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Racconti in nuce. Leonardo Romanelli firma una raccolta di brevi racconti dedicati alla colazione

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Ci sono quelle consumate in fretta, e quelle fatte con calma, quelle opulente, quelle frugali, quelle dolci e quelle salate. Sono le colazioni, non solo un pasto, ma il momento in cui ogni cosa si mette in moto. Leonardo Romanelli, nel volume “Racconti in nuce” fotografa 50 frammenti di vita quotidiana che si dipanano a partire dalla colazione.

Leonardo Romanelli - cuoco, sommelier, autore e conduttore radiotelevisivo, food writer e collaboratore del Gambero Rosso - firma Racconti in nuce, una raccolta di brevi scritti, 50 “frammenti narrativi” che traducono in parole altrettanti tasselli di vita domestica. Istantanee di quel momento della giornata in cui tutto inizia e si mette in movimento: la prima colazione. Elemento comune di storie che raccontano esistenze diverse, risvegli difficili o partenze serene, nuove avventure o consuetudini rodate. Tutti illuminati a partire da quel primo sorso di caffè, da quel boccone che introduce alle ore a venire, alle emozioni e ai dolori della vita che avanza, nonostante tutto. È il morso d'avvio, attorno a cui tutto si avvolge, il pasto più importante della giornata che introduce Storie di risvegli e vite quotidiane, come recita il sottotitolo.

 

Pubblichiamo qui alcuni dei racconti del libro. Sono brevi storie, da leggere tutte d'un fiato magari al mattino, mentre si sorseggia il primo caffè della giornata. Ne presentiamo 7, come i giorni della settimana. Quasi un invito a creare un nuovo rito per celebrare il giorno che inizia, tra parole, bevande calde e qualche boccone goloso.

Un caffè ai macelli

La tentazione di scaraventare la sveglia dalla finestra era forte, ma riuscì a poggiare un piede a terra, poi l’altro e ad andare in cucina, dove la caffettiera era già pronta sul fornello. Accese il gas ed iniziò la veloce vestizione, finita prima che il caffè iniziasse a gorgogliare. Lo bevve d'un fiato, una moka da due a stomaco vuoto, e si avviò alla porta, senza scordarsi il pranzo al sacco. Pioveva. Si calò sulla testa il berretto, il cappotto serrato e iniziò a camminare sotto i tetti, come i gatti, per arrivare alla fermata dell'autobus: ne aveva già smarriti cinque di ombrelli, non aveva voglia di comprarne ancora. Mentre camminava, i pensieri vagavano a quanto era successo negli ultimi dodici mesi: da uomo di successo a spiantato, da auto di lusso a una bicicletta mezza rotta. E fuori dal giro che frequentava nei locali dove spendere tanto era la parola d'ordine. Si sentiva come un giocatore di poker che aveva perso tutto all'ultimo piatto, dopo anni di una vita in bilico. Arrivò l'autobus e lo prese pensando quando a quell'ora del mattino andava a dormire, dopo notti piene baldoria. L’università, le borse di studio per non pesare sul bilancio della famiglia rimasta al paesello, poi il lavoro, la banca, la borsa, i rischi, la caduta. Ma era riuscito a rialzarsi, a ricominciare, al contrario di altri suoi colleghi, pensava che fosse anche merito di quello che gli avevano trasmesso i suoi genitori: una casa più modesta, un posto ai macelli, carne e sangue dal primo mattino, vivere con pochi soldi. Ce la stava facendo, era ripartito da zero, ma ce la stava facendo. Lui che non mangiava frattaglie, ci metteva le mani tutti i giorni, in mezzo a odori così lontani al suo vecchio mondo. Viveva questa esperienza come una sorta di espiazione; era anche l'unico italiano tra i suoi colleghi di lavoro, e questo l’aveva aiutato a cambiare il suo modo di pensare rispetto agli immigrati. Poi aveva conosciuto lei, l’unica donna dei macelli, un’impiegata, anche lei con una storia pesante alle spalle. Si erano annusati, le confidenze inizialmente solo accennate si erano fatte ogni giorno più profonde. Se la mattina riusciva ad alzarsi, era perché sapeva di incontrarla: l'unica volta che era rimasta a casa per un’influenza gli era mancata moltissimo. Arrivò ai macelli, si avviò verso gli spogliatoi per cambiarsi, la incontrò, le sorrise e lei, con i suoi guanti senza punte, la sciarpa multicolore ed un berretto di lana, lo salutò con un bacio sul naso, lontano da occhi indiscreti. Entrò nello spogliatoio con il cuore che gli batteva forte e, appena uscito, lei era lì con due tazze di caffè. Guardandolo gli chiese: "Un cucchiaino scarso, vero? E' già girato". Lui stavolta non indugiò come altre volte e le rispose solo: "Alle otto stasera, accanto all'ingresso del parco. Mettiti bella, te lo meriti".

 

Dopo le periferie

Le periferie estreme delle città avevano per lui un fascino particolare, qualcosa gli era rimasto dentro della laurea in architettura, ora dimenticata in fondo a un cassetto. Vagava spesso nelle zone più degradate della città. Gli scheletri delle fabbriche abbandonate, i condomini mai terminati e occupati da chi una casa vera non poteva permettersela avevano su di lui una potenza immaginifica straordinaria, gli facevano immaginare quello che si sarebbe potuto cambiare, ristrutturando, adattando, modificando. Lei in questo non lo seguiva affatto, questa che a lei sembrava una insana passione, non la coinvolgeva affatto. Capitava spesso che, partiti per le vacanze, passassero i primi due giorni separatamente, senza nemmeno sentirsi per telefono. Lui cercava informazioni su internet e una volta arrivato in una città nuova andava a cercare le baraccopoli e le zone più degradate che avrebbero alimentato la sua visionarietà. Camminava senza orologio, senza telefono, senza tablet, con pochi spiccioli e le mani nelle tasche. Percorreva strade fangose, pieni di topi, conosceva da vicino la realtà di cento persone che dormivano nell’unico grande stanzone di una fabbrica abbandonata, condivideva sigarette e parole con loro e con chi dormiva sotto i ponti. Per lui, un vero genio dei nuovi dispositivi digitali, della rete, del virtuale, essere a contatto con quella parte del mondo così cruda era il modo per non separarsi dalla realtà e per costruire progetti umanitari che potessero essere utili agli ultimi. Lei e lui su questo non si capivano, ma secondo un tacito accordo non si costringevano l’uno con l’altro ad accettare i punti di vista dell’altro. Dopo un paio di giorni, tornava in albergo al mattino presto, entrava in camera silenzioso, si faceva una doccia e la svegliava con l’odore della lavanda fresca, che lei adorava. Si trovavano poi muti di fronte alle colazioni più standard e banali del mondo ad inzuppare fette biscottate con marmellate plastificate in caffè solubile. L’importante era farlo insieme.

 

50 sfumature di fame

Anche quando non doveva lavorare, si svegliava presto. Quella mattina, in campagna, aveva acceso il camino alle 6, preparato la camomilla, sistemato la coperta in poltrona e aveva iniziato a leggere vestita come dovesse affrontare un scalata. Stava leggendo "50 sfumature di grigio" solo per capire il perché del successo del libro: già dopo le prime venti pagine si era stufata, ma voleva arrivare in fondo per poter spiegare con cognizione di causa, a se stessa e agli altri, la noiosità di quelle pagine. Da esperta correttrice di bozze e redattrice, sapeva quanto potesse essere difficile descrivere scene di sesso, che comunque non dovevano annoiare il lettore. Quando si trovava insieme alle amiche, le faceva divertire con i suoi trucchi del mestiere applicati ai generi letterari dei più disparati, dal fantasy al poliziesco, passando dalla saggistica al genere erotico. Si alzò per andare ad aggiungere acqua alla camomilla e sorrise pensando a com’era intabarrata e a quello che stava succedendo nel libro; non riusciva proprio ad entrare dentro la trama, non riusciva ad appassionarsi né alla vicenda né a com’era raccontata. Poco dopo iniziò a considerare anche la possibilità di fare colazione. Non era tipo da spremutina d'arancia e tisane; soprattutto in campagna le si apriva una fame considerevole. Tolse da sopra a brace le patate, affettò la pancetta e ne ricavò due tranci da mettere in padella, insieme a rosmarino e alloro; quando fu ben sfrigolata, ci unì le patate, insaporendole col pepe, poi ci ruppe un uovo. Tagliò due fette di pane di segale, mentre si rapprendeva l'albume Portò la padella a tavola, si versò il caffè nero bollente e iniziò a mangiare. Finire il libro sarebbe stato faticoso, ma mai come stare dietro ai 3 figli e al marito rimasti in città per le vacanze di natale. In fondo, quelle scene sadomaso non erano poi così noiose da leggere.

 

Al canile

L'adorava, certo; altrimenti non si sarebbe mai trovato in quella situazione la mattina di Natale, alle 5, quando il mondo, almeno quello occidentale, dormiva saporitamente. La colazione ai clochard della stazione l'aveva già fatta come esperienza, ma di andare in un canile, al mattino così presto,non ci pensava nemmeno fino a due giorni prima. Vestito a strati e con una cappellaccio di lana per cercare di combattere il freddo, pedalava in maniera regolare, maledicendo in cuor suo il momento nel quale aveva prestato l’auto alla sorella. Ovviamente pioveva ed il pane che aveva nel cestino si stava bagnando; lo coprì con un telo di plastica, mentre la rabbia stava montando, soprattutto perché lei era allegra e serena e lui non riusciva a capirne il motivo, anche perché la pioggia a un certo punto diventò nevischio e i guanti non impedivano alle mani di congelarsi. Terminata la consegna, accarezzati quasi tutti i cani, lei andò verso di lui trotterellando felice e guardandolo negli occhi esclamò: "Pronto per la visita all'ospizio dalla zia?". Fu il colpo di grazia, non rispose, la seguì come un automa. Fecero visita alla simpatica vecchietta, quindi il ritorno a casa alle 9, l’ora in cui a Natale le persone normali sono ancora sotto le coperte. Non aveva ancora riaperto bocca. Si buttò sotto la doccia bollente, per smettere di battere i denti e distendere i nervi. Solo dopo che il vapore si fu diradato la vide: era in piedi, appoggiata allo stipite della porta del bagno, con addosso solo un delizioso completino che non le aveva mai visto e in mano un vassoio con due tazze di cioccolato e i biscotti di mandorla che lui adorava. Simpatici questi cani, pensò.

 

I fiori, il tassista, la cioccolata.

Fin da piccola, si rifugiava nei libri per mascherare il disagio di stare in compagnia di bambini che non la interessavano: essere più matura, più riflessiva, più “grande” l'aveva spesso costretta a isolamenti e solitudini. A scuola furono anni di studio matto e disperato: amava Leopardi! Approfondiva ogni argomento, ma poi cercava di dimostrare di sapere meno per evitare di essere derisa dai compagni. Anche all'università non ci fu modo di stringere solide amicizie, di ragazzi nemmeno l'ombra. Ci stava pensando, quella mattina, mentre aveva interrotto la consueta lettura di inizio giornata per mettere dell'acqua a bollire. Dovette arrivare al primo incarico di ricercatrice prima di avere un invito a cena. Sorrise ancora ripensando all'imbranataggine di entrambi, alla difficoltà di arrivare al dolce, ai silenzi imbarazzanti che facevano avvertire chiaro il rumore delle posate. Poi arrivò lui, un'esperienza completamente nuova rispetto a come aveva vissuto fino ad allora. Tassista, simpatico, riuscì a colpirla mentre la portava alla stazione: non riuscì mai a capire come fece ad ottenere il suo telefono. Iniziò una corte puntuale, mai tropo assillante, fatta di mazzi di fiori, inviti al cinema fino a che, quando accettò l'invito a cena, capì che era l'uomo adatto a lei: non era sicuramente un intellettuale, la fece ridere, tanto, in maniera buffa. Più giovane di lei di 8 anni, ma non immaturo. Ci pensava mentre metteva il miele nella camomilla e si apprestava a riprendere il libro, non fece caso a un piccolo rumore alle sue spalle. All’improvviso una mano le chiuse gli occhi. Riconobbe la sua pelle e il suo profumo. Riuscì a posare la tazza, provò a farfugliare qualcosa, sentì che lui le stava passando sulle labbra qualcosa di cremoso: stette al gioco, si lasciò guidare e avvertì un crescendo di sapori che univano la nocciola alla vaniglia, con sentori di lavanda nel sottofondo. Una pralina morbidissima che svelò al suo interno del peperoncino non aggressivo ma potente… il libro poteva attendere.

 

Un caffè speciale

Quel sabato mattina avrebbe potuto svegliarsi tardi, oziare, prendersela veramente con tutta calma. Invece era ancora buio e aveva gli occhi sbarrati. Lei riposava al suo fianco, con una quantità incredibile di roba addosso per combattere il freddo assurdo di una casa col riscaldamento rotto da due giorni. Senza far rumore, lui scivolò fuori dal letto e andò in bagno. Si osservò allo specchio: cappuccio di lana, tuta pesantissima, calzerotti di lana. Freddo a parte, si sentiva bene; la sera prima aveva mangiato poco, aveva poi dormito poco ma profondamente. Decise di uscire, infilandosi il cappotto sulla tuta e le scarpe da ginnastica sui calzerotti. Uscendo, il vento lo sorprese e benedì il momento nel quale aveva indossato la sciarpa. Incontrò gli ultimi tiratardi, che tornavano dalle discoteche, con le brioches in mano. In un bar pasticceria appena aperto ne comprò sei e rientrò veloce a casa: era troppo freddo per continuare a gironzolare. Un pensiero gli passò per la testa, facendolo andare indietro con gli anni, a quando era ragazzo: decise di fare un caffè speciale e nella moka versò grappa al posto di acqua, mise il caffè nel filtro e accese il fornello. Quell'odore che fuoriusciva dalla macchinetta lo inebriava, non era un caffè corretto, bensì un vero e proprio liquore al caffè. Abbassò il fuoco, lo fece passare lentamente fino all'ultima goccia e se ne versò un'intera tazza. Poi un’altra ancora. Una strana e piacevole sensazione lo avvolse, il caldo lo attaccò da tutte le parti: si spoglio in un attimo e decise di tornare nudo sotto le coperte, con la testa piacevolmente annebbiata. Lei si stava svegliando, ma decise di abbracciarlo e di provare ancora ad abbandonarsi alle braccia sue e di Morfeo.

 

Nel bosco

Il trillo della sveglia alle 4 del mattino aveva ormai un suono familiare: si alzava con circospezione per non svegliarla, quindi metteva la macchinetta del caffè sul fuoco, tagliava e metteva ad abbrustolire le fette di pane. La cucina economica emanava ancora un certo tepore, lui la ravvivava solo un attimo prima di andare via, così che lei la potesse trovare alla giusta temperatura. Spalmava il burro sulle fette di pane, poi la marmellata di more, la sua preferita, e inzuppava tutto nel caffè, osservando il grasso che galleggiava a formare piccoli anelli sul nero. Si riteneva comunque fortunato, malgrado quello che era successo: aveva una casa, la donna rimasta insieme a lui, un lavoro. A raccontarlo sarebbe sembrato del tutto normale, ma quasi sorrideva a pensare a come era prima, al suo attico di duecento metri quadri, al lavoro in Borsa, alle feste e a tutto il resto: lo shopping sfrenato, le corse in moto, le vacanze alle Seychelles per Natale, seguite da quelle sulla neve, il mare in Sardegna. Anni formidabili, finiti dall'oggi al domani. "Una stupenda bolla di sapone", l'aveva definita il suo amico prevedendo con un po' di anticipo il crac.

Ora doveva affrettarsi; la corriera passava alle 5 e lui doveva camminare per mezz'ora nel bosco per arrivare alla fermata. Si infilò il berretto, la giacca, andò in camera e la guardò nell'ombra, infagottata nella tuta di lana: se la ricordava nuda o con la sottoveste di raso, nel letto a forma di cuore che avevano in camera. E uscendo si stupì per l'ennesima volta che lei fosse stata disposta a seguirlo, quando le aveva detto che era tutto finito: vacanze, auto di lusso, ristoranti, vestiti costosi. Era stato fortunato a non avere avuto problemi con la giustizia, al contrario di tanti suoi conoscenti finiti in prigione. Le sue origini umili lo avevano aiutato a saper ricominciare; aveva rischiato, guadagnato molto, perduto tutto, ma la casa che aveva comprato ai genitori era riuscita a salvarla e ad assicurare loro così una vecchiaia serena. Arrivò il pullman, salì e continuò a seguire il filo dei pensieri: sull'amore di una donna e sulla loro capacità di cambiare. Lui era diventato taglialegna, un mestiere che nemmeno sapeva più che esistesse. Lei si era messa a pensare alla casa e a quel po' di terra che la circondava; ed era lì non solo perché non avrebbe saputo dove altro andare. Prima le capitava di non ricordare dove aveva lasciato un vestito o una borsa o un libro, se nella casa di Gstaad, quella di Porto Cervo o quella di campagna in Toscana; ora con sé aveva portato poco, quasi nulla.

Lui arrivò all'appuntamento con gli altri, un saluto frettoloso e allegro; e poi nel bosco. Lei intanto si era alzata e aveva trovato sul tavolo un sacchetto: un pout pourri con le erbe trovate da lui nel bosco. Si guardò allo specchio: trucco e parrucchiere appartenevano a un'altra vita, ma non se ne dispiaceva, si sentiva in pace con se stessa: addentò una mela e aprì la finestra, la giornata andava ad iniziare.

 

Racconti in nuce | Leonardo Romanelli | Mauro Pagliai Editore | I non ricettari | pp. 96, euro 6,5

 

 

 

La California a fuoco. Bruciano le vigne di Napa Valley e Sonoma, a rischio anche la tenuta Antinori

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Vittima, devastazioni, collegamenti interrotti e impossibilità di arginare le fiamme divampate violente ormai 3 giorni fa. È questa la situazione nelle regioni vinicole più rinomate della California, che sulla produzione vinicola e l’indotto dell’enoturismo sviluppano un giro d’affari di 120 milioni di dollari l’anno. Ora però tutto brucia.

La California in fiamme

La siccità dell’estate appena trascorsa ci ha, purtroppo, abituato a sentir parlare di incendi e devastazioni. Divampati in tutta l’Europa mediterranea, nei mesi scorsi i roghi (molto spesso dolosi) non hanno risparmiato neanche l’Italia, e le immagini delle pendici del Vesuvio in fiamme sono ancora vive negli occhi di tutti. Da qualche ora però le testimonianze più impressionanti arrivano dalla California, dove ormai tre giorni fa le regioni vinicole di Napa Valley e Sonoma hanno cominciato una lotta estenuante contro il tempo, per cercare di arginare i focolai causati dalla siccità e alimentati da forti venti. Scene di devastazione, ancora una volta, che fanno parlare del più grande incendio scoppiato nella storia del Paese: 17 i focolai contati dai vigili del fuoco in 8 diverse contee, oltre 15 le vittime, 20mila persone evacuate, e un bilancio provvisorio di oltre 115mila acri di terreno bruciati. Ma la conta dei danni potrebbe continuare, ed è destinata ad aggravarsi con le ore che passano, tra dispersi e abitazioni completamente distrutte, ospedali inagibili e aziende ridotte in ginocchio. La violenza delle fiamme, ironia della sorte, si è accanita in particolare sulle regioni vinicole più rinomate d’America, e rischia di danneggiare pesantemente uno dei business più fiorenti della California, e degli interi Stati Uniti.

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Le tenute vinicole in ginocchio

L’Ente del vino americano, infatti, conta tra Napa e Sonoma circa 650 aziende vinicole e più di 100mila ettari vitati, che fruttano all’area un indotto di 120 milioni di dollari l’anno, tra produzione, export, enoturismo. E mentre le fiamme ancora divampano, si azzarda già una previsione funesta, che per le aziende locali parlerebbe di un dimezzamento del giro d’affari, causa devastazione in vigne e cantine. Del resto, le immagini che hanno invaso il web parlano chiaro, tra strutture rase al suolo, botti incenerite, confronti impietosi tra il prima e il dopo che fotografano scenari apocalittici in molte delle tenute sfarzose per cui la California vinicola è famosa nel mondo. Le immagini più scioccanti arrivano dalla Signorello Estate, praticamente rasa al suolo, come pure la White Rock Vineyards, tra i più antichi insediamenti agricoli dell’area; a Paradise Ridge, Santa Rosa, il paradiso è ormai un ricordo lontano. Disagi e danni anche per molte strutture ricettive, compreso l’esclusivo Hilton Sonoma Wine Country Hotel; mentre il ristorante stellato The French Laundry, a Yountville, è stato temporaneamente costretto a chiudere per problemi con l’approvvigionamento elettrico, ma è riuscito a limitare i danni. Difficile, per il momento, un computo più preciso: le strade sono interrotte, i collegamenti precari. Certo è, che ai danni visibili nell’immediato si aggiungerà l’impossibilità di lavorare in vigna nei prossimi 3-5 anni in molti dei terreni più colpiti dalle fiamme, oltre alla perdita delle riserve custodite in cantina. Tra le aziende colpite, anche l’Antica Napa Valley di Marchesi Antinori: la cantina toscana coltiva cabernet in una delle aree più rinomate di Napa, ma nelle ultime ore la tenuta è stata circondata dalle fiamme, ed evacuata. Proprio l’incertezza di queste ore, però, rende impossibile una stima precisa dei danni, e dall’Italia si cerca di monitorare una situazione sempre più difficile, dopo l’evacuazione del direttore Glenn Salva e dei dipendenti, fortunatamente tutti in salvo.

foto di Elijah Nouvelage, Special To The Chronicl, da SFGate

a cura di Livia Montagnoli

Tre Bicchieri. Parla Manlio Collavini della cantina Eugenio Collavini

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40 anni di studio per mettere a punto una grande bollicina da ribolla gialla. È lo spumante con metodo Collavini che conquista i Tre Bicchieri 2018.

È una delle aziende storiche de Friuli, fondata nel 1896 da Eugenio Collavini. Oggi al timone ci sono i suoi eredi, primo tra tutti Manlio Collavini, artefice dell'acquisizione di un antico maniero del XVI secolo a Corno di Rosazzo diventato dimora della famiglia e sede delle cantine. Ma a lui si deve anche lo studio sulle potenzialità della ribolla gialla. Un vitigno su cui ha iniziato a lavorare sin dagli anni '70. Da quando, cioè, queste uve erano pochissimo considerate sul territorio friulano, praticamente sconosciute al di fuori di esso. Manlio se ne appassionò e cominciò a testarne le potenzialità nei vini fermi, prima, e negli spumanti poi. Un lavoro lungo una vita che lo ha portato a mettere a punto un suo metodo di spumantizzazione, il “metodo Collavini”, uno Charmat modificato che ruba elementi dal Metodo Classico con una lunga permanenza sui lieviti per alzare l'asticella della qualità. Il risultato? Una bollicina straordinaria, la Ribolla Gialla Brut ’13, che oggi, nella guida Vini d'Italia 2018, conquista per la prima volta i Tre Bicchieri.

 

Come mai avete scelto proprio di lavorare la ribolla gialla?

La ribolla gialla è un vitigno friulano molto vecchio, una pianta generosa e precoce. Quando ho iniziato, una quarantina di anni fa, me ne sono interessato perché mi affascinava il nome. Ho cominciato allora a incuriosirmi, anche grazie a Gaetano Perusini di Rocca Bernarda, uno studioso della storia del Friuli e dei vitigni autoctoni. Così iniziai a vinificarlo. All'epoca nessuno lo considerava troppo, qui si usava soprattutto per fare un vino torbido che si beveva con le castagne già all'inizio di novembre. Era la primizia dei vini bianchi, una specie di novello.

 

Quindi avete deciso di provare voi a fare qualcosa di diverso

Abbiamo cominciato a vinificarlo in modo tradizionale con l'obiettivo di farci un vino di qualità, e in effetti veniva bene. Poi ho considerato che all'inizio del raccolto era molto acido, e aveva delle caratteristiche buone per uno spumante, qualcosa a metà tra lo chardonnay e il prosecco. Così iniziai a giocare con le bollicine.

 

Come è andata?

Quando si inventano percorsi nuovi si fanno errori ovviamente, il segreto è tenerli in casa. Abbiamo inventato una cosa nuova dal nulla, ci siamo divertiti. All'inizio dovevamo persino spiegare cosa era quell'uva. Ora abbiamo una certa soddisfazione, e qualcuno ci sta anche venendo dietro. Ma il prodotto deve ancora nascere.

 

Come è cambiato il vostro spumante nel tempo?

Sono 40 anni che ci siamo dietro, tutta la vita. Inizialmente, a fine anni '70, abbiamo provato con la fermentazione in bottiglia, ma non eravamo soddisfatti del risultato finale. Prima di abbandonare definitivamente il progetto abbiamo deciso di fare un tentativo con il Metodo Charmat, o Martinotti che dir si voglia. Poi lo abbiamo modificato.

 

In che modo?

Abbiamo applicato i tempi dello Champagne per un Metodo Charmat fatto su un autoctono. Il Prosecco è pronto in un mese, noi ora abbiamo iniziato a vendere il 2013.

 

Ci spieghi meglio

Lo Charmat è un metodo moderno in cui la rifermentazione viene fatta in grandi autoclavi orizzontali. Un tempo nessuno lo usava semplicemente perché non c'erano i mezzi tecnici per farlo, mancavano elettricità e attrezzature, quindi la rifermentazione doveva essere fatta per forza in bottiglia. Noi l'abbiamo adottato, applicandolo su una tradizione enologica antica, quella dello Champagne, per quanto riguarda il lavoro sul vino, i tempi e l'uso dei lieviti. Così perfezioniamo al massimo il Metodo Classico.

 

Perché la scelta dei serbatoi?

Per evitare incidenti di percorso. Con lo Charmat possiamo intervenire sempre nel periodo in cui il vino si forma, mentre nella fermentazione in bottiglia l'unico intervento è quello del liqueur. Così possiamo limitare i rischi.

 

Come reagisce questo vino alla prova del tempo?

Cerchiamo di preparare una base spumante piuttosto ricca quindi possiamo avere longevità, finora non abbiamo avuto problemi di invecchiamento. Posso azzardare che non è lontano dalla longevità di certi Champagne.

 

Come si pone la vostra ribolla tra Franciacorta e Prosecco?

Il Prosecco è un prodotto simpatico, divertente, veloce, uno spumante che si fa in poco, in un mese è pronto, non ha pretesa di competere con i grandi spumanti, il Franciacorta invece cerca di competere con lo Champagne.

 

Okkay, e voi dunque?

Noi siamo andati oltre. Adottiamo le regole severissime dello Champenoise. Il vino ha la finezza dei grandi vini spumanti, ma con caratteristiche diverse perché è l'uva di base che ha caratteristiche diverse.

 

Che momento sta vivendo il vino friulano sul mercato?

Discretamente bene, il Friuli è piccolo e ha una miriade di piccoli produttori, possiamo competere molto bene per la qualità, molto meno per quanto riguarda il prezzo. Anche perché non abbiamo milioni di bottiglie.

 

Per quanto riguarda Collavini?

Noi cresciamo costantemente, oggi la Ribolla – dopo 40 anni – fa 200mila bottiglie, se avessimo fatto Prosecco sarebbero state 20 milioni. Siamo più cari del prezzo medio di un Franciacorta. La nostra competitività nel prezzo non esiste, riusciamo a venderlo perché il prodotto piace e affascina.

 

 

Collavini | Corno di Rosazzo (UD) |Via della Ribolla Gialla, 2| tel. 0432 753222 | http://www.collavini.it/a cura di Antonella De Santis e William Pregentelli

 

Forte a Roma. Omaggio alla tavola calabrese, dai sott’oli al caciocavallo silano. Alla pizza con farine Mulinum

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Ancora qualche giorno di attesa, e poi Forte aprirà le porte al pubblico, nel quartiere Tiburtino, con l’obiettivo di raccontare la Calabria a tavola. Bottega, laboratorio di cucina, pizzeria, il locale proporrà una selezione di piccole realtà agricole e artigianali calabresi, da portare a casa o consumare sul posto.

Le farine del mulino “social”

La sfida di Forte inizia a Roma, dove il progetto di ristorazione di Giuseppe Marturano si appresta a esordire nel quartiere Tiburtino, alla periferia della città. Ma la storia potrebbe partire da San Floro, 15 minuti di macchina da Catanzaro, nella campagna calabrese. Qui, dove i piani amministrativi prevedevano la realizzazione di una delle più grandi discariche d’Europa, da poco meno di un anno è tornato in attività il Mulino San Floro, che tanto ha fatto parlare di sé grazie all’intraprendenza di Stefano Caccavari. Il mulino social, come l’hanno ribattezzato sul web, è nato infatti tramite crowdfunding all’interno della tenuta agricola riportata in auge dal giovane imprenditore calabrese: una raccolta fondi online che, alla metà del 2016, riuniva i 500mila euro necessari per l’acquisto di due vecchie macine La Fertè. Intorno, un campo coltivato a grano Senatore Cappelli. Così, dopo 5 mesi di cantiere, all’inizio del 2017 il Mulinum dei contadini apriva le porte al pubblico, dotato di laboratorio a vista e forno per la cottura di pane (il Brunetto della tradizione locale, solo farina Senatore Cappelli), lievitati e pizza. Un’impresa giovane, moderna, 100% calabrese, già pronta a raddoppiare in Toscana, nelle campagne della Val d’Orcia, ancora una volta tramite crowdfunding (e le offerte stavolta sono arrivate da tutto il mondo), mentre in Calabria, accanto al quartier generale, è nato pure un impianto gluten free, per la molitura di riso della piana di Sibari, mais e grano saraceno.

Forte a Roma. La pizza

Orgoglio calabrese, dunque, al pari del sentimento che anima il locale pronto a inaugurare a Roma, in via Giuseppe Marcotti, che proprio dal mulino di San Floro attingerà per fare scorta di farine macinate a pietra. Al motto di “Terra, sole e passione”, Forte sarà gastronomia con cucina e pizzeria, con l’obiettivo di valorizzare e promuovere le tradizioni agricole e artigianali della Calabria, di cui Marturano è originario. Ecco perché tra le proposte a scaffale, e in cucina, tanti saranno i prodotti di filiera che difficilmente scavallano i confini regionali, selezionati con cura sul territorio per dare respiro a piccole realtà familiari e produzioni artigianali di qualità.

Mulinum, seppur molto nota, è una di queste, e alimenterà la proposta della pizzeria: impasto a lungo lievitazione, 25% di farina integrale e, immancabilmente, ingredienti calabresi per la farcitura, dalla ’nduja (proposta in diverse varianti regionali) ai salumi di suino nero di Calabria, ai formaggi, di latte vaccino e ovino, freschi e stagionati, semplici e aromatizzati, come il Caciocavallo Silano dop, il pecorino di Monte Poro, di Crotone, o al bergamotto, proposti pure in degustazione sulla carta di gastronomia.

Gastronomia e cucina

A rappresentare la ricchezza regionale, che alla produzione ittica coniuga un nutrito paniere di specialità di terra, anche tonno lavorato e al naturale, e una grande varietà di sott’oli, in bella mostra sugli scaffali a parete: i funghi del Parco Nazionale delle Serre Calabre, le melanzane, la cipolla rossa di Tropea, i celeberrimi peperoncini.

E poi olio extravergine e pasta artigianale, riso di Sibari e prodotti derivati dalla lavorazione di liquirizia e caffè. In abbinamento, per chi sceglie di fermarsi a pranzo o arriva da Forte per cena, birre artigianali e vini calabresi, con una selezione delle migliori etichette regionali.

E la cucina si allinea alla volontà di rappresentare al meglio la Calabria a tavola, con una carta di specialità – dal cartoccio dei fritti calabresi ai taglieri misti, con capocollo, ‘nduja forte, soppressata piccante e dolce, pancetta arrotolata, caprini e formaggi stagionati, da accompagnare con sott’oli per l’aperitivo calabrese, 11 euro a persona – e i piatti del giorno, in base alla disponibilità del mercato e alla stagionalità. Pochi i coperti, una ventina appena. In più, un servizio di prenotazione e consegna online. Perché la tradizione conta, ma saperla comunicare è metà della sfida.

Forte | Roma | via Giuseppe Marcotti, 20 | tel. 06 69321414 | Tutti i giorni, dalle 10 a mezzanotte (la domenica dalle 16)

 

a cura di Livia Montagnoli

Progetto Veg. Storia di Dario Beluffi e della sua pasticceria vegana

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Milanese doc, classe '93, Dario Beluffi è un giovane appassionato di pasticceria, studioso della chimica degli alimenti e sostenitore della dieta vegana. A breve, il suo primo libro Progetto Veg, una raccolta di ricette creative, e tanti altri progetti. Tutta la storia.

Il pasticcere

24 anni, diverse esperienze significative alle spalle, un futuro ricco di sogni e progetti ambiziosi, e un presente frenetico, con un'agenda fitta di appuntamenti, impegni, programmi. 100 chilogrammi, il suo peso fino a 4 anni fa. 60, le ricette di pasticceria vegana che hanno cambiato il suo stile di vita, migliorandone l'ambito personale e professionale. Dario Beluffi è un pasticcere sui generis, ma prima ancora un grande studioso, un appassionato di cibo, cucina, alimentazione, che proprio nella tavola ha trovato la forza di voltare pagina e ricominciare. Perdendo peso grazie a una dieta sana, basata sui giusti abbinamenti e su piatti bilanciati fatti con prodotti di qualità. Dopo qualche tempo e tanti chili in meno, la scelta di diventare vegano, e il lavoro presso diversi alberghi di Milano e dintorni. “Un giorno mi sono reso conto che quel lavoro contrastava troppo con la mia scelta, perché mi ritrovavo a maneggiare quotidianamente panna, burro, uova, latte”. Prodotti da sempre presenti nella vita di Dario, che già nel 2008 gestiva un bar/pasticceria/gelateria insieme al fratello Matteo, attuale campione italiano di Latte Art (disciplina di decorazione dei cappuccini), ed esperto barista. Oggi, i due fratelli hanno preso strade diverse, “con l'intento di aprire il prima possibile un nostro locale”, continuando a studiare e migliorarsi. E mentre Matteo si destreggia fra i suoi cappuccini decorati ad hoc, Dario si prepara a pubblicare il suo primo libro di ricette.

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Il libro

Si chiama Progetto Veg, ed è una raccolta di 60 ricette di pasticceria vegana pensate per proporre un'alternativa intelligente alle preparazioni classiche. “La mia base di partenza sono sempre i dolci della tradizione. Penso a una frolla, una crema pasticcera, e cerco di produrla scomponendo i vari elementi”. Come? “Per esempio, l'albume è un composto schiumogeno, e per questo può essere sostituito dall'acqua di ceci. Il tuorlo? Si compone di una parte proteica, una grassa e una acquosa. Per le proteine, utilizzo la farina di ceci, per il grasso mi affido al latte di soia, che mi restituisce anche la funzione emulsionante del tuorlo, e così via fino a ottenere un prodotto con le stesse proprietà”. Parte fondamentale delle sue ricette, poi, sono le alghe, “che ho scoperto grazie al lavoro delle aziende Solazyme (che ha prodotto il primo biodiesel a base di alghe) e TerraVia, che utilizza i grassi puri derivati dalla fermentazione delle alghe”. Due linee principali: AlgaVia, “che commercializza prodotti in polvere”, e AlgaWise, “che gestisce invece gli oli e i grassi solidi”. Ma nel libro, che uscirà il prossimo 21 ottobre nelle librerie Feltrinelli, Dario utilizza molti altri ingredienti, più facilmente reperibili. E, soprattutto, offre una visione ampia e flessibile della dieta vegana al tempo d'oggi.

Cosa significa essere un pasticcere vegano?

Sono, innanzitutto, un pasticcere. Ho scelto di optare per la dieta vegana per motivi di salute, e ne sono molto felice, perché ho molte più energie, dormo meno ma meglio, e riesco a lavorare in maniera più efficace. Nasco, però, come pasticcere classico, ed è alle preparazioni tradizionali che mi ispiro ogni volta per le mie ricette.

Come utilizzi le alghe nelle tue ricette?

AlgaVia offre tre tipologie di prodotti: due alghe grasse (una gialla e una rossa), e un'altra con un livello proteico molto elevato dovuto ai tempi ristretti di fermentazione. Quest'ultima, per esempio, può essere un buon sostituto del latte, mentre le altre due le impiego solitamente per la preparazione delle creme.

Quali vantaggi hanno a livello nutrizionale?

Sicuramente la diminuzione di grassi. Un grammo di alghe corrisponde a circa 4 grammi di qualsiasi altro grasso, vegetale o animale, per cui se ne può usare di meno ottenendo comunque la stessa sensazione palatale. Attualmente, sto lavorando con il body builder Massimo Brunaccioni per approfondire l'argomento e creare una linea di dolci pensata per gli sportivi.

Cosa troveremo in Progetto Veg?

60 ricette di torte da forno, 56 dolci e 4 salate.

Libro a parte, che lavoro fai oggi?

Sono un pasticcere, pur non avendo un mio locale. Seguo il progetto Vegan Squad, una pagina Facebook nata per idea del mio socio Federico Clapis, con cui abbiamo deciso di promuovere delle ricette alternative a quella della pasticceria classica attraverso i social.

Cosa posti sulla pagina?

Tanti video, consigli, ricette. Io mi occupo della parte della produzione e del montaggio, oltre che della ricerca degli sponsor, mentre Federico cura le public relation.

Sul fronte dolciario, cosa offre oggi l'Italia ai vegani?

Molto poco. Il mio desiderio di realizzare dolci vegan è nato proprio dalla carenza del mercato. La maggior parte dei grandi pasticceri non si dedica a questo tema, nonostante la continua richiesta. Chi sceglie di farlo, invece, spesso dimentica le proprie radici, ovvero la pasticceria classica, e stravolge completamente il concetto di dolce.

Qualche pasticcere vegano da seguire?

Stefano Broccoli della Funny Veg Academy, scuola di cucina vegana con cui ho avuto il piacere di collaborare più volte.

Progetti per il futuro?

Tantissimi. Sto trattando con RadioVeg.it la possibilità di iniziare una rubrica settimanale in cui spiegare le varie ricette che pubblichiamo su Vegan Squad. E poi mi piacerebbe aprire un locale a Milano insieme a mio fratello.

Come farete con i cappuccini?

Con Matteo stiamo sperimentando da diverso tempo dei modi per realizzare cappuccini con bevande vegetali. In effetti, mi piacerebbe un giorno poter creare anche un prodotto professionale pensato per i baristi che vogliono proporre cappuccini vegani di qualità senza rinunciare al lato estetico.

Pensi di scrivere altri libri?

Sì, la mia idea è quella di pubblicare una serie di 5/6 volumi, ognuno dedicato a una macro-area della pasticceria: torte da forno, mousse, frolle...

Pensi mai di iniziare a distribuire i tuoi prodotti?

Per il momento non credo che sia questa la mia strada. Mi piacerebbe però mettere in distribuzione un gelato, già collaudato, a marchio Vegan Squad.

Progetto Veg, Dario Beluffi | ed. Taita Press | Euro 16,50

a cura di Michela Becchi

La merenda dei bambini nelle scuole. I consigli dei nutrizionisti e degli chef

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Mai come nel 2017 il tema della merenda nelle scuole e delle mense scolastiche ha infiammato genitori e operatori scolastici, che continuano a battersi per dirimere l'annosa gestione del servizio di ristorazione. Cosa ne pensano chef e nutrizionisti?

Diritto al panino

Diritto al panino sì o no? Era il 21 luglio 2017 quando, un anno dopo la sentenza della Corte d'Appello di Torino che consentiva ai genitori di rinunciare alla mensa scolastica provvedendo loro stessi ai pasti dei bambini, si riaccendeva la polemica circa l'alimentazione dei più piccoli nelle scuole. Prima ancora, alla fine di maggio, il Governo, con il ministro Martina, presentava un emendamento alla manovra economica per sostenere la certificazione delle mense scolastiche che servono prodotti biologici, prevedendo al contempo un fondo che riducesse la spesa a carico delle famiglie. Sempre la scorsa estate, al vaglio del Senato c'è stato il Ddl 2037, passato poi in mano alle Commissioni Agricoltura e Istruzione e approdato, infine, in Aula, con un iter lungo che non ha mancato di creare dispute fra genitori e istituti. Il passaggio discusso è contenuto nell’articolo 5, nel punto in cui il testo si sofferma sul ruolo educativo della mensa: “I servizi di ristorazione scolastica sono parte integrante delle attività formative ed educative erogate dalle istituzioni scolastiche". Questo li renderebbe obbligatori? Tra i genitori più agguerriti qualcuno teme che lo Stato cerchi solo un nuovo modo per fare cassa, per questo minaccia di rinunciare al tempo pieno per i bambini così che possano tornare a casa per pranzo. A presentare la legge, la senatrice PD Angelica Saggese, che ha specificato che il Ddl è indirizzato “ad aumentare il livello del servizio, migliorando ciò che si mangia”.

L'esempio di Brescia

Un problema che ritorna ogni anno, quello delle mense scolastiche. Esattamente due anni fa, per esempio, la Asl di Brescia dava il via libera alla possibilità di portare i piatti della mamma a scuola, andando incontro alla proposta avanzata in Regione dal Movimento Cinque Stelle: cibo da casa, pret à porter, piatti freddi o un buon pezzo di formaggio per scongiurare il rischio digiuno, specie davanti ai menu poco accattivanti serviti in mensa. Una soluzione pensata per assicurare ai più piccoli una dieta sana, ma anche per evitare lo spreco di cibo che si verifica quotidianamente anche nelle scuole (basti pensare alla quantità di pasti che finiscono intonsi nella pattumiera quando la proposta del giorno prevede cuori di merluzzo surgelati o filetti di platessa di bassa qualità e dubbia provenienza).

La classifica delle mense scolastiche

Sempre nel 2015, la rivolta dei genitori ha portato alla creazione di una Rete nazionale delle commissioni mensa, per riunire le voci di genitori volontari che durante l'anno assaggiano il cibo consumato dai propri figli a scuola. Nella primavera del 2016, visto il consenso riscontrato presso le amministrazioni di molte città, la rete si è dotata degli strumenti necessari per far sentire la propria voce, pagina Facebook compresa, stilando un rating ufficiale dei menu scolastici, che fa affidamento sull'esperienza di mamme e papà per decretare le migliori mense d'Italia. La classifica registrava una vittoria schiacciante del Nord sul Sud, con Jesi, Trento e Bologna sul podio, la Capitale solo all'undicesimo posto, e Chieti in ultima posizione, anche se il primato per la maggior quantità di fritti surgelati spetta a Palermo. Cosa ha fatto guadagnare alla città marchigiana la medaglia d'oro? La scelta di prodotti biologici, la varietà di cereali, la frutta a merenda, e l'utilizzo di pesci e piatti locali.

Il parere dei nutrizionisti

Tutti i genitori sembrano essere concordi: diritto al panino, sì. Ma qual è il pasto in grado di garantire ai più piccoli il giusto apporto nutrizionale? Come sempre, la risposta cambia da bambino a bambino, a seconda delle esigenze alimentari di ognuno, di eventuali allergie, intolleranze o altri disturbi. Nella maggior parte dei casi, occorre sapere in cosa consisterà la cena, “in modo da bilanciare la dieta giornaliera, andando a soddisfare tutti i macro-nutrienti necessari, ovvero carboidrati, proteine e grassi”, spiega la nutrizionista Tiziana Stallone. “Se in famiglia si è soliti mangiare la pasta a cena, sarà meglio optare per un secondo di carne o di pesce abbinato a un contorno e un pezzo di pane, condito con olio extravergine di oliva. Al contrario, se si è soliti consumare carboidrati complessi a pranzo, si può pensare a un piatto di pasta con tonno o con i legumi, oppure del semplice riso con il parmigiano”.

E nel caso del tonno, meglio scegliere quello in olio d'oliva, che è un conservante naturale, aggiunge il professore Fausto Aufieri di Vis Sanatrix Naturae, centro di bioterapia nutrizionale di Roma, “perché nel liquido dei vasetti di tonno al naturale sono presenti sostanze conservanti non idonee a una dieta sana. Basti pensare all'odore sgradevole che si percepisce non appena si apre il barattolo”. Olio d'oliva sì, dunque, ma di qualità, “consiglio sempre di sgocciolare il tonno e sostituire l'olio presente nel vasetto con un extravergine buono”. Per la carne, invece, via libera a polpette fritte, “sempre in olio di qualità”, arrosti, “meglio se di tacchino per le bambine, e di manzo per i maschi”, abbinate alle verdure, “magari le carote crude, che solitamente sono molto gradite dai più piccoli, oppure i finocchi, e anche le olive, che apportano acidi grassi vegetali ottimi in fase di crescita”. Come alternativa proteica alla carne: la frittata, ma quante uova consumare a settimana? “Per i maschi non ci sono limiti predefiniti, mentre per le ragazze consiglio un massimo di due o tre volte la settimana”. Evitare, però, l'uovo sodo “perché, cuocendo troppo, i grassi dell'uovo – preziosi per l'organismo – diventano saturi e in parte inutilizzabili, finendo per appesantire il fegato”.

La sensibilità gustativa

Prima di continuare a dispensare preziosi consigli, entrambi i nutrizionisti ci tengono a fare una premessa: l'età infantile è una fase critica per la dieta, perché in grado di plasmare il gusto. “I bambini hanno una sensibilità gustativa particolare per determinati sapori”, spiega Tiziana. “Sono quei gusti che procurano piacere all'uomo, come lo zucchero, il sale, il grasso. Questi elementi risultano molto più appetibili a un bambino che a un adulto, e per questo occorre tenere sotto controllo il loro apporto quotidiano in fase infantile”. Evitando di viziare il gusto futuro, “e riportando le preferenze dei più piccoli alla semplicità delle materie prime naturali”. Come? “Limitando, per esempio, il consumo degli yogurt alla frutta, spesso addizionati di praline al cioccolato, cereali dolci e altri ingredienti zuccherini, ed evitando anche troppi panini con affettati e formaggi, ricchi di sale e di grassi”. Da contenere, poi, anche l'uso di biscotti industriali e, naturalmente, degli altri snack da scaffale, dalle merendine ai salatini. Oltre al dolce e il salato, i bambini hanno anche una preferenza innata per il fritto, “per il quale nutrono un'appetenza spontanea, sfruttata dai grandi marchi dell'industria alimentare che propongono patatine e simili”, aggiunge Aufiero.

La merenda salata

Ogni bambino a scuola deve consumare uno spuntino a metà mattina. E se le merendine sono abolite, quale può essere la soluzione migliore? “L'ideale sarebbero le merende di una volta come la panzanella, ma anche il classico pane e olio”, abbinamento perfetto per la dieta di tutti, grandi e piccini, di cui avevamo già parlato insieme a Tiziana. Aufiero, invece, consiglia dei grissini avvolti con una fetta di prosciutto crudo o bresaola, “purché di buona qualità”. Sì ai salumi, dunque, ma solo se selezionati con cura, come specifica Tiziana, “perché la maggior parte di quelli in commercio sono prodotti con conservanti particolari, come i nitriti, e presentano un contenuto eccessivo di sale”. Come sempre, quindi, attenzione massima alla provenienza dei prodotti e alla lista degli ingredienti. Altro suggerimento del dottor Aufiero è di preparare dei crostini fritti a base di pane bagnato nell'uovo, “ottimi perché hanno le proteine dell'uovo necessarie per lo sviluppo, e perché in grado di apportare il giusto livello energetico per affrontare la giornata”. Nessun veto assoluto sulla frittura, “da consumare sempre in maniera moderata”; piuttostosullo zucchero, altro tema caldo in età infantile che avevamo già affrontato con Aufiero: “Il vero danno proviene dalle soluzioni a elevato indice glicemico come i succhi di frutta commerciali e i vari snack”.

… E quella dolce

I dolci, comunque, non vanno aboliti, ma scelti con consapevolezza. “Se non c'è eredità diabetica nel bambino, il classico ciambellone fatto in casa può rappresentare un'ottima soluzione per la merenda”. E da bere? “Acqua e limone leggermente zuccherata, magari con un po' di miele, oppure le tisane o il karkadè, che solitamente piace molto ai più piccoli”. Da non dimenticare, poi, la prima colazione: “Molti bambini sono inappetenti al mattino, ma spesso siamo noi adulti a insistere troppo con colazioni abbondanti. Se il bambino non ce la fa a consumare un pasto sostanzioso, andrebbe bene anche solo un trito di frutta secca abbinato a una bevanda, e magari qualche oliva”. La frutta gioca un ruolo fondamentale, ma non da protagonista: “Non c'è niente di più sbagliato che una merenda a base di sola frutta, che alza l'indice glicemico e spesso non sazia il bambino”. Altre soluzioni dolci? “Pane e miele, pane e marmellata, anche con uno strato di burro”, dice Tiziana, “adatto soprattutto per i bambini che fanno sport grazie ai suoi acidi grassi a catena corta, come l'acido butirrico”. Per la frutta, si consigliano frullati, centrifughe e spremute, “per accompagnare il pasto”, anche abbinati a uno yogurt. Attenzione, però, agli yogurt con frutta all'interno, “solitamente privi di grasso e più ricchi di zucchero, elementi che portano al famoso picco glicemico”. E il cioccolato? “Va benissimo, meglio se fondente o al latte con basso contenuto di zuccheri”.

Le ricette

Focaccia di Enkir di Gabriele Bonci

1 kg. di farina di Enkir
200 g. di lievito di Enkir o lievito madre, o 7 g. di lievito secco
70 g. di zucchero di canna
800 g. di acqua
20 g. di sale
100 g. di olio extravergine di oliva
Impastare farina, acqua e lievito e successivamente aggiungere olio e sale.Mettere l’impasto in uno stampo. Lasciar lievitare per 18 ore a una temperatura di 4°C. Togliere lo stampo dal frigo e lasciar lievitare per altre 4 ore. Infornare ad una temperatura di 220°C per circa 30 minuti.
 
Ciabatta di kamut ricotta e visciole di Max Mariola

 

a cura di Michela Becchi

 

Cocktail bar a Londra. 6 nuovi indirizzi da provare in autunno

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Dai cocktail a base di rum a quelli ispirati ai racconti dello scrittore Samuel Pepys, Londra si conferma ancora una volta capitale indiscussa del bere miscelato, con 5 nuove insegne inaugurate nel mese di settembre.

Ci sono gli speakeasy e i cocktail bar di lussuosi alberghi, i club e i locali storici in quella che da anni ormai continua a essere capitale europea e mondiale del bere miscelato di qualità. Lo conferma la classifica World's 50 Best Bars, che la settimana scorsa ha incoronato l'American Bar del Savoy come bar numero uno al mondo, segnalando altre 6 insegne londinesi fra le prime 50 posizioni. Perché in autunno c'è l'attesa per gli stellati, i forchettati, i cappellati e tutti i protagonisti del panorama della ristorazione nazionale e mondiale, ma l'offerta gastronomica di qualità sempre più spesso passa anche attraverso i bar, dove è accompagnata da cocktail e signature drink d'autore. Continua, quindi, l'interesse del pubblico per la cultura del buon bere, un ambito sempre più in voga fra appassionati del genere e giovani imprenditori, che scelgono di puntare proprio sulla mixology per lanciarsi nel settore della ristorazione.

Soho: quando la sala d'attesa si trasforma in bar

Così, questo autunno 6 nuove insegne si vanno ad aggiungere alla (lunga) lista dei cocktail bar sparsi per le varie zone della capitale britannica. Quartieri diversi ma stessa cura del dettaglio nell'offerta e nel design impeccabile, per un panorama in costante fermento che sembra destinato a svilupparsi ancora. Si comincia da Soho, quartiere dello shopping e della vita notturna, un universo in continuo movimento poliedrico e sfaccettato. Qui, in Frith Street, a pochi passi da Covent Garden, nasce un locale insolito ed eclettico, come la zona che lo ospita. Blade Hair Clubbing è uno spazio che coniuga il salone dei parrucchieri con il bancone dei bar, creando un luogo unico dedicato alla socialità. Al Blade, infatti, ci si va per cambiare taglio, ma anche per assaggiare i drink sapientemente miscelati dal team tutto giovanile, che si destreggia fra distillati di pregio e materie prime di qualità. Una sala d'attesa innovativa, pensata per intrattenere i clienti che attendono il loro turno o i tempi di posa del colore, distribuita su due piani. Al livello superiore, il reparto caffetteria, con espressi e caffè filtro, ma anche succhi di frutta, centrifughe ed estratti. Per i più esigenti, il locale mette a disposizione anche degli iPad con accesso a internet e Netflix illimitato.

East London: Cucina sperimentale e drink d'autore

Nel frattempo a Hoxton, nell'East London, appena fuori il borough di Hackney, inaugura il nuovo format di Mr Lyan, al secolo Ryan Chetiyawardana, pluripremiato bartender di fama internazionale e fulgido esempio di imprenditoria giovanile con diversi locali all'attivo (a lui si deve la creazione del Dandelyan del Mondrian, tanto per citarne uno). Ultima creatura di Lyan, Cub si avvale anche di una cucina sperimentale di livello, grazie alla collaborazione con lo chef Doug McMaster, ex Noma, ex St. John, e attuale proprietario del ristorante Silo di Brighton, locale concepito per ridurre al massimo lo spreco di cibo, e impegnato nel riciclo e nel riutilizzo di tutte le eccedenze. L'obiettivo? “Allargare i nostri orizzonti”, spiega Mr Lyan, che nel nuovo cocktail bar unisce i suoi drink d'eccezione ai piatti creativi dello chef, ancora una volta studiati in chiave sostenibile. Con un menu che cambia di continuo, assecondando il ritmo delle stagioni, e un fuori menu di snacks e piatti take away.

Da Hackney a Spitalfields: con i piatti della tradizione

Ancora ad Hackney, al nord-est della città, area famosa per i club, i pub e la movida notturna, Wringer & Mangleda due anni è uno dei punti di ritrovo per i buongustai della zona, grazie ai suoi cocktail ricercati e le specialità a portar via. Dato il successo repentino, l'insegna ha deciso di raddoppiare con un nuovo punto in Spitalfields, al lato opposto della stazione metropolitana di Liverpool Street, nel cuore dell'East London, con un'offerta gastronomica di livello pensata per accompagnare i drink. Un locale polifunzionale di due piani, con proposte versatili studiate per rispondere alle varie esigenze della clientela, dalla colazione al dopocena. In cucina, il food director Paul Gayler, chef dell'hotel di lusso The Lanesborough, PeterTomkinson nel ruolo di capo cuoco, e lo chef Stuart Skues. Insieme, i tre hanno creato un menu basato sulla cucina casalinga di qualità, che reinterpreta i piatti della tradizione con un'attenzione particolare ai prodotti locali e di stagione. Piatti semplici e gustosi, dai panini alle insalate ricche, dai rustici ai dolci classici, oltre alle colazioni, i brunch e le roast dinner della domenica. Ad accompagnare l'offerta, cocktail, birre artigianali e vini di livello.

Tower Hill: il locale ispirato ai racconti di Pepys

Fra gli imprenditori più giovani, c'è poi chi prende spunto dalla letteratura per creare un locale sui generis. Leggendo Il Diario di Samuel Pepys, scrittore e politico inglese del Seicento, è impossibile non rimanere incantati di fronte ai racconti di cene sontuose e bevute smisurate nelle taverne inglesi di una volta. Ispirandosi all'indole edonistica dell'autore, il nuovo The Lampery, nei pressi di Tower Hill, propone un menu dedicato interamente ai piatti consumati da Pepys in persona, a cominciare dalla celebre guancia di manzo cotta a bassa temperatura con prugne. Qui, naturalmente, non possono mancare vini internazionali, birre, sidri, ales, e cocktail, all'insegna del gusto e dei piaceri della tavola.

Lambeth: cucina messicana e vini naturali

Chi apre i battenti per la prima volta e chi sceglie di fare il bis, proponendo il suo format di successo in un'altra zona della città. È il caso del Cotton's Rhum Shack, da 30 anni un punto di riferimento per la cucina caraibica a Londra, nella zona di Shoreditch. Cucina classica, senza fronzoli, accompagnata dal Rhum Jungle bar, spazio dedicato a una selezione ampia e variegata di rum di ogni tipo, con oltre 150 etichette da tutto il mondo. Con uno staff giovanile e un menu fresco e moderno, il Cotton's raddoppia l'offerta con una nuova sede a Vauxhall, che porta a Lambeth, nel sud della città, il gusto della tradizione caraibica da bere e da mangiare.

E intanto, ancora nel borgo di Lambeth, a Brixton riapre il Salon, ristorante informale diventato celebre nel tempo per i suoi brunch d'autore, recentemente ristrutturato e completamente rivoluzionato negli arredi e nell'offerta. Cucina a parte, infatti, il locale si avvale ora di un nuovo cocktail bar situato al pian terreno, con enoteca annessa. Birre artigianali, vini da tutto il mondo con un occhio di riguardo per le etichette biologiche, biodinamiche e naturali, e poi distillati, da acquistare o gustare in loco nei cocktail preparati dai bartender.

a cura di Michela Becchi

Blade Hair Clubbing | Londra | Frith Street, 26 | www.bladesoho.co.uk/

Cottons | Londra | St George's Wharf | cottons-restaurant.co.uk/

Cub | Londra | Hoxton Street, 155 | www.lyancub.com/

Salon | Londra | Market Row, 18 | salonbrixton.co.uk/

The Lampery | Londra | Seething Lane, 1 | thelampery.com/

Wringer & Mangle | Londra | Middlesex Street, 94 | www.wringerandmangle.com/locations/spitalfields/

BioSfera. Una tesi di laurea progetta uno snack a base di insetti

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A poche settimane dal via libera definitivo ai cibi ottenuti da insetti e altri novel food, il mondo accademico continua a studiare come inserire questi prodotti nell'alimentazione. Uno snack a base di insetti è il progetto di una tesi di laurea in Critical Food Design.

Piaccia o no, gli insetti (e con loro altri novel food) rappresentano un patrimonio alimentare. Tanto che il primo gennaio 2018 ci sarà il definito via libera, in Italia, a cibi ottenuti da grilli, cavallette e camole della farina, mentre la vicina Svizzera ha rotto gli indugi il 21 agosto 2017. Per quanto possa sembrare un'ipotesi lontana dalla nostra cultura, il processo di introduzione di questi cibi è ormai avviato. Basti pensare che una casa editrice di rango, come la Phaidon, ha recentemente pubblicato un bellissimo volume sull'argomento, dal titolo On eating insect firmato da Roberto Flore, Michael Bom Frøs e Josh Evans (del Nordc Food Lab di Copenaghen), e il Parlamento Europeo un paio di anni fa ha ospitato un workshop dimostrativo sugli sviluppi che sta raggiungendo la ricerca in tal senso, con tanto di degustazione. A tenerlo Roberto Flore con il messicano Santiago Lastra e la canadese Afton Halloran (coautrice della pubblicazione della Fao “Edible Insect). 

 

Pubblichiamo un estratto di “BioSfera, insetti commestibili per un futuro sostenibile” tesi di laurea di Daniela Curion (Relatore Lorenzo Imbesi, Correlatrice Sonia Massari.) in Critical Food Design, materia che approfondisce il critical design applicato allo studio dell'interazione tra cibo e utenti. Una disciplina della Facoltà di Architettura, dipartimento di Design Industriale, Università La Sapienza di Roma.

Per la tesi è stato progettato uno snack proteico a base di insetti. Progetto sostenuto, nel suo sviluppo, da diverse discipline: ingegneria degli alimenti, chimica, marketing, packaging. Materie diverse impiegate per sviluppare il prodotto in ogni sua parte, dai processi produttivi alla confezione finale.

 

Tesi: BioSfera, insetti commestibili per un futuro sostenibile

Come auspicato dalla FAO (Food and Agriculture Organization) e dimostrato da numerose ricerche in campo accademico, l’entomofagia potrebbe essere una risposta alla richiesta di cibo causata dallo squilibrio, sempre più in aumento nel mondo, tra crescita demografica e disponibilità di risorse. Sostituire le proteine animali, la cui produzione attualmente contribuisce a circa un terzo dell’inquinamento globale, con alimenti proteici più “efficienti” e rispettosi dell’ambiente è una sfida chiave del nostro tempo, per cui ingegneri, biologi, chimici, designers e ricercatori stanno cercando una soluzione a livello internazionale. Le campagne pubblicitarie e le apparizioni televisive dei fratelli Bozzoatra o le proposte educative di Andrea Mascaretti e della fondazione Umanitaria intervenuti durante l’Expo di Milano, hanno saputo porre nuova attenzione sull’utilizzo degli insetti come alimento e lanciare un imput per analizzarne le criticità.

insetti

Il lavoro delle Università

La strada per aprire le porte all’entomofagia passa per un sostanziale lavoro di ricerca e innovazione, anche all’interno del mondo dell’università, che avvicini gli utenti ad aprirsi alla conoscenza degli insetti. Già nel 2015 la designer Giulia Tacchini ha sviluppato al Politecnico di Milano dei biscotti a base di farina di grillo da distribuire alle popolazione affette da malnutrizione. Anche la facoltà di agraria dell’università di Palermo ha recentemente aperto le porte alla degustazione di grilli e camole della farina abbinati a prodotti locali che ne esaltavano il gusto. Nella facoltà di design della Sapienza grazie alla collaborazione con Lorenzo Imbesi e Sonia Massari, ho lavorato anch’io per sviluppare uno snack a base di insetti.

Nel mondo occidentale mangiare insetti è considerato come un ultimo piano di sopravvivenza. Questa pratica è associata alla trasmissione di sporcizia e malattie o all'alimentazione di popolazioni sottosviluppate. Eppure l’entomofagia sarebbe la scelta più auspicabile perché è la più coerente con la storia della nostra specie, perché oltre due miliardi di persone consumano regolarmente le circa 1900 famiglie di insetti commestibili censite dalla FAO, perché rappresentano nel mondo la specie animale più diffusa e più facilmente adattabile ai cambiamenti climatici, e perché la produzione di insetti a scopo alimentare, a parità di nutrienti, risulta estremamente più conveniente sotto il profilo dell’impatto ambientale rispetto alla maggior parte degli animali allevati a livello intensivo.

Ritengo che lo sviluppo sostenibile debba essere la risposta unanime a questioni come la malnutrizione, lo sviluppo economico incontrollato, lo sfruttamento irresponsabile dei beni primari, ed è questo il motivo che mi ha spinto ad approcciarmi all’entomofagia. La sostenibilità nel settore del design apre le porte a discussioni feconde e trasversali, in cui i campi di interrelazione tra le diverse discipline sono lo strumento di lettura più suggestivo per l’analisi della realtà e dei suoi cambiamenti. Ed è questo che ho cercato di fare, partendo dall’assunto che la soluzione da me proposta non fosse per forza la meta, ma anche solo un punto di partenza per una presa di coscienza e per un atto di responsabilità per il prossimo futuro.

 

Il vantaggio del Critical Design

Il metodo del Critical Design che ho applicato nel corso della mia ricerca, mi ha dato la possibilità di confrontarmi con i mondi della nutrizione, dell’estetica, della filosofia, dell’ecologia, della sociologia e dell’agricoltura, intesi sia in un quadro locale che internazionale, con un approccio critico e interdisciplinare che mi ha permesso di raccogliere il più ampio spettro di input che fosse possibile intrecciare dai diversi settori.

Quindi mi sono concentrata sullo studio dell'impatto ambientale delle scelte alimentari e sulle possibili conseguenze dell’uso delle nuove tecnologie e delle nuove politiche, nonché delle tendenze sociali e ambientali a livello planetario, per poi sviluppare - come nuovo obiettivo e area di interesse - una soluzione versatile e al contempo provocatoria.

Il processo di Critical Design, sfruttando un modello di esame e critica poliedrico e dinamico, porta agli utenti degli spunti di riflessione la cui utilità consiste nel tentativo di instillare la capacità di prevenire conseguenze deleterie e dirigere i risultati futuri. L’insetto trattato diventa così un veicolo per comunicare contenuti ecosostenibili, e la natura provocatoria dello snack, sfruttando il disgusto momentaneo, innesca una riflessione sull’impatto ambientale delle nostre scelte alimentari.

 

BioSfera, lo snack con l'insetto

Lo snack che ho sviluppato è BioSfera, una sfera malleabile e trasparente, prodotta attraverso la tecnica della sferificazione congelata, al cui interno è incapsulato l’insetto. Le sfere, composte di una soluzione alcalina, sono solidificate per congelamento e successivamente immerse in una soluzione a base di alginato di sodio che serve a creare uno strato che mantenga la forma sferica dopo lo scongelamento. Questo metodo usato oggi nell’alta cucina, potrebbe essere messo a servizio dell’industria alimentare per sviluppare altre varianti a cui ho accennato nel mio progetto. Ho scelto di utilizzare insetti piccoli come grilli, larve di coleottero e camole della farina poiché sono specie che vivono bene nel nostro ecosistema.

sfere

Il fluido in cui sono immersi gli insetti è composto da limone, acqua e miele. Il principale ostacolo da sormontare per diffondere l’entomofagia in occidente era e resta il disgusto, risultato del processo evolutivo che ci spinge ad attivare un meccanismo di difesa quando non conosciamo l’elemento con cui ci confrontiamo. La scelta di usare proprio il miele, un prodotto degli insetti, è dovuta non solo all’impatto visivo e gustativo che volevo ottenere, ma anche alla possibilità di suscitare negli utenti una riflessione sul senso del disgusto. Se un alimento che viene da insetti a cui siamo abituati è ritenuto innocuo, siamo spinti ad accogliere l’idea che possano esserlo anch’essi.

Anche la forma non è stata un caso: dalle persone intervistate ho dedotto che il contatto diretto con un singolo insetto sortiva un effetto meno negativo di quello che pensavano avrebbero riscontrato. Il miglior modo per presentare gli insetti ai consumatori, secondo i risultati della mia ricerca, è uno spuntino monoporzione, che dia la possibilità di entrare in contatto solo con la configurazione più “attraente” dell'insetto. Ogni porzione contiene esattamente 5 ml di prodotto così da poter essere mangiata in un sol boccone.

BioSfera

Il packagging

Essendo la comunicazione essenziale per la promozione dell’entomofagia, ho progettato anche nel packaging una soluzione che ne trasmettesse la sostenibilità e l’alto valore nutrizionale. La confezione, composta da un blister di tre dosi e una scatola di carta riciclata, racconta - oltre alle informazioni nutritive - anche l’impatto ambientale e il risparmio di risorse che mangiare insetti comporterebbe. Concettualmente la forma del blister è comunemente associata all’industria del farmaco, e quindi all’idea che il suo contenuto sia una potenziale cura. In chiave provocatoria BioSfera è assimilato a una cura per la disattenzione con cui esercitiamo le nostre scelte alimentari.

biosfera

Cosa dice la legge

Molti paesi europei, sotto il controllo delle autorità sanitarie nazionali competenti, stanno investendo nel campo degli insetti commestibili, dando il via libera ad aziende che producono pasta con farina di grilli o altre che scelgono invece la forma di snack al cioccolato per incontrare il mercato dei prodotti “gluten free” e dei prodotti per sportivi. Il regolamento della Commissione Ue (2017/893 del 24 maggio) stabilisce che dal primo luglio allevare insetti non è più un reato neanche in Italia e a partire dal prossimo anno potranno rientrare nell'alimentazione degli animali sotto forma di farine proteiche. Questa scelta ha dato nuova vita al settore agroalimentare che plausibilmente riceverà benefici dagli investimenti in questo campo. I fratelli Bozzoatra, pionieri dell’allevamento di insetti a uso alimentare, prospettano per il prossimo anno un incremento del fatturato del 20%.

Ad oggi BioSfera non può essere commercializzato in Italia poiché manca una legislazione che regolamenti al livello nazionale questo novel food. Per il via libera definitivo ai prodotti proteici ottenuti con questi insetti bisognerà attendere fino al primo gennaio del 2018, data in cui entrerà in vigore anche il regolamento comunitario 2015/2283 che si occupa di definire i “novel food”, gli alimenti non convenzionali che potranno finire nel piatto dei cittadini europei. Molto più di quanto abbia fatto io, si potrà fare attraverso il design e il marketing per migliorare l’appetibilità di questo alimento nel futuro, l’auspicio è che la sperimentazione e la ricerca sul campo dissipino i dubbi che ancora avvolgono il tema dell’entomofagia, come le perplessità su quale sia il modo giusto per allevare gli insetti senza impattare sull’equilibrio della biodiversità. Sono già alcune migliaia siti e blog che hanno dato rilevanza a questo nuovo cibo e che invitano all’allevamento domestico per mettere alla prova i propri gusti, finché non sarà possibile farlo comodamente seduti al ristorante.

 

a cura di Daniela Curion

Estratto della tesi in Critical Food Design. Facoltà di Architettura, dipartimento di Design Industriale

 

Terremoto nella ristorazione di Singapore. Andre Chiang chiude, rinuncia alle stelle e si ritira a Taiwan

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Lo chef simbolo dell'ambizione gastronomica di Singapore, tra i più apprezzati nel mondo dell'alta ristorazione, annuncia la chiusura definitiva di André, a febbraio 2018. Continuerà a lavorare a Taiwan, lontano dai riflettori. Ma prima rinuncia alle stelle: “Sono un perfezionista, ed è già perfetto così”.  

André. Un ristorante di successo

Andre Chiang, classe 1976, al successo internazionale non è arrivato in giovane età: ha lavorato sodo, negli ultimi 30 anni, per raggiungerlo. Oggi, e da qualche anno a questa parte, è annoverato tra i talenti più limpidi dell'alta cucina orientale (ma di impostazione francese), traino di quel movimento di riscoperta gastronomica del Sud Est Asiatico che in Singapore ha trovato una sponda particolarmente prolifica. E il suo ristorante, André, non solo è la meta gastronomica più ambita della città-stato. Nel 2016, quando la guida Michelin lanciava la prima edizione dedicata alla ristorazione di Singapore, l'insegna di Chiang esordiva con Due Stelle, riconoscimento che detiene tuttora. Secondo nella lista 2017 dei 50 migliori ristoranti del continente asiatico, Andre ha ottenuto un ottimo piazzamento pure nell'ultima edizione della World's 50 Best Restaurants, dove pur in competizione con ristoranti pluripremiati di tutto il mondo, svetta in quattordicesima posizione. Mentre nella top 50 d'Asia, lo chef è entrato anche con Raw (24esimo in lista), il side restaurant aperto più di recente a Taiwan, nel suo Paese natale. Proprio da Taiwan, il prossimo anno, Chiang ha intenzione di ripartire, non prima di essersi accomiatato dai fan di Andre, che chiuderà definitivamente i battenti il 14 febbraio 2018.

 

L'annuncio: André chiude nel 2018

La notizia arriva inaspettata a mezzo web, e a divulgarla è Chiang in persona, con una lunga riflessione affidata al sito web del ristorante, che ha fatto il giro del mondo. Dopo otto anni di successi, quindi, il progetto André arriva al capolinea: “Sono un perfezionista” scrive lo chef “e negli ultimi 30 anni della mia carriera non ho fatto altro che cercare di raggiungerla quella perfezione, sebbene intangibile... Tre stelle Michelin, la World's 50 Best. Finché non ho realizzato, oggi, che è già perfetto così com'è”. Una presa di coscienza che ancora una volta, a poche settimane di distanza dalla chiacchierata rinuncia di Sebastien Bras (che ha pensato di rinviare al mittente ben tre stelle), centra l'attenzione sul livello di pressione che è chiamato a gestire un grande chef. Nell'annunciare il suo ritiro dai palcoscenici internazionali, infatti, Chiang rinuncia alle stelle, e chiede, “cortesemente”, di non essere incluso nell'edizione 2018 della Michelin Singapore, né tra i ristoranti segnalati dalla guida dedicata a Bangkok e Taiwan (all'esordio tra un paio di mesi), con Raw, che pure resterà in attività.

La perfezione cos'è?

Anzi, dalla prossima primavera, chi vorrà sperimentare la cucina di Andre Chiang dovrà volare proprio a Taiwan, dove lo chef si ritirerà con la famiglia, “per tornare dove tutto è iniziato, e ricominciare a cucinare con gioia”, ma senza più sacrificare la vita privata. Niente più stress, quindi, né riflettori costantemente puntati addosso, in pace con se stesso per aver portato avanti, negli ultimi anni, “qualcosa di incredibile, con il piacere di cucinare un bel piatto non per la gloria, o per conquistare migliaia di like, ma per crescere professionalmente, e umanamente”, insieme all'intera brigata di Andre. “Abbiamo raggiunto tutto quello che volevamo” continua Chiang “questo è il team perfetto, e non ho mai visto altri ristoranti come il mio. Ne sono fiero”. Una motivazione sufficiente per decidere di chiudere in bellezza, all'apice del successo (stesso approccio di un'altra celebrità dell'alta cucina asiatica, Gaggan Anand, che tempo fa annunciava il suo ritiro “a scadenza” dalla ristorazione; mentre in Europa il caso più simile è quello di Kobe Desramaults). “Sono entrato in cucina all'età di 13 anni, dopo 30 anni di lavoro il mio sogno è tornare dove sono nato, per dedicarmi all'educazione dei giovani chef di Taiwan e della Cina. È mio dovere”. Senza rimpianti: “Abbiamo fatto tutto ciò che volevamo per Singapore e l'Asia, ora è tempo di tornare a casa” (a Singapore era arrivato nel 2008, dopo una parentesi importante in Francia, per imparare dai migliori: Alain Ducasse, Joel Robuchon, Pierre Gagnaire, Michel Troisgros, i grandi francesi di stanza nella metropoli asiatica). In sintesi, chiosa Chiang, “sono un perfezionista, e tutto questo è perfetto”.

 

www.restaurantandre.com

 

a cura di Livia Montagnoli

(foto di apertura Bene Tan, Cause&Effect Studio, Singapore)

Ristoranti d'Italia 2018 e la Cena delle Tre Forchette allo Sheraton di Roma. Come partecipare

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Si avvicina l'appuntamento annuale con la presentazione della guida Ristoranti d'Italia del Gambero Rosso. Protagonisti e premiati dell'edizione 2018 saranno svelati il 23 ottobre, dalle 18, all'hotel Sheraton di Roma. E per la prima volta anche chi acquista un posto alla cena può partecipare. Poi, tutti a cena con 10 grandi chef per festeggiare. 

Una cena fuori dagli schemi, con i migliori rappresentanti della ristorazione italiana. Ancora una volta... In punta di Forchetta. Con la effe maiuscola. Per chi non avesse ancora colto l'indizio, ecco l'annuncio ufficiale: lunedì 23 ottobre, all'hotel Sheraton di Roma, la guida Ristoranti d'Italia 2018 del Gambero Rosso svela le carte. Anche quest'anno alla cerimonia di premiazione seguirà una grande cena spettacolo, 10 postazioni per 10 chef, che animeranno la serata capitolina. E così scatta il conto alla rovescia per scoprire protagonisti e premiati della nuova edizione della guida che recensisce le realtà più interessanti del panorama ristorativo italiano (da quest'anno c'è spazio anche per Le grandi cantine della regione, da Nord a Sud della Penisola), chiamati a sfilare davanti alla platea dello Sheraton. Con una bella novità: per la prima volta nella storia della guida, chi acquisterà un posto per la cena (a partire dalle 20.30) potrà partecipare all'evento di presentazione (dalle 18), che apre le porte anche ai non addetti ai lavori, e seguire in diretta la premiazione che si terrà nella stessa sala allestita per la cena.

Poi, terminate la consegna dei diplomi e le foto di rito, la cena prenderà il via, ma senza percorsi obbligati o rigidi cerimoniali: ognuno sarà libero di curiosare tra le postazioni, menu alle mano, e scegliere il proprio percorso di degustazione personalizzato, a tu per tu con 10 grandi cuochi in arrivo da tutta la Penisola. In abbinamento, con l'ausilio di sommelier professionisti, 37 etichette Tre Bicchieri della guida Vini d'Italia e 6 birre artigianali. All'evento, già acquistabile online sullo store del Gambero Rosso, si partecipa con una quota di 150 euro a persona, che offre anche la possibilità di prendere parte all'aperitivo che aprirà le danze, nel Foyer delle Signorie dello Sheraton, fra piccoli assaggi e bollicine, prima della presentazione. Per ogni commensale c'è un posto assegnato, meglio prenotare in fretta.

Partecipa alla cena e scopri la carta dei vini e delle birre
 

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Le 6 migliori pizzerie di Caserta e dintorni

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La pizza a Napoli, si sa, è un'istituzione. Ma la Campania ha tanto da offrire sul fronte dell'arte bianca, anche fuori dal capoluogo. Fra le varie province, Caserta continua a distinguersi per qualità delle materie prime e creatività dei pizzaioli. Le insegne migliori della zona.

La nostra avventura tra Spicchi e Rotelle inizia nel 2013 con alcuni grandi artigiani da raccontare, ma un vuoto generazionale da colmare e dei numeri non del tutto confortanti. Oggi, la quinta edizione della guida Pizzerie d'Italia del Gambero Rosso conta 54 Tre Spicchi (riconoscimento per la pizza tonda) e 10 Tre Rotelle (riconoscimento per la pizza a taglio), e offre un'istantanea di un panorama in crescente fermento. E se Napoli resta il regno indiscusso dell'arte bianca d'eccellenza, nel 2017 anche altre località (campane, ma non solo) possono contare su una serie di giovani pizzaioli e maestri del settore che contribuiscono, anno dopo anno, a migliorare e ampliare il mondo della pizza di qualità. Per raccontare le migliori insegne della Penisola, partiamo proprio dalla Campania, più precisamente dalla zona di Caserta, dove si registra un costante aumento di indirizzi validi da non perdere. Ecco i nostri preferiti.

La Contrada – Aversa (Due Spicchi)

Si aggiudica il premio speciale Pizzaiolo Emergente dell'anno, Roberta Esposito, figlia d'arte cresciuta nel ristorante dei genitori e grande appassionata ed esperta di vino. La sua è la classica pizza napoletana, che non rinuncia però a variazioni del genere e sperimentazioni con le farine; ad arricchirla, i condimenti più disparati,dai gusti classici, come la Cetarese, a base di pomodorino di Corbara, tonno, alici di Cetara, mozzarella di bufala campana, basilico e olio d'oliva, a quella con fichi e mozzarella di bufala campana. Ma ci sono anche le Sette Margherite di Roberta, declinazioni diverse della più tradizionale delle pizze tonde. Gli ingredienti sono tutti selezionati con cura dalla pizzaiola in persona, che si destreggia fra pomodori San Marzano, gorgonzola di Novara, lardo di Colonnata e pomodoro Corbarì, coniugando prodotti locali e specialità di altre regioni. Da non perdere, qui, l'abbinamento pizza/vino, frutto della cura che Roberta pone nella selezione delle etichette migliori.

 

La Contrada

La Contrada | Aversa (CE) | piazza Marconi, 14 | tel. 08 18111700 | www.lacontradaristorante.it

Morsi & Rimorsi – Aversa (Tre Spicchi)

Ancora ad Aversa, un maestro pizzaiolo da tempo impegnato anche nell'attività di consulenza: è Gianfranco Iervolino, che riconquista i Tre Spicchi nell'edizione 2018 della nostra guida grazie alla sua dedizione, unita a tecnica e passione. Iervolino è un artigiano attento che esprime precisione e cura per i dettagli tanto nella base della pizza quanto nelle materie prime che la condiscono, ricercate e tipicamente mediterranee. La parte del leone qui è giocata dalla Margherita Del Vesuvio, con pomodorini del Vesuvio, mozzarella di bufala, grana padano, basilico fresco e olio extravergine di oliva. Da provare, poi, anche la pizza che porta il nome del locale, Morsi & Rimorsi, a base del classico sugo alla genovese, una salsa bianca di cipolle di Montoro, manzo, sedano, carote, provola di Agerola, Grana Padano DOP e basilico fresco. Inoltre, il pizzaiolo ha creato una linea gluten free pensata per tutti coloro che non tollerano il glutine ma che non vogliono rinunciare a una buona pizza.

 

Morsi & Rimorsi

Morsi & Rimorsi | Aversa (CE) | via A. Nobel | tel. 08 18113000 | www.facebook.com/MorsieRimorsiPizzeriaAversa/

Pepe in Grani – Caiazzo (Tre Spicchi)

Poche presentazioni per Franco Pepe, uno dei migliori pizzaioli d'Italia, un artigiano che ha saputo attualizzare una lunga tradizione di generazioni di maestri panificatori. Tutto parte dal blend di farine studiato ad hoc, alla base del suo impasto elastico e soffice, perfettamente alveolato e dal cornicione rigonfio, che arricchisce con diversi condimenti: tra le tonde, la Margherita Sbagliata con il pomodoro riccio a crudo, ma anche la Crisommola, una pizza dolce a base di ricotta di bufala profumata al limone, nocciole tritate e menta. Impossibile resistere alla classica pizza fritta Sensazioni di Costiera, con l'acciuga di Cetara, o ancora al cono fritto ripieno di crema al grana, rucola e olive caiazzane. A dimostrazione del fatto che, se studiata su misura, la pizza può diventare uno dei prodotti più versatili della cucina italiana, da elaborare, condire e farcire a seconda della propria creatività.

 

Pepe in Grani

Pepe in Grani | Caiazzo (CE) | vico San Giovanni Battista, 3 | www.pepeingrani.it

Antica Osteria Pepe – Caiazzo (CE) (Due Spicchi)

Un piccolo polo gastronomico tutto da scoprire, quello dell'Alto Casertano, che vanta un altro imperdibile indirizzo per gli amanti dell'arte bianca a Caiazzo. È l'Antica Osteria Pepe, la pizzeria della famiglia di Franco, ideata da Stefano Pepe e oggi in mano ai figli. Massima attenzione alla stagionalità e ai prodotti locali, valorizzati dall'impasto classico dalla fattura impeccabile. Qui vince la tradizione, che si esprime al meglio fra Margherita e Marinara, ma ci sono anche pizze ripiene di scarole, olive e alici. I fritti, poi, asciutti e morbidi, saporiti e ben bilanciati, valgono il viaggio.

 

Antica Osteria Pepe

Antica Osteria Pepe | Caiazzo (CE) | p.zza Portavetere, 4 | www.anticapizzeriapepe.it

I Masanielli – Caserta (Tre Spicchi)

Un ragazzo giovane, che ha iniziato a muovere i primi passi nei locali per guadagnare qualcosa quando era solo un bambino, dapprima come lavapiatti poi come pizzaiolo. E necessitate virtute, Francesco Martucci è oggi uno dei migliori pizzaioli del panorama italiano. Farine a basso valore proteico, una maturazione di 24 ore a temperatura ambiente e un cornicione molto pronunciato caratterizzano la pizza de I Masanielli, ancor più buona se abbinata alla bella selezione di vini del territorio o alle birre artigianali. Fra le specialità della casa, La Riccia di Mammà, con scarola riccia dell'orto biologico, pomodorino del Piennolo Dop, capperi di Salina, oliva di varietà caiazzana, burrata di bufala, alici di Cetara e olio extravergine di oliva. E poi, naturalmente, I Masanielli, con pomodorino giallo, mozzarella di bufala dop, straccetti di carne di bufalo e provolone del monaco.

 

I Masanielli

I Masanielli | Caserta | viale Lincoln, 27 – via Acquaviva | tel. 0823 1540786 | www.facebook.com/masanielli/

Casa Vitiello – Caserta (Due Spicchi)

Alle porte di Caserta, nel comune di Tuoro, Francesco Vitiello fa una grande ricerca su impasti alternativi, da quello con curcuma a quello con grano arso, sperimentando di continuo con ingredienti sempre nuovi e abbinando sapori diversi, ora per assonanza, ora per contrasto. Fra gli esperimenti più riusciti, la pizza alla canapa, soffice e dal gusto delicatamente tostato, insaporita con pomodorini corbarino, fiordilatte e cacio ricotta. Ben fatto anche l'impasto multicereali de O' Ciurill, condito con fiordilatte di Agerola, scarola riccia, fiori di zucca, alici di Cetara e olive caiazzane. Non mancano, però, anche le pizze più tradizionali, come la Napoli. Ad accompagnare le tante ricette, una selezione di vini campani, piccola ma centrata.

 

Casa Vitiello | Tuoro (CE) | via Parrocchia, 56 | tel. 3924723240 | www.casavitiello.it

a cura di Michela Becchi

Pizzerie d’Italia del Gambero Rosso 2018 | pp 384 | euro 8,90 | La guida è acquistabile in edicola, libreria e on line

Guida Pizzerie d'Italia 2018 del Gambero Rosso. Elenco dei migliori e dei premiati

Core by Clare Smyth a Londra. Intervista alla chef ex braccio destro di Gordon Ramsay

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Ha aperto i battenti all'inizio di agosto il ristorante londinese che segna il debutto da solista della chef Clare Smyth, a lungo anima e corpo del ristorante Gordon Ramsay. Il percorso di Clare e la storia del suo locale.

La chef

L'esordio come titolare di un ristorante per uno chef è sempre un momento carico di aspettative, preoccupazioni, speranze. Se il tuo nome è Clare Smyth, e per anni sei stata la chef del ristorante tre Stelle Michelin Gordon Ramsay al Royal Hospital Road di Londra, poi, le previsioni e le attese sul tuo primo locale si fanno ancora più alte. A maggior ragione se il ristorante si trova in uno dei quartieri più eleganti e lussuosi della capitale, reso famoso nel mondo dal celebre film con Julia Roberts e Hugh Grant. A Notting Hill, Clare ha trovato lo spazio ideale per dare forma alla propria creatività, guidata dall'estro e dal rigore che hanno caratterizzato il suo lavoro negli anni, facendole guadagnare, nel 2013, il titolo di Chef dell'Anno, uno dei riconoscimenti più prestigiosi del Regno Unito in ambito culinario. Il successo, però, ancor più amplificato dalle diverse apparizioni in televisione, non le bastava. Perché Clare aveva un sogno, lo stesso che coltiva dall'età di 15 anni: aprire un suo locale, un ristorante di alta cucina.

 

Clare Smyth

Il ristorante

24 anni dopo, nell'agosto nel 2017, il suo desiderio si concretizza al 92 di Kensington Park Road, nel cuore della città. Qui, fra botteghe d'antiquariato e vecchi librerie, Clare trova il luogo perfetto per la sua cucina in un palazzo ottocentesco in stile vittoriano. Dopo due anni di ricerca, studio, domande: “Mi sono interrogata a lungo su cosa significhi, oggi, fare alta cucina. A che punto è la ristorazione contemporanea? In che direzione stiamo andando? Qual è la strada da percorrere?”. Interrogativi legittimi per chi ha fatto della qualità del cibo la propria filosofia di vita. “Mi sono resa conto che la maggior parte dei grandi ristoranti in Gran Bretagna partono da una base francese. Giusto, ma non può essere l'unica scelta possibile. Che ne è dell'alta cucina britannica?”. E così, la chef nordirlandese ha deciso di puntare tutto sui prodotti della sua terra e sugli artigiani locali. Perché quella del ristorante era un'ambizione lodevole, sì, ma prima ancora un'esigenza, “il bisogno di creare qualcosa di mio, partendo da zero”.

 

Core

I prodotti e il rapporto con i contadini

E proprio all'insegna della territorialità, Clare seleziona scrupolosamente ogni ingrediente, andando a visitare le aziende, affidandosi ai contadini con i quali ha avuto modo di lavorare negli anni, alla ricerca delle realtà locali che lavorano in chiave sostenibile. Ma cosa vuol dire, oggi, sostenibilità per un ristorante? “Consapevolezza, logica, razionalità. Uno chef deve sapere sempre come trattare un alimento per evitare gli sprechi: per esempio, noi utilizziamo ogni parte dell'animale, non abbiamo scarti”. Fondamentale per Core, poi, è l'utilizzo di prodotti locali: “Abbiamo qualche ingrediente straniero, come l'extravergine e l'aceto, ma anche per questi ci affidiamo al lavoro di importatori inglesi che si occupano di selezionare prodotti di nicchia. Per tutto il resto, lavoriamo a contatto diretto con contadini e coltivatori, in modo da creare rapporti duraturi nel tempo, basati sulla stima reciproca e sul rispetto”. Perché una cucina, anche la più professionale, “è fatta prima di tutto di persone e legami. È questo ciò che aggiunge ricchezza all'esperienza gastronomica”.

 

Core, piatti

Il ruolo del servizio

Una filosofia che si rispecchia anche nel servizio, nell'attenzione che la squadra del Core riserva a ogni cliente. “La sala ha un ruolo fondamentale. Ogni cucina di livello ha bisogno di un servizio all'altezza della qualità del cibo”. Il segreto per soddisfare le richieste dei clienti? “Mettersi nei loro panni. Un cameriere deve sempre cercare di comprendere i bisogni e le esigenze di ogni commensale”. In modo da restituire a ogni ospite il piacere di stare a tavola, una sensazione di benessere che deriva molto anche dall'atmosfera generale del luogo, dall'ambiente e dagli arredi. Per il suo ristorante, Clare ha scelto uno stile essenziale ed elegante, curato nei dettagli ma senza fronzoli: “Mi piaceva l'idea di dare carattere contemporaneo a uno spazio del 1861. Quello che vorrei è che, varcata la soglia, ogni cliente si sentisse accolto in un ambiente familiare e caldo”. Con 15 tavoli all'interno e 18 sedute all'angolo bar, Core ha saputo mantenere il fascino dell'edificio vittoriano, senza rinunciare a un tocco contemporaneo, in un locale open space minimal e ricercato.

 

Core, interni

Prima di Core: l'esperienza con Gordon Ramsey

Prima di Notting Hill, però, c'è stato Chelsea, con il ristorante di Gordon Ramsay, fra gli chef più celebrati di tutto il Regno Unito. “Ho passato circa 10 anni a gestire quel posto. È stata un'esperienza formativa significativa per me, perché mi ha dato la possibilità di toccare con mano come si gestisce un locale”. Perché se è vero che il talento e la creatività sono due caratteristiche imprescindibili per uno chef, altrettanto vero è che per diventare un imprenditore nell'ambito della ristorazione occorrono anche capacità amministrative, gestionali, e una visione a 360 gradi del lavoro in cucina. “Il consiglio che mi sento di dare a un giovane che si affaccia a questo mondo è quello di tenere duro. Il percorso è lungo, e noi siamo prima di tutto cuochi, e non gente d'affari. Bisogna imparare a concentrarsi sugli obiettivi finali”.

 

Core

La cucina e la carta dei vini

Ma cosa si mangia da Core? Il menu è perlopiù fisso, “con un paio di portate a rotazione, secondo stagionalità”, e accompagnato da una carta dei vini con 500 etichette: “Sono molto appassionata di vino, e ho dei gusti un po' retrò. Ho selezionato diverse aziende britanniche, spaziando per varietà e tipologia, cercando anche le realtà più piccole”. La cucina è ricercata e, nonostante lo stile moderno e il gusto impeccabile, si rifà alle antiche tradizioni gastronomiche nazionali: “Quella del Regno Unito è una cucina rustica, semplice, fatta di pochi ingredienti e ricette casalinghe. Ho voluto mantenere l'animo puro della nostra storia, reinterpretandolo a modo mio, con i migliori ingredienti locali”. Niente orpelli, dunque, ma piatti di qualità che richiamano la cucina dell'infanzia, come l'arrosto con cavolo e erica, o il brasato di agnello con le carote e lo yogurt di latte di pecora.

 

Core, piatto

Aperto da poco più di due mesi, Core ha già conquistato il palato dei londinesi: “Fortunatamente, finora abbiamo avuto sempre tutti i tavoli prenotati”. Progetti per il futuro? “Ho tante idee, ma al momento voglio concentrarmi su Core. Non ho fretta, ho fatto e sto facendo degli investimenti, e spero di poter esprimere al meglio tutto il potenziale di questo locale”.

Core | Londra | Kensington Park Road, 92 | www.corebyclaresmyth.com/

a cura di Michela Becchi

Sardegna: Oliena, dove il Cannonau si chiama Nepente

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Oliena è un meraviglioso paese ai piedi del monte più bello che Dio abbia creato e produce un vino nel quale si sono infiltrate tutte le essenze della nostra terra, il mirto, il corbezzolo, il cisto, il lentischio”. Parola di Salvatore Satta nel suo libro Il Giorno del Giudizio. Ecco un angolo di Sardegna tutto da scoprire.

Arrivare a Oliena significa farsi ipnotizzare dal monte Corrasi, uno straordinario massiccio di roccia che sovrasta il paese e domina zone boschive che si alternano e vigne, uliveti e aree di macchia mediterranea.

 

Oliena. Il centro abitato

Ma Oliena è anche una centro storico di grande interesse, con le sue 11 chiese e un patrimonio artistico legato all’arte orafa e al ricamo. Siamo a una decina di chilometri da Nuoro, nella Barbagia; in questo paesino che trasmette tuttora storia e cultura vivono poco più di settemila anime: le strade sono fatte d’impredau (grossi ciottoli incastrati l’un l’altro) e sembrano elevare le case, tutte ben conservate e attaccate tra loro. Quasi tutte le abitazioni storiche sono dotate di un cortile interno, con un’imponente scala in granito che porta al piano superiore dove la cucina domina l’architettura. All’esterno, tra le vie del paese, ancora oggi i murales raccontano storie e speranze.

Oliena, pasta tipica

La gastronomia di Oliena

Fuori dal centro abitato c’è tutto un mondo fatto di bellezze naturalistiche e siti archeologici da visitare. “Oliena è un paese fortunato perché ha un ambiente naturale che permette delle produzioni di altissimo livello” spiega Giovanna Congiu, una delle tre fondatrici di Galaveras, presidio turistico di Oliena che si occupa di promuovere il territorio a 360 gradi “La nostra terra ci regala una materia prima favolosa. A partire dall’olio extravergine di oliva: la maggior parte degli olivi sono innesti di olivastro e producono la Nera di Oliena, da cui nasce un olio che marca profondamente questo territorio” racconta, e poi continua “Idem per l’uva e per il vino, per il grano e per la pasta, per le mandorle e per i dolci è la stessa cosa. Le tradizioni si sono tramandate per generazioni e si sono conservate”.

Oliena pane

Oliena vive un’economia basata su piccole produzioni, nessuna realtà grossa, ma botteghe a gestione familiare dove quotidianamente vengono prodotte le quantità per la comunità. La ristorazione fa tesoro di tutto ciò. “Penso a sos maccarrones de busa: pasta artigianale fatta col ferro a maglia” sorride Giovanna “o a sos maccarrones a bocciu: fatti col rovescio della grattugia, andando a formare un piccolo bocciolo; e ancora i ravioli di formaggio o le casadinas salias: piccole tortine salate di formaggio” continua i suo elenco “Tra i dolci non possiamo dimenticare sas meligheddas (dolcetti di pasta di mandorle a forma di fruttini), sa con ttura de mele (ottenuta con miele e mandorle) o il tradizionale biscotto olianese (su pistoccu in sa cappa)”. E non manca il pane tradizionale: sas paneddas, le spianate di Oliena.

 

Il contesto ambientale e gli itinerari naturalistici

Tutto questo viene fatto in un contesto naturalistico unico, tra rocce, foreste, cascate e siti archeologici. “Oliena è sotto il monte Corrasi, arrivando da Nuoro si coglie subito come il massiccio domina il paese” racconta sempre Giovanna Congiu “Poco distante da Oliena c’è la sorgente di Su Gologone, la più grande sorgente di acqua carsica della Sardegna e simbolo di questo territorio. Da Su Gologone si arriva alla Valle di Lanaitto, dove sorge il villaggio nuragico Sas Sedda e Sos Carros che ha una fonte sacra all’avanguardia per il sistema di convoglio dell’acqua. E ancora la grotta di Sa Oche e la Grotta Corbeddu”. La valle è un punto di partenza per una serie di itinerari naturalistici che portano a Tiscali, verso Dorgali o del percorso che da Monte Maccione va verso Punta Corrasi,“un itinerario che parte da una foresta e arriva a un vero e proprio paesaggio lunare”.

 

Hòro - I dolci d’arte di Anna Gardu

Li considera suoi figli. Sono i figli di pasta di mandorle. Li crea, li modella, gli dà vita. Anna Gardu, di Oliena ha sempre visto all’opera la madre, mentre produceva i dolci sardi della tradizione, soprattutto quelli fatti con pasta di mandorla. Nella sua testa però non c’era la produzione dolciaria, ma l’argilla da modellare, i vasi da creare. Così le sue mani hanno iniziato a sagomare la pasta di mandorle e in men che non si dica è fuoriuscita l’arte. I riconoscimenti e gli elogi (da Sgarbi a una lettera ricevuta da Anna da parte del Papa) non hanno trasformato queste creazioni in business, nonostante le richieste da tutto il mondo. La soddisfazione di Anna si accontenta del fatto che nelle campagne di Oliena vengano piantati nuovi mandorleti, a garantire un progetto di filiera territoriale che ha valore e genera altro valore. Nel frattempo lei continua a essere ispirata e a creare: gioielli, amuleti, coralli, quadri ispirati alla natività o ad altre religioni. E ancora gallinelle (un vero simbolo dell’artigianato isolano), maschere tradizionali, scialli o rappresentazioni dei costumi sardi. Tutto rigorosamente edibile, creato in pasta di mandorle, zucchero e altri ingredienti da sempre utilizzati nella case. Anche se queste creazioni si fa fatica a mangiarle: alla sola vista appagano tutti i sensi.

Uva

Il vino

Il nome di Oliena è molto legato al suo vino, qui la coltivazione della vite e del vino la dobbiamo ai frati francescani che già nel 1500 d.C. possedevano nel territorio una grande vigna e degli stabilimenti per la vinificazione; un buon impulso fu in seguito dato dai padri Gesuiti, col loro lavoro improntato sulle produzioni di qualità. Nel suo soggiorno barbaricino, scriveva D’Annunzio come prefazione alle Osterie d’Italia di Hans Barth: “Non conoscete il Nepente d’Oliena neppure per fama? Ahi, lasso! Io son certo che, se ne beveste un sorso, non vorreste mai più partirvi dall’ombra delle candide rupi, e scegliereste per vostro eremo una di quelle cellette scarpellate nel macigno che i Sardi chiamano Domos de Janas, per quivi spugnosamente vivere in estasi fra caratello e quarteruolo. Io non lo conosco se non all’odore; e l’odore, indicibile, basta a inebriarmi”.

Se Oliena è conosciuta in Italia e nel mondo è anche per merito del suo Cannonau dalle caratteristiche uniche grazie alle quali si può fregiare della sottozona Nepente di Oliena all’interno della Doc regionale. Per capire le origini del nome, bisogna risalire al greco: “ne” sta per negazione e “penthos” significa tristezza. “Nessuna tristezza” quindi, con la parola utilizzata fin dall’antichità per descrivere vini o infusi che riuscissero a portare felicità e benessere.

Cantina Oliena, vigneto

La cantina sociale

A portare avanti il buon nome del paese vinicolo c’è sicuramente la cantina sociale, una realtà piccola (rispetto ad altre cooperative isolane) ma solida e che tiene in vita un tessuto economico e culturale legato al vino. Il nostro viaggio nel vino di Oliena non può che partire da qui, e non possiamo fare a meno di leggere – nei muri dello stabile ristrutturato – i versi di D’Annunzio, Satta e Grazia Deledda che hanno citato nei loro scritti Oliena e il vino Nepente. “Il punto forte sta nelle vigne che vivono dai 150 ai 700 metri sul livello del mare, con una varietà di suoli diversi tra di loro, tra disfacimento granitico, calcare e argilla. La cantina” racconta Daniele Manca, enologo della cooperativa “conta su circa 100 soci con una media di un ettaro di proprietà ciascuno. Il vero patrimonio è rappresentato dalle vecchie vigne ad alberello, alcune hanno più di 80 anni e sono impiantate per oltre il 90% con uva cannonau, ma vi è anche una piccola parte di granazza, una varietà bianca aromatica e autoctona da cui fare un passito” continua a illustrare questa eatà: “Le rese naturalmente bassissime (50 quintali per ettaro di resa media) garantiscono una qualità e il carattere unico del territorio che ritroviamo nel bicchiere”.

 

Sottozona e l'ipotesi di una Docg

La sottozona” spiega ancora Manca “è vissuta con grande partecipazione: sono state già fatte le prime riunioni tra il Comune, la cantina e i conferitori per la creazione della Docg Oliena. Io la vedo come una Docg che punti tutto sul territorio più che sul vitigno: se qui ci sono storicamente anche alcune piccole percentuali di uve che si sono acclimatate perfettamente, ben vengano anche le altre varietà. Stigmatizzare questa realtà attraverso un disciplinare, vorrebbe dire mettere nero su bianco diverse cose che vengono già fatte dai viticoltori olianesi”.

Anche Nina Puddu è convinta che il Nepente di Oliena debba essere sempre più valorizzato e che dovrebbe diventare un vero brand territoriale. Nina, titolare con i fratelli Paolo e Francesco dell’azienda che porta il suo nome, produce 70mila bottiglie nei 30 ettari interamente dedicati al cannonau. “Qui il clima e il terreno garantiscono un particolare habitat ed è per questo che nel bicchiere abbiamo prodotti diversi da quelli di altre zone dell’isola sempre a base di Cannonau. Sarebbe ideale” spiega Nina “avere una Docg: sarebbe la seconda in Sardegna e la prima per un vino rosso. Stiamo lavorando con le altre cantine e le istituzioni per portare avanti un progetto di cui beneficerà il territorio intero”. Ma la produzione dell’azienda Puddu non si ferma al vino: una decina di anni dopo la creazione della cantina, negli anni ’80 nacque anche un salumi cio che ancora oggi produce insaccati stagionati di alta qualità. A partire dal prosciutto rustico disossato, no ad arrivare al guanciale e alla salsiccia sarda aromatizzata al vino. Naturalmente Nepente.

 

La degustazione

 

F.lli Puddu

Oliena (NU) | Loc. Orbuddai | tel. 0784 288457

 

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Cannonau di Sardegna - Nepente di Oliena Ris. ’10 Pro Vois

Il Pro Vois è una grande Riserva che incarna in pieno il territorio di Oliena. Bella complessità e ricchezza al naso, con note di prugna, ciliegia matura e ori secchi in evidenza. La bocca è ricca, profonda, dal tannino morbido e dal sorso avvolgente. Ideale se abbinato a cinghiale in umido.

 

Cannonau di Sardegna - Nepente di Oliena Cl. Carros ’12

È tutto incentrato sulla balsamicità il Nepente di Oliena Carros frutto del millesimo 2012. Il naso offre note di frutto rosso maturo, tra cui la fragola e la marasca, ma non mancano note di resine e di sottobosco. La bocca è ricca, ma molto fresca e scorrevole, dalla sapidità che spinge il sorso in un finale saporito e polposo.

 

Cannonau di Sardegna - Nepente Di Oliena Tiscali ’14

Grande bevibilità e freschezza per il Tiscali, un Nepente di Oliena frutto delle vigne più giovani già coltivate seguendo i dettami del biologico. I profumi di rosa e piccoli frutti di bosco anticipano un sorso ritmico e succoso, giocato su una bella acidità che bilancia bene corpo, struttura e alcool. Finale profondo, con un tannino morbido che non asciuga mai la beva.

 

Gostolai

Oliena (NU) | via Friuli Venezia Giulia, 24 | tel. 0784 288417

 

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Cannonau di Sardegna - Nepente di Oliena Ris. ‘10

A ben sette anni dalla vendemmia la Riserva di Tonino Arcadu (vignaiolo titolare dell’azienda Gostolai) sembra non aver paura di invecchiare. I profumi – per quanto già terziarizzati – affascinano e offrono note di fiori secchi, frutta sotto spirito, resine nobili e non mancano cenni fungini e di piante officinali. La bocca è snella, dal tannino setoso; l’alcol è integrato alla materia e il finale è saporito e profondo.

 

Cannonau di Sardegna - Nepente di Oliena Ris. D’annunzio ’06

Frutto di una selezione massima delle uve, derivanti dalle vigne più vecchie di proprietà, il D’Annunzio è la Riserva dedicata allo scrittore che diverse volte decantò le lodi del rosso di Oliena. L’annata 2006 offre note di prugna surmatura, marasca, scorza d’arancia candita e non mancano sensazioni eteree. La bocca è avvolgente, leggermente sfibrata, dal tannino leggero e morbido. Bel finale, profondo e caldo.

 

Cantina Coop. di Oliena

Oliena (NU) | Via Nuoro, 112 | tel. 0784 287509 | www.cantinasocialeoliena.it

 

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Cannonau di Sardegna - Nepente di Oliena Classico Irilai ’12

L’Irilai è il rosso prodotto da qualche anno dalla cooperativa di Oliena. Profuma di mirto e macchia mediterranea, frutto rosso e tabacco. In bocca corpo e struttura sono ben bilanciati da una freschezza acida e da una bella sapidità che regala ritmo e lunghezza.

 

Cannonau di Sardegna – Nepente di Oliena Ris. ’10 Corrasi

Il Corrasi è frutto della massima selezione delle uve conferite. Vino di gran carattere e struttura, regala note di frutto rosso maturo, prugna, ciliegia sotto spirito, sottobosco e cenni mentolati. La bocca è ampia, dallo sviluppo morbido e avvolgente. Il tannino e la sapidità bilanciano bene il sorso.

 

Cannonau di Sardegna – Nepente di Oliena ’14

È il più giovane dei Cannonau della Cantina, ma non è certo un vino semplice, né tantomeno banale. Frutto di una bella annata, il Nepente 2014 profuma di macchia mediterranea e piccoli frutti di bosco, in bocca la beva è snella, dinamica e succosa: il tannino è maturo al punto giusto e corpo e struttura sono ben calibrati. Bel finale pulito e saporito.

 

Spumante - Rosé Ororosa

È l’outsider della selezione presentata. Nonostante il disciplinare del Nepente non annoveri uno spumante, l’Ororosa è comunque frutto di uve Cannonau di Oliena, coltivate su disfacimento granitico nei vigneti situati più in alto, a 650 metri. Profuma di fragolina di bosco, rosa e non mancano cenni di pasticceria. In bocca è fresco e fragrante, saporito e di buon corpo. Finale pulito, giocato su cenni aromatici percepiti al naso.

 

 

GLI INDIRIZZI

 

Mangiare

Su Gologone | Oliena (NU) | loc. Su Gologone | tel. 0784 287512 | www.sugologone.it

Gikappa | Oliena (NU) | c.so Martin Luther King, 4 | tel. 0784 288024 | www.gicappa.it

Sa corte | Oliena (NU) | via Nuoro, 138 | tel. 0784 1876131 | www.sacorte.it

Ristorantino Masiloghi | Oliena (NU) | via galiani, 68 | tel. 0784 285696 | www.masiloghi.it

Agriturismo Camisadu | Oliena (NU) | | loc. Camisadu | tel. 368 3479502 | www.agriturismocamisadu.com

Agriturismo Guthiddai | loc. Guthiddai | tel. 0784 286017 | www.agriturismoguthiddai.com

 

Dormire

Experience hotel su gologone | oliena (nu) | loc. Su gologone | tel. 0784 287512 | www.sugologone.it

B&b sa corte | oliena (nu) | via nuoro, 138 | tel. 0784 1876131 | www.sacorte.it

 

Foodshop

Tundu | piccola panetteria artigiana | Oliena (NU) | via G. La Pira, 8 | tel. 328 1946041 |

Oleificio Giuliana Puligheddu | Oliena (NU) | p.zza Collegio, 5 | tel. 0784 287734 | www.agricolapuligheddu.it

Cooperativa olivicoltori oliena | via Norgheri tel. 3938524644 |

Caseificio Mannalita | Oliena (NU) | loc. S’ena e Sabucos | tel. 339 2885887 | www.mannalita.it

Cooperativa Rinascita | caseificio oliena | Oliena (NU) | via Norgheri, 44 | tel. 0784287366 | www.sardegnapecorino.it

Dolci sardi | Gianfranca Puligheddu | Oliena (NU) | via Mazzini, 19 | tel. 392 0944625

 

Da vedere

Valle di Lanaitto (Grotte di Sa Oche, SuVentu, e Corbeddu; Villaggio nuragico e fonte sacra Sa Sedda ‘e sos Carros)

 

Villagio Nuragico Tiscali (Dorgali | Oliena): insediamento di epoca nuragica posizionato all’interno di una grotta di cui è crollata la volta, in cima al Monte Tiscali. 2 ore di trekking per raggiungerlo dalla base di partenza nella valle di Lanaitto.

Contatti: presidio turistico Galaveras | tel. 0784 286078 | Galaveras.Oliena@gmail.Com

 

Sorgenti di su Gologone: imponente fonte carsica alle falde del Supramonte, di rilevante interesse speleo turistico. Contatti: tel. 328 5649983 - 392 3925165 - 349 7128571 | Lefonti@hotmail.It |

www.oliena.net/lefonti

Info: www.sardegnaclickandgo.it

L'Amatriciana Tradizionale verso il riconoscimento STG. La parola al Mipaaf

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Specialità tradizionale garantita, come la pizza napoletana e la mozzarella. L'elenco delle Stg italiane non è nutrito come quello di Dop e Igp, ma importante per attestare, a livello europeo, la storia di tradizioni gastronomiche consolidate sul territorio nazionale. Come il sugo all'amatriciana, che presto potrebbe ottenere il suo riconoscimento. 

I marchi di tutela. Un po' di chiarezza

Si fa presto a dire valorizzazione del made in Italy, ma come orientarsi tra i marchi di tutela nati per proteggere e catalogare l'agroalimentare nazionale? Più volte, ci siamo spesi per ribadire che le denominazioni d'origine territoriale - Dop e Igp – non necessariamente garantiscono sulla qualità del prodotto, determinandone invece, come spiega lo stesso acronimo, il legame obbligato con uno specifico territorio di produzione. Ancora diverso è il caso della meno nota Stg, la Specialità tradizionale garantita: in questo caso, il marchio tutela il processo di produzione, nella sua accezione tradizionale, senza indicare nessun vincolo di appartenenza territoriale. In pratica, la specificità di un prodotto Stg deve affondare le radici in un iter produttivo in auge in Italia da almeno 30 anni. E questo vale tanto per i singoli prodotti, come la mozzarella, che per preparazioni e ricette della tradizione nazionale, come la pizza napoletana, entrambe tutelate dal marchio Stg. A fronte del gran numero di Dop e Igp, infatti, finora (seconda la lista Mipaaf aggiornata al 4 ottobre 2017) la categoria Stg comprende solo le due produzioni tradizionali di cui sopra; ma presto, al gruppo potrebbe aggiungersi una delle preparazioni simbolo della cucina laziale e italiana, l'Amatriciana Tradizionale, che con sé porta immancabilmente un significato aggiunto, dopo il terremoto che ha colpito il Centro Italia (a proposito, è in libreria il ricettario d'autore Amatricianae, il ricavato per finanziare la ricostruzione).

 

L'Amatriciana Tradizionale verso l'Stg

Il disciplinare di produzione è già stato approvato in Riunione Regioni, e da qualche giorno è al vaglio del Mipaaf, prima di arrivare sul tavolo di Bruxelles. In caso di risposta positiva, la ricetta dell'amatriciana otterrebbe così, per la prima volta, un riconoscimento importante a livello europeo: finora, infatti la “salsa all'amatriciana” è tutelata esclusivamente tramite De.Co, denominazione comunale ratificata dal Sindaco di Amatrice, che attesta l'esistenza di due preparazioni tradizionali, nella versione bianca e rossa, com'è proprio della tradizione pastorale “che affonda le radici nella storia sociale ed economica del versante amatriciano dei Monti della Laga”. Con le dovute distinzioni di merito, dal momento che la De.Co., pur avendo un valore identitario forte per la comunità che rappresenta, non è propriamente un marchio di tutela, ma semplicemente un'attestazione comunale, che non risponde a nessuna normativa vigente. E, piuttosto, uno strumento a disposizione delle amministrazioni comunali per supportare il marketing territoriale e la promozione dei prodotti della tradizione locale. Diverso, invece, e più premiante, sarebbe ottenere il marchio Stg, riconosciuto dalla legge, e quindi più vincolante.

 

Il sugo all'amatriciana. Ingredienti e preparazione

La preparazione dell'amatriciana, si legge nel testo in via di approvazione, “si caratterizza per l'impiego di ingredienti utilizzati tradizionalmente. L'articolo 2, quindi, ne definisce in modo dettagliato l'elenco, dal guanciale di tipo amatriciano (in percentuale variabile dal 10 al 30%) all'olio extravergine dop di Lazio, Umbria, Marche, Abruzzo (e non miscelati tra loro), al pomodoro, in passata o a pezzi, che deve rispondere a una serie di requisiti specifici. E poi sale, vino bianco – dalle stesse regioni di pertinenza - pecorino di tipo amatriciano o Romano Dop. Facoltativo l'uso di peperoncino e/o pepe. Il disciplinare, che indica anche quantità precise per ogni ingrediente, considera poi due differenti preparazioni codificate, per la produzione di sugo pronto per il consumo immediato o per il consumo differito.

Sull'iter di approvazione influirà la storia della ricetta tradizionale, ricostruita per tappe all'articolo 4 del disciplinare, che, afferma senza timore di smentita: “La pasta all’Amatriciana Tradizionale (tradizionalmente spaghetti o bucatini, ma anche pasta corta) è il primo piatto, nel mondo, per eccellenza della cucina italiana”. Se l'Stg dovesse essere riconosciuta, ogni confezione di sugo all'amatriciana tradizionale dovrà recare l'etichetta con il simbolo dell'Unione Europea e il logo elaborato per l'occasione: un cerchio raffigurante un piatto stilizzato di pasta e listarelle di guanciale con al centro il campanile civico di Amatrice. Sotto, la dicitura in carattere maiuscolo Amatriciana Tradizionale. Perché sulle origini storiche e socio-economiche di un autentico piatto di amatriciana nessuno possa più sollevare dubbi.

 

a cura di Livia Montagnoli

Tre bicchieri 2018. Parla Franco Adami della Cantina Adami

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Un secolo di spumanti: la cantina Adami da 90 anni produce solo Prosecco nelle diverse declinazioni. E oggi, nel suo Vigneto Giardino, rinuncia al termine Dry in favore della dicitura Asciutto.

Parlando di Prosecco non si può non fare riferimento alla cantina Adami, che da 90 anni produce esclusivamente il famoso vino spumante di questa zona, in diverse declinazioni. Espressione di identità e di territorio: quell'area collinare che congiunge Valdobbiadene a Conegliano. Sono una dozzina di ettari distribuiti su alcune delle più belle esposizioni, cominciando con il vigneto Giardino a Colbertaldo e chiudendo sulle Torri di Credazzo a Farra di Soligo. Ma la produzione fa riferimento anche a una rete di viticoltori della zona con cui l'azienda mantiene un rapporto di collaborazione stretto per garantire la qualità costante, “ho assaggiato tantissima uva in giro” dice Franco Adami- insieme ad Armando alla guida della cantina fondata dal nonno Adamo – quando gli chiedi un commento sull'andamento della stagione 2017. A testimonianza di una presenza attenta anche nei vigneti dei loro conferitori. Il Tre Bicchieri è andato al Vigneto Giardino Asciutto. Un'indicazione, questa, adottata in vece di Dry. Un vino dal profilo aromatico raffinato e giocato sul frutto bianco croccante rinfrescato da note floreali. L’ottima vendemmia 2016 consente al vino di mettere in mostra solidità e tensione mantenendo la dolcezza sullo sfondo, per un finale grintoso e molto lungo. Intenso, armonioso e di grande eleganza il Col Credas.

 

Ora il vostro Vigneto Guardino si chiama Asciutto e no più Dry. Da dove nasce questo nome?L'idea nasce proprio dalla storia di questo vino: nel 1933 Abele Adami, mio nonno, portò a Siena alla prima mostra di vini tipici d'Italia, un vino che si chiamava Riva Giardino Asciutto. Solo dopo molti anni mi sono accorto che il termine Asciutto è consentito dal disciplinare.

 

Come mai questa scelta?

La parola Dry per noi Italiani non significa nulla. Non è sinonimo di secco, secondo me il termine giusto è asciutto. Ovvero che ha un attacco morbido nella fase iniziale ma poi ha acidità e sapidità che danno una chiusura secca e pulita. In Italia Dry è praticamente sinonimo di vini morbidoni, a volte stucchevoli con parecchia dolcezza. Per noi è importante che sia giocato sulla pulizia

 

Non teme che sul mercato internazionale questa scelta possa penalizzarvi?

Al contrario: crediamo che il termine Asciutto possa generare un po' di curiosità, anche se poi in alcuni mercati, come quello nordamericano, si devono dare determinate indicazioni nella retroetichetta e quindi dobbiamo scrivere Dry. Ma mi piacerebbe che Vigneto Giardino dicesse la sua a prescindere dalle definizioni. Noi vorremmo pian pian svincolarci dalla scritta in etichetta, se potessimo non la metteremmo per niente perché l'indicazione della quantità di zucchero talvolta genera dei preconcetti, tra l'altro ci sono Extra Dry che sono molto vicini ai Brut.

 

In Italia, invece?

Riguardo la tipologia Extra Dry non esiste un termine equivalente in italiano. Ci sarebbe amabile, ma non si può usare. La questione è legata al fatto che secco e asciutto non hanno lo stesso significato: asciutto indica un finale non dolce, senza percezione zuccherina.

 

Stiamo assistendo a un enorme successo del Prosecco, secondo lei quali ne sono i motivi?

I motivi occorre cercarli nelle caratteristiche stesse del vino: perché è semplice, di facile approccio, non è particolarmente impegnativo alla degustazione, ma allo stesso tempo ha una sua precisa identità, profumi e gusti primaverili, una dolcezza non invadente, è un vino che dà freschezza, che ha una bella armonia nei suoi componenti: zuccheri, sale, pienezza, acidità. Un vino leggero e non banale: ne bevi un bicchiere – anche due - senza fatica, quasi non ti accorgi, non impone di essere accompagnato dal cibo. Questa è la sua grandezza: è semplice, armonico, piacevole, giovane, oltre a non essere impegnativo economicamente. E poi è un vino che ha creato un momento di consumo che prima non c'era.

 

Cosa intende con questo?

È un vino che non ha bisogno di essere accompagnato dal cibo, perché leggero, questo ha aperto la strada al consumo fuori pasto, agli aperitivi. Quindi abbiamo esportato non solo un vino ma anche un modo di consumarlo. Quello tipico dei bacari, per intenderci: dove prendi un bicchiere o due senza cenare, magari giusto con una polpetta, una fettina di salame o mezzo ovetto, il classico cichetto da mangiare in compagnia con le mani insieme all'ombra, cioè al bicchiere di vino. È un momento di incontro informale e spensierato con le persone. Ecco, il Prosecco rappresenta tutto questo.

 

Riguardo al successo internazionale del Prosecco; quali sono le luci e le ombre?

Quando il successo è così grande ci si chiede come si farà a mantenerlo. Le uniche ombre sono legate alla capacità di noi produttori di costruire valore su un vino che oggi è visto semplicemente come un prodotto superaccessibile e invece ha delle qualità intrinseche particolari, inimitabili nelle sue migliori espressioni.

 

Quali sono le piazze più importanti per il Prosecco?

Il 60% rimane in Italia, che è il mercato principale. Il resto si divide tra Stati Uniti, Gran Bretagna, Germania, ma l'elenco continua con altri 30 paesi diversi. Il Prosecco è un fenomeno che è cresciuto così tanto che oggi è importante comunicare che questo è vino buono, e che a Conegliano Valdobbiadene è ancora più buono. Insomma che esiste il Prosecco Superiore.

 

È un'operazione difficile?

Non è difficile, ma è un lavoro che dobbiamo fare tutti costantemente. Ci vorrà un po' di tempo perché sia chiaro che la qualità di questo vino dipende dal territorio e non si può esportare semplicemente portando le uve altrove. È nato su queste colline, poi il territorio si è molto ampliato, merito dei produttori. Ma bisogna insistere sulla qualità assoluta di questa area.

 

Quali sono i rischi?

Si pensa che un vino così semplice nelle sue caratteristiche sia replicabile ovunque, infatti è molto imitato e lo sarà sempre di più, proprio perché è un vino immediato. Non è come lo Champagne, che è più impegnativo. Invece bisogna cercare, e far emergere, nelle caratteristiche del Prosecco le qualità migliori, quelle inimitabili. In 10 anni c'è stata crescita tale che a volte non ci si riesce a starle dietro nel fare comunicazione. È fondamentale puntare non solo a chi lo beve ma anche a chi lo ama, lì arriva un messaggio più chiaro, e c'è una scelta del prodotto più precisa. È un lavoro che possiamo fare da soli come aziende ma anche attraverso la comunità o i consorzi.

 

Com'è andata la stagione 2017?

Siamo partiti malissimo, abbiamo avuto qualche gelata nel piede delle colline, che ha toccato per fortuna una percentuale minima del territorio, poi la stagione è stata molto bella fino a luglio - qui qualche pioggia c'è stata a differenza di altre zone - fioritura e legagione sono state splendide. Abbiamo avuto una quantità leggermente inferiore di grappoli e un peso medio di poco superiore. Alla fine dei conti una produzione è ridotta ssolo del 5-6%. Agosto poi è stato molto caldo e senza pioggia anche qui. Chi ha potuto ha fatto una piccola irrigazione di soccorso.

 

Per quanto riguarda la vendemmia?

Le uve sono sane, perfette, e molto buone con un rapporto preciso tra acidità e zucchero. Poi però durante la vendemmia siamo andati a singhiozzo, perché ci sono state delle piogge, quindi abbiamo uve raccolte tra il 7 e il 10 settembre e altre più tardi, quindi con un livello di maturazione più avanzato. Ci sarà da divertirsi con le cuvée.

 

Ultima domanda: le colline del Prosecco, secondo lei, diverranno patrimonio Unesco?

È come chiedere a un ragazzo che studia se sarà promosso... Secondo me abbiamo ampie possibilità, è un territorio pregiato. Recentemente abbiamo avuto una lunga visita proprio per verificare sul territorio che quanto dichiarato in fase di candidatura come sito Patrimonio Unesco rispondesse a verità. Ora vedremo, mi auguro di sì. Questo costringerà insieme delle persone - a prescindere da azienda, associazione o comune - a lavorare insieme per mantenere questo territorio e le caratteristiche per cui abbiamo chiesto di essere Patrimonio Unesco. Ora gli unici che possono rovinare questa cosa sono i produttori stessi che non credendo nelle nostre potenzialità e pensano basti fare e vendere tante bottiglie senza considerare nient'altro.

 

Adami |Colbertaldo di Vidor (TR) | via Rovede, 27 | tel 0423 982110| http://www.adamispumanti.it/

 

a cura di Antonella De Santis e William Prgentelli

 


Anteprima Tre Bicchieri 2018. Toscana

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L'anticipazione dei premiati della nuova guida Vini d'Italia 2018 oggi ci porta a scoprire i migliori vini della Toscana.

Regione di grande tradizione vitivinicola, culla di denominazioni la cui fama non teme confronti, ospita da secoli nobiltà e certezze, aziende che affondano le proprie radici in quel passato fatto di commercio, intelligenze e intuito, conquista e latifondo. Ma limitare la visione della Toscana a questo sarebbe non solo ingeneroso ma decisamente fuorviante. Perché questa regione in realtà non smette di stupire, cercare, proporre. A volte seguendo la tradizione pedissequamente, altre interpretandola in chiave contemporanea, altre facendo saltare il banco con irriverenza e coraggio da vendere, fregandosene di paradigmi e certezze e osando là dove i più indietreggiano.

Il Chianti Classico ci fa come sempre sognare. Selvaggio, aeroso, melanconico, umorale e luminoso, questo magico territorio può essere tutto e il contrario di tutto. I vini lo raccontano, e quando lo fanno senza esitazioni toccano corde profonde e ci fanno letteralmente innamorare. Così sono ben 21 i Tre Bicchieri alla denominazione - di cui 8 dalla vendemmia 2014 che, sulla carta, non faceva sperare in nulla di degno di nota- e 7 agli Igt che interessano la stessa area. Tra questi alcuni vini di aziende che vanno a segno per la prima volta: Buondonno, Dievole e Il Guercio, la nuova avventura di Sean O'Callaghan.

Chianti Classico chiama e Montalcino risponde: 14 i vini premiati con un successo clamoroso dei Rosso '15, ben quattro, che, complice un'annata adattissima alla tipologia, regalano leggiadria, souplesse e articolazione. La 2012 sfodera qualche bel fuoriclasse, ma va detto che a differenza di tanta critica che l'ha osannata a noi è sembrata meno interessante del previsto. Anche qui non mancano le novità a Tre Bicchieri: Corte dei Venti e Le Macioche con il Brunello '12 e Palazzo con il Rosso '15.

Soffre invece la costa, a nord come a sud. A Bolgheri e in Maremma i vini importanti arrivano proprio da quel 2014 che qui non ha fatto sconti a nessuno. Nemmeno chi agguanta il massimo riconoscimento lo fa con facilità, piuttosto mettendo in campo esperienza e savoir faire. Chiudiamo ricordando che oltre alle macro denominazioni già citate sono molte quelle più circoscritte, per ampiezza e capacità produttiva, ma non meno interessanti: dal Vino Nobile di Montepulciano alla Vernaccia di San Gimignano, da Cortona a Montecucco, dalla Valdarno al Carmignano... Una particolare menzione al Vermentino '16 di San Ferdinando, bianco della Val di Chiana affilato e scattante, e all'Ameri '15 di Podere San Cristoforo, Governo all'Uso Toscano da brivido.

 

I vini della Toscana premiati con Tre Bicchieri

 

Al Passo ’14 - Tolaini

Altrovino ’15 - Duemani

Ameri Governo all'Uso Toscano ’15 - Podere San Cristoforo

Baron'Ugo ’13 - Monteraponi

Bolgheri Sassicaia ’14 - Tenuta San Guido

Bolgheri Sup. Grattamacco ’14 - Grattamacco

Bolgheri Sup. Ornellaia ’14 - Ornellaia

Bolgheri Sup. Paleo ’14 - Le Macchiole

Bolgheri Sup. Sondraia ’14 - Poggio al Tesoro

Brunello di Montalcino ’12 - Biondi Santi - Tenuta Il Greppo

Brunello di Montalcino ’12 - Brunelli - Le Chiuse di Sotto

Brunello di Montalcino ’12 - Le Chiuse

Brunello di Montalcino ’12 - Corte dei Venti

Brunello di Montalcino ’12 - Poggio di Sotto

Brunello di Montalcino ’12 - Salvioni

Brunello di Montalcino Giodo ’12 - Giodo

Brunello di Montalcino Poggio al Vento Ris. ’10 - Tenuta Col d'Orcia

Brunello di Montalcino Ris. ’11 - Le Macioche

Brunello di Montalcino V. Schiena d'Asino ’12 - Mastrojanni

Carmignano Ris. ’14 - Tenuta Le Farnete/Cantagallo

Carmignano Ris. ’14 - Piaggia

Chianti Cl. ’15 - Badia a Coltibuono

Chianti Cl. ’15 - Borgo Salcetino

Chianti Cl. ’14 Castello di Albola

Chianti Cl. ’15 - Castello di Monsanto

Chianti Cl. ’15 - Castello di Radda

Chianti Cl. ’15 - Castello di Volpaia

Chianti Cl. ’14 - Le Cinciole

Chianti Cl. ’15 - Le Miccine

Chianti Cl. Belcanto ’15 - Fattoria Nittardi

Chianti Cl. Brolio Bettino ’15 - Barone Ricasoli

Chianti Cl. Casavecchia alla Piazza ’15 - Buondonno - Casavecchia alla Piazza

Chianti Cl. Gran Sel. ’14 - Tenuta di Lilliano

Chianti Cl. Gran Sel. Riserva di Fizzano ’14 - Rocca delle Macìe

Chianti Cl. Gran Sel. V. del Sorbo - ’14 Fontodi

Chianti Cl. Lamole di Lamole Et. Blu ’14 - Lamole di Lamole

Chianti Cl. Montaperto ’15 - Fattoria Carpineta Fontalpino

Chianti Cl. Novecento Ris. ’14 - Dievole

Chianti Cl. Ris. ’14 Bandini - Villa Pomona

Chianti Cl. Ris. ’14 Brancaia

Chianti Cl. Ris. ’14 Val delle Corti

Chianti Cl. V. Istine ’15 - Istine

Cortona Syrah ’14 - Stefano Amerighi

I Sodi di S. Niccolò ’13 - Castellare di Castellina

Lupicaia ’13 - Castello del Terriccio

Maremma Toscana Alicante Oltreconfine ’15 - Bruni

Maremma Toscana Ciliegiolo V. Vallerana Alta ’15 - Antonio Camillo

Maremma Toscana Rocca di Frassinello ’15 - Rocca di Frassinello

Montecucco Sangiovese Poggio Lombrone Ris. ’13 - Colle Massari

Montevertine ’14 - Montevertine

Morellino di Scansano Madrechiesa Ris. ’14 - Terenzi

Morellino di Scansano Ribeo ’15 - Roccapesta

Nobile di Montepulciano ’14 - Tenute del Cerro

Nobile di Montepulciano ’14 - Maria Caterina Dei Nobile di Montepulciano ’14 - Salcheto

Nobile di Montepulciano Asinone ’14 - Poliziano

Nobile di Montepulciano Il Nocio ’13 - Poderi Boscarelli

Oreno ’15 - Tenuta Sette Ponti

Orma ’14 - Orma

Petra Rosso ’14 - Petra

Pinot Nero ’14 - Podere della Civettaja

Rosso di Montalcino ’15 - Baricci

Rosso di Montalcino ’15 - Capanna

Rosso di Montalcino ’15 - Palazzo

Rosso di Montalcino ’15 - Uccelliera

Saffredi ’14 - Fattoria Le Pupille

Sapaio ’15 - Podere Sapaio

Siepi ’15- Castello di Fonterutoli

Terre di Pisa Nambrot ’15 - Tenuta di Ghizzano

Valdarno di Sopra Galatrona ’14 Fattoria Petrolo

Vermentino ’16 San Ferdinando

Vernaccia di S. Gimignano Sanice Ris. ’14 - Vincenzo Cesani

Vernaccia di S. Gimignano Tradizionale ’15 - Montenidoli

Vigorello ’13 - San Felice

Vin Santo del Chianti Occhio di Pernice Fonti e Lecceta ’11 - Torre a Cona

Vin Santo di Carmignano Ris. ’10 - Tenuta di Capezzana

 

 

Gastronomika 2017. Temi, protagonisti e conclusioni del congresso gastronomico di San Sebastian

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Proiettata alla scoperta dell'India, la 19esima edizione della rassegna basca ha portato sul palco tanti protagonisti della ristorazione spagnola e 14 rappresentanti della moderna cucina indiana, Gaggan Anand in testa. Viaggio, libertà e contaminazioni i temi più gettonati. L'importanza della sala con Josep Roca. 

La Spagna che accoglie l'India. E l'India, con i suoi chef migliori, che è ben felice di farsi scoprire. Ma sul palco di Gastronomika, a San Sebastian, si è spaziato ben oltre il tema annunciato. Con il desiderio di rappresentare quell'approccio glocal al quale la grande cucina d'autore è sempre più propensa ad aprirsi. C'è la specificità territoriale, quindi, con le molteplici tradizioni gastronomiche della penisola iberica, ma anche la suggestione del viaggio, e il desiderio di contaminazione. Elementi diversi, ma complementari, della narrazione gastronomica d'avanguardia che ha tenuto banco alla 19esima edizione del festival di San Sebastian – appena concluso – tra i primi congressi per addetti ai lavori a essersi interrogato sul futuro della cucina professionale. Il prossimo anno, nel 2018, Gastronomika festeggerà il suo 20esimo anniversario con un'edizione speciale: lo annuncia sul palco del Kursaal Hilario Arbelaitz, a nome del comitato organizzatore.

Noi, intanto, facciamo il punto sull'edizione appena terminata, selezionando gli interventi e i temi salienti delle quattro giornate (dall'8 all'11 ottobre), giocate sul doppio binario dell'alta cucina spagnola e degli spunti in arrivo dall'Asia, con i rappresentanti della nazione ospite del 2017, l'India, “misteriosa, affascinante, magica, sconosciuta, esotica, infinita”, recita l'introduzione al programma. Nei giorni passati la città basca ha visto sfilare i più celebrati protagonisti della ristorazione iberica, dai fratelli Roca a Josean Alija, a Martin Berasategui e Oriol Castro con Eduard Xatruch. Con loro tanti chef indiani di fama internazionale, il più atteso, indubbiamente, Gaggan Anand. E poi ospiti di rilievo dall'Europa della cucina d'autore, come il portoghese Josè Avillez e l'italo-argentino, di base a Menton, Mauro Colagreco. Per tutti il compito di portare gli esiti della propria ricerca sul palco, chi allineando una lunga sequenza di piatti, chi con il supporto della tecnologia digitale (molti i video e le performance spettacolari viste quest'anno).

 

Gaggan Anand: Lo chef numero uno di Bangkok arriva sul palco nella giornata dedicata ai big della ristorazione spagnola e racconta la sua cucina fatta di “sogni, nostalgia, follia”. A introdurlo le note di Lick it up, sullo schermo un video quasi didascalico, che spiega come si mangia, da Gaggan, il piatto che rende omaggio alla canzone dei Kiss, e richiede il solo utilizzo della lingua. Del resto, e Gaggan lo ribadisce alla platea di San Sebastian, il suo menu degustazione, 23 portate in tutto, è un percorso da affrontare con le mani, senza posate. Eccola, la sua cucina d'avanguardia, debitrice della scuola Adrià come delle ricette della tradizione indiana, portate a un nuovo livello di comprensione.

I grandi di Spagna: Josean Alija, Carme Ruscalleda, Elena Arzak, Andoni Luis Aduriz, Albert Adrià, Martin Berasategui, Joan Roca. È la Spagna delle molteplici identità territoriali, culturali e gastronomiche ad avvicendarsi sul palco. Non quella delle rivendicazioni personali e campanilistiche però, diversamente da quanto sta avvenendo su altri palcoscenici nelle ultime settimane. A beneficiarne è l'immagine di una scena gastronomica nazionale proiettata nel mondo, divertita e divertente, ormai da diversi anni a questa parte. Alija, nell'anno delle celebrazioni per il 20esimo compleanno del Guggenheim, racconta “il viaggio nella nostra evoluzione”, ispirato dal Messico; il team di Disfrutar, tra le tavole più in forma del momento, da Barcellona, esemplifica il concetto di tecnica al servizio del prodotto, con un excursus approfondito sulle noci; Albert Adrià porta sul palco la famiglia di elBulli e celebra la storia dell'impresa Adrià tra mille effetti speciali. Gastrourbanismo de Vanguardia il titolo, significativo, del suo intervento. Martin Berasategui, invece, incentra il suo discorso sul pane, nelle 15 varianti che producono le sue brigate. Joan Roca, infine, sale sul palco... E cucina. Una sequenza di piatti illuminati (e illuminanti), che uno dopo l'altro illustrano gli ultimi esiti delle ricerche del Celler de Can Roca, oggi concentrate a ricostruire la biodiversità spagnola, e le molteplici suggestioni delle tradizioni iberiche regionali. Un viaggio tra i viaggi, che passa dalla scoperta del mondo alla riscoperta del proprio Paese. E dichiara, attraverso il cibo, l'amore per la propria terra.

L'omaggio a Michel Bras: è il maestro della cucina francese, cui si riconosce anche il merito di aver creduto per primo nella cucina vegetale e naturale, a essere omaggiato sul palco di Gastronomika 2017 per la sua importanza nella storia della cucina internazionale. E Andoni Luis Aduriz è l'allievo eccellente che gli rende omaggio. Lo chef del Mugaritz parla di ragione e immaginazione, ordine e caos, e di come l'insieme dei due elementi abbia sempre ispirato la sua cucina.

L'importanza della sala: “Servir. El arte supremo”. È la sintesi dell'intervento che riunisce sul palco Josep Roca, Ferran Centelles (maitre sommelier in forze alla squadra di Adrià) e Javier de las Muelas (fondatore del cocktail bar Gimlet di Barcellona), nella giornata che più volte torna ad approfondire il rapporto tra cucina e sala, e l'importanza del cameriere: “Il servizio è una professione che merita lo stesso rispetto corrisposto alla cucina. Servire è un atto d'amore e il cameriere conta quanto il cuoco” spiega Josep, che coordina una delle sale più celebrate del mondo. L'idea che sta alla base è semplice: “Non si va al ristorante solo per mangiare, ma per vivere un'esperienza. E noi dobbiamo renderlo possibile”. Segue l'omaggio a Juli Soler, protagonista in passato della rivoluzione della sala in Spagna e il premio alla carriera a un altro grande veterano della sala, Louis Villeneuve, dall'Hotel de Ville di Losanna.

I numeri della 19esima edizione: 40 relatori sul palco e oltre 60 chef coinvolti; 160 aziende gastronomiche riunite nello spazio del mercato; 14 protagonisti della cucina indiana contemporanea; il 20% in più di presenze internazionali in platea, su oltre 1500 accreditati, di cui 412 giornalisti; e oltre 13mila accessi al festival. 

 

a cura di Livia Montagnoli

La Rinascente Tritone apre a Roma. Foto e protagonisti della food hall con terrazza mozzafiato

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Un ristorante d'autore affidato alla cucina di Riccardo Di Giacinto, che coordina pure la proposta del cocktail bar in terrazza, al settimo piano; l'enoteca-bistrot di Feudi di San Gregorio e il sushi brasiliano di Temakinho. E ancora il juice bar di ViviBistrot e la pasticceria di Bompiani. La food hall della nuova Rinascente di Roma apre le porte al pubblico. 

Inaugura la Rinascente Tritone

L'attesa è finita. Dopo undici anni di cantiere, uno scavo archeologico che ha riportato alla luce una porzione dell'Acquedotto Vergine e una ristrutturazione che ha interessato 15mila metri quadri su otto piani, La Rinascente Tritone si è rivelata alla città. Nel centro di Roma, con ingressi su via del Tritone e via dei Due Macelli, lo store del gruppo thailandese Retail Center è il secondo in città, il più ambizioso. E arriva nell'anno dei festeggiamenti per il centenario del brand fondato a Milano nel 1917. In numeri, il progetto ha richiesto 250 milioni di investimenti (di cui 50 a carico dei brand concessionari degli spazi), ma l'idea è quella di eguagliare i risultati dello store milanese, che accoglie 8 milioni di visitatori ogni anno. Certo, l'ambizione del progetto fa ben sperare. Penultimo e ultimo piano, con straordinaria terrazza su tetti e cupole della Capitale, ospitano la food hall -  a immagine e somiglianza della gemella meneghina  - di cui avevamo anticipato qualcosa qualche settimana fa, confermando la presenza di Riccardo Di Giacinto e Ramona Anello, con il ristorante gastronomico del sesto piano e l'uso esclusivo della terrazza lounge bar al settimo. Ora che il mall è ufficialmente aperto, percorriamo la food hall alla scoperta di tutte le realtà coinvolte, con il supporto delle prime, suggestive, immagini dello spazio, a cura dello studio londinese Lifschutz Davidson Sandilands (ma sono diversi gli studi di architettura internazionali coinvolti nella ristrutturazione dell'intero complesso, dalla facciata di Vincent van Duysen al terzo piano di Paolo Lucchetta per la moda uomo).

La food hall. Chi c'è

Riccardo Di Giacinto e il suo team, dunque, articoleranno la proposta gastronomica di MadeITerraneo terrace restaurant – cucina mediterranea, da bistrot d'autore, con offerta che cambia nel corso della giornata - mentre all'ultimo piano l'Up Sunset Bar, con i suoi divanetti verde pastello, le palmette, gli ombrelloni ecru e l'incredibile vista a 360 gradi sulla città, funzionerà da cocktail bar con cucina indipendente, con la possibilità di gustare una pizza in terrazza.

Ma nella food hall del sesto piano hanno trovato spazio anche il sushi brasiliano di Temakinho (il terzo locale in città, dopo Monti e Prati), ben riconoscibile con la sua carta da parati sgargiante, e un nuovo corner di ViviBistrot, già presente in centro città all'interno di Palazzo Braschi.

Meno annunciata, la presenza della pasticceria Bompiani, con le creazioni del pasticcere Walter Musco: una variegata proposta al banco di macaron, biscotti e praline, che completa l'offerta dolce a scaffale.

La cantina Feudi di San Gregorio, invece, presenta la propria selezione di vini in abbinamento con una proposta di gastronomia fredda e cucina della tradizione: un bistrot ispirato alla tradizione romana, con un'ampia scelta di etichette delle aziende del gruppo vinicolo, alla mescita o in bottiglia. Aperto dalla tarda mattinata fino a sera proporrà spuntini, pranzo, aperitivo e cena, nello spazio di una bottega alimentare di stampo contemporaneo, che presta grande attenzione alla valorizzazione delle materie prime, di Lazio e Campania. Per l'aperitivo, oltre ai taglieri di salumi e formaggi (comprese la selezione Carmasciando di Avellino, mozzarella di bufala e burrata), sott'oli e conserve di pesce, da accompagnare con la pizza bianca romana. Dalla cucina, invece, spaghetti alla carbonara, tonnarelli cacio e pepe, saltimbocca e baccalà alla romana, oltre ai burger di manzo (o ceci, nella variante vegetariana), l'uovo bio al tegamino, il minestrone dell'orto.

Qualche dubbio che l'impresa sarà un successo?

 

Rinascente Tritone | Roma | via del Tritone, 61 | www.rinascente.it

 

a cura di Livia Montagnoli

Foto di Lucilla Loiotile

 

Food Coop. A Bologna arriva Camilla, il primo supermercato autogestito dai clienti

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Da 44 anni negli Stati Uniti esiste un format di supermercato innovativo, totalmente autogestito dai clienti stessi, che diventano titolari e manager dell'emporio. Dopo aver replicato la formula di successo a Parigi e Bruxelles, nel 2018 il progetto sbarcherà anche in Italia, a Bologna.  

L'esempio di New York

A New York esiste già dal 1973, in Francia dal 2016 e a Bruxelles da una settimana. Nel 2018 sarà la volta di Bologna, dove sarà inaugurato il primo supermercato autogestito d'Italia. Uno spazio dove i clienti sono anche soci impegnati attivamente nello sviluppo e nella gestione del negozio, improvvisandosi cassieri, magazzinieri, commessi. Il vantaggio? La riduzione dei costi, la giusta ripartizione fra i fornitori, e la possibilità di consumare sempre prodotti freschi e di qualità. In principio fu il FoodCoop di Park Slope, a Brooklyn, a fare da apripista per questo sistema innovativo di fare la spesa, un emporio in cui gli acquirenti sono anche venditori, in contatto diretto con i produttori. Park Slope conta oggi 17mila soci, che svolgono il 75% di tutto il lavoro necessario per gestire il supermercato, uno spazio dove poter scegliere fra oltre 15mila prodotti diversi a un prezzo mediamente inferiore del 20% rispetto a quello degli altri magazzini. Per diventare membri di questa comunità a tutti gli effetti, basta versare una piccola quota annuale (circa 100 euro), che sarà reinvestita a sostegno del progetto.

Camilla a Bologna

È stata poi la volta de La Louve a Parigi, con 3mila soci per 1500 metri quadri di esposizione, e infine di BeesCoop a Bruxelles, partito in corsa la scorsa settimana con circa 300 soci. In Francia l'iniziativa ha preso particolarmente piede, e non solo nella capitale: sono infatti 30 oggi le realtà simili sparse per il Paese. In Italia, sarà Bologna ad accogliere il primo supermercato autogestito, Camilla. A realizzarlo, Alchemilla GAS, in collaborazione con l'Associazione Campi Aperti, organizzazione di produttori biologici e contadini del territorio. Alimenti bio ed eco-sostenibili saranno protagonisti sugli scaffali del supermercato, sistemati e riordinati quotidianamente dai membri associati. “Qui prevedere che i soci di una cooperativa di consumo mettano a disposizione una quota di tempo, che facciano cose che sembrano lavoro ma non lo sono, non è semplicissimo, però un modo per farlo lo stiamo trovando”, ha commentato Giovanni Notarangelo, tra i primi promotori di Camilla. “Per ora abbiamo 150 sottoscrittori, ma il primo incontro pubblico c'è stato solo pochi giorni fa. L'interesse è alto, da parte dei produttori come dei consumatori”.

Il documentario

A raccontare questa esperienza che si sta diffondendo un po’ in tutto il mondo ci ha pensato Thomas Boothe, fondatore de La Louve, nel documentario “Food Coop”. Americano di nascita ma parigino di adozione, Thomas ha deciso di replicare l'esperienza di Park Slope nella capitale francese, dopo uno studio durato 5 anni. Nella sua pellicola, il regista racconta i passaggi che hanno portato al risultato finale, registrando il lavoro volontario di tutti i collaboratori, e creando così un documentario sui generis che mostra nei dettagli l'intero progetto. In previsione dell'apertura di Camilla, il film sarà trasmesso a breve anche nelle sale italiane, con una prima assoluta fissata per il prossimo 14 novembre a Bologna.

 

a cura di Michela Becchi

G7 dell'Agricoltura. Appuntamento a Bergamo per i grandi del mondo agricolo

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Dalla Carta del Biologico alla Dichiarazione sulle Indicazioni Geografiche, dalla discussione sulla Pac alla risposta ai cambiamenti climatici. Ecco di cosa si sta parlando nel G7 dell'Agricoltura. Intanto il monastero di Astino si trasforma in un tempio gourmet

La Settimana dell’Agricoltura e del diritto al cibo

Da Milano a Bergamo il passo è stato breve. Un percorso durato due anni e che sposta i riflettori dall'Expo del 2015 al G7 dell'Agricoltura nella città orobica, ma sempre sullo stesso fil rouge di Nutrire il pianeta. A fare, letteralmente, gli onori di casa, c'è ancora lui, il ministro delle Politiche Agricole Maurizio Martina, che nella provincia di Bergamo è nato e cresciuto e che adesso presiede il tavolo del Summit di Palazzo della Ragione alla presenza dei suoi colleghi dei Paesi più potenti del mondo (Francia, Germania, Giappone, Regno Unito, Canada e Stati Uniti).

Dopo l'appassionante esperienza che abbiamo vissuto a Expo Milano” spiega il Ministro “torna nelle nostre terre un momento internazionale di grande rilievo per confrontarsi sulle azioni e sulle responsabilità da esercitare in campo agricolo e alimentare per produrre meglio, sprecando meno e per garantire livelli di sostenibilità sempre maggiori al futuro dell'agricoltura globale”. Le domande sul tavolo del confronto internazionale sono molteplici: come sostenere la svolta ecologica? Come tutelare meglio i medi e piccoli produttori di fronte ai rischi determinati dalle calamità, dal cambiamento climatico e dalla volatilità dei prezzi? Come sviluppare un'efficace cooperazione agricola? “C'è bisogno di risposte internazionali” chiosa Martina “Anche per questo, a due anni da Expo, l'Italia rilancia il suo contributo a questa agenda globale”.

 

Per il G7 dell'Agricoltura è la seconda volta in Italia

In realtà, l'appuntamento di Bergamo è un ritorno in Italia. Il primo G7 dell'Agricoltura (anzi, ai tempi era un G8: al tavolo c'era anche la Russia) si tenne proprio nel Belpaese nel 2009, voluto dall'allora ministro delle Politiche Agricole Luca Zaia. Teatro del Summit era stato Castelbrando, in provincia di Treviso. Il secondo appuntamento è più recente, del 2016, e si è svolto a Niigata, in Giappone.

I lavori di quest'anno, invece, si svolgono il 14 e il 15 di ottobre e coinvolgono, oltre ai sette Ministri, anche Fao, Ocse, Ifad, World Food Programme su quattro principali filoni: sicurezza alimentare, gestione dei rischi in agricoltura, spreco alimentare e lotta ai cambiamenti climatici.

Ma di fatto, i “giochi” sono già iniziati: dal 7 ottobre, Bergamo è teatro di un fitto programma di incontri che stanno coinvolgendo associazioni di categoria, istituzioni, e produttori.

La Carta del Biologico di Bergamo

Uno degli obiettivi prefissati dall'Italia, per questo G7, è mettere nero su bianco una Carta del biologico, che si ponga in continuità con quella già scritta all'Expo di Milano. Per questo a Bergamo si è tenuto l'incontro Il biologico come modello di sistemi agricoli sostenibili,che ha messo i principali attori del settore attorno a un tavolo per definirne i punti essenziali del documento, come ci racconta il presidente Federbio Paolo Carnemolla: “Partendo dai principi fissati nella Carta del Bio di Expo, abbiamo voluto richiamare le caratteristiche che rendono il modello di agricoltura biologica e il percorso di transizione, l’innovazione più efficiente per rispondere alle grandi sfide dell’agricoltura anche nei Paesi del G7. Per questo, con la Carta di Bergamo chiediamo alla Presidenza italiana del G7 agricolo di portare al tavolo dei ministri questa opzione strategica, e di proporre azioni di cooperazione che consentano di sviluppare questo percorso impegnativo nei Paesi che guidano l’economia mondiale”. Si vuole, quindi, fare un passo in avanti rispetto alla Carta del Biologico di Milano, con la quale si era chiesto di mettere il tema della transizione al biologico fra le opzioni nel dibattito alla COP 21 di Parigi sulla lotta al cambiamento climatico e nella discussione sui nuovi obiettivi del millennio in ambito Onu. “A Parigi” dice Carnemolla “non si è discusso abbastanza del ruolo che può avere l’agricoltura per decarbonizzare il nostro sistema produttivo anche attraverso i principi dell’economia circolare, mentre proprio i 17 obiettivi fissati dall’Onu per la sostenibilità rendono chiaro come solo una massiccia transizione al modello agricolo biologico ne potrà consentire la piena attuazione. Crediamo, quindi, di aver anzitutto posto le basi per un approccio all’opzione del biologico non più solo su base culturale o etica ma anche scientifica e economica”.

 

Il G7 delle Indicazioni Geografiche

Altro documento condiviso, prodotto all'interno di questo G7, è la cosiddetta Dichiarazione di Bergamo sulle Indicazioni Geografiche, stilata nella conferenza G7 delle Indicazioni Geografiche, che ha coinvolto oltre 30 rappresentanze da quattro continenti. “I punti cardine della dichiarazione” ha subito commentato il ministro Martina “sono in linea con la nostra azione e, in qualità di Presidenza del G7 Agricoltura, li assumo come punto di impegno. Vogliamo lanciare un segnale forte per ridare spinta ai sistemi di protezione multilaterali in un momento storico cruciale in cui assistiamo invece a un ripiegamento verso antiche logiche protezionistiche”.

Se vogliamo vederla lunga e dare anche un'interpretazione politica”è il commento del direttore di Qualivita Mauro Rosati “credo che anche dalla tutela delle Ig possa partire una riaffermazione del ruolo dell'Unione Europeadi fronte a localismi e separatismi: se l'Ue sarà grado di garantire un mercato stabile, forte e soprattutto tutelato, verranno meno anche gli interessi a dissociarsi, anzi prevarrà un maggiore senso di comunità. Per questo al centro della discussione del G7 dell'Agricoltura, abbiamo voluto mettere il tema delle Ig con quattro filoni strategici e altrettanti richiami ai potenti del mondo per intervenire”.

 

I 4 punti della Dichiarazione delle Ig

Il primo punto della Dichiarazione delle Ig di Bergamo riguarda i Trattati internazionali: “il nostro è un richiamo a continuare a lavorare in questa direzione, servendosi di quello che riteniamo uno dei maggiori strumenti per garantire la parità di riconoscimento delle Ig”. Dopo il Ceta, ormai entrato in vigore - sebbene in regime provvisorio - i riflettori sono adesso puntati su Giappone e Cina.

Il secondo tema riguarda la sostenibilità: “Oggi la qualità e il riconoscimento sul mercato passa anche dalla sostenibilità” spiega il direttore “per questo vogliamo dire ai ministri di continuare a destinare fondi a questo ambito, inserendo l'off grid nella prossima Pac per dare maggiori stimoli e strumenti ai produttori per investirvi”.

Altro filone è quello della cooperazione: “Siamo convinti” continua il direttore“che le indicazioni geografiche siano un grande strumento di crescita anche per i Paesi in via di sviluppo, per poter portare sul mercato le piccole produzioni non tutelate. In questo senso, Italia e Francia hanno dato la loro disponibilità a fare, in un certo senso, da tutor ai Paesi emergenti: avere più indicazioni geografiche sul mercato non indebolisce le nostre, ma anzi serve a creare un sistema di cooperazione”.

Infine, la tutela via web, attraverso la trasparenza della Internet governance, con il coinvolgimento degli stakeholders, sia per la gestione da parte di Icann del sistema assegnazione dei nomi di dominio di primo livello e di secondo livello, sia per l’utilizzo dei nomi delle Ig nei portali di e-commerce e nei motori di ricerca. “Oggi” conclude Rosati“l'Italia si è accorta delle fake news – un tema che riguarda tutto lo scibile, compresi i prodotti Ig - ma di fatto è un fenomeno che esiste da anni. Per quel che riguarda le indicazioni geografiche vorremmo che il problema venisse anticipato, attraverso strategie comuni. Una su tutte? Spesso abbiamo chiesto ai motori di ricerca il diritto all'oblio, magari si può dare degli input agli stessi per dare le informazioni e delle indicizzazioni corrette. Se in rete si continua a parlare di Semisecco o Whitesecco al posto di Prosecco, gli americani continueranno ad acquistare quello. È il rischio di avere a che fare, non più con un mondo locale, ma con un mercato internazionale”.

 

Cambiamenti climatici e Pac

Altro capitolo, altro incontro. Quello sui cambiamenti climatici, su cui si è, invece, focalizzato il Crea nei diversi momenti di confronto di Bergamo. “Non possiamo più ignorare le conseguenze dei cambiamenti climatici” ha detto il direttore dell'Unità di ricerca per la viticoltura del Crea Paolo Storchi Lo abbiamo visto anche per quel che riguarda l'annata in corso e probabilmente dovremo abituarci a periodi lunghi simili a quelli di quest'anno, con alte temperature e senza piogge. Anche per questo, bisognerà ripensare alle nostre basi ampelografiche, magari introducendo nuovamente vitigni tardivi messi da parte in passato. Oltre a insistere su progetti di ricerca di varietà resistenti”.Fondamentale in questo senso si rivela la collaborazione internazionale, attraverso programmi di ricerca come Horizon 2020. Non da meno le scelte comunitarie della prossima Pac dovranno, in qualche modo, tener conto delle nuove esigenze: “Penso alla distribuzione dei diritti d'impianto” continua Storchi “oggi, alla luce dei cambiamenti climatici, potrebbe sorgere la necessità di cambiamenti di altitudine per l'impianto di certi vitigni. Cosa che al momento si scontra con il sistema delle autorizzazioni previsto dalla Pac 2014-2020”. Trovare un modo per una ridistribuzione meno rigida potrebbe essere una via possibile. Oltre a una delle tematiche che saranno affrontate, da più parti, nei prossimi giorni dal G7 in corso. Dal canto suo il Crea, invoca una Pac 2020 più flessibile (in grado di affrontare con rapidità i cambiamenti di un’agricoltura in continuo evoluzione), territoriale (che coinvolga e aggreghi soggetti diversi intorno a obiettivi comuni) e verde (in grado di misurare gli impatti ambientali a livello territoriale, attraverso la predisposizione di incentivi per il raggiungimento di target ambientali prefissati). “Solo in questo modo” si legge nel documento stilato dal Centro di ricerca “verrebbe riconosciuta e valorizzata la rilevanza della diversità dei sistemi agricoli e dei differenti modelli di agricoltura presenti nell’Ue”.

 

Le ultime novità dal Trilogo sul regolamento Omnibus

Per parlare di Pac è volato a Bergamo anche Paolo De Castro, il primo vice presidente della Commissione agricoltura del Parlamento europeo e capo del team negoziale del PE, reduce proprio dal quarto e ultimo Trilogo di Bruxelles tra Consiglio, Commissione e Parlamento sul regolamento Omnibus, in vista della Pac 2020-2026. “L’accordo fra Parlamento europeo, Commissione e Consiglio è stato raggiunto” ha annunciato “Come Parlamento europeo siamo molto soddisfatti: la proposta approvata in Commissione agricoltura è stata infatti adottata quasi interamente. Molte sono le novità contenute nella riforma di medio termine della Pac che siamo certi riusciranno a creare le condizioni per un miglioramento della posizione dei nostri agricoltori all’interno della filiera agro-alimentare, ad allargare la possibilità di accesso agli strumenti di gestione dei rischi e a semplificare l’applicazione del greening dell’attuale Pac”. Soffermandosi sul sistema vitivinicolo, l'europarlamentare ha spiegato che “le misure previste dalla Riforma Omnibus per le autorizzazioni per gli impianti viticoli saranno tre. La prima riguarda la possibilità che verrà data ad ogni Stato Membro - come richiesto dall’Italia - di definire limiti minimi e massimi di assegnazione di nuovi diritti per richiedente. La seconda escluderà dalla platea dei beneficiari dei nuovi diritti di impianto i richiedenti in possesso di superfici vitate impiantate in precedenza senza autorizzazione. Infine, ogni Stato Membro potrà decidere se utilizzare lo status di giovane agricoltore, per gli agricoltori sotto i 40 anni, come criterio per la concessione di nuovi diritti di impianto in modo addizionale a quelli attualmente previsti”.

 

Astino del gusto: il programma gourmet

Se Bergamo è la Capitale dell'agricoltura, il monastero di Astino è per tre giorni (13-15 ottobre) il suo tempio del gusto, con la partecipazione di 16 chef di alto rango, 4 pizzerie d'autore, 8 pasticcerie, 16 produttori e 32 cantine East Lombardy. Guest chef della kermesse e protagonisti dei cooking show live saranno Carlo Cracco, Heinz Beck, Antonino Cannavacciolo, Antonia Klugmann, Davide Oldani, Enrico e Roberto Cerea. Il programma completo su www.astinonelgusto.it

 

a cura di Loredana Sottile

 

http://www.astinonelgusto.it

Questo articolo è uscito sul nostro settimanale Tre Bicchieri del 12 ottobre

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