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Il Rum è Servito, sesta edizione. La cena con Ron Zacapa da Nazionale, a Lecce

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Quarta cena del tour per Ron Zacapa, che arriva a Lecce per incontrare la cucina del giovane Marco Silvestro. In tavola i prodotti del Salento, tra terra e mare, e tanta creatività, per valorizzare l'abbinamento a tutto pasto con il distillato guatemalteco. 

Nuova trasferta in vista per Ron Zacapa e Gambero Rosso, che il 19 ottobre prossimo arriveranno a Lecce, per la quarta cena del tour Il Rum è Servito, giunto alla sesta edizione. Il successo del format, nato per valorizzare in un contesto inconsueto il rum guatemalteco, è testimoniato dai riconoscimenti di pubblico e critica che l'iniziativa ha raccolto negli ultimi anni, ospite delle migliori tavole d'Italia, da Nord a Sud della Penisola. E formula che vince, non si cambia: ogni cena prenderà forma con la complicità di uno chef pronto a cimentarsi con la sfida dell'abbinamento insolito, a tutto pasto, col distillato Zacapa. Tre le varianti della gamma a disposizione - Ron Zacapa 23 – gusto morbido e sentori di frutta tropicale e vaniglia – Ron Zacapa 23 Etiqueta Negra – più intenso, con note di cioccolato e spezie – Ron Zacapa XO – aroma di tabacco, caramello e cannella - da abbinare per concordanza o contrasto. Alle cucine selezionate dal Gambero Rosso il compito di valorizzare le molteplici sfumature del rum, senza sacrificare il proprio approccio gastronomico.

Tra qualche giorno il gioco sarà nelle mani di Marco Silvestro, chef di Nazionale (Una Forchetta sulla guida Ristoranti d'Italia), nel capoluogo salentino. Nell'ex magazzino tessile degli anni Cinquanta, alla prima periferia di Lecce, Davide de Matteis (patron di 300mila Lounge, che ha trionfato sull'ultima edizione della guida Bar d'Italia) ha voluto provarci con la ristorazione, affidando la cucina alla creatività del giovane Marco Silvestro. Il risultato? Un successo, con piatti che raccontano il territorio con freschezza, attingendo al tocco originale dello chef. E la cena Zacapa ne sarà prova, con un menu da 4 portate giocato tra mare e terra:

 

Il mare in tre atti

Tartare di tonno rosso, con mousse di pomodoro e oliva Cellina di Nardò

Velo di scampi affumicati al legno di liquirizia su riduzione di agrumi

Battuto di gamberi sl profumo di arancia e mandorle sablée

 

Zacapa 23 yo

***

 

Profondo bosco

Riso Vialone nano mantecato alla stracciatella con porcini e melograno

 

Zacapa 23 yo

***

 

Tentacolare

Tentacoli di polpo rosticciato adagiati su consisetnze di zucca, chips di cece nero,

mousse di cime di rape e ppnoli tostati

 

Zacapa Etiqueta Negra

***

 

Equilibrio... A strati

Biscuit di mandorla dolce e salata, bavarese di vaniglia al pisto, gelée di fichi secchi

e salsa al cioccolato fondente

 

Zacapa XO

 

Si prenota direttamente ai recapiti del ristorante.

 

Nazionale | Lecce | via 47° Rgt. Fanteria, 5 | tel. 0832 307448 | www.nazionaleristorante.it


Flora al Marriott Grand Hotel e Penna d’Oca. Nel centro di Roma, nuove tavole d’autore

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Fresco di restyling, l’elegante albergo di via Veneto svela un nuovo progetto di ristorazione affidato allo chef campano Raffaele De Mase, che con la semplicità di una cucina mediterranea ben eseguita vuole catturare l’attenzione del pubblico romano, oltre che della clientela internazionale. Stesso discorso a pochi metri da piazza del Popolo, dove la cucina di Massimiliano Valenti rilancia l’insegna Penna d’Oca. 

Flora. Il nuovo ristorante del Grand Hotel Flora

Nella settimana che ha visto partire la Rinascente col nuovo suggestivo store in via del Tritone, Roma si riscopre due volte in più meta gourmet, e proprio nel cuore della città. La prima tappa ci porta tra i ricordi della Dolce Vita romana, in via Veneto, dove il Marriott Grand Hotel Flora annuncia un nuovo progetto di ristorazione, affidato allo chef Raffaele De Mase. L’idea? Rilanciare la struttura sotto il profilo gastronomico – perché possa diventare tavola di riferimento per il pubblico capitolino, al di là dell’offerta per gli ospiti dell’hotel – ha coinvolto Maurizio Cortese, e la sua agenzia Cortese Way, chiamato a curare la consulenza dalla Salvatore Naldi Group, proprietaria dell’albergo. E così il rinnovamento è partito dal restyling degli spazi, affidato all’architetto Stefano Mantovani con l’intervento mirato del light designer Filippo Cannata, mentre in cucina si puntava a ricalibrare la linea con l’arrivo del napoletano Raffaele De Mase, da molti anni a Roma, tra Heinz Beck e Michele Gioia. Cucina mediterranea, dunque, e grande materia prima, esaltata da un utilizzo oculato degli ingredienti, accostati nel segno di un equilibrio di gusto e consistenze che vuole stupire con semplicità.

La cucina di Raffaele De Mase

Anche quando l’abbinamento è inconsueto, come nel Calamaro con piedino di maialino, zucca e lime o con le Animelle, crema di riso allo zafferano e asparagi. Due i menu degustazione, quello del territorio (5 portate, 60 euro), tra pollo e peperoni e guancia di vitello con spuma di ricotta, edamame e salsa alla menta, e il menu dello chef (6 portate, 80 euro), che gioca con i piatti in carta. In sala la restaurant manager è Antonella Scardella, che ha curato una carta dei vini con tante referenze nazionali e una bella selezione di etichette da Francia e Germania. L’obiettivo, anche in questo caso, è quello di giocare con un pubblico che vuole lasciarsi conquistare dall’originalità, più che dalle etichette di facile appeal, troppo spesso proposte alla clientela internazionale, a scapito delle meritevoli produzioni di nicchia della Penisola. Ai dolci, invece, presiede il giovanissimo pastry chef francese Baptiste Foronda, in piena sintonia con la filosofia di cucina; quindi impostazione classica, ottima materia prima, ingredienti accostati con semplicità (solo apparente, però). Anche la zona bar è stata ripensata per l’occasione, e dispone di un dehors utilizzabile tutto l’anno. Qui sarà la carta dei drink a farla da padrona, con cocktail che spaziano dai classici ai signature del Flora, il Midnight Witch (a base vodka e liquore Strega) e il Beetonic, insolito twist sul gin tonic con aria di rapa rossa, crosta di burro e sale alle erbe. Il ristorante, a disposizione degli ospiti, aprirà al pubblico a pranzo e cena, e per l’aperitivo al bar, dove si potrà consumare anche un pasto veloce, tra insalate, burger, club sandwich e zuppe.

Penna d’Oca a piazza del Popolo

Intanto, in soft opening, è già operativa la cucina della Penna d’Oca di via della Penna, a pochi metri da piazza del Popolo. L’insegna, già nota in passato al pubblico capitolino, si presenta ora in veste completamente rinnovata, ristrutturata all’interno e guidata dall’estro dello chef Massimiliano Valenti, da Erba (Como), classe 1974 e un curriculum importante alle spalle. Nel suo passato esperienze a Villa Serbelloni (Bellagio) e all’Antico Borgo di Annone, dove tramite Ettore Bocchia si appassiona alla cucina di Ferran Adrià, che ne influenzerà per sempre l’approccio. E poi numerosi viaggi, da New York alla California, in giro per gli Stati Uniti, prima di rientrare in Europa, a Montecarlo, sempre al lavoro per il gruppo di ristorazione italiana della famiglia Ruggeri. Poi di nuovo in Italia, con diverse esperienze tra Nord e Centro, e uno stop temporaneo dovuto a vicende personali. Ora, il suo percorso riparte da Piazza del Popolo, dove lavora al menu dalla scorsa estate, all’insegna, anche in questo caso, di una semplicità studiata, grazie alla valorizzazione di ottime materie prime esaltate dalla padronanza tecnica acquisita in tanti anni di cucina. Sul risultato finale influisce anche la passione per l’Oriente, e per la cucina thailandese in particolare, che determina anche l’utilizzo di ingredienti insoliti, sempre però ricondotti nell’ambito di una proposta mediterranea, come nell’Agrodolce piccante e affumicato di polpo rosticciato e peperone, con cime di rapa e tosazu o nel dessert di grande complessità tecnica Mangosfera: guscio ivoire al mango acerbo, cuore di mango, morbido al cioccolato bianco e cocco, gel di papaya e lime, meringa tropicale e infuso di latte di cocco. In sala una trentina di coperti, considerando anche il dehors in veranda, aperto tutto l’anno.

 

Flora - Roma - Marriott Grand Hotel Flora, Via Veneto, 191 - 0648992642 – www.florarestaurant.it  -

Penna d’Oca - Roma - Via della Penna, 53 - 063202898

Tre Bicchieri. Parla Lorenzo Magnelli dell'azienda Le Chiuse

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A Montalcino c'è una nuova generazione di produttori. Under 35 con le idee chiare, la voglia di fare e fare bene, di spingere ancora di più sul pedale della qualità. Uno di questi è Lorenzo Magnelli di Le Chiuse. Che ci racconta la sua visione del Brunello.

Complice un caminetto con Lorenzo Magnelli, produttore dell'azienda Le Chiuse (Tre Bicchieri con il Brunello di Montalcino 2012), parliamo dell'annata appena vendemmiata, della cosiddetta nuova generazione del Brunello, quella degli under 35 già a capo dell'azienda, di biologico e dei "sono bio ma non certificato", del tema caldo del momento a Montalcino, ovvero la zonazione e del perché la valutazione del Brunello in stelle dovrebbe essere superata.

L'occasione è il pranzo della Benfinita, una tradizione cara ai vignaioli di Montalcino: alla fine della raccolta il produttore offre un pranzo ai vendemmiatori che hanno lavorato nelle vigne, agli amici e ai clienti più affezionati. Quest'anno a Le Chiuse hanno scelto la Benfinita per dirci in anteprima una novità che riguarda le Riserve: l'azienda non metterà più in commercio la sua Riserva dopo il sesto anno, bensì dopo il decimo. Vuol dire che per degustare un Brunello di Montalcino Riserva de Le Chiuse, bisognerà attendere non più 6 ma 10 anni.

Azienda Le ChiuseAzienda Le Chiuse

Brunello di Montalcino, Annata e Riserva: cosa dice il Disciplinare

Per raccontare questa storia partiamo dal Disciplinare che regola la produzione del Brunello di Montalcino. In particolare è l'articolo 5 a definire le differenze fra Annata e Riserva: entrambe devono essere sottoposte a un periodo di affinamento di almeno 2 anni in botti di rovere (di qualsiasi dimensione) e poi a un affinamento in bottiglia di almeno 4 mesi per l'Annata e di almeno 6 mesi per la Riserva. L'Annata può essere rilasciata al consumo solo dopo il 1° gennaio del quinto anno dalla vendemmia, la Riserva solo dopo il sesto. Ma le differenze non sono solo queste.

 

Azienda le chiuseAzienda Le Chiuse

Lorenzo Magnelli e la Riserva

Franco Biondi Santi nelle vigne de Le Chiuse ci faceva la Riserva. La 1991 è l'ultima vendemmia condotta dal Greppo. Nel 1992 le vigne de Le Chiuse passano alla nipote di Franco, Simonetta Valiani e suo marito Nicolò; dal 2006 è il loro figlio Lorenzo a guidare l'azienda, a soli 22 anni. Proprio con lui, Lorenzo Magnelli, cominciamo a parlare di Brunello, di Annata e di Riserva. "A parer mio la caratteristica principale che deve avere una Riserva è la longevità. Sarebbe sbagliato pensare la Riserva come un Brunello di maggiore qualità: è un'altra cosa, è un'idea diversa con una progettualità diversa rispetto a un'Annata”. Ciò ci porta al tema del rilascio, perché la Riserva viene presentata al 'Benvenuto Brunello' insieme all'Annata precedente e ne entra inevitabilmente in competizione. “Ma non dovrebbe essere così: il Brunello Annata è una cosa, la Riserva un'altra, un orizzonte diverso. Così facendo, la differenza fra un vino di 5 e uno di 6 anni diventa solo una differenza di annate. Si va a valutare dopo 6 anni un vino che evolverà e troverà la sua identità almeno dopo altrettanti anni”. Continua ancora Lorenzo citando il sito del Consorzio: "Per le sue caratteristiche, il Brunello di Montalcino sopporta lunghi invecchiamenti, migliorando nel tempo. Difficile dire quanti anni questo vino migliora in bottiglia. Ciò dipende infatti dall'annata. Si va da un minimo di 10 anni fino a 30, ma può essere conservato anche più a lungo. Naturalmente nel modo giusto: in una cantina fresca, ma soprattutto a temperatura costante, buia, senza rumori e odori; le bottiglie tenute coricate".

 

Lorenzo Magnelli di Le ChiuseLorenzo Magnelli azienda Le Chiuse

 

Come si sceglie una vigna destinata alle Riserve?

Innanzitutto la Riserva si fa solo nelle annate che lo permettono, ovvero quando si può garantire la longevità, il lungo respiro. La regola è che per una Riserva debbano essere selezionati i grappoli più piccoli della vigna più vecchia. Quindi maggiore concentrazione attraverso la selezione del grappolo ma, fondamentale, è la maggiore acidità; e quella la garantisce l'età della vigna. Senza una maggiore acidità faresti solo un Brunello più pesante. Va da sé che un vino con maggiore concentrazione e acidità ha bisogno di ben più di 5 o 6 anni per iniziare a essere quello che deve essere, ovvero un Brunello Riserva.

 

Quindi per la vostra "Riserva 10 anni" cambiano anche i tempi di vinificazione.

Sì, sta un anno in più in botte prima del lungo affinamento in vetro.

 

Produrre una "Riserva 10 anni" comporta anche la riorganizzazione della cantina: serve molto più spazio...

Abbiamo dovuto allargare la cantina quasi nella misura del raddoppio per fare spazio alle nuove botti. E consideri che non è detto che la 10 anni si possa fare ogni anno, anzi. La forza di una 10 anni deve essere la credibilità: dopo 10 anni devi garantire il massimo del massimo, anche perché i costi di produzione sono alti, l'immobilizzazione è lunga e il prezzo doppio rispetto a un Brunello Annata deve essere motivato e giudicato congruo.

 

2017 estrema e difficile, '16 fredda, '15 calda, '14 fredda e piovosa, '13 fredda, '12 e '11 calde, 2010 perfetta: di quali di queste annate farete la Riserva 10 anni?

La prima "10 anni" sarà la 2010 nel 2020. Della '11 come della '14 niente Riserva, della '12 e della '13 la 10 anni. Per la '15 è presto per valutare.

 

Rispetto a quella dei vostri genitori quali differenze ci sono con la vostra generazione?

C'è più consapevolezza ambientale, più coesione, più confronto, ci si vede molto più di loro per fare le degustazioni alla cieca; in breve "si fa più gruppo". Siamo più affiatati delle generazioni precedenti e per ciascuno di noi sopra a tutto c'è sempre Montalcino e il Brunello, non il singolo.

 

Anche nel secolo scorso a Montalcino si cresceva tra vigna e cantina ma la vostra generazione è riconosciuta come più preparata delle precedenti.

Abbiamo maggiore esperienza perché le tecniche e la conoscenza stessa sono cambiate, cresciute. Un trentenne di oggi parte con un bagaglio migliore rispetto a un trentenne di cinquant'anni fa; è più qualificato. Poi ci metta che erano in pochi quelli della generazione precedente che giravano il mondo, parlavano le lingue, presentavano all'estero; oggi è la normalità, molti di noi hanno studiato all'estero. Quando andiamo oltreoceano la maggior parte è under 40. Si ricorda il Benvenuto Brunello a Chicago? S'era tutti ragazzi davanti a un esercito di giornalisti e critici quasi meravigliati dalla nostra conoscenza della loro lingua, dall'età e dalla competenza. È bello per Montalcino presentare un prodotto così importante attraverso la sua gioventù.

 

La 2017 è stata un'annata molto difficile, un banco di prova importante per la nuova generazione.

Una prova di maturità per noi. Annata completamente diversa da tutte le precedenti, qualcuno la paragona alla 2000 o 2003, grande caldo, ma quelle ebbero anche pioggia, non solo caldo. 2017 sarà un'annata estrema, il liquido nell'acido è inferiore rispetto alla norma e quindi per assurdo hai meno appassimenti.

 

Cosa esprimerà la 2017?

Da un'annata estrema non puoi avere tutto. In alcuni prevarrà l'eleganza, in altri la concentrazione. Ci saranno molte interpretazioni e con grandi differenze fra loro. C'è chi ha vendemmiato a fine agosto e chi più di un mese dopo. Qui a Le Chiuse avremo un colore un po' più scarico ma una bella acidità, tannino elegante, buona concentrazione: verranno meno bottiglie, ma siamo soddisfatti.

 

Un tema caro alla nuova generazione e che trova favori anche in qualche "vecchia guardia" è quello della zonazione.

Sì, io sono favorevole. Lo ritengo un passaggio di maturità, penso arricchisca e non sono d'accordo con chi dice possa essere divisiva. Cosa c'è di male ad aggiungere la zona? Nell'etichetta c'è sempre scritto Brunello di Montalcino e quello è; perché non specificare il nome della zona, ad esempio Montosoli, Camigliano, Tavarnelle, Val di Cava etc..? Stimola l'appassionato a conoscere l'andamento delle annate e a ricercare quelle caratteristiche che differenziano due fratelli quali sono due Brunello di due zone diverse. Ci sono aziende a Montalcino che hanno vigne importanti in punti differenti e che fanno Brunello diversi, ognuno con le sue specificità, cru a tutti gli effetti; e funziona.

 

Nel Disciplinare è già prevista la possibilità di indicare la vigna...

La menzione della vigna è per esaltare una particolare zona, una sorta di cru di Montalcino; la zonazione è diversa, è la definizione di tutte le zone del territorio.

 

Zonare potrebbe indebolire la Docg?

Le cose bisogna farle bene: se si frammenta troppo c'è rischio di confusione ma se si zona bene il risultato è una valorizzazione ulteriore. Chi cerca un Brunello lo trova comunque, e garantito dal Disciplinare che non è uno scherzo. Con la zonazione si va incontro agli appassionati, si stimolano conoscenza e consapevolezza, più di quanto può fare la concessione del Disciplinare di menzionare la vigna.

 

Parliamo di biologico. Le Chiuse è sempre stata condotta in regime bio e a Montalcino il numero delle aziende convertite e in conversione aumenta anno dopo anno.

Diciamo subito che abbiamo un territorio perfetto per questo: clima più asciutto, belle ventilazioni, tutto è più facile. Fare bio è un grande vantaggio, innanzitutto perché è un controllo costante, sia tuo come produttore che devi pensare in termini di prevenzione più che di cura, sia perché sei monitorato da un ente certificatore. Anche per la Docg ci sono controlli rigorosi; "bio" garantisce controlli qualitativi in più.

 

A Montalcino, ma anche in altre zone d'Italia, è diffuso il "sono bio ma non certificato": parliamo anche dell'approccio cosiddetto "naturale" o dei "vini liberi".

Massimo rispetto, perché biologico è prima di tutto uno stile di vita, un approccio diverso rispetto al passato. Chi fa vini naturali ha questa sensibilità. So molto bene che la certificazione comporta dei costi importanti ma credo nelle cose tangibili.

 

Cioè il "non certificato" non è credibile?

La credibilità di un vino non certificato sta tutta nella persona che lo fa, ma se non la conosci nessuno ti può garantire la veridicità dell'etichetta. E poi dove è lo standard? Quale è la regola? Il biologico e/o biodinamico non certificato è un punto vista personale, diverso per ognuno. Invece le certificazioni sono importanti, sono un valore concreto. Ma mi faccia aggiungere una cosa: io non sono favorevole agli estremi, non mi piacciono i vini chimiconi e nemmeno quelli troppo ribelli, io sono favorevole ai vini di qualità, regolamentata, controllata e certificata. In ogni cosa c'è una giusta misura.

 

Ma i Brunello naturali, liberi, hanno la stessa capacità di invecchiamento?

Secondo me no.

 

So che lei è uno di quei produttori ai quali la valutazione in stelle sta stretta.

Sì. Badi bene: per certi versi la valutazione in numero di stelle può essere utile ma a dire il vero non è il migliore dei modi per descrivere l'annata. Con le 4 e 5 stelle il vino va via subito se no si fa più fatica, ma si rischia di far pensare che due annate con lo stesso numero di stelle siano uguali, non è affatto così.

 

Quindi niente più stelle?

Quando si parla di Brunello di Montalcino si garantisce già un prodotto di alta e altissima qualità, se no non si fa. Lei sa che può capitare di dover declassare a Rosso e non poter fare il Brunello perché l'annata non permette lo standard e le caratteristiche che deve dare un Brunello. Il consumatore deve sapere che se c'è scritto Brunello di Montalcino stiamo parlando comunque di un vino di livello superiore, a prescindere dalle stelle, e che se quell'anno si può fare la Riserva vuol dire che è stata un'annata eccellente con caratteristiche di grande longevità.

 

Mettiamoci anche che, poiché il Brunello ha bisogno di pazienza per essere apprezzato, andare a riscoprire e rivalutare le cosiddette annate minori magari dopo 10-15 anni riserva sempre buone sorprese.

Confermo. Montalcino non dovrebbe aver bisogno delle stelle. È già sinonimo di alta qualità e – ripeto - se l'annata non lo consente, il Brunello non lo facciamo. Nelle annate meno generose il vino delle vigne destinate a Brunello viene destinato al Rosso; ecco perché quando si sceglie un Rosso di Montalcino, conoscendo l'andamento della stagione (e non solo le stelle) si può fare la mossa migliore. Scegliendo un Brunello di Montalcino con meno stelle è molto probabile che ci si ritrovi un vino che era destinato alla Riserva e che è stato "declassato" a Brunello; ma un bel Brunello, a prescindere dal numero delle stelle.

 

Secondo lei la zonazione aiuterebbe anche a rendere meno importanti le stelle?

La zonazione stimolerebbe la conoscenza dell'andamento climatico di ogni annata: a nord in un modo a sud in un altro eccetera. Di conseguenza la valutazione a stelle sarebbe ancor più riduttiva. I Brunello sono molto diversi fra loro; di una stessa annata, con le stesse stelle, è interessante conoscere le diverse interpretazioni. Come non è raro che ti piaccia di più un'annata a 4 stelle di un produttore piuttosto che una a 5 stelle di un altro. È così...

 

Par di capire che lei terrebbe anche l'Annata più tempo ad affinare...

Beh, certo a me piacerebbe poter allungare un po' il tempo per la commercializzazione dell'Annata ma è anche vero che non sempre è necessario: ci sono annate, soprattutto quelle più calde che al quinto anno dalla vendemmia sono già perfettamente dotate.

 

Le Chiuse | Montalcino (SI) | Loc Le Chiuse zona Val di Cava | tel. 335 393 620| http://www.aziendaagricolalechiuse.it/index.php/it/

 

a cura di Dario Pettinelli
 

Link: Disciplinare di Produzione Brunello di Montalcino

 

Noma 2.0 work in progress. Prenotazioni aperte da novembre. Intanto Redzepi si mette a scrivere

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Il nuovo Noma aprirà a gennaio 2018, lungo le antiche mura di Copenhagen, ma René Redzepi continua a tenere aggiornati i suoi fan. E annuncia l'apertura delle prenotazioni online dal 16 novembre. Il 2018, però, sarà anche l'anno della collana Foundations of Flavour: tre volumi di ricette per divulgare le tecniche di cucina del Noma.  

Noma work in progress

Lontano dai riflettori, René Redzepi, proprio non sa stare. L'equazione, in realtà, è vera a parti invertite: nei mesi che ci separano dalla riapertura del Noma nella nuova fattoria urbana alla periferia di Copenhagen, tutti sembrano affannarsi a catturare il work in progress dello chef danese, che con il suo team lavora per arrivare carico all'inaugurazione, slittata di qualche mese per ritrovamenti archeologici in cantiere. Dopo qualche mese trascorso in esplorazione della penisola scandinava, Faroe Islands comprese, ora il team al completo è chiuso in cucina per sperimentare le nuove ricette che animeranno un menu dedicato all'oceano, valido dal mese di febbraio fino alla fine di maggio. L'esordio del Noma 2.0 è previsto per il mese di gennaio 2018, ma nelle ultime settimane Redzepi ha regalato ai suoi fan foto e video che solleticano la curiosità, in vista del traguardo. L'ultimo, appena qualche giorno fa, mostra la cucina di prova dove per i prossimi tre mesi la brigata svilupperà il nuovo menu. Intanto, avvisa il sito del Noma, “l'edificio comincia a prendere forma”. E i primi dettagli emergono tra le righe: il nuovo ristorante sarà aperto dal mercoledì al sabato, a pranzo e cena con lo stesso menu. Le prenotazioni online apriranno il 16 novembre (mentre il pop up Under the Bridge sarà operativo ancora fino alla fine di ottobre).

 

Foundations of Flavours. I ricettari del Noma

Nel frattempo, però, anche Redzepi si fa tentare ancora dall'avventura editoriale (nel 2013 aveva pubblicato due libri per Phaidon), e annuncia la pubblicazione di una serie di volumi, tre in tutto, per l'editore Artisan. Foundations of Flavours, come si chiamerà la collana, sarà concepito come ricettario ispirato alle tecniche di cucina perfezionate al Noma nel corso degli anni. A partire dal primo tomo, The Noma guide to fermentation, in stampa a ottobre 2018, che lo chef sta scrivendo a 4 mani con David Zilber, responsabile delle fermentazioni al ristorante. L'idea è quella di divulgare le tecniche di fermentazione, spiegando accorgimenti e trucchi del mestiere per replicarle nella cucina di casa. Intanto Redzepi lavora al progetto Dispatches, in collaborazione con Chris Ying, cofondatore della rivista appena chiusa Lucky Peach; in questo caso, i due volumi (il primo andrà in stampa a settembre 2018) saranno dedicati ad approfondire il progetto MAD, con una raccolta di scritti sul futuro del cibo, la soluzioni sostenibili e i progetti di cucina sociale e solidale, nello spirito del simposio annuale ideato da Redzepi diversi anni fa. Per ora da Copenhagen è tutto. A quando i prossimi aggiornamenti?

 

a cura di Livia Montagnoli

Nuovi ristoranti a Verona. Dalla Sardegna l'Escargot di Fabio Groppi, il nuovo bistrot dell'AMO e la pizza di Vuolo

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Inaugura il ristorante di Stefano Carta, che con Fabio Groppi ha trovato in Costa Rei la formula perfetta per una cucina mediterranea gourmet. Ora raddoppia a Verona, a pochi metri dall'Arena. Tra un paio di settimane, invece, riaprirà il bistrot del museo AMO, in veste tutta nuova.

 

L'alter ego dell'Escargot. A Verona

Dal Piemonte alla Sardegna. E ritorno, sul “continente”, per ripartire con una nuova sfida da Verona. Fabio Groppi, la passione per la cucina ce l'ha nel sangue: suo nonno, anche lui chef, cucinò pure per la principessa Grace Kelly. Lui, invece, natali piemontesi, in passato si è distinto alla guida del ristorante dell'Hotel Cristallo, a La Gana, in Alta Badia. Poi, tre anni fa, l'incontro con Stefano Carta. A farli conoscere, un altro volto noto della scena gastronomica italiana, Diego Crosara, pluripremiato pasticcere vicentino, che con i due oggi collabora. Stefano, della storia è il principale motore: sua è la struttura ricettiva in Costa Rei, sul litorale cagliaritano (a 50 chilometri dal capoluogo), che oggi offre ai suoi ospiti la tavola gourmet dell'Escargot. All'interno dell'Eos Village, negli ultimi 2 anni, il ristorante è maturato sotto la guida di Fabio Groppi, proponendo una cucina mediterranea che valorizza la materia prima locale e il pescato freschissimo. Tanto da cominciare a soffrire la realtà stagionale della dimensione turistica: “Il progetto Escargot è cresciuto nelle ultime due stagioni, all'insegna della proposta fine dining. Ora è importante dare continuità alla brigata, poter contare su un ristorante aperto tutto l'anno”. Non necessariamente in Sardegna, anche se sempre legato alla cucina mediterranea. Due le alternative possibili, Milano o Verona: la scelta è caduta sulla città scaligera, dove Fabio vive. E così, l'Escargot (Colourful Kitchen) esordisce a pochi metri dall'Arena, per raccontare in chiave nuova la filosofia dell'avamposto sardo, ormai fermo per chiusura stagionale.

Cucina mediterranea, territorio, cocktail e spritz d'autore

Non vogliamo proporre un bistrot, ma posizionarci subito sulla fascia gourmet, a pranzo e cena”. Una cinquantina i coperti a disposizione, più una zona bar, con bel bancone bianco, che funzionerà per aperitivo e dopocena  - “anche con formula pre e dopo teatro, in stagione operistica” - con proposta di bollicine italiane e francesi, spritz, cocktail e assaggi finger curati con originalità, dalla piccola fregola al tonno scottato, pure in versione piccola degustazione, da 3 a 5 assaggi. Una ventina i posti afferenti alla zona bar. Il ristorante, invece, lavorerà su menu degustazione da 4 o 6 portate (a 50 e 70 euro), come in Sardegna: il mare, la terra, l'orto, e l'istintivo, giocato sulla disponibilità degli ingredienti e l'ispirazione del momento, o concordato in sala col commensale. L'ospite, però, se preferisce potrà scegliere solo un paio di proposte tra quelle che più lo intrigano; e a pranzo, oltre ai menu, la cucina proporrà pure un piatto fuori menu con piccola entree e dessert, “una sorta di business lunch, pensato per chi non ha troppo tempo”. Lo staff, in buona parte, arriva dall'esperienza sarda, il maitre, Andrea Pasotto, invece, è un nuovo acquisto d'esperienza, e conosce bene la realtà veronese.   In carta proporrà circa 200 referenze, tra vini del territorio, etichette sardi, selezione nazionale e internazionale. Al bar, invece, una bella selezione di gin (anche sardi) e vermouth. Si parte carichi, “la nostra forza dev'essere la qualità di un ristorante di livello al prezzo di un bistrot”, conferma Fabio, felice di potersi confrontare, “finalmente”, con prodotti invernali: “Tratteremo sempre prodotti del Mediterraneo, come i gamberi di Arbatax o la zafferano di San Gavino, in arrivo dalla Sardegna. Ma darò spazio alle materie prime del territorio, al tartufo bianco. E in carta, da subito, presenterò un filetto all'Amarone, ma con verdure liquide e solide e gambero di Arbatax”. Un bel mix, quindi, con i tagliolini tirati a mano della tradizione piemontese che convivono con la fregola sarda. Pani, grissini e friandise della casa, dessert con la consulenza di Diego Crosara. E chi sogna la Sardegna, potrà approfittare di un piccolo corner, defilato rispetto alla sala, per prenotare il proprio pacchetto personalizzato nelle strutture del gruppo, in vista della prossima estate. “Mi piace l'idea di invertire i flussi” sorride Fabio “Molti chef di fama arrivano sull'isola per la stagione estiva, noi, invece, siamo emigrati al contrario”.

AMO, il bistrot dell'Arena MuseOpera. Do it Better

Tra una decina di giorni, però, Verona si prepara ad accogliere anche un'altra novità. E proprio all'interno di uno dei suoi musei più rappresentativi, l'Arena MuseOpera di Palazzo Forti. Il 24 ottobre, pochi giorni dopo l'inaugurazione della mostra dedicata a Botero, il nuovo bistrot del museo – AMO, come l'acronimo che identifica il complesso – aprirà i battenti sotto la direzione del gruppo Do It Better. E insieme segnerà l'esordio del gruppo, guidato dal giovaneLuca Gambaretto, già proprietario del ristorante Maffei, e, nell'ultimo anno, in grande espansione. Il 2017 di Gambaretto e staff (oggi sono 60 persone in tutto), infatti, si è aperto con l'inaugurazione di Oblò a Trento (il format dedicato ai burger gourmet, consolidato a Verona dal 2014), per proseguire con l'esordio di Saos – healthy food per tutte le ore - all'inizio di settembre, e concentrare gli sforzi sul progetto più ambizioso, la ristorazione al museo. “Per l'occasione abbiamo completamente rinnovato lo spazio, che aveva grandi potenzialità, con la bella corte interna in mattoni faccia vista e molti ambienti dove giocare con l'arte e il design”, spiega Gambaretto.

 

Un gruppo giovane, solido. Creativo

Una sessantina di coperti in tutto, con tavolo sociale da 15 posti, su sgabelli alti, al centro della sala; opere di Tom Collie alle pareti, mongolfiere sospese, punti luce curati, per restituire l'idea di un'atmosfera trasognata, ma informale. La proposta, curata dallo chef del Maffei, Matteo Balestra, sarà quella semplice, ma divertente di un bistrot per tutte le tasche: 35-40 euro la spesa media per una cena completa, tra pane, burro e acciughe e spaghetti con vongole, bottarga e pane carasau. Disponibile anche un menu di 4 piattini a 30 euro, con proposte che cambiano ogni settimana. Altrimenti si sceglie dalla carta, 5+5+5, pochi prodotti, materia prima di qualità, piatti da condividere. “Abbiamo scelto di indossare quattro vestiti molto diversi, il gourmet di Maffei, il comfort food di Oblò, la proposta salutista di Saos, e ora l'originalità di un bistrot da museo. Ho cominciato a 21 anni, oggi che ne ho 28 sono molto fiducioso delle nostre potenzialità”.

 

La pizza di Guglielmo Vuolo

L'ultima sorpresa arriverà tra qualche mese, probabilmente a dicembre, quando Guglielmo Vuolo aprirà la sua pizzeria napoletana nel perimetro della Fiera di Verona, in viale del Lavoro, civico 32:  l'anticipazione arriva dal blog di Luciano Pignataro, che svela anche il logo della nuova insegna intitolata al maestro campano: pizzaioli da 4 generazioni. Il prossimo Vinitaly si preannuncia insomma molto goloso.

 

L'Escargot | Verona | via Oberdan, 2 | dal 14 ottobre |  www.escargotrestaurant.com  

Amo Bistrot | Verona | Arena MuseOpera, vicoletto Due Mori, 5 | dal 24 ottobre |   www.ristoranteamo.it  

Guglielmo Vuolo: pizzaioli da 4 generazioni | Verona | viale del Lavoro, 32 | entro la fine del 2017

 

a cura di Livia Montagnoli

La focaccia e i suoi derivati. 9 specialità della Calabria e la ricetta del calzone

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'Nduja, bergamotto, cipolla rossa di Tropea, legumi, liquirizia: la Calabria è una terra rigogliosa che dona frutti pregiati. Ma nella tavola regionale trovano il loro posto anche pani, focacce e prodotti da forno. Vi proponiamo 9 schiacciate e 1 ricetta d'autore.

Una regione dalla forte identità gastronomica, che esprime colori e profumi della terra e del mare nei piatti della sua cucina di tradizione. In Calabria, anche l'arte bianca può vantare una serie di prodotti d'eccellenza, ognuno dei quali racconta un angolo diverso del territorio. Fra calzoni e pitte, ecco tutte le specialità dei forni calabresi, più una ricetta golosa fornita dalla pizzeria Cristini di Cosenza, uno dei migliori cibi da strada locali secondo la guida Street Food del Gambero Rosso.

 

Calzone

Fra le specialità più tipiche delle gastronomie calabresi, è il calzone a fare la parte del leone. Preparato con l'impasto della pizza, questo prodotto è diffuso sia nella versione fritta che in quella al forno. Si tratta di un involucro di pasta piegato a mezzaluna e farcito con gli ingredienti più disparati, dalla cipolla di Tropea alle verdure, anche se le farce più comuni restano le classiche pomodoro e mozzarella oppure prosciutto cotto e ricotta, nella versione tradizionale oppure nella variante affumicata, sottoprodotto della lavorazione del latte nato per consentire un più lunga conservazione, ma anche per permettere il trasportarlo nei mercati più lontani.

 

Crostini di grano

Una lunga lavorazione, una lievitazione lenta e una doppia cottura: i crostini di grano sono fra i più antichi prodotti da forno della Calabria, solitamente a base di farina di frumento bianca, ma spesso preparati anche con farina di mais o mix di farine integrali. Nati come alternative al pane, i crostini possono essere gustati in purezza o accompagnati da formaggi e salumi locali, primo fra tutti la 'nduja, il celebre salume cremoso fatto con le parti di scarto del maiale (milza, stomaco, intestino, polmoni, esofago, cuore, trachea, faringe, parti del muso e della testa, grasso di varie parti). La tradizione vuole che i crostini vengano ammollati in acqua per poi essere conditi con olio extravergine di oliva e utilizzati all'interno della classica insalata di pane, con pomodoro e cipolla rossa di Tropea.

 

Cuddura

Il nome è dovuto alla forma, e deriva dal greco antico κολλύρα (kollura), che significa corona. Si tratta di una ciambella intrecciata dal sapore neutro, che può diventare una pietanza dolce o salata a seconda delle proprie preferenze. Farina, acqua, sale e lievito sono gli ingredienti alla base dell'impasto, condito poi con cipolla, pomodori e acciughe nella versione saporita; la versione dolce - in passato la torta pasquale per antonomasia - ha invece uova sode intere posizionate in superficie. A Cosenza ci sono i cuddrurieddri, ciambelline fritte a base di farina, patate lesse, sale e lievito naturale consumate la sera del 7 dicembre, vigilia dell'Immacolata Concezione. L'impasto dei cruddrurieddri, dopo due o tre ore di lievitazione, viene fritto e farcito con provola, olive schiacciate, alici salate o sardella (salsa di bianchetti di piccola e media taglia, arricchita con peperoncino, sale e spesso finocchio selvatico, chiamata anche “caviale dei poveri”).

 

Freselle

Specialità condivisa con Campania, Basilicata e Puglia, le freselle sono delle ciambelle preparate con farina di grano duro, acqua, sale e lievito, solitamente consumate come pasto unico, abbinate a verdure, ortaggi di stagione, formaggi, salumi o pesce sottosale. L'impasto è cotto due volte e, una volta pronto, viene inumidito leggermente con dell'acqua e ammorbidito con olio extravergine di oliva, prima divenire farcito. Oggi, ne esistono diverse varianti che utilizzano farine differenti, da quella di grano duro a quella integrale, senza dimenticare quella di granone.

 

Lestopitta

Pane azzimo tipico dell'area Grecanica (nome che deriva da un'antica comunità montana calabrese della provincia di Reggio Calabria) la lestopitta è una sorta di piadina di origini remote. Portata nella punta dello Stivale dai greci, questa pasta sottile si compone di pochi e semplici ingredienti, ed è stata per secoli uno dei prodotti più consumati come alternativa al pane e come base dell'alimentazione. La lestopitta va gustata calda, ed è solitamente utilizzata per accompagnare salumi, formaggi, peperonate, ma può essere anche assaporata in purezza, condita con un po' di olio extravergine di oliva e sale. Si tratta di un piatto facile e veloce, da preparare in poco tempo e con pochi soldi, cotta in padella ma spesso disponibile anche nella versione fritta. Tante le varianti che si sono diffuse negli anni, fra cui quella dolce con miele, confetture di frutta o creme spalmabili.

 

Pitta

Anticamente la pitta era il pane calabrese per eccellenza, chiamato così per l'uso di spennellare (pittare, in dialetto locale) la superficie per preservarne la freschezza, eliminando eventuali perdite di umidità. Nel tempo se ne sono diffuse nella regione diverse tipologie, a cominciare dalla pitta a riggitana, un guscio di pasta croccante ripieno di ricotta, salame, uova, sale, pepe nero e prezzemolo, per finire con la pitta con niepita, una sorta di raviolo dolce tipico della festività pasquale, realizzato con farina, zucchero, acqua e strutto e ripieno con confettura, frutta secca e niepita, un'erba simile alla menta ma di tessuto più carnoso. C'è poi lapitta di maju, con il fiore del sambuco, preparata tradizionalmente nel mese di maggio, proprio in tempo di fioritura. E ancora la pitta cu' passuli, dolce tipico della zona di Crotone ripieno di mandorle, uva passa e spezie dolci, e la pitta di Catanzaro, una panfocaccia a forma ci ciambella da farcire con le specialità del territorio.

 

Pitta mpigliata

Fra le tante varianti della pitta, un capitolo a parte merita la pitta 'mpigliata, pane dolce originario di San Giovanni in Fiore, in provincia di Cosenza, in principio nato come prodotto pasquale e natalizio, ma oggi consumato in gran parte della Calabria tutto l'anno. Un'eccellenza della tradizione dolciaria regionale, tanto da essere protagonista - da alcuni anni - di una manifestazione che ha lo scopo di promuovere e valorizzare questo prodotto attraverso assaggi, laboratori e una competizione per la pitta 'mpigliata più lunga del mondo. Farina di grano duro, zucchero, olio d'oliva, spremuta di arancia dolce, vermouth, cannella, chiodi di garofano e paisanella (una grappa tipica silana), compongono l'impasto profumato della pitta, che viene schiacciato e trasformato in una sorta di girella.

 

Pizzata

Diffusa soprattutto nella Comunità Montana della Limina, in provincia di Reggio Calabria, e nelle zone attorno a Vibo Valentia, la pizzata è un pane rotondo preparato con farina di mais e lievito naturale e aromatizzato con foglie secche di castagno. Una volta era il pane dei poveri per eccellenza, oggi è un prodotto molto ricercato da calabresi e turisti, il cui peso varia fra i 500 grammi e il chilogrammo. La crosta, dal colore giallo scuro, racchiude una mollica color oro dal sapore intenso, persistente e gustoso. Tradizione vuole che venga cotto nel forno con legna stagionata, per essere poi adagiato su un letto di foglie di castagno per conferire al pane un aroma ancora più robusto.

 

Tarallini al peperoncino

È il prodotto da forno più celebre della Puglia, ma la ciambella di pasta cotta al vino è diffusa in molte altre regioni del Sud Italia, Calabria compresa. Qui, sono diverse le varianti del tarallo sparse nelle varie province, da quella aromatizzata con semi di finocchio a quella all'anice. Fra i più apprezzati, i taralli al peperoncino, spezia calabrese per eccellenza chiamata anche spagnolicchio, diavolicchio, pipu. Grazie al suo sapore piccante e al tempo stesso aromatico, il peperoncino è diventato un ingrediente fondamentale per la cucina locale, usato sia fresco che secco. Le caratteristiche organolettiche che lo hanno reso celebre nel mondo sono dovute ai terreni sabbiosi su cui viene coltivato e alle condizioni climatiche: cresce infatti, su zone ben esposte al sole, dove le temperature – anche in inverno quando viene piantato - non scendono mai sotto i 5°C.

 

La ricetta: il calzone della pizzeria Cristini di Cosenza

850 g. di farina 00

25 g. di lievito secco

5.5 l. di acqua

115 g. di sale

250 g. di olio extravergine di oliva

1 pomodoro

1 mozzarella

Sale q.b.

Origano q.b.

 

Sciogliere il lievito nell'acqua e impastare tutti gli ingredienti insieme fino a ottenere un panetto liscio e omogeneo. Lasciar lievitare a temperatura ambiente per almeno 24 ore. Stendere la pasta in una teglia precedentemente unta con olio d'oliva e farcire con il pomodoro e la mozzarella tagliati a pezzetti e conditi con olio, sale e origano. Chiudere l'impasto a mezzaluna e cuocere in forno a 250°C per circa 3 o 4 minuti.

 

a cura di Michela Becchi

Anteprima Tre Bicchieri 2018. Piemonte

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Con il Piemonte chiudiamo le anticipazioni della guida Vini d'Italia 2018. Con un'ottima performance non solo dei grandi, Barolo e Barbaresco in testa, ma anche di denominazioni e zone minori. Per un totale di 77 Tre Bicchieri.

La tendenza che si sta delineando ormai da anni si conferma anche nell'edizione 2018 della Guida: sono tanti i vitigni e tante le zone che si stanno ribellando allo strapotere del Barbaresco e soprattutto del Barolo.

A una rapida lettura dell'elenco dei premiati piemontesi, il primo dato che salta all'occhio è il numero di bianchi - secchi e dolci o ancora fermi, frizzanti e spumanti - che hanno ottenuto i Tre Bicchieri. Delle 77 perle regionali di Vini d'Italia 2018 ben 15 sono bianche, ovvero quasi il 20% del totale. Con le vendemmie 2016 e 2015, che hanno regalato ottimi risultati per quasi tutte le tipologie assaggiate, tornano alla ribalta l'uva timorasso che sfoggia un tris di Tre Bicchieri, con il dissidente Walter Massa, ormai da anni fuori denominazione, e con la piacevole la novità di Cascina Salicetti. Un'altra bella sorpresa ci arriva dal cortese che, sulle colline di Gavi, spicca il volo con 3 premiati, tra i quali ben 2 neofiti. Il Moscato, decano dei bianchi subalpini, conferma il tris dello scorso anno, nel quale rientra per la prima volta l'azienda che più ha operato nel mondo per diffonderne l'immagine di qualità, quella di Paolo Saracco. Il Canavese conserva una valida e crescente produzione di bianco e piazza ben due etichette sul gradino più alto del podio. Il risultato più bello, anche perché arriva dopo una lunga attesa, è la consacrazione dell'Arneis, al quale è sempre mancato malgrado l'indubbio successo di pubblico il placet della critica. Con 2 Tre Bicchieri ad aziende già affermate nella produzione di vini rossi, il Roero Arneis entra finalmente nel Gotha del vino italiano.

Il Barolo conferma la sua posizione dominante con 30 Tre Bicchieri, anche grazie alla concomitanza di diverse annate favorevoli, guidate dall'austera e classica 2013. Il Barbaresco ci rammenta, invece, come nella sfortunata vendemmia 2014 l'uva nebbiolo ha raggiunto risultati inimmaginabili altrove o con altri vitigni. Il risultato che più inorgoglisce la regione è il gran numero di aziende - nuove o storiche, piccole o grandi, bianchiste o rossiste, dal Canavese al Tortonese, dal Gavi all'Alto Piemonte - che conquistano per la prima volta i Tre Bicchieri.

 

I vini del Piemonte premiati con Tre Bicchieri

 

Alta Langa Brut Zero Nature Sboccatura Tardiva ’11 - Enrico Serafino

Barbaresco Albesani S. Stefano Ris. ’12 - Castello di Neive

Barbaresco Crichët Pajé ’08 - Roagna

Barbaresco Maria di Brün ’ - Ca' Rome'

Barbaresco Martinenga Camp Gros Ris. ’12 - Tenute Cisa Asinari dei Marchesi di Grésy

Barbaresco Montaribaldi ’13 - Fiorenzo Nada

Barbaresco Nervo ’14 - Rizzi

Barbaresco Ovello ’13 - Cantina del Pino

Barbaresco Ovello ’14 - Cascina Morassino

Barbaresco Pajoré ’14 - Sottimano

Barbaresco Rabajà ’13 - Bruno Rocca

Barbaresco Roncaglie ’14 - Poderi Colla

Barbaresco Serraboella ’13 - F.lli Cigliuti

Barbaresco Sorì Tildin ’14 - Gaja

Barbaresco Vallegrande ’14 - Ca' del Baio

Barbera d'Asti Bricco dell'Uccellone ’15 - Braida

Barbera d'Asti Sup. Epico ’15 - Pico Maccario

Barbera d'Asti Sup. Nizza Riserva della Famiglia ’09 - Coppo

Barbera d'Asti Sup. Sant' Emiliano ’15 - Marchesi Incisa della Rocchetta

Barbera d'Asti Sup. V. La Mandorla ’15 - Luigi Spertino

Barbera del M.to Giulin ’15 - Giulio Accornero e Figli

Barolo ’13 - Bartolo Mascarello

Barolo Bricco Rocche ’13 - Ceretto

Barolo Brunate ’13 - Enzo Boglietti

Barolo Brunate ’13 - Giuseppe Rinaldi

Barolo Cerretta V. Bricco ’11 - Elio Altare - Cascina Nuova

Barolo del Comune di Barolo Essenze ’13 - Vite Colte

Barolo Falletto V. Le Rocche Ris. ’11 - Bruno Giacosa

Barolo Gabutti ’13 Gabutti - Franco Boasso

Barolo Ginestra Ris. ’09 - Paolo Conterno

Barolo Lazzarito Ris. ’11 - Ettore Germano

Barolo Monfortino Ris. ’10 - Giacomo Conterno

Barolo Monprivato ’12 - Giuseppe Mascarello e Figlio

Barolo Monvigliero ’13 - F.lli Alessandria

Barolo Ornato ’13- Pio Cesare

Barolo Paiagallo Casa E. di Mirafiore ’13 - Fontanafredda

Barolo Ravera Bricco Pernice ’12 - Elvio Cogno

Barolo Resa 56 ’13 - Brandini

Barolo Ris. ’10 - Giacomo Borgogno & Figli

Barolo Ris. ’11 - Paolo Manzone

Barolo Rocche dell'Annunziata Ris. ’11 - Paolo Scavino

Barolo Sarmassa V. Bricco Ris. ’11 - Giacomo Brezza & Figli

Barolo Sarmassa V. Merenda ’10 - Giorgio Scarzello e Figli

Barolo Sottocastello di Novello ’12 - Ca' Viola

Barolo V. Lazzairasco ’13 - Guido Porro

Barolo V. Rionda ’10 - Figli Luigi Oddero

Barolo V. Rionda Ester Canale Rosso ’13 - Giovanni Rosso

Barolo V. Rionda Ris. ’11- Massolino

Barolo Vignarionda ’13 - Terre del Barolo

Barolo Villero ’13 - Brovia

Barolo Villero Ris. ’09 - Vietti

Boca ’12 Le Piane Bramaterra ’12 - Noah

Colli Tortonesi Timorasso Fausto ’15 - Vigne Marina Coppi

Colli Tortonesi Timorasso Ombra di Luna ’15 - Cascina Salicetti

Costa del Vento ’15 - Vigneti Massa

Dogliani Papà Celso ’16 - Abbona

Dolcetto di Ovada ’15 - Tacchino

Erbaluce di Caluso ’16 - Podere Macellio

Erbaluce di Caluso Le Chiusure ’16 - Benito Favaro

Gattinara Osso San Grato ’13 - Antoniolo

Gattinara Ris. ’12 - Giancarlo Travaglini

Gavi del Comune di Gavi GG ’15 - Cantina Produttori del Gavi

Gavi del Comune di Gavi Monterotondo ’15 - Villa Sparina

Gavi V. della Rovere Verde Ris. ’15 - La Mesma

Ghemme V. Pelizzane ’11 - Torraccia del Piantavigna

Grignolino del M.to Casalese ’16 - Vicara

Marcalberto Extra Brut Millesimo2Mila12 M. Cl. ’12 - Marcalberto

Moscato d'Asti ’16 - Paolo Saracco

Moscato d'Asti Canelli Sant'Ilario ’16 - Ca' d' Gal

Moscato d'Asti Casa di Bianca ’16 - Gianni Doglia

Nizza La V. dell'Angelo ’14 - Cascina La Barbatella

Roero Arneis Cecu d'la Biunda ’16 - Monchiero Carbone

Roero Arneis Le Rive del Bricco delle Ciliegie ’16 - Giovanni Almondo

Roero Gepin ’13 - Stefanino Costa

Roero Valmaggiore V. Audinaggio ’15 - Cascina Ca' Rossa

Ruché di Castagnole M.to Laccento ’16 - Montalbera

 


Gli altri premi Tre Bicchieri della guida Vini d'Italia 2018

Grande degustazione Tre Bicchieri 2018 a Roma, Napoli, Torino 

New York mangia italiano. Il nuovo Nishi, Vini e Fritti e il raddoppio della Pecora Bianca

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David Chang ripensa il suo ultimo ristorante all’insegna della cucina italiana, con un menu degustazione dedicato alla pasta; Danny Meyer inaugura l’ennesima insegna ispirata a Roma e all’Italia; la Pecora Bianca raddoppia a Midtown. È un momento d’oro per la cucina italiana a New York. 

Nishi. La ripartenza

Nelle intenzioni del suo ideatore, chef eclettico e imprenditore altrettanto capace, Nishi avrebbe dovuto essere l’ennesimo tassello della fortunata famiglia Momofuku. E invece, a dispetto delle aspettative, l’insegna di Chelsea inaugurata all’inizio del 2016 si è rivelata il tallone di Achille di David Chang, deus ex machina della ristorazione fusion newyorkese. Le premesse per fare bene, all’epoca, c’erano tutte: fusion d’autore giocato sull’insolito asse Estremo Oriente – Italia, approccio informale, ambiente rilassato, pur con prezzi adeguati al livello dell’offerta. Eppure, già qualche mese dopo, incassata un’infilata di recensioni negative, Chang era costretto al mea culpa, e si diceva pronto a rimettere in sesto l’attività con tutti gli accorgimenti del caso. Quasi un anno dopo, solo qualche giorno fa, Nishi ha riaperto i battenti dopo un restyling che ha interessato gli spazi, e, soprattutto, il concept di ristorazione dell’insegna. Nella settimana di chiusura per rinnovo locali, infatti, lo spazio è stato ripensato all’insegna del comfort, sostituendo sgabelli e panche in legno con divanetti imbottiti e sedie dal design nordico in pelle.

La cucina italiana di David Chang

Ma è il nuovo menu la vera novità del Nishi 2.0, ora dichiaratamente devoto alla cucina italiana e alle sue tradizioni più celebri (all’esordio, invece, Chang aveva più volte ribadito l’intenzione di discostarsene, per sperimentare risultati inediti). A cominciare dalla pasta homemade, di cui lo chef Josh Pinsky è sempre stato accanito sostenitore, sin dai tempi del Momofuku: recentemente, la sua passione, gli è valsa il premio della James Beard Foundation per il miglior piatto di pasta di New York. La proposta, però, rispecchierà sempre il twist di casa Chang, “perché l’ultima cosa che abbiamo intenzione di fare è l’ennesimo ristorante italiano, e la proposta sarà un’interpretazione molto personale di Josh di quello che il cibo italiano potrebbe essere”, sulla scia di altri esperimenti in partenza negli Stati Uniti, e a New York (Chang cita esplicitamente Mark Ladner, e il suo Pasta Flyer). Tra le alternative in carta, anche un menu degustazione dedicato alla pasta, con quattro portate a 58 dollari, dalle pappardelle con ragù agli agnolotti ripieni di fegatini di pollo, alle orecchiette con polpo, cime di rapa e chili. In menu anche pesce all’acquapazza e costolette di maiale con salsa bbq, e il piatto più caro di tutti, l’aragosta Fra Diavolo, spaghettoni aglio, olio e peperoncino con aragosta fritta. Da bere una selezione di vini di giovani produttori europei. E la promessa che Nishi “sarà il ristorante più attinente alla filosofia Momofuku che abbiamo”.

Vini e fritti. La vineria di Danny Meyer

Del resto la cucina italiana sembra vivere una seconda giovinezza in città (mentre proprio il 21 ottobre il Gambero Rosso si appresta a lanciare la prima guida online dedicata alla ristorazione italiana nel mondo: Top Italian Restaurants). Al Redbury Hotel, Danny Meyer ha mantenuto la promessa, inaugurando il wine bar dei suoi sogni, Vini e Fritti, ispirato ancora una volta alla cucina romana e ai suoi costumi. Una vineria in stile italiano che, con il nuovo Caffè Marchio, completa il polo della gastronomia made in Italy firmato Meyer, insieme all’adiacente pizzeria Marta. Cinquanta coperti in tutto, tra bancone e sgabelli in sala, e un menu che rispecchia le aspettative, con baccalà e costolette di maiale con miele al peperoncino calabrese, bagna cauda e supplì al telefono, mozzarella in carrozza e gnocco fritto con prosciutto e parmigiano, in abbinamento a champagne e bollicine per lo spritz.

La Pecora Bianca raddoppia

Ed è proprio il caso di dire non c’è due senza tre, senza neanche spostare troppo lo sguardo. A Midtown, infatti, due giorni fa ha debuttato il secondo locale della Pecora Bianca, insegna fondata da Mark Barack nell’estate 2015 a NoMad e subito premiata dai newyorkesi, che l’hanno eletta tra le tavole italiane di riferimento in città. Ora il ristorante raddoppia in Second Avenue, senza troppi stravolgimenti rispetto alla formula originale, e con un menu ideato dallo chef Cruz Goler per esaltare la cucina tricolore. Il nuovo locale, aperto per cena, ma presto in attività dalle prime ore del mattino per colazione, brunch, pranzo e servizio take away, potrà accogliere 150 commensali (il doppio rispetto al locale di NoMad) e funzionerà anche da caffè, per pasti veloci, panini, insalate, gelato. In menu diversi “spuntini” – bomboloni con prosciutto, arancini, polpette – e poi spaghetti al pomodoro, gnudi di ricotta alle erbe, tagliatelle al ragù, gramigna con salsicce e broccoletti, galletto e bistecca con funghi cardoncelli, polenta e burro all’nduja. Tra i vini una selezione di etichette italiane, spritz per l’aperitivo, una carta dedicata al Negroni, la drink list della casa. 

Nishi – New York, Chelsea – 232, 8thAvenue - https://nishi.momofuku.com/

Vini e Fritti – New York – 30, East 30thstreet – www.viniefritti.com

La Pecora Bianca (seconda sede) – New York, Midtown – 950, 2ndAvenue at 50 Street - www.lapecorabianca.com

 

a cura di Livia Montagnoli


28 Birreria Gastronomica. Il nuovo format di Caulier e Toccalmatto a Roma

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Grandi fornitori per la nuova vita della brasserie inaugurata nel 2016 al quartiere Flaminio, e ora pronta a rinnovarsi in chiave gastronomica. Il restyling è frutto della nuova joint venture con Toccalmatto, birrificio emiliano di Bruno Carilli. E in tavola arrivano i prodotti di Quattro Portoni, Liberati, Pork'n'Roll, Le Pile, Paolo Parisi. E il caffè di Massimo Bonini. 

Brasserie Caulier. Le origini

All'inizio del 2016, la Brasserie 28 Caulier (già presente a Bruxelles e Perugia) inaugurava in un grande spazio sulla via Flaminia, anticipando a Roma una tendenza che nel giro di un anno avrebbe portato, tra gli esiti più convincenti, al coronamento del grande progetto di ristorazione di Birra del Borgo (con la pizza di Gabriele Bonci, la cucina dell'osteria, i drink firmati Jerry Thomas e le proposte del birrificio di Leonardo di Vincenzo). Un grande spazio dall'atmosfera urbana per promuovere le etichette del birrificio belga, con proposte alla spina e tante referenze in bottiglia, con la complicità di Toccalmatto, fortunata realtà brassicola del territorio parmense, sin dall'inizio coinvolta nel progetto. Ulteriore tassello – anche questo dalla prima ora – la collaborazione con Paolo Parisi, e il suo forno speciale (Lu Furnu) alimentato a carbone di mangrovia, per la cottura di carni alla brace, e verdure. Quasi due anni dopo, il format si rinnova in chiava di birreria gastronomica.

Caulier e Toccalmatto. La nuova joint venture

La collaborazione tra i due birrifici, infatti si è consolidata da un paio di mesi a questa parte, e Caulier – in precedenza solo beer firm - ha eletto lo stabilimento di Bruno Carilli, a Fidenza, come sito di produzione per le proprie etichette da immettere sul mercato italiano (nei mesi scorsi la joint venture, “frutto di stima reciproca”, ha fatto molto discutere l'ambiente della birra artigianale italiana), ben 11mila hl all'anno. E la nuova configurazione, tra un paio di giorni, farà sentire i propri effetti anche sul versante gastronomico, con un rinnovamento del locale romano che passa anche per il ripensamento dell'offerta di cucina per farne “un tempio della cultura della birra”, dicono i diretti interessati.

Articolato su due piani con dehors, dal 18 ottobre il locale non distante da Ponte Milvio si presenterà al pubblico capitolino sotto la nuova insegna 28 Birreria Gastronomica, le targhe Caulier e Toccalmatto ben in evidenza all'ingresso per sottolineare il nuovo legame. Alla zona dedicata allo shop, con proposte a scaffale dell'una e dell'altra azienda e venti birre alla mescita imbottigliate sul momento tramite growler, segue il grande bancone in legno, circondato da sgabelli. Mentre la sala affaccia su una veranda fruibile tutto l'anno, tra poltroncine, sgabelli, tavoli in stile industriale e un lungo divano per accogliere gli ospiti. Lo spazio del piano superiore, un'ampia sala con cella frigorifera con impianto della birra alla spina a vista, sarà riservato a eventi, corsi e degustazioni, molti in collaborazione con UDB.

La cucina gastronomica. Con Liberati, Pork'n'Roll, Parisi

La novità in cucina, invece, risiede principalmente nel coinvolgimento di realtà gastronomiche di livello del territorio regionale e nazionale: formaggi del Caseificio Quattro Portoni, carne di Roberto Liberati Pork'n'Roll (che fornisce anche i salumi dei fratelli Roccia), l'azienda agricola Zavoli, sempre per i salumi. E poi le uova di Paolo Parisi, e il caffè di Massimo Bonini di Lady Caffè (miscele ed estrazione). Un paniere che si riversa sul menu alla carta, come nel brunch domenicale, a disposizione dello chef Roberto Fiumi, che ha studiato pure l'abbinamento dei piatti con le birre a disposizione. Per un aperitivo o un pranzo freddo ci sono le selezioni di formaggi e salumi, o gli assaggi “di grandi prodotti in piccole porzioni”: alici del Cantabrico, stracciatella di bufala e pomodorini confit, pata negra con pan y tomate, mortadella e hummus al coriandolo, tartare di manzo con uovo di quaglia di Parisi. O il Surfin Blue di Quattro Portoni servito con composte e frutta secca: un erborinato di bufala pluripremiato, proposto in abbinamento con la Surfing Hop di Toccalmatto.

Tra gli sfizi fritti falafel e tzatziki, baccalà croccante in pastella di birra allo yuzu, chips di patate di Avezzano. E poi insalate, burger e sandwich (anche in versione baby menu), oltre alla cucina del forno, che si arricchisce di nuovi spunti. Come la pancia di maiale di Pork'n'Roll cotta a bassa temperatura e le spuntature agrodolci alla brace; o l'agnello di Liberati alla scottadito, con patè di coratella e carciofi alla romana, la selezione di salsicce firmate Roccia, la Chianina (punta di petto, controfiletto) dell'azienda Le Pile. L'uovo di Parisi assoluto, o al tegamino (anche con Pata Negra). Da bere, alla spina, 20 referenze – 10 Caulier, 10 Toccalmatto – e birre guest che si avvicendano. Per i vini, la selezione di Angelino Maule (già complice di Toccalmatto per le birre Spontaneous e Bacco&Arianna, con mosto d'uva). Si apre dalle 11 all'una di notte, no stop.

 

28 Brasserie Gastronomica - Roma – via Flaminia, 525 – 06 99709481

 

a cura di Livia Montagnoli

Lo stato dell’olivicoltura in Europa e i progetti per il futuro

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Sono circa 5 milioni gli ettari di uliveti nel sud Europa distribuiti tra Grecia, Spagna, Francia, Croazia, Italia, Cipro, Malta, Portogallo e Slovenia per un totale di circa 1.509.000 aziende. Ma come si pone l'Unione Europea?

Lo scorso 14 settembre il Servizio Ricerca del Parlamento Europeo (EPRS) ha rilasciato un “briefing” di 12 pagine riguardante il settore delle olive e dell’olio di oliva in Europa intitolato The EU olive and olive oil sector – Main Features, challenges and prospects. Si tratta di un’ampia panoramica sulla produzione europea che punta ad analizzare aspetti che vanno dalla struttura dell’azienda agricola alle tecniche colturali, dalle differenze economiche al ruolo dell’internazionalizzazione, dalle problematiche legate alle malattie degli ulivi alle prospettive per il futuro dell’olivicoltura. Insomma un documento che, partendo dai numeri del settore, si propone di tracciare una strada (o quantomeno di tentare un’interpretazione) di quello che sarà il trend produttivo e commerciale nei prossimi anni. Analizziamo le singole parti di questo briefing.

 

Le caratteristiche strutturali delle aziende olivicole comunitarie

L’oliva e i prodotti a essa legati sono elementi primari nell'economia agricola dei paesi del sud Europa con circa 5 milioni di ettari di uliveti, oltre 7 miliardi di euro di valore di produzione ogni anno e protagonisti come Grecia, Spagna (con più della metà della superficie olivetata), Francia, Croazia, Italia, Cipro, Malta, Portogallo e Slovenia. Parliamo di un totale di circa 1.509.000 aziende (dati Eurostat 2013) di cui quelle con le dimensioni più importanti si trovano prevalentemente in Spagna, ma anche in Portogallo.

I numeri della penisola iberica però non si fermano qui: nel 2016 infatti la produzione di olive e olio di oliva ha caratterizzato il 10% della produzione agricola totale, ma soprattutto delle circa 11 milioni di tonnellate di olive prodotte nel 2016 in tutta Europa, il 74% proviene proprio da qui, mentre il 22% è diviso quasi ugualmente tra Grecia e Italia.

 

Il commercio internazionale delle olive e dell'olio di oliva dell'UE

Un altro aspetto molto rilevante del settore olivicolo europeo è l’internazionalizzazione e l’export. I paesi produttori dell'UE rappresentano il 70-75% della produzione mondiale di olio d'oliva e più di un terzo per le olive da tavola. Questi sono anche i principali consumatori e superano la metà del consumo mondiale di olio d'oliva con la Grecia prima in classifica nel consumo pro capite. L’UE si rivela quindi la leader nel panorama internazionale con una media di 541.000 tonnellate di esportazioni annuali (2/3 del totale) e 121.000 tonnellate di importazioni annue (15% delle importazioni mondiali). L’export è rivolto soprattutto agli USA che sono il principale acquirente, ma anche a Giappone, Cina, Canada, Brasile e Australia, mentre le importazioni provengono principalmente dalla Tunisia, ma anche dal Marocco e dalla Siria. Sul fronte della promozione il bilancio complessivo di cofinanziamento per il 2016 è stato di 111 milioni di euro, mentre quello del 2017 ammonta a 133 milioni di euro, con l’intenzione di aumentarlo ulteriormente nei prossimi anni.

 

Controllo delle malattie nell'olivo

Altro aspetto affrontato dal documento è quello della gestione dell’uliveto, soprattutto per quanto riguarda le malattie a esso legate. Un esempio recente sono le misure di emergenza fissate a seguito dello scoppio della Xylella fastidiosanell'Italia meridionale, dove dal 2013 la malattia sta attaccando uliveti in Puglia. Dal 2015 però il problema ha cominciato a riguardare anche la Francia dove il batterio ha attaccato piante ornamentali nelle regioni della Corsica e della Provenza-Alpi-Costa Azzurra, mentre alla fine del 2016, le autorità hanno riferito la presenza di Xylella in Spagna, che ha interessato vari frutti e piante ornamentali; l'intero territorio delle isole Baleari è stato dichiarato zona colpita nel gennaio 2017. A tal proposito è partito un progetto multidisciplinare di ricerca finanziato dal programma quadro comunitario per la ricerca e l'innovazione Horizon 2020, per un costo complessivo di 7 milioni di euro, che mira a migliorare prevenzione, rilevazione precoce e controllo della Xylella fastidiosa.

 

Prospettive economiche e innovazione

Secondo le ultime proiezioni a medio termine della Commissione, le previsioni economiche del settore fino al 2026 indicano una maggiore produzione in Spagna (dove la Commissione prevede una notevole crescita degli uliveti irrigati nei prossimi anni) di circa il 10% e una lieve flessione in Grecia (+2%) e in Italia (-1%). In questi paesi le tendenze dei consumi dovrebbero avere una certa stabilizzazione o diminuzione minore, in gran parte compensata dall'aumento del consumo nei paesi non produttori all'interno e all'esterno dell'UE. Per quanto riguarda il commercio internazionale, le prospettive per il 2026 costituiscono un considerevole rafforzamento del ruolo guida dell'UE nelle esportazioni (+45% nel periodo) e un possibile aumento delle importazioni dai paesi mediterranei dell'UE.

 

I trend e le sfide per il futuro dell’olio di oliva europeo

Una sfida primaria, comune anche ad altre colture, è il ritmo dello sviluppo strutturale delle aziende agricole in un sistema produttivo più efficiente e moderno. Questo è spesso legato all'idea di aumentare la dimensione dell'azienda e di introdurre la meccanizzazione nei processi produttivi in aggiunta a colture intensive. Ciononostante, una ricerca spagnola (Present and future of the Mediterranean olive sector - Options Méditerranéennes) sulla sostenibilità della coltivazione dell'ulivo osserva che trasformare gli uliveti tradizionali in colture intensive o superintensive non è una soluzione risolutiva. Ciò può essere dovuto alle caratteristiche delle aree produttive (ad esempio un ambiente fragile o una pendenza significativa), i metodi di produzione (ad esempio la raccolta tradizionale è preferita per evitare di danneggiare le olive), o gli alberi stessi (ad esempio, una coltura permanente perenne causa rigidità nell'adattamento a nuovi schemi produttivi).

È per questo che i ricercatori suggeriscono che la sostenibilità della produzione di oliva non dovrebbe basarsi sull'intensificazione della produzione solo nelle aziende più grandi, ma più su soluzioni innovative di raccolta, nuove cultivar o una migliore gestione dei parassiti, per coltivare uliveti più redditizi e meno esposti a volatilità di mercato - anche in unità produttive più piccole. Il mercato dell'olio di oliva può oscillare per diversi motivi, come l'alternanza ciclica di raccolti buoni e poveri o il tempo prima che le nuove piante diventino pienamente produttive.

A tal proposito l’Italia sarebbe l’esempio più eclatante: le piccole dimensioni delle sue aziende la dovrebbero naturalmente portare a puntare non su colture superintensive (che in Spagna comunque non superano il 3% del totale), ma su una crescente valorizzazione del suo patrimonio varietale che comprende circa 1/3 delle cultivar di olive presenti in tutto il mondo. In conclusione questi numeri, non solo fanno capire il peso della Spagna nel condizionamento economico e strutturale del settore, ma dovrebbero anche far pensare alle enormi differenze produttive, varietali ed economiche che insistono tra i singoli stati membri. Diventa quindi alquanto surreale pensare a soluzioni univoche e unilaterali per questo settore.

 

 

a cura di Indra Galbo

Vini d’Italia 2018. La grande degustazione Tre Bicchieri a Roma domenica 22 ottobre

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Una giornata intensa, per i produttori premiati dall’edizione 2018 della guida Vini d’Italia, e per tutti gli enoappassionati, che domenica pomeriggio si ritroveranno all’hotel Sheraton di Roma, per la consueta grande degustazione organizzata dal Gambero Rosso. Oltre 400 le etichette in degustazione, tutte premiate con i Tre Bicchieri. 

Una guida longeva che intercetta le tendenze

Si avvicina a grandi passi la data di presentazione della guida Vini d’Italia 2018 del Gambero Rosso, che anche quest’anno andrà in scena all’Auditorium Massimo di Roma. La giornata da segnare sul calendario è domenica 22 ottobre, quando sul palco del teatro sfileranno i premiati Tre Bicchieri della guida dedicata alle migliori produzioni vinicole della Penisola, che l’anno scorso festeggiava i suoi primi 30 anni. Da oltre tre decenni, ormai, la guida più longeva del Gambero Rosso - tradotta in tedesco, inglese, cinese e giapponese - racconta attraverso i suoi esperti le vicende della viticoltura nazionale, con una meticolosità capillare che indaga tra produzioni di nicchia e grandi cantine, intercettando tendenze e avvenimenti significativi dell’enologia italiana. E per questo è un valido strumento per addetti ai lavori, enoappassionati e curiosi, un vademecum per chi vuole bere bene ed essere sempre aggiornato sull’evoluzione del settore.

La grande degustazione all’hotel Sheraton

Dopo la cerimonia di premiazione (dalle 11 del mattino, su invito), il pomeriggio sarà la volta dell’attesa grande degustazione Tre Bicchieri 2018, allo Sheraton Rome Hotel, dalle 16 alle 20. Protagoniste le oltre 400 etichette premiate con i Tre Bicchieri dalla guida Vini d’Italia 2018 (dopo oltre 45mila assaggi), con la possibilità di conoscere i produttori presenti ai banchi d’assaggio, e acquistare, in anteprima nazionale, la nuova edizione della guida. È consigliabile acquistare l’evento online (sullo store del Gambero Rosso) o presso lo shop della Città del gusto Roma, in via Ottavio Gasparri; il giorno della degustazione, invece, si potrà accedere fino a esaurimento posti.

Poi l’appuntamento replicherà a Napoli, il 24 ottobre, e Torino, il 29 del mese. Nel capoluogo campano sarà Palazzo Caracciolo ad accogliere le cantine in arrivo da tutta Italia, mentre a Torino la degustazione andrà in scena all’AC hotel Marriott, organizzata dalla Città del gusto Torino.

 

Grande degustazione Tre Bicchieri | Roma | Sheraton Rome Hotel, viale del Pattinaggio, 100 | il 22 ottobre, dalle 16 alle 20 | biglietto 60 euro | Per acquistare l’evento www.gamberorosso.it/it/store/tre-bicchieri-2018/by,created_on

 

 

 

 

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Cosaporto? A Roma ci pensa il delivery dei regali (gourmet)

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Dolci, gelato, vino, ma anche oggetti per la casa: la start up capitolina partita a maggio garantisce consegne a domicilio in tutta la città. Tra pochi partner selezionati con cura, approccio “tailor made” e novità già in cantiere.

Dopo aver ricevuto un invito a cena, la domanda sorge spontanea: “cosa porto?”. E anche se si parte con i migliori propositi, capita spesso di ridursi all’ultimo minuto, di accontentarsi della solita pasticceria sotto casa o della solita bottiglia di vino da scegliere in fretta. A offrire una soluzione, da maggio nella Capitale c’è Cosaporto, un nuovo servizio di delivery che consente di acquistare un regalo - sul sito cosaporto.it - e far sì che venga consegnato direttamente a casa del destinatario (ma volendo pure al proprio indirizzo): “Questa idea nasce dalla mia esperienza personale, in una città grande e trafficata come Roma che non sempre ti permette di fare ciò che vorresti e di portare a termine i tuoi programmi” racconta il fondatore Stefano Manili “a tutto questo si è unito il mio background professionale, legato al mondo delle start up, e la passione per l’enogastronomia”.

Cosaporto

I prodotti

A chi dunque è alla ricerca del regalo giusto, per un compleanno o una serata tra amici, Cosaporto propone un ventaglio di possibilità volutamente non troppo ampio: “sono disponibili dolci, gelato, vino, piccole selezioni di tè, di oli o di altre specialità, a cui si aggiungono fiori, piante e oggetti per la casa”, spiega Manili, “ho deciso di lavorare con pochi esercizi di qualità, non solo per una semplicità organizzativa ma soprattutto perché con ognuno di loro portiamo avanti una collaborazione costante, un confronto che ci permette di individuare di volta in volta i prodotti più adatti al progetto”. Al momento, infatti, i partner della start up sono 17, l’obiettivo è quello di non superare la trentina: tra di loro ci sono nomi come La Portineria e De Bellis sul fronte pasticceria, Otaleg e La Gourmandise per quanto riguarda il gelato. Insomma alcuni tra i pilastri assoluti della gastronomia di ricerca e di qualità nella capitale.

 

La convivialità

Nel pieno rispetto della filosofia che contraddistingue il servizio, tutte le proposte sono già concepite e costruite all’insegna della convivialità (non si può, ad esempio, richiedere una monoporzione, poiché l’ordine minimo è un box che ne contenga almeno quattro). “Cosaporto non propone l’intero ventaglio d’offerta di ogni punto vendita, ma alcuni dei suoi cavalli di battaglia, cercando sempre di differenziarli per non mettere in competizione gli esercenti tra di loro” precisa l’ideatore,“il prezzo è lo stesso del negozio, a volte inferiore; va poi aggiunto il costo di spedizione, che varia non in base al percorso (consegniamo ovunque all’interno del Raccordo Anulare) ma a seconda del prodotto e del conseguente livello di difficoltà del trasporto”. Ecco che Cosaporto è l’occasione per non farsi scoraggiare dalle distanze e allo stesso tempo per scoprire nuove insegne, magari capaci di andare incontro a esigenze specifiche come nel caso di Uovo à Pois (dove i dolci sono senza latte, preparati con zucchero e farine esclusivamente integrali).

 

Un (primo) bilancio positivo

Ma come sta andando? “Dal punto di vista del confronto con le aziende, benissimo”, afferma Manili, “i grandi artigiani non snobbano il delivery, semplicemente sono alla ricerca di un progetto all’altezza dei loro standard qualitativi, che non abbia limiti nella distribuzione e che faccia arrivare a destinazione il prodotto integro e ben presentato; ci capita infatti che siano loro a contattarci per esaudire le richieste che non possono soddisfare”.

E dal punto di vista del cliente? “Il riscontro è stato più che positivo e ha superato le aspettative: credo che per quanto riguarda il cibo da asporto, il concetto di ‘servizio a domicilio di qualità’ abbia ancora bisogno di tempo per affermarsi; noi invece ci concentriamo su occasioni speciali, per cui la ricercatezza e l’attenzione a ogni fase diventano valori più importanti”. Insomma, a chi ha il frigo vuoto e poca voglia di cucinare può bastare una pizza o un sushi qualsiasi, a chi vuole stupire con un regalo decisamente no. Il comparto vino, invece, è stato finora quello più fiacco, “sia perché in questo caso il nome del negozio conta di meno, sia perché nel delivery la frontiera enologica è quella più inesplorata”.

 

Le prossime novità

Certo, dopo la partenza di maggio e una prima fase di “rodaggio”, i numeri non sono ancora imponenti: il sito conta 800 utenti registrati e gli ordini ricevuti sono più di 500. Ma per farli crescere, sono già in cantiere interessanti novità. La prima è quella dei regali di gruppo, che semplificano l’organizzazione collettiva così: una persona seleziona il prodotto, fissa il numero di quote e indica i nominativi di chi è invitato a partecipare; ognuno riceve poi il link che gli permette di effettuare il pagamento e l’ordine parte solo quando sono state saldate tutte le quote. Il secondo cambiamento è l’introduzione della regalistica aziendale, in cui accortezze “tailor made” e cura del dettaglio fanno sempre più la differenza.

 

www.cosaporto.it

 

a cura di Agnese Fioretti

 

 

Order Food. La nuova piattaforma di Facebook per ordinare cibo online

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Si consolida e si perfeziona il sistema ideato dal social network più celebre per consentire ai suoi utenti di ordinare cibo senza abbandonare la piattaforma. Dopo un anno di test, il nuovo strumento è semplice e intuitivo, per ora disponibile solo negli USA. Ma se avrà successo... 

Ordinare cibo con Fb. I primi test

Ordinare cibo con un click. E direttamente tramite Facebook. Già un anno fa la piattaforma di Mark Zuckerberg muoveva i primi passi nel mondo del delivery food, intuendo le potenzialità di un mercato che continua a crescere al passo delle nuove innovazioni digitali. Così, l'autunno scorso, sulle pagine dei ristoranti statunitensi interessati al servizio esordiva il pulsante Start Order, in accordo con servizi di consegna a domicilio operativi in molte città americane, come Delivery.com e Slice. E la volontà di stipulare nuove partnership nei singoli mercati, per estendere l'esperimento in Europa e nel mondo. Più che intuitivo, e rapido, il servizio, disponibile in app (o versione desktop), e con il vantaggio di proporre un pagamento diretto tramite carta di credito anche ai clienti non iscritti alle singole piattaforme di consegna. L'obiettivo? Rendere Facebook sempre più utile. Anzi, indispensabile. Un anno dopo, il sistema si presenta, perfezionato, sotto il cappello della piattaforma dedicata Order Food, per ora riservata al pubblico statunitense. Ancor più semplice che navigare tra i profili dei propri ristoranti preferiti, ora la bacheca di ogni utente americano mette a disposizione un nuovo “tasto” a forma di hamburger.

 

Order Food. Come funziona

Un click apre l'accesso alla pagina che riunisce i ristoranti aderenti al circuito, per effettuare l'ordine e finalizzare il pagamento: “Se il ristorante al quale si desidera ordinare offre il ritiro o la consegna con più servizi, è possibile selezionare il servizio che si desidera utilizzare. Ad esempio, se hai un account con Delivery.com, puoi ordinare facilmente con il tuo login esistente. Se non hai un account con quel servizio, puoi registrarti rapidamente e facilmente, senza lasciare l'applicazione Facebook”, spiega nel dettaglio Alex Himel sul blog ufficiale di Facebook. I test dell'ultimo anno sono stati fondamentali per mettere a punto il sistema, che ora funziona in autonomia senza passare per i siti dei ristoranti coinvolti, e offre anche la possibilità di consultare senza uscire dal social network il catalogo di molti servizi specializzati statunitensi, da Delivery.com a EatStreet e Slice. Funzioni collaterali: la geolocalizzazione delle attività e uno spazio per le recensioni, che da un paio d'anni impensieriscono le più celebri piattaforme di recensioni (Tripadvisor in testa), offrendo agli utenti la possibilità di valutare un ristorante tramite il proprio profilo, assegnandogli da una a cinque stelle sulla sua pagina aziendale. Il nuovo strumento, invece, offre la possibilità di scremare i risultati per località, prezzo, orario d'apertura, tipologia di cucina e servizio offerto (delivery o ritiro sul posto); ed etichettare come preferiti i propri ristoranti del cuore. Se l'America approverà, presto anche in Europa, e in Italia, i principali servizi di delivery dovranno essere pronti a strappare l'accordo migliore con Zuckerberg. Il business ai tempi di Facebook.  

Tre Bicchieri. Parla Pico Maccario della Cantina Pico Maccario

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La Barbera d'Asti e le sue molte declinazioni. Una, quella Superiore di Pico Maccario, ha meritato i Tre Bicchieri nella guida Vini d'Italia 2018.

Una rosa segnala l'inizio di ogni filare, per un totale di circa 4.500 piante a clone unico. Basta questo per dare un'idea delle dimensioni e della filosofia dell'azienda di Pico e Vitaliano Maccario a Mombaruzzo, in provincia di Asti e nel cuore della Docg Barbera d'Asti. Quella stessa filosofia che è sintetizzata dalla frase: “C’est le temps que tu as perdu pour ta rose qui fait ta rose si importante” dell'inossidabile Antoine de Saint-Exupèry, monito e insegnamento che campeggia in azienda. La rosa è il simbolo della cantina sin dalla sua nascita e la presenza di questi fiori serve a indicare l'inizio di ogni filare, a segnalare tempestivamente la presenza di parassiti dannosi per le vigne, ma anche a rendere ancora più incantevoli questi luoghi. 70 ettari vitati, di cui più di 50 solo a barbera (ma ci sono anche merlot, cabernet sauvignon, chardonnay, sauvignon, freisa e favorita), 10 chilometri di strade bianche, oltre 300mila barbatelle: sono queste le cifre della cantina, tra le più rilevanti del Piemonte.

Pico Maccario

Un'azienda dai grandi numeri che si muove con disinvoltura tra legame con le proprie radici e innovazione. La fondazione, del resto, risale “solo” al 1997, ma la storia della famiglia Maccario nei vini si spinge molto indietro: quella di Pico e Vitaliano è infatti la quarta generazione impegnata nel lavoro in vigna. Solo alla fine del secolo scorso, però, la decisione di produrre in prima persona mantenendo viva la stretta relazione con la terra e i vigneti, eredità materiale ed emotiva della famiglia. A questo imprinting domestico si unisce l'idea tutta moderna di un lavoro di ricerca e sperimentazione su vini e vigneti per raggiungere quei risultati che hanno consegnato i Tre Bicchieri alla Barbera d’Asti Superiore Epico ’15, in cui i sentori di bacche nere, china e radici introducono un palato un po’ austero ma anche polposo e pieno, dal finale lungo e grintoso. La Barbera, ma sarebbe meglio parlare al plurale, è il banco di prova dei Maccario che continuano il loro lavoro, tra selezione clonale migliorativa, attenzione alle fasi produttive, impegno continuo con una evidente vocazione alla modernità tanto nella gestione della vigna che nella produzione dei vini. Che si pongono nell'esatto punto mediano tra tradizione e modernità, per raccontare la nuova era della Barbera, senza mai tradirne l'identità.

 

Parliamo della cantina. Come nasce?

Noi siamo la quarta generazione di vignaioli, ma la prima a produrre il vino, e anche se la nostra famiglia ha sempre avuto vigneti di proprietà siamo una cantina giovane.

 

Quale è la filosofia con cui vi muovete?

Possiamo dire che il nostro è un progetto di territorio e di Barbera. Il vino premiato è la massima espressione di quel che può essere - oggi - questo luogo e questo vino. Ora è una Barbera più in chiave moderna ed è quello che il territorio riesce a esprimere in termini di qualità.

 

Come è cambiato il vostro vino nel tempo?

Non abbiamo fatto cambiamenti radicali, ma corretto tante piccole cose negli anni, aggiustato tanti dettagli che hanno fatto la differenza. E oggi siamo soddisfatti. Abbiamo imparato a conoscere i nostri vini e a trovare l'equilibrio corretto per quanto riguarda lavoro in vigna, affinamenti, uso dei legni, tempistiche. Sono vini che richiedono tempo per essere compresi. Poi ovviamente abbiamo potuto sfruttare grandissime annate, come la 2015.

 

Per quanto riguarda il lavoro in cantina?

Partiamo dal legno: forse nel tempo abbiamo imparato a dosarlo, o forse ora in cantina abbiamo uno storico di legni diverso. Ma la nostra linea guida è la stessa, ovvero che ci vuole tempo per arrivare al risultato. Ma l'enologo sempre lo stesso e anche la vigna è sempre la stessa. E noi facciamo sempre lo stesso lavoro minuzioso.

 

Che appeal ha oggi la Barbera nel panorama enologico piemontese?

Il nebbiolo, quindi Barolo e Barbaresco, rimane ovviamente un riferimento. Ma oggi la Barbera ha un suo posto, è un prodotto complementare rispetto agli altri due, più veloce anche per quanto riguarda i sistemi di affinamento. Soprattutto per le annate più giovani sul mercato ci sono, volendo, anche più occasioni di beva.

 

Come sta andando?

C'è una riscoperta, e c'è uno zoccolo duro di consumatori nel Piemonte. Stiamo riprendendo la strada fatta dai nebbioli e oggi siamo riusciti a far tornare in evidenza un vitigno fondamentale. Ne abbiamo fatto riscoprire la piacevolezza. Inoltre è una denominazione polivalente, che trova nella Barbera Superiore la massima espressione, con vini più longevi.

 

Facciamo chiarezza. Barbera d'Asti e Barbera d'Alba. Quali sono le differenze?

Sono due denominazioni importanti, e diverse. E la loro diversità è data dai terreni (i loro sono più morbidi) e l'esposizione. Spesso vengono confuse, ma nel bicchiere la differenza si sente molto. Una – quella d'Alba - è più elegante e delicata, l'altra, la Barbera d'Asti, più corposa. Negli ultimi anni le nostre Barbera hanno avuto annate molto buone, ne sono nati vini importanti.

 

Non c'è rischio che si generi confusione?

No, credo che questo non possa che rafforzare il grande nome della Barbera, sul mercato una aiuta l'altra e molto spesso chi ne ha provata una, poi vuole conoscere il territorio di provenienza. È una denominazione che sta crescendo.

 

Pico Maccario | Mombaruzzo (AT) | via Cordara, 87 | tel. 0141 774522 | https://www.picomaccario.it/

 

a cura di Antonella De Santis e Lorenzo Ruggeri

Stefano Terigi Chef Emergente 2017. La sua storia, con Lorenzo e Benedetto, al Giglio di Lucca

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Un lavoro a tre, frutto di un'amicizia cresciuta in cucina e del legame forte con Lucca, e la tradizione gastronomica locale, che si respira ancora tra le mura del Giglio, quarto protagonista della storia. Il risultato finale, però, è una cucina italiana moderna, contaminata, dai sapori decisi. Che ha portato Stefano a trionfare sul palco delle Officine Farneto. 

Si vince in tre

Alla fine di una gara, sul gradino più alto del podio sale sempre un vincitore. Questa invece è una storia a tre. Tre protagonisti, tre ragazzi di 30 anni, che dalla partenza arrivano a tagliare il traguardo insieme. Anzi, volendo rendere il merito a chi spetta, “noi affrontiamo sempre le sfide in 4: siamo io, Lorenzo, Benedetto… E il Giglio”. La storica insegna di Lucca, 40 anni alle spalle, ha dietro di sé tre generazioni di ristoratori, l’ultimo, da qualche anno a questa parte, è proprio Lorenzo (Stefanini), che insieme agli amici Stefano e Benedetto (Rullo) ha preso in mano le redini del locale di famiglia. “Oggi lo gestiamo in tutto e per tutto” conferma Stefano “ci occupiamo non solo della cucina, ma anche dei conti, della gestione del personale, della cantina, e di ogni necessità del ristorante”. Del resto quello che lega i ragazzi al Giglio di Lucca è una sorta di debito di riconoscenza: in tre vantano esperienze disparate presso molte cucine blasonate, in giro per il mondo, ma la palestra di Lucca, la voglia di farcela da soli, “e di fare da mangiare senza stare troppo a pensare ai riconoscimenti, per il gusto di lavorare bene, e insieme”, quella è stata una tappa fondamentale per arrivare dove sono oggi.

 

Il lavoro (in cucina) che ripaga

A distanza di qualche anno dall’inizio dell’avventura, infatti, i riconoscimenti arrivano eccome: il ristorante è sempre pieno, i clienti apprezzano, la critica si è accorta che al Giglio qualcosa ha cominciato a girare proprio per il verso giusto. E la fama del ristorante ha oltrepassato i confini della cittadina toscana, sostenuta dalla grinta - e quel pizzico di incoscienza che da giovani non guasta – dei ragazzi: qualche mese fa, Lorenzo si aggiudicava la competizione sulla pasta di Gragnano – il Primo Piatto dei Campi – con gli Spaghetti alle vinacce e fegati di colombaccio, pari merito con Marco Ambrosino (28 Posti a Milano). La settimana scorsa, invece, sul podio c’è salito Stefano Terigi, classe 1987, eletto Chef Emergente 2017 alle Officine Farneto, nell’ambito della competizione nazionaleorganizzata ogni anno da Luigi Cremona Lorenza Vitali, che riconosce il talento giovane della ristorazione d'autore. Anche a Roma, i ragazzi si sono presentati compatti. Uno sul palco, due dietro le quinte a supportarlo per le preparazioni. Insieme hanno costruito in tre giorni un percorso che ha convinto la giuria di giornalisti e chef a premiare Stefano, tra la sorpresa generale: “Non ce l’aspettavamo, non eravamo i favoriti, e gareggiavamo con avversari molto preparati”. E invece il gioco di squadra, insieme al coraggio di non scegliere la strada più facile, li ha portati alla vittoria, con una serie di piatti riusciti nell’accostamento di ingredienti e sapori, seppur azzardati. Ma in realtà molto ben calibrati.

La cucina di Stefano Terigi. Italiana, contaminata, moderna

A guardare Stefano da sotto il palco, a sentirlo dichiarare i suoi principali riferimenti in Italia – “Enrico Crippa perché il periodo con lui mi ha aperto la mente, Paolo Lopriore con cui condivido l’approccio alla cucina, lo seguo e leggo tutti i suoi scritti” – la sensazione è stata quella sin dall’inizio: idee forti, e un bel bagaglio tecnico a sostenerle. Per una cucina divertente (e divertita), ragionata, ma estremamente godibile, anche se giocata sul contrasto. Che poi è quanto succede a Lucca ogni giorno, da 5 anni a questa parte. I primi due piatti proposti in concorso - la pasta cotta in acqua di pomodoro con tanta noce moscata come fosse formaggio e cetriolo alla brace (dove ogni elemento è necessario per esaltare l'altro, da una ricetta “nata come risotto, e poi elaborata per ammorbidire l'acidità dell'insieme”) e l’anguilla con fegato di pollo e melograno - sono regolarmente in carta, al ristorante. Anche se il Giglio, e Stefano ci tiene a ricordarlo “deve mantenere il rapporto con il territorio, nel rispetto della storia che abbiamo alle spalle”. Si sperimenta, dunque, e principalmente nel percorso degustazione (7 portate più extra) proposto a chi arriva per la cosiddetta esperienza gourmet, ma in carta restano i piatti della tradizione locale e tante ricette del Giglio che fu, “in primis le tagliatelle con ragù di frattaglie di coniglio, una ricetta che ha 150 di storia”.

 

La doppia anima del Giglio. Territorio e tradizione, divertimento ed evoluzione

Così il ristorante mantiene la sua doppia anima, e ai ragazzi spetta il compito di tenere in equilibrio le parti: “In estate arriviamo a 120 coperti, dobbiamo fare da mangiare per tutti. Lavoriamo rapidi, sui cavalli di battaglia della casa. E intanto facciamo anche la nostra cucina, proprio ora siamo alle prese col nuovo menu”. Molto probabilmente nella nuova carta degustazione entrerà anche il piatto che è valso la vittoria a Roma, uno spiazzante dolce non dolce, un cremoso all'alga kombu con siero di yogurt caramellato e meringa, “in omaggio alle contaminazioni che ci hanno portato dove siamo oggi, il Giappone dell’alga, la Francia della panna”. Stefano, a onor del vero, in cucina c’è entrato 5 anni fa, prima studiava arte contemporanea, “mi sono laureato con una tesi su Ferran Adrià”. Ma il tarlo del cibo è sempre stato lì, “ho scoperto di non volerne fare a meno durante un lavoro per l’Accademia Italiana della cucina a Ravenna, con Franco Chiarini: giravamo un documentario sulle erbe spontanee commestibili. Durante i nostri viaggi, tra raccoglitori, chef romagnoli, ricercatori, lui mi ha aperto un mondo. Ho capito di voler prendere la strada della cucina”.

L'esordio in cucina, il futuro del Giglio

Allora ha chiamato Lorenzo, amico di infanzia, gli ha chiesto consiglio, lo ha raggiunto al Giglio. “Nelle stagioni invernali, quelle più tranquille al ristorante, abbiamo cominciato a viaggiare. Praticamente mentre facevamo la gavetta in cucina costruivamo la nostra formazione”. Così sono arrivati Pierre Gagnaire (dove Stefano ha conosciuto Benedetto, da Roma), Enrico Crippa, il Giappone di Ryugin per Lorenzo. “E un’esperienza folgorante per me, in Australia, a Margaret River, una piccola cittadina con interessanti realtà vinicole. Lì, dove c'è solo vino e surf, ho lavorato nel ristorante di un'azienda vinicola, il Wills Domain, ho scoperto un approccio al cibo molto naturale, quasi di impostazione nordica. E appreso molte tecniche di cottura che utilizzo oggi”. Cinque mesi importanti, “meravigliosi”, poi un mese in Indonesia, con Lorenzo, per assorbire la cultura gastronomica locale. Oggi, i tre condividono il modo di fare ristorazione, “in evoluzione costante, fuori da un sistema di comunicazione che ci sembra troppo canalizzato sullo chef star. A noi piace fare da mangiare!”. Al ristorante lavorano insieme, ma anche ognuno per sé, con altri tre ragazzi in brigata, e tre pass, uno a testa: “Alcuni piatti nascono e finiscono da una persona, sono i migliori, perché frutto di un'intuizione molto potente. Ma abbiamo in carta anche piatti corali, elaborati all'unisono”. In genere, e la prova alle Officine lo conferma, lavorano su pochi elementi, che si bilanciano tra loro, e gusti netti: “Il sapore deciso ci scorre nelle vene”. Una chiosa dei diretti interessati? “La nostra è una cucina italiana contaminata, tanto debitrice della tradizione, ma di impostazione moderna. E il fermento gastronomico di Lucca ci aiuta. Siamo consapevoli di far parte di una piccola realtà che cresce, senza paura di guardare al futuro. E siamo molto legati al nostro territorio”. Come al Giglio, che ormai fa parte della loro storia.

 

Il Giglio - Lucca - piazza del Giglio, 2 - 0583 494058 - www.ristorantegiglio.com

 

a cura di Livia Montagnoli

Ritratti di Francesco Tommasi


Cibo a Regola d'Arte a Napoli. L'orgoglio della tradizione con il Corriere della Sera in trasferta al Sud

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Primo appuntamento al Sud per la rassegna dedicata al mondo della gastronomia e alla sua comunicazione, ideata 5 anni fa dal Corriere della Sera, con la direzione artistica di Angela Frenda. Si parla di tradizione, con tanti ospiti, chef, pizzaioli. A San Domenico Maggiore. 

Da Milano a Napoli. Cibo a Regola d'Arte

Cibo a regola d'arte... A Napoli. Il festival annuale organizzato dal Corriere della Sera raddoppia gli appuntamenti con la prima edizione in trasferta al Sud, dal 27 al 29 ottobre. Così la rassegna a cura di Angela Frenda, direttrice della Cucina del Corriere, cresce ed esplora nuovi territori, dopo cinque anni spesi a perfezionare un format di comunicazione aperto al pubblico e dedicato al mondo della ristorazione e della gastronomia tout court. E se l'ultimo appuntamento milanese, la primavera scorsa, aveva giocato sul racconto del cibo – tra incontri, seminari, show cooking, laboratori per bambini e tanti ospiti chiamati a dare il proprio punto di vista – a Napoli la kermesse si muoverà sul territorio della tradizione, indagando il concetto di eredità gastronomica. Non a caso, perché l'intenzione è quella di riabilitare il ruolo di una tradizione gastronomica che proprio al Sud ha spesso giocato da freno all'evoluzione in cucina, e invece oggi, sempre di più, viene acclamata come linfa vitale per il futuro della ristorazione. Anche, e soprattutto, nel Mezzogiorno, dove il bagaglio di conoscenze a disposizione è davvero prezioso. Ecco, dunque, il Sud che riscopre se stesso, portando avanti L'orgoglio della tradizione, come si intitolerà la tre giorni partenopea.

 

L'orgoglio della tradizione

La rassegna sarà ospitata dal Refettorio di San Domenico Maggiore, a partire dalla cena a 4 mani (solo su invito) di venerdì 27 ottobre, che riunrà in cucina una coppia inedita: Ernesto Iaccarino a rappresentare la Campania e la cucina mediterranea, Wicky Priyan, da Milano, per raccontare il valore della contaminazione. Un asse di comunicazione tra locale e globale che farà da sponda all'intera manifestazione, orientando gli interventi sulla riscoperta delle radici molteplici della cucina mediterranea, influenzata in passato dai fattori esterni più disparati, scambi culturali, dominazioni, commerci. Dalla mattina di sabato, le porte del refettorio apriranno al pubblico, che potrà assistere agli incontri gratuitamente, fino a esaurimento posti (mentre corsi e degustazioni sono su prenotazione). Si parte con Alessandro Borghese, prossimo all'apertura milanese del Lusso della Semplicità, che a Napoli porterà il suo supplì di mare; ma la prima giornata offrirà anche un excursus nell'alta ristorazione italiana attraverso alcuni dei suoi protagonisti più celebri, da Gennaro Esposito (con il rigore della tradizione) a Heinz Beck, che presenterà sul palco una interpretazione della zuppa di latte. A Massimo Bottura, protagonista dell'ultima masterclass del sabato, con il “risotto che diventa pizza”.

Tra gli incontri da non perdere anche il food talk sulla Campania e l'economia del food, con Rosanna Marziale e Gino Sorbillo, e il corso sulla pizza in casa tenuto dal maestro Franco Pepe. Nel pomeriggio, invece, la tavola rotonda con Mauro FelicoriDomenico Raimondo per raccontare come i tesori gastronomici possano attirare turismo di qualità. Altrettanto nutrito il parterre di chef della domenica, da Andrea Berton a Ciccio Sultano, da Pasquale Torrente a Caterina Ceraudo e Luca Abbruzzino. Dalla Francia anche Adeline Grattard, con l'intervento Contaminazioni, da Parigi al Sud del mondo. E alle 20.30 appuntamento con Niko Romito, per la master su Pasta e pomodoro. E poi talk sulla “cucina femmina” e l'acqua a tavola, e il corso pratico sulla pizza della domenica con Renato Bosco. Mentre di buon'ora, Iginio Massari porterà da Brescia il suo montebianco con marroni campani.

 

Cibo a Regola d'Arte | Napoli | Refettorio di San Domenico Maggiore | dal 27 al 29 ottobre | http://www.corriere.it/reportages/cucina/2017/cibo-a-regola-d-arte/napoli/

 

a cura di Livia Montagnoli

Igles Corelli apre le porte di Villa Rospigliosi per Nonna Peppina. La festa dello street food per solidarietà

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Sfrattata dalla sua casetta in legno costruita dopo il terremoto che un anno fa colpiva San Martino di Fiastra, dov’è sempre vissuta, Giuseppa Fattori oggi vive in un container, come molti altri terremotati del Centro Italia. Lei, però, ha 95 anni, e la sua storia ha commosso il mondo. L’11 novembre si mobilitano anche gli chef. A radunarli è Igles Corelli. 

La storia di Nonna Peppina

La storia della 95enne sfrattata dalla sua casetta di legno, a San Martino di Fiastra (Macerata), ha fatto il giro del mondo. E così Nonna Peppina, suo malgrado, è diventata l’ennesima vittima del terremoto che un anno fa colpiva ripetutamente il Centro Italia. Giuseppa Fattori, improvvisamente balzata agli onori delle cronache, il suo paese, gravemente danneggiato dal sisma, non avrebbe proprio voluto abbandonarlo. Ecco perché, quando all’indomani del terremoto la sua abitazione fu dichiarata inagibile, le figlie si affrettavano a costruire per lei un piccolo chalet in legno, in un terreno di sua proprietà. Responso dell’amministrazione: sequestro dell’immobile perché abusivo. Nei giorni scorsi, quindi, in esecuzione del provvedimento, Nonna Peppina è stata sfrattata dalla sua casetta, tra le lacrime che hanno fatto il giro del mondo. E oggi vive nel container che le è stata assegnato, sprovvisto di servizi igienici. In molti si sono mobilitati per aiutarla, e a Lamporecchio, l’11 novembre, andrà in scena una giornata di festa (e raccolta fondi) in suo onore. L’idea è venuta a Igles Corelli, che alle porte del borgo toscano dirige la cucina del ristorante Atman, a Villa Rospigliosi.

 

Street food a Villa Rospigliosi. Cuochi solidali

Proprio la dimora storica progettata dal Bernini sarà luogo di incontro per 40 chef che hanno risposto alla chiamata dello chef emiliano, per animare una giornata all’insegna dello street food d’autore: “Se qualcuno deve stare per strada” spiega Corelli “che sia il cibo, non un’anziana terremotata. Per aiutare nonna Peppina faremo ciò che sappiamo fare meglio: cucinare”. Alla festa del cibo di strada parteciperanno i cuochi della Compagnia degli Chef, e il gruppo di Top Chef Italia, oltre ad alcuni cuochi di Atlatichef; e gli ospiti potranno muoversi tra decine di isole di degustazione – 5 euro l’offerta per ogni assaggio – curiosando tra le diverse reinterpretazioni della tradizione di strada della Penisola. È questo il messaggio che Igles vuole lanciare a chi come lui ha sposato con passione il mestiere dello chef: “La vicinanza al territorio non si esprime solo con la ricerca degli ingredienti locali da portare nel piatto, ma risiede in gesti concreti a favore degli altri”. In abbinamento sarà servita una selezione di vini, e la giornata trascorrerà all’insegna del divertimento, seppur animata da un fine solidale. Intanto un anonimo imprenditore lombardo si è detto pronto ad acquistare una casa per nonna Peppina. Ma questa è un’altra (bella) storia. E c’è ancora bisogno dell’aiuto di tutti. Igles Corelli vi aspetta.

Street food per Nonna Peppina | Lamporecchio (PT) | Villa Rospigliosi, via Borghetto 1 | l’11 novembre 2017 | www.villarospigliosi.com

 

Anteprima Tre Bicchieri 2018. Premi Speciali

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10 premi per 10 categorie che sintetizzano il lavoro che sottende tutta la guida. Un'analisi vini, cantine, metodi di produzione, prezzi che raccontano in che direzione sta andando il mondo del vino.

Concludiamo oggi le anticipazioni degli elenchi dei premiati della guida Vini d'Italia 2018 con i Premi Speciali, quelli che celebrano vini, aziende, filosofie meritorie di un riconoscimento in più. Un campionario che sintetizza il lavoro di tutta la guida. Che quest'anno si arricchisce di una nuova voce, quella dedicata al Progetto Solidale, assegnata a persone o aziende protagoniste di un impegno e di una particolare sensibilità verso il sociale. Quest’anno lo merita davvero Elisabetta Fagiuoli della toscana Montenidoli, che ha creato una fondazione che, raccogliendo la sua eredità, darà una casa ad anziani e giovani di razze e religioni diverse che vivono una situazione di difficoltà. Siamo convinti dell'esigenza di un confronto a 360 gradi con l'ambiente circostante – inteso in senso olistico come un complesso di elementi, non solo naturali - per questo abbiamo deciso di promuovere questo premio, che ha un collegamento diretto, nella nostra ottica, a quello per la Vitivinicoltura Sostenibile. E da lì alla segnalazione dei Tre Bicchieri Verdi, quelli prodotti da aziende biologiche o biodinamiche certificate, che quest’anno sono ben 99. Segno tangibile che l'attenzione all'ambiente non rappresenta un ostacolo alla qualità e alla bontà dei vini.

 

I Premi Speciali della guida Vini d'Italia 2018

 

Il Rosso dell’Anno è il Valtellina Superiore Sassella Rocce Rosse Riserva ’07 di Ar.Pe.Pe., un grandissimo vino.

Il Bianco dell’Anno è il Fiano di Avellino Pietramara ’16 de I Favati, un vino di eleganza e straordinario equilibrio.

Il premio Bollicine dell’Anno va a una cuvée artigianale realizzata da una famiglia appassionata: è il Marcalberto Extra Brut Millesimo2mila12, un metodo classico denso e agile, potente e raffinato.

Il Dolce dell’Anno è la Malvasia delle Lipari Passito ’16 di Caravaglio, un vino profondamente mediterraneo che apre nuove e moderne prospettive nel panorama dei vini da meditazione.

Il Miglior rapporto qualità prezzo va al delizioso Romagna Sangiovese Superiore Sigismondo ’16, figlio di un progetto speciale de Le Rocche Malatestiane.

La Cantina dell’Anno per il 2018 è la Masi della famiglia Boscaini, cui va il merito di aver portato l’Amarone e i vini veronesi sulla ribalta internazionale, e non solo.

La Cantina Emergente è l’entusiastico gruppo dei calabresi Spiriti Ebbri.

Il Viticoltore dell’Anno è Stefano Amerighi, un uomo che vive fino in fondo il suo rapporto con la terra.

Il Premio per la Vitivinicoltura Sostenibile va alla Ferrari della famiglia Lunelli, che da anni si impegna con convinzione in questo settore.

Il Premio al ProgettoSolidale quest’anno va a Elisabetta Fagiuoli della toscana Montenidoli, che ha creato una fondazione che, raccogliendo la sua eredità, darà una casa ad anziani e giovani in difficoltà, di razze e religioni diverse.

 

 

Gli altri premi Tre Bicchieri della guida Vini d'Italia 2018

Grande degustazione Tre Bicchieri 2018 a Roma, Napoli, Torino 

Le ultime novità dal mondo della pizza, tra Roma e Caserta. Dalla pizzeria di Exquisitaly a Prima Classe di Bastelli

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C'è chi ha aperto solo da qualche giorno, e chi si appresta a inaugurare. A Roma si aspetta l'apertura della pizzeria romana di Mirko Rizzo e Jacopo Mercuro, slittata di un mese. Intanto, in centro città Exquisitaly lancia un nuovo format con la consulenza di Marco Lungo. A Caserta è già partita l'avventura in solitaria di Enzo Bastelli, mentre Luca Mastracci ci prova a Priverno, con Pupillo Pura Pizza. 

180g. La pizzeria romana di Centocelle

Una pizzeria romana, a Roma. Che ci vuole a trovarla? Per chi non si rassegna alle lievitazioni tirate via senza troppi pensieri, e alla materia prima di scarsa qualità, l'impresa potrebbe rivelarsi più ardua del previsto. La sfida di Jacopo Mercuro Mirko Rizzo, non a caso, è proprio quella di rilanciare la dignità di un prodotto che appartiene alla tradizione della città, e di frecce al proprio arco può rivendicarne parecchie, seppur non baciata dalla fama della cugina napoletana. Intorno all'insegna che aprirà in via Tor de Schiavi, periferia popolare di Centocelle, infatti, la curiosità è già alta da qualche tempo. Ma, causa ritardi con i lavori e le certificazioni, la data di apertura di 180g – Pizzeria Romana, inizialmente prevista per la metà di ottobre, è slittata di almeno un mese. “L'obiettivo” racconta Jacopo “è quello di aprire entro il mese di novembre. Ormai facciamo prove da più di un mese e mezzo, il prodotto c'è, siamo molto soddisfatti e non vediamo l'ora di cominciare”. Il sodalizio con Mirko Rizzo (patron della pizzeria al taglio Pommidoro, sempre a Centocelle) è nato proprio intorno alla passione per la pizza romana, quasi per gioco. Poi, quando Jacopo ha concluso l'esperienza Mani in Pasta, le intenzioni si sono fatte più serie; il progetto è cresciuto, l'affiatamento tra i due pure.

Pizza romana, con personalità

E la pizzeria che aprirà è frutto di un approccio molto personale alla pizza romana di cui sopra, buona, godibile, valorizzata da un impasto leggero e da ottimi ingredienti locali: “Proporremo una tonda da 180 grammi, bassa e molto croccante, senza però ricalcare in tutto e per tutto la tradizione”. Nello specifico, gli esperimenti sulla lievitazione, hanno portato a definire un impasto con prefermento, “che ci divertiremo a valorizzare, lasciando spazio a un cornicione basso, solitamente assente nella romana classica, condita fin sul bordo”. Poi ci sono le farciture, vere e proprie ricette di cucina, “perché la pizza assemblata ormai ha fatto il suo tempo. Nostro compito sarà quello di trovare un equilibrio tra condimenti importanti e un disco di pasta così sottile”. Gli ingredienti saranno quelli del territorio, “al 90% locali, perché tutto il progetto è impostato sulla romanità, nostra e del prodotto”. Farine da grani italiani, mulini selezionati, da Marino e Sobrino, a Silvestri, e verdure di stagione, il maiale di Pork'n'Roll. E anche il menu parla dichiaratamente romano, sin dai fritti, specialità di Mirko: filetti di baccalà, trippa fritta, supplì... E taglieri di salumi e formaggi Dol in aggiunta. Dolci, sempre fatti in casa, altrettanto veraci, dal maritozzo alla crostata ricotta e visciole. Birre artigianali romane e qualche vino del territorio. Tutto in un piccolo locale da 50 coperti - “perché i grandi numeri non ci piacciono” - con cucina e forno Valoriani a vista, dove sarà facile trovare Jacopo: “Continuo a preferire l'artigianalità all'imprenditorialità, non vedo l'ora di mettermi davanti al forno”. Mirko invece farà la spola tra i due locali. Si apre solo a cena.

La pizzeria romana “verace” di Exquisitaly

Intanto si parla di pizza romana anche in centro città, grazie al nuovo format sposato da Exquisitaly, con la complicità di Marco Lungo. La pizza secondo Exquisitaly, nel locale polifunzionale di piazza San Bernardo, è un omaggio alla romanità con ingredienti delle diverse regionali italiane: croccante alla base, morbida ai bordi, per offrire un'interpretazione molto personale della “verace” tradizione romana. In menu dal 27 ottobre, la nuova proposta della pizzeria amplierà l'offerta gastronomica dell'insegna, con una serie di voci ispirate alle città d'Italia, da Bolzano a Venezia, a Napoli e Bari, con gli ingredienti di riferimento selezionati da Manuela Mancino: dieci pizze per cominciare, con baccalà mantecato e uvetta passita (la Venezia), toma delle Valli di Lanzo, robiola di Roccaverano, Castelmagno (per la Torino), e così via. Al forno (elettrico, Moretti), invece, c'è Sumon Bhuiyan, formato da Lungo. A pranzo e cena.

Pupillo Pura Pizza. La napoletana di Priverno

Fuori Roma, ma ancora sul territorio regionale, arriviamo a Priverno, in provincia di Latina, per scoprire un'altra pizzeria agli esordi, Pupillo Pura Pizza. Natali e trascorsi laziali, Luca Mastracci è cultore della pizza napoletana, quella verace. E nella piccola cittadina di Priverno, 15mila abitanti, ha scelto di portare la tradizione partenopea. Ma sempre con originalità. Da anni alle prese con il mestiere del pizzaiolo - compresa una parentesi a Dublino – l'ultima esperienza l'ha visto al fianco di Pier Daniele Seu al Mercato Centrale, “ma anche Gabriele (Bonci) mi ha dato una grande mano a formare il carattere: due parole di Gabriele valgono come duecento di tutti gli altri”. Ma il sogno di Luca, da qualche anno a questa parte, era quello di aprire una pizzeria sua, nel paese dov'è nato, “anche per ridare spunto a un panorama gastronomico non troppo vivace”. Si parte da Priverno, quindi, con il coraggio di scommettere sulle realtà del territorio: l'olio extravergine locale, la carne di bufala , il fior di Morolo, le farine del mulino Cipolla di Terracina. “Ci vorrà almeno un anno per standardizzare il prodotto, ma poi non è escluso che si possa crescere con altre pizzerie in provincia”. L'ambizione è tanta, la prima risposta è stata buona, e all'entusiasmo degli inizi corrisponde anche molto lavoro. Quello di studio e ricerca che ha preceduto l'apertura, e ora l'impegno al locale, “dalle 7 del mattino, fino a sera. Produciamo tutto noi, anche il pane grattato per la panatura dei supplì”. Un centinaio di coperti, forno a vista, e un menu giocato sulla stagionalità degli ingredienti, direttamente dal contadino che tutti i giorni porta in cucina ortaggi e verdure appena raccolte.

Si comincia con i fritti, i classici della tradizione napoletana con qualche spunto originale, come la frittatina di pasta all'amatriciana. Prima però, il benvenuto della casa, la falia, “un pane pizza locale, infornato tradizionalmente prima di fare il pane; ne serviamo due o tre spicchi da intingere nell'olio, secondo l'usanza dell'infunni e magna”. Poi le pizze, una ventina in tutto, di cui due fritte. L'impasto rispetta la tradizione partenopea, matura a temperatura ambiente, per 24 ore. Tra i must della casa la Pizza Pupillo: cicoria selvatica con ragù bianco di carni bufaline, e una grattata di conciato romano. E poi quella con rucola e carpaccio di bufalo, o la marinara gialla, con dedica a Matteo Mevio (il giovane pizzaiolo scomparso un anno fa, vittima di un incidente mortale). “Ci piace l'idea di educare il cliente a scoprire i prodotti del territorio, e la digeribilità di un impasto maturo, ben fatto”.

Prima Classe. Enzo Bastelli a Caserta

Sempre più a sud, oltrepassando il confine regionale, a Caserta troviamo un'altra valida realtà fresca di apertura. Prima Classe è la prima avventura in solitaria di Enzo Bastelli, pizzaiolo napoletano e figlio d'arte, 27 anni, da 18 alle prese con la pizza. Dopo l'ultima parentesi da Ieri, Oggi e Domani, zona stazione centrale di Napoli, ora è il momento di provarci da solo, senza lasciare nulla al caso: “Prima classe è una dichiarazione di intenti: il nostro menu, con ingredienti selezionati su tutto il territorio nazionale, è un viaggio nell'Italia del buon cibo. E noi vogliamo offrire al cliente l'opzione prima classe: qualità, servizio accurato, comfort, bella carta dei vini”. E, soprattutto, tanta personalità: “Qui, giusto o sbagliato che sia, ho la possibilità di esprimermi con libertà”. Caserta è arrivata per caso, l'occasione di un locale giusto per iniziare presa al volo, in una città che sta vivendo il suo personale rinascimento della pizza, con Sasà Martucci, Diego Vitiello, l'energia positiva di Franco Pepe, da Caiazzo. Vicino al più grande multisala della città, ad appena un chilometro dal centro, e con un grande parcheggio a disposizione, “il locale è perfetto per le nostre esigenze, defilato, ma non troppo, pratico da raggiungere. Mi piace immaginarlo come il nostro salotto della pizza”. Visione imprenditoriale, dunque, oltre a un indubbio talento davanti al forno. Bastelli arriva dalla scuola dell'impasto con biga alla Marco Lungo, ma oggi riesce a lavorare con l'impasto diretto senza biga, ottenendo ugualmente una fragranza accentuata, grazie alla miscela di farina 00 con fibre e germe di grano. In carta una trentina di pizze, i classici e gli speciali della casa, come la Prima Classe, “la mia preferita, anche se ancora work in progress”: cipolla di Montoro caramellata, macinato di Scottona, mozzarella e stracciatella e d'Agerola. Prima, gli “antipizza”: la frittatina di pasta, con ragù o allardiata (con lardo di suino nero casertano), il crocchè classico e dello chef, con patata viola e speck di Sauris; le montanarine, con ragù cotto 13 ore, genovese con cipolle, pomodorino giallo. “Un menu semplice, e divertente, e per chiudere i dolci della pasticceria Benito di Casal di Principe”. Il Sogno, per esempio, è tale di nome e di fatto, con la “capa” del babà rivestita di cioccolato e ripiena di crema di nocciola, e bagna al rum.

 

180g Pizzeria romana - Roma – via Tor de Schiavi, 53 - dalla metà di novembre 2017

La pizzeria di Exquisitaly - Roma – piazza San Bernardo, 99 – dal 27 ottobre 2017 - 06 48907042 – www.exquisitaly.it

Pupillo Pura Pizza – Priverno (LT) – via Giacomo Matteotti, 29 - https://www.facebook.com/PupilloPuraPizza/

Prima Classe – Caserta – vicolo Pietro Mascagni, 6b – 0823 344220 - https://www.facebook.com/primaclassepizzeria/

 

a cura di Livia Montagnoli

(in apertura la pizza romana di 180g)

Cuochi albanesi in Italia. Storie di grandi chef, qualità e integrazione

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Per molti la ristorazione è il primo approdo quando si cerca un lavoretto per sbarcare il lunario. Soprattutto se in un paese diverso dal proprio. Così spiega il suo incontro con la cucina Entiana Osmenzeza. Una delle prime, e più note, chef albanesi in Italia. Perché, anche se silente, esiste un'ampia comunità che da Tirana e dintorni è arrivata fin qui. Ecco chi sono gli chef albanesi che operano da noi.

In molti, come Entiana Osmenzeza, sono arrivati in Italia ancora minorenni “in Albania studiavo” racconta “se fossi stata bene lì non mi sarei spostata, ma c'era la guerra civile ed era impossibile costruirsi un futuro”. Alla caduta del regime la situazione è complicata, allora a 16 anni arriva in Italia “per noi era come per gli italiani l'America” spiega. Una terra vicina per geografia e cultura, con la televisione, quella che al di là dell'Adriatico si è sempre riuscita a vedere, vera porta d'accesso a quel mondo e alla sua lingua. Finisce in Piemonte, dove ci sono progetti a sostegno dei minori stranieri. Un lavoretto in un ristorante per sopravvivere e l'alberghiero “per studiare senza perdere il lavoro”.

Entiana Ossmenzeza

Entiana Osmenzeza

La sua formazione in cucina è tutta targata made in Italy, così come quella – scopriamo – di quasi tutti i suoi colleghi conterranei. La vita da profuga è difficile, i primi anni durissimi: la sveglia all'alba per lavorare in un bar, la scuola, il lavoro e poi lo studio di notte. Cosa la distingue? “La forza di volontà”. Dopo l'alberghiero inizia a viaggiare, fa le stagioni e colleziona esperienze. A Montecarlo al Metropole, con Beltramelli, scuola Marchesi. “C'era grande ordine e precisione e ho pensato che volevo anche io essere così un giorno, allora ho continuato su questa strada. Ma” aggiunge “è stato molto duro, punti alla qualità ma la tentazione di scegliere vie più semplici è forte”. Invece continua: Louis XV, Pierangelini, Alciati, Redzepi. Fino a Gurdulù di Firenze, prima di fermarsi per un po', una volta diventata mamma.

Fundim gjepali

Fundim Gjepali 

Fundim Gjepali nel 1996, a 14 anni, raggiunge il cognato vicino Roma dove trova lavoro in un agriturismo, “venivo da una famiglia di allevatori, avevano un caseificio e macellavano, avevo manualità e familiarità con il cibo”. Comincia come lavapiatti, ma presto passa in cucina. Legge e studia tantissimo, gira il mondo dell'alta ristorazione, le fiere, i forum, i congressi. Fa esperienze in locali da grandi numeri. L'inizio degli anni 2000 lo vede al Ceppo di Roma, dopo 4 anni e mezzo e altre esperienze è all'Antico Arco (storico Due Forchette della Capitale), come sous chef, dopo un paio di anni entra in società. Nel frattempo rileva la piccola azienda agricola di famiglia vicino Durazzo, con l'idea di farne, un domani, un agriturismo. Arrivano dei programmi tv in Albania, anche come giudice di MasterChef, e un paio di anni fa apre Padam, un locale nuovo per Tirana.

Mario PeqiniMario Peqini

Ci sono poi Mario Peqini che 13enne arriva a Milano dove frequenta l'alberghiero e conquista uno stage al Luogo di Aimo e Nadia. Continua lo studio, colleziona altri stage fino a tornare dai Moroni, stavolta come chef pasticcere, premiatissimo (miglior Pastry Chef 2013 a Identità Golose). Oggi è al Tosca, ristorante italiano in Svizzera. Irdi Keci giunge a 12 anni, anche a lui lo aspettano molti sacrifici e l'alberghiero, poi MasterChef in Albania, nel 2015. Albanese di Tirana, oggi Iirdi è di stanza vicino Imola dove ha aperto il suo locale, Artigiano.

Arriva in Italia a 17 anni, Veri Shaqja. La sua formazione comincia in Albania, in casa tra pilaf e zuppe preparati dalla mamma (“è lei che ha educato il mio gusto”) e l'alberghiero a Durazzo. Lavora in Piemonte, prima in un ristorante di pesce, poi scopre la cucina locale “ci sono tanti prodotti incredibili” dice ammaliato “ogni cambio di stagione porta qualcosa”. La materia prima del territorio e i suoi piatti tipici lo conquistano, ad Alba approfondisce ancora la tradizione: i tajarin, il ripieno dei plin, coniglio al Barolo, la carne cruda e altri piatti. E poi il tartufo. A Udine incontra l'alta cucina e cambia prospettiva: “ho scoperto piatti più ricercati, le grandi materie prime e tecniche nuove” spiega:“questo mi ha aperto il mondo della cucina creativa”. È tra i quattro semifinalisti della seconda edizione di MasterChef Albania, esperienza che gli dona non solo visibilità, ma anche apertura mentale, capacità di affrontare le sfide e la possibilità di approfondire la cucina del suo paese girando per l'Albania in cerca di piatti regionali.

 

Bleri DervishiBleri Dervishi

A soli 4 anni, invece, Bleri Dervishi attraversa l'Adriatico su un gommone con i genitori. Oggi di anni ne ha 23 e nel suo paese Bleri è tornato per vincere, nell'edizione 2015, MasterChef Albania. Il suo percorso nella ristorazione nasce in Italia: l'alberghiero e le prime stagioni, fino ad arrivare da Terry Giacomello all'Inkiostro di Parma, poi il salto nei Paesi Baschi, alla corte di Eneko Atxa dove disciplina ferrea e provocazioni gastronomiche alimentano la sua formazione. Oggi è executive chef del Relais Monaci di Terre Nere a Zafferana Etnea. Cosa c'è di albanese nei suoi piatti e nel ristorante? “Pane e pomodoro che richiama quello della nonna” di cui si intuiscono le tracce nella zuppa di pomodoro con yogurt (tra gli ingredienti fondamentali dall'altra parte dell'Adriatico).

Arriva da clandestino, a 17 anni, passando il confine con la Grecia, Sokol Ndreko, tra gli uomini di sala più importanti d'Italia (premio per la guida de l'Espresso 2017), con Valentino Cassanelli al Lux Lucis di Forte dei Marmi. All'inizio lavora come muratore, alla ristorazione non ci pensa proprio dopo che un lavoretto estivo gli aveva rivelato una professione fatta di sacrifici e ritmi serratissimi. Poi va in Versilia al ristorante della famiglia Vaiani, e scatta la scintilla: “mi avvicino per curiosità”. Si diploma all'Ais “per avere una qualifica professionale perché volevo una posizione migliore”. Lavora in sala, ha mai avuto difficoltà con la lingua?“mai, anche perché tutto il mio percorso formativi è stato qui”. Ci sono poi Ardit Curri a San Gimignano, Ronald Bukri sous chef all'Inkiostro con esperienze all'Atman al fianco di Corelli. Italiana nata da genitori albanesi, invece, è la sommelier Simona Bulla, patronne insieme al cuoco Gabriele Polonia dell'Osteria Momè, a Livorno.

 

Quale identità gastronomica?

Molti di loro hanno una doppia cultura gastronomica (“siamo leggermente più fortunati” commenta Entiana) una dell'infanzia e della memoria, e una della maturità. Qualcuno conserva dei ricordi legati agli odori o ai sapori, altri solo dei rimandi lievi legati a racconti o episodi lontani. Per esempio quello dell'onnipresente yogurt, che Irdi (che pure è cresciuto gastronomicamente qui) aggiunge nella mantecatura del risotto, e Fundim propone nell'abbinata tipica con le uova, rielaborata con cotture confit e il tocco di tartufo e asparagi. Per tutti, però, la cucina quotidiana è italiana. Qui, si sono avvicinati ai fornelli, per piacere o necessità.

 

Sokol AliajSokol Aliaj

Gli albanesi in Italia, ci dice Fundim, sono tantissimi, ma non è una comunità isolata o chiusa. Ci sono professionisti accreditati, persone integrate nel tessuto sociale, complice anche la buona conoscenza della lingua e della cultura, e non fanno gruppo. Negli anni passati l'immagine del popolo albanese in Italia non era delle migliori, “subivo i pregiudizi” ricorda Entiana, che spiega l'importanza di ritrovare le proprie origini: “è un completamento: c'è molto di albanese, ora, nella mia vita e nella mia cucina, e sento molto le mie origini. Il legame con la terra” aggiunge“è l'unica strada per la felicità”, ma è un legame stretto anche con l'Italia: “è casa mia”. Sokol Aliaj, ora sous chef al Tårnet nel parlamento danese, arriva in Italia a 10 anni nel 1997, frequenta l'alberghiero a Chianciano Terme, passa due stagioni alla Certosa con Paolo Lopriore e poi in altri ristoranti a Siena. Testimonia di una generazione che non ha potuto maturare una radice gastronomica, una delle prime e più profonde espressioni di identità culturale e di senso di appartenenza. “L'identità uno se la crea” replica “tramite la famiglia che è la base, poi con le sue esperienze, l'ambiente da cui è circondato, le amicizie, il carattere: la mia cucina ormai è un felice matrimonio tra il mio bagaglio culturale e gastronomico italo-scandinavo e il background albanese”. Dopo 7 anni in Danimarca, sente di avere acquisito tre culture, diverse tra loro, che convivono pacificamente “la gastronomia italiana e albanese mi ricordano casa. Il cuore e l'aspetto professionale sono nella cucina italiana, quello più privato è albanese. La nostalgia in entrambe o forse più in quella albanese, la passione in tutte e tre”.Il legame con le sue origini è tutto nella memoria dei sapori, “alcuni elementi sono comuni alla cucina di ora, per esempio l'aneto con cui sono cresciuto e che trovo qui. Ma più semplicemente sono gli odori e i sapori della frutta e della verdura, così difficili da ritrovare, che mi riportano ai sapori della mia memoria”.

 

 

La cultura gastronomica in Albania

Nei 50 anni di regime la politica gastronomica centralizzata imponeva un modello alimentare di impronta sovietica – era quello insegnato anche negli istituti tecnici - in cui il cibo era sostentamento e non cultura, dove non esisteva possibilità di scelta nei negozi. Si è poi passati a un periodo turbolento, di grandi privazioni soprattutto nei primi tempi; e di successiva rincorsa vertiginosa e incontrollata di tutto quanto arrivava dall'estero. 25 anni di allontanamento dalle proprie tradizioni e dalla terra, “tutti scappavano dalle campagne verso la città, Tirana è passata da 120mila abitanti a oltre 600mila” racconta Fundim. Solo di recente si registra un'inversione di tendenza con una nuova attenzione alla cucina locale in una concezione più moderna, un ritorno alla campagna e all'agricoltura “ci sono spazi enormi ed enormi potenzialità”. È un momento storico, di pre adesione alla Comunità Europea, esistono fondi internazionali cui attingere. Ed è un momento in cui l'Albania è in corsa per allinearsi al resto d'Europa, basti vedere il nuovo mercato di Tirana, rinnovato sulla scia dei mercati gastronomic europei.

Mercato di tiranaIl nuovo mercato di Tirana

In Albania si stanno formando giovani con le competenze adatte per interpretare la tradizione” dice Entiana, raccontando di una nuova generazione di cuochi che conosce materie prime, tendenze internazionali, tecniche contemporanee; che vedono quel che accade con la cucina italiana e capiscono che si può fare lo stesso con quella albanese. “I veri fuoriclasse sono pochi, per lo più sono ragazzi in via di formazione cui ancora manca un po' di maturità” quella che porta anche maggiore libertà di esprimersi. Un nome? “Per esempio a Tirana c'è un ragazzo, Bledar Kola del Mullixhiu, che fa una cucina albanese vera, legata alle tradizioni ma moderna”.

Ma cosa succede con il vino lo chiediamo a Sokol Ndreko: “L'Albania ha avuto un ruolo importane nella salvaguardia della cultura enologica europea durante a fillossera. Poi la viticultura è stata distrutta al 90% sotto il regime, come negli altri paesi comunisti”. Oggi è in fase di ricostruzione. “Si sono molto sviluppati, le tecnologie aiutano ad avere dei risultati, e negli ultimi anni c'è stata una crescita notevole. Ma” aggiunge “ancora non sono pronti: con vigne così giovani, appena 15-20 anni, avere vini di un certo livello è impensabile, ma c'è un ottimo potenziale”. La vicinanza con l'Italia è condizionante: “I vini italiani la fanno da padrone, per la vicinanza e la facilità di raggiungere l'Italia e perché storicamente l'Albania è sempre stata legata all'Italia. Ma ci sono anche vini francesi e balcanici”.

Un piatto di Veri ShaqjaUn piatto di Veri Shaqja. Carne cruda e thana, frutto tiico albanese

Contaminazioni in cucina

Cibo balcanico e cibo italiano. Quanto si mescolano queste culture? Tanto, risponde Entiana: “ricerco molto il mix, ma più che le mie due terre, mi piace unire tutto quello che ho imparato nelle cucine in cui ho lavorato. Poi, più si cresce e più escono fuori le origini. Del resto la cultura gastronomica albanese è fatta di contaminazioni: greche, turche, armene…”Da quando è diventata mamma il legame con le sue origini si è rafforzato, anche per la voglia di tramandarle alla bambina. “La riscoperta delle radici è qualcosa che arricchisce. L’Albania sta rinascendo e la cucina costituisce un canale preferenziale per farsi conoscere; sono curiosa, mi piace incontrare le nuove generazioni di cuochi che, fra l’altro, condividono l’estrema importanza che do alla scelta della materia prima e alla semplicità”. E all'incontro tra le due culture gastronomiche Entiana, attualmente impegnata in cene itineranti, senza l'impegno quotidiano di un ristorante, dedica il prossimo evento, il 23 ottobre a Bologna, nel programma di 7 Tavole allo Spazio Battirame. Il suo menu, nella serata dal titolo Il lavoro crea cibo (Paesaggi naturali e agricoli), è tutto basato sul raccolto, sullla materia prima autentica e biodinamica, e accoglie molti richiami alla cucina albanese.

Ci prova, con moderazione, VeriShaqjaa contaminare la grande scuola piemontese al Gener Neuv di Asti, rinnovando le ricette ereditate dalla famiglia Fassi con spunti moderni e qualche suggestione ispirata alle sue origini. Un esempio è Il profumo e i sapori della mia infanzia, un dolce a base di gelso di moro in agrodolce, sciroppo di petali di rosa e crumble al limone, memento delle estati di bambino vicino Durazzo. O l'altro, un antipasto a base di carne cruda e thana, un frutto albanese, in due consistenze abbinato a un gelato di robiola di Roccaverano. Un modo per portare un po' della sua storia in un ristorante di grande tradizione. Difficile spingersi oltre perché, spiega: “la cucina albanese ha sapori forti, a volte difficili - è molto diversa da quella piemontese - inoltre voglio mantenere l'identità di questo luogo storico in cui lavoro”.

 

TiranaTirana

Tornare indietro

Mi piacerebbe avere un locale in Albania. Ogni tanto ci penso”fa Entiana “però ancora non lo so, perché non voglio più essere legata alle persone: quando si incontra il proprio posto si riconosce al primo impatto, un po' come nei film o nei libri. Succede anche nella vita, io ogni volta l'ho riconosciuto. Può essere in Albania, o anche un altro posto”. Non ha dubbi Irdi Keci: “dopo MasterChef mi sono arrivate delle proposte, ma” spiega “voglio rimanere in Italia. Ormai è qui il mio mondo”. Fundim Gjepaliun paio di anni fa, insieme al gruppo dell'Antico Arco e una società locale,ha aperto a Tirana il Padam: un locale molto lussuoso, una grande cantina di oltre 400 grandi vini italiani, e una doppia anima, un gourmet da 60 coperti e un cocktail bar in cui passano centinaia di persone e che gira a pieno ritmo. Un punto di incontro internazionale e delle istituzioni locali. In contemporanea fonda anche una società di consulenza per locali, dalla carta dei vini alla gestione del personale: è un paese nuovo che a breve registrerà moltissime start up. Il modello è quello dell'Antico Arco, anche nell'impostazione della cucina e dell'organizzazione. “Al Padam lavoriamo sui piatti tradizionali, li rendiamo più snelli e moderni, dall'immagine alla ricetta, facciamo ricerca sulla materia prima”. Per esempio i formaggi di piccoli agricoltori locali o le trote. “Ma occorre spiegare le cose perché le persone capiscano, ora la società è pronta ad apprezzarle, anche se spesso è stupita dalla proposta” spiega Fundim e, ammette “quel che facciamo noi spesso viene seguito da altri”.

Ho pensato di tornare in Albania,almeno per un periodo” rispondeSokol Aliaj“siamo la generazione senza homeland. In continuo movimento e continua esplorazione”. Per molti tornare è una questione di progetti: “Vivo qui da 17 anni” spiega Sokol Ndreko “sono cittadino italiano e ho una famiglia qui. Ma nulla esclude che un domani si possa prospettare un progetto interessante per cui tornare in Albania”. Non è un obiettivo tornare, per Bleri Dervishi, ma lo farebbe, a patto di “trovare la persona giusta con la stessa cultura”. Risponde VeriShaqjafino a qualche tempo fa sarei tornato senza esitare” risponde VeriShaqjanon avevo però avuto offerte che mi convincevano. Ora invece sento che il mio posto è in Piemonte, sono contento qui”.Ma quale cucina avrebbe fatto in Albania?“Una cucina locale, con materia prima locale. È una cosa ancora rara, la maggior parte dei ristoranti in Albania fa una cucina straniera, di derivazione internazionale”. Mamolti giocano la carta passepartout di pasta e pizza.

Il Mrizi i Zanave L'agriturismo Mrizi i Zanave 

Chi è tornato indietro con l'idea di valorizzare la storia gastronomica locale è anche Altin Prenga, arrivato su un barcone nel 1998 e tornato indietro nel 2009. In Italia ha compiuto la sua formazione tra ristoranti e botteghe artigiane, e interiorizzato l'idea del cibo del territorio, genuino, tradizionale ma partecipe di un rinnovamento dall'interno. Un'idea che nasce dal prodotto e arriva nel piatto. Oggi al Mrizi i Zanave (“L’ombra delle fate”) di Blinisht punta tutto su una proposta albanese contemporanea e sul prodotto locale, quasi sempre a chilometro zero, valorizzando la produzione locale e sostenendo l'economia dei piccoli artigiani, organizzando anche un consorzio. È il miglior agriturismo del paese. In Albania comincia ora una presa di coscienza sul proprio valore gastronomico, un patrimonio agroalimentare oltre che economico. E molto si deve a Prenga, portavoce dei principi del movimento Slow Food.

 

Antico Arco | Roma | piazzale Aurelio, 7 | tel. 06 065815274 | http://www.anticoarco.it/

Artigiano | Imola| via San Vitale 159/A | tel. 0542 76311 | https://www.facebook.com/Artigiano-350710818594532/

Gener Neuv| Asti | Via Carlo Leone Grandi | tel. 0141 557270 | http://www.generneuv.it/

L'Inkiostro | Parma | via San Leonardo, 124 | tel. 0521 776047 | www.ristoranteinkiostro.it

Lux Lucis | Hotel Principe Forte dei Marmi | Forte dei Marmi (LU) | Viale Amm. Enrico Morin, 67 | tel. 05 84783686 | www.principefortedeimarmi.com

Mrizi i Zanave | Abania | Blinisht | Fshati Fishte | Lezhe | tel. +355 69 2108032 | http://www.mrizizanave.com/mrizi/

Osteria Momè | Livorno | Corso Amedeo, 46 | tel. 392 780 5007 | http://www.osteriamome.it/

Relais Monaci di Terre Nere | Zafferana Etnea (CT) | Via Monaci | tel. 331 136 5016 | https://www.monacidelleterrenere.it/it/

Ristorante San Martino 26 | San Gimignano (SI) | via San Martino, 26 | tel. 0577 940483 | http://www.ristorantesanmartino26.it/

Tårnet | Danimarca | Copenaghen | Christiansborg Slotsplads, 1218 | tel. +45 33 37 31 00 | https://taarnet.dk/

Tosca | Svizzera | Ginevra | Rue de la Mairie 8 | tel. +41 22 707 14 44| http://tosca-geneva.ch/fr/

 

a cura di Antonella De Santis

 

 
 
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