzante, intelligente, profonda e precisa, così penso debba essere una rivista cartacea nell’era di internet. Certo non generica e superficiale, figlia di un lavoro senza bussola come tante danno ora l’impressione di essere, disorientate perché subiscono il web come un pugile i colpi dell’avversario più forte.

La rivista del futuro deve catturare l’attenzione fin dalla grafica, scendere nei dettagli più importanti di un singolo, originale argomento. La sua redazione deve avere gli occhi e le antenne posizionate sul mondo intero, deve essere in grado di andare oltre l’attualità, soprattutto quella più spiccia, deve sapere raccontare un cuoco, un produttore, un artigiano dai suoi inizi, dalla prima volta che si cucinò due spaghetti o provò a produrre un formaggio senza riuscirci.

Vorrei un libro, ogni mese il nuovo volume di una enciclopedia, qualcosa che abbia un respiro profondo. In una sola parola: deve essere… utile!

 

Anna Morelli

Stiamo vivendo da qualche anno una fase di cambiamento del panorama editoriale cartaceo. Le case editrici fanno fatica a stare a galla, ma quando ci riescono è sicuramente dovuto a delle scelte editoriali di fondo. Non comincerò di certo adesso a fare l’esperta di numeri e statistiche sull’editoria, ma gli anni di esperienza sul campo mi hanno insegnato un po’ di cose e mi hanno fatto crescere insieme ai progetti portati avanti.

Già 6 anni fa mi davano della matta per la decisione di continuare a pubblicare una rivista cartacea, oggi invece mi sento di dire che la carta non finirà, che i lettori amano l’oggetto che si sfoglia, si tocca, che profuma di stampa e che resta! Carta e web, anziché essere in competizione, hanno imparato a convivere e questo sembra essere in parte il futuro dell’editoria.

Per noi di Cook_inc. ogni numero è un nuovo inizio, una scusa per reinventarsi, per tenersi vitali e creare cultura senza lasciarsi condizionare né prendersi troppo sul serio.

Non vogliamo essere una rivista tecnica solo per addetti ai lavori, anzi, il percorso degli ultimi anni ci ha portati a rivalutare la cucina come “laboratorio di esseri umani”. Senza il racconto del vissuto delle singole persone le storie sono vuote e poco interessanti. I lettori, appassionati gourmet o semplicemente curiosi, hanno voglia di capire e sentire chi sta dietro ai fornelli e non solo leggere ricette e spiegazioni tecniche. Quindi il presente e il futuro dell’editoria cartacea, in poche parole è (secondo noi!): creatività, qualità, profondità, intelligenza!

 

Antonio Paolini

Condannati all’high level. A un upgrade di classe (come le compagnie aeree “vere”, che per pararsi dalle low cost hanno solo la business più figa e le lunghe rotte in condizioni umane su cui puntare). Pedalando quindi in maniera tutt’opposta alla corsa al “mani di forbice” no limits con cui l’editoria di carta (intera) ha reagito alla crisi. Pensando anche (alcuni, i più aleatori e furbetti) di approfittarne per sistemare vecchi conti interni. Ma il fatto è che, presa la discesa, specie sul ghiaccio, la logica è andar giù, non risalire. Sul piano puro del cheap, dei costi umani e intellettuali minimi, il web non teme rivalità al ribasso. E la sua velocità e trasversalità (più il miraggio di sdoganamento del protagonismo di ogni utente) fa un pacchetto di pro invincibile. Mentre i contro (nebulosità e/o malizia delle fonti, irresponsabilità, fake, schedature) son così subdoli da parere inapparenti. Dunque, a salvare il residuo (minoritario, ma prezioso se coltivato come elitario) erotismo fetish e intellettuale del magazine a pagine “vere” non resta altra via che: carta figa da toccare; grafica da urlo; contenuti approfonditi basati su conoscenze e scavo idem; scrittura di classe; idee. Chi vorrà continuare (ma si può leggere, ovvio, anche: chi s’ostinerà) a editare in quel campo dovrà rassegnarsi. In primis a utilizzare veri, rifiniti professionisti. In secundis, a pagarli. O magari, ad associarli. Non in pelose coop, ma in ragionate (e dinamiche) costruzioni partecipative sul tipo degli studi legali Usa. Quelli che fanno (per capirci) così figo nei serial (che sempre meno gente vede però sul tivù, ma su altri devices… meditate gente, meditate…).

 

Fabio Parasecoli

Credo sia importante che una rivista cartacea sia un oggetto bello da tenere in mano. Oggi le informazioni e la quotidianità si trovano su internet e sui social. Perché uno dovrebbe spendere dei soldi per una pubblicazione cartacea? Lo fa se trova idee, bella grafica, belle foto, qualcosa che dia piacere a tenerla in mano. Ormai nessuno si porta dietro una rivista pesante, ma legge a casa quando è rilassato. Insomma: io non vedo la fine della carta, ma vedo la carta usata in un odo diverso. Riguardo i temi, poi, la recensione dei ristoranti o del vino è più pratico averle in una app o su una guida, mentre una rivista deve dare spazio a temi di ampio respiro, al cibo inteso nei suoi diversi aspetti: culturale, politico, economico, sociale. Ci devono essere riflessioni ad ampio raggio, non essere chef-centrico, perché i cuochi sono il motore, rappresentano un tema sempre avvincente, ma ci sono fenomeni sociali, ambientali ed economici mondiali legati al cibo che secondo me meritano di essere affrontati. Quel che mangiamo dipende da tanti fattori: sono temi di attualità e argomenti interessanti se raccontati nel modo giusto: intelligente, agile, accessibile a tutti i lettori e non pedante, con illustrazioni e una bella veste grafica.

 

Luciano Pignataro

Ho cominciato a lavorare quando non c'era neanche il fax e sono molto contento di aver potuto vivere una trasformazione così radicale del mondo della comunicazione nell'arco della mia vita professionale. Di più, ogni anno, addirittura ogni mese, che passa c'è una ulteriore evoluzione a cui adeguarsi che richiede impegno e aggiornamento. E allora, a cosa può servire una rivista di carta? Scriverla e produrla sarà più o meno la stessa cosa di usare una carrozza invece dell'auto, di una barca a vela invece di un motoscafo. Deve essere utile allo spirito e al senso estetico prima ancora che pratica. Dunque molto bella, bellissima, un oggetto che è piacevole sfogliare con le mani, conservare, regalare, esibire. Non servirà a fare degli scoop, ma il tempo lento della scrittura e della lettura può facilitare l'approfondimento di un tema. Certo non deve rincorrere la tv come hanno fatto i giornali negli ultimi 20 anni e non deve rincorrere il web come ha fatto la tv negli ultimi cinque. Deve essere, appunto, la carta. Qualcosa di artigianale, pensata per esistere oltre il tempo necessario alla lettura. Un oggetto feticcio, un contenitore autorevole capace di essere l'oggetto dei desideri di chi lo sfoglia e di chi ambisce ad essere raccontato. Un oggetto dove capire i temi profondi del momento e portarli a galla in modo completo.

 

Nadia (e Giovanni) Santini

C'è spazio per una rivista cartacea oggi? Penso di sì. Ma deve aggiornarsi, perché la società cambia. C'è bisogno di recuperare il senso della cucina, che è una semplicità complessa. Cucinare vuol dire arrivare più vicino possibile alla scienza vera che è quella che trasmette la vita. E questo non bisogna mai perderlo d'occhio, invece nelle trasmissioni in tv c'è molta confusione che allontana dalla cucina vera, i giovani non sanno più fare neanche un semplice sugo. Bisogna ritrovare il contatto con la terra. Credo che una rivista oggi dovrebbe occuparsi di educazione alimentare. Mi piacerebbe leggere ogni mese un approfondimento: per esempio riguardo aspetti nutrizionali e legati alla salute, coinvolgendo medici ed esperti, o riguardo un prodotto, spiegandone metodi di coltivazione, proprietà nutritive, parlando anche dei ristoranti che lo usano, e dei vari impieghi in cucina. Raccontando i produttori virtuosi. Vorrei si andasse all'origine delle cose dando spazio a chi lavora bene. Un bravo allevatore, un produttore di latte che non munge tre volte al giorno ma una sola con massima attenzione all'alimentazione degli animali, un bravo agricoltore. Rovesciamo questo sistema che è andato incontro al tanto e diamo spazio al giusto, che deve essere anche pagato il giusto, rispettando le professioni, quelle fatte con cuore, anima, etica e responsabilità. Dobbiamo ricreare questa catena di fiducia l'uno con l'altro, dal produttore al trasformatore al ristoratore, e dare spazio a chi fa bene, ognuno nel suo.

Aggiunge un appunto il figlio Giovanni: il cartaceo deve differenziarsi totalmente da internet, deve essere bello, stimolare anche un altro senso, il tatto, in un modo che un tablet non potrà mai fare, essere piacevole da tenere in mano, avere belle foto ed essere autorevole. Si rivolge a lettori evoluti, magari cresciuti su internet, disposti a spendere di più, perché cercano qualcosa di più, consumatori che conoscono chi e cosa stanno leggendo.

 

Gianfranco Vissani

Mi piacerebbe vedere meno stupidaggini, vorrei trovare la cucina, quella fatta bene, cuochi che sappiano cucinare. Meno sensazionalismo. È una cosa difficile perché c'è un calo da tutte le parti: di vendite, ma anche di cucina, di materia prima. Di tutto.

 

Enzo Vizzari

Come insegna l'abc del marketing il primo passaggio è segmentare il pubblico di riferimento, oggi ben più articolato di 20 anni fa. All'epoca c'erano i superappassionati che giravano esclusivamente grazie al passaparola e alle guide, e poi c'erano i curiosi che solo occasionalmente facevano certe esperienze gastronomiche, questi ultimi trovavano informazioni, magari superficiali ma sufficienti per le loro esigenze. Oggi, invece, ci sono curiosi, foodies, gourmet militanti e, dall'altra parte, si trovano molte più informazioni disponibili, di tanti livelli diversi.

Parlando di carta - e questo vale sia per le riviste che per le guide - si deve pensare a un lettore curioso e molto motivato a informarsi ben oltre le notizie facilmente disponibili in rete. Per quanto sia disgustato da Tripadvisor, credo che possa essere utile a molti. Che probabilmente non sono i destinatari primi di una rivista o di una guida cartacea. Insomma: oggi chi vuole un tipo di informazione generica la trova ovunque, ma chi cerca qualcosa di professionale, frutto del lavoro di editori e giornalisti specializzati, sono convinto si orienti verso un prodotto editoriale diverso. Credo continui a esserci un mercato per la carta stampata anche nel settore dell'enogastronomia, a patto che sia autorevole e di qualità.

 

Noi siamo convinti ci sia un futuro per la carta stampata. E proprio per questo abbiamo deciso di impegnarci per rinnovare il Gambero Rosso, a partire dal numero di novembre già in edicola. 

gambero novembre

http://www.gamberorosso.it/it/mensile/

 

a cura di Antonella De Santis

 

 


Il weekend dell'arte contemporanea a Torino. Mangiare in fiera: Mariangela Susigan e gli chef emergenti

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Fino al 5 novembre Torino diventa la capitale dell'arte contemporanea per la 24esima edizione di Artissima. E tanti sono gli appuntamenti collaterali e i festival indipendenti aperti in città per tutto il weekend. Ecco cosa si mangia, tra una performance e una galleria d'arte. 

Torino capitale dell'arte contemporanea

Già da qualche giorno, Torino vive di eventi, performance, installazioni artistiche, fiere d'arte ed esposizioni off. Ma è nel weekend del 4 e 5 novembre che il circuito di appuntamenti dedicati all'arte contemporanea toccherà l'apice delle presenze, numerosissime, che ogni anno affollano il capoluogo piemontese in occasione di Artissima e del calendario collaterale maturato nel tempo a latere della manifestazione istituzionale. Otto sono i contenitori che quest'anno tracciano percorsi creativi di respiro internazionale all'ombra della Mole: oltre alla fiera dell'Oval, sede storica di Artissima, The Others e Paratissima, Dama e Operae, Flashback, Flat (la Fiera del Libro Arte) e Nexst, il festival diffuso dell'arte indipendente che ha preso il via il 26 ottobre. Percorsi paralleli che non mancano di intrecciarsi, contaminano i luoghi storici e le gallerie della città, attualizzano itinerari urbani dimenticati. Ma fanno perno pure su spazi recentemente restituiti ai torinesi, come le Officine Grandi Riparazioni di Corso Castelfidardo. Artissima è certamente il cuore della rassegna, con 193 gallerie da 34 Paesi del mondo; in programma dal 3 al 5 novembre all'Oval del Lingotto, l'edizione 2017 della fiera proporrà un inedito programma gastronomico affidato alle cure di una grande chef del territorio piemontese, Mariangela Susigan, da La Gardenia di Caluso.

 

Mangiare ad Artissima. La cucina di Mariangela Susigan

La cucina della chef sarà protagonista presso la Vip Lounge dell'Oval, che per tre giorni ospiterà il temporary restaurant di Artissima. E piemontese parlerà il menu, “una cucina concreta e comprensibile” fondata sull'eccellenza delle materie prime della tradizione del territorio, particolarmente attenta all'utilizzo delle erbe spontanee. L'idea, insomma, è quella di offrire a collezionisti d'arte e artisti in arrivo da tutto il mondo uno spaccato della Gardenia di Caluso, tra tajarin, agnolotti e battuta di fassone, ma con un occhio di riguardo al bouquet aromatico delle erbe tanto importanti nella cucina della Susigan, che ad Artissima porta anche il suo Orto d'Autunno, mettendo nel piatto ortaggi di stagione, tuberi e radici. Tra i signature dish proposti in fiera anche la Patata cotta al sale con uovo colante, burro di montagna e tartufo bianco di Alba, e la Zuppa francigena, anticipazione di una ricerca storica che presto arricchirà il menu della Gardenia, con l'idea di riunire in una ricetta solo ingredienti rintracciabili sul territorio piemontese ante scoperta dell'America: borragine, sorgo, ortica, fave, radici e fagioli. In abbinamento il Prosecco di Valdobbiadene Docg di un altro partner della manifestazione, la cantina Nino Franco, che proporrà anche un brindisi itinerante, muovendosi tra gli stand degli espositori con una buvette bicicletta (un carretto dei gelati ripensato per l'occasione) dispensatrice di bollicine. Ma si potrà bere anche piemontese, scegliendo da una carta di etichette selezionate, dal Barbaresco all'Arneis Bio di Ceretto, all'Erbaluce di Caluso. E pure una delle più celebri maison della Champagne, Ruinart, partecipa al fermento artistico torinese con un cofanetto in edizione limitata realizzato da maestri orafi francesi esposto al Bar Cavour del Cambio fino all'8 novembre.

 

Lo street food di Paratissima, i giovani chef per The Others

Cambio di set per raggiungere Paratissima, all'ex caserma La Marmora di via Asti con 600 creativi emergenti che affiancano artisti affermati, mostre, premi e un circuito di esposizioni diffuse in 49 sedi cittadine. Chi si recherà all'ex caserma, invece, potrà approfittare della proposta gastronomica di alcune insegne note in città, da Poormanger (con le sue patate ripiene servite intere con la buccia) a M**Bun,Casa Fedora, alle miscele di Giuliano Caffè.

Più articolata l'offerta ristorativa della rassegna The Others, che celebra la sua seconda edizione cambiando sede, completamente ripensata negli spazi dell'ex ospedale Regina Maria Adelaide. Il circuito promosso dall'Associazione The Others valorizza principalmente la sperimentazione, e le nuove energie creative, al confine tra la fiera che diventa vetrina per giovani artisti e un progetto di respiro espositivo (quest'anno il tema è la Superstizione), in uno spazio non convenzionale. E proprio per celebrare la ricerca anche le “performance” gastronomiche saranno affidate a 4 giovani chef che si avvicenderanno nel ristorante gourmet allestito all'interno dell'ex ospedale; dopo l'esordio di qualche ora fa, affidato a Christian Mandura (Geranio, Chieri), prosegue Carmelo Damiano (Giudice, Torino), e poi Gabriele Torretto (La Valle, Trofarello) e Antonio Manarello (Gerla 1927, Torino). Accanto, la proposta street food dell'area food truck, con Farinel On the Road, Gina La Piadina, Tantì, Brambù e Dal Parmigiano Gourmet.

Chiudiamo il giro tornando al Lingotto per i designer indipendenti di Operae, dal 3 al 5 novembre in città con l'ottava edizione della kermesse. In questo caso la proposta gastronomica sarà curata dal team della Drogheria Vini e Liquori.

 

Artissima | Torino | Oval, Lingotto | dal 3 al 5 novembre | www.artissima.art

Paratissima | Torino | Ex caserma La Marmora | dal 1 al 5 novembre | www.paratissima.it

The Others | Torino | Ex ospedale Regina Maria Adelaide | dal 2 al 5 novembre | www.theothersfair.com

Operae | Torino | Lingotto | dal 3 al 5 novembre | www.operae.biz

 

a cura di Livia Montagnoli

Pisani e Negrini. Il Luogo di Aimo e Nadia. Il libro di ricette per raccontare la storia del celebre ristorante

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60 ricette tra piatti storici e nuovi che rappresentano l'anima de Il Luogo di Aimo e Nadia, indirizzo imperdibile del capoluogo meneghino. A firmare il volume, gli chef Alessandro Negrini e Fabio Pisani.

Gli autori

Si sono conosciuti a Canneto sull'Oglio, entrambi approdati Dal Pescatore dopo anni di esperienze significative nelle cucine straniere, da Parigi a Londra, da Saint Moritz a Punta Ala. Oggi, Alessandro Negrini e Fabio Pisanirappresentano il cuore pulsante de Il Luogo di Aimo e Nadia, ristorante d'autore nel cuore di Milano, un luogo in grado di coniugare più stili, reinterpretando la ricca tradizione gastronomica italiana in chiave moderna e fresca. Insieme a Stefania, figlia di Aimo e Nadia Moroni, Fabio e Alessandro hanno raccolto il testimone dei padroni di casa, consentendo all'insegna di continuare a brillare nel panorama ristorativo della città.

Il libro

Ci sono i dolci con le verdure, la pasta fatta in casa, le tante sfumature del riso. Ci sono i piatti che hanno segnato la storia del locale, dalle ricette antiche che lo hanno reso celebre a Milano e non solo, a quelle più nuove, che vanno incontro al gusto contemporaneo pur mantenendo intatto lo spirito e il carattere della cucina di tradizione. C'è tutta l'esperienza maturata negli anni dagli chef nel loro primo libro Pisani e Negrini. Il Luogo di Aimo e Nadia, un volume edito da Italian Gourmet sia in italiano che in inglese, con passaggi documentati e fotografie di Adriano Mauri. A firmare la prefazione, il giornalista Luca Sommi, che sintetizza con sobrietà e delicatezza 55 anni di storia del locale. “Con questo libro abbiamo voluto raccontare anche la nostra storia, il nostro pensiero, la relazione che ci lega e che si esprime nei nostri piatti”, specificano gli chef-autori.

Le ricette

Piatti con un occhio di riguardo alle materie prime, un'attenzione particolare ai fornitori, e tutta la filiera dei prodotti agroalimentari. 60 ricette che ripercorrono la storia del ristorante, ma anche della tavola italiana in generale, attraverso l'utilizzo di prodotti regionali di prima qualità per ricette che riprendono i sapori classici e i gusti di una volta, elaborati dagli chef con estro e rispetto. Troviamo, dunque, il raviolo di rabarbaro e la dolce zuppa etrusca, due dessert a base di ortaggi, e poi gli Spaghettoni al cipollotto e le Fettuccelle al ragù di mostarda e pecorino sardo stravecchio fra i primi, senza dimenticare Omaggio a Milano, piatto di pasta fresca dedicato alla città lombarda. Ruolo fondamentale lo ricopre il riso, che viene declinato in varie forme a seconda della località, da Nord a Sud, dal risotto all'olio extravergine di oliva nocellara con gamberi viola di Sanremo e origano di Vendicati a quello con “pommarola” e olive nolche. “Certo, è un libro di ricette, ma è anche un libro che racconta di noi”.

Il team e la dedica ad Aimo e Nadia

“Noi”, ovvero Alessandro, Fabio, Luca, ma anche Vincent Lombardoeditore che con piacere ha riletto i testi della versione in inglese”, e tutto il team che ha partecipato “supportato e sopportato il nostro lavoro per giungere a questo bel risultato”. Perché quello del volume è un lavoro di squadra, firmato da due autori ma realizzato grazie al contributo di un gruppo consolidato, coeso e compatto. E soprattutto un libro rivolto a tutti, agli appassionati e ai professionisti, ma anche ai semplici consumatori, che potranno trovare fra le pagine consigli preziosi e indicazioni utili per la cucina di tutti giorni. Per tutti coloro che vogliono scoprire nuovi produttori e fornitori, materie prime diverse e aziende di nicchia affidabili. Un libro dedicato a chiunque viva la tavola come momento di condivisione e convivialità, con un pensiero speciale rivolto, naturalmente, a loro, “ad Aimo e Nadia, e a tutti i nostri fornitori senza i quali non potremmo realizzare nessuna delle ricette che qui vi presentiamo”. I principi di Aimo e Nadia sono lì, in ogni piatto, ma senza mai diventare un limite: “i “dogmi” di Aimo e Nadia restano gli stessi”, scrive Luca Sommi, “ma con un tocco nuovo, quasi impercettibile”. Quello che consente ai due chef di dare vita a nuove creazioni, “sempre rispettando questa grande scuola ma portando in dote la loro inventiva. Come dire: nessun timore reverenziale, loro erano loro ma noi siamo noi”. Un progetto, prima ancora che un ricettario: “il desiderio di andare oltre, di portare Aimo e Nadia nel terzo millennio”.

Pisani e Negrini. Il Luogo di Aimo e Nadia | ed. ItalianGourmet | Euro 64,00

a cura di Michela Becchi

Il gruppo inglese Soho House in Italia alla caccia di chef. Così si prendono i migliori

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Campagna acquisti del gigante britannico alla ricerca di cuochi italiani. Ecco come si è svolta la selezione (e perché non dobbiamo essere così soddisfatti).

Ferisce un po' l'orgoglio doverlo ammettere, ma (anche) questa volta gli inglesi ci hanno dato una bella lezione in fatto di organizzazione, ristorazione, rispetto per il lavoro e per le competenze acquisite. Stavolta è stata Soho House, la mega catena mondiale che raggruppa brand della ristorazione, dell'accoglienza e dell'intrattenimento.

 

Con circa 72 outlets in Europa e America, proprietaria oltre che degli alberghi di lusso anche di brand familiari a gourmet e golosi come Cecconi's, The Ned, Soho Farm House, Electric Diners and Cinemas, Cafe Boheme e Cowshed Products - solo per citarne alcuni - Soho House è venuta fino in Italia per reclutare le figure professionali da impiegare nel progetto di espansione che ha in atto. Una massiccia campagna acquisti che segue quelle – tuttavia sfortunate – di Germania e Spagna. Obbiettivo? Reclutare chef de partie, demi chef de partie e commis de partie da impiegare subito nel Regno Unito.

 

Le selezioni

Tre gli open day, l'ultimo il 16 ottobre a Roma, ma ce ne sono altri in programma e a stretto giro si sapranno esattamente le date. Tra i requisiti richiesti una buona conoscenza della lingua inglese, soprattutto per quanto riguarda la terminologia tecnica di cucina/sala, almeno 2 anni di esperienza nel settore e la disponibilità a trasferirsi seduta stante in Inghilterra.

La risposta non si è fatta attendere: più di 600 le candidature che, scremate al 50% circa, sono arrivate fino alla prova pratica.

Abbiamo selezionato curriculum per curriculum, chiamando al telefono ogni candidato per sincerarci della coerenza tra quanto scritto e l'atteggiamento che abbiamo riscontrato parlando a voce”. Enrico Camelio, docente presso l’Istituto alberghiero Pellegrino Artusi a Roma e consulente di Soho per questa avventura italiana, ci racconta così quanto accaduto. “Non è stato facile selezionare i candidati da portare alla prova pratica, anzi... Nei curricula abbiamo letto di tutto: vista l'appetibilità della proposta, si tende a esagerare. Delle oltre 600 candidature, in parte per la selezione telefonica e in parte per mancata presenza, circa la metà ha sostenuto la prova pratica”. E qui arriva la parte quasi spettacolare della storia.

 

La prova pratica

Ricorda, neanche troppo da lontano, lo stile Masterchef. Un candidato per postazione, chiamato a scegliere se preparare un primo, un secondo o un dolce con ingredienti che restano segreti fino al via. Mistery box. Poi la prova. Su dei tavoli si scoprono le materie prime cui si dovrà attingere e un periodo molto limitato di tempo per l'esecuzione. Nel frattempo i giudici, cioè gli chef arrivati direttamente da Londra per valutare i candidati, si aggirano tra i banchi osservando in silenzio e con discrezione il lavoro di ognuno. Infine la prova di inglese.

La tensione è alle stelle, d'altra parte la posta in gioco è alta. “Molti sono impacciati, altri nervosi, qualcuno ha paura” e gli si legge in faccia “qualcun altro fa lo spavaldo, poi c'è quello bravo sul serio, quello che si impegna al massimo. Insomma, in fatto di varietà proprio non possiamo lamentarci”.

 

La posta in gioco

Ma veniamo al sodo, ossia ai compensi visto che qui in palio non c’è la vittoria di uno show televisivo ma un vero posto di lavoro. Quella di Soho è un'offerta di tutto riguardo rispetto agli standard nostrani. Per i suoi ristoranti, hotel e club privati in Inghilterra la proposta prevede per lo chef de partie un salario annuale tra le 24.000 e le 26.000 sterline. Per il demi chef si scende a 22.000/24.000 sterline. Il commis si attesta tra le 20 e le 22. Non male.

Ma non è tutto. Oltre alla paga, decisamente alta per gli standard italiani e dignitosa per quelli inglesi, dato che la sede di lavoro è a Londra, è prevista una free accomodation per le prime 2 settimane. In caso di sede di lavoro fuori Londra (Oxfordshire o Somerset), l'alloggio è per tutta la durata del contratto.

E poi un welcome pack di assistenza per l'arrivo nel Regno Unito con una quota di 400 sterline a copertura delle spese di viaggio e le prime spese di assestamento, versate direttamente sul nuovo conto corrente inglese prima di iniziare a lavorare. Assistenza per aprire conto corrente bancario e ottenere codice fiscale sanitario inglese. Contratto di 12 mesi più il pagamento di ogni eventuale ora di straordinario. 28 giorni di ferie all'anno e possibilità di unire i 2 giorni di riposo settimanali. In ultimo, ma non per importanza, l'opportunità di seguire corsi di lingua parzialmente pagati dall'azienda. Questo sono le carte sul tavolo pur di venirsi ad accalappiare il meglio che esce dalle nostre scuole alberghiere. Insomma lo Stato italiano investe per formare giovani talenti che però poi vanno ad arricchire una industry straniera e molto difficilmente torneranno in Italia per restituire ciò che hanno avuto in anni e anni di formazione gratuita di qualità.

 

Luci e ombre

E allora perché, come si diceva in apertura, a raccontar queste cose l'orgoglio ne esce ferito? Un player d'Oltremanica sceglie proprio l'Italia per reclutare i professionisti che impiegherà nelle sue strutture di alto e altissimo livello. Che la cucina italiana e quindi i suoi interpreti siano i più apprezzati al mondo è risaputo, quindi che c'è da stupirsi?

L'altra faccia della medaglia riguarda tutto quello che resta in ombra. Riguarda un sistema che forma delle figure professionali per poi regalarle al primo che si presenti con una proposta dignitosa. Perché qui non si parla di oro, ma di dignità. Riguarda cose come il contributo volontario di 170 euro richiesto in Italia dal terzo anno di alberghiero che serve a sostenere l'acquisto delle materie prime per le esercitazioni e che gran parte delle famiglie sceglie di non pagare. Riguarda una politica del lavoro che disincentiva le assunzioni perché il dipendente costa all'attività quasi il doppio di quanto segnato in busta paga (e parliamo di una busta paga spesso miserabile). Ma soprattutto riguarda 600 persone tra le quali potrebbero nascondersi talenti da non lasciarsi sfuggire, o, perché no, i nuovi Niko Romito o Massimo Bottura. E che l'Italia di fatto accompagna fuori dalla porta.

 

www.sohohouse.com

 

a cura di Saverio De Luca

 

 

30 anni fa il Gambero Rosso pubblicava il Manifesto Slow Food. Ecco cosa diceva

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A distanza di 30 anni dalla prima uscita sulle pagine del Gambero Rosso, pubblichiamo di nuovo il Manifesto Slow Food.

Era il 3 novembre 1987 quando Il Gambero Rosso, all'epoca supplemento del quotidiano Il Manifesto, pubblicava a sua volta un Manifesto, quello di Slow Food. A firmarlo gente come Dario Fo e Francesco Guccini, Sergio Staino e Valentino Parlato e un altro gruppetto di teste pensanti e capaci di un approccio trasversale come Folco Portinari, Gina Lagorio, Enrico Menduni e altri. Oltre ovviamente a Carlo Petrini e a Stefano Bonilli. Furono loro a metter su quella think task quanto mai eterogenea destinata ad avere un'influenza che – nella politica e ella cultura – probabilmente non ha avuto pari.

A leggerlo ora quel manifesto, quella collazione di intenti aerei e utopie, quell'elenco di NO al mondo così come si presentava sul finire degli anni '80, il mondo della velocità come valore supremo cui si intendeva contrapporre quello della lentezza, lascerebbe presupporre un programma astratto fatto di ideali più che di idee concrete. Qualcosa destinato a smuovere gli animi più che a creare un effettivo cambiamento nella vita delle persone. E invece non è stato così. Quel manifesto è forse il più fulgido esempio di utopia fatta storia, di rivoluzione mossa da un sentimento di equità e cambiamento di valori che ha avuto un impatto a valanga su tutto il mondo. Più di un movimento politico, più di una corrente culturale, più di una religione, Slow Food è stato capace di convogliare energie e pensieri e operare un cambiamento di risonanza planetaria: milioni di persone, contadini, artigiani, cuochi, imprenditori in 160 paesi del mondo hanno aderito più o meno consapevolmente alle istanze lanciate il 3 novembre 1987 per un cibo buono, pulito e giusto (ma questo slogan sarebbe arrivato solo dopo). E tutto a partire da frasi (nate dalla penna di Folco Portinari) come “contro coloro, e sono i più, che confondono l’efficienza con la frenesia, proponiamo il vaccino di una adeguata porzione di piaceri sensuali assicurati, da praticarsi in lento e prolungato godimento” e ancora “lo slow-food è allegria, il fast-food è isteria” in uno stile visionario e ispirato che a tratti occhieggia quello di certi manifesti artistici del primo novecento.

Manifesto Slow Food sul gambero rosso

Certo, dietro a queste parole, c'era già Arcigola, nato nel 1986 (come “movimento per la tutela e il diritto al piacere” a partire dal luogo privilegiato della tavola, sintesi di storia, cultura, convivialità) e trasformatosi nel 1989 in Slow Food, nello storico incontro di Parigi ospitato all'Opéra-Comique.

 

Slow Food. Storia di un'utopia possibile

Di questa storia, che giunge fino agli anni nostri, parla la riedizione a firma di Gigi Padovani, del volume Slow Food. Storia di un’utopia possibile, uscito nel 2005 con il titolo Slow Food Revolution. Da Arcigola a Terra Madre. Una nuova cultura del libro di Carlo Petrini e Gigi Padovani (Rizzoli 2005). Tra quel volume a quello attuale passano 12 anni, fedelmente riportati nell'ultima versione, profondamente rivisitata e aggiornata, che include anche la voce di personaggi – anche loro condizionati dalla visione di Carlo Petrini - come Guido Barilla, Alessandro Ceretto, Oscar Farinetti, Giuseppe Lavazza. Un volume che segue, passo passo, le evoluzioni di un movimento che ha fatto la storia a partire da quelle parole pubblicate sul Gambero Rosso 30 anni fa e che oggi vi riproponiamo.

 

Il Manifesto di Slow Food

Questo secolo è nato, sul fondamento di una falsa interpretazione della civiltà industriale, sotto il segno del dinamismo e dell’accelerazione: mimeticamente, l’uomo inventa la macchina che deve sollevarlo dalla fatica ma, al tempo stesso, adotta ed eleva la macchina a modello ideale e comportamentale di vita. Ne è derivata una sorta di autofagia, che ha ridotto l’homo sapiens ad una specie in via di estinzione, in una mostruosa ingestione e digestione di sé.

È accaduto così che, all’alba del secolo e giù giù, si siano declamati e urlati manifesti scritti in stile sintetico, “veloce”, all’insegna della velocità come ideologia dominante. La fast-life come qualità proposta ed estesa ad ogni forma e a ogni atteggiamento, sistematicamente, quasi una scommessa di ristrutturazione culturale e genetica dell’animale-uomo. Uno stile adeguato al fenomeno, pubblicitario ed emozionale, di slogan intimidatori più che di razionali considerazioni critiche. Giunti alla fine del secolo non è che le cose siano molto mutate, anzi, la fast-life si è rinchiusa a nutrirsi nel fast-food.

Due secoli abbondanti dopo Jenner, i sistemi di vaccinazioni contro ogni male endemico ed epidemico si sono ormai imposti come gli unici che diano garanzie. Perché non seguire, allora, e assecondare la scienza nella sua lezione di metodo? Bisogna prevenire il virus del fast con tutti i suoi effetti collaterali. Perciò contro la vita dinamica propugniamo la vita comoda. Contro coloro, e sono i più, che confondono l’efficienza con la frenesia, proponiamo il vaccino di una adeguata porzione di piaceri sensuali assicurati, da praticarsi in lento e prolungato godimento. Da oggi i fast-food vengono evitati e sostituiti dagli slow-food, cioè da centri di goduto piacere. In altri termini, si riconsegni la tavola al gusto, al piacere della gola.

È questa la scommessa proposta per un progressivo quanto progressista recupero dell’uomo, come individuo e specie, nell’attesa bonifica ambientale, per rendere di nuovo vivibile la vita incominciando dai desideri elementari. Il che significa anche il ripristino di una masticazione giustamente lenta, la riacquisizione delle norme dietetiche salernitane, ingiustamente obsolete, nel recupero del tempo nella sua funzione ottimale, di organizzazione del piacere (e non della produzione intensiva, come vorrebbero i padroni delle macchine e gli ideologi del fast). D’altra parte, gli efficientisti dai ritmi veloci sono per lo più stupidi e tristi: basta guardarli.

Se poi imbarbariti dallo stile di comunicazione dominante, si reclamassero gli slogan a tutti i costi, certo non mancherebbero: a tavola non si invecchia, per esempio, sicuro, tranquillo, sperimentato da secoli di banale buon senso.

Oppure: lo slow-food è allegria, il fast-food è isteria. Sì, lo slow-food è allegro!

D’altra parte sappiamo da millenni che il pieveloce Achille non raggiungerà mai la tartaruga, la quale esce vittoriosa dalla corsa. Con bella lezione non solo matematica ma morale.

Ecco, noi siamo per la tartaruga, anzi, per la più domestica lumaca, che abbiamo scelto come segno di questo progetto. È infatti sotto il segno della lumaca che riconosceremo i cultori della cultura materiale e coloro che amano ancora il piacere del lento godimento. La lumaca slow.

 

Folco Portinari

Carlo Petrini

Stefano Bonilli

Valentino Parlato

Gerardo Chiaromonte

Dario Fo

Francesco Guccini

Gina Lagorio

Enrico Menduni

Antonio Porta

Ermete Realacci

Gianni Sassi

Sergio Staino

 

 

Tre Bicchieri Wine Cup. A Torino la sfida per gli appassionati di vino

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Sabato 18 novembre, a Torino, una competizione rivolta agli enofili non professionisti: durante tutto l’arco della giornata, i partecipanti dovranno riconoscere alcune delle migliori etichette italiane. Per il primo classificato, sei bottiglie scelte dalla redazione del Gambero Rosso e un cadeau dell'Azienda Agricola iContadini. Succede a Gourmet Food Festival.

Quanti di noi, dopo aver ricevuto una bella notizia, si ritrovano a pensare: “stappiamo una bottiglia”? Sicuramente molti, perché il vino è un mondo dal fascino intramontabile che da sempre appartiene alla sfera della convivialità, è richiamo dionisiaco e godereccio oltre al quale è bello scoprire un approccio più intimo e intellettuale. E allora ci siamo domandati: quanto lo conosciamo davvero il vino? Lo chiediamo a voi lanciandovi una sfida in occasione di Gourmet Food Festival.

Il programma e il regolamento

Sabato 18 novembre sarà infatti dedicato (parallelamente agli altri appuntamenti gastronomici) alla Tre Bicchieri Wine Cup. Di che si tratta? Di una gara di cultura generale tutta enoica, durante la quale i partecipanti si sfideranno a suon di calici per testare la loro preparazione sul tema. Un primo avviso da fare: la competizione è rivolta solo agli appassionati, quindi non possono aderire (e tanto meno suggerire) sommelier e professionisti del settore (giornalisti specializzati, enologi, enotecnici, rappresentanti di commercio, produttori). La gara partirà alle 10.30, articolata in più gironi, fino all'inizio della finale delle 17. Insomma, una giornata scandita dal tintinnio dei bicchieri, da colori e aromi del vino.

Si può partecipare singolarmente o in coppia, e il torneo è a eliminazione diretta. In occasione di ogni gara, gli sfidanti dovranno assaggiare cinque vini scelti dalla commissione del Gambero Rosso tra i Tre Bicchieri della guida Vini d’Italia 2018. Tutti riceveranno una scheda in cui, in ordine alfabetico, saranno indicate le varie denominazioni selezionate. A ognuna di queste va associato uno dei calici e se l’abbinamento è corretto si ottengono due punti; chi indovina l’intera serie riceve inoltre un bonus di cinque punti. Ma non è tutto, perché gli esperti del Gambero Rosso hanno pensato di inserire un ulteriore livello di difficoltà. In una stessa sequenza, potrebbero esserci bottiglie di annate differenti e i più “temerari” possono provare a indicarle: nel caso in cui l’anno sia corretto, si ottengono tre punti extra, in caso contrario, però, se ne perde uno (tutto questo vale solo se la denominazione individuata è quella giusta).

Il premio finale

E ora passiamo ai tempi: ogni sfida inizia una volta riempiti i bicchieri di tutti i concorrenti, che da quel momento hanno a disposizione dieci minuti per compilare la propria scheda. In caso di parità, vincerà chi l’avrà consegnata per primo, mentre chi non riesce a completarla nel tempo prestabilito sarà automaticamente espulso. Ad attendere il primo classificato, un “bottino” a prova di enofilo: una cassetta di sei tra le migliori etichette presenti in guida. Oltre a questa, una confezione di prodotti iContadini (azienda salentina che realizza sott'oli, sughi e passate lavorando esclusivamente a filiera corta e nel totale rispetto dei tempi della natura), un attestato e un’intervista davanti alle telecamere della Web Tv del Gambero Rosso.

 

Gourmet Food Festival | Torino | Lingotto Fiere, via Nizza, 294 | dal 17 al 19 novembre 2017, venerdì dalle 17 alle 23, sabato dalle 10 alle 23, domenica dalle 10 alle 20 | www.gourmetfoodfestival.it

Per info sugli altri appuntamenti: www.gamberorosso.it/it/gourmet-food-festival

L’arte contemporanea nelle cantine italiane. Un rapporto che continua

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Dall'installazione di Marina Abramović portata nelle Langhe dai Ceretto alla nuova galleria Frescobaldi a Montalcino. Sono sempre di più le realtà vitivinicole che decidono di investire nell’arte contemporanea, aprendo gallerie o ospitando mostre e artisti. Ecco gli ultimi progetti

Quando il vino finanzia l'arte

Cos'hanno in comune la Primavera di Botticelli, il Giudizio Universale della Cappella Sistina di Michelangelo, la Medusa di Caravaggio, la Cappella del Barolo di David Tremlett e Sol LeWitt, Ousser di Koo Jeong A.? Sono tutti, con i dovuti distinguo, esempi di mecenatismo. Antico e contemporaneo. Se in passato, infatti, mecenati erano politici, grandi casati o uomini di chiesa che accoglievano all’interno della loro corte artisti del tempo, proteggendoli e finanziando le loro opere, oggi sono sempre di più i casi di grandi nomi, anche della viticoltura, che si confrontano e interfacciano con il mondo dell'arte. Ed è attorno alle cantine che – come un tempo avveniva intorno ai Palazzi – sorgono le nuove corti artistiche.

La lista è lunga, dal Castello di Ama con le opere di Daniel Buren o Giulio Paolini, all'Antinori Art Projects che conta nomi come Giorgio Andreotta Calò o Tomás Saraceno, fino a Ca’ del Bosco e il suo museo a cielo aperto, senza contare le cantine d'arte: una su tutti, il Carapace Lunelli progettato da Arnaldo Pomodoro. E non è un caso se, solo negli ultimi mesi, tre grandi realtà vitivinicole abbiano presentato le loro ultime “committenze”: da una parte, la famiglia Frescobaldi che vanta un rapporto con il mondo dell’arte lungo 700 anni; dall’altra, l’esperienza dei Ceretto, che quasi per caso si sono riscoperti appassionati e promotori d'arte; infine, il caso dell'azienda agricola La Raia che ha visto il connubio artistico e matrimoniale tra un produttore di vino e una gallerista. Tutti e tre sono casi legati dal fil rouge dell’arte contemporanea.

E intanto, a Torino nell'ambito di Artissima e degli appuntamenti collaterali si sperimenta una proposta gastronomica dentro e fuori gli spazi della Fiera, tra stand e spazi espositivi diffusi in tutto il capoluogo piemontese.

 

La nuova Galleria Frescobaldi di CastelGiocondo

Per la famiglia Frescobaldi, il mecenatismo è un questione di continuità storica. Nella sua biografia, infatti, può annoverare committenze e collaborazioni artistiche con maestri illustri quali Brunelleschi, Donatello o Artemisia Gentileschi. Oggi, è Tiziana Frescobaldi a continuare questa tradizione, con il Premio Artisti per Frescobaldi, il progetto a cadenza biennale che prevede il coinvolgimento di artisti di ultima generazione per la creazione di opere che raccontino a livello evocativo la Tenuta CastelGiocondo di Montalcino. E proprio a CastelGiocondo è appena stata inaugurata la Galleria d'Arte Frescobaldi, dove si trovano le nove opere delle edizioni precedenti del premio, e dove presto andranno a confluire anche le altre tre di questa edizione. “La scelta della tenuta di Montalcino” spiega Tiziana “è anche un modo per valorizzare tutto il territorio del Brunello, dove si producono vini eccellenti, ma dove la dimensione dell’arte contemporanea non era ancora stata esplorata. È un po’ il richiamo culturale che mancava”. Da dicembre, infatti, la Galleria sarà visitabile da tutti tramite prenotazione sul sito www.artistiperfrescobaldi.it

 

Il progetto Artisti per Frescobaldi

L’idea alla base del nostro progetto” spiega Tiziana “è lavorare con artisti giovani – di solito dai 30 ai 45 anni – non con quelli già affermati, per dare loro la possibilità di accrescere la loro fama. È questo il senso del nostro neo-mecenatismo: un tempo gli artisti lavoravano soprattutto per committenza presso i grandi casati, oggi si passa di più attraverso musei e gallerie, ma si tratta di un meccanismo, a mio avviso, insufficiente. Per questo motivo, iniziative come le nostre servono un po’ a compensare queste carenze. In particolare, gli artisti italiani scontano un deficit generale di orientamento del nostro Paese che, di certo, non ha una grande attenzione nei confronti dell’arte contemporanea. Per questo, abbiamo deciso di rafforzare il nostro impegno in questa direzione”. Impegno che, a livello economico, si traduce in 20 mila euro destinati al vincitore del concorso, scelto da una giuria selezionata tra i direttori dei maggiori musei e gallerie italiane, e in 10 mila euro come base per i tre artisti coinvolti. Non solo: ai tre selezionati viene chiesto anche di disegnare le etichette di CastelGiocondo Brunello di Montalcino Riserva 2013 Vendemmia Dedicata – 999 in tutto – e il ricavato delle vendite viene destinato e reinvestito in altri progetti. “Abbiamo, ad esempio, sostenuto l’associazione fiorentina Base progetti per l’arte di Firenze, poi abbiamo dato la possibilità a un artista italiano di fare un anno di residenza a Berlino”.

Uno dei momenti principali del concorso Giovani artisti per Frescobaldi è la fase di scouting, che coinvolge soprattutto il curatore Ludovico Pratesi e le gallerie d’arte, per poi arrivare, ogni anno, alla scelta di tre giovani artisti: uno italiano e gli altri due del Paese selezionato (per il 2018 la Svizzera). Quest'anno, i finalisti sono Claudia Comte, Francesco Arena e Sonia Kacem. Le loro opere saranno esposte per la prima volta alla GAM (Galleria d'Arte Moderna) di Milano, nel mese di maggio per un mese, e lì verrà decretato il vincitore. Poi, andranno a confluire nella collezione permanente della Galleria Frescobaldi a CastelGiocondo. 

 

Dalla Cappella del Barolo a Marina Abramović. La collezione Ceretto

C'è tempo fino al 12 novembre, invece, per vedere ad Alba, nel Coro della Maddalena, la videoinstallazione Holding the milkdell'artista serbo-statunitense Marina Abramović, che lo scorso 28 settembre ha presentato di persona la sua opera davanti a due mila spettatori in estasi.

A ospitare la manifestazione – e anche l'artista – è la famiglia Ceretto, che dagli anni '90 ha intrapreso un cammino artistico che ha portato, tra le altre cose, alle etichette artistiche di Silvio Coppola, alla Cappella del Barolo di David Tremlett e Sol LeWitt, al cancello-scultura Ovunqueproteggimidi Valerio Berruti, alla Casa dell’Artista con il letto a baldacchino studiato da Anselm Kiefer. Ed è proprio questa la residenza pensata per artisti da tutto il mondo in cerca di ispirazione nelle Langhe: sono passati da qui, tra gli altri, Kiki Smith, James Brown, Francesco Clemente e Gary Hume.

Fino agli anni ’90 eravamo solo produttori di vino” ci racconta Roberta Ceretto “poi ci proposero di sponsorizzare una mostra d’arte nel Castello di Barolo: dovevamo garantire una fornitura di vino e ospitare l’artista, che in quel caso era proprio Tremlett. Fu un incontro fondamentale e fu lui a catapultarci in questa realtà. Così come sua fu l’idea della Cappella del Barolo, che era ai tempi un vecchio garage per i trattori. L’impatto fu enorme, come portare il circo in un territorio fin troppo serioso: molti produttori, quelli storici, storsero il naso. Ma col tempo le cose sono cambiate: ormai la Cappella fa parte del territorio e guai se si sbiadisce un po’: son tutti lì, anche quegli stessi produttori, a farci notare che bisogna intervenire”.

Ma negli anni ’90, si sa, le Langhe non erano ancora quel che sono poi diventate: dalla notorietà del Barolo all'affermazione di associazioni come Slow Food, passando per la Fiera del Tartufo e l’alta ristorazione (i Ceretto sono anche stati dei mecenati in questo senso, con l’apertura del ristorante Piazza Duomo affidato al fuoriclasse Enrico Crippa). “Diciamo che a noi è sempre piaciuto metterci in gioco e rischiare. Ma siamo degli imprenditori, quindi parliamo sempre di rischi calcolati e prima di lanciarci in nuovi progetti facciamo i conti con il nostro budget. Ad esempio, tre anni fa furono necessari interventi al tetto della cantina per 300 mila euro, per cui, per quell’anno, fu necessario ridurre gli investimenti in altri campi. Siamo consapevoli del fatto che l’arte si paga col vino”. In alcuni casi, anche letteralmente. “La cappella del Barolo è stata, ed è tuttora pagata a Barolo” ci rivela Roberta “ogni domenica Tremlett e LeWitt ricevono una bottiglia di Barolo. L’affresco di Clemente è, invece, frutto di un baratto: lui voleva un gozzo per la sua casa di Amalfi”. Ma, ovviamente, non è sempre così. La Famiglia Ceretto, che ama definirsi “collezionista di esperienze” più che di opere d'arte, ha anche fatto delle donazioni importanti, come 150 mila euro per la Fondazione in memoria dell'artista Steven Shailer, nata proprio per ripagare la famiglia delle costosissime spese mediche sostenute per le cure del figlio.

I nuovi progetti per Langhe e Roero

Da sette anni, poi, è nata l’esigenza di uscire dalla cantina per trovare un posto dove ospitare mostre aperte a tutti: da lì l’accordo decennale con il Comune di Alba per la gestione del Coro della Maddalena, dove adesso è di scena l’Abramović. Parliamo di un afflusso di oltre 20 mila persone in due mesi, con ingresso gratuito. “Da sette anni, ogni anno, abbiamo deciso di regalare una mostra alla nostra città. In questo caso, si tratta di prestiti di gallerie d’arte o degli stessi artisti, dove i costi maggiori sono rappresentati da voci quali assicurazione, trasporti, security. Ma per il futuro abbiamo dei progetti diversi: basta mostre temporanee, circoscritte a un periodo preciso, adesso ci piacerebbe investire in opere che rimanessero sul territorio e per il territorio. Ventimila persone in due mesi sono numeri pazzeschi per Alba, ma qual è il valore aggiunto che diamo in periodi morti come il mese di gennaio? Stiamo, quindi, pensando a mostre su committenza e permanenti tra le vigne, magari, stavolta dando opportunità anche alla zona di Roero”.

C’è già una lista di artisti con cui aprire questo nuovo capitolo, tra cui Miguel Barcelò. Ma, passione a parte, qual è il ritorno che deriva da operazioni come queste? “Prima di tutto ci sono le visite sul territorio” spiega Roberta“si pensi che solo l’Acino, l’unica opera davvero visitabile, totalizza 15 mila visite l’anno da parte di appassionati ma anche architetti. E poi, c’è un ritorno di immagine non indifferente; gli artisti che vengono fin qui a conoscere le nostre vigne, poi, scelgono i nostri vini per le loro inaugurazioni, ne parlano anche all’estero, diffondono la cultura del Barolo. Magari non sempre del nostro, ma di sicuro diventano dei veri ambasciatori di tutto il territorio”.

 

La Raia. Da Gavi alla Biennale di Venezia

L'ambiente al centro di tutto è un po' il leit motiv della cantina biodinamica La Raia (nata nel 2002) e dell'omonima Fondazione, creata nel 2013 e finanziata esclusivamente dall’azienda (si parla di investimenti che vanno dai 50 ai 100 mila euro l'anno), per dare uno sviluppo, anche artistico, coerente con l’impostazione che la famiglia Rossi Cairo ha dato all’attività agricola negli ultimi dieci anni. Fondata da Giorgio e dalla moglie Irene Crocco (gallerista e promotrice di progetti d’arte contemporanea), proprio quest'anno la Fondazione ha arruolato alla direzione artistica la curatrice e critica d'arte Ilaria Bonacossa.

A gettare il loro sguardo sulle colline di Gavi sono stati chiamati artisti come Remo Salvadori e Koo Jeong A. E, da ultimo, è arrivata anche la quinta opera, Bales 2014/2017 dell'artista tedesco Michael Beutler: due rotoballe dai vivaci colori flou, già pensate per il parco del Kunstareal di Monaco di Baviera, e reinstallate tra le vigne per mettere a fuoco il complesso rapporto tra naturale e artificiale, tra lavoro industriale e attenzione personale e manuale verso la natura. “Tutti gli artisti coinvolti” spiega il fondatore Giorgio Rossi Cairo vengono invitati a soggiornare a La Raia e a vivere, esplorare, sperimentare, imparare a conoscere questo territorio. È fondamentale che passino del tempo qui da noi per proporci un’opera site-responsive che non voglia solo celebrare se stessa ma aprire un dialogo sui temi della bio sostenibilità e delle trasformazioni del paesaggio”.

Ad arrivare sul territorio, però, non solo sono gli artisti ma anche gli appassionati di arte e vino. Anche per questo l’azienda si è dotata da ultimo di una guesthouse, Locanda La Raia, per l’accoglienza: “In questi anni, l’incremento delle visite è stato esponenziale: solo dall’inizio del 2017 a oggi contiamo oltre 800 presenze”. Ma, incassato Bales, la famiglia Rossi Cairo guarda già avanti: “Stiamo lavorando ancora con Michael Beutler – di cui abbiamo sostenuto la grande installazione alla Biennale di Venezia 2017 – per un intervento che, prendendo il via dalle botti in cui il vino viene fatto invecchiare, costruirà un’architettura abitabile nel bosco della tenuta; nel 2018, verrà inoltre installato un nuovo progetto del giovane artista francese Adrien Missika, che dopo aver studiato la vita delle api nomadi ha deciso di lavorare la pietra di Luserna per creare una scultura piramidale che funga da alveare. Noi, da anni, abbiamo una grossa popolazione di api, produciamo tre tipi di miele: la dedicheremo a loro”.

la raia

 

Antinori e il restauro della lunetta di Giovanni della Robbia

Non di rado succede che le cantine, così come i consorzi, oltre a finanziare delle opere tout court, si dedichino anche al restauro delle stesse. È, ad esempio, il caso della Marchesi Antinori: dal 9 novembre all’8 aprile, a Firenze andrà in scena la mostra Da Brooklyn al Bargelloche riporterà in città la lunetta con Risurrezione di Giovanni della Robbia, commissionata intorno al 1520 da Niccolò Tommaso Antinori e che nel XIX secolo volò Oltreoceano. La Lunetta, che raffigura, oltre al Cristo risorto e ai soldati, il committente Antinori in ginocchio, nel 2016 è stata restaurata grazie al finanziamento della cantina, in continuità con la committenza degli avi. Il suo ritorno a Firenze sarà riaccompagnato anche da una nuova opera dell’artista Stefano Arienti – ScenaFissa– che è una rilettura della Lunetta robbiana in un dialogo tra arte rinascimentale e arte contemporanea, visitabile sempre al Museo Bargello. Il progetto rientra nell’iniziativa Antinori Art Project.

 

a cura di Loredana Sottile

 

Questo articolo è uscito sul nostro settimanale Tre Bicchieri del 2 novembre

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Mediterraneità. A Roma, Imperatori ripensa la pausa pranzo al bar, con le ricette di Ancel Keys

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Dieta Mediterranea come stile di vita, e non solo come regime alimentare. Gli ingredienti sono semplici: cucina sana, voglia di condividere, gioia di ritrovarsi intorno a un tavolo. Anche quando la pausa pranzo è veloce, e fuori casa. L'idea di Aida Capone e Roberto Imperatori parte da qui. 

La dieta mediterranea. Uno stile di vita

Cosa significa oggi parlare di Dieta Mediterranea? E come rifuggire dall'intepretazione più sterile di un'espressione tanto abusata da aver perso progressivamente il suo (incommensurabile) valore? Quando all'inizio degli anni Sessanta, dal suo rifugio dorato di Pioppi (Cilento), il medico Ancel Keys teorizzava i benefici del sistema alimentare in uso nel bacino mediterraneo, certo non immaginava che una cinquantina di anni più tardi l'etichetta della dieta mediterranea sarebbe diventata, in buona parte dei casi, uno specchietto per le allodole. Per sua (e nostra) fortuna, però, anche nell'era dell'esibizionismo gastronomico, c'è ancora chi è pronto a impostare un progetto sul valore autentico della dieta mediterranea, intesa non tanto (non solo) come regime alimentare, ma come stile di vita. E come recupero di abitudini familiari, ricordi d'infanzia, domeniche trascorse intorno a un tavolo, riscoperta del legame con la terra, il territorio e le sue tradizioni. Lei si chiama Aida Capone, origini pugliesi e tanta voglia di raccontare il suo “vivere mediterraneo”, condividendone la quotidianità fatta di ospitalità, piccole ricorrenze, prodotti e ricette tradizionali. Tanta storia gastronomica italiana, quindi, ma non certo un'intuizione che sa di già visto: Mediterraneità è l'idea che Aida mette in scena a Roma insieme alla Fondazione Universitaria Foro Italico presso Imperatori a piazza Armellini, che con suo marito Roberto Imperatori ha aperto alla fine del 2014 in zona piazza Bologna (ma l'esperienza della coppia nel mondo dell'imprenditoria gastronomica è ben più longeva, e risale al 2004, quando la scommessa passò per il rilancio dello Zio d'America, a Talenti).

 

Imperatori e la Mediterraneità

Di fatto, dal 7 novembre, il locale – caffè, wine bar, enoteca con gastronomia impegnata a promuovere il made in Italy (Tre Tazzine e Due Chicchi per la guida Bar d'Italia 2018 del Gambero Rosso) – si trasformerà in centro dedicato alla Dieta Mediterranea, con un'offerta enogastronomica improntata alla divulgazione di una cultura alimentare sana, equilibrata, di qualità, che arricchisce il consueto calendario di eventi e degustazioni promossi nel grande spazio polivalente, pensato per accompagnare i clienti per tutta la giornata. L'idea, in particolar modo, si sviluppa intorno all'esigenza di ripensare la pausa pranzo – anche quella più veloce prima di rientrare al lavoro – all'insegna di quella cultura della qualità a cui Aida sembra tenere moltissimo: “Fino a oggi abbiamo proposto una sorta di servizio di tavola calda, con possibilità di scegliere al banco le proposte del giorno e una selezione di piatti al buffet, ma la formula non mi ha mai appassionato fino in fondo... La fila davanti al banco, l'impossibilità di godersi un momento di tranquillità. Del resto però non volevo neanche rendere la pausa pranzo un momento troppo formale e rallentato”. E allora ecco l'intuizione: “Lasciamo al cliente la possibilità di sedersi, gli offriamo un servizio premuroso, ma rapido. E soprattutto un menu improntato al mangiare sano e semplice, ragionato insieme ai nutrizionisti, ma non in senso punitivo: con attenzione alle quantità anche una bella amatriciana ben fatta può raccontare la dieta mediterranea!”. Niente voli pindarici, poche semplici regole da rispettare: la stagionalità (“anche se spesso è difficile combattere con le abitudini del cliente abituato alle zucchine in autunno”), il chilometro coerente, “quello che mi fa scegliere una mozzarella di latte vaccino del Lazio rispetto alla bufala prodotta in Puglia con latte in arrivo dall'Unione Europea”. E anche un certo desiderio di rivangare il rigore della tavola familiare, “quando il lunedì c'erano sempre i legumi nel piatto, il martedì e venerdì si mangiava pesce”.

 

Ripensare la pausa pranzo al bar

Dal lunedì al venerdì, quindi, il pranzo da Imperatori, con servizio al tavolo, proporrà due primi e due secondi ispirati alla dieta mediterranea, “non solo ricette italiane, molte elaborate a partire dai testi di Keys, tutte approvate dal professor Massimo Sacchetti, della Fondazione Universitaria Foro Italico”. Il banco, invece, si riempirà di frutta e verdura, ovviamente di stagione, congeniale a ogni momento della giornata, dalla centrifuga di metà mattina alla merenda golosa, al pranzo vegetariano. E poi ci saranno i panini, “una carta di 30-40 proposte, alcune più particolari di altre, ma tutte realizzate espresse. Non c'è niente di più triste del panino già pronto da ore riscaldato alla piastra”. Il discorso sui fornitori è rigoroso come nella storia che ha sempre contraddistinto Aida e suo marito, sin dai tempi dello Zio d'America, “quando Eataly ancora non esisteva, e noi già facevamo selezione sul territorio nazionale”. Della sua creatura più celebre, chiusa definitivamente un paio d'anni fa, Aida parla ancora con un certo rimpianto; ma la voglia di sperimentarsi con nuovi progetti non le manca: “Imperatori doveva essere il nostro divertimento verso la pensione, invece ora ci ritroviamo di nuovo in corsa per un nuovo inizio. Non vogliamo esser uguali agli altri, ma fare cultura della qualità”. Sulla colazione il discorso è cominciato già da tempo, affidato al binomio garantito Luigi Biasetto (per i croissant e la pasticceria) e Illy. Il momento del pranzo, invece, necessitava di un ripensamento che lo valorizzasse, “anche nel fine settimana, quando il nostro pubblico è composto principalmente di famiglie che si riuniscono intorno alla tavola, per cui stiamo studiando una proposta ancora diversa”.

 

Un centro per la Dieta Mediterranea

Si comincia da lunedì 4 dicembre, con una programmazione mensile a disposizione dei clienti, invitati a partecipare alla tavola rotonda di presentazione del progetto che il 7 novembre riunirà da Imperatori gli attori principali di Mediterraineità. Fornitori compresi: “Ci sarà Mariangela Prunotto, dall'azienda agricola bio che ci fornisce conserve di pomodoro e legumi; e poi Monica Ruzza del pastificio Strampelli, una realtà di Amatrice sopravvissuta al terremoto, che lavora con grande qualità”. E ancora Renato Marzetti di Terre Sabine. I sott'oli per farcire i panini, invece, arrivano dalla Puglia di Spina Sapori di Puglia: “Voglio essere certa di quello che sto comprando e presentando al cliente. È sempre stata la mia filosofia”. E sulla tavola “mediterranea” non mancherà un buon bicchiere di vino, su cui Imperatori ha sempre cercato di fare comunicazione. L'educazione alimentare, non a caso, è il tassello che chiude il cerchio: da dicembre il locale ospiterà appuntamenti monografici dedicati ai prodotti del Mediterraneo, presentazioni di libri sul tema, incontri di approfondimento. E non chiamatelo “solo” bar.

 

Imperatori – Roma – piazza Armellini, 15 – 06 83794671 

 

a cura di Livia Montagnoli


La Notte Bianca della Sfogliatella al Museo di Pietrarsa. Aspettando i fratelli Pansa a Gourmet Food Festival

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Doppia opportunità per gli amanti della sfogliatella napoletana: al Museo delle ferrovie di Pietrarsa, il 4 novembre, si festeggia la Notte Bianca dedicata al dolce simbolo della tradizione partenopea. Poi, il 18 novembre, sarà la volta dei fratelli Pansa, a Torino per presentare l'antica sfogliatella Santarosa.  

La sfogliatella tra le locomotive borboniche

Alle porte di Napoli, il Museo di Pietrarsa è uno spazio molto speciale. Suggestivo nell'allestimento che evoca i fasti dell'industria borbonica di fine Ottocento, il museo delle ferrovie è stato inaugurato nel 1989 proprio dove un tempo sorgeva il Reale Opificio Meccanico, Pirotecnico e per le Locomotive fondato da Federico II di Borbone, e oggi uno dei più importanti complessi di archeologia industriale d'Italia. Proprio l'impostazione scenografica dello spazio, ne fa uno dei luoghi privilegiati per ospitare appuntamenti insoliti, manifestazioni culturali ed eventi destinati ad attirare un pubblico numeroso. Come la Notte Bianca della Sfogliatella, che sabato 4 novembre dalle 19 andrà in scena con il coordinamento dell'Associazione Pasticcieri Napoletani. Una lunga notte tra performance musicali, teatrali, locomotive storiche e cimeli ferroviari per conoscere da vicino i segreti di un dolce simbolo della pasticceria partenopea, con laboratori pratici, degustazioni, show cooking. Appuntamento clou della serata la lezione/racconto dei maestri pasticceri chiamati a raccontare aneddoti e curiosità sulla tradizione della sfogliatella, frolla e riccia, ripercorrendo sotto gli occhi del pubblico le fasi di preparazione della ricetta, complice il laboratorio di pasticceria estemporaneo allestito per l'occasione.

 

La ricetta, le origini

A ognuno scegliere la propria variante preferita - o entrambe! - tra la riccia dalla sfoglia increspata e croccante e la frolla, più morbida e rassicurante. Il ripieno, da ricetta tradizionale, non cambia: ricotta, zucchero, una spolverata di cannella, vaniglia, canditi a piacere. Le origini del dolce che oggi ha conquistato il mondo sono antichissime, e si fanno risalire, come molti miti di fondazione, alle cucine di un monastero femminile, quello di Santa Rosa nel caso specifico, arroccato sulla Costiera Amalfitana. Proprio qui, vuole la leggenda, una monaca perfezionò un ripieno dolce ottenuto dalla semola cotta nel latte, miscelata con frutta secca, liquore al limone e zucchero.Il passo successivo fu quello di racchiuderlo in una sfoglia modellata a guisa di cappuccio: era nata la cosiddetta Santarosa, figlia delle suore del monastero di Santa Rosa da Lima. Due secoli dopo, in pieno Ottocento, Pasquale Pintauro, oste napoletano di Toledo, codificò la ricetta della sfogliatella come la conosciamo oggi.

 

La Santarosa dei fratelli Pansa. L'appuntamento a Torino

La sfogliatella Santarosa, intanto, ha mantenuto le sue peculiarità, e per preservarne il legame con il territorio che l'ha battezzata – sul mare di Conca dei Marini – la famiglia Pansa gestisce da quasi due secoli uno dei laboratori di pasticceria più rinomati della Penisola. La ricetta rispetta quella della Santarosa del Monastero: una frolla esterna assemblata senza uova con l'aiuto della sugna e un po' di miele d'arancia e un golosissimo ripieno con ricotta dei Monti Lattari, cubetti di arancia candita e liquore Strega. Tra qualche settimana, la famiglia Pansa sarà protagonista a Torino, ospite di Gourmet Food Festival, per la sezione l'Arte dell'Assaggio: un appuntamento ad alto tasso di golosità con Andrea e Nicola Pansa moderati da  Rosalba Graglia. Durante l'incontro (sabato 18 novembre, alle 17.30, costo 5 euro, prenotazione online) i fratelli Pansa racconteranno i segreti della Santarosa; a seguire la degustazione di Sua Maestà Sfogliatella. Per chi non potesse partecipare alla Notte Bianca di Napoli, dunque, l'appuntamento è al Lingotto di Torino. Noi intanto vi regaliamo la ricetta dei fratelli Piansa. I più temerari sono invitati a cimentarsi:

 

Per la preparazione di circa 40 pz di Santarosa

Sfoglia esterna

 

Ingredienti:

Farina manitoba 1000gr – Acqua 400ml – Sale 20gr – Miele di acacia 20gr – Strutto (quanto basta)

Amalgamate attentamente il tutto in un apposito recipiente, lasciate il composto a riposo per circa tre ore, trascorso questo lasso di tempo raffinate il composto con lo strutto ottenendo uno spessore sottilissimo, successivamente avvolgetelo a cilindro fino a formare un rotolo. Questa operazione va eseguita con mattarello o per chi ne ha la possibilità mediante sfogliatrice. Fate riposare il rotolo in frigorifero avvolto con pellicola per una notte, all'indomani allungate il rotolo fino ad ottenere la circonferenza desiderata. Tagliate a fettine da 0,5 cm per ottenere i cosidetti tappi. Ultimata questa operazione, ungetevi le mani di strutto e dal tappo ottenuto modellate manualmente un cono che successivamente verrà farcito.

 

Ripieno

 

Ingredienti:

Acqua 1000ml – Sale 15gr – Semola 400gr.

Elemento fondamentale per completare il ripieno della Santa Rosa è appunto la semola. Portate l'acqua ad ebollizione, versate a pioggia il sale e la semola nel recipiente, lasciate cuocere e rimuovete il recipiente dal fuoco quando il composto non aderisce più alle pareti.

Una volta raffreddato amalgamate il composto ai seguenti ingredienti: 1000gr di ricotta, 350gr di zucchero, 200gr crema pasticcera, 300gr di canditi di arancia, cannella (un cucchiaino da caffè).

Il composto che otterrete è l'effettivo ripieno della Santa Rosa, da inserire all'interno del tappo precedentemente preparato. La Santa Rosa cuoce per circa 40 minuti a una temperatura di 200 gradi. Una volta raffreddata, completate il vostro lavoro arricchendola esternamente con un riccio di crema pasticcera, amarene e una spolveratina di zucchero a velo.

(Crema pasticcera: 1 litro di latte, 400gr di zucchero, 5 tuorli, 120gr di farina, 2 bacche di vaniglia, Bourbon)

 

La Notte Bianca della Sfogliatella | Napoli (Portici) | Museo di Pietrarsa, traversa Pietrarsa | sabato 4 novembre, dalle 19 | ingresso 4 euro | www.fondazionefs.it

Il programma di Gourmet Food Festival, dal 17 al 19 novembre 2017 al Lingotto di Torino

Prenotati a Sua Maestà Sfogliatella dei Fratelli Pansa

 

a cura di Livia Montagnoli

II Ristorantino di Pesce a Firenze. La cucina di mare di Samuele Gallori, alias Panino Tondo

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Qualche anno fa, Samuele Gallori inventava il primo delivery gourmet di Firenze, battezzando un mercato ancora vergine, oggi affollato di contendenti internazionali. Dopo Panino Tondo, ora è il momento di riscoprire le origini di famiglia, con lo street food di mare di piazza Giorgini. 

Food delivery gourmet. L'intuizione di Panino Tondo

Era il 2010. A Firenze, da un'intuizione di Samuele Gallori prendeva le mosse l'avventura del Panino Tondo, progetto pionieristico per la voglia di scommettere sul segmento del food delivery di qualità – pronto a esplodere qualche anno più tardi – e ben congegnato grazie alla tenacia di insistere sulla personalizzazione del servizio, e la fidelizzazione del cliente. Una formula di consegna a domicilio, peraltro applicata al panino “gourmet” - un'altra tendenza ben lungi dall'affermarsi all'epoca, e oggi fin troppo sdoganata – che cozza con l'impostazione sperzonalizzante che il boom del fenomeno ha finito per imporre, nel mondo e nelle principali citta italiane. Firenze compresa, ora contesa tra i colossi del food delivery,  Deliveroo e Foodora in testa. Quando Samuele Gallori ha iniziato, approntare la logistica – il call center per lo smistamento degli ordini e un servizio di consegna quanto più efficiente possibile – non è stato semplice. Oggi che Panino Tondo conta tre punti vendita, due foodtruck e una postazione fissa al Winter Park di Firenze Sud, i costi di gestione dell'impresa, solo per smistare gli ordini online, mantenere il centralino e ottimizzare la consegna dei panini, ruba il 38% delle risorse: “Un conto salato, che ora rischia di non ripagare più i nostri sforzi.  Nel 2011, l'intuizione Panino Tondo ha funzionato alla grande, siamo riusciti a conquistare la piazza, facendo qualità. Abbiamo inventato un mercato inesistente, e l'abbiamo presidiato fino all'arrivo dei grandi gruppi. Ora affiliarmi con loro, riconoscergli quel 20% di commissione che mi chiedono, mi costerebbe meno che proseguire in solitaria”.

 

L'evoluzione di Panino Tondo

Insomma, finora Samuele ha rifiutato il corteggiamento delle multinazionali, ma sa riconoscere che l'intelligenza di Panino Tondo, “quella che ci fa essere non solo ristoratori bravi a far da mangiare, ma pure imprenditori capaci”, sta nella capacità di reinventarsi. Insomma, Panino Tondo è cresciuto negli anni, maturato. Ha raggiunto tanti traguardi, dà lavoro a 18 persone. Il pane, un bun morbido, viene prodotto nel laboratorio di panificazione di proprietà con farine da filiera corta, la carne arriva da allevamenti certificati del Mugello, le materie prime sono tutte di qualità. La carta di panini, bagel, insalate, fritti è varia e invitante. Ma l'attività, in mancanza di una forza finanziaria che possa reggere il confronto con i grandi, è in fase stazionaria: “Il nostro punto di forza continua a essere il rapporto col cliente, è il momento di sfruttarlo a nostro vantaggio”. Cominciando da quello che deve ancora succedere, probabilmente all'inizio del 2018, uno dei punti vendita di Panino Tondo potrebbe trasformarsi in locale street food a tutti gli effetti, invitando i clienti a consumare i panini in loco, “affidando al contempo il delivery a qualcuno dei grandi: meglio averli come alleati!”.

Il Ristorantino di Pesce

Ma il primo passo, il progetto pilota che permetterà di sondare il terreno, si concretizza già in queste ore a piazza Giorgini, prima sede del gruppo, dove Panino Tondo è nato. Ecco, da oggi, il piccolo locale di Rifredi sarà Il Ristorantino di Pesce: nuova insegna, concept affine, “una sorta di Panino Tondo di pesce che mi frulla in testa dal 2012”. Samuele Gallori, del resto, viene da una famiglia di pescivendoli, e ora vuole sfruttare l'eredità paterna a proprio vantaggio: “Da piccolo provavo quasi vergogna, oggi capisco che il mestiere respirato sin da piccolo è un valore molto importante. Conosco la materia prima, la so trattare, ho un bagaglio di ricette di pesce da riscoprire e condividere”. Così nasce lo street food di mare del ristorantino, 30 coperti in tutto, ambiente informale, senza servizio al tavolo (“si sceglie dal menu, si ordina alla cassa, in cucina prepariamo tutto espresso”), aperto a pranzo, cena e per l'aperitivo, tra qualche settimana anche nel weekend. L'idea è quella di servire ottima materia prima - “spendo in food cost quello che risparmio sul servizio” - con originalità, e qualche spunto fusion.

Quindi ci saranno ovviamente i panini caldi di mare, in 4 varianti, e le tapas ideate per l'aperitivo, con un buon calice di vino o bollicine: il tris di pesce azzurro, per esempio, con acciughe e bufala, sgombro sott'olio e cime di rapa, tonno sott'olio e cipolle al mosto. E poi le fritture servite con chips e salse homemade, le insalate, i tacos di mare. Oltre a piatti cucinati più consistenti, tre proposte per cominciare: i gamberi al curry, il merluzzo alla cacciatora (“mia moglie è siciliana”), il polpo di Bolgheri, “come lo facciamo in famiglia, cotto nel rosso di Bolgheri e pomodoro”. Qualche primo con pasta fresca, il pesce alla griglia. Dalla “cantina” una selezione di etichette regionali, birre artigianali, bollicine Franciacorta. Alla voce dessert, la collaborazione con i Fratelli Lunardi di Quarrata  per cantuccini e brownies, e i fratelli Baghi di Treviso per i pandolci. I prezzi sono contenuti, “siamo uno street food”, si mangia con 12-18 euro. E chi vuole può portare con sé un ricordo dell'esperienza, acquistando i prodotti a scaffale in vendita nell'area market, gli stessi utilizzati in cucina. Inaugurazione sabato 4 novembre, dalle 19.

 

Il Ristorantino di Pesce | Firenze | piazza Giorgini, 20r | tel. 055 0351155 | apertura martedì 7 novembre | www.ilristorantinodipesce.it

 

a cura di Livia Montagnoli

 

 

 

Prodotti del mese. Novembre, castagne e marroni e la ricetta di Arcangelo Dandini

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1, 10, 100 castagne. Non un unico frutto, m tante varietà diverse. La prima grande distinzione da fare è quella tra castagne e marroni, ma non è l'unica.

Un alimento completo: ricco di zuccheri, vitamine (in particolare A e del gruppo B, inclusa la B9, anche detta acido folico), fibre e minerali (potassio, fosforo, calcio soprattutto), e dall'alto contenuto energetico, simile a quello dei cereali. Le castagne hanno per anni rappresentato, in alcune zone, una fondamentale fonte di approvvigionamento, al punto da guadagnarsi il titolo di “pane dei poveri”. E non si va poi tanto distante con la fantasia se si pensa che la farina di castagne è impiegata al pari di quella di frumento, per fare pane (il più famoso è la Marocca di Casola della Lunigiana), pasta ed è l'ingrediente alla base del castagnaccio, parente non troppo alla lontana di tante altre focacce. Tra l'altro completamente priva di glutine, per cui rappresenta un'ottima alternativa per chi soffre di celiachia.

 

Castagna e marroni

La castagna è il frutto di un albero presente nelle aree boschive di mezza montagna e proprio le popolazioni insediate in queste zone ne traevano sostentamento in assenza di altri cereali. Le castagne sono tutte uguali? Naturalmente no. La prima grande distinzione da fare è tra castagne e marroni. Le prime sono frutto dell'albero selvatico, i secondi di quello di particolari cultivar meno produttive ma più pregiate. Si distinguono perché i marroni sono molto più grandi e uniformi per dimensioni, forma e sapore; hanno polpa senza cavità e più facilmente separabile dall'episperma (la pellicola esterna che li riveste), più dolce e profumata. Nei ricci si trova in genere un solo marrone di pezzatura più grande, talvolta due, mentre le castagne sono tre per ogni riccio. Esistono diverse varietà, circa 300, distribuite un po' in tutta Italia. Ecco le più importanti.

 

Marroni di Marradi

Medio-grossi, piatti da una parte e tondi dall'altra, con polpa bianca e croccante e sapore piacevolmente dolce: ecco le caratteristiche di questi marroni, una delle delizie del Mugello. Ha pregiate qualità organolettiche ed è il protagonista delle ricette di territorio. Coltivati senza di fitofarmaci e fertilizzanti, conservati senza trattamenti chimici, sono un marchio Igp. Da gustare freschi o secchi, vengono anche impiegati per la preparazione di marmellate o di farine per pane, dolci, polente e altre squisitezze dal caratteristico sapore rustico con il tipico rimando un po' dolce.

 

Marroni di Valle di Susa

Un frutto dalla pezzatura medio-grande, con buccia che va dal marrone all'avana e polpa dolce color crema. Il Marrone della Valle di Susa è il frutto degli ecotipi locali di castagno, noti come Marrone di San Giorgio di Susa, di Meana di Susa, di Sant'Antonino di Susa, di Bruzolo e di Villar Focchiardo, coltivati in tutti i comuni della Val di Susa nella provincia di Torino. Una zona in cui i castagneti sono presenti sin dall’epoca romana, anche se una vera documentazione al riguardo si ritrova solo a partire dal Medioevo.

 

Castagna dei Monti Cimini

A ridosso di Viterbo, i Monti Cimini fanno parte di uno dei paesaggi più belli del Lazio. Le castagne, con le nocciole, ne rappresentano uno dei frutti più rinomati. Pregiate, aromatiche, dalle caratteristiche organolettiche uniche. Il seme, di colore dal crema chiaro al bianco con solcature in superficie, è caratterizzato da sapore dolce, buona consistenza e fragranza, forma tondeggiante o ellittica con apice appuntito, con episperma (pellicola) di colore fulvo chiaro o giallognolo. Si presta a essere consumata bollita o cotta sul fuoco, glassata (marron glacé), come marmellata, o accompagnamento a piatti di carne (arista) o pesce (baccalà), come ripieno di paste farcite, o ingrediente di svariati dolci e per la produzione di liquori. La Castagna dei Monti Cimini (nel cultivar Marrone fiorentino e Marrone primaticcio) è una Dop coltivata nella provincia di Viterbo: nei comuni di Canepina e Caprarola e parte dei comuni di Capranica, Carbognano, Fabrica di Roma, Ronciglione, Soriano nel Cimino, Vetralla, Vignanello, Viterbo e Vitorchiano.

 

Castagna di Cuneo

La Castagna di Cuneo ha una colorazione esterna che va dal marrone chiaro al bruno scuro, la consistenza della polpa è croccante e il sapore è dolce e delicato. La storia delle popolazioni cuneesi è strettamente legata alla produzione e al consumo di questo frutto: i primi riferimenti alla coltura in zona risalgono, infatti, alla fine del XII secolo. L’area di produzione prevista dal disciplinare comprende circa 110 comuni della provincia di Cuneo. La Castagna Cuneo deriva da diverse varietà locali, in particolare Gabbiana e Frattona.


Castagna Reatina

La Castagna Reatina comprende i frutti delle varietà Rossa del Cicolano e Marrone Antrodocano. Questi ultimi non contengono più di tre frutti per riccio, hanno forma tondeggiante e sapore delicato e dolce, sono duri ma gustosi.

 

Acquisto

All'acquisto il frutto si deve presentare integro e sodo, con la buccia di colore brillante ed uniforme, priva di parti verdi o scure. L'aspetto raggrinzito segnala il prodotto non fresco. Immergetele per alcune ore in acqua, gli esemplari non buoni tornano in superficie.

 

Conservazione

Esistono diversi modi per conservare le castagne. Il primo è da fresche, a patto di averle immerse per qualche giorno a bagno in acqua e poi asciugate. Si mantengono, in un luogo fresco e asciutto, per un paio di mesi. Sempre fresche si possono congelare, avendo cura di scongelarle correttamente prima della cottura.

Una volta secche, le castagne si devono mettere in ammollo prima di consumarle, per questo sono perfette per preparare delle zuppe.

In commercio si trova anche la farina di castagne, impiegata per il castagnaccio, dolci, paste e pane.

 

Uso in cucina

Le castagne si usano per preparazioni dolci: marron glacé, confetture, ma anche mont blanc o altri dolci al cucchiaio, lesse sono perfette all'interno di zuppe corroboranti e piatti salati, si usano per farcire la carne, in abbinata ad alcune preparazioni di pesce, o come ripieno di tortelli. Trasformate in farina, sono l'ingrediente principale del castagnaccio e di altre torte rustiche, dolci o salatema si usano anche per pane e pasta.

Il metodo più semplice per cuocere le castagne è farle bollire in acqua salata aromatizzata con alloro o altre erbe. Per sbucciarle più facilmente, aggiungere all'acqua un cucchiaio di olio di oliva.

Se arrostite, al forno o sul fuoco, abbiate cura di praticare un taglio poco profondo di 2 o 3 cm di lunghezza. Le castagne al forno tendono ad asciugarsi un po' troppo, per limitare questo problema basta usare una temperatura di 220 gradi per 15-25 minuti a seconda della dimensione della castagna.

 

L'Arcangelo

Arcangelo Dandini è uno dei più noti osti di Roma. Lo è nel modo più nobile e colto. Nel suo L'Arcangelo miscela con maestria la cucina capitolina più verace e quella legata alla sua memoria personale, con estro e grande capacità. Figlio di ristoratori della campagna romana, ha saputo celebrare quei territori e quei sapori in piatti che sono un limpido esempio di gusto e intelligenza. Trovando sempre la chiave giusta per giocare la carta dell'eleganza contemporanea senza mai perdere in gusto. Anche nei piatti più muscolari. Il menu è un continuo rincorrersi di creazioni originali e ricette di tradizione,con rimandi appena percettibili (ma fondamentali) a una cucina più alta di cui è ben a conoscenza. Il tutto miscelato con l'obiettivo, sempre ben presente, di offrire ai suoi ospiti un'accoglienza calorosa e un momento di godimento rilassato ma non distratto. Merito anche di quell'eleganza borghese, calda e accogliente, mai eccessivamente tirata, delle attenzioni in sala, della cantina curata, del bancone che ospita anche solo per un boccone, un bicchiere e due chiacchiere.

 

K 488: piccione, castagne, oro e porcini

k 488 piattodi Arcangelo Dandini

 

Ingredienti (per 4 persone)

 

4 piccioni medi

8 porcini freschi

16 castagne 

Oro alimentare 

Aglio rosso

Rosmarino 

Olio. Evo

Sale 

Pepe bianco

 

Procedimento

Sezionare il piccione in 4/4

In una padella fare un fondo di aglio intero, rosmarino e olio evo; far sudare e aggiustare di sale e pepe.

Tagliare i funghi e cuocerli per 3 minuti nel fondo, metterli in forno a 180 gr per 4 minuti.

Tenere in caldo.

Incidere le castagne e cuocerle in forno a 200 gradi. Appena pronte tenere iin caldo

Togliete i porcini, nella stessa padella scottare il piccione per 2 minuti dalla parte della pelle e 3 min dall’altra parte fino a cottura ultimata. Aggiustate di sale e pepe.

Disponete nel piatto insieme agli altri elementi e servire caldo.

 

L'Arcangelo | Roma | via G. G. Belli, 59 | tel. 06 3210992 | https://www.larcangelo.com/#reservation

 

a cura di Antonella De Santis

 

 

Steven Raichlen grills Italy. Il re del barbecue racconta le riprese con il Gambero Rosso

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Ex critico gastronomico, star della tv, ma soprattutto un amante della buona tavola e un cuoco appassionato che ha trovato nel barbecue la sua migliore forma di espressione. Steven Raichlen ha concluso da poco le riprese per il nuovo programma del Gambero Rosso Channel, in onda a partire da marzo 2018. Ci siamo fatti raccontare come è andata. 

Steven Raichlen in Italia

Conoscevo la rinomata bistecca alla fiorentina e quando ho iniziato a interessarmi al barbecue sono andato in Toscana a provarla”, ma era solo l'inizio di un lungo percorso alla scoperta della cucina italiana, perché il punto di svolta per Steven Raichlen è arrivato in Basilicata: “Camminando per i borghi lucani mi sono reso conto del gran numero di buone macellerie. La griglia si usa, è una tradizione più casalinga e poco diffusa nei ristoranti, ma c'è. Ed è squisita”. Lo scorso aprile il guru del grill americano raccontava così la tradizione del barbecue in Italia, “un'arte nascosta”, tutta da scoprire. Insieme.

Steven, infatti, con la squadra del Gambero Rosso Channel (canale 412 di Sky), inizia a elaborare un nuovo progetto, grazie alla collaborazione con Weber, società statunitense produttrice di barbecue a carbonella, gas ed elettrici fondata nel 1893 a Palatine Illinois, da sempre punto di riferimento per le grigliate d'eccellenza in America e nel mondo; un programma tv basato su materie prime e specialità italiane, interpretate e cucinate da Raichlen “senza snaturare i gusti locali”. Le riprese per il programma sono iniziate meno di un mese fa, e hanno coinvolto diverse località italiane, luoghi in cui Steven ha potuto scoprire prodotti e ricette tipiche, reinventandole a modo proprio, sempre con il massimo rispetto per la nostra tradizione. Le telecamere si sono spente solo lo scorso 1 novembre, e abbiamo chiesto al protagonista di darci qualche anticipazione.

Steven Raichlen grills Italy

Questo il titolo del programma, in onda a partire da marzo 2018. Il re del barbecue che cucina l'Italia, un Paese con una tradizione gastronomica antica e profonda, così radicata da essere, talvolta, un limite. Ma non in questo caso, perché chef, artigiani, pescatori e allevatori della Penisola si sono mostrati entusiasti all'idea di un confronto con una cultura culinaria diversa e altrettanto consolidata come quella della griglia in America. “Il tour è stato fantastico, sono stato a Goro e Codigoro a pesca di anguille, e poi a Polesine Parmense a vedere gli allevamenti di maiali, a Venezia al Mercato di Rialto per una grigliata mista di polenta, e a Portofino per cucinare il pescato del giorno”. Ma anche a Firenze a mangiare la fiorentina di Luciano Ghinassi, a Cuneo per scoprire il gusto dell'agnello con Eric Barin, “uno degli chef che più mi hanno colpito”, a San Candido, in provincia di Bolzano, per imparare la cottura perfetta della carne di cervo con Markus Holzer.

Il team e le location

Affiancato da un team d'eccezione, quello del Gambero Rosso Channel, “una squadra di professionisti molto creativi e preparati. Il punto di vista del programma è insolito, l'idea è originale e credo che ne uscirà fuori un lavoro davvero interessante”. Con un tour che ha fatto tappa in tante città piccole e grandi del Centro e Nord Italia, “dalla laguna alla montagna, dalle Alpi alle colline, l'Italia si compone di paesaggi incantevoli; è stato davvero stimolante girare con questi panorami meravigliosi a fare da sfondo”. La città più bella? “Venezia. È un luogo magico, e ho infatti intenzione di tornarci con la mia famiglia, che mi ha raggiunto per passare del tempo insieme dopo le riprese”. Il programma sarà interamente in inglese, sottotitolato in italiano, “tranne per alcuni parti in cui parlo un po' in italiano con alcuni abitanti del luogo”.

La pesca di anguilla e le ricette

Fra le esperienze più significative che Steven conserverà fra i suoi ricordi, posto d'onore lo merita la pesca di anguille: “Avevo già avuto modo di assaggiarle, ma mai in Italia. Le ho provate prima all'italiana, grigliate e con un po' di sale, e poi le ho rifatte io con un teriyaki, lascito delle mie origini giapponesi, rivisitato con il vin santo”. A cucinarle alla maniera tricolore, invece, è Maria Grazia Soncini de La Capanna di Eraclio, nella Bassa Ferrarese, “una chef molto brava che lascia, come la maggior parte degli italiani, i sapori integri e puri, senza troppi condimenti”. Sempre la Soncini, ha mostrato a Raichlen la preparazione delle vongole veraci, che l'americano ha rielaborato sulla pizza, “cotta direttamente sul fuoco, senza pietra”. Altre ricette particolari? “Il cervo, marinato nel vino rosso e avvolto nel guanciale, poi cotto al girarrosto”. E anche l'insalata di polpo e melanzane grigliate dello chef Lorenzo Cogo di El Coq, a Vicenza: “Solitamente, in Italia si serve il contorno a parte. Noi americani invece siamo abituati a inserirlo all'interno della portata. Per questa ricetta ho scelto di usare una piadina, farcita con melanzane e polpo grigliato, creando così un piatto unico”.

La griglia in Italia e in America: differenze e punti in comune

Niente contorno e tante salse. Questa la regola base del barbecue americano, molto diverso da quello italiano, basato invece su pochi ingredienti. “Qui si usa al massimo un po' di olio extravergine di oliva, sale, e talvolta del succo di limone. Ho cercato di bilanciare un po' le due tradizioni: sulla bistecca alla fiorentina, per esempio, ho aggiunto dei peperoni dolci saltati in padella con uno spicchio d'aglio, un po' d'olio e del prezzemolo”. La griglia in Italia, infatti, non è altro che “carne e fuoco”, senza condimenti aggiunti. E non solo: “Oltre all'aggiunta di spezie, noi americani siamo molto attenti alla reazione di Maillard; vogliamo una carne di un bel colorito bruno. Gli italiani, invece, usano meno potenza nella cottura”. Fra le tante divergenze culturali, c'è però un punto in comune, il legno: “Usiamo molto il camino. Durante il tour, per esempio, Massimo Spigaroli dell'Antica Corte Pallavicina ha preparato l'anatra su legna, ed era eccezionale!”.

In viaggio in Italia fra città d'arte e prodotti di nicchia

Un viaggiatore instancabile, Raichlen, che fra ristoranti e riprese riesce a trovare il tempo anche per visitare la Pinacoteca di Brera, il Duomo, prima di ripartire alla volta di Venezia, Firenze, per finire in Francia. Prima di tornare a Miami, dove continua a lavorare ai progetti che vi avevamo raccontato qui.In Italia c'è sempre molto da imparare in fatto di cucina. La biodiversità agroalimentare è unica, e mi impressiona ogni volta. Ho assaggiato la zucca mantovana, le patate rosse di montagna, la carne di chianina, l'agnello sambucano, i cannolicchi e altre specialità straordinarie. Che dire? Non vedo l'ora di tornare”.

Steven grills Italy | da marzo 2018 sul canale 412 Sky Italia, Gambero Rosso Channel

a cura di Michela Becchi

La focaccia e i suoi derivati. 6 specialità del Veneto e la ricetta della treccia d'oro di Thiene

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Non solo Pandoro. In Veneto sono diverse le specialità dolci lievitate, dalla fugassa al pan co a suca. Ve ne presentiamo 6, più una ricetta speciale di una pasticceria storica di Thiene, in provincia di Vicenza.

Teatro di dominazioni diverse, il Veneto è un regione ricca di sfumature, contrasti e diversità. Un territorio bellissimo, dall'anima sfaccettata che si rispecchia anche nella tavola, eclettica e variegata, che alterna piatti di carne e di pesce d'acqua dolce e salata, riverbero dei molti angoli di un territorio che si snoda fra tratti di costa e zone lagunari, entroterra e aree montuose. Si passa dalla polenta di mais, accompagnamento di tante pietanze, al celebre risi e bisi, senza dimenticare il baccalà alla vicentina e il risotto al radicchio (rosso di Treviso, ça va sans dire). Sul fronte della panificazione non mancano focacce e schiacciate, che in questo caso offrono la loro massima espressione nella variante dolce. Ricette antiche, succulente, nutrienti, in molti casi pensate per accompagnare i marinai nei lunghi viaggi, oppure rinfrancare i lavoratori quando trovavano ristoro nelle osterie. Di seguito, una raccolta di 6 prodotti tipici regionali, e una ricetta golosa dalla pasticceria Signorini di Thiene, in provincia di Vicenza.

Frittelle alla veneziana

O fritole veneziane, secondo il dialetto locale. Bombette dolci fatte con uova, zucchero, farina e farcite con pinoli e uvetta, cotte in olio bollente (o strutto, come vuole la tradizione più antica) e cosparse di zucchero a velo. Un'istituzione durante il Carnevale di Venezia, in passato preparate e servite in strada dai fritoleri, addetti alla frittura nel periodo di festa. Le prime testimonianze di questa specialità zuccherina risalgono al Trecento, in un documento conservato nella Biblioteca Casanatense a Roma. Apparizioni meno remote si trovano nella commedia di Carlo Goldoni, Il Campiello, uno scritto di metà Settecento che ha come protagonista proprio una fritolera, Orsola. Anche Bartolomeo Scappi, cuoco di Pio V, ne scrisse nel suo celebre volume Opera di Bartolomeo Scappi, maestro dell'arte di cucinare, cuoco secreto di Papa Pio Quinto, divisa in cinque libri, offrendo una sua versione della ricetta. Oggi, dosi, preparazioni e farciture variano di famiglia in famiglia, ma ad accomunare le tante varianti è la presenza costante della frutta secca all'interno.

Fugassa veneta

Detta anche fugassin, la fugassa è uno dei dolci pasquali più famosi in tutta la regione. Secondo la leggenda popolare, la focaccia è stata inventata da un fornaio trevigiano che, in occasione della Pasqua, arricchì l'impasto del pane con altri prodotti golosi, dal burro allo zucchero, ottenendo così un pane dolce, alto e soffice. Si tratta di un lievitato simile alla più comune colomba, ma dalla forma più tondeggiante, morbido e aromatico, solitamente insaporito con marsala, cedro e vaniglia. Anticamente era un dolce “povero”, diffuso fra le famiglie meno abbienti per la semplicità della ricetta e degli ingredienti impiegati (impasto del pane, uova, burro, zucchero). Col tempo, però, la fama del dolce divenne tale da consentirgli l'ingresso anche nelle maggiori pasticcerie regionali, che lo hanno reso un prodotto più complesso e articolato. La fugassa veneta oggi viene preparata con 4 lievitazioni differenti, e aromatizzata in vario modo a seconda della zona, ma anche qui non mancano le varianti familiari.

Pan co a suca

Un pane dolce a base di farina di grano tenero e polpa di zucca (la suca, appunto), diffuso soprattutto nella provincia di Treviso. Lo si può trovare in diversi formati, dalle pagnottine ai mignon, dalle pezzature più grandi come anche nella versione pane in cassetta. La polpa della zucca, una volta lessata, viene mescolata alla farina, alla quale vengono aggiunti lievito e zucchero. L'impasto morbido viene poi cotto in forno, e il risultato finale è un pane fragrante, soffice e profumato, molto spesso impreziosito anche dall'uva passa. Esiste poi il pan co l'ua, pane dolce farcito di uvetta la cui storia affonda le radici nella più antica tradizione contadina. L'impasto è leggermente più croccante rispetto a quello con la zucca, ma l'interno è altrettanto morbido e delicato.

Pandoro

Un'eccellenza che appartiene alla tradizione veronese, ma le cui origini sono ben più remote: risalgono, infatti, ai tempi degli antichi romani, che per primi inventarono questo pane dolce, all'epoca a base di farina, burro e olio. A darcene testimonianza è Plinio il Vecchio, che in uno scritto del I secolo dopo Cristo cita un cuoco di nome Vergilius Stefanus Senex alle prese con la preparazione di questo “panis”. La ricetta sembra derivare anche dal pane de oro, servito durante il XIII secolo alle corti nobili dei veneziani, anche se la versione contemporanea è più simile al nadalin, dolce di Verona inventato nel Duecento in occasione delle feste di Natale, meno burroso rispetto al pandoro di oggi ma con la forma simile a stella. Il lievitato come lo conosciamo oggi nasce ufficialmente nella città veneta nella seconda metà dell'Ottocento e, da quasi due secoli, accompagna le feste degli italiani, particolarmente apprezzato dai bambini che solitamente poco amano canditi e uvetta presenti in abbondanza nel panettone milanese. Per prepararlo, occorrono farina, acqua, lievito, uova, burro, zucchero, miele, e tanta pazienza; le fasi di lievitazione, infatti, sono molteplici, e la cottura è molto lunga, per un totale di circa 48 ore di lavoro complessive.

Torta putana

Sono tante le cucine regionali che prevedono dolci a base di pane raffermo, e il Veneto non fa eccezione. La torta putana, chiamata così perché pensata per i putèi, ovvero i bambini, è una ricetta di recupero, nata dalla necessità di riutilizzare gli avanzi del pane. Crosta e mollica vengono ammollati in acqua o latte, e poi amalgamati con uvetta, pinoli, scorza di agrumi e liquore. Un tempo veniva cotta nel covercio, recipiente tondo di ferro posto sotto le braci del camino, e la ricetta cambiava di famiglia in famiglia, a seconda delle eccedenze rimaste in cucina, dalla frutta fresca a quella secca: in ogni casa, tutti i prodotti avanzati e in via di scadenza venivano mescolati all'impasto per conferire maggiore sapore al dolce.

Treccia d'oro di Thiene

Un dolce tipico di questa località vicentina, il cui successo è stato tale da farlo entrare di diritto nella lista dei prodotti agroalimentari tradizionali della regione. A ideare la treccia d'oro sono stati Ezio e Romano Signorini, che nel 1919 hanno creato nella pasticceria di famiglia un lievitato a base di farina, burro, zucchero, uova, lievito naturale, uvetta e canditi, che ha segnato la storia delle specialità dolciarie della cittadina. Oggi, infatti, la treccia viene realizzata anche in altri laboratori della zona, con variazioni sul tema e piccole modifiche.

La ricetta: la treccia d'oro di Thiene della pasticceria Signorini, Thiene (VI)

Da tre generazioni la Famiglia Signorini segue e migliora la ricetta originale avendo cura di mantenere inalterate le qualità di questo dolce molto apprezzato nel Vicentino e spedito n tutta Italia, che ha da sempre riscosso entusiastici consensi. Le dosi della ricetta sono segrete, ma siamo riusciti a farci rivelare qualche piccolo segreto. La Treccia D'oro fa parte della famiglia dei grandi lievitati, e viene realizzata a più impasti e con molte ore di lievitazione.

Ingredienti

Farina di frumento 00

Zucchero

Uova

Burro

Scorza d'arancia

Uvetta

Margarina

Sale

Vaniglia

Lievito pressato

Miele d'acacia

Acqua

La caratteristica particolare di questo dolce è nell'incorporazione della frutta, che non viene aggiunta durante l'impasto ma inserita poi manualmente. L'impasto viene steso e intrecciato a mano a doppia elica partendo da una forma a croce di Sant'Andrea. Dopo un'ulteriore lievitazione, il prodotto viene rifinito in superficie con due tipi di zucchero prima di entrare in forno.

a cura di Michela Becchi

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Federico Delmonte lascia la cucina di Chinappi. Presto un ristorante tutto suo a Roma

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Originario di Fano, nelle Marche, Federico Delmonte è arrivato a Roma 5 anni fa. Dopo l’esperienza da Settembrini, due anni fa incrociava la strada di Stefano Chinappi, e del suo ristorante di pesce a Porta Pia. Ora il percorso insieme si conclude. Prossimo step? Un ristorante di proprietà. 

Delmonte da Chinappi. Due anni fortunati

Due anni fa, Federico Delmonte (classe 1981) esordiva nella cucina di Chinappi, insegna capitolina longeva, e storicamente legata alla tradizione di mare cara al patron Stefano Chinappi. Complice la freschezza dei prodotti in arrivo dalla pescheria di proprietà sul litorale laziale, a Formia, la famiglia Chinappi ha scelto di proporre in città i piatti di una tradizione marinara solida e fondata sull’ottima conoscenza della materia prima. L’incontro con Federico, all’epoca in arrivo dall’esperienza di Settembrini (dove aveva preso il posto di Luigi Nastri, dopo una lunga gavetta, tra Londra, la Romagna del Povero Diavolo e del Magnolia, l’Enoteca Pinchiorri, persino un ristorante suo, proprio a Fano, il Vicolo del Curato), è stato la quadratura del cerchio. Il giovane chef di Fano a Roma ha messo su famiglia, e in città ha trovato il modo per esprimersi al meglio, maturare, farsi conoscere. Il percorso nella cucina di Chinappi ha rappresentato una bella opportunità di crescita, una comunione di intenti tra proprietà e chef che difficilmente, quando si verifica, delude le aspettative a tavola. Questo è stato Chinappi negli ultimi anni, vivacizzato dalla modernità delle preparazioni di Federico, capace di lavorare i prodotti del mare (lui, originario di una cittadina di grande tradizione marinara in cucina) senza appesantirli. Di fatto, proprio con l’apporto di Federico, il ristorante è riuscito a conquistare una clientela nuova, attratta dai guizzi di una cucina creativa comunque sempre ricondotta nel perimetro delle tradizioni della casa.

Stefano Chinappi

La fine della collaborazione

E l’esperimento ha ripagato, in termini di pubblico e visibilità: “La mia è stata una sfida con me stesso, ho voluto discostarmi dal passato per affacciarmi al mondo della cucina creativa, per stupire i miei clienti e conquistarne di nuovi”, ribadisce oggi il patron del ristorante di via Valenziani nell’annunciare la fine del sodalizio con Federico Delmonte. La notizia è che Federico ha già lasciato, da una settimana appena, il ristorante. Ma la decisione sembra essere maturata in accordo tra le parti, e motivata principalmente dalla voglia di sperimentarsi con una nuova sfida, in solitaria, che presto dovrebbe portare Delmonte ad aprire un ristorante suo in città. Chinappi, dunque, riparte dalle tradizioni di famiglia e del territorio, annunciando l’ingresso in una nuova fase di ristorazione, debitrice alla città di Formia e alla sua storia. E con l’arrivo in cucina, a partire dal 20 novembre, di un forno a legna per cucinare il pesce, “e non solo”. Per Federico, invece, si apre un periodo di riflessione, e ricerca.

 

Cucina di mercato e creatività. L’idea in solitaria di Federico

Le idee, per dir la verità, sono molto chiare, “e solo una proposta importante, che per ora non è arrivata, potrebbe farmi desistere dal mio obiettivo: aprire in proprio e presentare al cliente un ristorante che mi rappresenti al 100%”. “La mia collaborazione con Chinappi è stata importante, mi ha dato modo di sviluppare tante idee, e con Stefano mi sono lasciato in buonissimi rapporti. Ora però ho voglia di costruire un cammino che per quanto oneroso e rischioso possa dare un respiro diverso alla mia idea di cucina”. La ricerca del locale giusto, “uno spazio piccolo, gestibile con una persona in sala e un’altra ad affiancarmi in cucina”, è cominciata da un paio di mesi, per ora senza esito: “Trovare la propria dimensione a Roma non è semplice, ma io ho tutta l’intenzione di restare nella città che mi ha adottato. Credo di aver imparato a conoscere la clientela capitolina in questi anni, so cosa vorrebbe trovare al ristorante”.

La formula che sta maturando da un po’ è chiara: “Vorrei proporre una cucina di mercato, molto legata al mare, alla semplicità e alla qualità della materia prima. Un mangiare veloce di alta qualità, specialmente a pranzo. In parallelo però svilupperò anche la mia attitudine contemporanea. Il cuore dell’offerta sarà diretto e fruibile, chi vorrà potrà scoprire l’altro mio lato, quello sperimentale”. Con l’idea di essere molto presente anche in sala, per metterci la faccia, oltre che la firma in cucina: “Non voglio assolutamente penalizzare la figura di sala, e il servizio professionale. Però mi piacerebbe stabilire un rapporto diretto col cliente, proporgli soluzioni su misura, incentivare la tavola conviviale. Sto immaginando anche proposte da realizzare estemporanee, con i prodotti a disposizione sul momento, per tutto il tavolo. E poi variazioni sul tema a partire da un ingrediente lavorato in più forme”. Limitata la proposta di carne, “ma ci sarà”. Zone preferite? “Io abito in Prati, non mi dispiacerebbe trovare qualcosa qui. Invece escludo il centro più turistico, non è il tipo di clientela che mi interessa. Voglio dialogare con i romani, presentare loro una proposta snella e sincera”. Il 2018 potrebbe essere l’anno buono: “Spero di trovare presto, voglio stare fermo il minor tempo possibile”.

 

a cura di Livia Montagnoli

Grafica. Lo studio Bellissimo crea il nuovo logo di Lavazza per Open Coffee

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Lavazza lancia un nuovo spazio digitale pensato per tutti i coffee lover che hanno voglia di confrontarsi sui temi più caldi dell'oro nero. A curare i dettagli grafici, lo studio torinese Bellissimo, che ha studiato un disegno ad hoc per l'icona della piattaforma. 

Open Coffee

Continuano i progetti di Lavazza, storica torrefazione torinese sempre più impegnata nella comunicazione e divulgazione della cultura del caffè. Dopo l'inaugurazione del flagship store di Milano, bar dedicato all'oro nero in tutte le sue declinazioni nel cuore di Milano, proprio nell'area pedonale alle spalle della Galleria, è la volta di Open Coffee, uno spazio digitale dove condividere idee, ispirazioni ed esperienze. Una community online di appassionati di caffè dove poter scambiare opinioni, confrontarsi e tenersi aggiornati sulle ultime novità, una piattaforma già attiva su Instagram e a breve disponibile anche su altri social, che segna un approccio sempre più innovativo e accattivante alla comunicazione da parte di Lavazza; una sorta di esperimento collettivo che raccoglie immagini e parole, curato da influencer del settore selezionati dalla torrefazione insieme a Nextatlas, società di ricerca sui trend, un'iniziativa che abbraccia in maniera trasversale l'universo caffeicolo, con l'obiettivo di renderlo sempre più fruibile da tutti i consumatori, e non solo dalla nicchia di appassionati. 

 

Open Coffee

Bellissimo

A curare la grafica del logo, Bellissimo, studio di progettazione nato nell'agosto del '98 con l'idea di lavorare sulle parole e sulle immagini in maniera evocativa e contemporanea. “Siamo 16 persone in tutte, tutti designer o editor. Le aree che sviluppiamo principalmente sono quella del branding, della consulenza aziendale e della creazione di eventi, ma abbiamo realizzato anche magazine e libri di architettura”, per personalità del calibro di Renzo Piano e Mario Cucinella. A parlare è Luca Ballarini, uno dei fondatori dello studio e attuale Creative Director: “Attualmente siamo impegnati in un nuovo progetto di Tartuflanghe e Pan, marca di prodotti pronti di alta qualità per la quale stiamo lavorando al naming, l'identità visiva e il packaging”. Oltre a ripensare completamente le confezioni di tre linee storiche di Lavazza.

Il marchio di Open Coffee

Per la nuova piattaforma digitale, Bellissmo ha proposto una soluzione grafica molto legata allo stile della comunicazione telematica, una composizione che gioca con le lettere O e C del nome, per ricordare una tazzina di caffè vista dall'alto, ma anche la tipica lente d'ingrandimento per le ricerche sul web e altre icone del mondo 2.0. “L'idea è nata un anno e mezzo fa con l'intento di creare una community per coffee lovers. Per questo abbiamo scelto un'immagine adatta per l'icona dei social sugli smartphone e tablet”, ovvero un quadratino 1x1, spaziogeometricolimitato “che richiede un un logo piccolo e razionale”. 

 

Il risultato è un simbolo minimale, non invasivo, ideale per un contesto in cui la componente visiva delle immagini condivise deve predominare. “Abbiamo scelto delle forme circolari per ricordare la tazzina di caffè vista dall'alto, anche se di primo acchitto non si nota. Al centro c'è il simbolo del chicco di caffè, unico elemento marrone che contrasta con i toni del blu – tipici di Lavazza – e della carta da zucchero, che si stagliano sul fondo bianco”. Essenziale e pulito, il marchio è funzionale al suo scopo, ovvero quello di catturare l'attenzione di quanti più consumatori possibili. “Abbiamo cercato di trovare una soluzione pratica, adatta per le tecnologie contemporanee, ma che non rinunci al gusto”. 

Gli altri progetti

Diversi i progetti all'attivo nel campo alimentare, dunque, ma non gli unici. “Nel 2012 abbiamo firmato la nuova identità visiva dell'Abbonamento Musei Torino Piemonte, dal restyling della carta alle campagne di lancio per la versione lombarda della tessera”, e poi ancora il libro La scienza del giocattolaio, edito da Codice Edizioni, e altri loghi per realtà digitali come iCoolhunt, social che raccoglie immagini di nuovi trend e permette agli utenti di affermarsi come guru dello stile. Più tante altre campagne pubblicitarie e soprattutto eventi, “per cui curiamo luoghi, contenuti, video, musica, performance”, traducendo i valori di una marca in un’esperienza complessiva coerente con il posizionamento, in grado di accendere la curiosità del pubblico più attento.

Bellissimo | Torino | via Regaldi, 7 | tel. 01 12478137 |  www.bellissimo1998.com/it

a cura di Michela Becchi

 

 


Architetti di ristoranti. Margstudio di Milano

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Due architetti specializzati nel settore ho.re.ca che negli ultimi due anni hanno creato ambienti di ristorazione unici a Milano, e non solo. La storia di Margstudio.

Lo studio

Lei è da sempre appassionata di enogastronomia, e da tempo cura arredi e strutture di ristoranti, cocktail bar e caffetterie. Lui ha studiato Architettura al Politecnico di Milano, e ha cominciato a farsi le ossa collaborando con diversi studi della zona fra ville e appartamenti. Insieme, nel 2015 hanno scelto di fondare un loro studio di architettura e design di interni, Margstudio, specializzato soprattutto nelle abitazioni di lusso e nel settore ho.re.ca. (hotel, ristorazione, catering). “L'ambito della ristorazione è molto più stimolante: ti consente di realizzare prospetti diversi, più creativi e originali a seconda dello stile di cucina”, spiega Matteo Rota, fondatore dello studio insieme ad Annalisa Grasselli. “Ho cominciato con le case, ma da quando ho scoperto il mondo dell'enogastronomia ho cambiato totalmente approccio. Ci occupiamo ancora di appartamenti e ville, e ora stiamo iniziando anche con il retail, ma è la ristorazione il nostro focus principale”.

 

Margstudio

Il primo lavoro

Fra le prime esperienze dei due soci, Matè, locale polifunzionale di Treviglio con forno, gastronomia e cocktail bar, basato su prodotti sani e biologici. “Quando abbiamo preso in mano il progetto eravamo ancora nella fase più legata allo stile rustico/industriale, tutto ferro e legno”. Matè è uno spazio di oltre 600 metri quadri fatto di materiali naturali e linee morbide. Un ambiente che rispecchia in pieno la filosofia del locale: “Il design, e più in generale l'architettura e l'atmosfera che si respira all'interno di un luogo, è fondamentale per l'esperienza complessiva di un pasto. Ne determina la piacevolezza o meno, e conta quasi quanto la cucina stessa”.

 

Matè

Ritorno al passato: Cordiale e Retrobottega

Oggi, invece, l'approccio del duo tende a rivalutare lo stile vintage, fra velluti e pezzi d'epoca: “C'è un ritorno agli anni '60. Molti locali a Milano cercano di recuperare elementi distintivi come i velluti, l'oro e il rame, ma anche la carta da parati e gli allestimenti con piante imponenti come le felci”. È il caso di Cordiale, cocktail bar di Caravaggio, in provincia di Bergamo, ma soprattutto di Retrobottega di Treviglio, “uno dei progetti che più ci ha fatto crescere, e che ci ha dato maggiori soddisfazioni”. Una caffetteria, ma anche gastronomia e ristorante, ancora un format eclettico in grado di rispondere alle diverse esigenze a tutte le ore del giorno, dalla mattina alla sera, dal caffè all'aperitivo. “La formula è particolare e poliedrica, per cui abbiamo cercato di rendere anche l'atmosfera unica nel suo genere, ricorrendo a un linguaggio più retrò rivisitato in chiave contemporanea”. Ovvero? “Ci sono elementi moderni, come le bottigliere, e poi colori chiari e brillanti, l'oro e il bianco, e una pavimentazione optical bianca e nera. C'è tanto oro, specialmente sulle lampade d'epoca, ma c'è anche molto color petrolio, che caratterizza gli effetti in velluto”.

 

Retrobottega

Type: riadattare le mode

Si torna al passato, dunque, ma le tendenze così largamente diffuse negli ultimi anni, soprattutto quelle provenienti dai paesi nordeuropei, che hanno imposto uno stile minimal ed essenziale, tutto legni naturali e materiali di recupero, linee pulite e volumi netti, sono dure a morire. “Non è un genere che ci appartiene, e non abbiamo intenzione di cambiare approccio”. Gli stili, però, possono essere riadattati e modellati a seconda del proprio gusto, senza snaturarne l'identità, ma smussandone gli angoli e livellandone caratteristiche e dettagli in maniera armonica. Come i due soci hanno fatto con Type, per esempio, caffetteria e cocktail bar nel quartiere Isola di Milano. “Le proprietarie hanno voluto creare per loro e per i propri clienti un luogo pulito nelle forme e allo stesso tempo caldo e accogliente. Un locale che si basa sull'idea della tipografia, sulle lettere, sui significati dell'artigianalità e della finezza delle cose fatte a mano. Di ispirazione hipster, dunque, ma non solo”. L'ambiente è infatti il risultato di una serie di contaminazioni diverse, dall'eleganza del legno d'abete alle linee più rigide in ferro laccato: “L'identità del posto è ben definita grazie soprattutto alle pareti personalizzate con le scritte dei writers. L'idea di allestimento si avvicina al gusto berlinese nei colori e nelle finiture scelte volutamente in una palette di grigi cromatici”, ma ci sono anche i toni più caldi del marrone e delle ceramiche. Fondamentale, qui, è l'acustica: “Si tratta di una sorta di 'scatola dentro la scatola', un ambiente completamente insonorizzato grazie ai pannelli fonoassorbenti usati per abbassare il riverbero del suono stesso”.

Gli altri lavori

Altri esempi di lavori significativi? Fresco frutta e gelato a Milano,“una piccola gelateria di 30 mq, una struttura allestita in sole 60 ore, che può essere smontata in qualsiasi momento”. Ferro e pannelli coibentanti sostengono lo scheletro della gelateria dalle linee asciutte e lineari, colorata solo nelle parti della grafica con un chiaro riferimento allo stile e ai colori vintage anni '60. “Il principio base del laboratorio è la naturalità degli ingredienti, per cui abbiamo cercato di mantenere la massima pulizia anche nella forma. Abbiamo realizzato, poi, anche un altro format targato Fresco all'interno di un outlet, uno spazio che necessita di soluzioni pratiche e funzionali come quella del laboratorio”.

 

Fresco

Attualmente, invece, il team di Margstudio, composto dai due fondatori “più qualche collaboratore esterno e interno”, sta lavorando a una birreria che aprirà presto i battenti a Lodi, “un locale piccolo in cui mescoleremo diversi stili, a cominciare da quello più classico delle birrerie rustiche di una volta, che sarà impreziosito dal bancone in cemento e dagli arredi color rame. Per dare un tocco vintage all'insieme, poi, le tinte del verde petrolio, colore che utilizziamo spesso nei nostri progetti”. E poi un nuovo locale nella zona del basso bergamasco, “uno spazio molto grafico e d'antan, con felci e bottigliere color nero e oro”.

Margstudio | Milano | viale Bligny | tel. 331 3934080 – 339 4727165 | www.margstudio.info/

a cura di Michela Becchi

Architetti di ristoranti. Lo studio Salefino di Agrigento

Architetti di ristoranti. Lo studioAutoban di Istanbul

Architetti di ristoranti. Lo studio Vudafieri Saverino Partners di Milano

Architetti di ristoranti. Lo studio Q-Bic di Firenze

Architetti di ristoranti. Lo studio Leonardo Project di Montesilvano

Chiude a Bologna il salumificio Pasquini&Brusiani. La fine di un'era per la mortadella artigianale

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Il patron Ennio Pasquini, storico maestro salumiere, era scomparso l'aprile scorso, lasciando un grande vuoto tra gli addetti ai lavori e gli appassionati del genere. Ma il laboratorio bottega rilevato nel 1958, in via delle Tofane, aveva continuato a vendere le celebri mortadelle Pasquini. Ora il cartello di cessata attività. Tra pochi giorni si chiude. 

L'addio a Ennio Pasquini

La primavera scorsa, era il 19 aprile, la scomparsa di Ennio Pasquini lasciava un grande vuoto tra le compagini della tradizione gastronomica artigiana di Bologna. Il patron e fondatore del salumificio di via delle Tofane, classe 1934, era diventato un'istituzione in città, punto di riferimento per chi, nel capoluogo emiliano, volesse trovare a colpo sicuro una mortadella degna di rappresentare la sua categoria. Allora lo ricordavamo con Daniele Minarelli, chef dell'Osteria Bottega e affezionato cliente della bottega Pasquini&Brusiani. Il patron del ristorante di via Santa Caterina, interrogato sul proprio produttore di riferimento in città (per la nostra rubrica I consigli dell'oste) non aveva avuto dubbi: per la mortadella di Pasquini, impossibile non togliere il cappello. Del maestro salumiere ricordava con affetto la sua indole burbera, l'integrità e l'attitudine al lavoro. Lui, Ennio Pasquini, per una vita si era mosso nel suo laboratorio per confezionare una mortadella d'autore, con tutta la sapienza del mestiere artigiano: spalla, gola (da cui si ricava il lardello), trippino, rifilatura del prosciutto e della pancetta di suini italiani. Sale, aglio e spezie dosati a dovere. L'attività, come testimonia l'insegna, era iniziata insieme al suoceroRoberto Brusiani, maestro salumiere anche lui. E poi, per oltre 50 anni (dal 1958), si era protratta nel tempo, diversificando l'offerta – tra coppa di testa, salame rosa e zamponi – senza mai forzare il ritmo delle cose (circa 20 quintali di mortadella a settimana, a pieno regime): difficile accaparrarsi una mortadella Pasquini senza un ordine prenotato per tempo.

 

Gli ultimi giorni della mortadella Pasquini

Un mito legato alla storia gastronomica di Bologna, dunque, perpetuato dalla bottega di via delle Tofane. Almeno fino a oggi. Da un paio di giorni, infatti, la notizia dell'imminente chiusura del salumificio Pasquini non ha tardato a diffondersi. Tutto è iniziato dal cartello di cessione attività affisso in bottega dagli eredi di Ennio. Poche parole di commiato a commentare la decisione sofferta: “Desideriamo salutare e ringraziare tutti i clienti e gli amici che hanno apprezzato la Mortadella di Bologna, il Salame rosa e gli altri salumi del maestro artigiano Ennio Pasquini”. Carla Pasquini, la figlia di Ennio, affida poche, laconiche, parole in più al Resto del Carlino: “I motivi sono tanti, non si riusciva più ad andare avanti, abbiamo deciso: ormai si chiude. È una cosa dolorosa, stiamo qui ancora 5-6 giorni e poi basta. Meglio un taglio netto”. Decisione presa a titolo definitivo, quindi, e con effetto immediato. Tempo di finire le ultime scorte, qualche salame, le ultime mortadelle da un chilo. Ora, per la mortadella bolognese, è davvero la fine di un'epoca.  

La cucina della Svezia e i sapori della Dalarna interpretati a Roma da tre Top Chef svedesi

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All'Ambasciata di Svezia di Roma una cena per raccontare un territorio ancora poco conosciuto, ma dalle grandi potenzialità. La serata, promossa dallo chef Gorgen Tidén, ha presentato agli ospiti i prodotti tipici della Dalarna, regione ricca di materie prime, dalle carni di renna al pesce di lago. Ecco come le hanno interpretate gli chef. 

Conoscere la Dalarna

La Dalarna, due ore e mezzo di treno da Stoccolma, è una regione della Svezia grande come la Sicilia ma con quasi lo stesso numero di abitanti che conta Catania.

Situata al centro della Penisola Scandinava, la Dalecarlia (questa la traduzione in italiano dell'area, conosciuta per la tradizione universitaria del capoluogo Falun e per una celebre miniera di rame patrimonio Unesco), può fare affidamento su una grande varietà di materie prime quando si tratta di cucina e, quindi, di interpretazioni culinarie. I piatti tipici della regione sono realizzati con pesce di lago o fiume, carni fresche, affumicate o salate di renna, alce e orso. Poi i frutti, come i particolarissimi mirtilli rossi, e, infine, l'uso dei licheni e di tutti i sapori tipici dei boschi presenti sulla quasi totalità del territorio. Non manca la cacciagione con quaglie e anatre. E poi aneto, gamberi, finferli, gemme di abete e polvere di betulla.

In pochi sanno che il Dalahästar, il celebre cavallino rosso di legno ormai divenuto simbolo della Svezia, sia nato proprio in questi luoghi e rappresenti solo la punta dell'iceberg che riguarda una fiorente attività di artigianato. Non a caso, tra i prodotti tipici si trovano dei coltelli pensati e realizzati proprio per l'intaglio del legno e poi sviluppati nel corso del tempo per le attività di caccia e per la cucina (i famosi coltelli Mora, rigorosamente fatti a mano).

 

La Chefs' Night a Roma

Ospitato da Robert Rydberg, Ambasciatore di Svezia in Italia, l’evento è stato promosso dallo chef Görgen Tidén, insieme con i suoi colleghi Douglas Fagerman Fredrik Hedlund, e con la partecipazione di Giuliana Rosset e Marco Bonvicini del ristorante Björk Swedish Brasserie di Milano.

Per me è molto importante conoscere il luogo esatto in cui vengono coltivate le materie prime e dove vengono allevati gli animali e anche stabilire un rapporto personale con l'agricoltore e l'allevatore, in modo da creare una collaborazione che sia fruttuosa per entrambe le parti” spiega Görgen Tidén, masterchef e ideatore di Chefs’ Night, la serata culinaria nata dall’amore in comune per la cucina basata sui prodotti locali. Già nel 2009 è stato realizzato il primo di molti eventi Chefs’ Night in Svezia e per ben tre volte è stato portato fino a St. Marten nei Caraibi.

È con particolare piacere che presentiamo qui a Roma tre 'masterchef' svedesi e la loro cucina incredibile” ha detto l’Ambasciatore Rydberg “la Svezia è un Paese con una ricca varietà gastronomica e con sorprendenti prodotti locali. Proprio come in Italia, la cui tradizione culinaria è famosa in tutto il mondo, apprezziamo l’importanza e l’unicità di tali prodotti”.

 

Il menu. Dal cuore di alce all'arrosto di renna

Per gli ospiti della serata, un assaggio di questa grande varietà, sin dall'aperitivo nel giardino della Residenza, in piazza Rio de Janeiro: dal cuore di alce affumicato a caldo con crema di radice di prezzemolo, gemme di abete e finferli fritti alla crema di formaggio “Gullan” di Hansjö con tartufo di Gotland e burro dorato, alla tartare di manzo servita con crema di funghi porcini e cipolle in agrodolce. Dal menu di sei portate, servito in tavola nel salone dei ricevimenti, Salmone di Österdalälven scottato con aneto essiccato agrodolce, topinambur fritto e maionese affumicata, Funghi porcini del bosco cotti al forno serviti con uova di quaglia e anatra arrostita, Arrosto di renna speziato di Jillie servito con sanguinaccio croccante fatto in casa, mirtilli rossi, finferli e licheni fritti. E dessert giocato sui sapori del bosco a chiudere la serata, con le more di rovo in arrivo da Malung servite in accompagnamento al budino di gemme di abete e polvere di betulla.

 

a cura di Saverio De Luca

Anteprima vini: Bordeaux 2016. L'arte dell'attesa

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Un'annata eccezionale, nel vero senso della parola: per la particolarità degli eventi climatici e per gli inaspettati risultati che, grazie alla capacità di prevenire e di attendere, senza forzati interventismi, regalano un bellissimo millesimo ai vigneron di Bordeaux. I nostri assaggi en primeur.

L'annata 2016: caldo, tempeste e siccità

Il 2016 è senza dubbio un’annata da riva sinistra, ma le eccezioni ci sono, e le abbiamo anche trovate… Cominciamo, però, facendo un passo indietro: novembre e dicembre 2015 sono stati, dopo quelli del 1920, i mesi invernali più caldi mai registrati. Poi, a partire da gennaio 2016 (e durante i successivi 6 mesi), la zona del Bordeaux ha subito una sfilata di numerose depressioni oceaniche e tempeste. Così i vigneti, in piena crescita, hanno dovuto far fronte a una alternanza caldo-freddo fino alla fine del mese di giugno.

I suoli hanno accumulato molte riserve d’acqua e nessuno poteva prevedere che proprio quelle riserve sarebbero state fondamentali per affrontare la siccità prolungata che ha accompagnato la stagione fino alla vendemmia.

Sempre in una condizione di secco assoluto, il periodo dal 21 agosto al 13 settembre è stato molto caldo, quasi tutti i giorni al di sopra dei 30 gradi. La vigna, molto resistente, ha continuato la sua evoluzione e l’invaiatura – iniziata ai primi di agosto – è stata piuttosto precoce e omogenea. A settembre, i vigneti hanno cominciato a mostrare dei segni di debolezza. Nelle ore più calde le foglie si attorcigliavano come per proteggersi dall'eccesso di sole. Durante le notti, un po’ più fresche, la vigna ritrovava un po’ di respiro. Poi, nella notte del 13 settembre, quasi inaspettata, arriva la tanto attesa pioggia: ben 30 millimetri, sufficiente a riequilibrare la sofferta siccità. Troppo tardi, troppo presto o nel momento giusto? Poco importa, finalmente i suoli e la vigna hanno assorbito l’acqua e superato lo stress.

Chateau_Pape_ClementChateau Pape Clement

Vendemmia e vinificazioni

Le bucce degli acini si sono intenerite, i tannini affinati. Gli acini hanno preso un gusto di frutta matura. La vendemmia è partita regolare a inizio settembre per i primi sauvignon bianchi e grigi. I primi rossi sono stati raccolti sui suoli caldi delle grave di Pomerol e Pessac-Léognan all’incirca il 10 settembre. Le vinificazioni sono andate regolari e lineari senza la necessità di eccessivo interventismo: cosa niente affatto semplice per i produttori già in preda all'ansia per la stagione in bilico fino a poco prima.

Il colore, il gusto, la struttura tannica: tutto si è svolto nella maniera migliore e ha offerto a Bordeaux un millesimo 2016 del quale certamente parleremo ancora per un bel po'.

 

I top 10

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L'ECCEZIONE


Chateau La Conseillante

Il più incredibile La Conseillante dell’epoca moderna. Il naso di un’incredibile purezza aromatica, sulle note di more e lampone ma anche di note più floreali al naso. I tannini in bocca di grande finezza danno al vino molta energia e di lunghezza. Un grande vino!

Pomerol | 80% merlot – 20% cabernet franc

 

LO STILE

Chateau Pape Clément

Intenso al naso con note di cassis, more e prugne, intervallati a delle note più speziate. La bocca è sempre densa e cremosa ma la freschezza dona all’insieme molta lunghezza. Sempre al top!

Pessac-Léognan | 50% merlot – 50% cabernet sauvignon

 

L'ASSOLUTO
Chateau Pontet Canet

La proporzione di cabernet sauvignon è sensibilmente più debole delle altre annate perché gli acini sono tutti molto piccoli. Il naso è una mescolanza di prugna e di cassis con una nota di menta fresca e di note minerali e gessose. Molta finezza ed eleganza in bocca. Il cuore è denso e potente ma senza eccessi. Una grande classe!

Pauillac | 60% cabernet sauvignon – 39% merlot – 1% petit verdot

 

L'INTROVERSO

Chateau Pichon Longueville Baron

Bouquet intenso di more, di mirtilli e di note più minerali come la grafite. La bocca è densa, potente, compatta ma senza dubbio di un grande livello qualitativo. Il finale è leggermente chiuso ma l’affinamento lo farà evolvere senza problemi.

Pauillac | 85% cabernet sauvignon – 15% merlot

 

IL TALENTO
Château Mouton Rothschild

Vino di una grande densità in bocca che dona al calice molta potenza e profondità. Grande precisione aromatica al naso sulle note di cassis, di violetta e accenti anche pietrosi. Gran terroir e grande vino.

Pauillac | 83% cabernet sauvignon - 15% merlot - 1% petit verdot - 1% cabernet franc

 

LA PROMESSA
Château Léoville Las Cases

Sulle note di ciliegie nere, di violette e di liquirizia: Las Cases offre sempre uno stile assolutamente classico. Di un’incredibile finezza di tannini senza eccesso di concentrazione. La freschezza dona all’insieme la lunghezza e un enorme potenziale.

Saint-Julien | 75% cabernet sauvignon - 14% merlot - 11% cabernet franc

 

LA TIPICITA'
Château Léoville Poyferré

Molto aromatico con note di cassis, di ciliegie nere, di prugne. Opulento e denso in bocca, Lèoville Poyferré ci offre una trama tannica vellutata e cremosa. Il finale è lungo, e ci lascia note di grafite.

Saint-Julien |60% cabernet sauvignon - 33% merlot - 5% petit verdot - 2% cabernet franc

 

LA FINEZZA

Château Cos d’Estournel

Conosciuto per essere sovente straordinario, Cos d’Estournel 2016 è sicuramente più classico. Con meno note di confetture rispetto al passato, ci offre una larga palette aromatica di frutti neri ma anche di note minerali e floreali. Di grande classe in bocca nello stesso tempo, denso ma senza alcuna aggressività. Grande Cos!

Saint-Estèphe | 76% cabernet sauvignon - 23% merlot - 1% cabernet franc

 

L’OUTSIDER
Château Pavie Maquin

Tipico del plateau calcareo di Saint-Emilion, il naso e la bocca esprimono la tipicità molto minerale del suo territorio. Su delle note di piccoli frutti rossi, di tabacco biondo con una nota vanigliata al naso; la bocca è setosa, densa e dotata di una freschezza che dona un assemblaggio vibrante.

Saint-Emilion | 82% merlot - 16% cabernet franc - 2% cabernet sauvignon

 

IL TERROIR
Clos Fourtet

Senza eccessi, senza pesantezza, il 2016 possiede una struttura tannica ultra fine nonostante la bella concentrazione. L’assemblaggio è di una grande eleganza e di grande persistenza in bocca, il finale è marcato da note gessose tipiche di questo grande terroir.

Saint-Emilion | 90% merlot - 8% cabernet sauvignon - 2% cabernet franc

 

Le 10 conferme

 

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Château Figeac

Un gran Figeac! Sublime texture nello stesso tempo setoso e ricco di finezza. La palette aromatica è ricca tra le note di frutti rossi, di cassis ma anche di note di sottobosco, di spezie, di mina di matita. Il finale è lungo su note saline che donano molto gusto a questo vino

Saint-Emilion | 38% cabernet sauvignon - 36% merlot - 26% cabernet franc

 

Château Lynch Bages

Potente, ricco e concentrato in bocca con note di confettura di more e di crema di cassis. L’equilibro di questo vino è dato dalla bella freschezza che costituisce la spina dorsale dell’assemblaggio e gli assicura potenza e un avvenire promettente.

Pauillac | 75% cabernet sauvignon - 19% merlot - 4% cabernet franc - 2% petit verdot

 

Château Pichon Longueville Comtesse de Lalande

Pichon Comtesse è sempre marcato dalla finezza e delicatezza dei suoi tannini ma questa annata offre più materia in bocca, la tessitura è più untuosa e più cremosa rispetto al passato. Mantiene la sua personalità, ma ha la stoffa e si innalza tra i migliori di Pauillac.

Pauillac | 75% cabernet sauvignon - 21% merlot - 4% cabernet franc

 

Château Haut Bailly

Il 2016 ci offre uno stile classico senza esuberanza. Con note di cassis, di ciliegie nere ma anche di sfumature legnose discrete al naso. La bocca rileva una tessitura molto setosa e tannini ultra fini.

Pessac-Léognan | 53% cabernet sauvignon - 40% merlot - 4% petit verdot - 3% cabernet franc


Château Marquis de Terme

Sempre in costante progressione da 10 anni, questo cru offre un 2016 molto definito con note di cassis, di lampone e di violetta. La trama tannica ci offre più finezza che nel 2015, sempre con una bella concentrazione e una bella acidità. L’assemblaggio genera certamente uno dei migliori vini di Margaux.

Margaux | 60% cabernet sauvignon - 35% merlot - 5% petit verdot

 

Château d’Alesme Becker

In uno stile marcatamente moderno, Marquis d’Alesme ritrova il suo posto dopo numerosi millesimi. Denso, potente in bocca, ci offre una grande palette aromatica con note fruttate e floreali ma anche qualche sfumatura di sottobosco e minerale

Margaux | 62% cabernet sauvignon - 30% merlot - 5% petit verdot - 3% cabernet franc

 

Château L’Enclos Tourmaline

Questo “piccolo cru” costituito da 3 parcelle d’eccezione situate in mezzo ai più grandi di Pomerol ci offre un vino denso con una trama tannica finemente chiusa. Un’esplosione di frutti neri e violetta al naso. Ha scosso il protocollo e la storia dell’appellazione di Pomerol da ormai parecchi anni.

Pomerol | 100% merlot

 

Clos Saint Martin

1 ettaro e 33, ovvero il più piccolo dei Grandi Cru Classée di Saint Emilion. A strapiombo su l’Angelus, Clos Saint Martin è un vigneto tenuto come una bomboniera. Di grande purezza aromatica al naso con note di uva spina, lampone, ha tessitura tannica di gran finezza e offre un’enorme concentrazione. La freschezza dona lunghezza al tutto. Un cru protetto nel cuore del villaggio.

Saint-Emilion | 80% merlot - 20% cabernet franc

 

Château Phélan Ségur

Di una regolarità esemplare da parecchi anni, Phélan Ségur offre un bouquet complesso di cassis, di fiori secchi, di menta fresca. La bocca è molto classica, senza esuberanze ma sempre molto precisa, molto dritta e senza austerità.

Saint-Estèphe | 55% cabernet sauvignon - 45% merlot

 

Château Lafon Rochet

In uno stile più equilibrato rispetto al 2015, il vino ci regala note di frutti neri, mentolo e grafite. La bocca è molto elegante senza pesantezza, senza eccessi e l’equilibrio è perfettamente centrato.

Saint-Estèphe | 67% cabernet sauvignon - 25% merlot - 2% petit verdot - 6% cabernet franc

 

Le 10 sfide

 

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Château Tour Saint Christophe

Proprietà situata sul plateau argillo-calcareo di Saint-Emilion, ha iniziato la sua metamorfosi da qualche anno. Oggi non classificato, fa parte dei concorrenti per prendere il Classement di Saint-Emilion che ha luogo ogni 10 anni (il prossimo sarà nel 2022). Il naso è un’esplosione di frutti neri: ciliegie, more. La bocca è densa e cremosa. È assolutamente un grande vino.

Saint-Emilion | 80% merlot – 20% cabernet franc

 

Clos du Clocher |

Situato sul plateau di Pomerol tra Trotanoy e La Fleur Pétrus, il Clos du Clocher fa di nuovo parlare di sé. I merlot apportano all’assemblaggio le note di frutti neri, floreali e minerali e il cabernet franc apporta finezza e energia.

Pomerol | 80% merlot – 20% cabernet franc

 

Château Grand Mayne

Localizzato sulla costa, versante ovest del villaggio, Grand Mayne Grand Cru Classé di Saint-Emilion ha la stoffa di un premier cru. Ciliegie nere e lamponi, intermezzati da note gessose al naso. La bocca è densa, soave. La trama tannica è finemente chiusa con sempre molta classe.

Saint-Emilion | 75% merlot – 20% cabernet franc - 5% cabernet sauvignon

 

Château Villemaurine

Situato nel cuore del plateau calcareo di Saint-Emilion, Villemaurine è di una qualità costante. Sulle note di frutti rossi senza eccesso di maturazione, la trama tannica è tenera, di una bella finezza. Si ritrovano nel finale delle note mentolate.

Saint-Emilion | 80% merlot - 20%cabernet franc

 

Château Labegorce

Situato nel cuore di Margaux, questo cru produce un vino di puro piacere: note di violetta, mirtillo con note più speziate e grigliate al naso. La bocca è rotonda, soave e gustosa.

Margaux | 52% merlot - 38% cabernet sauvignon - 6% cabernet franc - 4% petit verdot

 

Château Pédesclaux

La proprietà, situata non lontano da Pontet Canet, ha subìto una metamorfosi da qualche anno. Il vino è sempre più preciso col passare degli anni: il naso è complesso con cassis, e note vanigliate e torrefatte. La bocca è densa, abbastanza tannica e di una bella lunghezza.

Pauillac | 48% cabernet sauvignon - 45% merlot - 4% petit verdot - 3% cabernet franc

 

Château Saint Pierre

Nel cuore di Saint Julien, non lontano d Gruaud Larose, questo vino è un'espressione molto bella di cabernet sauvignon con note di cassis, liquirizia e grafite. La bocca è ancora abbastanza chiusa, ma di una buona concentrazione che si addomesticherà con il tempo.

Saint Julien | 73% cabernet sauvignon - 21% merlot - 6% cabernet franc

 

Château Clerc Millon

Vicino di Lafite Rothschild, la proprietà produce dei vini di grande purezza e di bella finezza. Il naso esprime degli aromi di ribes, lampone, sostenuti da note di mentolo e di sottobosco. La trama tannica è fine, morbida e di una bella freschezza.

Pauillac | 55% cabernet sauvignon - 29% merlot - 2% petit verdot - 13% cabernet franc - 1% carmenère

 

Château Meyney

Situata lungo l’estuario della Gironda vicino a Montrose, la proprietà produce un vino di gran classe. Gli aromi di cassis e confettura di more sono sostenuti da note grigliate al naso. In bocca è un vino denso, compatto, che necessita di un po’ di tempo. È costruito per durare negli anni.

Saint-Estèphe | 60% cabernet sauvignon - 25% merlot - 15% petit verdot

 

Château Carbonnieux

2016 è un millesimo solare e secco, ideale per la proprietà. Espressivo su note di frutti neri, di sottobosco e di spezie, è un vino dalla bocca fine. La tessitura tannica è raffinata e elegante e ha una bella lunghezza in bocca.

Pessac-Léognan | 50% merlot - 44% cabernet sauvignon - 4% petit verdot - 2% cabernet franc

 

Le 10 scommesse

 

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Château Fonbadet

Questa proprietà di Pauillac possiede un vigneto che si trova tra Pontet Canet e Pichon Comtesse. Il 2016 dona un vino molto aromatico con note più minerali, insieme al cassis. In bocca la texture è ultra morbida e fine con una lunga chiusura sulle note di lampone e fiori secchi.

Pauillac | 67% cabernet sauvignon - 25% merlot - 5% petit verdot - 3% cabernet franc

 

Château Laroque

Una delle più grandi proprietà di Saint-Emilion, localizzata sul plateau argillo-calcareo. Da due anni dà buoni risultati. Il naso del 2016 è un mix di frutti rossi: lamponi, more con un tocco di mentolo. La bocca è ben definita con una concentrazione media ma un bell'equilibrio tra acidità e ricchezza del vino.

Saint-Emilion | 87% merlot - 11% cabernet franc - 2% cabernet sauvignon

 

Château Corbin

Prodotto a nord di Saint-Emilion su un suolo sabbioso-grave, Corbin 2016 offre un naso molto delicato di frutti rossi. La trama tannica è fine, elegante, anche se il vino risulta un po’ chiuso in finale perché l’acidità ha la tendenza a fermare l’insieme. Questo dona un vino carino, molto seducente. E promettente!

Saint-Emilion | 89% merlot - 11% cabernet franc

 

Château Gazin Rocquencourt

Situata a Léognan non lontano da Domaine de Chevalier, la proprietà appartiene alla famiglia Bonnie, che possiede anche Malartic Lagravière. Per ora meno conosciuto rispetto al fratello maggiore, Gazin Rocquencourt produce un vino ultra seducente, pieno di frutta e note calcaree sostenute da aromi vanigliati e grigliati. La bocca è soave e vellutata. Un piacere!

Pessac Léognan | 55% merlot - 40% cabernet sauvignon - 5% cabernet franc

 

Château de Chambrun

Questa appellation vicina a Pomerol è un po’ nell’ombra, ma alcune proprietà come Chambrun meritano uno sguardo. Situata su un plateau di graves, Chambrun produce un vino denso e potente su note di ciliegie e mirtilli con un tocco di cedro e pane grigliato. La bocca è densa e cremosa. Abbastanza opulento ma senza pesantezza perché l’acidità dona lunghezza nell’assemblaggio.

Lalande de Pomerol | 69% merlot - 25% cabernet franc - 6% cabernet sauvignon

 

Château Sociendo Mallet

La proprietà è situata a nord di Saint-Estèphe, su un plateau di graves di fronte alla Riviera, degna dei più grandi terroirs del Médoc. Il vino è molto aromatico con note floreali e mentolate. La bocca è ultra elegante, i tannini sono fini ma chiusi. E vanta una bella freschezza dall’inizio alla fine della bocca.

Haut-Médoc | 50% merlot - 45% cabernet sauvignon - 5% cabernet franc

 

Château Siran

Questi terreni e queste vigne, vicini a Château Dauzac, danno vita a un 2016 brillante. Il naso è un’esplosione di frutti, in bocca la trama tannica è morbida e setosa. Di una media concentrazione e con una bella lunghezza in bocca.

Margaux | 46% cabernet sauvignon - 44% merlot - 9% petit verdot - 1% cabernet franc

 

Château Belgrave

Il 2016 ci regala una bella espressione di cabernet sauvignon. Molto aromatico al naso: cassis, rosa, minerale. In bocca la trama tannica è chiusa, ma dona carattere a questo campione dell'Haut-Médoc.

Haut-Médoc | 69% cabernet sauvignon - 28% merlot - 3% petit verdot

 

Château La Pointe

Annata molto interessante: al naso si percepiscono ciliegie nere, prugne ma anche delle note di sottobosco. La bocca è soave e delicata sostenuta dalla freschezza che gli sona il nerbo acido. Un bel Pomerol da conservare.

Pomerol | 83% merlot - 17% cabernet franc

 

Château Les Carmes Haut Brion

Atipico nell’appellation Pessac Léognan, ma interessante da seguire. Les Carmes Haut Brion sono, come il nome indica, non molto lontano dalla star dell’appellation. Nel 2016 c’è una proporzione molto forte di cabernet franc, che dona un vino sulle note molto floreali di petali di rosa, di piccoli frutti rossi. La bocca è ultra fine e delicata, nessuna pesantezza, nessun eccesso. Vedremo come saprà evolvere.

Pessac-Léognan | 41% cabernet franc - 20% cabernet sauvignon - 39% merlot

 

a cura di Costantino Gabardi

Il nuovo (vecchio) mensile del Gambero Rosso. Cosa c'è sul numero di novembre 2017

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Una lunga storia da valorizzare alle spalle, tanta voglia di ripartire da nuove idee all'orizzonte. Ecco come cambia il magazine del Gambero Rosso, dopo 25 anni di onorata carriera. E tutte le anticipazioni sul nuovo numero già in edicola.   

Il nuovo (vecchio) Gambero Rosso

Da qualche giorno, in edicola, trovate il numero di novembre 2017 del mensile del Gambero Rosso. Perché è importante sottolinearlo, dopo 25 anni di puntuali uscite mensili? Perché il magazine che vi accingete a sfogliare è l'esordio tangibile di quello che ci piace chiamare “il nuovo (vecchio) Gambero Rosso”, come sottolinea con una felice espressione il vicedirettore Laura Mantovano nell'editoriale di apertura. 176 pagine, 45 contributor (molti all'esordio), 8 tra fotografi e illustratori per raccontare il nostro punto di vista sull'editoria gastronomica (ma abbiamo chiesto anche agli altri, personalità importanti del mondo dell'enogastronomia, come dovrebbe essere oggi un giornale di carta). Si ricomincia dal passato, una storia pesante e preziosissima, con il recupero della testata disegnata per il primo numero del mensile, nel febbraio di 25 anni fa. E poi si guarda avanti, dalla prima all'ultima pagina, a partire dalla copertina che lancia un interrogativo – il primo di una lunga serie di domande che vogliono invitare il lettore a mettersi in gioco in prima persona – introducendo alla dimensione complessa dell'enologia nazionale, con lo speciale dedicato ai premiati della guida Vini d'Italia 2018, cuore del numero di novembre. I protagonisti, le vicende, i prodotti, le insegne del nuovo (vecchio) Gambero Rosso sono quelli che da sempre ci piace indagare per fare luce sul mondo dell'enogastronomia italiana e internazionale, producendo nuovi contenuti, delineando tendenze che si affacciano all'orizzonte, divertendo e catturando la curiosità del lettore, da un punto di vista critico e autorevole. Senza paura di metterci la faccia. Ed è proprio dalla voglia di condividere - mettendo a sistema un bel laboratorio di idee e spunti curiosi con la complicità di una grafica fresca, pulita, colorata - che nasce il nuovo (vecchio) Gambero Rosso.

 

Novembre 2017. Gli highlight

Cosa troverete, quindi, nel numero di novembre? Certamente l'Italia del vino. Un'Italia che sta bene e sa raccontare la specificità del territorio, riscuotendo successo in ambito nazionale e all'estero. L'Italia dei Tre Bicchieri: 436 etichette che tengono alta la bandiera del vino italiano. Con i numeri della guida, il racconto di Marco Sabellico e la Lezione in 4 calici di Eleonora Guerrini, le illustrazioni di Maurizio Ceccato; i premi speciali dell'anno e le storie delle cantine eccellenti. Ma la bandiera dell'orgoglio tricolore sventola alta anche nei ristoranti italiani nel mondo recensiti nella guida digitale Top Italian Restaurants, all'esordio tra i progetti del Gambero Rosso. Sul mensile ce la racconta il curatore Lorenzo Ruggeri, in un viaggio intorno al mondo che rintraccia le coordinate del saper fare italiano da Tokyo a Parigi, a Hong Kong. Ma una (buona) parola ce la mette anche Niko Romito, con la Top 5 dei piatti che non possono mancare in un ristorante tricolore all'estero. Si torna in Italia con le ricette di Gianluca Gorini (le parole di Stefano Polacchi e le foto di Lido Vannucchi): il giovane chef romagnolo ha appena intrapreso la prima avventura in solitaria, a San Piero in Bagno di Romagna. Siamo andati a trovarlo, abbiamo raccolto le suggestioni della sua tavola. E poi c'è Bergamo. C'è anche Bergamo! per dirla con il titolo di apertura della storia che firma Gualtiero Spotti, che si muove tra le più interessanti tavole della città e della provincia orobica. E Torino, che apre la nostra serie di miniguide cittadine con tutti gli indirizzi giusti (e la mappa) per scoprire il buono della città, novità comprese. Se invece preferite l'etnico, Que viva Ceviche è il racconto di Maurizio Bertera sulla cucina peruviana in Italia, con tanto di glossario “incompleto” delle cucine peruviane ricostruito sulla variegatissima mappa gastronomica del Perù.

 

Un magazine ricco di spunti, dove c'è sempre posto per le nostre Classifiche e un notiziario di nuova impostazione grafica (come tutto del resto), con le brevi dall'Italia e dal mondo, la rubrica sui libri da non perdere, le nuove aperture da appuntare. Buona lettura e soprattutto diteci cosa ne pensate.  

 

Il numero di novembre 2017 del Gambero Rosso: le informazioni utili

 

a cura di Livia Montagnoli

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