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Fermentazione. Conversazione con il guru americano Sandor Ellix Katz

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Si chiama Sandor Ellix Katz e negli Stai Uniti è considerato il maestro indiscusso delle fermentazioni. Lo abbiamo incontrato per una due giorni in Toscana per parlare di kombutcha, kefir, yogurt, pasta madre. Ecco cosa ci ha spiegato

L’attività batterica per millenni è stata vista come la mano di Dio sulla terra. Una bacchetta magica invisibile, che fa diventare l’uva vino, l’orzo birra: una magia che fa durare il cibo tutto l’inverno in posti in cui è impossibile avere coltivazioni nei lunghi mesi troppo freddi e che fa gonfiare l’impasto di acqua e farina per il pane. Poi è arrivato Pasteur e ha tolto la maschera ai batteri: sono apparsi i tanti microorganismi che si divertivano a fare giochi alchemici. Così è cominciata l’era della disinfezione, dell’igiene, delle selezioni batteriche, dei vaccini… ma oggi, dopo 150 di lotta ai batteri e di loro iper-selezione, siamo nel bel mezzo di una nuova rivoluzione: quella che inneggia al “selvaggio”.

Sandor_Ellix_KatzSandor Ellix Katz

Sandor Ellix Katz

Vogliamo vini fermentati dai lieviti (batteri) autoctoni e spontanei, birre il più naturali possibile, cibi (tra cui i formaggi) selvaggi. Per capirne qualcosa di più, abbiamo passato due giornate in Toscana con Sandor Ellix Katz, un maestro della fermentazione selvaggia di verdura e frutta. Il suo nome in Italia dice poco, anche perché i suoi tanti libri in inglese non sono stati ancora tradotti. Ma per il piccolo mondo dei fan dei cibi a fermentazione spontanea, Katz è una rock star: così lo definisce il New York Times, che ha dedicato un cortometraggio a questo signore che è un guru suo malgrado. Sono oltre 25 anni che Katz si occupa di fermentazioni ed è venuto in Italia per raccontare le sue esperienze presso la Komunità Errante Kefir guidata da Annalisa Nardi e Tomáš Jelinek: un workshop intensivo di due giorni per apprendere le regole della fermentazione fatta in casa e rendersi conto che di regole… non ce ne sono affatto.

Lui, newyorkese di famiglia ebrea, è una persona molto attiva politicamente e lavora nel campo della comunicazione. Quando scopre di avere l’HIV, decide di cambiare vita e si trasferisce in Tennessee, all’interno di questa comunità comincia ad appassionarsi ai fermenti. È il suo modo per combattere la malattia: una vita sana, un’alimentazione sana e gustosa che fa bene al corpo e allo spirito. “Per me la fermentazione è una questione soprattutto di gusto”sorride Sandor “Io credo ai medici e alla medicina tradizionale, così come a quella alternativa: punto a prendere il bello da tutto e non riesco a credere che ci sia un solo modo di pensare e di vivere. Il limite è solo il cielo: è il mio motto. E le mie ricette, i miei insegnamenti non sono dogmi: sono condivisione di esperienze, stimoli”. Probabilmente non c’è cibo fermentato commestibile sulla terra che lui non abbia assaggiato, ma non si dichiara un’autorità.

 

I benefici della fermentazione

Perché la fermentazione è una pratica che rende il cibo migliore? “Perché subisce una specie di pre-digestione da parte dei batteri: il corpo assorbe e digerisce con meno fatica questo tipo di cibo”spiega Sandor “E questo cibo è vivo e arricchisce la flora batterica nel nostro sistema digerente. Come la biodiversità è importante per l’equilibrio della terra, il microcosmo del nostro corpo sta meglio con una flora batterica ricca: il sistema immunitario ne trae beneficio”. Su questi temi esistono tanti studi e posizioni contrastanti. I più entusiasti sostengono che la flora batterica che vive nel nostro corpo influisca anche sullo stato d’animo, sulla psiche. Ma Sandor non si sbilancia: “Potrebbe aiutare la digestione, potrebbe aiutare il sistema immunitario, potrebbe aiutare a prevenire il cancro… Ma se avessi un tumore al cervello mi farei curare dai medici”. E precisa meglio: “Non credo che il cibo vivo ci faccia più belli o più giovani: se fosse vero non avrei i capelli così grigi a 55 anni!”

In tempi di confronto serrato con il passato e le tradizioni (in primis in gastronomia) c’è da dire che la fermentazione è la tecnica più antica di preservare il cibo. I nostri antenati delle caverne sapevano far fermentare il miele mischiandolo con l’acqua. E ci sono diversi antropologi che ritengono che il vero motivo per cui l’uomo passò dal nomadismo alla vita sedentaria non fu l’agricoltura, ma la volontà di fare bevande alcoliche, quindi il desiderio di avere un’altra dimensione della realtà. Se il cibo fermentato non è la birra, siamo comunque vicini. In un mondo, quello fino a poco meno di 200 anni fa, dove non ci sono frigoriferi, la fermentazione è di estrema importanza: serve a prolungare la disponibilità di cibo. In paesi con condizioni climatiche proibitive (Europa del Nord o Estremo Oriente) la fermentazione è una parte molto importante della tradizione culinaria. Non è un caso che proprio in questi paesi, ci siano le maggiori tradizioni legate alla fermentazione. L’esempio più classico è il latte: è un elemento facilmente degradabile, ma diventando yogurt, kefir, formaggio, allunga la sua vita da giorni ad anni.

Aceto di kiwiAceto di kiwi

La relazione uomo-batterio

Tutto – dalla terra alle verdure, dalle rocce al corpo umano – è colonizzato dai batteri; la colonia batterica che si trova nel posto giusto al momento giusto causa fermentazione gustose: l’uomo, valutandone il risultato, influenza l’ambiente e lo modifica per avere il giusto habitat per i microorganismi “positivi” che tramanda di generazione in generazione. Nasce così una “partnership” uomo-batterio di cui entrambi beneficiano: alcuni batteri (e funghi) si garantiscono un futuro, l’uomo si bea del gusto e delle proprietà benefiche del cibo lavorato dai batteri (anche se non se ne rende sempre e immediatamente conto).

 

Storie di resistenza alimentare

Oggi, mangiar bene è diventato anche una forma di resistenza all’omogeneizzazione che la globalizzazione per alcuni aspetti comporta. Katz, nel suo libro Fermentation will not be microwaved, parla dei movimenti underground americani che si oppongono a un sistema sanitario che tende a omologare, monopolizzare, distruggere tutto ciò che sia vicino al mondo dei batteri. Katz vede la pratica della fermentazione per il cibo come una forma di rivoluzione: la rivincita del piccolo gruppo e dell’individuo di fronte ai grandi. Ma si può davvero salvare il mondo (o promuoverne uno diverso) attraverso la fermentazione? Una volta Ken Loach disse, presentando un suo film: “L’arte non può cambiare il mondo, il mondo lo possiamo cambiare solo prendendo una posizione”. Ecco, nella filosofia di Katz, scegliere di fermentare è prendere una posizione: “La fermentazione”spiega “cuoce il cibo senza aver bisogno di nessuna fonte di energia, lo preserva e ne allunga la vita, quindi è un ottimo metodo per diminuire l’impatto ecologico di ogni singolo individuo sulla terra: se questa tendenza diventasse di massa, non è azzardato pensare che potrebbe far diminuire i numeri dei frigoriferi nei supermercati o nelle case, l’uso di gas e di piastre a induzione…”. Insomma, per quanto riguarda l’America, Katz si muove all’interno di una cultura underground del cibo, tendenzialmente illegale (o fuori da ogni circuito organizzato) ma buono e sano.

verdure fermentateVerdure fermentate

Dall'Oriente a casa nostra

Katz, in realtà, rimette i batteri al loro posto: in mezzo alla nostra vita, dove da sempre sono, sono stati e saranno. “Sono i nostri partner, i nostri amici del cuore”sorride “Quando gli forniamo l’ambiente giusto, ci accudiamo a vicenda”. E ne parla in termini umanizzati, ovvero dal nostro punto di vista di uomini: “La fermentazione è come una danza” si entusiasma “Il fungo Aspergillus orza, quello che crea il koji, lievito indispensabile dei fermenti orientali come la salsa di soia o il miso, mette in scena una vera e propria danza, con un suo ritmo e una sua coreografia: comincia con piccole bollicine effervescenti, si velocizza, matura, rallenta e alla fine si placa”. Ma al termine del gioco, il cibo è più facilmente assimilabile e vitamine e minerali diventano maggiormente biodisponibili. “In alcuni casi la fermentazione aggiunge anche valori nutrizionali, come per le vitamine B e K” dice Sandor “Ne è un bell’esempio il natto giapponese: soia fermentata dall’attività di una variante di Bacillus subtilis che si consuma quando è vicina alla putrefazione”. Ma non fa orrore? “Certamente non è una passeggiata affrontare il natto”sorride Sandor “Occorre un palato educato, ma è decisamente anche uno cibi più nutrienti e benefici del mondo e contiene un livello record di vitamina K proprio grazie alla fermentazione. Ci sono studi che dimostrano che grazie all’elevato contenuto di vitamina K, il natto non solo aiuta a prevenire l’osteoporosi, ma in alcuni casi la cura proprio”.

 

a cura di Elvan Uysal

 

Articolo uscito sul numero di settembre 2017 del Gambero Rosso. Per abbonarti clicca qui


Seu Pizza Illuminati. A Roma la nuova pizzeria di Pier Daniele Seu a inizio 2018

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Primo progetto in solitaria per il giovane pizzaiolo romano del Mercato Centrale, che insieme alla compagna diventa imprenditore di se stesso, con l'idea, ambiziosa, di proporre una pizza d'autore alla portata di tutti. Tra “classicismi”, cavalli di battaglia, menu degustazione. E cocktail. Zona Porta Portese. 

Pier Daniele Seu pensa in grande

Cinque vetrine su strada, 250 metri quadri all'interno, e un progetto tutto da costruire, tagliato su misura sulla propria - esuberante - personalità, che conta ben più dei numeri. Tra qualche giorno, in via Bargoni, si apre il cantiere di quella che sarà Seu – Pizza Illuminati, dall'inizio del 2018. La prima avventura in solitaria (ma con la compagna di sempre Valeria Zuppardo, unica socia e direttrice di sala) del giovane pizzaiolo romano che ha saputo conquistarsi il suo posto al sole nel panorama nazionale della pizza d'autore. Entrando nel novero dei pizzaioli più amati della Capitale, al pari dei grandi veterani della pizza in città. Archiviata da un anno l'esperienza da Gazometro 38, e conclusa alla fine dell'estate la fortunata parentesi al mare, sul litorale di Ostia, oggi Pier Daniele Seu è saldamente al comando della pizzeria del Mercato Centrale di Termini (Due Spicchi sulla guida Pizzerie d'Italia 2018 del Gambero Rosso). Ma con Umberto Montano ha avviato dalla primavera scorsa anche una collaborazione al centro commerciale I Gigli di Firenze, ultima inaugurazione in ordine di tempo del progetto dell'imprenditore fiorentino.

Ben oltre l'indubbio talento con impasti e lievitazioni, infatti, quel che di Pier Daniele sorprende è la sua attitudine da leader. La personalità certo aiuta, ma è soprattutto la capacità di formare un gruppo affiatato la risorsa in più per pensare in grande. La squadra, al momento, conta 13 ragazzi, volenterosi e capaci. Quando la nuova pizzeria aprirà, Seu si dividerà tra un forno e l'altro, sicuro si poter contare su di loro: “A pranzo mi troverete al Mercato Centrale, per la cena, invece, sarò in via Bargoni, nel mio locale”.

Pizza Illuminati. Le idee in cantiere

L'orgoglio e l'impazienza di concretizzare un sogno che matura da tempo si fanno sentire. Per il suo esordio da pizzaiolo-imprenditore in città Pier Daniele ha scelto una zona tranquilla, a ridosso della movida trasteverina, ma fuori dalle rotte più congestionate, in zona Porta Portese. I benefici sono molteplici: “Lo spazio è ampio, ci ha permesso di giocare con il progetto, che ho affidato a un amico di infanzia, oggi docente di architettura in Austria. La zona è ricca di uffici, speriamo di poter lavorare bene anche a pranzo, ma non da subito. La sera, invece, c'è possibilità di parcheggio. E siamo fuori dalla Ztl”. Tutto calcolato, dunque, per raccogliere una clientela trasversale, gli affezionati della prima ora, il pubblico degli uffici, il bacino d'utenza di Trastevere. Open space, con cucina a vista e forno Valoriani, il locale potrà accogliere un'ottantina di persone, “il numero di coperti ideale per non sovraffollare troppo la sala, e lavorare bene sul nostro concetto di pizza”.

All'ingresso il bancone dell'american bar: “Abbiamo intenzione di lavorare sui cocktail in abbinamento alla pizza. Non da subito, ma ho già preso contatti con un bravo barman. Vogliamo divertirci”. E perché no, pensare anche a raccogliere il pubblico dell'aperitivo, all'uscita dal lavoro.

La pizza di Pier Daniele Seu

L'atmosfera - per ora solo i rendering aiutano a immaginarla – sarà informale, ma curata, “non la classica pizzeria, ma un design aggiornato su spunti internazionali. E anche il servizio dovrà assecondare il respiro del progetto”. Si mangerà anche al tavolo dello chef, davanti al forno, o al tavolo degustazione, 8 posti a disposizione di chi vuole intraprendere un percorso più complesso, secondo estro di Pier Daniele: “Sto già studiando qualche variazione sul tema, c'è il menu pomodoro, mozzarella e basilico, tutto giocato sull'elaborazione dei tre ingredienti in diverse combinazioni; e il percorso intitolato a La mia vita, dalle origini agli ultimi esiti della mia ricerca, attraverso una degustazione di pizza”. Dalla carta, invece, si sceglie tra i Classicismi – 5 pizze classiche, dalla Margherita alla Napoli, alla Marinara – I ricordi da bambino – 5 proposte riprese dalla scuola “vintage”, la Diavola, la Capricciosa, funghi e salsiccia – e Il mio pensiero, la sezione più personale: 10 pizze che cambieranno spesso, secondo stagionalità, con i cavalli di battaglia di Seu e le nuove invenzioni. Tra gli antipasti, grande importanza ai fritti, le crocchette, le frittatine di pasta “alla romana”, le chips di patate e le pizze fritte. I prezzi variano dai 7 euro di una Marinara al rialzo per proposte più articolate, “ma niente di super costoso, e sto pensando anche a coccolare i clienti con l'amouse bouche di benvenuto, o un predessert”. Si beve vino, con una piccola carta a cura di Claudio Bronzi di Les Caves de Pyrene, o birra (tre spine di Domus Birrae, birre da invecchiamento e in bottiglia). Dopo il rodaggio iniziale, i cocktail. E già in cantiere le serate speciali Pizza Illuminati (il nome fa riferimento al logo già lanciato da Seu), una al mese, con amici chef, pizzaioli, pasticceri, barman per dare vita a una cena inedita, probabilmente il martedì, giorno di chiusura della pizzeria.

Le idee sono chiare. Non resta che aspettare.

 

Seu Pizza Illuminati – Roma – via Bargoni, 10-18 - da gennaio 2018

 

a cura di Livia Montagnoli

I vigneti storici e le città. Asolo

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Difficile a credersi, ma molte delle nostre città ospitano dei vigneti urbani. Spesso abbandonati, preda di erbe infestanti e parassiti. Sono preziosi custodi di eredità storiche, ampelografiche e culturali che, negli ultimi anni, sono oggetti di studio e operazioni di recupero. Oggi andiamo ad Asolo con il suo Vigneto di Villa De Mattia

Asolo è uno dei borghi storici più belli e caratteristici della Marca Trevigiana, che vale la pena visitare, per via dei tesori artistici, gastronomici e culturali che custodisce. Una cittadina ricca di storia, dominata dalla rocca del XII secolo e amata da scrittori, poeti, artisti come Robert Browning, Pietro Bembo (entrambi cantarono nelle loro opere la città), Freya Stark, Eleonora Duse (sepolta nel cimitero cittadino) e dalla regina di Cipro Caterina Cornaro, che proprio qui fece costruire un suo castello.

Passeggiando per Asolo si respira un’atmosfera particolare, che fonde in armonia bellezze artistiche, maestose ville, giardini all'italiana e paesaggio naturale. Ci s’immerge nel tessuto urbano di una piccola città giardino con ville e parchi, che spesso ospitano pergolati o piccoli filari con piante di vite, a testimonianza della tradizionale vocazione del territorio.

Oggi la denominazione Asolo Docg è una delle migliori eccellenze del Prosecco Superiore e proprio per riaffermare questo legame tra la città e la viticoltura, è nata l’idea di recuperare un antico vigneto cittadino ormai abbandonato da oltre un decennio vicino Villa De Mattia.

 

La viticoltura dei Colli Asolani

Oltre 20mila ettari con pendenze e caratteristiche diverse: nelle aree collinari intorno ad Asolo, dove si registrano terreni scoscesi, ci sono elevate capacità di drenaggio mentre nelle zone di raccordo della pianura si trovano giaciture marnose e argillose di origine alluvionale. Ci sono differenze di altitudine ed esposizione, ma il clima temperato, le escursioni termiche e la piovosità ben distribuita ne fanno un'area ideale per alcune uve, per esempio cabernet sauvignon, cabernet franc, carmenere e merlot, tra le uve rosse più importanti cui si aggiunge la recantina, un’uva rossa autoctona, da pochi anni recuperata alla produzione. Tra i bianchi glera, bianchetta, pinot bianco, chardonnay e l’incrocio Manzoni 6.0.13. Ma ad Asolo le vigne sono parte integrante del panorama cittadino.

Asolo

Il vigneto di Villa De Mattia

Da queste premesse ha preso vita il progetto dell’Azienda Montelvini – una delle storiche cantine della provincia di Treviso con oltre un secolo di vita - che si pone l’obiettivo di riportare all’antico splendore la vigna nel centro storico della città, per farne un simbolo di Asolo e del suo vino più famoso. Il vigneto, di circa 0,3 ettari, si trova su un ripido pendio sotto la balconata del giardino all’italiana di Villa De Mattia, perfettamente esposto a sud e delimitato nel suo margine inferiore da una zona boschiva.

La parcella era già presente nelle mappe napoleoniche di Asolo ed è stata reimpiantata per l’ultima volta nel 1960. Dopo oltre dieci anni d’abbandono, è cominciato un lavoro di pulizia eliminando tutte le infestanti. Del vecchio impianto si sono salvate un’ottantina di viti, d cui alcune ancora producono uva, che ritrovando la loro vocazione naturale di liana rampicante, hanno modificato profondamente la forma d’allevamento originaria.

 

Lo stato degli impianti oggi e il Cru Vigneto Ritrovato

Oggi il vigneto si presenta con molte fallanze, alcune piante morte e foglie attaccate da parassiti. Le piante superstiti sono tutte a bacca bianca, per la maggior parte glera, ma non si esclude la presenza di altre varietà come verdiso, perera, bianchetta trevigiana o verduzzo, una mappatura precisa – tra le prime operazioni messe in atto dal gruppo interdisciplinare riunito intorno a questo progetto - traccerà con precisione il quadro delle viti presenti. La dott.ssa Elisa Angelini del CREA-VIT, Centro di ricerca per la viticoltura di Conegliano, seguirà il lavoro di analisi delle singole piante per verificarne lo stato di salute, l’eventuale presenza di virosi e per determinarne l’identità varietale con l’analisi del DNA.

L’idea è di conservare le viti sane e di rimpiazzare quelle malate e le fallanze con barbatelle generate dalle vecchie piante, in modo da mantenere la biodiversità originaria. La messa a dimora delle nuove barbatelle è prevista nella primavera del 2020 e nel 2023 dovrebbero entrare in commercio le prime bottiglie dell’etichetta Montelvini Asolo Prosecco Superiore DOCG “Cru Vigneto Ritrovato” vendemmia 2022. Si tratterà di una piccola produzione a tiratura limitata e con bottiglie numerate, testimonianza del rinnovato legame tra Asolo e la secolare cultura del vino del territorio.

 

a cura di Alessio Turazza

 

 

 

Dove comprare il tè a Bolzano e Merano. 3 negozi seri e specializzati

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L’Alto Adige in inverno dona panorami mozzafiato e scorci incantevoli ma anche temperature gliaciali. Per contrastare il clima rigido di questa splendida regione, non c’è niente di meglio di una tazza di tè fumante. Ecco dove provare i migliori infusi a Bolzano e Merano.

Le atmosfere nordiche in Alto Adige mescolano richiami alla cultura mitteleuropea con panorami di incredibile fascino. Nel capoluogo altoatesino, in particolare, natura e tradizione si incontrano lasciando spazio anche al dinamismo tipico di una città contemporanea, moderna e turistica, con tanto da offrire ai visitatori che scelgano di trascorrere qualche giorno in questa località incantevole, fra botteghe storiche e mercati gastronomici sui generis in cui la scoprire la cucina locale. Qui, come nella vicina Merano, il clima rigido si compensa con una tavola generosa, sia sul fronte dolce che salato e ammantata di profumi di burro, mele e spezie, cannella su tutte. Ad accompagnare i pomeriggi più freddi, nulla di meglio che una bevanda calda, per dare ristoro dopo una passeggiata alla scoperta degli scorci più suggestivi o, se capitate nel mese di dicembre, curiosando tra i mercatini di Natale. Tè pregiati, infusi, tisane sono gli indispensabili compagni di merende corroboranti, a patto, però, che siano di qualità eccelsa. Per noi i migliori si trovano in queste tre botteghe specializzate.

Peter’s TeaHouse – Bolzano e Merano

È il 1994 quando, nel cuore di Bolzano, apre il primo punto vendita Peter’s TeaHouse, un negozio pensato per offrire un’esperienza multisensoriale nell’intricato mondo degli infusi pregiati. Un ambiente caldo e accogliente dove poter scegliere fra tè da tutto il mondo (240 in tutto), tisane e infusi alla frutta, dolci e biscottini secchi di qualità, specialità gastronomiche italiane e straniere, in grado di raccontare il rituale del tè nelle varie culture dei paesi di origine. Non mancano, poi, teiere, tazze e tutti gli accessori e gli strumenti necessari alla preparazione della bevanda. “Desideriamo trasmettere il piacere del rituale del tè, in uno spazio senza tempo dove assaporare con gusto una buona tazza”, calda o fredda, nella più dissetante versione estiva, spesso al centro di cocktail e drink originali e creativi. Tè neri, verdi, bianchi, oolong, rooibos, ma non solo: da Peter’s TeaHouse si possono degustare anche fiori di tè speciali, come la Fiamma d’Oriente, il monte Bianco, il Moulin Rouge, il Sunshine Tè, e molte altre foglie rare e preziose, dal gusto inconfondibile. E poi confetture, marmellate, cioccolatini e altri prodotti dolci per accompagnare ogni sorso. Dal ’94 a oggi sono stati tanti i passi compiuti dall’azienda, che si è imposta come una vera impresa del settore, che attualmente vanta 17 punti vendita sparsi per tutto lo Stivale.

Peter’s TeaHouse | Bolzano | via Argentieri, 9 | tel. 0471 970506 | www.peters-teahouse.it

Peter’s TeaHouse | Merano | via delle Corse, 151 | tel. 0473 210769 | www.peters-teahouse.it

Monthea - Bolzano

Quando si parla di foraging, erbe spontanee, bacche e gemme, i panorami dell’Alto Adige sono fra i più importanti della Penisola. Il territorio, infatti, custodisce molti prodotti selvatici pronti per essere impiegati e si adatta facilmente alla coltivazione di piccoli frutti e erbe officinali, spesso usati in cucina e in pasticceria. “Siamo famosi per le mele e il vino, ma abbiamo anche tanti lamponi, mirtilli e frutti di bosco preziosi da raccontare. E poi erbe selvatiche, ortiche, foglie”, spiega Axel Brunoni, titolare di Monthea. “Ho lavorato per molto tempo nel mondo del vino, e sono da sempre un appassionato di enogastronomia. Mi sono chiesto: come sfruttare al meglio questa grande ricchezza agricola che abbiamo?”. Da qui, l’intuizione di occuparsi di infusi e tè, “prodotti a base di piante locali, tutti biologici, che compriamo direttamente dai contadini della zona”. Nessun punto vendita aziendale, per il momento: i prodotti Monthea possono essere acquistati online e sono disponibili in diverse botteghe di Bolzano e Merano, prima fra tutte Pur Südtirol, presente in entrambe le città, che si impegna a promuovere e valorizzare le eccellenze altoatesine, dal vino ai salumi, dai formaggi al pane, dai muesli ai succhi di mela. “Siamo presenti anche in altri negozi bio della zona, e poi in molto alberghi, che stanno iniziando sempre di più a interessarsi al mondo del tè”.

Monthea | Bolzano | via Giotto, 5 | tel. 339 3820045 | www.monthea.it

Meraner Tea Shop – Merano

Il tè illumina il cervello, acuisce i sensi, dà leggerezza ed energia, e fa passare noia e dispiacere. Questo è un antico detto popolare della Cina, fra i maggiori produttori e consumatori di tè al mondo, nazione che vanta una lunga tradizione in fatto di tè, una storia di origini remote che si perdono nella notte dei tempi. A fare di questo proverbio il proprio mantra oggi è una piccola bottega altoatesina che, nel cuore di Merano, offre selezioni di tè da tutto il mondo, miscele e tisane, oltre a un grande assortimento di caffè, tazze, brocche, teiere, accessori, articoli da regalo e tutto il necessario per decorare la tavola. Si comincia con i tè Darjeeling, che prendono il nome dall’omonima regione indiana del Bengala Occidentale, considerati da sempre fra i più pregiati tè neri che ci siano, per poi passare ai Ceylon dello Sri Lanka, senza dimenticare gli Assam indiani, cinesi e poi gli oolong, tè semiossidati prodotti in Cina e Taiwan. Ma ci sono anche i tè neri aromatizzati, i tè verdi, gli infusi alla frutta e caffè 100% arabica macinati al momento.

Meraner Tea Shop | Merano | via Fossato Mulino, 16 | tel. 0473 211822 | www.meraner-teeshop.com

a cura di Michela Becchi

Dove comprare il tè a Milano: 6 negozi seri e specializzati 

 

Lavorare nella ristorazione. Sulle colline piemontesi dell'Unesco si cercano chef, maitre e pasticceri

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L'autunno è la stagione migliore per visitare Langhe, Roero e Monferrato, specie ora che si apre il periodo del Tartufo Bianco di Alba. E i visitatori, stranieri in testa, sono in costante aumento. Mancano, però, i professionisti dell'ospitalità. E il Consorzio Turistico lancia un appello per reclutare chef, maitre, barman e pasticceri. 

Autunno sulle colline del vino piemontese

Si protrarrà fino al 26 novembre l'annuale fiera internazionale del Tartufo Bianco di Alba, giunta all'87sima edizione. E si appresta a entrare nel vivo una stagione finora poco fortunata per il fiore all'occhiello del territorio langhigiano, fiaccato dall'estate torrida e dalla siccità. Con le quotazioni al chilo che schizzano in alto, e fanno registrare prezzi da capogiro. Eppure - tutti lo sanno e molti si apprestano a raggiungere le colline protette dall'Unesco per un weekend tra tavole della tradizione e grandi cantine - l'autunno è il periodo migliore per visitare Langhe, Roero e Monferrato, e godere delle infinite possibilità gastronomiche e culturali offerte dal circuito turistico territoriale nelle prossime settimane. Ne è ben consapevole anche il Consorzio del Turismo Langhe e Roero, che in vista del periodo più caldo dell'anno lamenta la mancanza di figure professionali da impiegare nel settore dell'accoglienza, traino dell'economia locale per dodici mesi su dodici, ma particolarmente subissato di richieste in occasione della stagione del tartufo. L'anno scorso, a novembre, sono arrivati in 600mila, e per il 2017 la previsione parla di presenze in aumento del 6%. Di pari passo, c'è da sottolinearlo, è cresciuta la qualità generale dell'ospitalità regionale, che giustifica la ricerca di personale qualificato e competente, per questo non così semplice da trovare.

 

Boom del turismo. Manca personale qualificato

Ecco perché, proprio il Consorzio Turistico, in collaborazione con l'Associazione Commercianti Albesi e l'APRO Accademia Alberghiera, lancia un appello a chef, maitre, camerieri e pasticceri interessati a lavorare nel settore dell'ospitalità alberghiera e nella ristorazione di Langhe, Roero e Monferrato. La necessità risponde alla saturazione del comparto, dal momento che nel bacino limitrofo le risorse umane sono già tutte impiegate. Un caso di emergenza al contrario, nell'Italia che fatica a sconfiggere la piaga della disoccupazione. Tramite il Consorzio, le strutture associate attive sulle colline dell'Unesco aspettano le candidature di barman, aiuto cuochi, addetti alla pulizia delle camere, receptionist, pasticceri, che possano entrare in forze al comparto turistico regionale con impiego stagionale, e la concreta possibilità di ottenere un'assunzione a tempo indeterminato. L'obiettivo finale è quello di “accogliere e servire al meglio il gran numero di visitatori stranieri in arrivo per scoprire i paesaggi vitivinicoli tutelati dall'Unesco”, sottolinea Elisabetta Grasso, direttore del Consorzio. I requisiti? “Tecnica, buon bagaglio culturale, conoscenza delle lingue straniere”. E tanta capacità di anticipare i desiderata di una clientela estremamente esigente. Con particolare richiesta di personale di sala qualificato, che nella ricerca di candidati idonei è ancora, purtroppo, l'ultima ruota del carro (la maggior parte dei ragazzi usciti dall'alberghiero spera di reimpiegarsi in cucina). A disposizione delle candidature, l'indirizzo email e un recapito telefonico del Consorzio Turistico. Il mese del tartufo bianco si appropinqua: mano al curriculum.

 

Per le candidature tel. 0173 226555 – promozioneturismo@tartufoevino.it

Architetti di ristoranti. Lo studio Leonardo Project di Montesilvano

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Dal Reale di Niko Romito al Metrò dei fratelli Fossaceca: sono tanti i locali sviluppati da Leonardo De Carlo, progettista che ha le idee ben chiare in fatto di design e arredi dei ristoranti. Filosofia e progetti dell'architetto abruzzese.

Il ruolo del design nei ristoranti

Recuperare l'attenzione sul design e l’architettura di spazi destinati alla ristorazione, ponendo l’accento sull’organizzazione e l’arredo degli ambienti. Questo l'obiettivo del Premio Internazionale di Architettura e Design Bar Ristoranti Hotel d'Autore conclusosi pochi giorni fa,unriconoscimento bandito dall’Istituto Nazionale di Architettura – IN/ARCH, Gambero Rosso, FederlegnoArredo, Università degli Studi Roma Tre, Artribune, Archilovers, con HostMilano e il patrocinio di ADI – Associazione per il disegno Industriale, che si propone di valorizzare gli esiti più originali del lavoro di architetti e designer al servizio della ristorazione. Perché il design, ormai lo sappiamo, è parte integrante dell'anima di un'attività e deve essere concorde con la filosofia che sta dietro ai fornelli, oltre a rendere piacevoli e funzionali gli spazi. Quello estetico è infatti un elemento che influisce sull'esperienza complessiva del pasto, in cui l'equilibrio fra volumi, linee e materiali ne determina l'atmosfera.

Lo studio

È stato l'architetto Leonardo De Carlo a ripensare, negli ultimi anni, arredi e stile dei ristoranti d'autore in Abruzzo, rivoluzionando il modo di approcciarsi e concepire la tavola anche dal punto di vista delle architetture.

 

LeonardoProject

Il suo studio, Leonardo Project di Montesilvano in provincia di Pescara, nasce 10 anni fa e oggi conta 7 persone, rappresenta la concretizzazione di anni di lavoro studio intenso, approfondimenti ed esperienze a livello internazionale: “Sono architetto, lavoro nel campo da molti anni, e ho collaborato per tempo con uno studio di Copenaghen importante, dove ho imparato tanto”.

Un uomo di poche parole, Leonardo, sobrio e discreto, come il suo gusto architettonico, e come la cucina e la filosofia di Niko Romito, austera, disarmante per pulizia e rigore, ma intensa e concentrata sul sapore, con la quale l'architetto ha avuto a che fare più volte nel corso della sua carriera. “Il mio percorso con il settore della ristorazione è iniziato con lui circa 12 anni fa, quando abbiamo cominciato ad avvicinarci per il progetto di Reale”. È con il nuovo numero uno della cucina italiana secondo la guida Ristoranti d'Italia 2018 del Gambero Rosso che Leonardo inizia a muovere i primi passi nell'architettura e il design dei ristoranti, nella costruzione di concetti, prima ancora che strutture, che possano coesistere in armonia con le pietanze servite in tavola.

L'amicizia con Niko Romito

È nella loro terra, tanto rigogliosa quanto ostica, generosa e indomabile, che Leonardo e Niko danno vita a uno dei lavori più interessanti della ristorazione italiana e internazionale. Condividendo pensieri e idee, suggestioni e concetti, opinioni ed emozioni: “La mia concezione dell'architettura è molto simile al suo approccio al cibo. Essenzialità, pulizia, razionalità sono gli elementi che accomunano il nostro modo di operare, gli stessi che ci hanno permesso di lavorare in sinergia”. E non solo: “Oltre a essere un cuoco eccezionale, Niko è un uomo con una cultura profonda ed eclettica, molto appassionato di architettura e grande conoscitore dell'argomento. A colpirmi in maniera particolare è stato il suo modo di concepire e razionalizzare gli spazi, per tirarne fuori l'essenza più pura”.

L'esperienza di Casadonna

In principio fu il Reale, la pasticceria di famiglia trasformata in trattoria a Rivisondoli, e trasferita, nel 2011, a Casadonna, l'ex monastero del Cinquecento fuori dal borgo di Castel di Sangro. “Il nostro obiettivo era quello di estrapolare la naturalezza e la purezza della struttura mantenendo intatto il suo fascino storico, aggiungendo in maniera pulita tutto ciò che era necessario, senza interferire con il forte carattere identitario del luogo”. Mura in cemento e calce, imponenti e nette, elementi naturali che si mescolano a vecchie pavimentazioni a loro volta intersecate ad altre nuove in resina cementizia, “un materiale a me molto caro pensato per affiancare quelli già esistenti in maniera armonica e proporzionata”. Essenziali anche gli arredi, giocati su colori chiari, linee minimal, pochi elementi decorativi, simmetrici e sobri, senza fronzoli ma di classe, ricercati, elaborati, come i piatti dello chef.

 

Casadonna

Il ruolo della luce

A creare gli ambienti, la luce, “fondamentale in uno spazio come il Reale, dove viene diffusa sulle pareti in maniera omogenea e poi concentrata sul tavolo grazie alla lampada Papiro firmata Pallucco”, un oggetto di design contemporaneo unico nel suo genere, sottile, organico, sinuoso, e che offre la possibilità di essere modellato a proprio piacimento. “Il locale viene arredato interamente con la luce, che qui diventa l'elemento protagonista dell'ambiente, creando l'atmosfera ideale per un'esperienza gastronomica di livello, con spazi illuminati tutto attorno e una luce più calda a evidenziare le portate”.

 

Reale

Progetto Imperfetto

A completare l'offerta d'eccellenza, le stanze di Casadonna, 9 ambienti (3 suite e 6 camere deluxe e classic) concepiti ancora una volta in base all'equilibrio dei materiali: legno di recupero, ferro, pietra antica, vecchie ceramiche, lino e lana cotta. “Anche per le stanze abbiamo scelto di giocare su contrasti semplici”, incongruenze studiate a tavolino che rappresentano la concretizzazione di un'idea comune ai due professionisti, Progetto Imperfetto. “A essere imperfette sono le linee degli elementi in metallo inseriti nelle camere. Materiali sottili che, per loro natura, non possono essere impeccabili ed esemplari, poiché subiscono una torsione che li rende meno rettilinei”. Nessuna forzatura, nessun tentativo di piegare la natura dei materiali, ma ancora una volta un rispetto devoto alla personalità di ogni elemento. Ai difetti e alle caratteristiche più sconvenienti, che qui diventano un punto di forza e non un limite. “Abbiamo cercato di rafforzare ancora di più l'imperfezione di questi ambienti, creando dei dislivelli particolari, imprecisi ma compiuti nella loro inesattezza”. A chiudere il cerchio, lampade, tavole, legno naturale, “arredi puri, dove l'unico elemento pieno è il letto, imbottito per conferire maggiore calore e comfort ai clienti”.

 

Stanze Casadonna

Valorizzare gli errori

Una filosofia, quella di rilevare le imprecisioni ed enfatizzarle per trasformarle in elementi distintivi, che si rispecchia anche nell'atmosfera generale degli spazi del ristorante, a cominciare dall'acustica. “Al Reale c'è un problema legato alla sonorità. Un errore voluto, che conferisce al locale un silenzio grave e solenne, in perfetta armonia con l'antico monastero. Non potendo inserire dei materiali finti come i pannelli per insonorizzare gli spazi, abbiamo deciso di sottolineare ancora di più l'assenza di rumori”. Un silenzio rigoroso che restituisce ancora più valore all'esperienza sensoriale: “In questo modo il cliente può concentrarsi maggiormente su sapori e profumi; per una cucina come quello di Niko è fondamentale”.

Spazio e l'architettura popolare

Fra le creature di Niko Romito e Leonardo De Carlo, è impossibile non citare Spazio, la rete di ristoranti-laboratori per gli allievi della Niko Romito Formazione, la scuola di cucina dello chef. Creata con “una logica più popolare, legata alla massa, rispettando sempre il concetto di base di Niko, ma con una luce diversa, che scende dal soffitto”. A ogni Spazio, il suo arredo: al terzo piano di Eataly, per esempio, a Roma (locale oggi chiuso in attesa dell’apertura del nuovo Spazio capitolino ai Parioli), “i soffitti sono molto alti, per cui abbiamo dovuti abbassarli con luci più importanti. A Milano, invece, Spazio è suddiviso in tre ambienti diversi, per cui abbiamo pensato a un progetto disgregato, in grado di valorizzare ogni locale”.

 

Spazio Roma

Gli altri progetti: sulla Costa dei Trabocchi

Ma Niko Romito non è l'unico chef con cui l'architetto ha avuto modo di collaborare. “Ho lavorato anche alla ristrutturazione de Al Metrò di San Salvo Marina”, località di mare in provincia di Chieti dove Nicola e Antonio Fossaceca hanno trasformato la pasticceria a gestione familiare in ristorante gastronomico. “Abbiamo cercato di ricreare l'effetto dei trabocchi”, strutture per la pesca che tracciano una linea di collegamento tra la terra e il mare, e che punteggiano la costa del basso chietino. “All'esterno, una struttura in metallo riprende in modo futuristico l'intreccio di assi, reti e fili tipico dei trabocchi, che ben si sposa con l'ambiente interno, razionale e pulito”. Il legno qui è un po' più scuro, “e la resina è più attuale”. Cambia anche l'acustica, “la stanza è insonorizzata grazia alle tende di lino dal colore tenue che tagliano la stanza”.

 

Al Metrò

Ancora, sullo stesso tratto di litorale, a San Vito Chietino, il lavoro per Insight eatery, “un ristorante nuovo, frutto dell'esperienza fatta in America dei due giovani proprietari, che hanno portato sulla costa abruzzese una cucina contemporanea, legata ancora ai piatti di mare, ma non solo”. Anche in questo caso, è il trabocco a ispirare l'architetto: “La struttura è una sorta di scatola in legno con un dehors esterno in metallo. All'interno gli arredi sono più d'impatto, prepotenti, con tavoli in cemento e lampade di design a completare il tutto”.

Progetti futuri

Nel frattempo, a Pescara, Leonardo studia anche un progetto con gli ideatori di Trieste Pizza, storica insegna del lungomare divenuta celebre per la sua pizzetta tonda che ha fatto il giro del mondo, da Londra a Madrid, fino a sbarcare anche a Roma. “I proprietari stanno pensando a una pizzeria con cucina più ricercata, sempre a Pescara. L'apertura è prevista per Natale, nel frattempo continuiamo i lavori. La cucina a vista è rivestita in acciaio, mentre la sala è giocata sul legno naturale”. Tante idee in cantiere anche con Niko, “con cui elaboro di continui nuovi progetti”. Ma, per il momento, nessuna anticipazione.

www.studioleonardoproject.com/

a cura di Michela Becchi

Architetti di ristoranti. Lo studio Salefino di Agrigento

Architetti di ristoranti. Lo studioAutoban di Istanbul

Architetti di ristoranti. Lo studio Vudafieri Saverino Partners di Milano

Architetti di ristoranti. Lo studio Q-Bic di Firenze 

Gialle&Co a Milano. Fun food con le baked potato farcite all'italiana

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Patate cotte al forno con la buccia e poi farcite prima di arrivare in tavola. Nel mondo anglosassone tutti amano le baked potato; a Milano le portano 5 ragazzi ispirati dallo street food londinese. Ma gli ingredienti sono tutti italiani. E le ricette originali. 

La baked potato. Da Londra a Milano

Italians bake it better. Ad assicurarlo è la squadra di Gialle&Co, che da qualche ora ha aperto i battenti a Milano, in via Volta. Il progetto di Antonio Testa e soci, in realtà, strizza l’occhio a una tradizione molto diffusa all'estero, specie nel mondo anglofono, che della baked potato cotta con la buccia e farcita a piacere ha fatto una delle proposte più golose dello street food. Ma chi ricorda le patate della nonna cotte sotto la cenere davanti al camino acceso in una sera d'inverno, non potrà che concordare sulla facilità di interpretare la ricetta inglese in chiave italiana. A Torino, un'idea simile è venuta qualche anno fa ai ragazzi di Poormanger, nel capoluogo lombardo, invece, il progetto si è concretizzato dopo un viaggio a Londra. E la genesi del format è quanto meno inconsueta e goliardica, frutto di una sfida estemporanea nella cucina di un pub londinese in una serata di divertimento tra amici. Lì, nasceva qualche mese fa, la prima baked potato all'italiana, la Threecolore, con stracciatella, songino e pomodorini. Che sarà regolarmente in carta tra le proposte di Gialle&Co. Il format, nel frattempo, si è sviluppato, fino ad assumere i contorni di un ristorantino completamente dedicato alla patata cotta al forno con la buccia, e poi arricchita con ingredienti del territorio e specialità made in Italy.

Il menu di Gialle&Co

Il locale, in zona Moscova, proporrà 15 variazioni sul tema, 12 ricette classiche della casa e 3 stagionali, con prezzi che oscillano tra i 7 e gli 11 euro, grafica accattivante, comunicazione efficace, da vero e proprio fast good (“niente junk food, ma fun food” recita lo slogan del locale). Quattro le sezioni tematiche, per patate ripiene Meatariane, Fishytariane, Veggytariane e Vegane. E nomi di battaglia in “angloitaliano” che cercano di strappare una risata (un filo forzati):la Controstream (con salmone, crème fraîche allo zenzero, aneto e anacardi); la Mortacci yours (con guanciale croccante, salsa carbonara e pecorino); la Ratatoma (con ratatouille di verdure al forno, toma, origano fresco), la Molto Well (Olio al basilico, crema melanzane, origano fresco e pomodorini confit), la Farm'n'Furios (crescenza, pancetta cotta Giovanna Capitelli, giardiniera di verdure).

Con la possibilità di ordinare separatamente i ripieni. E la variante aperitivo, con la formula mini baked: patate più piccole, da uno a 12 assaggi, in versione finger food, servite dalle 19 alle 20.30, in abbinamento con un calice di vino o la birra artigianale di Canediguerra.

Alla progettazione dello spazio ha lavorato il team di The Chic Fish, che alla sala ha dato un'identità quanto più genuina possibile, utilizzando materiali naturali e una commistione di pezzi vintage ed elementi dal design moderno. Banconi e tavoli utilizzano pietre del Gottardo, bar e cucina sono inglobati nella ricostruzione di una serra che utilizza vetrate d'antan, recuperate in giro per l'Italia.

 

Gialle&Co - Milano - via Alessandro Volta, 12 – tutti i giorni, dalle 12 alle 23 – www.gialleandco.com

Agli Amici dal 1887. Il nuovo ristorante Tre Forchette di Udine

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La quinta generazione degli Scarello conduce il bel ristorante d famiglia, Agli Amici dal 1887, alla conquista delle Tre Forchette. Un riconoscimento che ha radici antiche che si spingono indietro per oltre 130 anni. Ecco la loro storia.

Generi coloniali e tabacchi. All'epoca l'insegna recitava così. Era il 1887 quando un trisavolo della famiglia Scarello aprì la sua bottega. “Era stato una guardia del re, per questo ebbe quella licenza” racconta Emanuele Scarello, quinta generazione alla guida del locale, che da emporio divenne ben presto un punto di aggregazione in paese. Ogni attività della comunità gravitava intorno a quel negozio: commerci, scambi, relazioni sociali. E così fu anche negli anni a venire. Passa il tempo e lo sconquasso della storia, e in quell'emporio arriva la prima televisione del paese, che ne rinsalda il ruolo di luogo d'incontro. È in quel momento, intorno agli anni '60, che gli Scarello cominciano anche a cucinare; inizialmente solo per le grandi occasioni: matrimoni, battesimi e altre feste comandate. L'attività di famiglia continua così, senza troppi scossoni, una generazione dopo l'altra. Almeno fino a Ivonne e Tino. Loro – la quarta generazione - decidono di invertire la rotta e trasformare quello che ormai è diventato un ristoro a tutti gli effetti, meta di operai e di militari delle molte caserme della zona. “Mamma e papà decidono di dare un'impronta diversa”. Comincia allora un cambiamento le cui conseguenze arrivano fino a oggi, perché Agli Amici dal 1887 ha conquistato le Tre Forchette sulla guida Ristoranti d'Italia 2018 del Gambero Rosso.
 

Michela e Emanuele Scarello

Il periodo di formazione

Mamma va a scuola in Francia, al Lenôtre Plaisir”. Il padre, invece, dopo l'alberghiero diventa sommelier. “Si innamorano sempre più di questo tipo di cucina e di ristorazione e iniziano ad apportare dei cambiamenti al locale”. E intanto continuano il loro apprendistato con pellegrinaggi nei grandi ristoranti, in cui coinvolgono anche i figli, Emanuele e Michela. “Negli anni '80 ci portavano a Milano per assaggiare i piatti degli chef famosi o farci conoscere le grandi tavole” racconta “uno dei primi pranzi importanti fu in Austria, in un ristorante che mi pare avesse 19 ventesimi sulla Gault Millau”. Una rivelazione: il servizio, le cloche, la mise en place. E poi i piatti “ricordo ancora oggi un cervello di agnello tostato con verdure agrodolci; mi sembrava tutto incredibile, non ero abituato”. Così anche loro si appassionano, e intanto mamma Ivonne entra sempre più nel mondo dell'alta ristorazione e aumentano contatti e conoscenze.

La quinta generazione

Nel frattempo Emanuele, che dopo l'alberghiero ha fatto esperienza all'estero, rientra nell'attività di famiglia. “Sarà stato il '98-'99, avevo 28 anni”. La sorella 3 in meno, ma i due hanno idee chiarissime: “acceleriamo ancora”, mutano il passo e i desideri, “spieghiamo apertamente cosa abbiamo in testa a papà e mamma, e loro decidono di farcelo fare, anche se rimangono sempre dietro di noi”. Il ristorante diventa più elegante, la cucina più vera e ricercata. “Nei piatti e nel servizio c'è il frutto del nostro girovagare”.

La prima Stella arriva che io ho 29 anni e mia sorella 26”. Allora comincia la vera trasformazione: “quella da ristorante a gestione familiare a impresa familiare” spiega “abbiamo modificato la nostra filosofia, perché volevamo fare qualcosa di più: portare in tavola non solo un bel piatto, ma anche quel che c'è dietro”. Una questione da sempre molto sentita dagli Scarello. “Dentro di noi questo è, sin da subito, un paletto importante; mi piace scoprire un bravo allevatore o un contadino che mette a dimora varietà antiche di patate, amo fare la spesa” racconta “certo mi piace anche pensare un piatto nuovo e cercare di realizzarlo, ma ci interessa dare un'impronta diversa, più attenta”.

 

Agli Amici

Si aggiudicano un fondo regionale per l'inserimento dei giovani nelle aziende (“non si era presentato nessun altro…”), li affianca un consulente nella trasformazione dell'attività. “Ricordo che mi ha chiesto cosa c'era al piano di sopra. E io orgogliosamente ho risposto: il tavolo da ping pong” racconta divertito “mi ha detto subito, chiaramente, che dovevo mettere a reddito ogni centimetro quadrato. Oggi al piano di sopra c'è una seconda cucina Degli Amici dove si fa la mise en place”. Nel frattempo un primo restyling rinnova gli ambienti per adeguarli al nuovo corso della cucina, un altro sarà nel 2009, quando il locale conquista la dimensione attuale: “è allora che abbiamo creato questa nostra casa agli ospiti”.

La filosofia

Siamo in periferia, chi viene da noi si deve sentire un principe. Se abbiamo 130 anni di storia è per questo” sintetizza così Emanuele quello che chiama un ragionamento del cuore: “dobbiamo mettere al centro delle nostre attenzioni l'ospite”. Quello di testa è, invece, un pensiero imprenditoriale. “Continuiamo su questa strada e arriviamo intorno al 2006, con un ulteriori passi avanti”. Passaggi possibili grazie a quanto appreso in famiglia: “mia madre ci ha portato a capire da vicino certe evoluzioni della cucina e ad avere una sensibilità diversa verso il cibo”. I cambiamenti sono concreti: più attenzione alla salute - “dobbiamo mangiare cose che fanno bene” ammonisce - la carne rossa non troppo di frequente - “in fondo mia nonna mica la mangiava tutti i giorni!” - e poi sempre più attenzione alla filiera, “preferisco usare ingredienti di cui conosco l'origine, se un ingrediente ha respirato la stessa aria che ho respirato io, allora nasce l'amore”. Perché il Friuli è una terra piccola ma ricchissima: “ci sono mare, orti, montagne, possiamo avere grandi vini, pesci, ortaggi, carni. Tutto”.

 

Agli Amici

Come è cambiata la cucina

Guardando foto di vecchi piatti penso: mamma mia come siamo cambiati!”. C'è stato un spartiacque, nel '98-99, prima dei primi riconoscimenti: la millefoglie di filetto e foie gras con riduzione di scalogni e Piccolit. “Lo considero il primo piatto, oggi mi pare facilissimo, ma all'epoca no”. Per via di quella salsa fatta con vino dolce, per l'idea di alternare filetto e foie gras, diversi per temperature e consistenze, “mi pareva una cosa difficilissima”. Poi è arrivata la ricerca al piatto migliore, di pari passo a una crescita graduale anche nel gruppo di lavoro, scelto con cura mettendosi vicino le persone giuste: oggi sono in 10, all'epoca in 3. “Oggi la leadership la condivido con Raffaello Mazzolini, siamo amici da 20 anni e da 6 anni lavoriamo insieme”.

Cerchiamo di tracciare un'evoluzione: “prima, nei piatti, c'era di tutto e di più, facevo una cucina molto barocca; ora per me è importante arrivare all'anima del piatto, non mi interessano i fronzoli, dobbiamo essere dritti e diretti, quella è la parte difficile”. Ma il cambiamento è continuo, dettato da suggestioni diverse e continue riflessioni “La cucina è un fatto personale, io cambio sempre: la testa viaggia e anche io viaggio molto, mi piace andare per ristoranti e provare di tutto”. Sempre alla ricerca di quella che lui chiama la cucina vera, “penso sempre che devi avere qualcosa da raccontare attraverso un piatto, non mi interessa tanto come lo fai ma perché lo fai” ecco allora che riemerge il legame con il territorio: “nel mio paese ci sono le patate, allora ci voglio fare una grandissima supreme che oggi è con cavolfiori, alici e alici affumicate, o gli gnocchi che nel mio menu ci sono sempre” e a cui ha dedicato anche un locale molto informale Gnocchi Kitchen Bar. E poi c'è il mare “il posto dove riesco a pensare meglio” cui ogni anno dedica un piatto tracciando, così, l'evoluzione del suo concetto di cucina di pesce nell’ultimo decennio. Ma come è stato accolto questo cambiamento? “All'inizio abbiamo fatto fatica” ammette, prima di tutto non c'era una cultura di un certo tipo di cucina in Friuli, “ma soprattutto mi ponevo in maniera sbagliata, non puoi cambiare tutto da oggi a domani senza ricordarti le radici, chi sei e dove sei” e aggiunge “pensavo che nessuno mi capisse, in realtà ero io a non capire loro: abbiamo una memoria gastronomica importante, se ti muovi in quella memoria, tocchi le corde in ognuno di noi; è la memoria del gusto”.

 

Agli Amici

Consapevolezza e territorio

Ci sono dei posti in cui ho detto 'mamma mia quanto è bravo', ma ora non direi mai 'questo piatto lo avrei voluto fare io'sono felice di fare quello che sto facendo con i miei ragazzi nella mia cucina”. E spiega questa nuova sicurezza: “quando hai creato il tuo stile, hai una cucina più matura che senti tua: è tua figlia non il frutto del guardare un altro. La chiave di volta è stato quando ho saputo perché facevo un piatto”. Perché le tecniche altrimenti rimangono fini a se stesse. Tra i punti cardine di questa evoluzione Le illusioni della pasta, un piatto realizzato senza farina “volevo che ricordasse del sapore della pasta, perché quella è l'Italia secondo me”. Oggi ai due degustazione si aggiunge un menu vegetariano “è stata una ricerca profonda perché nel mondo dei vegetali il lavoro cambia completamente nel corso dell'anno. È stata una cosa molto bella” che va di pari passo con il mantra di questi ultimi tempi: “cosa posso fare per mangiare sempre più sano?”. Una domanda che ha come conseguenza ulteriore, di nuovo, la comprensione del territorio: se in Friuli i pomodori non sono buoni, preferisce trasformare la classica caprese sfruttando acidità e dolcezza di un altro prodotto, la mela verde. È un passaggio importante, quello che certifica il motivo di alcune scelte e dà conto dello stare in un luogo specifico e non in un altro. “C'è un gusto diverso stare qui, qui sono nato e cresciuto, nel giardino del mio ristorante, dove ora c'è il prato inglese, da bambino giocavo a calcio” conclude “Questa è casa mia” e quella che lo circonda è la comunità che lo ha visto crescere e maturare, come persona e come cuoco.

Le Tre Forchette

Sono cresciuto con il Gambero, avrei mille aneddoti da raccontare” poi ci pensa e ti dice quello che per lui forse ha più valore: “ci chiediamo continuamente cosa possiamo migliorare per raggiungere i nostri obiettivi e poi, un lunedì, arrivata la chiamata di Laura Mantovano che mi dice che abbiamo preso le Tre Forchette. Non potevo crederci.”

Agli Amici dal 1887 | Udine (UD) | via Liguria, 252 | tel. 0432 565411 www.agliamici.it

a cura di Antonella De Santis

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Morto Severino Cesari. Il ricordo di Laura Mantovano

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Laura Mantovano ricorda Severino Cesari, giornalista, scrittore, intellettuale e penna raffinata, una delle primissime firme del Gambero Rosso.  

I carciofi hanno un cuore: non so perché ma quando l’altro giorno ho letto la notizia della scomparsa di Severino Cesari, la prima cosa che mi è tornata in mente, come un flash, è stato il titolo della prima delle conversazioni attorno a un tavolo che lui firmò sul Gambero Rosso, allora supplemento de il manifesto, nel 1989. Una piccola cosa rispetto alla sterminata produzione di un fine intellettuale, persona garbatissima, attentissimo ascoltatore, quale Severino è stato. Una piccola cosa che però dà la misura dell’intelligenza e della sensibilità dell’uomo che in punta di piedi un giorno nei corridoi di via Tomacelli propose all’amico da sempre (così Severino ricordò Stefano Bonilli il 14 febbraio del 2015 in uno splendido articolo in occasione del primo compleanno che gli amici festeggiarono senza di lui) di pubblicare sul Gambero Rosso degli insoliti racconti attorno a cibo e dintorni siedendo al tavolo diversi mondi. Era lui a scegliere con sensibilità e ironia i protagonisti della cena. A rileggere i nomi che si sono succeduti (Vittorio Foa, Natalia Ginzburg, Elvira Sellerio, Giulio Einaudi, Valentino Parlato, ecc) in alcuni casi vengono i brividi. Altri tempi, altre storie, certo, ma che stile! Ciao Severino.

Laura Mantovano

 

I carciofi hanno un cuore di Severino Cesari

Personaggi ed interpreti

Natalia Ginzburg, scrittrice

Vittorio Foa, sindacalista, studioso, scrittore, consorte di Sesa Tatò

Sesa Tatò, sindacalista

Renato Nicolini, ex assessore, inventore di un certo tipo d'estate

Enrico Ghezzi, sa tutto sul cinema e lo scegli per voi sulla Rete Tre

Patrizia Sacchi, attrice

Maria Ida Cartoni, cura l'ufficio stampa Einaudi

Stefano Bonilli, dalle barricate alle barrique

Daniele Cernilli, ovvero tutto quello che vorreste sapere sul vino

Severino Cesari, intellettuale e stenografo della serata

 

Fu da Paris, a Roma, nel cuore di Trastevere, che arrivammo, per così dire, al cuore del carciofo. Poiché anche il carciofo ha un cuore, come tutti, e può darvi molto, se sapete darvi a lui. E noi a lui ci concedemmo in quell'antica osteria dagli alti soffitti a cassettoni, che affaccia su piazza San Calisto. Ma non anticipiamo.

Fu su questo molto transromano convoglio Paris-Rome – diverso accento, non c'entra Parigi – che ci imbarcammo, come si sentì in dovere di precisare Enrico Ghezzi cortocircuitando Paris-Texas di Wim Wenders, prima ancora che la cena avesse inizio, e noi ci vergognammo subito un po': che avrebbe detto Natalia Ginzburg? Ma Natalia arrivò, nel suo cappotto di un caldo marrone, lo sguardo di un'allegria luminosa, e Vittorio Foa anche arrivò, proprio con l'aria di viaggiatore con le falde di un eterno berretto tirate giù, e sembrava gigantesco accanto a Natalia minuta, accanto a Sesa Tatò e Maria Ida Cartoni; Renato Nicolini e Patrizia Sacchi irruppero nella piccola sala come non avessero mai fatto altro nella vita che cene del Gambero, e fosse già d'obbligo ormai prenderle un po' in giro, e Stefano Bonilli capì allora che era giunto il momento. Lui e Daniele Cernilli avevano messo a punto con Dario Cappellanti, il proprietario del locale, un meccanismo delicato, che non poteva fallire, come i botti amorosamente costruiti in Giù la testa. Si trattava di interpretare al meglio la tradizione – una delle tradizioni – della cucina romana: con la sfida ardua di bere solo vini bianchi, e solo eccellenti. Si trattava nientemeno che di vivere bene, o benissimo, la normalità. Nulla di astrale, di prezioso per forza: una cena che io e te, ipocrita lettore, potremmo ripetere, o variare, senza dover vendere gli argenti di famiglia, che non possediamo. Con altri commensali o con gli stessi: scelti comunque per il piacere di vederli e ascoltarli parlare, l'unico vero criterio in casa del Gambero. Stefano diede insomma un'occhiata a Dario Cappellanti, e tutto cominciò davvero.

Stagionata nel vino rosso, senza coloranti né conservanti (“tranne, è inevitabile, un po' di salnitro”, come aveva spiegato), la bresaola di Paris, questo “prosciutto ebraico”, carne secca del cantone dei Grigioni e di Valtellina trasmigrata a Romaper vie che Braudel ahimè non spiegò, e nemmeno Cernilli, aveva in effetti un colore e una consistenza ben auguranti, trasfigurazione del controfiletto di manzo, esaltata da un filo d'olio di prima spremitura. “Ci siamo permessi un'eccezione alla regola del tutto-tradizione”, disse Stefano con un sospiro, mentre si versava con l'antipasto uno champagne “di un piccolo produttore: grande vuol dire milioni di bottiglie”, Barancourt Bouzy, cru 100%: “tutto cioè di un vitigno che dà una resa costante nel tempo”. “Sì, costante nel tempo come Renato quando va a teatro, stasera si è addormentato da Quartucci, all'Ateneo”, suggerisce perfida Patrizia. “Ma se mi è piaciuto il Becket di Quartucci, con Sandro Lombardi, bravissimo!”, si difende Renato, ma vola in suo soccorso alla grande Ghezzi: “appunto, appunto, quante volte quel Ronconi che abbiamo pure amato alla follia, l'abbiamo anche dormito, e al cinema, poi? 'La nave va' l'ho visto tre volte addormentandomi sempre in momenti diversi, ti svegli che hai perso qualcosa, ma con la certezza di ritrovare il film, e il piacere di questo, è solo confidenza maggiore, chissà con tanta nuova televisione “a schegge” non nasca questo...piacere dell'intermittenza: come in un pranzo, ci si concentra prima sul cibo, poi una persona attrae una persona, poi di nuovo...”

Arriva l'arzilla bollita, in filetti, il secondo antipasto: un pesce che una volta fu povero, la razza chiodata, e adesso la fa da padrone, almeno qui, stasera.

O come i figli degli amici alle riunioni – fa Maria Ida – spesso si addormentano, confidenti, tanto si sentono protetti, è una dimostrazione di benessere”, “è vero, è vero”, rafforza Foa, ma nell'improvviso meditativo silenzio che segue, assorti in una nuova imprevista estetica del sonno, o forse nell'arzilla, è Natalia, imprevedibilmente, a rilanciare. Alza quei suoi occhi magnetici, è incantevole nella camicia bianca sotto il golfino da uomo a girocollo: “io trovo che dormire quando ci sono gli amici è una cosa bella”, dice nel suo parlare sommesso, nitido ed è come sentirsi dire che potrebbe anche addormentarsi lì, in piena confidenza, davanti a noi, anche lei perdere qualcosa per poi ritrovarlo, chissà...

Sarà stato l'elemento d'acqua così trasparente nelle due minestre che seguirono, gustosissima quella di quadrucci nel brodo di arzilla, che permette di non sciupare nulla, e quella di pasta e ceci; o il richiamo d'acqua dell'arzilla stessa, a suggerire a Ghezzi che Le nozze di Cadmo e Armonia di Roberto Calasso è un libro “acquatico”? Comunque sia, grandi lodi a Calasso non solo da Enrico ma anche da Natalia e Sesa Tatò, mentre per il Pendolo di Foucault si sente volare addirittura un ghezziano “fallito complotto”, e neppur tanto ironico“bravo” di Nicolini a chi confessa di averlo letto tutto... Ma il libro meno ovvio è Natalia a segnalarlo, dopo l'ammissione di Foa: “ho visto un documentario terribile in tivu, alcune immagini, dalla Russia sui campi di Stalin; che bravi a far vedere queste cose lì, e pensate che il Kgb addirittura richiedeva quanta forza-lavoro era necessaria qui o là, e si provvedeva, si imprigionava su misura...” Ma Foa è Foa, e dopo la serietà dev'esserci il guizzo beffardo-ma-vero: “vuoi vedere che adesso nell'Urss torneranno di moda gli anni pre-rivoluzionari, arte moda libri tutto ciò che vuoi”. “Vuoi dire gli anni venti, quelli dell'avanguardia”, è perplessa Patrizia. “Ma no, proprio quelli di prima della rivoluzione”...

Il motivo della forza lavoro coatta e di una Russia meno “sovietica” e più “paese dell'anima” trovano sintesi, ancora in Natalia: che ha appena letto Il paese dell'anima appunto, lettere 1909-1925 della poetessa, scrittrice, Marina Ivanovna Cvetaeva, ed è ancora sconvolta da un dettaglio preciso: “ma pensate, non c'era la legna da bruciare e per scaldarsi cominciarono a bruciare le scale, e lei doveva issarsi su al suo piano a forza di braccia... poi una vita così triste, e si ucciderà alla fine, nel 1939”...

Ci era stato servito, con le minestre, un grande vino bianco, un tre bicchieri nella Guida del Gambero, e Cernilli ne narrò la leggenda. “Il Vintage Tunina, creatura di una famiglia contadina, il padre era emigrato, in un certo senso simbolizza il modo corretto di intendere la successione. Gli Jermann, Angelo il padre e Silvio il figlio, si sono divisi i compiti. Al padre la vigna, al figlio la vinificazione...”. “Ma è straordinario”, ribatte Foa:“altro che alla Fiat”. Sarà perché nel pomeriggio ha visto cesare Annibaldi, alla Commissione lavoro della Camera, o perché è una sua precisa teoria, che alla Fiat sia come il regno sabaudo: sa unificare l'Italia solo con la forza delle armi, e della burocrazia, ma cultura egemone niente... “Si è visto infatti – intervenne Stefano – il Pc solleva questo vespaio convinto di fare il Davide con la fonda contro Golia... E si trova dietro invece tutti quanti”. E altro che modernità insiste Foa: le decisioni strategiche prese in funzione della successione imperiale, con Ghidella e la sua opzione autocentrica e di fusione con altri colossi “alla pari” cade anche la successione di umberto, e dunque ecco Romiti e Gabetti a far da allenatori al giovane Giovanni, figlio di Umberto, dato che l'altro rampollo...

Giovanni Primo Giovanni Secondo Giovanni Terzo...”

Che tipo però Ghidella...”

Uno fortunato!”

La genialità di Gjidella è la banalità del nome, pensa la Tipo che c'è di più banale, un tipo un tipino è proprio un tipo un tipetto...”

Se avete riconosciuto in quest'ultimo un tipico scambio di battute Bonilli-Ghezzi, siete nel giusto. Forse un altro modo di intendere il problema Fiat. Ma Vittorio Foa non si lasciò sopraffare. Incassò il mento tra le spalle, da buon pugile, poi con aria candida disse: “Forse dovremmo proporre al sindacato una diversa linea di comportamento. Ribaltare il problema. Se è vero, come dicono, che la Fiat sono gli operai, dovremmo proporre prima di tutto un diverso rapporto tra Agnelli e la Fiat, e anche tra Romiti e la Fiat”.

Arrivò il grande piatto. Il terreno di fronte a ogni commensale si coprì improvvisamente di fiori di zucca ripieni di provola e alici, filetti di baccalà, mozzarelline, crocchette di patate: al centro, il carciofo. Che forse non era mai stato così tanto alla giudia. Tutto, era fritto: cambiando ogni volta l'olio, “di primissima qualità, perciò del tutto digeribile”. Una foglia croccante dopo l'altra, il carciofo svelò un cuore morbido. “Anche questo è un tipico piatto ebraico”, sostenne Cernillicon disinvoltura. “La cucina romana autentica era povera, come tutte le cucine locali, e per questoinventiva. Gli ebrei a Roma erano i più poveri, dunque, per diffusione, molti piatti della cucina romana sono ebraici”. “Chi sa come è contenta mia figlia, che da domani diventa ebrea”, intervenne Foa. “Sapere che questa cucina è così importante”. “Diventa ebrea nel senso che sceglie ufficialmente di esserlo”, precisò Sesa.

Cernilli non si lascia interrompere. “Con il carciofo che fa diventare tutto dolce perché contiene molto ferro, berremo l'unico bianco che non fa questo scherzo. È un grande vino locale, fatto con la malvasia soprattutto, il Marino Oro di Colle Picchioni”.

Ma la malvasia è dolce, mentre questo è un vino secco!”

La malvasia è dolce se l'enotecnico lo dice. È un problema di saccaromiceti”, ribatte Cernilli, imperturbabile.

Forse Daniele non doveva essere così tecnico. Nicolini si lancia in una grande, monellesca Ode del Saccaromiceto, che mangia gli zuccheri, e rende il vino secco. Foa ricordò che un produttore suo amico gli inviava normalmente malvasia secca. Cernilli, al volo, seppe nominarlo: Girolamo Dorigo, di Buttrio. Questo innalzò di molto le quotazioni di Cernilli. Ma anche di Nicolini, che continuando sulla linea delle incomprensioni e difficoltà linguistiche raccontò la storia della Giunta rossa (di Roma) troppo buona col papa: “si incontrano e il papa chiede, per favore siate buoni, il 29 giugno fate una festa. Loro dicono perché no, si danno un gran da fare e preparano la festa. Poi scopre che lui voleva dire “il 29 giugno fate festa”, non lavorate, così come aveva detto, insediandosi, “se sbaglio, mi corigerete”. E quanto invece a cattiva creanza, lo sapevate che il mio destino di assessore fu deciso da uno schiaffo di Paolo Portoghesi? Era il 1976, ero caporedattore della rivista Controspazio, lui era il direttore e voleva pubblicare un suo progetto, dico no, forse non è il caso, schiaffoni reciproci e licenziamento: ma non lo dissi in pubblico, mi spacciai per dimissionato, fui costretto, insomma, a fare l'assessore...”

Fu un grande finale per la sorpresa del dessert: le misteriose, impossibili, gloriose palle di ricotta, prima compatte e fragranti poi destinate a frangersi e afflosciarsi morbidissime appena aperte, che meritano un applauso convinto di Natalia Ginzburg e di tutti alla signora Jole, la cuoca, moglie di Dario Cappellanti, “colei che vi ha coccolato finora” come disse Bonilli; e con le lodi convinte all'ineccepibile Moscato d'Asti Bricco Quaglia di Giuseppe Rivetti, un altro “tre bicchieri” e rivelazione per molti, che accompagnava il miracolo della ricotta. Ci fu anche, perché non dirlo, un brindisi di Nicolini al colesterolo buono, amico dell'uomo, e uno di Foa al socialismo che verrà. Dopo il liberismo. E a quello, ancora migliore, che verrà dopo il socialismo liberalizzato. Il resto è un'idea di Cernilli: come ci sono vini di luce e vini di sole, vini chiari del Nord e del Sud, può esserci una dolcezza del freddo, in una notte d'inverno a Roma?
 

L'articolo di Severino Cesari è apparso sul Gambero Rosso n. 25 supplemento a Il Manifesto del Febbraio 1989
 



 

Foto di apertura: Medusa Film, fotogramma dal film ‘La grande bellezza’ di Paolo Sorrentino

Il progetto Gustoso porta il made in Sicily agroalimentare nella Gdo in Usa

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Una rete di imprese agroindustriali del Sud Italia mette assieme le forze e da inizio 2018 sbarca oltreoceano con un unico marchio di qualità sugli scaffali dei supermercati Sam's Club/Walmart e Albertsons. Con l'obiettivo di fare altrettanto in Uk nel 2019, con l'occhio puntato a Oriente, verso la Cina.

Il primo container attraverserà l'Atlantico a gennaio prossimo. A quel punto, per gli aderenti al marchio Gustoso il primo fondamentale passo sarà compiuto: portare i prodotti dell'agroalimentare siciliano negli Stati Uniti sotto un unico brand e provare a conquistare il palato dei consumatori americani con prodotti di qualità e fortemente identitari. La rete d'imprese, presentata a Palermo a Palazzo delle Aquile, raggruppa 12 aziende agro-industriali dell'isola che dai primi mesi del 2018 troveranno posto negli scaffali dei giganti della distribuzione a stelle e strisce del calibro di Sam's Club (cash and carry del gruppo Walmart, il più grande con oltre 450 miliardi di dollari di ricavi) e Albertsons, tra i primi otto retailer. Saranno oltre cinquecento i punti vendita che daranno visibilità all'agroalimentare siciliano. Merito di un'azione coordinata che ha dato agli associati un unico riferimento sul fronte della distribuzione, con base in Florida, e ha consentito di siglare diversi e accordi di collaborazione con importanti distributori americani, tra cui Reese Group e Kreative Group e, per la parte vinicola-liquori, Vitale wine distribution.

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I prodotti e i marchi aderenti

Olio, pasta, succhi di frutta, salse, caffè, birra, farine. Sono alcuni dei prodotti a marchio Gustoso che partecipano a questa avventura che prende le mosse nel Sud Italia. Nel dettaglio: Molini Riggi, Birrificio Bruno Ribadi, Made Fruit, Marullo srl, Azienda vitivinicola Tonnino, Gustibus Alimentari, Miscela D'Oro, Asaro, Pannitteri, Valle del Dittaino, Olive di Sicilia e Gustoso export promotion Italia. Le imprese agroalimentari rinunciano a utilizzare il proprio marchio in etichetta per convergere sotto un unico brand ombrello, posto sul fronte dell'etichetta, a cui fanno capo, in questa prima fase della road map, circa trenta linee di prodotto.

 

Daniele CipollinaDaniele Cipollina

Il progetto Gustoso Sicilian Food Excellence nasce da un'idea di Daniele Cipollina, fondatore della rete, e di Paolo Internicola, direttore generale di Gustoso import Usa, che ha sede in Florida, Washington Dc e New York, col ruolo di distributore unico sui canali Gdo e Horeca. "Per i primi due anni di attività il piano industriale prevede un volume d'affari vicino ai 25 milioni di dollari", spiega Daniele Cipollina. Ma si tratta di stime prudenti che potrebbero essere facilmente ritoccate al rialzo. Molte aziende (tra cui Asaro o Miscela d'Oro) già da diversi decenni sono attive e internazionalizzate, mentre altre beneficieranno della forza della rete per potersi affacciare nei mercati statunitensi: "In maniera intelligente" fa notare Cipollina "le più grandi hanno percepito che da sole è più difficile stare in un mercato globalizzato e che era opportuno condividere un brand. Lo hanno fatto con Gustoso, che è stato dato loro in concessione per dieci anni". Per quanto riguarda la gamma dei prodotti, mancano all'appello quelli dell'arte casearia e della salumeria: "Non abbiamo inserito i prodotti freschi privilegiando quelli a più lunga scadenza, ma penso che la gamma verrà ampliata presto", afferma Paolo Internicola. Il valore aggiunto di Gustoso è che i consumatori "avranno la garanzia di acquistare un vero prodotto certificato made in Sicily, a fronte di tanti prodotti a scaffale che oggi sono pseudo italiani e pseudo siciliani".

I trend del mercato Usa

Gli Stati Uniti – non è una novità – sono una grande piazza, esigente e altamente competitiva. "Tuttavia" come sottolinea Todd Matherly, senior vice president per Sam's Club/Walmart "sui prodotti provenienti dall'Italia, e in particolare dalla Sicilia, i nostri consumatori hanno sempre un occhio di riguardo. Ricordo che gli americani adorano l'esperienza gastronomica italiana". I principali trend del momento nella grande distribuzione d'Oltreoceano dicono che sempre più consumatori cercano prodotti freschi, autentici, salutari, ottenuti con ingredienti semplici e naturali. "Vogliono conoscere le storie che stanno dietro a ciò che mangiano, vogliono mangiare cibi di qualità di cui conoscono la provenienza", rileva Matherly che avverte: "Attenzione all'approccio di mercato: ci vuole trasparenza, passione vera nel raccontare la storia del prodotto, non bisogna mai millantare capacità produttive che non si possiedono e occorre prestare attenzione al packaging. Il nome dell'Italia in etichetta (ndr: product of Italy) è senza dubbio un vantaggio competitivo".

Cosa acquistano gli americani

Gli Stati Uniti sono il primo mercato al mondo per le importazioni agroalimentari, con 130,5 miliardi di euro spesi nel 2016, pari a una quota del 10%. L'Italia detiene una quota di mercato del 3,4%. Nel 2016, il 10% del fatturato italiano del comparto agroalimentare è stato originato negli Usa, che sono la terza destinazione per i nostri prodotti dopo Germania e Francia, con un valore di 3,8 miliardi di euro (35% vino, 13% olio d'oliva, 8% formaggi, 7% pasta). Nel primo semestre 2017, per il made in Italy si è registrata un'ulteriore crescita del 6% rispetto a un anno fa, per un giro d'affari di 1,9 miliardi di euro. "I prodotti made in Italy godono di un'ottima reputazione in Nord America e svettano negli Usa prima di quelli francesi", dice Vincenzo Sofia, sales district director di Cribis (gruppo Crif), società che fornisce servizi e informazioni commerciali su aziende italiane e straniere: "Quando un consumatore americano acquista alimenti stranieri sceglie prima i prodotti italiani (29%), poi messicani (27%), canadesi (12%) e francesi (7%). Tuttavia, la leva del prezzo, primo criterio di scelta nei principali Stati secondo una nostra recente indagine, sarà molto importante per il successo di questo progetto e le strategie future".

Un progetto collettivo

Gustoso si vuole affermare come lavoro di squadra. All'iniziativa collaborano innanzitutto alcuni cuochi siciliani, come Peppe Giuffrè e Pasquale Caliri, ambasciatore della cucina siciliana nel mondo e chef del Marina del Nettuno yatching club di Messina: "Negli Stati Uniti è importante il lavoro di costruzione della credibilità. Qui" secondo Caliri "manca un'identità forte in ambito gastronomico, pertanto questo è un territorio interessato ai prodotti della cucina straniera, in particolare a quella italiana".

Intorno a Gustoso ruotano anche altre iniziative su cui stanno lavorando personaggi blasonati del mondo del food. Tra questi, il decano dei cuochi italiani in America, Tony May, oggi presidente dell'Italian culinary foundation (Icf), ideatore di noti ristoranti come il "San Domenico" e "SD26" a Madison square park di New York, che proprio tramite Icf punta ad aprire in Sicilia una scuola di formazione ed educazione alla cucina italiana per chef statunitensi: "Dalla nostra esperienza emerge che chi fa i corsi coi prodotti italiani se ne innamora e poi li vuole utilizzare in cucina".

Non solo, Gustoso ha tra i suoi partner il progetto "Mangia sano, mangia siciliano", su iniziativa di Codacons Sicilia con la partecipazione di Assoutenti, Confeuropa Consumatori, Consaambiente, Codici Sicilia e Udicon, che ha l'obiettivo di tutelare il patrimonio agroalimentare siciliano, materiale e immateriale. Gustoso è un progetto che coinvolge diversi attori della scena non solo agroalimentare, per esempio la gioielliera e designer Nadia Fallica, il marchio storico Ceramiche De Simone, l'azienda di moda La Coppola Storta, il pittore Antonello Blandi. E sono coinvolti nell'impresa anche i privati, come Frank Cascio (imprenditore italo-americano della finanza, noto per la sua lunga collaborazione con la pop star Michael Jackson) che ha investito in Gustoso cinque milioni di dollari. Grazie anche al supporto di Banca Igea, per le aziende aderenti, la rete consentirà di migliorare la competitività: dalla consulenza specifica relativa all'export alla contrattualistica commerciale, fino all'assistenza per la partecipazione a gare e tender internazionali.

I piani per il futuro: Uk e Cina

Gustoso non si fermerà agli Stati Uniti su cui lavorerà in tutto il 2018. Cipollina e Internicola hanno in programma di allargarsi ad altri Paesi e continenti. Dal 2019, verrà strutturata la commercializzazione di Gustoso in Uk. Mentre è allo studio il possibile ingresso in Cina. "Qui vogliamo iniziare con le vendite online", spiega Internicola "e lo faremo tramite il nostro partner Giglio group (società di e-commerce e leader nel settore del broadcast radio-tv, ndr) e mediante accordi con Alibaba", il gigante asiatico del commercio elettronico. Infine, se il format darà i risultati sperati, non è escluso che la rete venga estesa ad altri prodotti di altre regioni d'Italia.

a cura di Gianluca Atzeni

Addio Enoteca Italiana di Siena. Fallito anche l'ultimo piano di recupero

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Finisce male la storia del più antico ente italiano per la promozione dei vini, fondato con regio decreto nel 1933. Il sindaco Valentini: "Troppi debiti: non ci sono le condizioni per andare avanti". 

L'epilogo di una lunga storia

Con 17 voti a favore e 11 contro, il Consiglio Comunale di Siena ha deliberato la messa in liquidazione dell'Enoteca Italiana di Siena. La decisione si aggiunge a quella del Consiglio della Provincia di Siena, che lo scorso 23 ottobre aveva votato a maggioranza lo scioglimento. Il Sindaco di Siena, Bruno Valentini, parla di ‘un atto reso obbligatorio dalla valutazione fatta dai revisori dei conti dell’ente, che non rilevano la possibilità di continuità aziendale". La storia del più antico ente italiano per la promozione dei vini, fondato con regio decreto nel 1933, finisce qui. Ora, il prossimo passo sarà la convocazione dell'assemblea straordinaria dei soci dell'Enoteca per formalizzare la liquidazione, fatte salve "le procedure a tutela della storia, del marchio, delle attività dell’ente e la salvaguardia del posto ai dipendenti".

I motivi che hanno portato alla decisione sono essenzialmente dovuti alla difficoltà di reperire fondi sufficienti per assicurare la gestione, alla problematicità della riscossione dei crediti nei confronti della Pubblica amministrazione e soprattutto al "fardello dei debiti insostenibili", la cui eliminazione è la condizione di base per qualsiasi ipotesi di ripartenza.

 

Gli errori di gestione e l'incapacità di rinnovarsi

L'ultimo tentativo di risollevare le sorti dell'Enoteca risale al 2015 quando i soci, tra cui Regione Toscana, Provincia e Comune di Siena, aveva dato vita a un piano di rientro, che nonostante gli sforzi economici, non aveva dato i risultati sperati. Erano intervenuti contro la chiusura anche gli ex presidenti dell'Ente, Riccardo Margheriti, Flavio Tattarini e l’ex segretario generale Pasquale Di Lena. In un appello al Governo si chiedeva di"non vedere andare disperso un patrimonio di cultura e professionalità, che ha dato un contributo sostanziale alla crescita della qualità e dell’immagine dei vini italiani, al successo che essi vivono sul mercato e, grazie ad essi, al sorprendente sviluppo del turismo enogastronomico".

Errori di gestione a parte, l'Ente Vini di fatto non si è saputo rinnovare e non era più considerato dal mondo produttivo (aziende, consorzi, associazioni, ecc.) un interlocutore valido e al passo con i tempi della promozione e della comunicazione globale.

 

Oltre 80 anni di Enoteca Italiana

Creato nel ‘33 come emanazione dalle istituzioni economiche e professionali senesi, l'Ente diventa operativo con la prima Mostra mercato dei vini tipici e di pregio italiani, l’unica manifestazione di rilevanza nazionale dell’epoca. Con gli anni Cinquanta diventa Ente Autonomo, a cui furono affidati i compiti di promozione e valorizzazione dei vini in Italia e all’estero. Alla metà degli anni Sessanta, d’intesa con il Ministero dell'Agricoltura, l'Enoteca rinunciò per problemi finanziari e logistici, alla Mostra mercato, che poi passò a Verona per diventare l’attuale Vinitaly. All’Enoteca, inoltre, fu demandato il compito di organizzare laSettimana Nazionale dei Vini, un contenitore per l’approfondimento delle tematiche vinicole e la valorizzazione della produzione nazionale. Questo contesto ha favorito la creazione dell’Accademia della Vite e del Vino, dell'Associazione delle Città del Vino, del Movimento del Turismo del Vino, dell’Associazione Donne del Vino, che l’Enoteca ha supportato almeno sino al raggiungimento dell’autonomia organizzativa di ognuno. Hanno fatto parte del cda, Unione Italiana Vini, Federvini, Federdoc, Coldiretti, Confederazione Italiana Agricoltori, Confagricoltura, Anca Lega Coop e altri ancora mentre le cantine italiane associate hanno toccato le 600 unità. Numerose le pubblicazione di libri e dispense, tra cui l'Atlante dei Territori del Vino Italiano (2013) che descrive la mappa geografica della vitivinicoltura italiana.

 

a cura di Andrea Gabbrielli

 

 

La nuova pasticceria di Alfonso Pepe. Modernità, servizio al tavolo e la produzione che cresce

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Il pasticcere campano inaugura il nuovo locale dopo un restyling degli spazi di Sant'Egidio Monte Albino, che ha coinvolto il laboratorio e la sala. E dopo la festa inaugurale con tanti amici chef e pasticceri, si comincia a lavorare a pieno ritmo, con il personale che raddoppia.  

La Pasticceria Pepe si rinnova

C'è voluto un anno per arrivare pronti al taglio del nastro. E ben 10, vissuti in ascesa costante nel panorama della pasticceria nazionale, per concretizzare quel sogno che Alfonso Pepe ora tocca con mano. Sotto i suoi occhi, mentre racconta l'emozione per la grande festa inaugurale che ha celebrato il rinnovo totale degli spazi di via Nazionale, a Sant'Egidio del Monte Albino (Salerno), il viavai di clienti, e amici, che dalle prime ore del mattino si sono affacciati al locale, per curiosare tra i nuovi banchi della Pasticceria Pepe (Due Torte sulla guida Pasticceri&Pasticcerie del Gambero Rosso). Solo poche ore prima, fino a tarda notte, in cucina c'erano i colleghi arrivati per condividere la gioia di un nuovo inizio, 27 anni dopo l'apertura del primo laboratorio con i fratelli Prisco, Giuseppe e Anna, lui che da figlio d'arte ha saputo specializzarsi con esiti brillanti nella disciplina che respira da tutta la vita: “Ci vogliono bene in tanti, e ce l'hanno dimostrato. Sono arrivati in 12, da Franco Pepe a Nino Di Costanzo e Gennaro Esposito. Li ho chiamati per il piacere di averli con me in questo giorno speciale, e loro hanno voluto cucinare per noi. A fine serata Peppe Guida spadellava il suo spaghetto acqua e limone per tutti!”.

Una grande festa, “una giornata fantastica”, che ha visto sfilare quasi 5mila persone, dal taglio del nastro del primo pomeriggio fino alla mezzanotte. Tutti impazienti di scoprire la pasticceria come l'ha ripensata il maestro con il supporto fondamentale di TecnoArredamenti: più bella, più moderna, più spaziosa. Ambiziosa. Un progetto che stava nel cassetto da 10 anni, e ora asseconda le esigenze di un'attività cresciuta col tempo, “da quando abbiamo cominciato con pasticceria e gelateria alla realizzazione del primo angolo caffetteria, solo 2 metri di banco per la colazione. All'inizio lavoravamo 6 chili di caffè al mese, oggi 25 chili a settimana”.

I nuovi spazi. Laboratorio a vista e banchi dedicati

La molla del cambiamento, neanche a dirlo, è legata proprio al desiderio di accontentare le richieste del cliente. E non con un semplice restyling di facciata: “Non volevamo un'operazione di immagine fine a se stessa. Quello che non si vede è una razionalizzazione della produzione importante per supportare l'ampliamento degli spazi, e l'aumento della richiesta”. E nello specifico 800 metri quadri di deposito e laboratori al piano inferiore, che hanno richiesto una lunga ristrutturazione. Poi il rinnovamento degli spazi aperti al pubblico. La nuova pasticceria si sviluppa in profondità, seguendo l'infilata dei banchi dedicati, per 170 metri quadri complessivi, con 75 posti a sedere e servizio al tavolo, concertato da un responsabile di sala in arrivo dall'esperienza maturata nella ristorazione con Pino Lavarra. Dall'ingresso, si incontra prima il banco gioielleria con le praline e i cioccolatini, poi la vetrina delle torte, e circa 7 metri di banco dedicato alla pasticceria. Dietro, “e di questo vado molto fiero”, il nuovo laboratorio a vista, con angolo dedicato alla gelateria, anch'essa a vista: “Sul gelato ho voluto introdurre le carapine, anche se qui i clienti sono abituati diversamente. E allora per mostrare ciò che propongo abbiamo pensato a un murale dedicato alla materia prima, con frutta fresca e ingredienti che tutti possono apprezzare”.

Ben 8 sono i metri del banco riservato a gelato e proposta per la colazione, dolce e salata. Per pranzo, la nuova sala (ma anche i due dehors, uno su strada, l'altro più riservato), renderà più confortevole una pausa veloce, “niente piatti cucinati, ma una bella scelta di panini e pasticceria salata, che ripensiamo anche come stuzzicheria per l'aperitivo, con un calice di vino”. Cresce anche il personale, e di questo Alfonso Pepe va molto fiero: “Eravamo in 12, ora siamo 25. E per Natale dovremmo arrivare alle 40 unità. Voglio che ogni sezione abbia il proprio responsabile di riferimento. E poi c'è la produzione che aumenta”. La soddisfazione per l'impresa è palpabile, e il lavoro in più non spaventa: al suo fianco, oltre alla moglie Teresa, i figli Francesco e Maria “L'attestato di stima più gradito? I complimenti di Sal De Riso, 'è tutto perfetto', mi ha detto”.

 

Pasticceria Pepe – Sant'Egidio del Monte Albino (SA) – via Nazionale, 2/4 – 081 5154151 – www.pasticceria-pepe.it

 

a cura di Livia Montagnoli

Vino, crolla la produzione mondiale del 2017

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 L'Oiv pubblica le prime stime: con 246,7 milioni di ettolitri è il quarto record negativo dagli Anni 50 a oggi. L'Italia conserva il primato su Francia e Spagna. Pesa negli Usa l'incertezza dopo gli incendi in California. I consumi globali sono stimati a 243,2 mln/hl.

L'Europa trascina al ribasso la produzione mondiale di vino, a un livello che non si vedeva da oltre cinquant'anni. Quello che l'Organizzazione internazionale della vigna e del vino (Oiv) ha certificato a Parigi è un passaggio storico. Perché, con appena 246,7 milioni di ettolitri (mln/hl) e una riduzione dell'8,2% rispetto allo scorso anno, il livello globale di vino risulta "eccezionalmente scarso" e "senza precedenti". Per trovare un dato simile occorre andare indietro al 1991 (con 251,6 mln/hl) e al 1994 (con 249,4 mln/hl). E se si va ancora indietro, l'annata 2017 risulta superiore solo ad altre tre annate: la 1957 (173,8 mln/hl), la 1961 (213,5 mln/hl) e la 1956 (219,5 mln/hl). Pertanto, risulta la più scarsa dagli Anni Cinquanta a oggi. Gelate tardive, siccità e alte temperature estive: tutto ha contribuito a condizionare il raccolto, soprattutto quello dei principali produttori europei dell'area occidentale. All'appello, in Europa, mancano 24 milioni di ettolitri di vino. Mancanza che condiziona il dato mondiale, compensato a sua volta da quanto si registra negli altri continenti.

 

L'Italia resta leader. Per il terzo anno consecutivo, l'Italia mantiene il primato produttivo a livello mondiale, ma c'è poco da esultare vista la vendemmia complicata e la qualità eterogenea delle uve che i produttori hanno portato in cantina. Tra i principali tre Paesi produttori, l'Italia perde il 23% sul 2016 (con stime di produzione a 39,3 mln/hl), la Francia perde il 19% (a 36,7 mln/hl) e la Spagna il 15% (a 33,5 mln/hl). Segno meno anche per Germania e Grecia, rispettivamente con 8,1 e 2,5 mln/hl e cali del 10% e del 5%. La Bulgaria, con 1,1 mln/hl (-2% rispetto al 2016), risulta in linea col suo potenziale, dopo la produzione molto scarsa del 2014. Fanno eccezione Portogallo (6,6 mln/hl), Romania (5,3 mln/hl), Ungheria (2,9 mln/hl) e Austria (2,4 mln/hl).

Gli altri continenti. Dall'altra parte del mondo le cose vanno un po' meglio, con una produzione di vino che, a giudizio di Oiv, dovrebbe risultare "abbastanza stabile". Torna a crescere l'America del Sud dopo un 2016 condizionato dagli effetti de "El Nino". In Argentina, la produzione 2017 risale del 25%. In Brasile, dopo un 2016 scarso sono attesi 3,4 mln/hl e un maxi aumento del 169 per cento. Nuovo calo in Cile: 9,4 mln/hl, con un -6,4% sul 2016. Negli Usa, in particolare, pesa l'incognita degli incendi in California che hanno distrutto vigneti e cantine. Le prime stime del governo che riferivano di una diminuzione di appena l'1%, a 23,3 mln/hl di vino potrebbero essere riviste al ribasso. Tra gli altri Paesi, cresce il Sud Africa (a quota 10,8 mln/hl) con +2% sul 2016. Per quanto riguarda l'Oceania, le stime Oiv mettono l'Australia a 13,9 mln/hl, con un aumento del 6% (è il terzo consecutivo. In Nuova Zelanda, invece, il 2017 segna un leggero calo (-9% a 2,9 mln/hl), ma rispetto a una produzione record nel 2016.

La stima sui consumi. Sul fronte dei consumi, infine, non sono ancora disponibili le cifre definitive, ma l'Oiv ha elaborato una proiezione che considera due scenari: uno sulla ripresa nel lungo periodo partita nel 2000, l'altro sull'andamento negativo di questo mercato a partire dalla crisi economica del 2008. Pertanto, il consumo mondiale di vino 2017 è inserito in una forchetta compresa tra 240,5 e 245,8 mln/hl, il cui punto medio è 243,2 milioni di ettolitri.

 

www.oiv.int

a cura di Gianluca Atzeni

Fermentazione. La via domestica all'uso dei batteri

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Dal pane allo yogurt, dal kefir fino al kombutcha: ecco tutti i segreti di Sandor Ellix Katz, il guru delle fermentazioni.

Fai da te. Sale e barattoli, fermenti casalinghi

Secondo Sandor Ellix Katz, il guru americano delle fermentazioni LINK, al contrario di quanto si immagina abitualmente, fermentare a casa è perfetto per le persone che hanno un ritmi di vita serrati: è un processo lungo, ma per attivarlo ci vuole poco. Basta pulire e tagliare le verdure e metterle a fermentare per avere alla sera un cibo buono e gustoso. Katz presenta tre metodi di fermentazione casalinga.
1. Salare la verdura e lasciarla fermentare nel suo succo, proprio come vengono fatti i crauti. Per questo bisogna usare verdure che si prestano a un taglio sottile tipo julienne: si tagliano, si salano e si massaggiano in modo da far uscire il loro succo, quindi vengono pressate in contenitori di vetro o ceramica. Si può usare un pestello per spingere tutto verso il fondo del contenitore. Si possono mischiare le verdure, condirle con spezie e salarle secondo il proprio gusto… “A me”spiega Katz “piace molto mettere delle patate bollite e schiacciate nel sauerkraut con un pizzico di aglio. La cosa importante è che le verdure siano ricoperte del loro succo, senza mai riempire fino al bordo il contenitore che deve essere poi ben chiuso: più passa il tempo, più i sapori si fanno forti e decisi”.

2. Mettere le verdure in acqua salata (in genere 50 g di sale per un litro di acqua): soluzione ideale per le fermentazioni di cibi interi, di grandi dimensioni, come cetrioli, carote, finocchi, barbabietole. Le verdure (con la carbonatazione dovuta alla fermentazione) tendono a salire sulla superficie invece devono sempre essere immerse nell’acqua. Magari usando un tocchetto di un vegetale per fa sì che il coperchio del barattolo spinga verso il basso: “Ma non usate troppa acqua”suggerisce Katz “altrimenti il sapore delle verdure si diluisce: basta che le verdure restino coperte a filo”.

3. Fermentare con i lieviti (yogurt, kefir, kefir di acqua, kombucha, pasta madre). Nel caso specifico del kefir, poi, ad agire sono dei funghi. “In tutte le preparazioni che prevedono uso di acqua” spiega Sandor “fate attenzione a non usare acqua con cloro”.

 

Fermentazione all’italiana

L’Italia essendo un paese ricco di verdura frutta fresca, non ha una tradizione forte di fermentazione tranne alcuni esempi come colatura, salami, salsa di pomodoro fermentato, etc. Certo, il pane o la pizza sono un’altra categoria. Comunque non sono pochi gli italiani che fanno a casa yogurt, kefir, addirittura cose più sofisticate come tempeh. E, pur non avendo una grande tradizione di fermentazione delle verdure, riescono a imporsi con la creatività. Nicolas Arduini, che vende kombucha e kefir d’acqua al Mercato di Santo Spirito a Firenze, prepara delle combinazioni buonissime di frutta e kefir d’aqua, kombutcha e anche idromele. Invece una contadina toscana, intervenuta al corso di Katz, ha portato i suoi carciofini fermentati per due settimane e conservati sott’olio: a distanza di un anno, sono ancora ottimi. Purtroppo, lei non li vende, ma in casa si possono replicare.

 

Ricette

pasta per pancake

Pancake per riciclare pasta madre (e non solo)

dedicata a chi cura la propria pasta madre per la lievitazione naturale. Se non si deve fare il pane, ma occorre comunque rinfrescare la pasta madre, l’ideale è usare gli scarti per farne dei pancake. Chi non ha la pasta madre, può farla al momento.

Per avviare la pasta madre da zero: occorrono acqua e farina (anche di segale, miglio o altro: variante gustosa è con la farina di teff, senza glutine e scura). Si mischiano farina e acqua: il mix deve essere abbastanza liquido tanto da colare dal cucchiaio, ma da velarne la superficie quando si solleva dal liquido. Si chiude ermeticamente e dopo un paio di giorni si forma della schiuma in superficie: è pronta la pasta madre. Chi vuole portarla avanti, deve nutrirla (rinfrescarla) una o due volte a settimana: bisogna togliere circa il 70% della pasta, aggiungere farina e acqua fresca e fare di nuovo la prova col cucchiaio. Lo scarto tolto per il rinfresco si può usare per fare i pancake salati. Si grattugiano o si tagliano a piccoli pezzetti le verdure cotte avanzate (anche della polenta avanzata) e si mischiano con la pasta madre; si aggiunge un po’ di farina e acqua fresca e si lascia a lievitare ancora. Il giorno dopo si aggiunge poco bicarbonato di sodio (circa un cucchiaino da tè per 500 ml di pastella) proprio prima di fare i pancake: rende soffici i pancake e li addolcisce neutralizzando l’acido lattico della pasta madre. Si possono aggiungere delle uova fresche nell’impasto e un po’ di formaggio. Quindi si cuociono in una padella unta come i pancake.

kefir d'acqua, granuliGranuli per kefir d'acqua

Kefir d’acqua

Il Kefir d’acqua è molto apprezzato dai vegani e da chi è intollerante al latte. In realtà, i lieviti che vengono usati per il cosiddetto kefir d’acqua non sono i granuli del kefir di latte: si tratta di differenti lieviti e batteri. Si utilizza un cucchiaino di granuli di kefir per un litro di acqua (o di latte di cocco: ottimo) e si procede come col kefir classico. Si miscela in un contenitore di vetro non del tutto pieno, si chiude e si fa fermentare per un paio di giorni. Si filtra e si beve. I grani di kefir possono essere riutilizzati o buttati via insieme all’organico per il compost.

 

Kefir d'acqua ai fiori di sambuco (ricetta di Nicolas Arduini)

Occorrono 1 litro d'acqua, 40 g di zucchero di canna e 40 ml di sciroppo di fiori di sambuco (fatto con acqua, zucchero di canna, fiori di sambuco, succo di limone); poi 80 g di fermenti vivi di kefir d'acqua (in grani), uno spicchio di limone e una foglia di menta. In un barattolo capiente si scioglie lo zucchero nell'acqua, si aggiunge tutto il resto e si socchiude il barattolo (non ermeticamente). Si lascia a temperatura ambiente (lontano dalla luce diretta e da fonti di calore) per un paio di giorni mescolando una volta al giorno. Quindi, si filtra, si imbottiglia e si tappa ermeticamente; si lascia la bottiglia a temperatura ambiente ancora 8 ore (sviluppa un po’ di anidride carbonica). Si ripone il kefir in frigo e si lascia maturare per due giorni, quindi è pronto. Attenzione, stappando, ell’effetto spumante. Si consuma fresco, anche con ghiaccio, e si conserva in frigo per 1 settimana.

Salgam

Şalgam

Lo Şalgam è una bevanda della cucina sud orientale della Turchia, vero e proprio gioiellino alimentare non ancora scoperto dal mondo del viver sano internazionale. Şalgam è il nome di una specie di rapa. Insieme alla carota viola (molto coltivata in Turchia), è l’ingrediente principale di questa bevanda analcolica che è un ottimo compagno per i kebap (o per gli arrosticini). È poco calorico e ha un gusto sapido e pungente. Occorrono una quindicina di carote viola e 5 litri di acqua salata (40 g di sale/litro). Lo Şalgam originalmente viene fermentato con l’aiuto del Setik (la polvere che rimane dopo la macinatura del Bulgur: si può usare anche un po’ di bulgur macinato o del pane grattugiato) che si pone sul fondo di un barattoli di vetro avvolto in una garza ben chiusa (come una pallina da tennis). Si raschiano le carote, si tagliano in 4 per la lunghezza e si mettono in verticale dentro al barattolo. Si aggiunge acqua salata e si chiude ermeticamente. Si lascia fermentare per un paio di settimane al buio a temperatura ambiente. meno fermenta, meno forte è il sapore. Aperto il barattolo, si toglie la palla di garza, si filtra e si consuma (dura per 3-4 mesi).

 

Idromele

Idromele è ritenuta essere la prima bevanda fermentata. Lo facevano anche i nostri antenati delle caverne, poi i Romani si sa che ne erano ghiotti. L’idromele di Katz è molto semplice. Usa 1/4 miele e 3/4 acqua. Questa formula può essere cambiata secondo il risultato che vuole raggiungere. Più miele si usa, più alcool si svilupperà alla fine. Katz usa a volte anche fiori o frutta per variare il gusto. Bisogna sciogliere il miele in acqua non clorata e aspettare 10-15 giorni. Ogni giorno bisogna dare una mescolata. Dopo una decina di giorni si potrebbe mettere in frigo, dove la fermentazione rallenta e diventa più aromatico.

 

kvass

Kvass di frutta

Il kvass è una antica bevanda fermentata della tradizione russa ed è un ottimo esempio di come purificare acqua batteriologicamente non potabile. Il kvass viene realizzato con barbabietola e acqua salata e fermentata con l’aiuto di pane di segale (ma si può usare qualsiasi verdura o frutto al posto della barbabietola: non è l’originale, ma è molto buono e versatile). Si possono usare delle nespole o qualsiasi altra frutta: la si dispone nel barattolo di vetro (intera e con la buccia), si aggiunge zucchero a piacere e acqua. Si chiude e si lascia fermentare per 4 settimane, quindi si apre, si filtra e si serve: è una bevanda poco alcolica e molto personalizzabile. 

The Best Chef Awards: 300 chef nella lista che premia il talento individuale. Vince Joan Roca, Crippa primo degli italiani

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Dopo la prima edizione, l'anno scorso, la classifica ideata in Polonia per premiare il talento individuale degli chef di tutto il mondo incorona il catalano Joan Roca. Con lui, sul podio, Michel Bras e David Munoz. Per l'Italia bene Crippa, Bottura, Alajmo, Uliassi. In tutto sono 36 gli chef tricolore. 

La classifica che premia gli chef

Un'altra classifica, l'ennesima. Che preferisce puntare tutta l'attenzione sugli chef. E in fondo l'operazione non è troppo dissimile da tante liste che premiano i ristoranti, concentrando però l'attenzione su chi è alla guida della cucina più che sulle rispettive attività. The Best Chef Awards è la competizione ideata in Polonia nel 2016, e si concentra dichiaratamente sulla personalità degli chef in lizza, premiandone la cucina artistica e la presentazione visiva. A valutarli, una giuria di 300 esperti, tra cuochi, giornalisti, addetti ai lavori. Ma pure gli utenti che seguono il contest sul web, circa 1,5 milioni di follower. La cerimonia di premiazione dell'edizione 2017 si è tenuta a Varsavia il 25 ottobre scorso, incoronando chef più amato e apprezzato dell'alta ristorazione Joan Roca, del Celler de Can Roca. Sul podio, oltre alla Catalogna, anche la Francia di Michel Bras, e di nuovo la Spagna, con il più giovane e controverso del terzetto di testa, David Munoz, chef patron di Diverxo a Madrid. Due medaglie su tre, dunque, finiscono in Spagna, ma è la Francia a guidare la carica degli chef, con ben 69 presenze su 300 nominativi complessivi. E l'Italia la tallona, al secondo posto nella classifica per nazioni, piazzando ben 36 rappresentanti della cucina d'autore tricolore.

 

L'Italia in classifica

Il primo degli italiani, di cui – come per tutti i premiati – si premia esclusivamente il talento individuale, è Enrico Crippa (Piazza Duomo) che strappa il sesto piazzamento. Poi, per un soffio in top ten, Massimo Bottura (nono), e al numero 16 Davide Scabin del Combal.0. Seguono da vicino anche Massimiliano Alajmo (Le Calandre, 19) e Mauro Uliassi (20). Esiguo il numero delle donne, solo una, Loretta Fanella, in rappresentanza dell'Italia. Tra gli altri grandi chef della Penisola presenti Antonino Cannavacciuolo in 31esima posizione, Nino Di Costanzo al numero 42. Solo 55esimo, invece, Niko Romito, che quest'anno guida con 96 punti la lista delle Tre Forchette assegnate dalla guida Ristoranti d'Italia del Gambero Rosso. Tornando alla classifica per nazioni, la Danimarca piazza 19 chef (Christian Puglisi, invece, viene considerato nel novero degli italiani, ed è 69esimo), la Spagna, gli Stati Uniti e i Paesi Bassi 15, il Giappone 10.Premi speciali al belga Roger Van Damme, miglior Pastry Chef (ma in lizza c'era anche Loretta Fanella) e a Chantel Dartnall, sudafricana che si aggiudica il riconoscimento di miglior Chef Lady.

 

 

Tutta la classifica su www.bestchefawards.com

 

a cura di Livia Montagnoli


Spagna. L'esodo delle cantine catalane dopo il referendum per l'indipendenza

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I primi effetti del travagliato referendum indipendentista si fanno già sentire tra le file del vino catalano, a cominciare da un grande nome della viticoltura locale, Codorniu, che si prepara alla migrazione. Quanti lo seguiranno? 

Cosa significa se uno dei simboli vitivinicoli della Catalogna decide di spostarsi – almeno legalmente – nella Roja? La decisione di Codorniu, una delle bodegas più famose del Cava, fondata nel lontano 1551, lascia poco spazio alla fantasia. Ancora meno ne lascia il comunicato diffuso dai suoi vertici, che spiega come la scelta sia stata presa a fronte della situazione di "incertidumbre política y jurídica" in cui si trova attualmente la provincia autonoma. Come a dire che la tensione è altissima, così come la paura delle imprese catalane per il futuro, a seguito del referendum sull'indipendenza dello scorso primo ottobre, che ha provocato uno strappo profondissimo tra il Governo di Madrid e quello della Catalogna.

Codorniu– la cui nuova sede legale sarà ad Haro, ma quella produttiva rimarrà comunque a Sant Sadurní d’Anoia (Barcellona) - è la prima cantina, ma non l'unica impresa spagnola, ad inserirsi nella lista dei “migranti” catalani, dove ci sono anche banche come la Caixa e il Banco de Sabadell, gruppi come Gas Natural Fenosa e privati come Tab Spain Batteries, che non si son fatti scappare la possibilità di "utilizzare" subito una recente legge approvata dal governo centrale per consentire alle imprese, in un momento di incertezza sull'esito dell'indipendenza catalana, di trasferire la propria sede in altre parti della Spagna.

Ha annunciato che lo farà entro fine mese anche un'altra griffe del Cava, Freixenet, il cui direttore esecutivo José Luis Bonet ha dichiarato che l'azienda "non può correre il rischio di ritrovarsi al di fuori dell'Unione europea, perché sarebbe senza dubbio una perdita di competitività".

 

Il futuro del vino catalano

Ma vediamo quali sono i rischi che corre la viticoltura spagnola tutta, nel caso di un'eventuale indipendenza. Secondo un'analisi della rivista inglese Decanter, la produzione di vino catalano non è al primo posto per numeri, ma genera circa il 22% dei ricavi nazionali grazie all'export. Una perdita di questo reddito, pari ad oltre 600 milioni di euro, potrebbe essere un grave colpo per la tutta la nazione. Tuttavia, c'è da considerare che la Spagna potrebbe rivendicare il diritto al nome Cava, in quanto è una denominazione definita da un processo e non da un territorio. Senza considerare che le condizioni di mercato potrebbero cambiare in base al nuova collocazione della Catalogna all'interno dell'Unione Europea. Al momento sono solo ipotesi, a cui, però, l'esodo delle prime cantine catalane verso altri lidi, comincia a dare concretezza.

 

a cura di Loredana Sottile

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Food Evolution. Il film rivelazione sugli Ogm e le biotecnologie

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Suddividere i cibi in buoni e cattivi, sostenibili e non, sani e dannosi. È un processo mentale comune a tutti i consumatori, ma non sempre corretto. A fare luce sul tema degli Ogm ci ha pensato un regista americano, che nel documentario Food Evolution mette a nudo, una dopo l'altra, le verità nascoste dietro questo mondo.

Gli Ogm in Italia

Ogm, ovvero Organismi geneticamente modificati. Ne sentiamo parlare da anni, in televisione, sui giornali, alla radio. Li abbiamo demonizzati, aborriti, banditi a gran voce. Tanto che in Italia oggi non possono essere prodotti, ma solo importati e utilizzati, e impiegati per fare ricerca (in laboratorio, ma non in campo aperto). Questo significa anche che la richiesta esistente viene assorbita in altro modo: acquistando Ogm dall'estero. Soprattutto Nord e Sud America per mais e soia, che trovano impiego nella filiera zootecnica, per esempio per nutrire quelle vacche dal cui latte deriva il grana, Cina e India per il cotone (anche quello idrofilo, usato in campo medico). Come vi avevamo raccontato più dettagliatamente qui, viviamo all'interno di una catena alimentare che ha, tra i suoi anelli, anche organismi geneticamente modificati. Dichiariamo da anni la nostra opposizione alle pratiche impopolari, perché il sentire comune è ostile alle biotecnologie, lasciando fare agli altri Paesi il “lavoro sporco”, vantando colture tradizionali sane e genuine. Ma è davvero così? L'esempio più eclatante è quello del mais Ogm free, esposto all'attacco della piralide, una farfallina che depone le larve negli stocchi del mais, e veicola funghi che producono tossine cancerogene. Un prodotto non geneticamente modificato, dunque, ma a rischio: quando dalle analisi (effettuate sui prodotti immessi sul mercato, non sempre se impiegati per allevamenti a filiera chiusa) si rileva un livello troppo alto di tossicità, questo deve essere eliminato, e agricoltori e allevatori devono acquistarne di nuovo dall'estero, ricorrendo così a un prodotto Ogm.

Il documentario

Un mondo critico, fatto di controversie, falsi miti e dubbi annosi mai risolti del tutto, quello degli Ogm. Per rispondere a tutte le domande sull'argomento, il regista Scott Hamilton Kennedy, già candidato all’Oscar nel 2009 per il lungometraggio“The Garden” (che racconta la storia di una delle ultime fattorie di Los Angeles poi demolita), ha deciso di girare un film documentario per fare chiarezza su questo tema. È Food Evolution, una pellicola che indaga sull'industria alimentare, squarciando il velo sull'intricato universo degli Ogm, e facendo luce sui temi caldi del settore agroalimentare attuale, come la sostenibilità, la fame nel mondo, l'agricoltura biologica e il rispetto per l'ambiente. “Con un tono delicato, rispettoso per i due oppositori ma insistente sui dati, Food Evolution piazza una verità sconveniente da accettare per i sostenitori del biologico: in un mondo disperato per il cibo sano e sostenibile, gli Ogm potrebbero essere un punto di forza positivo”. Questo il commento di Daniel M. Gold del New York Times sull'innovativo progetto del regista.

Le fake news sugli Ogm

Perché ancor prima che un documentario sull'industria alimentare, Food Evolution è una denuncia a tutte le notizie false che ruotano attorno al tema degli Ogm. Durante la presentazione alla Fao, Kennedy ha raccontato i motivi che lo hanno spinto a condurre questa ricerca: “Nel film sono elencati due esempi di alcune delle maggiori fake news in circolazione. In primis, il rischio di contrarre l'Hiv attraverso il consumo di cibi ogm, una leggenda metropolitana non supportata da alcuna evidenza scientifica. E poi il pericolo dell'infertilità, legato ancora una volta a questo stile alimentare”. Ipotesi mai accertate, diffuse dalle stesse istituzioni politiche, “specialmente in Uganda e in Kenya. Quello sugli ogm è un dibattito molto sbilanciato, sia dai genitori, preoccupati dell'alimentazione dei propri figli, sia dai politici, che hanno autorizzato campagne pubblicitarie allarmanti”. Un fenomeno da combattere, per contenere il terrore dilagante legato a questo argomento: “Dobbiamo abbassare la soglia di paura. Grazie alla scienza stiamo vivendo uno dei momenti storici di maggior sicurezza alimentare. Questo non significa che non ci siano dei rischi, ma non bisogna demonizzare degli alimenti senza conoscerli prima a fondo”. Una critica alla mancanza di comunicazione e alla disinformazione, dunque, i due veri pericoli della società contemporanea: “I social media e internet sono un'arma a doppio taglio. Ognuno di noi deve saper distinguere le notizie vere da quelle false. Bisogna sapere a quali fonti fare affidamento, e occorre porre la massima attenzione prima di condividere un articolo sui social. Bisogna informarsi, approfondire, verificare”.

Ogm: controversie e paradossi

Dal film di Kenney emerge un quadro distopico, fatto di dissensi, contrasti, contraddizioni; un'istantanea del comparto agroalimentare contemporaneo, un mondo ampio e complesso, dinamico e irrazionale. Che taglia nettamente la fascia dei consumatori in due schiere distinte: paesi ricchi e poveri, luoghi in cui la fame è un dilemma oneroso. E gli Ogm non rispecchiano a pieno il concetto di eco-sostenibilità, ma possono rappresentare una soluzione parziale al mancato sostentamento di tante famiglie in difficoltà. Come quelle hawaiane, per esempio, che grazie all'introduzione della Papaya Rainbow, prodotta attraverso biotecnologie, hanno potuto salvare l'economia del Paese, messo in ginocchio dopo la distruzione delle coltivazioni di papaya tradizionale da parte di un parassita. Per farlo, si è dovuto ricorrere a una deroga della legge anti Ogm in vigore. O ancora in Uganda, dove (con difficoltà) si prova a introdurre una nuova varietà di banana con un gene del pepe resistente all'infezione dell'”Ebola della banana”, fungo che ha gettato nella povertà gli agricoltori della zona. È tempo, dunque, di abbandonare preconcetti e opinioni infondate, per cercare un nuovo approccio all'industria alimentare. Più aperto, sincero, oggettivo. Tempo di dire la verità: “Non possiamo più distinguere fra prodotti buoni e cattivi. Non voglio togliere ai consumatori il diritto di scegliere, ma voglio la verità. Quella scientifica”.

www.foodevolutionmovie.com/

a cura di Michela Becchi

Via Japan. A Roma il festival dello street food giapponese

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Tre giorni per assaggiare il meglio del cibo da strada giapponese, dagli onigiri ai takoyaki, nel cuore della Capitale. Alle Officine Farneto, dal 3 al 5 novembre arriva Via Japan, evento dedicato alla gastronomia nipponica.

L'evento

Si chiama Via Japan, ma a ospitare questo evento all'insegna della cultura gastronomica giapponese è via dei Monti della Farnesina a Roma, dove dal 3 al 5 novembre andrà in scena una festa dedicata a onigiri, yakitori, takoyaki, tempura, ramen e tante altre specialità tipiche della terra del Sol Levante. Tutte in format street food, formula vincente che consente ai consumatori di assaggiare piccole porzioni a prezzi contenuti, scoprendo sapori e profumi delle ricette della tradizione reinterpretate in chiave contemporanea, in formati nuovi e originali, pratici e creativi. Patrocinato dall'Istituto Giapponese di Cultura e dall'Ente Nazionale del Turismo Giapponese, l'evento prevede la performance ai fornelli di 7 cuochi, ognuno dei quali preparerà un menu tipico della cucina nipponica.

L'obiettivo

Chioschi e banchi d'assaggio in ogni angolo, dove poter assaggiare le creazioni di alcuni dei maggiori ristoranti giapponesi: Musubiya (Tokyo), Trijiro (Tokyo), Jyu-Jyu (Hiroshimo), Iwai (Kanagawa), Chibo (Nigata), Ichigen (Nigata). Per Roma ci sono il Ramen Bar Akira e Sushisen. Locali che hanno segnato la storia della tavola giapponese nel mondo, punti di riferimento per il cibo di qualità in Oriente ma anche in Italia, a Roma, dove negli ultimi due anni abbiamo assistito a una crescita esponenziale dell'interesse dei consumatori per questo prodotto. Via Japan nasce dalla collaborazione tra esperti di cucina e cultura giapponese, con lo scopo di raccontare e divulgare la tradizione del Sol Levante, creando nuove opportunità per uno scambio commerciale. Un'esperienza sensoriale che coniuga piatti storici e ricette moderne, dai classici intramontabili della tradizione popolare alla cucina contemporanea, moderna e essenziale, per un viaggio di tre giorni fatto di sapori, colori, profumi che ricreano, nella Città Eterna, l'atmosfera unica delle metropoli giapponesi.

Il programma

Con show cooking, masterclass, laboratori, degustazioni e seminari tenuti da esperti del settore per cercare di avvicinare il pubblico a questa tavola eclettica e variegata. Protagonista principale dei workshop sarà una delle specialità nipponiche per antonomasia, il sushi, realizzato dallo chef Ken Oda, che svelerà al pubblico tutti i segreti per realizzare un sushi d'autore. Non mancherà, poi, un focus sul sake, il famoso vino fermentato di riso che continua a raccogliere l'entusiasmo di consumatori di tutto il mondo; a raccontarne origini ed evoluzione, il sake sommelier Luca Rendina, che spiegherà ai visitatori tecniche di preparazione e degustazione della bevanda. E ci sarà anche Luca D'amato, sake mixologist che si occuperà dell'area food Sake Mixology Bar. E poi laboratori tematici a cura delle diverse aziende giapponesi ospiti, l'area kids con attività pensate per i più piccoli, come corsi di origami e preparazione di onigiri. Allestito anche un mercatino giapponese, con eccellenze tipiche del Paese, specialità dolci e salate, e oggetti di artigianato.

Via Japan – Roma - via Monti della Farnesina, 77 - dal 3 al 5 novembre 2017 | www.facebook.com/viajapanproject/

a cura di Michela Becchi

Il nuovo ristorante di Gianluca Gorini. Assaggi da San Piero in Bagno

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Nella sua nuova vita, ad appena 34 anni, Gianluca Gorini riesce a dare il massimo nel cuore dell’Appennino Tosco Romagnolo, in quella che fu la storica casa (e trattoria) di Giuliana Saragoni. La cucina di Gorini – che nulla ha a che vedere con la tradizione di questa terra – riesce a parlare al cuore di chi qui vive e a essere provocatoria e rassicurante in un inedito (almeno per lui) mix di rabbia creativa e di rotonda armonia.

Le ricette le trovate sul prossimo Gambero Rosso in edicola, quello di novembre… Intanto vi raccontiamo un po’ di lui. Fa strano ritrovarlo nella casa che fu per anni e anni il regno di Giuliana Saragoni e di suo marito, grande cercatore di erbe sull’Appennino Tosco Romagnolo. 

gianluca_gorini_sara_silvaniGianluca Gorini Sara Silvani

 

Fa strano per noi, ma per lui, per Gianluca Gorini, è invece normale, come trovarsi a casa: “Sono orgoglioso” sorride“Tanto che non ho esitato un momento a lasciare la targa che accoglie gli ospiti: Benvenuti alla Locanda del Gambero Rosso”. Che ora, però, è daGorini, nel cuore di San Piero in Bagno, a due passi da Bagno di Romagna e dall’Hotel Tosco Romagnolo di Paolo Teverini (Due Forchette per la guida Ristoranti d'Italia del Gambero Rosso), uno dei maestri di Gianluca. L’altro è stato (o è?) Paolo Lopriore: “Un genio!”. E ci troviamo d’accordo.

 

DaGorini - la salaLa sala

L’arrivo in pieno Appennino

L’apertura del nuovo locale ha poco più di un mese. “Ed è sempre pieno, a pranzo e a cena” fa lui “Non ce lo aspettavamo, davvero. E ovviamente ne siamo felici”. La prima cosa che salta all’occhio è l’età media del suo pubblico: sostanzialmente giovane. La sala, piena – vabbè, non sono più di 30 coperti, ma di mercoledì sera in pieno Appennino non sono pochi – non supera di molto gli –enta. C’è chi sceglie i 4 piatti della degustazione base, a 40 euro, chi sceglie alla carta due piatti e un buon calice, ma anche chi decide di affidarsi alle 7 portate dello chef raccontati da Sara Silvani – con cui Gianluca condivide la vita e una bimba di 4 anni – e da Matteo Albanesi (un volto noto a chi ha frequentato la sala del Reale di Niko Romito), che segue la cantina.

DaGorini - la cantinaLa cantina

Ho avuto tante proposte da quando chiusi con Le Giare” racconta Gianluca “A un certo punto non sapevo davvero cosa fare: a 34 anni devi un po’ decidere dove puntare nella vita. Non riuscivo a farmi un’idea. È stata Sara a darmi una ricetta: chiudi con tutto e tutti, rifletti, chiarisci dentro di te e poi decidi. Così è stato: non rispondevo più al telefono, mi sono ritirato a pensare, ad approfondire il mio animo. E ho deciso: venire qui è stato come tornare a casa, una casa dove non ho mai vissuto, ma che in un certo senso mi aspettava”. Continua ancora“La mia compagna è di qui, la sua famiglia alleva bestiame e lo fa in modo eccezionale, questa è una zona ricchissima di suggestioni e di spunti… E la vita è tranquilla. In paese mi salutano come uno di loro, mi sostengono. E in molti son venuti a mangiare da me e tornano. Non era scontato, per me è un punto di orgoglio”.

Animelle di vitello, erba cipollina, capperi e tè verde. Gianluca GoriniAnimelle di vitello, erba cipollina, capperi e tè verde

Una cucina equilibrata, ma non facile

E c’è da dire che la sua non è certo una cucina facile. Se da Paolo Teverini ha appreso l’importanza della tecnica e dell’organizzazione, la dolcezza di una cucina tonda e armonica, Gianluca ha preso anche molto da Paolo Lopriore: la provocazione del cubo di manzo alla brace (ovviamente crudissimo e rossissimo) e dell’insalata mista (alghe ed erbe senza null’altro, da mangiare con le mani) – solo per citare due degli ultimi piatti del Canto di Siena prima dell’ultima parentesi più “toscaneggiante” e dell’abbandono dello chef oggi al Portico di Appiano Gentile vicino Como – sono ancora molto vivi nella mente di Gianluca e anche nella sua cucina. I suoi piatti ora possono spaziare liberamente tra questi due estremi, entrambi contemporanei ed espressione di due diversi approcci alla cucina italiana: dalla dolcezza deltortello di erbe spontaneein cui l’estratto di salvia infonde un nervo amaro, fino alla lepre cruda e ai dessert, che sono fantastici fine pasto leggeri e pieni di giochi e di rimandi tra sensazioni calde e fredde, aromi e toni di dolce e amaro (anzi, amari). “Io qui mi sento più tranquillo e disteso” spiega lo chef “E credo che anche i miei piatti stiano decantando, si arrotondano, si affinano… Sentivo il bisogno di un contesto amico, familiare, di una realtà in cui poter esprimere la mia creatività. la mia voglia di cucinare ma senza troppi e pressanti urgenze o condizionamenti. Ora faccio cose in modo diverso rispetto alle Giare, mi sento di vivere una pienezza che prima cominciava a mancare”.
Ma andiamo piatto per piatto…

 

Radicchio al fumo di brace, un Bitter, salsiccia secca e arancia amara. Gianluca GoriniRadicchio al fumo di brace, un Bitter, salsiccia secca e arancia amara

I piatti

La battuta di manzo, cacio, pepe e birra scura. Un’entrata che se si fonda su una splendida qualità di carne, eccezionale, è in realtà un percorso dentro e intorno al formaggio, che qui si esprime nelle maturazioni (più o meno lunghe) in fossa e nei latti di pecora e di mucche al pascolo. In primo piano esplodono i diversi formaggi, shot di sapore e consistenze in cui la dolcezza della carne rappresenta il sentiero che tiene insieme i toni che vanno dalla dolcezza (a volte pungente) del cacio fino all’amaro-dolce-luppolato della salsa di birra scura. In questo piatto la crosta di pane – fatto in casa – dà la chiave di volta, la spiegazione del perché quel pane così cotto e tirato, da sembrare al principio strano ma che invece ben accompagna tutti i piatti.

Omaggio alla cucina di montagna è la Salsiccia alla brace, cavolo viola, rosa canina e pepe rosa. Piatto rustico, ma gentile e impreziosito da una bella marinatura in un aceto di pinot nero elaborato da Giorgio Melandri. La rosa canina dà il tocco di eleganza finale riemettendo insieme la dolcezza della carne di maiale al limite della crudità (ben rosa e golosissima) e la durezza a(s)cetica del cavolo marinato. Una provocazione. “Non poteva mancare in montagna” sorride Gianluca. Ma in questo caso la sensibilità della cucina dà molta grazia, eleganza (specialmente nelle note floreali del pepe rosa) e godibilità a una tradizione montanara non sempre molto “commestibile”, spesso rinsecchita e divorata da una brace fuori controllo di tempo e di temperatura (oltre che da una materia prima non certo più al livello di quella che avevano a disposizione i nostri nonni).

 

Provocazione e rotondità

Dei tortelli abbiamo parlato: portata davvero godibile e golosa nella pienezza del morso e del gioco delle dolcezze e degli amari tra burro e parmigiano affumicato da una parte, ed erbe spontanee ed estratto di salvia dall’altro.

Tra le pietanze, invece, arrivano due fuori-carta che sono anche due fuoriclasse in cui si esprime al massimo la nuova cucina e l’anima di Gianluca, segnata dallo studio delle 10 lezioni (e dal libro Apparentemente Semplice) di Niko Romito e dalle emozioni provocatorie (ma allo stesso tempo pensatissime e iper-razionali) di Paolo Lopriore. Il carciofo, capperi e polvere di matcha è un omaggio (molto personale e intimo) proprio a Niko (il miglior cuoco d’Italia secondo la guida del Gambero Rosso di quest’anno): un piatto al limite del sostenibile, tutto giocato sugli amari che riesce a tirar fuori la dolcezza del cuore del carciofo in un rimando di zuccheri estremi e di tannini, di erbacei e floreali davvero estremo e allo stesso tempo goloso e godibile. Un piatto vegetale, vegano, splendido… Seguito a ruota dall’anti-vegano:lepre, verza ginepro e alloro. L’esaltazione del lombo crudo passa attraverso il sacrificio sul fuoco di petto, coscia, spalle e una punta di interiora: il lombo resta intero e avvolto dalle altri carni tritate e passate velocissimamente in padella, il ginepro si lega all’idea del sangue di un classico civet e la verza media il tutto, arricchita dalle sensazioni di alloro intorno al piatto. Il tutto accompagnato dal crostino con il salmì di interiora di lepre. Una portata non facile, complessa, dove il senso del selvatico è alla base di sapori forti che spaziano dalla selvaggina al sottobosco sottolineato dall’alloro (macchia mediterranea) ma anche e soprattutto dalla fine presenza del gambo di porcino in cima al salmì.

 

daGprini - Galuca Gorini FucsiaFucsia

Chiusura elegante e contemporanea

Il Semifreddo alla liquirizia, mandarino e semi di finocchioè una preparazione leggera, eterea, che mette insieme tanti insegnamenti e tanta tradizione in una forma (anche aromatica) del tutto nuova. Pochi zuccheri e tanti elementi nutraceutici, digestivi, antichi. Il Fucsia è espressione di una stessa filosofia, ma con declinazioni del tutto diverse in cui il gioco è interamente sulla dolcezza e suggestione degli amari. Una fine del pasto che – con una freschezza e un punto di vista che solo la giovane età sa dare – che a noi ben oltre gli –anta fa scattare in testa (provocazione per provocazione) i versi del Nuttless di Capossela: … “buttarci a piedi pari nella vasca del Campari abbattere la notte a raffiche di Gordon Rouge… ...chabidubidù! …

 

DaGorini | San Piero in Bagno (FC) | via Giuseppe Verdi, 5 | tel. 0543 1908056 | www.dagorini.it

 

a cura di Stefano Polacchi

 

 

 

 

 

 

 

 

Fermentazioni. La cucina con i batteri dei grandi chef

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Yogurt, kefir, kombutcha, salsa di soia, miso, tempeh: nomi stranieri presenti su tutti gli scaffali dei supermercati. Parliamo di fermentazione: tecnica antichissima di conservazione e purificazione dei cibi, che torna in auge anche in cucina. molti chef utilizzano prodotti fermentati per i loro piatti. Il cibo diventa più sano e amplifica i sapori. E in casa torna il fai-da-te dei tempi delle nonne.

Il gran chiasso della bolla tecnologica si è affievolito e si fanno strada nuove (si fa per dire) tecniche. Non che la tecnologia sia finita, anzi. Però, già da qualche stagione, non è più la protagonista della cucina e non solo in Italia. I cuochi hanno ricominciato a prendere in mano le redini dei fornelli e soprattutto degli ingredienti. La tecnica della fermentazione, utilizzata da sempre per conservare gli alimenti, torna a conquistare la passione di tanti giovani (e non solo) cuochi e a stimolarne la curiosità. Ma torna anche nelle case, dove sempre più sono le persone attente alla salute, alla salubrità, alla digeribilità degli alimenti, alla loro naturalità e alla nutraceutica, ovvero alla loro capacità di fornire nutrienti.

FERMENTAZIONI_-Salvatore_tassa_Piatto_dellortoSalvatore Tassa Piatto dell'orto

In una recente intervista, Salvatore Tassa racconta di come abbia radicalmente cambiato il suo approccio creativo e di come si sia profondamente convinto che usare la tecnica della fermentazione (tanto più se abbinata alla crioestrazione) sia il vero modo di fare cucina di territorio: “Niente più dei batteri autoctoni” figli dei luoghi in cui si trovano “riesce a marcare il cibo. Ogni luogo ha batteri differenti che interagendo con il cibo danno luogo a sapori e aromi differenti”. E ne è così convinto che ha passato un paio di settimane a Parigi, nella cucina di Yannick Alléno al Ledoyen, dove centinaia di barattoli pieni di verdure in acqua e sale stanno lì a fermentare anche da anni, in attesa di essere provati e testati da una delle più importanti cucine di Francia e servite ai facoltosi ospiti in cerca di stupore ed emozioni.

 

Salvatore Tassa TrotaSavatore Tassa Trota

Insieme a Tassa, sono diversi i cuochi italiani che da tempo seguono questa antica tecnica, utilizzata soprattutto negli anni in cui non esistevano i frigoriferi o nelle realtà dove climi estremi non permettono di avere ingredienti freschi in molti mesi dell’anno. Non a caso, non sono state tanto le ricette delle nonne a riportare in auge la fermentazione, bensì i giovani e curiosi, creativi interpreti della Nuova Cucina del Nord.

mazzaroni albicocche lattofermntateEmrico Mazzaroni Albicocche lattofermntate

Enrico Mazzaroni

Grazie a loro, molti hanno riscoperto anche sulle rive del Mediterraneo questa tecnica arcaica. Come Enrico Mazzaroni, cuoco colto con due lauree (in Diritto Internazionale e in Storia delle Religioni), che ha studiato a fondo e da autodidatta le fermentazioni “moderne” portate avanti dai suoi colleghi del Nord e nelle montagne di Montemonaco alle spalle dei Piceni (prima che il terremoto distruggesse il suo Tiglio costringendolo a trasferirsi a Porto Recanati) e nella sua acquacotta (uno dei piatti più poveri della cultura contadina) ci mette il radicchio latto-fermentato che ne arricchisce il sapore e dà eleganza al tutto. “Ho scoperto come le idee e le pratiche della cucina del nord siano estremamente più vicine alla mia sensibilità e alla mia situazione, sia negli ingredienti che nelle tecniche” sorride Enrico “E la trovo una cucina più immediata e semplice”. La filosofia l’ha incontrata seguendo Magnus Nilsson, lo chef svedese del Fäviken Magasinet con i suoi 12 coperti immersi nel bosco di Järpen. La lattofermentazione, ad esempio, l’ha incontrata frequentando la cucina della trattoria di famiglia dove una signora rumena faceva la lavapiatti. “Ci ha insegnato a conservare le verdure in una salamoia al 2%. Si applica a ogni verdura: si pulisce e si lava il vegetale e si mette a marinare sommerso in acqua e sale, per una settimana a temperatura ambiente. Quando si cominciano a vedere le bollicine, vuol dire che la fermentazione è avviata: si ripongono in frigo e si consumano nel giro di 2-3 settimane. Poi, studiando e osservando i miei colleghi nordeuropei, ho visto che la stessa cosa si può fare e meglio con il sottovuoto: le verdure pulite vanno nel sacchetto con il 2% del loro peso in sale, quindi si ripongono al fresco per un paio di settimane. Sono pronte quando il sacchetto sottovuoto si gonfia. A questo punto si estraggono, si lavano e si possono riporre nuovamente sottovuoto in frigo dove si conservano a lungo”.

E ora, in riva all’Adriatico nel suo nuovo Tiglio in Vita, quella tecnica la utilizza per abbinare alla triglia le albicocche: “Ci piace molto l’acidità unita al pesce e il contrasto che regala l’albicocca è davvero fantastico, in particolare con un pesce di carattere come la triglia”. Le albicocche latto-fermentate – affumicate e lasciate poi a per un mese in soluzione salina al 3% al buio – accompagnano sia un ristretto di teste di triglia, sia un ragù di triglia che condisce gli spaghetti. Sapori di territorio, per quanto creativi, e che descrivono bene una contemporaneità costruita partendo dal lontano passato.

Cristiano Tomei, spaghetti con salsa di pane fermentatoCristiano Tomei Spaghetti con salsa di pane fermentato

Cristiano Tomei

Ci sono nato con la fermentazione… Sono stato il primo!” sorride con il suo brio toscano Cristiano Tomei dal suo Imbuto nel Lu.C.C.A. (centro di arte contemporanea) di Lucca. “Mio nonno faceva il contadino, la fermentazione era sempre con noi” racconta “Vino a parte, si usava per conservare i ravanelli, o lo zucco (la cimetta delle rape). Oggi, i ravanelli li metto freschi in acqua, aceto e zucchero: fanno tutto da sé. Il ravanello è molto terroso e tende ad avere un aroma molto molto forte: somiglia un po’ alle cipolle della giardiniera di una volta”. Anche le rape sono molto adatte per esser fermentate: hanno una bella terrosità che si esalta. “La fermentazione è molto divertente sul piano del gusto” spiega Cristiano “ha uno spettro aromatico molto vasto e complesso: parti da una materia prima ottima e la esasperi. Poi, mi piacciono i paradossi: chiudi gli occhi e mangia la panzanella. Ecco, se lasci la panzanella all’aria si inacidisce il pomodoro che fermentato fa molto male. Io della panzanella uso il pane e lo tratto con una tecnica lituana, paese dove è nata mia moglie: prendo un pane nero che in Lituania usano per fare la birra lo bagno in acqua e lo lascio fermentare al sole. Poi ci condisco gli spaghetti insieme ai fiori di elicrisio, abbinandoli magari a degli scampi o anche solo a del buon Parmigiano. Il pane fermentato ha un sapore fortissimo ed esaspera tutti gli aromi del pane fresco: sa di iodio, minerale, lievito… Ora è diventata una tecnica fighetta, ma viene dall’esperienza della cultura materiale povera. E ti dà la possibilità di esaltare i gusti…”

Del_Duca_-_anguilla_con_verdure_e_riso_fermentati.jpgDavidde Del Duca Anguilla con verdure e riso fermentati

Davide Del Duca

Lasciando da parte Niko Romito  (da pochissimo in testa alla guida Ristoranti d'Italia) che grazie alla fermentazione è approdato a un nuovo concetto di piatto presentando la verza come portata principale, un altro giovane cuoco di tendenza che utilizza molto la fermentazione è Davide Del Duca, titolare dell’Osteria Fernanda a Roma dove dà nuovi spunti e stimoli a una delle tradizioni gastronomiche più saporite d’Italia. “Mi piace poter avere forti e complesse acidità senza utilizzare per forza agrumi. Ad esempio per servire un pesce potente e grasso come l’anguilla, uso riso e radicchio, daikon e rape: le verdure le lascio in succo di melagrana per due settimane (poi le passiamo velocemente sottovuoto a 60° per 10 minuti); il riso invece viene cotto, poi lasciato in parte della sua acqua unita a zucchero e fermenta per una ventina di giorni: prima di usarlo si fa bollire di nuovo, pochi minuti, e ci si fa una salsa di riso acido… Il cibo diventa anche più digeribile e più completo dal punto di vista nutrizionale” spiega Davide “Spesso associo cibo fermentato a elementi grassi: essendo molto alta l’acidità, il suo sapore deve essere unito a una nota grassa altrimenti rischia di essere preponderante. È una tecnica molto semplice, che si può fare tranquillamente in casa, molto economica”. Si può fermentare tutto: dalle verdure alle carni, ma anche formaggi magari partendo da semi di frutta secca. “Ma molto si lavora sui vegetali: sono il 90% dei nostri lavori. Fermentiamo le nespole per fare i chutney da usare con l’anatra alle nocciole, ad esempio, o le zucchine…”

 

Le Colline Ciociare | Acuto (FR) | via Prenestina, 27 | tel. 0775 56049 | http://www.salvatoretassa.it/

Tiglio in Vita | Porto Recanati (MC) | viale Scarfiotti, 47 | tel. 071 9798839

L'Imbuto al Lu.C.C.A. | Lucca | via della Fratta, 36 | tel. 340 5758092| www.limbuto.it

Reale | loc. Casadonna | piana Santa Liberata snc | Castel di Sangro (AQ) | tel. 0864 69382 | www.ristorantereale.it

Osteria Fernanda | Roma | via del Monte Crescenzo, 18 | tel. 347.4459593 www.osteriafernanda.com

 

a cura di Stefano Polacchi


Articolo uscito sul numero di settembre 2017 del Gambero Rosso. Per abbonarti clicca qui

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