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Whole Foods ruba clienti a Walmart, che si inventa la consegna a domicilio direttamente in frigo

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Dopo l'acquisto di Whole Foods da parte di Amazon, è guerra aperta nella gdo americana. La nuova politica dei prezzi della più celebre catena di organic food preoccupa i competitor, mentre permette all'insegna fondata nel 1976 di rifiatare. Ma a che costo, per gli altri? Ecco come risponde Walmart. 

Whole Foods. L'era Amazon

A giugno scorso Amazon comprava Whole Foods per quasi 14 miliardi di dollari, investendo in modo mirato sull'alimentare, dopo il riposizionamento che negli ultimi due anni ha portato il colosso dell'e-commerce ad assumere un peso crescente nel circuito della grocery online. Con l'acquisizione della prima catena di supermercati specializzata in cibo organico nella storia degli Stati Uniti (fondata nel 1976 dal texano John Mackey), Jeff Bezos si assicurava così il controllo di un attore di peso della grande distribuzione in America e Regno Unito, mettendo le mani sui 460 punti vendita della catena, toccata nell'ultimo anno da una profonda crisi economica. Alla fine di agosto, inevitabile, l'annuncio della nuova proprietà: una nuova politica dei prezzi per rilanciare Whole Foods e i suoi prodotti biologici, con la speranza di ritornare competitivi sul mercato. Un ribasso limitato inizialmente al fresco, che in futuro, se la scelta si rivelerà fruttuosa, dovrebbe toccare anche gli altri articoli in catalogo. E una sfida decisa alla concorrenza, chiamata ad accogliere un attore in più sul mercato del largo consumo, già provato da una crisi generalizzata. Nel panorama della gdo internazionale, però, Walmart continua a rivelarsi avversario particolarmente tenace. E parallelamente all'interessamento di Amazon per la distribuzione tradizionale ha cominciato a sviluppare nuovi canali di vendita sul digitale, stringendo pure un'alleanza con Google.

 

Whole Foods vs Walmart. È guerra dei prezzi

Eppure, proprio l'ultima mossa di Whole Foods (in Amazon) avrebbe danneggiato gli affari di Walmart: il taglio dei prezzi, a distanza di un mese, già si rivela particolarmente efficace per il riposizionamento sul mercato della catena bio, e tanti clienti abituali di Walmart starebbero apprezzando l'opportunità di acquistare uova bio, salmone dell'Atlantico, avocado e frutta esotica di provenienza certificata a prezzi mai così bassi. I dati parlano chiaro: solo nella prima settimana – certo quella più favorevole per l'impatto della notizia – il ribasso ha determinato un aumento di accessi del 17% rispetto allo stesso periodo dell'anno precedente. E la maggior parte dei nuovi clienti, il 24% di loro, arriverebbero proprio da Walmart (a seguire troviamo Kroger e Costco), nonostante Whole Foods mantenga comunque prezzi sopra la media. Nello spostamento di interesse, dunque, ha certamente influito anche la vendita dei prodotti a marchio Whole Foods sulle piattaforme online di Amazon, che al catalogo salutista del supermercato bio ha dato nuova visibilità.

 

Uniquely J. Prodotti di qualità a marchio Walmart

Come risponde Walmart? Per esempio lanciando una nuova linea brandizzata che indaga i gusti dei millennials (Uniquely J si chiamerà, e sarà disponibile a breve sulla piattaforma Jet.com, di proprietà Walmart), packaging accattivante, qualità e prezzi competitivi. Con diverse incursioni nel settore alimentare, dal caffè all'olio d'oliva, all'ampia scelta di cereali per la colazione, orientata sul segmento dell'organic food. Guerra aperta, quindi, al catalogo di Whole Foods. E infatti si sperimenta anche sul versante della consegna a domicilio, con esiti quasi futuristici: l'ultima idea di Walmart è quella di perfezionare il servizio, recapitando la spesa ordinata online nel frigorifero di casa, letteralmente. Come? Dotando le abitazioni degli abbonati al servizio di serrature con codice digitale e telecamere di sorveglianza che monitorano il frigo, in partnership con la startup August Home. Chi la spunterà?


The World's 50 Best Bars 2017. Trionfa Londra, oro all'American Bar del Savoy Hotel. Jerry Thomas unico italiano

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La cerimonia londinese, per la prima volta gestita da William Reed,conferma il prestigio del panorama della miscelazione londinese (che tanto deve all'Italia), ma c'è spazio anche per nuove città. A Roma il 33esimo piazzamento del Jerry Thomas, esce dai 50 il Nottingham Forest di Dario Comini. 

Una grandiosa cerimonia, all'interno della sontuosa SouthWark Cathedral, ha accompagnato la proclamazione dei World's 50 Best Bars 2017, il più importante riconoscimento del mondo dei cocktail bar. Gli oltre cinquecento ospiti della serata, invitati da William Reed (nuovo organizzatore del premio e già curatore dei World's 50 Best Restaurants), hanno assistito al lungo countdown che ha scandito le cinquanta posizioni. Risalendo la classifica non sono mancate le novità, con uno sguardo che si allarga oltre la solita rotta Londra - New York, e vira a Oriente (ben 6 cocktail bar provenienti da Singapore), mentre si spinge pure in città finora ben poco rappresentate, come San Francisco e Parigi, entrambe con 3 locali.

 

L'Italia mantiene alta la sua bandiera con il Jerry Thomas Speakasy. L'hidden bar romano rafforza infatti la sua 33ª posizione, rimanendo però l'unico cocktail bar italiano in classifica (con il Nottingham Forest di Dario Comini scivolato fuori dai 50, fino alla 60esima posizione). Eppure c'è tanta Italia sui gradini più alti del podio, con il quarto posto del Connaught Bar di Agostino Perrone e il secondo del Dandelyan di Enrico Gonzalo. Scende invece al quinto posto il Dead Rabbit Grocery & Grog di New York, superato dal NoMad Bar (quarto), anch'esso di New York, e dal nuovo numero uno, l'American Bar del Savoy di Londra. Questo tempio della miscelazione riconquista la vetta della classifica grazie al lavoro del suo team, capitanato da Erik Lorintz, che, a margine della premiazione ha giustamente sottolineato che "per arrivare a questi obiettivi non bisogna puntare a vincere, ma solo lavorare, per offrire sempre il meglio ai propri clienti".

 

I Migliori 50 Bar del mondo 

American Bar, The Savoy Hotel

Londra

Dandelyan, Mondrian London

Londra

The NoMad, NoMad Hotel

New York

Connaught Bar, The Connaught

Londra

The Dead Rabbit Grocery and Grog

New York

The Clumsies

Atene

Manhattan

Singapore

Attaboy

New York

Bar Termini

Londra

Speak Low

Shanghai

Little Red Door

Parigi

Happiness Forgets

Londra

High Five

Tokyo

Licorería Limantour

Città del Messico

Atlas

Singapore

Dante

New York

Oriole

Londra

Broken Shaker

Miami

Candelaria

Parigi

Himkok

Oslo

The Gibson

Londra

Black Pearl

Melbourne

Floreria Atlántico

Buenos Aires

Operation Dagger

Singapore

28 HongKong Street

Singapore

Trick Dog

San Francisco

Sweet Liberty

Miami

Indulge Experimental Bistro

Taipei

Lost & Found

Nicosia

Baba Au Rum

Atene

Tippling Club

Singapore

BlackTail

New York

Jerry Thomas Speakeasy

Roma

Le Syndicat

Parigi

Tales & Spirits

Amsterdam

Bar Benfiddich

Tokyo

Employees Only

New York

Schumann´s

Monaco di Baviera

La  Factoría

Old San Juan

Quinary

Hong Kong

Aviary

Chicago

Mace

New York

Nightjar

Londra

Linje Tio

Stoccolma

The Baxter Inn

Sydney

ABV

San Francisco

Native

Singapore

Tommy's

San Francisco

Lobster Bar

Hong Kong

Imperial Craft

Tel Aviv

 

a cura di Giampiero Francesca

Cuochi per un giorno a Modena. E per i bambini un nuovo Super Ricettario per piccoli chef

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Sesta edizione per il festival nazionale della cucina per bambini, da 0 a 12 anni. Il 7 e l'8 ottobre ci si ritrova a Modena, in compagnia di grandi chef, per mettere le mani in pasta e imparare i segreti della cucina e la storia degli ingredienti. L'ultima novità è il ricettario per i più piccoli, in collaborazione con Panini. 

La cucina dei bambini

Nella storia dei fratelli Panini, l'album dedicato ai calciatori è certamente il successo più longevo, e celebre. Calciatori Panini, edito per la prima volta nella stagione 1961-62, ha accompagnato generazioni di ragazzi che sulle figurine dei propri beniamini fantasticavano di imprese calcistiche e sogni nel cassetto. Ma la storia dell'editore modenese, dall'inizio degli anni Duemila nuovamente di proprietà italiana dopo alterne vicende, vanta un palmares ben più prestigioso, leader mondiale nel settore delle figurine da collezione e quarto editore in Europa nel settore delle pubblicazioni per ragazzi. Come l'ultima idea partorita dal gruppo, il Super Ricettario per piccoli chef progettato a uso e consumo dei più piccoli. Il progetto è tutto modenese, e nasce dalla collaborazione con la rassegna Cuochi per un giorno, che anche quest'anno replicherà l'appuntamento nel parco del Club La Meridiana di Casinalbo, alle porte della città emiliana. Organizzato da La Bottega di Merlino (la libreria modenese di Laura Scarpinelli), il Festival nazionale di cucina per bambini è un'iniziativa ormai consolidata, giunta alla sesta edizione. E ogni anno, all'inizio dell'autunno, trasforma Modena nella capitale della cucina 0-12, con la complicità di chef e pasticceri e una finalità benefica, a sostegno dell'associazione Dynamo Camp. Due giornate, il 7 e l'8 ottobre, con decine di incontri e laboratori per mettere le mani in pasta, ma anche riflettere sui valori positivi del cibo e della cucina. E stavolta il festival sarà pure occasione per presentare il ricettario Panini, disponibile in libreria dalla metà di ottobre: 34 ricette illustrate, con centinaia di disegni per agevolare il compito dei piccoli cuochi, guidandoli alla scoperta di primi piatti della tradizione italiana, specialità internazionali, dolci e antipasti colorati.

 

Il Super ricettario per piccoli chef

Il testo raccoglie le ricette ideate dallo chef Franco Ascari negli ultimi 5 anni di festival, e quindi già sperimentate sul campo dai bambini. I disegni sono di Agnese Baruzzi, e agevolano l'apprendimento, con focus su ingredienti e simboli; e poi ci sono gli adesivi da attaccare per suggellare la realizzazione di ogni ricetta: quando tutti gli adesivi saranno al posto giusto il bambino sarà diventato un “piccolo chef”. E potrà passare alla seconda fase: disegnare i piatti che ha preparato e completare il ricettario con le foto del suo piatto preferito. A Casinalbo, sarà lo chef Luca Marchini a cucinare durante la presentazione, accompagnato dall'illustratrice che disegnerà dal vivo.

Ma i cuochi coinvolti dal festival sono tanti, da Franco Aliberti a Marta Pulini, da Rino Duca ad Ascanio Brozzetti, pastry chef de Le Calandre. Con loro anche Valeria Margherita Mosca e Lisa Casali, con laboratori sulla sostenibilità e l'alimentazione consapevole, spiegate ai bambini. La cucina parapiglia, invece, è quella dedicata ai piccolissimi dai 12 ai 35 mesi, chiamati a toccare, annusare e curiosare in libertà. Due gli appuntamenti interdisciplinari, che quest'anno accostano la cucina al mondo dell'arte: il banchetto per dipingere con gli utensili da cucina e il Salon de Cuisine, per realizzare saponi a partire dalle spezie.

 

Cuochi per un giorno | Casinalbo (MO) | il 7 e l'8 ottobre |  www.cuochiperungiorno.it 

 

a cura di Livia Montagnoli

Giorgione Orto e Cucina ad Ancona. Giorgione protagonista da Wine Not? con Umani Ronchi

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Lo chef volto di Gambero Rosso Channel protagonista il 19 ottobre ad Ancona, ospite del wine bar del Grand Hotel Palace, al porto antico. Una serata all'insegna del buon cibo e dei vini del territorio marchigiano, con la collaborazione dell'azienda vitivinicola di Osimo. 

Wine Not?

Un palazzo nobiliare del XVII secolo, nel centro di Ancona, tra il Golfo e la città vecchia. Oggi è un'insegna d'eccellenza dell'ospitalità cittadina, il Grand Hotel Palace, 39 camere e 4 suite per un'accoglienza a 4 stelle. Per gli amanti del gusto, al pian terreno, il wine bar propone specialità gastronomiche in abbinamento a vini del territorio, dal Verdicchio al Rosso Conero, per un'offerta di qualità a 360 gradi. Protagonisti del bancone, i prodotti di Umani Ronchi, partner dell'hotel impegnato nella diffusione della cultura culinaria marchigiana di qualità. E proprio all'insegna della territorialità, l'hotel ha riaperto i battenti la scorsa primavera con spazi e arredi completamente rinnovati, lo spazio dedicato al wine&food, Wine Not?, e un'offerta sempre più mirata. Con l'azienda vitivinicola di Osimo, poi, da luglio 2017 la struttura ha inaugurato una serie di degustazioni in compagnia di personaggi noti del panorama della ristorazione nazionale.

Giorgione Orto e Cucina

Lontano dal suo orto – ma solo per il tempo necessario a fare nuove gustose scoperte – Giorgione, l'oste più amato della TV, racconta l’Italia del cibo di contadini e artigiani, che gli regalano trucchi e prodotti da valorizzare in cucina. Nel suo terzo libro, Giorgione Orto e Cucina, una raccolta di ricette goduriose, che strizzano l’occhio alla tradizione, alla ricchezza della terra, alla freschezza degli ingredienti che finiscono nel piatto, senza prestare troppa attenzione a schemi e dosi rigide, per una volta volutamente generose. Un viaggio per lo Stivale alla ricerca delle storie più insolite, dei prodotti più gustosi e nascosti dove meno te lo aspetti. Per la serata del prossimo 19 ottobre, l'oste porterà in tavola i suoi Maltagliati alla Giorgione, a dimostrazione del fatto che per preparare un piatto sfizioso occorrono pochi e semplici ingredienti, tutti facilmente reperibili. Un filo d'olio buono, cipolla, guanciale e, naturalmente, tutte le verdure di stagione, che vanno a insaporire la pasta fatta in casa, spessa e ruvida. E dopo lo show cooking, spazio per l'assaggio, in abbinamento alle etichette Umani Ronchi.

 

Giorgione Orto e Cucina | Ancona | lungomare Luigi Vanvitelli, 24 | 19 ottobre 2017, dalle 19 | ingresso libero |  www.winenotancona.it

 

 

Tre Bicchieri. Parla Pasquale Mitrano della cantina Casebianche

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Il Cilento con la sua biodiversità e i vini rifermentati in bottiglia di Casebianche. Una storia da scoprire.

Dal 2007 (anno cui risale il primo imbottigliamento) al 2017 sono passati solo 10 anni, ma per Casebianche sono stati sufficienti per mettere a segno uno stile ben preciso. Naturale, certo, rispettoso del territorio, ma anche molto personale, che procede a colpi di rifermentazioni e bottiglie spigliate. Quello con i Tre Bicchieri è un esordio di rango per la cantina cilentana di Betty Iuorio e Pasquale Mitrano. Architetti di professione, hanno fatto una scelta di vita trasferendosi a Torchiara tra alberi di fichi, ulivi e vigneti curati. Regime biologico e uso minimo di orpelli in cantina, e grazie a uve sanissime l’aggiunta di solfiti è minima: la vitalità nel bicchiere è contagiosa, potete immaginare la beva. Da questi suoli ricchi di scheletro e argilla, quelli compresi tra il Monte Stella, il torrente Acquasanta e lo splendido mare del Cilento, arrivano vini molto espressivi. L'ultimo nato è il Pashkà, anch’esso rifermentato in bottiglia, da blend paritario di barbera e aglianico. Ma noi abbiamo premiato con i Tre Bicchieri il Fric: un vino rifugio, una lettura contemporanea di Aglianico. Il 2016 è una delizia di toni floreali e frutta croccante, anguria e arancia sanguinella, sfizioso nel piglio rustico e lievitoso, dal finale tannico e smaliziato: tutto piacevolezza e beva, con la bolla a tenere il ritmo. La Matta '16 si offre goloso nei suoi toni di mela matura ed erba appena tagliata.

 

Siete un'azienda giovane, ma già molto connotata per i vostri vini, come nasce il progetto dei rifermentati?

Abbiamo cominciato come cantina all'inizio dei 2000, ma imbottigliamo solo a partire dal 2007, da uve aglianico e fiano. Da subito ci siamo inseriti nel mondo dei vini naturali, e abbiamo cominciato a frequentare le fiere, in particolare Vini Veri a Cerea. In quegli anni abbiamo avuto un vero e proprio colpo di fulmine per un'azienda, Costadilà, che fa un Prosecco Col Fondo. Un anno, poi, eravamo vicini di stand con Mauro Lorenzon, che è un personaggio vulcanico. Ci siamo appassionati a questi vini e abbiamo deciso di provare anche noi, in Cilento.

 

Ma non è zona da vini frizzanti, la vostra

Mi ricordavo di un asprino rifermentato in bottiglia, in modo naturale – diciamo così - e poi ci sono dei rossi frizzanti nella zona di Gragnano, ma non c'è una grande tradizione spumantistica. Però abbiamo voluto lo stesso provare anche noi. Siamo partiti nel 2010 con 1000 bottiglie, con uno spumante rifermentato da uve fiano, La Matta.

 

Quale è il tuo metodo di produzione?

Facciamo una rifermentazione particolare, un metodo che usano anche altri produttori. Prendiamo una parte del mosto proveniente dal vino base e la mettiamo da parte in una cella frigo per bloccarne la fermentazione. Poi usiamo quel mosto come liqueur de tirage per far partire una rifermentazione in bottiglia.

 

Quali difficoltà implica questo metodo?

Il rischio è di trovarsi con qualche “puzzetta” sul vino, tipica del Col Fondo. Per evitarlo cerchiamo di lavorare bene sulla base e arrivare puliti alla rifermentazione. Abbiamo affinato nel tempo la tecnica proprio per evitare i difetti tipici di questo genere di vini. È un lavoro molto rigoroso.

 

Come è andata la prima esperienza?

Siamo stati soddisfatti di quelle prime 1000 bottiglie, quindi abbiamo deciso di continuare aumentando la produzione. Poi ci abbiamo preso gusto, e abbiamo deciso di provare anche con un rosato frizzante da uve aglianico vinificato direttamente, il Fric. Un vino ottenuto da uve intere senza macerazione, il colore rosato deriva solo dalla pressatura. Anche qui abbiamo fatto un primo tentativo, nel 2013, con poche bottiglie, anche perché il rischio di avere qualche odore poco gradevole era ancora più alto con un rosso. Non ha funzionato del tutto, ma è andata comunque bene.

 

Poi è arrivato il turno del rosso, il Pashka. Avete altri progetti in cantiere?

Sì, lo scorso anno abbiamo provato a rifermentare il rosso, aglianico e barbera 50 e 50. Ed è andata bene. Adesso ci fermiamo, per quanto ci riguarda il sondabile è stato sondato, dovremmo spostarci in un'altra tipologia, ma abbiamo raggiunto un buon feeling con le rifermentazioni, ci basta lavorare sempre meglio su queste. E c'è l'idea di provare a usare l'asprigno di Aversa per La Matta

 

Come nascono e cosa rappresentano i nomi dei vostri vini?

Il bianco si chiama La Matta, come il 10 di denari delle carte napoletane, nel 7 e ½. È la carta che svolta la partita. Abbiamo usato questo nome come un gioco, quasi un riferimento cabalistico, perché per noi quel vino rappresentava una svolta. Volevamo continuare su una linea un po' scherzosa e gioiosa, che segue l'idea di questi rifermentati: vini non pretenziosi, estivi, facili da bere ma con la complessità da vino e non da bibita. Per il rosato l'ispirazione è quella del fenomeno da baraccone, il personaggio del circo che è un po' fuori le righe e fuori dai canoni. Così è nato il nome Fric. Per quanto riguarda Pashka invece l'idea è nata un giorno che ero con un mio amico alle terme, rilassato come un pascià. Il nome ci è piaciuto ma abbiamo scoperto che c'era già un vino che si chiamava così, e allora l'abbiamo chiamato Pashka, che fa riferimento anche a Pasquale, il mio nome.

 

In guida abbiamo descritto il Fric non solo come un semplice vino, ma come uno stile di vita. Raccontaci questo vino.

È un vino non serioso, ma serio perché fatto in modo rigoroso; potrebbe non sembrare, ma c'è tanto lavoro dietro. Per noi la strada è quella di lavorare seriamente ma con leggerezza. Per quanto riguarda più specificatamente i vini, pensiamo che ci sia un cambiamento in atto, c'è una ricerca di vini meno poderosi e meno alcolici, sia rossi che bianchi. Questa è la nostra idea, il nostro Fiano un tempo faceva quasi 14 gradi, ora 12,50. Un risultato ottenuto con un grosso lavoro tecnico, intervenendo sulla raccolta oltre che sulla vinificazione. Anche il nostro bianco macerato non è esagerato, le macerazioni sono brevi, appena 5-6 giorni, così per il rosso base, solo 3 giorni. Pensiamo che il mondo del vino stia andando da un'altra parte rispetto ai vini superpalestrati con tanta estrazione di qualche tempo fa.

 

È la prima volta di una bollicina campana a Tre Bicchieri

Non ce l'aspettavamo proprio, eravamo sorpresi già quando siamo entrati nelle finali, non pensavamo assolutamente di avere possibilità. Anche per il genere di vini che facciamo. Insomma, sdoganare un Col Fondo credo sia stata una mossa molto coraggiosa da parte del Gambero Rosso, anche se forse c'è stato già qualche altro premiato negli anni passati. Sono saltato dalla sedia quando è arrivata la comunicazione dei Tre Bicchieri.

 

Come vede il panorama delle rifermentazioni in bottiglia?

Questi vini stanno crescendo in modo esponenziale, 4 anni fa erano pochissimi e poco conosciuti, oggi alle fiere di vini naturali, quasi l'80% dei produttori hanno il loro rifermentato. Non ci sentiamo i pionieri perché c'erano altri, soprattutto Costadilà, che per noi è stato un mentore, ma certo ci abbiamo creduto parecchio tempo fa.

 

Come si inserisce la Campania nel panorama della spumantistica e dei vini frizzanti? Quali potenzialità ci sono?

Per le bollicine è momento d'oro un po' in tutta Italia, c'è un aumento considerevole in ogni regione, e questo anche per una logica di mercato. I consumatori chiedono più bollicine e i produttori rispondono a questa richiesta. Per la Campania ci sono potenzialità interessanti: il fiano è un buon vitigno per le bollicine, mentre con l'aglianico ci sono buoni rosati Metodo Classico, per esempio quelli dell'azienda San Salvatore, ma ci sono anche altri produttori, nella zona di Gragnano. Questo è un fenomeno che si riscontra un po' in tutta Italia, basti pensare a quel che sta succedendo con il Lambrusco negli ultimi anni.

 

Come siete arrivati in Cilento?

Sono originario dell'agro aversano, mia moglie è irpina napoletana, e anche se abbiamo cominciato a occuparci dell'azienda nel 2000, siano venuti qui nel Cilento solo nel 2005, e nel 2006 abbiamo costruito la cantina. Questa terra era di mio suocero: 14 ettari, abbiamo cominciato a lavorare con 3, siamo passati a 5 e mezzo e poi a 7. C'è molto da fare.

 

Quale è il valore di fare una viticoltura sostenibile e certificata in un posto cosi?

Il Cilento è una terra straordinaria, con grandi potenzialità vinicole, anche se il vino in Campania è identificato con altre aree, e questa è considerata una zona secondaria. Oggi c'è una crescita continua, molti guardano a questa come a una terra ancora inesplorata ma di grande interesse dal punto di vista agricolo. E non solo al nord, ma anche nell'entroterra o al sud.

Il Cilento è Patrimonio Mondiale Unesco, una riserva di biosfera dalla natura quasi intatta. L'unica agricoltura praticabile qui è quella che rispetti la biodiversità, che non la intacchi ma la preservi, lo abbiamo capito subito. Dunque niente monocultura, questi terreni devono accogliere ulivi, fichi, agrumi, serve una alternanza della presenza arborea. Ma soprattutto serve un tipo di agricoltura sostenibile, che abbiamo adottato dall'inizio per cultura e per convinzione. Deve essere una missione per chi viene a fare agricoltura qui, e non solo viticoltura. Lo hanno capito in molti; penso, per esempio Michelangelo Marsicani che produce olio.

 

Azienda Agricola Casebianche| Torchiara (SA) | Contrada Case Bianche, 8 | tel. 0974 843244| http://www.casebianche.eu/

 

a cura di Antonella De Santis e Lorenzo Ruggeri

Morto Lorenzo Gancia. Ultimo patron del primo spumante italiano e grande imprenditore

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Aveva ereditato l’attività di famiglia impegnandosi a portare in tutto il mondo la fama del suo Piemonte e dei paesaggi vitivinicoli di Langhe-Roero e Monferrato, che anche grazie al suo interessamento dal 2014 sono Patrimonio Unesco. Poi, nel 2012, aveva venduto Gancia ai russi, perché l’azienda potesse brillare sui mercati internazionali. Scompare a 87 anni, nella sua Canelli. 

Gancia. La storia del primo spumante italiano

Imprenditore illuminato. Un concetto che Lorenzo Vallarino Gancia aveva fatto proprio in anni difficili, quando durante le contestazioni anti-industriali si era messo alla guida di un gruppo di giovani imprenditori con l’idea di ripensare dall’interno il mondo dell’industria italiana, donandole nuovo slancio e trasparenza. Dopo la carica di primo presidente dei Giovani Industriali, nel 1970 sarà pure vicepresidente di Confindustria. Ma è il suo cognome a tradire immediatamente il legame con una delle dinastie più importanti della spumantistica italiana. Fondata alla metà dell'Ottocento a Chivasso da Carlo ed Edoardo Gancia (era il 1850, e Carlo tornava da un soggiorno a Reims, dopo aver appreso le tecniche di lavorazione dello Champagne), la Fratelli Gancia ha fatto conoscere il Piemonte vinicolo in tutto il mondo: sfruttando le nozioni apprese, Gancia le applicò alle uve moscato del territorio astigiano, ideando il primo Spumante Italiano. Era il 1865, già nel 1866 inizia l’esportazione all’estero. Lorenzo Gancia aveva assunto la guida dell’azienda molti decenni fa, promuovendo non solo l’attività di famiglia – il primo spumante metodo classico nella storia della Penisola – ma l’intero sistema culturale enologico dell’astigiano, e forte, negli anni passati, è stato l’impegno affinché il riconoscimento dell’Unesco arrivasse a premiare la cosiddette cattedrali di Canelli e i paesaggi vinicoli di Langhe-Roero e Monferrato (dal 2014 tutelati come patrimonio dell’umanità).

Addio a un grande imprenditore

Perché nel valore culturale della tradizione vinicola – come dell’attività imprenditoriale in genere – Lorenzo Gancia credeva moltissimo, e oggi, all’indomani della sua scomparsa all’età di 87 anni, tanti ne ricordano l’alto profilo morale e intellettuale, dal presidente della Regione Piemonte Sergio Chiamparino, che sottolinea “l’importante ruolo avuto nella crescita economica italiana”, a Oscar Farinetti, che di lui ricorda “la grandissima intelligenza, ironia e sensibilità”. Ai fratelli Bosca – Pia, Polina e Gigi – sesta generazione della famiglia che con i fratelli Gancia fondò una delle più antiche case spumantiere canellesi, che oggi piangono “uno degli ultimi grandi maestri di vita e d’impresa”. La sua capacità di visione, infatti, ne faceva soprattutto un grande uomo d’affari.

Come quando nel 2012 scelse di vendere la Gancia ai russi della multinazionale Russian Standard di Roustam Tariko, intuendo che solo così il marchio avrebbe retto la sfida con i mercati internazionali (oggi l’azienda esporta in 60 Paesi del mondo, e produce ogni anno circa 25 milioni di bottiglie tra spumanti, vini e aperitivi, come il Bitter, ideato nel 1950). Facendo un passo di lato, dunque, ma senza rinunciare a schierarsi in prima linea per la valorizzazione e la tutela di Canelli e della sua tradizione vitivinicola. In passato fu pure consigliere di Riso Gallo, Buitoni, Perugina, e presidente del Sole 24 Ore per 12 anni, dal 1971. È morto nella sua Canelli, malato da tempo.

 

a cura di Livia Montagnoli

La focaccia e i suoi derivati. 6 specialità del Piemonte

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Dai grissini alle focacce dolci, il Piemonte vanta una serie di prodotti da forno unici nel loro genere, dalla storia antica e il gusto inconfondibile. Le eccellenze regionali. 

Come sempre le focacce nascono come ricette “povere”, che usano i prodotti disponibili sul mercato per ottenere cibi gustosi. Quelle che presentiamo oggi sono frutto dell'asperità della montagna, a base di pochi ingredienti, ma sostanziose e nutrienti. Sono le specialità del Piemonte, una regione in cui il pane ha sempre giocato un ruolo fondamentale, utilizzato spesso anche per addensare le salse del bollito misto, e in pasticceria, dove veniva impiegato per preparare torte e frittelle di recupero, con croste e molliche ormai rafferme bagnate nel latte. E poi grissini, focacce, schiacciate e tante altre eccellenze che hanno reso i forni piemontesi famosi in tutta Italia. Qui, ne abbiamo radunate 6, più una ricetta fornita da Perino Vesco Fornai in Torino, straordinario panificio del capoluogo piemontese.

Focaccia novese

Come si intuisce dal nome, la focaccia novese è prodotta principalmente nella zona di Novi Ligure e Ovada. Condita con olio extravergine di oliva e sale grosso, si prepara impastando olio d'oliva, strutto, lievito, estratto di malto, sale, acqua e farina di grano tenero. Una ricetta antica, nata come alternativa del pane e diffusasi presto anche in altre zone della regione, soprattutto nella provincia di Alessandria. Ad accompagnarla, solitamente, salumi e formaggi del territorio, ma anche verdure e bollito di carne. Oggi nei forni non è raro trovare diverse varianti, da quella ripiena alla versione dolce.

Focaccia di Susa

Uova, burro, zucchero, sale, lievito e farina. Sono questi gli ingredienti alla base della schiacciata dolce per antonomasia, la focaccia di Susa, tipica della zona compresa tra Susa e Oulux. Le prime testimonianze di questa specialità risalgono al 1870, anche se la preparazione ha subìto negli anni diverse modifiche. Con la Seconda Guerra Mondiale, per esempio, le tradizionali farine di origine locale vennero in parte sostituite con quelle ottenute da varietà di origine nord-americana, come la manitoba, e le quantità di burro e zucchero vennero notevolmente diminuite. Oggi, la focaccia di Susa è una sorta di torta morbida all'interno e croccante all'esterno, caratterizzata dal tipico colore scuro dovuto alla caramellizzazione dello zucchero in superficie. A seconda dei vari periodi dell'anno, la focaccia può essere incisa con decorazioni di forme diverse, dalle croci (Pasqua) alle stelle (Natale).

Fugascina di Mergozzo

Ancora sul fronte dolce, troviamo la fugascina di Mergozzo, un tempo dolce tipico della festa di Santa Elisabetta, che si celebra ogni anno nel mese di luglio a Mergozzo, comune nella provincia del Verbano-Cusio-Ossola. Si tratta di un prodotto a base di burro, zucchero, farina, uova, marsala, limone e lievito in polvere, mix di ingredienti che dà origine a un composto omogeneo che viene spianato e tirato a mano, per poi essere disposto in teglie rettangolari. Una volta cotto, si taglia in piccoli quadrati dal colore tipicamente dorato.

Fugassa d' la Befana

Diffusa soprattutto nelle province di Cuneo e Alessandria, la fugassa d' la Befana è una delle più tradizionali preparazioni dolci dell'Epifania. A base di farina, burro, uova, lievito e agrumi canditi, questa focaccia è una sorta di pan brioche ottenuta grazie a una lunga lievitazione, solitamente guarnita con uva passa e canditi; ma a seconda della zona, la ricetta contempla diversi ingredienti e, soprattutto, assume forme differenti, le più comuni sono il sole e la margherita. Secondo la tradizione, all'interno dell'impasto deve essere inserita una moneta di buon auspicio, augurio di fertilità e fortuna per chi la troverà. Secondo un'altra usanza popolare, invece, bisogna inserire due fave secche, una bianca e una nera: chi consumerà la fetta con la fava bianca dovrà pagare l'intera focaccia, mentre chi troverà quella scura dovrà offrire il vino.

Grissino

La leggenda narra che sia stato il fornaio di corte Antonio Brunero, sotto le indicazioni del medico lanzese Teobaldo Pecchio, a ideare nel 1679 il primo grissino, pensato per nutrire al meglio il futuro re Vittorio Amedeo II, incapace di digerire la mollica del pane. Fra episodi storici e racconti popolari, un fatto è certo: quella del grissino è una storia antica, che nel tempo ha conquistato il palato di personaggi come Napoleone Bonaparte, che all'inizio del XIX secolo creò un servizio di corriera tra Parigi e Torino proprio per trasportare quelli che lui chiamava i petit bâtons de Turin. In passato, erano ben quattro le persone impiegate nella preparazione di questo prodotto: lo stiror, colui che stira, il tajor, l'addetto al taglio, il coureur, che disponeva i bastoncini sulla teglia e infornava, e il gavor, che doveva estrarre i grissini dal forno e spezzarli a metà. Negli anni le cose sono cambiate, ma l'importanza di questo prodotto non è diminuita. Oggi le varianti sono molte - dal rosmarino all'origano, dal sesamo al formaggio, e molto altro ancora -  ma solo due sono le forme tradizionali: grissino robatà, dall'aspetto nodoso, e il grissino stirato, dalla forma allungata e schiacciata.

Miaccia

Nella Valsesia, in provincia di Vercelli, è la miaccia a fare la parte del leone. Accompagnata solitamente con formaggi freschi e salumi del territorio, è una focaccia sottile a base di farina (tradizionalmente si usano farina bianca e gialla), latte e uova che si cuoce nel cosiddetto ferro delle miacce, composto da due piastre di ferro circolari che vengono scaldate sul fuoco. Conosciuta anche come miassa, nel Canavese e Biellese, questa sfoglia croccante è spesso disponibile anche nella verione dolce, soprattutto nei giorni di festa, abbinata a confettura di mirtilli e panna, miele o conserve varie.

La ricetta

a cura di Michela Becchi

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Anteprima Tre Bicchieri 2018. Friuli Venezia Giulia

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L'anticipazione dei premiati della nuova guida Vini d'Italia 2018 oggi ci porta a scoprire i migliori vini del Friuli Venezia Giulia.

Il Friuli Venezia Giulia del vino è sempre più "bianco". L'arco alpino orientale forma un immenso anfiteatro naturale che degrada verso il Mare Adriatico. La ventilazione che arriva da est e le brezze marine da sud portano al Collio e ai Colli Orientali il giusto apporto di piogge, si alternano con l'aria fredda che scende dalle Alpi, assicurando ottima ventilazione e una salutare escursione termica ai vigneti della regione. Quanto alla conformazione dei suoli, abbiamo prevalenza di marne calcaree permeabili, la ponca, nelle zone collinari, e terre ricche di ghiaia e scheletro della pianura. Con queste premesse capirete come nel palmarès regionale di quest'anno si trovino solo vini bianchi. Rossi in regione se ne producono, e di ottimi: spesso, come nel caso del Refosco dal peduncolo rosso o dello Schioppettino, da vitigni autoctoni. Ma i bianchi friulani sono semplicemente irresistibili...

Siamo soliti aprire la carrellata con i vini del Collio, che anche quest'anno guidano la graduatoria interna, con ben undici vini premiati. Tra questi vogliamo segnalare il felice rientro nel salotto buono dell'enologia regionale di Venica, con uno splendido Sauvignon Ronco delle Mele '16, e di Villa Russiz con un eccellente Pinot Bianco '16. Un'azienda importante, quest'ultima, per i livelli qualitativi che ha sempre espresso ma anche perché è il supporto di una fondazione che sostiene ragazzi in condizioni di disagio. Anche se non è un vino a denominazione il Vintage Tunina '15 di Jermann è un vino del Collio nel suo Dna, e quest'anno festeggia la sua quarantesima vendemmia: un vino fondamentale per la storia enologica friulana - e non solo - degli ultimi decenni.

Il panorama dei Colli Orientali è ricco e articolato, e offre eccellenze che spaziano dagli uvaggi bianchi, alla Malvasia, al Picolit, al Pinot Bianco e al Sauvignon, passando ovviamente per il Friulano, varietà che si esprime benissimo in ogni denominazione della regione. È l'uvaggio bianco Identità '15 a segnare il debutto a Tre Bicchieri di Specogna. Altro anniversario importante, segnato da un premio meritatissimo, è quello della trentesima vendemmia per uno spumante dei Colli Orientali, la Ribolla Gialla '13 di Eugenio Collavini, l'uomo che ha il merito indiscusso di aver acceso per primo i riflettori su questa varietà, che oggi gode di straordinario successo.

L'Isonzo, con quattro vini premiati, si conferma terroir di valore, dove i vitigni classici friulani, dal Sauvignon al Friulano, si esprimono con struttura e vigore. Il Carso, terra dei grandi bianchi da macerazione, ci ha offerto due etichette imperdibili, la Malvasia '13 di Podversic e l'Ograde '15 di Skerk. Chiude il panorama regionale un elegante e fruttato Pinot Bianco '16 di Le Monde, che esprime al meglio le potenzialità di questo vocato terroir.

 

I vini del Friuli Venezia Giulia premiati con Tre Bicchieri

Collio Bianco ’16  - Colle Duga   

Collio Bianco Fosarin ’15  -  Ronco dei Tassi   

Collio Bianco Giulio Locatelli Ris. ’15  - Tenuta di Angoris

COF Picolit  '12 - Livon

Collio Friulano ’16  -  Russiz Superiore   

Collio Friulano ’16  -  Schiopetto   

Collio Pinot Bianco ’16  - Doro Princic   

Collio Pinot Bianco ’16  -  Villa Russiz   

Collio Ribolla Gialla di Oslavia Ris.’13  -  Primosic   

Collio Sauvignon ’16 - Tiare  - Roberto Snidarcig   

Collio Sauvignon Ronco delle Mele ’16  -  Venica & Venica   

FCO Bianco Identità ’15  -  Leonardo Specogna   

FCO Friulano Liende ’16  -  La Viarte   

FCO Malvasia ’16  -  Paolo Rodaro   

FCO Pinot Bianco Myò ’16  -  Zorzettig   

FCO Pinot Grigio ’16  -  Torre Rosazza   

FCO Sauvignon Zuc di Volpe ’16  - Volpe Pasini   

Friuli Friulano No Name ’16  - Le Vigne di Zamò   

Friuli Grave Pinot Bianco ’16  -  Vigneti Le Monde   

Friuli Isonzo Friulano I Ferretti ’15  -  Tenuta Luisa   

Friuli Isonzo Sauvignon Piere ’15  -  Vie di Romans   

Lis ’15  - Lis Neris   

Malvasia ’13  - Damijan Podversic   

Ograde ’15  -  Skerk   

Ribolla Gialla Brut ’13  - Eugenio Collavini   

Vintage Tunina ’15  -  Jermann 
 

 

Gli altri premi Tre Bicchieri della guida Vini d'Italia 2018

 

Grande degustazione Tre Bicchieri 2018 | Sheraton Rome Hotel | 22 ottobre 2017


Eleven Madison Park, si ricomincia. Il nuovo ristorante di Daniel Humm e Will Guidara

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Dopo 4 mesi di stop, il nuovo Eleven Madison Park si rivela ai primi ospiti. Ed è già sold out per tutto il prossimo mese. Ecco come il progetto di Brad Cloepil ha ripensato gli spazi del ristorante più celebre di New York, nel rispetto dell’edificio Art Deco di Madison Avenue. 

La saga dell’Eleven Madison Park. 11 anni in un libro

Come per tutte le imprese che diventano mitiche, la saga dell’Eleven Madison Park è scandita da ricordi memorabili. Tappe di un percorso di avvicinamento, non sempre in ascesa, al Gotha della ristorazione internazionale, che scandiscono la storia del primo ristorante di New York per prestigio e apprezzamento di critica e pubblico, in vetta alla classifica dei World’s 50 Best Restaurants e primo riferimento per chiunque debba indicare un mix perfettamente calibrato tra gestione imprenditoriale, cucina stellare e capacità comunicativa. Daniel Humm e Will Guidara, indubbiamente, sono entrati nella storia della ristorazione americana. Da qualche giorno, il racconto di questa incredibile sfida agli schemi precostituiti dell’alta cucina è condensato nel secondo ricettario pubblicato a firma Eleven Madison Park (solo 11mila copie autografate, al costo di 250 euro), che, ben oltre il condividere un collage di ricette sperimentate negli ultimi anni, si propone di svelare i meccanismi che regolano un ristorante perennemente sotto i riflettori. Il gioco di squadra, le aspettative, i momenti di sconforto e le ripartenze.

The Next Chapter: Stories & Watercolors, Recipes & Photographssi divide in 2 volumi, il primo, appunto, dedicato ai ricordi, e alle riflessioni sul campo: si scopre così come nasce ed evolve un signature dish, e quanta tensione c’è dietro l’arrivo di un riconoscimento ambito (come le 4 stelle del New York Times, dall’estratto pubblicato su Eater NY). Nel secondo tomo arrivano le ricette, con le illustrazioni di Janice Barnes e le fotografie di Francesco Tonelli: 100 in tutto, divise per stagioni, e una sezione speciale per le tecniche di base. Un modo per raccogliere l’esperienza in cucina degli ultimi 11 anni, immaginando come saranno i prossimi, proprio ora che il ristorante entra in una nuova fase della sua vita.

Il nuovo Eleven Madison Park. Già sold out

Lo scorso giugno, l’Eleven Madison Park chiudeva i battenti per una ristrutturazione profonda, perché una nuova veste assecondasse i cambiamenti degli ultimi anni. Nel frattempo, durante l’estate, Humm e Guidara si sono cimentati con il pop up agli Hamptons, mentre la vendita all’asta di utensili, complementi d’arredo e oggetti storici del ristorante si è rivelata un successo. Diecimila dollari il prezzo di vendita della vecchia insegna, duemila per le ringhiere in ottone, cinquecento per una delle padelle di servizio. Così, pezzo dopo pezzo, il vecchio Eleven Madison Park è finito nelle case (e nei ristoranti) di chi fedelmente aveva seguito la storia dell’insegna di Madison Avenue sin dall’inizio. Intanto però, sotto le direttive dell’architetto Brad Coepfil il cantiere del nuovo ristorante procedeva spedito. Dalla fine di agosto il team dell’Eleven Madison Park ha riaperto le prenotazioni online: 295 dollari per il menu degustazione da 8 a 10 portate, pagamento anticipato. 155 dollari per l’alternativa da 5 corse da consumare al bar. In pochi giorni i tavoli sono andati esauriti per tutto il mese di ottobre, e anche il mese di novembre sarà presto al completo. Da poche ore, però, chi non resiste alla curiosità di scoprire il nuovo Eleven Madison Park – che ha esordito domenica 8 ottobre con il primo servizio della nuova era - può scegliere di accomodarsi al bancone del bar, dove vige la regola del first come first served, con menu alla carta. L’attesa, quindi, è finita.

La sala, il bar, la cucina. E i piatti

Humm e Guidara svelano le loro carte, a cominciare dal nuovo logo, che campeggia sull’entrata, sviluppando in modo nuovo il tema delle foglie che seguono il ritmo delle stagioni. Il ristorante si presenta al pubblico col menu autunnale, e qualche piatto inedito ideato da Daniel Humm per l’occasione, compresa una versione rivisitata del dolce al latte e miele che durante l’estate ha conquistato gli Hamptons. Ma le novità più evidenti bisogna cercarle in sala. Cambiano le sedute – “più comode per assecondare un’esperienza che dura almeno 3 ore” commenta divertito su Twitter Will Guidara - con i bei divanetti blu cobalto a colorare l’ambiente, per il resto luminoso e classicamente essenziale, senza perdere la sua allure Art Deco. Cambiano i pavimenti, e la mise en place: per disegnare piatti e stoviglie, Coepfil ha studiato le collezioni del Victoria and Albert Museum. Ma soprattutto si ripensa totalmente la capienza, che dai 400 coperti a disposizione per ogni servizio (un ricordo dell’era Meyer) si riduce a 80 posti, anche se, di fatto, già dal 2011 il ristorante non serviva più di 80 persone per sera. Per contro, la zona bar conquista più spazio: il bancone è ridotto, ma tutt’intorno il nuovo progetto ha costruito un’identità precisa per l’area, dove sarà possibile accomodarsi al tavolo. Al primo piano restano tre salette private. Poi c’è il coinvolgimento degli artisti, la grande pittura blu di Rita Ackermann che domina la dining room, una scultura di Daniel Turner, un murales di Sol Lewitt per una delle sale del primo piano.

Anche la cucina è stata coinvolta nel restyling, completamente ripensata su progetto dello chef affinché ogni postazione possa dialogare con l’altra. “Per la prima volta sentiamo questo spazio come nostro” raccontano emozionati Humm e Guidara. Ora si può ripartire.

 

Eleven Madison Park | New York | Madison Avenue, 11 | www.elevenmadisonpark.com

 

a cura di Livia Montagnoli

(foto dagli account Instagram di Daniel Humm e Will Guidara)

 

Al Cambio, nel corso del tempo. 260 anni di storia

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Una lunga storia alle spalle e un gran futuro davanti: i 260 anni del Cambio, il più antico ristorante di Torino, si sono giocati tutti attraverso il fil rouge del tempo, che unisce memoria e innovazione. 

260 anni di storia

Cominciamo dalla storia, allora. Era il 5 ottobre del 1757 quando davanti a Palazzo Carignano, capolavoro del Guarini datato 1680, un certo signor Vigna ottiene il permesso di costruire un edificio destinato a ospitare un caffè. Caffè del Cambio, forse per via del cambio dei cavalli della carrozza diretta a Parigi, o per allusione al cambio della moneta che si svolgeva nella piazza. Tant’è il caffè diventa subito famoso. Ci vengono Giacomo Casanova, Mozart, Goldoni. E poi via via (dal 1840 è anche ristorante) Cavour, Balzac, Nietzsche, Verdi, D’Annunzio… L’elenco di ospiti eccellenti è infinito, spazia da Mastroianni a Saramago, da Gorbaciov a Madonna. Un’istituzione, insomma.

Che si è rifatta il look nel 2014 coniugando il fascino storico con interventi contemporanei, ben rappresentati dalla sala degli specchi di Pistoletto come dal Bar Cavour al primo piano.

Un progetto totale

Ma è soprattutto nell’offerta che il Cambio ha voltato pagina, dando vita a un progetto solido e visionario allo stesso tempo, articolato su più livelli di esperienze per il pubblico: il ristorante gastronomico guidato da Matteo Baronetto, la Farmacia del Cambio, caffè bistrot con il Tavolo dello Chef, le specialità anche da asporto e la pasticceria firmata da Fabrizio Galla, il Bar Cavour al primo piano e il Tavolo della Cantina negli infernotti delle cantine, dove Baronetto e il sommellier Davide Buongiorno propongono serate conviviali e di degustazione (il Cambio ha appena ottenuto i due bicchieri ai Wine Spectator Awards per la ricchezza delle etichette).

Nel Tempo: il menù-manifesto di Baronetto

Per celebrare il compleanno del Cambio, cena speciale che ha presentato in anteprima il nuovo menu creato da Matteo Baronetto, dal nome emblematico: Nel Tempo. Idea forte e filo conduttore: rivedere e riproporre alcuni piatti iconici e vintage - le pennette al salmone, la milanese, le acciughe al verde, il vitello tonnato, i gamberetti in salsa cocktail, il brasato al barolo, la leggendaria finanziera, gli gnocchi alla bava, il bonet - in chiave classica e datata e in chiave contemporanea. Un menu - ha dichiarato lo chef - nato “per curiosità, per ironia, per memoria, per cultura, per raccontare delle storie: un menu-manifesto, che tramuta quelli che sono stati i trend gastronomici degli ultimi decenni del secolo scorso in qualcosa di diverso eppure del tutto riconducibile all’originale. Mi piace pensare a una piccola operazione di 'revisionismo culinario' ”. Insomma un gioco di confronti, che come una madeleine proustiana ci mette di fronte a quello che eravamo e a quello che siamo/saremo in fatto di gusto, e non solo. Così nella cena in anteprima ci si è trovati ad accostare il gamberetto in salsa cocktail che imperversava negli anni ’80 ai gamberetti con tuorlo d’uovo marinato. Gli gnocchi con toma della Val Chisone e quelli di patate gialle di montagna con grani di pepe.

Il vitello tonnato classico e alla Baronetto. Una milanese tradizionale e una milanese in versione carne cruda fra due aree panature di amaranto. Una finanziera di tradizione e la sua versione scomposta, ogni componente cotto a sé, il bunet classico (ma senza caffè) e un “cuore” di bunet, morbido e cremoso. Bella esperienza, che solletica qualche nostalgia di memoria e non necessariamente, e non sempre, fa propendere per l’innovazione. Un bel modo però di ripercorrere un pezzo di storia della cucina italiana e cogliere lo spirito delle rivisitazioni-remake di Baronetto.

Alla ricerca del dolce perduto

Per celebrare i 260 anni, Fabrizio Galla, lo chef pasticcere del Cambio e il suo team hanno creato una torta di anniversario: la Torta 1757. Nella forma riprende la ruota delle carrozze che qui effettuavano il cambio dei cavalli, nei raggi allude ai gianduiotti, un po’allungati, e negli ingredienti rimanda ai grandi classici piemontesi: impasto a base di nocciole e mandorle, con pezzi di gianduiotto e il tocco esotico (ecco anche qui l’innovazione, la creatività) dello yuzu, agrume dell’Estremo Oriente fresco e profumato. Un biscotto al cioccolato costituisce la parte croccante della torta, ricoperta da una glassa di zucchero caramellato. Anche Galla ha voluto giocare con il tempo: “Èun dolce che per consistenza e aspetto può essere considerato una citazione delle mitiche torte delle nonne della nostra infanzia, quelle facilmente conservabili e che si mangiavano a colazione o si portavano a scuola per merenda. Qualcosa di infinitamente buono e di irrimediabilmente perduto: l’anniversario di Del Cambio, un luogo in cui il passato è sempre coniugato al futuro, mi è sembrata l’occasione giusta per ridare nuova vita e attualità a un elemento fortemente presente nella nostra memoria gustativa ed olfattiva”. La torta 1757 è in vendita alla Farmacia del Cambio.

 

Americano 260

Compleanno anche al Bar Cavour:l’ american bar al primo piano del ristorante festeggia con una stagione di concerti jazz (tutte le domeniche fino a dicembre, dalle 19.30) e presenta ilnuovo menu food and drink. Bar Cavour In Jazzpropone set all’americana, 4 momenti musicali di 30 minuti, intervallati da mezz’ora di pausa, e fino alle 24 proposte american bar, dal jamon serrano con pan e tomate all’ostrica alla Rockefeller, l’uovo al tegamino, il club sandwich. E selezione di cocktail classici e Bar Cavour signature, firmati dal barman Marco Ciminnisi, distillati e vini. L’aperitivo del compleanno? L’Americano 260. Ovvero Bitter Campari con scorze d’arancia e bacche di ginepro cotto sottovuoto a 52°, sweet vermouth fat washed con cioccolato, soda alla camomilla, e decorato da una fetta di arancia disidratata con 2 gocce di oli essenziali di limone e zucchero. Un remake del classico americano, nuovo e destinato a durare nel tempo.

 

Ristorante del Cambio - Farmacia del Cambio - Bar Cavour | Torino | piazza Carignano, 2 | www.delcambio.it

 

a cura di Rosalba Graglia

 

Matteo Baronetto sarà presente a Gourmet Food Festival, Torino Lingotto Fiere, il 19 novembre con l'appuntamento "Quando il cibo fa spettacolo. Niente è come sembra

Per info sugli altri appuntamenti: www.gourmetfoodfestival.it

Pierre Hermé. Da Parigi al resto del mondo. Intervista al re del macaron

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44 boutique in tutto il mondo (ma a breve aumenteranno), oltre 600 dipendenti, un elenco di ricette pressoché infinito, e la capacità di unire grandi numeri e altissima qualità.

Con lui la pasticceria è stata, definitivamente, riconosciuta come un'arte. Ma noi ne scorgiamo soprattutto i collegamenti con l'alta moda. Perché, pure se Pierre Hermé, Miglior Pasticciere al mondo nel 2016 per i World’s 50 Best e “il Picasso dei pasticceri” secondo Vogue, definisce il suo mestiere come un'espressione della sensibilità alla stregua di musica e pittura, noi continuiamo a vederne il legame con l'haute couture; d'autore, sì, ma sempre strettamente legata al mercato. Per questo preferiamo un'altra definizione: “il Dior del dessert”.

Pierre_Herm_coulcStphane_de_BourgiesPierre Hermé. Stphane_de_Bourgies

 

Il suo arrivo in questo mondo da protagonista, dopo esperienze con altri grandi come Gaston Lenôtre e Fauchon, ha introdotto nella pasticceria le dinamiche di un certo tipo di sartoria d'autore, con tanto di collezioni stagionali e limited edition presentate con eventi degni di un grande stilista, richiamando schiere di appassionati nelle sue boutique. Perché la maison Pierre Hermé ha boutique in tutto il mondo, tanto per rinsaldare, anche nel vocabolario, il legame con l'alta moda.

Mogador. Autunno Inverno 2013Mogador. Autunno Inverno 2013

I macaron

L'invenzione delle collezioni ha rilanciato sul panorama internazionale i macaron, colorati e fragranti dischi di farina di mandorle ripieni di una vellutata ganache che, prima di lui, erano “semplicemente” dei dolcetti. Oggi sono un oggetto di culto e da collezione, seppur impermanente. Se, infatti, prima si limitavano ai gusti classici, anche un po' scontati - cioccolato, caffè, vaniglia, lampone – oggi sono il veicolo di sperimentazioni e acrobazie di gusto, che ne bilanciano la dolcezza. E questo lo si deve a lui. Pierre Hermé li ha, di fatto, reinventati. Donandogli nuova vita e uno spettro di sapori sino ad allora impensabili, dedicandogli persino una giornata - il 20 marzo - con una iniziativa di beneficenza che da una decina di annisi celebra in diverse parti del mondo.

Ispahan. Autunno Invero 2013Ispahan. Autunno Invero 2013

Belli da vedere e buoni da mangiare, irresistibili nella varietà dei sapori e negli accostamenti presentati di anno in anno, Hermé li ha ripensati, introducendo, nella loro ricetta base, erbe aromatiche e fiori (come Ispahan: rosa, lamponi e litchi), o abbinando ingredienti salati come il foie gras con il cioccolato, o il tartufo bianco con la nocciola. Ci sono poi olio di oliva e vaniglia, basilico e limone, crema al formaggio composta d'arance e frutti della passione, e molto altro ancora. A testimoniare la tavolozza pressoché infinita di sapori da cui il pasticcere attinge e le altrettanto infinite combinazioni.

 

Un'intuizione che ha liberato la sua creatività, certo, ma anche un'operazione di marketing che genera, ogni anno, un'aspettativa altissima e la corsa alla conquista della nuova collezione, e che ha anche contribuito a creare, nel mondo, il mito di Hermé.

 

Infinite Vanille Tarte. Autunno Inverno 2014Infinite Vanille Tarte. Autunno Inverno 2014

Il metodo di lavoro

Dice “cerco l'essenzialità”, come risultato di un processo di pulizia, studio su sapori e texture, sviluppo preciso di ogni nuova creazione. A lui si deve la spinta verso dessert meno barocchi, alleggeriti dalle decorazioni (“ingombrano il dolce” afferma), l'uso misurato dello zucchero per esaltare gli ingredienti, come il sale. Per lui la nascita di un dolceè un processo intellettuale: una cucina della mente in cui elabora suggestioni diverse, immagina il gusto e l'avvicendarsi dei sapori, poi li descrive con parole e disegni al suo team, che realizza la creazione. La precisione è un elemento basilare che non consente dilazioni. “La creatività è tutta nella ricerca del gusto”. Crea e ri-crea, rileggendo e modificando nel tempo le sue stesse ricette. Per non parlare delle confezioni: il packaging è parte stessa della creazione.

Sensation. Autunno Inverno 2016Sensation. Autunno Inverno 2016

Le boutique

Il 72 di rue Bonaparte – primo indirizzo parigino – per i golosi, è come la Mecca per i musulmani: bisogna andarci almeno una volta nella vita. Una tappa imperdibile che fa subito capire chi è Pierre Hermé: la fila può continuare anche dietro l'angolo, e l'attesa superare l'ora. Solo per un Infiniment Vanille, un Envie, un Mogador. Torte, praline, sontuosi monoporzione da fine pasto, croissant - perfetti – da colazione. Tutto quello che compone il dolcissimo “universo Hermé”. 44 boutique, 17 solo a Parigi, 14 in Giappone, dove ha aperto il suo primo negozio 1998. Il primo di una lunga serie che fanno riferimento alla società creata, l'anno precedente, insieme Charles Znaty. Occorre attendere fino al 2001 per il primo locale in Francia, proprio a rue Bonaparte. Tre anni dopo arriva il secondo punto vendita nella capitale francese. Da lì in poi è stato un susseguirsi di inaugurazioni che non accenna a fermarsi: il primo dicembre un Bar à dessert sugli Champs Elisée, a breve anche un altro avamposto in Marocco, a Marrakech, nell'hotel La Mamounia.

Torta Infinite Praline NoisetteTarte Infinite Praline Noisette. Autunno Inverno 2017

 

Lo abbiamo incontrato a seguito di un incontro tenuto all'Accademia di Francia di Roma, nel ciclo “Giovedì di Villa Medici

 

 

Come conciliare grandi numeri e grande qualità. Come si fa a mantenere uno standard qualitativo alto?

Tutta la creazione è centralizzata in un unico laboratorio a Parigi dove si fa studio del prodotto, sviluppo, ricerca. Ci sono poi degli atelier di fabbricazione in Francia, Giappone e Corea. Sono gli chef del laboratorio di Parigi a spiegare ogni cosa a chi quotidianamente produce macaron e cioccolata, in altri paesi vendiamo solo macaron e cioccolata, non pasticceria.

 

Per quanto riguarda le materie prime? Come assicurare che siano all'altezza?

La selezione delle materie prime è fatta solo da una persona, io.

 

Ma all'estero come fa, riesce sempre a trovare le materie prime giuste?

Se non le trovo della qualità richiesta rinuncio a fare il dolce.

 

Questo basta per assicurare che il livello dei dolci sia adeguato allo standard Hermé?

La qualità non dipende solo dal sistema, ma anche dalle persone, c'è una specie di salvaguardia della qualità nella trasmissione del saper fare: tra gli addetti alla produzione, la persona che è da meno tempo con noi ha 15 anni di anzianità, 15 anni di esperienza con la nostra maison.

 

Quanti dipendenti avete?

La Pierre Hermé Paris è una società di 600 addetti e bisogna che tutti i settori funzionino bene, che ci sia uno stesso livello nel servizio, è questo che assicura i nostri standard in Francia e negli altri paesi. È importante che le altre aree di supporto dell'attività di Pierre Hermé siano performanti: comunicazione, marketing, distribuzione, contabilità, parte grafica. Cose che non si vedono ma se tutte queste attività funzionano bene, consentono i nostri livelli di qualità.

 

Ha mai dovuto adeguare i suoi prodotti al paese in cui si trovano le sue boutique?

Quando decidiamo di aprire in un paese vuol dire che c'è un mercato, è stato già fatto uno studio, e sappiamo che possiamo incontrare il gusto di questo paese. Proponiamo sempre le nostre ricette originali, non le adattiamo mai le ricette.

 

Nessuna difficoltà data da una diversa percezione del dolce, di gusti o abitudini alimentari in altri paesi?

Abbiamo praticamente un numero illimitato di ricette, selezioniamo quelle che corrispondono meglio al gusto e alla cultura di ogni paese. Inoltre alcune ricette hanno subìto delle evoluzioni negli anni perché c'è una linea artistica, ma la creatività ci porta a fare delle nuove versioni di alcuni dolci. In alcuni casi una meno recente incontra meglio il gusto di un paese.

 

Nessun adeguamento, dunque?

Una grande differenza è nella confezione, nella parte grafica e nel packaging. Per esempio in Giappone nessuno acquisterà mai una scatola di cioccolatini da 500 grammi, preferiscono confezioni più piccole, da 8 o 10 cioccolatini. Questo è un criterio di cui tenere conto. Poi facciamo packaging specifici per ogni paese, per il Capodanno cinese ci sarà una scatola di macaron con una stampa particolare. Tutto ciò che riguarda la direzione artistica è molto importante perché esprime la filosofia e lo stile del marchio Hermé.

 

La pasticceria che posto occupa all'interno degli alberghi internazionali?

Si sta facendo strada e sta occupando un suo spazio. Noi, per esempio, oltre alle nostre boutique abbiamo anche la gestione di tutta la pasticceria di tre hotel: il Royal Monceau di Parigi, il Carlton di Kyoto e il La Mamounia di Marrackech che dovrebbe aprire dopo novembre. In questi casi abbiamo uno chef e due sous chef, e loro riportano tutta la loro attività al braccio destro. Perché voglio che sia rispettato perfettamente lo stile Hermé.

 

Ma anche quello che riguarda la proposta di dessert al piatto?

Sì, per esempio a Kyoto i dolci proposti nel ristorante giapponese sono nostri.

 

Il suo collega Iginio Massari sostiene che il dolce debba essere dolce, senza compromessi. Lei cosa pensa dei dessert vegetali, o acidi o amari?

Sono due cose che possono convivere: dipende da che cosa si ha voglia di mangiare alla fine di un pasto. Per me, nella carta di un ristorante, ci devono essere i due stili. Io stesso delle volte ho voglia di un bel dolce opulento, altre di cose più semplici, per esempio dei piccoli frutti caramellizzati. Una carta che si rispetti deve dare le due opzioni.

 

Ma un pastry chef deve nascere prima chef o prima pasticcere, secondo lei?

Credo che il punto di partenza debba comunque essere la pasticceria. I dessert da ristorazione hanno comunque basi comuni con i dolci da pasticceria.

 

Dunque proponete anche dei dolci meno ricchi nelle vostre boutique?

Apriremo una sala da tè, o meglio un bar à dessert, negli Champs Élysée il primo dicembre. Lì ci saranno dolci molto ricchi ma anche cose più semplici come frutta confit.

 

Non grida allo scandalo di fronte all'ipotesi di un dolce vegano, o crudista o senza glutine?

No, non grido allo scandalo. Li chiedono le persone, è un fenomeno culturale e di costume quindi è giusto rifletterci e dare una risposta. Anche se come pasticceri, a livello di formazione, non siamo preparati a queste esigenze, mi interessa approfondire questa questione. In ogni caso mi domandano spesso se faccio dolci senza glutine, in realtà il 60% dei miei prodotti lo è, per esempio i macaron.

 

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Quali sono, attualmente, le grandi scuole di pasticceria?

Identifico ancora la scuola francese, come principale a livello mondiale, ma c'è sempre più contaminazione: vedo influenze austroungariche, italiane, spagnole, marocchine. Ancora molto limitata, invece, la pasticceria giapponese.

 

Chi sono i suoi eredi?

Molte persone che hanno lavorato con me e oggi sono diventati a loro volta pasticceri molto importanti e conosciuti. La mia eredità è rappresentata da loro.

 

Nessun nome?

Christophe Michalak, Christophe Felder, Frédéric Bau, ma anche molti che sono meno conosciute ma hanno molto talento.

 

Conosce il panorama italiano?

Ho una grande ammirazione per Iginio Massari, poi anche Roberto Rinaldini di Rimini, Andrea Acherer a Bolzano, Luigi Biasetto di Padova, Luca Mannori di Prato. Poi Massimiliano e Raffaele Alajmo.

 

Dolce preferito?

Torta di prugne di mio padre. Mi capita spesso di assaggiare creazioni di altri pasticceri e pensare che avrei voluto farle io.

 

Che ruolo ha la memoria nel suo lavoro?

Dico sempre a chi sto formando è importante la tecnica, l'aspetto scientifico, la conoscenza approfondita degli ingredienti, ma è importante anche l'aspetto emotivo, la memoria, cose che dobbiamo elaborare con letture e pratica. Bisogna andare oltre, cercare le informazioni, capire le cose.

 

www.pierreherme.com

 

a cura di Antonella De Santis

 

 

Gourmet Food Festival. Tutto quello che c'è da sapere per riconoscere un buon gelato

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Colore, consistenze, sapori e materie prime. Perfino temperatura. A Gourmet Food Festival gli esperti e gli addetti sveleranno i trucchi per riconoscere un buon gelato.

Si va alla ricerca di una gelateria con lo stesso impegno con cui si selezionano un ristorante, una pizzeria, una pasticceria. Ma come riconoscere un buon gelato? Affronteremo la questione durante Gourmet Food Festival, nell'appuntamento “La lista della spesa. Il gelato, un'esperienza da brividi, in compagnia di Alberto Marchetti (che ha da poco aperto anche Casa Marchetti), Sal De Riso, Marco Serra (Marco Serra Gelatiere), Davide Ferrero (Mara dei Boschi),Emanuele Monero Giulio Rocci (Ottimo!), e la famiglia Buzzi dell'omonima pasticceria a Nus.

Il gelato. I numeri

Ne consumiamo dodici chili a testa ogni anno. L’Osservatorio Sigep ha stimato nel 2017, per il periodo estivo, una crescita dei consumi del gelato artigianale in Italia del 10%, e fino al 15% nelle località turistiche. Ma sono finiti i tempi di un consumo solo stagionale, anzi la tendenza va verso un’ulteriore crescita, per un giro d'affari di oltre 2 miliardi di euro. A livello mondiale, il gelato artigianale vale attualmente 15 miliardi di euro, con una crescita media del 4% l’anno tra il 2015 e il 2018. In Italia in particolare, dove per i 2/3 (66%) il consumo è di gelato artigianale, negli ultimi anni i consumi si sono moltiplicati di sei volte. Caso unico per un prodotto alimentare. Risultato, nel nostro Paese: si contano 39mila gelaterie (10.000 gelaterie pure e 29.000 bar e pasticcerie che producono anche gelati) e 150mila occupati. Tanto da essere attualmente il 1° produttore UE di gelato, con una rivincita su Germania e Francia (nel 2011 eravamo al 3° posto).

La tendenza

Il gelato italiano artigianale è diventato un fenomeno culturale, si va alla ricerca di una gelateria con lo stesso impegno con cui si selezionano un ristorante, una pizzeria, una pasticceria. Non a caso, la guida Gelaterie d'Italia del Gambero Rosso, dopo il successo della 1° edizione, sta già preparando quella del 2018, che uscirà a gennaio. E aumentano i giovani, che imparato il mestiere qui, partono alla volta degli Stati Uniti, dell’Australia, persino della Cina, tutti mercati potenzialmente di grande interesse. Di gelato parleremo a Gourmet Food Festival, naturalmente. Abbiamo sentito in anteprima alcuni dei gelatieri che saranno ospiti a Torino, per capire un po’ dove sta andando il gelato artigianale, quali sono le tendenze più interessanti del momento. Ne è venuta fuori una piccola classifica di priorità e orientamenti, di cui si discuterà a Torino durante l'incontro “La lista della spesa. Il gelato, un'esperienza da brividi”.

1. Qualità. È il punto chiave, la base di tutto, imprescindibile. Qualità delle materie prime, qualità della lavorazione, qualità della conservazione. Si parte sempre di più dal prodotto, zero (o quasi) semilavorati. Sulla qualità si deve puntare assolutamente (il recente scandalo di 17 gelaterie pugliesi indagate per frode è una di quelle ombre che devono sparire dal panorama nazionale).

 

2. Creatività. Mai fine a se stessa, deve puntare a valorizzare i prodotti tipici, le tradizioni, suggerendo abbinamenti nuovi, accostamenti a volte anche audaci, ma attenti sempre e soprattutto all’armonia del gusto. Un esempio? Emanuele Monero eGiulio Rocci della gelateria torinese Ottimo! (3 coni nella guida Gelaterie d'Italia del Gambero Rosso), che ora puntano sul gelato alla canapa. Ma non si tratta di un ammiccamento all’attualità, ludica o medica: è una scelta precisa legata a una coltivazione ben presente, e non da oggi, in Piemonte, da Carmagnola al Canavese, e di un prodotto salutare, eccezionalmente ricco di Omega 3. E da Mara dei Boschi, altra gelateria torinese nell’Olimpo dei “3 coni” si fa il gelato al tartufo bianco di Alba, una delizia (per cui gli stranieri vanno pazzi).

 

3. Il gelato diventa salutare? Sì, certo, sempre di più. Sdoganato il cioccolato (a Gourmet Food Festival parleremo del cioccolato al latte), ora tocca al gelato. Dove si utilizzano zuccheri naturali, frutta fresca, prodotti selezionati. Di più: Davide Ferrero di Mara dei Boschi sta studiando i gelati alle erbe del benessere. E per gli addensanti, la tendenza è ridurli al minimo e puntare alla maggiore naturalità possibile.

 

4. Gelato come catalizzatore di eccellenze? Perché no. Alberto Marchetti ha aperto con questo spirito Casa Marchetti, dove si gusta il suo eccellente gelato, ma anche eccellenti caffè di torrefazioni artigianali, vini, specialità del territorio. Alleanze di food che sono stimoli reciproci continui.

 

5. Gelato e chef, binomio perfetto. La collaborazione con l’alta gastronomia è un po' la nuova frontiera del gelato artigianale. Marco Serra, che ha da poco riaperto una gelateria a Carignano, nella cintura torinese, è un cultore e un antesignano (ormai in compagnia di un bel manipolo di grandi gelatieri) del gelato gastronomico: lo fa con le olive taggiasche, con i peperoni di Carmagnola e le acciughe, con il sedano bianco ideale con i gamberi, con limone e zenzero da abbinare alle seppie…Non c’è limite all’inventiva sul gelato salato.

 

6. Gelatiere o pasticcere? Dipende, spesso le due passioni convergono. Un esempio è Sal de Riso, che all’arte pasticcera ha affiancato l’arte del gelato. Da segnalare: i pasticceri che diventano gelatieri propongono in versione ice i dolci più classici, panettone compreso, e i loro cavalli di battaglia, come i Baci di Nus della pasticceria Buzzi, in Val d’Aosta, con risultati convincenti.

 

7. Gelati e vino. Altro bello spunto di lavoro. La tendenza più nuova sono i gelati al vermouth, che sta vivendo uno straordinario revival. Giulio Rocci ne propone di svariati e Marco Serra sta mettendo a punto gelati alla birra.

 

8. Intolleranze e problemi di salute. Grande sfida dei gelatieri e grande filone di ricerca. Si può proporre un gelato a base crema a chi è intollerante al latte? Certo, con latte di riso o di soia. Un diabetico può mangiarsi un gelato gourmand? Basta sia dolcificato con maltitolo o stevia (idea di Riccardo Serra, fratello di Marco e pure lui gelatiere). Aggiungeteci i coni per celiaci, i sorbetti al cioccolato e via declinando: il gelato vuole essere democratico davvero. Per tutti.

 

9. Gelateria singola o catena? Ci si può ampliare salvaguardando l’artigianalità del prodotto? Il dibattito è aperto. Anche se casi come quello di Claudio Torcè fanno riflettere.

 

10. A ciascuno il suo. C’è il gelato di stile torinese-piemontese, ricco e cremoso (molti gelatieri ci aggiungono un po’ di latte condensato, come da vecchia tradizione), quello di scuola veneta, toscana, romana, siciliana. È possibile un gelato “italiano” tout court - magari protetto da un marchio (la proposta di legge è ancora in stallo) - o è solo la dicitura che si legge nelle insegne delle gelaterie all’estero? E sappiamo esportarlo (i tedeschi sono assai più bravi di noi)?

Appuntamento a Gourmet Food Festival per discuterne insieme ad alcuni Maestri dell’arte del gelato.

 

a cura di Rosalba Graglia

 

Gourmet Food Festival | Torino | Lingotto Fiere, via Nizza, 294 | dal 17 al 19 novembre 2017, venerdì dalle 17 alle 23, sabato dalle 10 alle 23, domenica dalle 10 alle 20 | www.gourmetfoodfestival.it

Per info sugli altri appuntamenti: www.gamberorosso.it/it/gourmet-food-festival

Ristoranti d'Italia 2018 e la Cena delle Tre Forchette allo Sheraton di Roma. Come partecipare

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Si avvicina l'appuntamento annuale con la presentazione della guida Ristoranti d'Italia del Gambero Rosso. Protagonisti e premiati dell'edizione 2018 saranno svelati il 23 ottobre, dalle 18, all'hotel Sheraton di Roma. E per la prima volta anche chi acquista un posto alla cena può partecipare. Poi, tutti a cena con 10 grandi chef per festeggiare. 

Una cena fuori dagli schemi, con i migliori rappresentanti della ristorazione italiana. Ancora una volta... In punta di Forchetta. Con la effe maiuscola. Per chi non avesse ancora colto l'indizio, ecco l'annuncio ufficiale: lunedì 23 ottobre, all'hotel Sheraton di Roma, la guida Ristoranti d'Italia 2018 del Gambero Rosso svela le carte. Anche quest'anno alla cerimonia di premiazione seguirà una grande cena spettacolo, 10 postazioni per 10 chef, che animeranno la serata capitolina. E così scatta il conto alla rovescia per scoprire protagonisti e premiati della nuova edizione della guida che recensisce le realtà più interessanti del panorama ristorativo italiano (da quest'anno c'è spazio anche per Le grandi cantine della regione, da Nord a Sud della Penisola), chiamati a sfilare davanti alla platea dello Sheraton. Con una bella novità: per la prima volta nella storia della guida, chi acquisterà un posto per la cena (a partire dalle 20.30) potrà partecipare all'evento di presentazione (dalle 18), che apre le porte anche ai non addetti ai lavori, e seguire in diretta la premiazione che si terrà nella stessa sala allestita per la cena.

 

Poi, terminate la consegna dei diplomi e le foto di rito, la cena prenderà il via, ma senza percorsi obbligati o rigidi cerimoniali: ognuno sarà libero di curiosare tra le postazioni, menu alle mano, e scegliere il proprio percorso di degustazione personalizzato, a tu per tu con 10 grandi cuochi in arrivo da tutta la Penisola. In abbinamento, con l'ausilio di sommelier professionisti, 37 etichette Tre Bicchieri della guida Vini d'Italia e 6 birre artigianali. All'evento, già acquistabile online sullo store del Gambero Rosso, si partecipa con una quota di 150 euro a persona, che offre anche la possibilità di prendere parte all'aperitivo che aprirà le danze, nel Foyer delle Signorie dello Sheraton, fra piccoli assaggi e bollicine, prima della presentazione. Per ogni commensale c'è un posto assegnato, meglio prenotare in fretta.

 

Acquista il biglietto

Parigi capitale dello street food. 41 cucine itineranti in giro per la città, e la mappa per trovarle

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Un bando di gara per rintracciare i food truck più originali, in grado di assicurare una proposta di qualità. Quelli a basso impatto ambientale e con un bel progetto grafico alle spalle. Parigi scommette sullo street food, concede 41 licenze per due anni e stabilisce 19 postazioni in giro per la città. 

Lo street food di qualità in città

Prima dell’estate era arrivata la chiamata dell’amministrazione cittadina: un bando destinato alle migliori cucine su ruote per raccontare il cibo di strada, quello tradizionale e le nuove espressioni street food, nel centro di Parigi. Qualcosa di simile, all’inizio dell’anno, era capitato a Milano, dove la giunta di Beppe Sala, con l’assessore al commercio Cristina Tajani in testa, lavora in continuità con la precedente amministrazione per valorizzare il cibo di qualità, specie quando tutti possono sperimentarlo a prezzi contenuti e in situazioni informali. Ancor meglio, passeggiando alla scoperta della città. Largo alle nuove licenze, quindi, ma solo dopo aver verificato la validità della proposta, e l’originalità del format. Per valorizzare la tradizione dello street food come merita, senza incappare nelle malriuscite imitazioni di chi cerca di cavalcare l’onda pur non avendo competenze in merito. Nel capoluogo lombardo, da luglio scorso, sono 50 le concessioni confermate per i prossimi tre anni. Tutto il contrario sta succedendo purtroppo a Roma dove il Comune non sembra avere alcun interesse nello scalfire le scadenti lobbies che monopolizzano il settore, come dimostra il recentissimo bando sulla Fiera della Befana di Piazza Navona.

A Parigi, la “cuisine de rue” sarà invece rappresentata da 41 operatori itineranti, selezionati nei mesi scorsi tramite bando di gara. Un progetto che si sviluppa in seno ai diversi arrondissement (fatta eccezione per il nucleo centrale, dal I all’VIII), nel rispetto degli spazi pubblici e delle attività commerciali già esistenti. A candidarsi sono arrivati più o meno 100 rappresentanti della categoria, ma solo i food truck più originali e capaci di integrarsi nel contesto urbano hanno avuto la meglio.

41 cucine itineranti a Parigi

Tra i criteri di selezione anche l’estetica dei mezzi, l’utilizzo di prodotti freschi, locali e biologici, il sostegno a progetti sociali, l’ecosostenibilità della cucina su ruote. Diciannove le postazioni individuate in città, dove i vincitori della licenza si alterneranno ogni settimana, a pranzo e cena, secondo il criterio della varietà dell’offerta, dalla cucina vegetariana alle proposte etniche, alle specialità più popolari, fish&chips, hamburger, crepes. Ognuno di loro potrà usufruire della concessione per i prossimi due anni, e la mappa degli spostamenti settimanali è scaricabile online, per seguire nel dettaglio ogni cucina, e scegliere secondo gusto ed esigenza del momento.

Diverse le fasce orarie a disposizione, dalle 11 alle 15 e dalle 18 alle 22, e dalle 15 alle 19 per i truck specializzati in dolci e affini. E un obiettivo chiaro nelle intenzioni dell’amministrazione cittadina: “Lo street food contribuisce pienamente alla fama di Parigi come capitale gastronomica d’eccellenza”, fanno sapere dal Comune. E anche l’opportunità di dare voce a tante nazionalità diverse attraverso il cibo fa gioco al principio di integrazione culturale e sociale che Parigi ha sempre cercato di perseguire. Dalla cucina venezuelana del Papelon e Aji Dulce alle lumache del francesissimo l’Escargot Roulant, passando per la pizza e la pasta fresca di The Rolling Pizza. Mappa alla mano il gioco è semplice, e divertente.

 

La mappa delle cucine itineranti a Parigi

 

a cura di Livia Montagnoli

Bulzoni Vini & Cucina. Un nuovo capitolo per la storica enoteca di Roma

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Continuità, rispetto della storia di famiglia, ma nessuna paura di rischiare, per intercettare ancora una volta il gusto che cambia, insieme alla città. Dal 1929 Bulzoni presidia il quartiere dei Parioli. Prima Vini e Olio, poi enoteca con selezione gastronomica. Dal 12 ottobre cucina per il vino. Senza acrobazie, con tanta passione.

La città che cambia. Nella storia del consumo

Nonno Emidio, poi papà Sergio. E i fratelli Alessandro e Riccardo. La storia di Bulzoni, che dal 1929 si evolve insieme alla città che cambia, racconta di un passaggio generazionale senza strappi, seppur votato al rischio, nel senso positivo del termine. Quel rischio che stimola l’attività, e ravviva il rapporto di fiducia col cliente. E dell’insegna di viale Parioli ha fatto una delle realtà commerciali più longeve di Roma. Tanto da sopravvivere alle abitudini che cambiano, e forgiare a propria volta il gusto di chi, tra quegli scaffali affollati di bottiglie, ha sempre cercato una risposta. Quale sia quella più giusta, diversa ogni volta, spetta proprio al “bottegaio” comprenderlo, e solo anni d’esperienza temprano l’attitudine al dialogo, allo scambio reciproco col cliente. Certo, nulla succede per caso: “Credo di essere entrato per la prima volta in negozio da neonato”, racconta oggi Alessandro Bulzoni, terza generazione a bottega, insieme al fratello Riccardo. La saga familiare, però, era iniziata ben prima, quando tutto intorno, dove oggi c’è l’eleganza composta del quartiere Parioli, la campagna si estendeva a perdita d’occhio, al limitare della città: “Quando mio padre Sergio era piccolo, a piazza Ungheria cominciava la campagna aperta! Parioli era abitata da famiglie, operai e famiglie di operai, che venivano qui, prendevano mezza bottiglia a pranzo, un quartino prima di cena e mangiavano un panino veloce prima di tornare a lavorare. Poi ci sono stati gli anni in cui il contesto è cambiato, le famiglie compravano il vino tutte le sere per i familiari e gli amici, facevano cene almeno una volta a settimana e imbandivano la tavola a festa”.

{gallery}Bulzoni{/gallery}

L’intuizione di Bulzoni, inaugurato nel 1929 con la formula Vini e Olio, come tanti all’epoca se ne vedevano in città, è stata quella di non limitarsi ad assecondare il cambiamento, ma viverlo, e anticiparlo: “Per restare competitivi è necessario capire i bisogni delle persone, interpretandoli ma anche scegliendo una propria linea da seguire con coerenza. Oggi, la situazione è cambiata ancora una volta: a casa ci si sta davvero poco, si sceglie di consumare molto fuori e quindi anche il vino è legato alla cena al ristorante o all’aperitivo, o al dopo cena”. Ecco perché l’esigenza di cambiare pelle si è fatta strada ancora una volta, e nei prossimi giorni, dal 12 ottobre, Bulzoni tornerà a proporsi in veste nuova, come enoteca con cucina, ma sempre con l’obiettivo di valorizzare al meglio il vino. Che è la vera passione di Alessandro, anche quando – spesso – si è trattato di muoversi controcorrente, percorrendo una strada molto personale.

L’enoteca. E i vini artigiani

Nel 1972, l’insegna diventava a tutti gli effetti enoteca: “Dall’inizio, e poi soprattutto negli anni ’80, abbiamo deciso di percorrere una strada nella scelta dei vini che fosse nostra”. Che nello specifico è la storia di un profondo innamoramento per i vini artigiani – “noi preferiamo non chiamarli vini naturali” – capace di orientare il gusto della città in tempi non sospetti, creare proseliti, ma pure ricevere critiche, facendo selezione all’ingresso. Dietro c’è sempre stato un approccio consapevole, un gusto che si è evoluto nel tempo, senza paura di rapportarsi con quei vini estremi che nel tempo hanno attirato in enoteca tanti clienti in cerca di una storia che va al di là di una semplice bottiglia da acquistare: “I nostri clienti arrivano da tutta Roma, scelgono noi perché ci conoscono da tempo oppure perché hanno conosciuto le nostre selezioni di vini artigiani. Spesso scelgono un vino molto classico, moderno direi io, e si lasciano orientare da tanti fattori: il prezzo ma anche l’etichetta, per dire. Altri si affidano a noi, cercano qualcosa in più. La chicca, l’esperienza, la sfida, e si addentrano con coraggio in un mondo nuovo del vino, ma assolutamente antico. Di solito chi sceglie questi vini non torna più indietro. Non è un processo reversibile!”. E Alessandro, nel suo ruolo bonario di mentore si diverte ancora dopo tanti anni: “In questi giorni prima della riapertura, sto facendo un piccolo esperimento: a tutti quelli che lavorano in cantiere faccio provare un bicchiere di vino “diverso”, quello che piace a me. E poi chiedo alla fotografa di fare loro uno scatto subito dopo il primo assaggio. Vedere quelle facce quasi schifate è davvero divertente! Ci fa capire che il gusto rispetto al vino si è completamente standardizzato verso equilibrio, pulizia, toni stabili e ricorrenti”.

 

Bulzoni, vini

Il cibo. Dalla gastronomia alla cucina per il vino

Anche ora che Bulzoni si appresta a evolvere, dunque, il vino resterà asse portante dell’attività. Del resto, quando negli anni Settanta alle bottiglie si affiancava la prima selezione di prodotti alimentari, l’intento era già quello: “I primi prodotti confezionati da mangiare accompagnavano la piccola mescita al bicchiere”; nei decenni il catalogo dei prodotti a scaffale è cresciuto, nel rispetto della filosofia Bulzoni. Ora, invece, comincia l’era della “cucina per il vino”, e l’insegna parla chiaro: Vini & Cucina. Il motto, però, non tradisce le origini: “Una lunga storia, una nuova esperienza”, recita lo slogan, sottolineando il valore di quanto fatto sin qui.“L’evoluzione è un fattore costante nella nostra vita, l’importante è tenere ben saldi alcuni punti, quelli che noi chiameremmo i nostri valori. Uno fra tutti: il rispetto e l’onestà verso il consumatore. Il cliente vuole essere aiutato nella scelta, e noi abbiamo il compito di offrire quello che riteniamo sia il meglio in circolazione. Il passo avanti che stiamo facendo con l’enoteca è davvero naturale. All’inizio noi stessi facevamo difficoltà ad accettarlo, ci sono voluti tre anni per concludere questo progetto, ma ora che lo vedo realizzato, mi sembra che sia stato sempre qui, che questo posto lo stesse davvero aspettando. Abbiamo semplicemente rimodellato l’identità del luogo, che continua, e continuerà sempre a girare, intorno al vino”.

Il nuovo spazio, le tapas, la cucina senza acrobazie

Allora sveliamo le carte, che succede dal 12 ottobre da Bulzoni? Il cantiere degli ultimi mesi ha regalato un nuovo volto al locale, che ora presenta una nuova organizzazione degli spazi – “più belli, e accoglienti” – con cucina a vista (anche dall’esterno, se non fosse per la coltre di incredibili bancarelle di stracci e indumenti che qualcuno ha autorizzato sul marciapiede), tavole e panche per sedersi, il lungo bancone scuro con la gastronomia e la mescita del giorno, “il pavimento in legno che sembra quello di una botte, il rosso che ricorda la nostra insegna storica e anche il vino”, due finestre su strada, di cui una su viale Parioli: “L’architettura è semplice, ma anche molto elaborata, ha un sapore antico ma contemporaneo. Un po’ come noi!”. La cucina, tutta da inventare, gioca su un doppio binario: la carta delle tapas e quella dei piatti espressi. Trait d’union la carta dei vini, “uno strumento che ci aiuterà ancora di più a comunicare con i clienti il vino e i vini: in quella carta c’è tutta la nostra esperienza e un sacco di belle bottiglie”. Perché, Alessandro ci tiene a ribadirlo di nuovo, “questa è e rimarrà sempre un’enoteca, un luogo del vino. La cucina noi la vediamo come complementare ad esso, come un elemento che arricchisce l’esperienza di provare un bicchiere o una bottiglia, da soli o in compagnia, prima di pranzo, dopo il lavoro o a fine giornata, prima di andare a dormire”. Quindi, “niente ghirigori, niente cucina d’autore, niente acrobazie gastronomiche: vogliamo una cucina di sostanza, con materie prime eccellenti, e l’avremo!”.

Da gastronomia a cucina. Perché?

Il percorso è affine a quello intrapreso nell’ultimo anno da gastronomie blasonate della Capitale, che con Bulzoni condividono storia, prestigio e capacità di resistere al tempo che passa. E alle mode che cambiano. Pensiamo a Volpetti, nel quartiere Testaccio, o a Ercoli, in Parioli e Prati, e alla Tradizione di via Cipro. Di sicuro tanto è dovuto alle nuove esigenze di consumo, ma gli esiti, apparentemente simili, per ognuno sono frutto di una riflessione diversa, e molto personale: “Noi siamo andati in questa direzione non per moda, ma per necessità. La veste di Bulzoni non era più identitaria, riconoscibile. Non era più un luogo adatto a raccontare e comunicare il vino. L’obiettivo è quello di dare a questo luogo una connotazione nuova che ci aiuti a ritornare sui nostri concetti fondamentali, che poi sono i nostri valori più antichi. Alle persone oggi piace scegliere il posto dove andare a cena, cambiare anche tre o quattro locali in una sola giornata. Passarci il tempo, fare riunioni di lavoro, incontrare gli amici, i mariti, gli amanti. Perché non farlo anche qui?”. Con la risposta è arrivata l’idea di “chi volevamo diventare”, con l’aiuto della Laurenzi Consulting: la nuova identità di Bulzoni doveva essere assolutamente rispettosa di quella storica. “Noi crediamo davvero nella nostra scelta, una scelta ragionata e istintiva al tempo stesso”. È stato così per il vino, lo sarà da oggi con la cucina: “Il rischio è necessario. Oggi questo è un altro posto, eppure è sempre e comunque Bulzoni”.

Bulzoni Vini & Cucina | Roma | viale Parioli, 36 | tel. 06 8070494 | www.enotecabulzoni.it

a cura di Livia Montagnoli


Anteprima Tre Bicchieri 2018. Veneto

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L'anticipazione dei premiati della nuova guida Vini d'Italia 2018 oggi ci porta a scoprire i migliori vini del Veneto.

Il grande successo commerciale che sta vivendo il Veneto in questi anni basa le sue fondamenta su due grandi denominazioni, quella del Prosecco e quella dall'Amarone della Valpolicella. Vini apparentemente antitetici, uno fragrante e l'altro profondo, uno leggero e scattante, l'altro potente e compassato. Ciò che li unisce è il profondo legame con il proprio territorio, con la storia e le tradizioni, con l'opera di viticoltori che da generazioni si susseguono nel faticoso lavoro in collina e in cantina. Il risultato è racchiuso in una presenza in tutto il mondo dei due vini simbolo di questa regione.

L'ottima sequenza di vendemmie 2105 e 2016 ha permesso produzioni di grande consistenza qualitativa un po' in tutte le denominazioni della regione, con i produttori che hanno saputo interpretare nel primo caso la grande ricchezza e nel secondo la tensione e la nitidezza aromatica per proporre vini di grande carattere e piacevolezza.

Ben quarantuno vini che hanno raggiunto il massimo risultato provenienti dalle più importanti denominazioni della regione sono il simbolo di un tessuto agricolo e imprenditoriale che punta senza mezzi termini all'alta qualità, rifuggendo da modelli vincenti ma proponendo la massima espressione di quello straordinario legame che si realizza tra territorio, vitigno e uomo.

Spetta all'Amarone il ruolo di capofila con una lunga sequenza di vini premiati, tra i quali abbiamo il piacere di segnalare il debutto di Marco Speri che fa eco al successo di un'altra coppia di debuttanti, Elena e Enrico Moschetta che in pochi anni hanno fatto di Biancavigna una delle realtà emergenti del comprensorio di Conegliano Valdobbiadene. Importanti novità anche da Soave dove il lungo lavoro di Gaetano Tobin ha portato finalmente il successo alla Cantina di Monteforte con un Soave che riesce a congiungere carattere con volumi e identità. Fra i nuovi ingressi conclude il quartetto l'azienda della famiglia Piona che corona il percorso di valorizzazione del Bardolino con una fantastica versione che viene proposta dopo un lungo affinamento in cantina.

Per il resto c'è solo imbarazzo della scelta, dalla solida pienezza dei Valpolicella Superiore alla fragranza e carattere dei Custoza, dai bordolesi grintosi alla leggerezza dei Lugana. Infine segnaliamo uno straordinario Riesling dalla Valdadige, il Collezione di Famiglia dei fratelli Fugatti, che interpretano il nobile vitigno tedesco con personalità e classe.

 

I vini della Campania premiati con Tre Bicchieri

 

Amarone della Valpolicella Cl. Calcarole ’13 - Guerrieri Rizzardi

Amarone della Valpolicella Campo dei Gigli ’13 - Tenuta Sant'Antonio

Amarone della Valpolicella Cl. ’13 - Allegrini

Amarone della Valpolicella Cl. ’13 - Brigaldara

Amarone della Valpolicella Cl. ’09 - Cav. G. B. Bertani

Amarone della Valpolicella Cl. ’11 - Secondo Marco

Amarone della Valpolicella Cl. ’13 - David Sterza

Amarone della Valpolicella Cl. Albasini ’10 - Villa Spinosa

Amarone della Valpolicella Cl. Campolongo di Torbe ’11 - Masi

Amarone della Valpolicella Cl. Capitel Monte Olmi ’11 - F.lli Tedeschi

Amarone della Valpolicella Cl. Monte Ca' Bianca ’12 - Lorenzo Begali

Amarone della Valpolicella Cl. Ris. ’07 - Giuseppe Quintarelli

Amarone della Valpolicella Cl. Sergio Zenato Ris. ’11 - Zenato

Amarone della Valpolicella Famiglia Pasqua ’13 - Pasqua - Cecilia Beretta

Amarone della Valpolicella Vign. Monte Sant'Urbano ’13 - Viticoltori Speri

Bardolino Cl. Brol Grande ’15 - Le Fraghe

Bardolino SP ’13 - Albino Piona

Breganze Cabernet Due Santi ’14 - Vigneto Due Santi

Capitel Croce ’15 - Roberto Anselmi

Cartizze Brut V. La Rivetta - Villa Sandi

Colli Euganei Rosso Gemola ’13 - Vignalta

Conegliano Valdobbiadene Rive di Ogliano Brut Nature ’16 - BiancaVigna

Custoza Sup. Amedeo ’15 - Cavalchina

Custoza Sup. Ca' del Magro ’15 - Monte del Frà

Lugana Molceo Ris. ’15 - Ottella

Riesling Renano Collezione di Famiglia ’12 - Roeno

Soave Cl. Calvarino ’15 - Leonildo Pieropan

Soave Cl. Contrada Salvarenza V. V. ’14 - Gini

Soave Cl. Monte Carbonare ’15 - Suavia

Soave Cl. Staforte ’15 - Graziano Prà

Soave Cl. Sup. Vign. di Castellaro ’15 - Cantina Sociale di Monteforte d'Alpone

Soave Sup. Il Casale ’16 - Agostino Vicentini

Studio ’15 - Ca' Rugate

Valdobbiadene Brut Nature ’16 - Silvano Follador

Valdobbiadene Brut Rive di Col San Martino Cuvée del Fondatore Graziano Merotto ’16 - Merotto

Valdobbiadene Brut Rive San Pietro di Barbozza Motus Vitae ’15 - Bortolomiol

Valdobbiadene Extra Dry Giustino B. ’16 - Ruggeri & C.

Valdobbiadene Rive di Colbertaldo Asciutto Vign. Giardino ’16 - Adami

Valpolicella Cl. Sup. Campo Casal Vegri ’15 - Ca' La Bionda

Valpolicella Sup. ’13 - Marco Mosconi

Valpolicella Sup. Ripasso Campo Ciotoli ’15 - I Campi

 

 

Gli altri premi Tre Bicchieri della guida Vini d'Italia 2018

Grande degustazione Tre Bicchieri 2018 | Sheraton Rome Hotel | 22 ottobre 2017

Gli altri premi Tre Bicchieri della guida Vini d'Italia 2018

Grande degustazione Tre Bicchieri 2018 | Sheraton Rome Hotel | 22 ottobre 2017

Nuove aperture a Bologna. Non solo città dei taglieri. Il raddoppio di Brisa, la rinascita del Mercato Albani, la cucina d'autore

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Se il centro della città pullula di insegne scadenti, è anche vero che la voglia di fare impresa con serietà a Bologna non manca. Tra realtà già consolidate, come il Forno Brisa, e nuovi esperimenti, promossi da volti già noti, da Gabriele Spinelli ad Alberto Faccani. 

La nuova ristorazione a Bologna. I grandi investimenti

Durante l'estate, Bologna ha conquistato le prime pagine per considerazioni tutt'altro che lusinghiere. Città dei taglieri, è stata ribattezzata di recente, quella che da tempo immemore tutti ricordano più felicemente come Bologna la dotta, la grassa, la rossa. Eppure il proliferare indiscriminato di ristoranti e attività di somministrazione in tutto il centro cittadino aveva fatto gridare allo scandalo, ricalcando da un lato l'annosa questione delle città d'arte ridotte a Dysneyland del consumo, dall'altro sollevando un dubbio sulla crisi della ristorazione di qualità, chiamata a confrontarsi con attività ben più remunerative perché concentrate su un'offerta a ribasso. Eppure il panorama gastronomico cittadino, pur vessato dalla presenza di tante insegne di dubbio gusto a cui presto l'amministrazione dovrebbe (vorrebbe) porre un freno, si dimostra molto vivace. E la conferma arriva in questo inizio d'autunno che consolida esperienze nate durante l'estate e saluta l'arrivo di nuovi, interessanti, attori. Per i grandi investimenti (come quello che ha ripensato Palazzo Bega), però, sarà necessario aspettare ancora qualche mese. Ma certo, le aspettative sono alte, e si concentrano intorno a tre poli che presto saranno ripensati all'insegna dell'offerta gastronomica (lo anticipa Il Resto del Carlino): lo storico centro stampa Elios rinascerà sotto l'insegna Libra, come laboratorio di cucina improntato all'alimentazione salutare; le Scuderie di piazza Verdi, dall'inizio di novembre, diventeranno Scuderia, mixando cucina tradizionale (a cura del Tortellino) e sperimentazione sulle fermentazioni; mentre in via d'Azeglio, il Mondadori Megastore, si doterà di un nuovo, ambizioso caffè, con la collaborazione del pasticcere Gabriele Spinelli, di Dolce Salato. Ma solo all'inizio del 2018.

Grado61. Gabriele Spinelli a Bologna

Intanto, però, il pasticcere del pluripremiato bar di Pianoro (Tre chicchi e Tre Tazzine sulla guida Bar d'Italia 2018 del Gambero Rosso) ha aperto il suo primo avamposto in città, in via Stalingrado, dove da qualche tempo si fa colazione con le buonissime brioche di Spinelli, da Grado61. L'insegna, proprio sotto la nuova sede di Cotabo, in realtà, somma Caffè e Cucina, partendo dalla prima colazione fino al pranzo con piatti della tradizione emiliana, insalate, panini, e taglieri di formaggi e salumi per l'aperitivo.

L'angolo bar e il nuovo punto vendita di Brisa

Colazioni, merende e aperitivo sono pure tra le specialità dei ragazzi del Forno Brisa, finalmente pronti al raddoppio. Alla metà d'ottobre, l'insegna replica in via Castiglione, ancora una volta in centro: stessa formula e stessi prodotti “per soddisfare le richieste dei clienti che vengono a trovarci anche da altre zone della città”, racconta Enrico Cirilli, uno dei soci dell'attività. In uno spazio più ampio, con tavolini all'interno, ma anche su strada, “magari per un aperitivo, che speriamo di poter inserire a breve in menu, con un abbinamento fra pane, pizza e vino”. Dietro al lungo bancone, i prodotti ormai noti agli appassionati del genere: lieviti assortiti, dolci da forno, pizza a lunga lievitazione dai condimenti più disparati, e pane di ogni tipo. L'obiettivo? “Duplicare l'offerta mantenendo intatta la qualità dei prodotti”. Nel frattempo il forno si è lanciato nella nuova avventura caffeicola, con un angolo bar dedicato, “che sarà presente anche nella sede di via Castiglione”: macchina espresso La Marzocco GS3 (una delle ultime novità del settore lanciate dall'azienda toscana), un caffè studiato su misura insieme alla torrefazione Lelli Caffè, “pensato principalmente per l'espresso”, e poi diversi monorigine che cambiano a rotazione, specialità di piccole micro roastery come Ditta Artigianale, Cofficina, Piansa, Bugan Coffee Lab, ma anche realtà straniere come La Cabra, The Barn e molte altre ancora. “Abbiamo iniziato a proporre i primi caffè a settembre, e il pubblico sembra entusiasta. Al momento stiamo utilizzando il Moccamaster, un macchinario automatizzato per il caffè filtro”, ma nel nuovo locale ci saranno anche v60, areopress, “nostro sistema di estrazione preferito” e chemex ad arricchire l'offerta. “Ci siamo specializzati nella panificazione. Ora è tempo di diventare imprenditori”.

 

La rinascita del Mercato Albani

E infatti, da qualche settimana, il panificio ha iniziato a rifornire con le sue brioche Safagna, una delle nuove attività di somministrazione sorte all'interno del Mercato Albani, alla Bolognina, che cerca di rilanciarsi all'insegna dell'offerta gastronomica di qualità. Tra i box, alla fine dell'estate, si è concretizzato anche il progetto di cucina fredda di Gustonudo, il Pollaio: una vineria punk che serve buon vino a prezzi popolari, e tanti assaggi ideali per pranzo e aperitivo, tra tramezzini e crostini con patè di lumache, pane e marmellata e sott'oli, in vendita anche al dettaglio. Nel fine settimana si resta aperti fino alle 23.

 

Spazio all'extravergine

Si beve bene anche da Vini e Oli Bottega, che molta attenzione presta anche all'extravergine, non molto distante dall'Olieria di Bologna, in zona Meloncello. Fresca di inaugurazione, la bottega offre una selezione di circa 10 etichette di extravergine da Nord a Sud della Penisola, e una ventina di vini internazionali, dalla Francia alla Spagna, al Portogallo e al Sud Africa, senza dimenticare il Sud America. A coadiuvare il progetto, Natalia Bonanese e Giuseppe Sicarra, appassionati di enogastronomia e di viaggi, che nella loro bottega vogliono proporre le migliori etichette assaggiate in giro per il mondo. “Siamo due instancabili viaggiatori”, spiega Natalia, “e ci piace l'idea di scoprire le diverse culture attraverso il vino. Giuseppe è sommelier, io vengo dal mondo della ristorazione e amo degustare prodotti di ogni tipo”. Di origini pugliesi, la titolare è molto legata alla terra, “in particolare alle piante di ulivo, che hanno fatto da sfondo alla mia infanzia. Andiamo di persona a conoscere tutte le aziende produttrici, per toccare con mano il lavoro che si cela dietro ogni bottiglia”.

Bistrot d'autore, cocktail e ramen bar

Tornando ai progetti d'autore, di recente, la città ha accolto un nuovo protagonista della ristorazione regionale. Lui è Alberto Faccani, dal ristorante Magnolia di Cesenatico (Due Forchette e una stella Michelin), e cura la proposta gastronomica de I Conoscenti, sotto il portico di via Manzoni. La cucina, seppur curata, è informale, con carta delle tapas da abbinare alla nutrita drink list (cocktail e cucina è il sottotitolo). Nella stessa direzione si è rinnovato anche il Pappagallo di piazza della Mercanzia, insegna storica che si reinventa come bistrot con gastronomia e ricercata selezione di salumi. Esordio bolognese, invece, per un'esperienza altrettanto consolidata, ma a Rimini. Bio's Kitchen - progetto incentrato su prodotti biologici, con aperture al mondo vegan e vegetariano e pure pizzeria – inaugurerà in via Galliera alla fine di ottobre.

Quota etnica, sempre più nutrita in città, rappresentata dal nuovo ramen bar Sentaku, da pochi giorni in attività in zona Saragozza; dietro c'è un giovane bolognese, Lorenzo Costa, figlio di ristoratori e coinvolto anche nel progetto Oltre. Ma la cucina è quella di un tradizionale ramen bar, anche per le dimensioni ridotte, 25 metri quadri in tutto: si mangia al banco, e si sceglie dalla carta dei ramen, tra i 9 e gli 11 euro. In accompagnamento anche pollo karage, tofu fritto e maiale laccato.

 

Grado 61 | Bologna | via Stalingrado, 61 | tel. 051 353887 | www.facebook.com/grado61CafeCucina/

Forno Brisa | Bologna | via Galliera, 34 d | tel. 051 248556 | www.facebook.com/fornobrisa/?fref=ts

Forno Brisa | Bologna | via Castiglione, 43 | dalla fine di ottobre

Safagna | Bologna | Mercato Albani , box 15 | tel. 051 0338589

Il Pollaio | Bologna | Mercato Albani, box 28 | tel. 051 847070

Vini e oli bottega | Bologna | via Porrettana, 55 | tel. 05 10471682 | www.facebook.com/vinieolibottega/?

I Conoscenti | Bologna | via Manzoni, 6 | tel. 051 232071 | www.facebook.com/iconoscentibologna/

Il Pappagallo | Bologna | piazza della Mercanzia, 3 | tel. 051 232807 | www.alpappagallo.it

Bio's Kitchen | Bologna | via Galliera, 11 | dalla fine di ottobre

Sentaku | Bologna | via del Collegio di Spagna, 7 | www.facebook.com/sentakuramenbar/

 

a cura di Livia Montagnoli e Michela Becchi

2017 Chef- Odissea nello spazio. A Torino 7 chef per raccontare l'infinito nel piatto

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In concomitanza con la mostra dell'Accademia delle Scienze, dedicata agli studi sull'infinito di Tullio Regge, 7 grandi chef piemontesi si mettono alla prova con un tema inedito, reinterpretando in chiave gourmet gli studi del fisico. I piatti spaziali da scoprire: c'è tempo fino a marzo. 

“Scienziati” in cucina

I progetti legati al food e all’alta gastronomia non conoscono davvero confini. E “spaziano”, in senso letterale. Ne è una conferma  il viaggio proposto da 7 chef stellati a margine alla mostra L’Infinita Curiosità, dedicata agli studi di Tullio Regge sull’Infinito e ospitata a Torino all’Accademia delle Scienze fino al 18 marzo prossimo.

In omaggio al grande fisico, 7 chef del Piemonte hanno reinterpretato in chiave gourmet i suoi studi. Sono (in rigoroso ordine alfabetico) Matteo Baronetto, Antonino Cannavacciuolo, Michelangelo Mammoliti, Christian Milone, Alfredo Russo, Davide Scabin, Mariangela Susigan. E come Regge amava giocare e contaminare la scienza, con l’arte, il design, l’ironia, così gli chef hanno giocato con i temi della scienza nei loro piatti. Nella  presentazione ufficiale al Circolo dei Lettori di Torino sono venuti fuori bei ragionamenti di filosofia e scienza del food.

I piatti spaziali

Così Davide Scabin ha riproposto il suo rivoluzionario cyber egg, un piatto che ha compiuto 20 anni (e il Combal.0 15 giusti giusti) e ancora stupisce, e che ha aperto un nuovo filone nelle proposte di gastronomia. Scabin ha raccontato di un piatto che arriva al cervello e lo spiazza, gli impedisce di elaborare il gusto in anticipo, guardando…Un piatto frutto di infinita curiosità, che sarebbe piaciuto al Kubrick di 2001 Odissea nello spazio. Stessa prospettiva e curiosità “spaziale” per Mariangela Susigan che con il suo Primo Impatto ha immaginato una pioggia di meteoriti su un prato di erbe selvatiche (la sua passione alla Gardenia), con le croccantezze estreme e diverse di rognone e lumache. Matteo Baronetto nella sua Insalata piemontese proposta al Ristorante Del Cambio ha riunito al centro del piatto il condimento, e attorno una costellazione di microparticelle di gusto; Michelangelo Mammoliti della Madernassa con Open your mind ha realizzato un piatto che – soprattutto se visto dall’alto – ripropone  graficamente le anse della corteccia celebrale, rimandando al sistema del ricordo del nostro cervello, e a piatti di assoluta tradizione come l’insalata russa e l’aspic. Alfredo Russo ha pensato per il Dolce Stil Novo  a uno zuccotto rivisitato, con una crosta croccante e un nucleo ghiacciato di caffè e panna, come un bicerin torinese, e lo ha battezzato con il nome scientifico ed evocativo di Spazio-Tempo-Curvo.

Meno legate alla scienza le proposte di Antonino Cannavacciuolo (assente per ragioni televisive, e rappresentato dal direttore di sala Pino Savoia)che nel suo Cannavacciuolo Bistrot di Torino ha inserito in carta una Battuta di Fassona piemontese, maionese di nocciole, tartufo estivo, salsa al Parmigiano e ha giocato tutto sul tema della curiosità che lo ha spinto in Piemonte e verso le materie prime piemontesi, e Christian Milone (altro assente, per lui ha parlato il sous chef Marco Valentini), che alla Trattoria Zappatori di Pinerolo propone Limone. Diverse sfumature, un microcosmo di sapori, con erbe, frutti, basi salate, pasticceria, tocco piccante, olio extravergine d'oliva. Un piccolo viaggio del gusto.

I piatti si alterneranno in periodi diversi, fino a marzo, nei ristoranti degli chef.

 

Per saperne di più, tel. 011 5534519 o direttamente ai ristoranti:

Ristorante Del Cambio | Torino |  piazza Carignano, 2 | www.delcambio.it 

Cannavacciuolo Bistrot | Torino |  via Umberto Cosmo 6 |  www.cannavacciuolobistrot.it/torino

Ristorante  Madernassa | Guarene (CN) | Località Lora, 2 | www.lamadernassa.it

Ristorante Gardenia | Caluso (TO) | corso Torino, 9 |  www,gardeniacaluso.com

Dolce Stil Novo | Venaria Reale (TO) | Reggia di Venaria, piazza della Repubblica 4 |  www.dolcestilnovo.com

Combal.0 | Rivoli (TO) | piazza Mafalda di Savoia |  www.combal.org

Trattatoria Zappatori | Pinerolo (TO) | Corso Torino, 34 | www.trattoriazappatori.it

 

a cura di Rosalba Graglia

 

Malti&Food. Dall'abbinamento alle ricette con la birra. Intervista a Jacopo Borghetti

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Il mondo della birra artigianale sposa il cibo per aprire nuove frontiere gourmet molto italiane e tutte da scoprire.

Le birre artigianali non pastorizzate e non filtrate sono prodotti vivi. E come tali sottoposti a mutazioni continue: produrre birra artigianale di qualità significa anche inseguire uno standard di gusto, laddove invece il processo di produzione e la stessa natura della birra comportano una grande variabilità. Non un prodotto stabile, quindi non sempre perfettamente replicabile in modo identico a se stesso, ma proprio per questo mai scontato.

Insomma, le artigianali rappresentano un mondo da approfondire, proprio per le loro caratteristiche. E non solo come “semplice” bevanda. Ma anche per le potenzialità che si aprono nell'incontro con il cibo, sia nel food pairing (che qualcuno mette alla stregua addirittura del classico abbinamento con i vini), che come ingrediente di alcune ricette. Mentre fioriscono locali – evoluzioni dei vecchi pub stile ‘birra e patatine’ - che abbinano cibo e birre, restituendo alla tradizione italiana il merito della ricerca e valorizzando il lavoro di migliaia di professionisti, i malti stanno trovando il loro spazio anche all'interno di ristoranti blasonati. La formula Malti&Food ha anche il merito di far emergere la miscela insaziabile di varianti che i microbirrifici si ostinano ad ampliare con passione crescente. Una giovane filiera in grado di generare un meccanismo virtuoso di riscoperte e di stuzzicare un interesse di cui il palato non può che giovare.

 

La birra in cucina

L’impiego della birra artigianale in cucina permette di rivisitare preparazioni classiche. E se nelle pastelle è ormai comune l'uso della birra, la variante artigianale conferisce anche un aroma particolare, definito in base allo stile prescelto. Lo stesso utilizzo è riservato alla pasta all’uovo, prime su tutte le tagliatelle alla birra che, a sorpresa, si accostano benissimo al pesce. Ma la birra trova spazio anche nei ripieni delle paste fresche e nei secondi, ad esempio il brodo di stout è un ottimo complemento per stufati di carni come il maiale o, meglio ancora, il manzo mentre il maiale sfumato alla birra si accompagna alla perfezione con un soffritto classico, ma anche le marinate delle carni guadagnano in morbidezza e acquistano un aroma sofisticato se realizzate con una buona birra artigianale. Poi i risotti, poi, in mantecatura un buon brodo di stout può fare la differenza. Per non parlare delle salse, perché la birra si può anche rendere spalmabile e, inoltre, non disdegna il dessert. Un mondo da scoprire, sicuramente.

 

Di questo, e di molto altro, abbiamo parlato con Jacopo Borghetti, uno deisei giudici italiani certificati dall’ente BJCP (Beer Judge Certification Program), e patron di Roba da Malti di Terni.

 

Il BJCP (Beer Judge Certification Program)

Il BJCP è un ente americano che cataloga e monitora gli stili delle birre. Adotta un approccio analitico che si rifà a uno standard definito dalla BJCP Style Guideline: una guida agli stili, aggiornata nel 2015, che si può scaricare gratuitamente dal sito web www.bjcp.org. La guida classifica le birre in base all’appartenenza a quattro macro categorie: bassa fermentazione, alta fermentazione, fermentazione spontanea e fermentazione mista. Per superare l'esame e accedere all'albo è necessario superare due prove sulla base di questa guida.

 

Come si svolge l'esame?

La prima prova di consiste in un test online della durata di un’ora (Judge Entrance Examination): in questo breve tempo è necessario rispondere a 200 domande. Passata la prima prova c’è poi il Tasting Exams in cui viene richiesto di riconoscere 6 stili di birre al gusto. Una dopo l’altra, compilando poi delle schede. È evidente la necessità di un palato esercitato, ma anche molto acuto.

 

Dove si tiene l’esame di degustazione?

Io son volato dritto a Barcellona dove c’è una sede del BJCP. Appena ho scoperto di aver superato il primo esame, impresa non da poco, ho preparato una valigia volante e preso un biglietto per la Spagna. Se l’esame teorico è stato impegnativo, quello pratico ha richiesto una concentrazione attiva: alcune birre sono molto sottili nel gusto e la loro appartenenza a uno stile alcune volte è altrettanto affilata.

 

È difficile memorizzare tutti gli stili?

Ancora più difficile riconoscerli con il palato.

 

Che cosa comporta essere un giudice birraio?

Una grande soddisfazione personale perché, in primis, è un’esperienza formativa molto strutturata: si entra a far parte di un albo che indica i giudici accreditati per i concorsi di birre artigianali. Poi ci sono i risvolti professionali: poco tempo fa ho ricevuto una richiesta direttamente dagli Stati Uniti.

 

Ma non fai solo il giudice: con il tuo “Roba da Malti” a Terni stai giocando la carta della proposta gourmet abbinata alla birra.

La sfida vera è quella di proporre birra in tutte le sue vesti: anche nel piatto. Sta nascendo un “fronte di liberazione” dei malti che spinge a far capire che non sono solo buoni nel bicchiere, ma anche in cucina, per esempio in una tempura di pesce in pastella di birra, o lieviti ai malti e dolci al luppolo. C’è un mondo da scoprire.

 

Abbinare il buon cibo a una buona birra è quindi roba da mastri?

È affare da intenditori. Abbinare un cibo a una birra è un lavoro di attivazione dei sensi, di tutti i sensi, che necessita una ricerca molto accurata, in gran parte olfattiva. Le direttrici del nostro lavoro sono due: da una parte cerchiamo di abbinare alle birre piatti complementari o affini nel sapore, in modo da poter esaltare le caratteristiche dei luppoli e degli aromi; dall’altra parte usiamo la birra anche nelle preparazioni.

 

Gli abbinamenti perfetti?

Una tempura di gamberi sposa a meraviglia una Blanche o una Gose, eccellenza di Lipsia, una delle birre ingiustamente definite difficili, forse per il sentore acidulo. Nella composizione della Gose oltre ai luppoli troviamo lattobacilli ed elementi insoliti, come coriandolo e sale.

 

Altri esempi?

L’energica irriverenza delle Tripel e Quadrupel, con le dovute varianti del caso, richiamano gli aromi dei formaggi stagionati: sono due prodotti che provengono da un mondo simile. L’amaro e l’effervescenza sono ideali per preparare e pulire la bocca per il prodotto caseario, quindi è un abbinamento perfetto per un buon tagliere. Le carni, se piccanti soprattutto, gridano Ipa.

 

Quali sono gli abbinamenti più strani e quali quelli eccellenti?

Persino il sottaceto ha la sua birra, mi viene in mente una cruda a fermentazione spontanea, di nuovo una Gose. Un torta al cioccolato sposa a meraviglia una Porter o una Imperial Stout, con gradazione perfetta sugli 8-9 gradi. Con il pesce, lo devo dire, la bianca raggiunge limiti di binomio perfetto; nulla da invidiare a un accoppiamento col prosecco.

 

 

Roba da Malti | Terni | piazza San Giovanni Decollato, 2B | tel. 3667054514

www.bjcp.org

 

a cura di Valentina Capati

Piatti e cocktail d'arte. Mauro Uliassi interpreta l'arte contemporanea a tavola su Sky Arte

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Torna Piatti e cocktail d'arte, la produzione di Sky Arte che sviluppa le relazioni tra arte e cucina, con i piatti degli chef e i cocktail d'autore. Dopo la prima serie con Gualtiero Marchesi, è ora la volta di Mauro Uliassi, affiancato dal bartender Dario Comini e dal critico Francesco Bonami.

Il programma

Quello fra arte e cucina è un legame ormai assodato da tempo, e sempre più al centro di convegni, manifestazioni, seminari e festival del settore. Non c'è evento, congresso o forum in ambito enogastronomico, infatti, che non dedichi una sezione al mondo dell'arte. Show televisivi compresi. Perché quando in cucina entrano in gioco l’ispirazione e la creatività, l’arte è tra le prime fonti a cui attingere per stimolare i sensi e il palato del commensale. Per questo, lo scorso gennaio Sky Arte ha deciso di avventurarsi in una nuova produzione in cinque puntate, “Piatti e cocktail d’arte”, con la partecipazione di Gualtiero Marchesi, del bartender Dario Comini, e del critico Francesco Bonami. Allo chef, il compito di tradurre l'opera di cinque grandi personalità dell’arte contemporanea (Manzoni, Fontana, Pollock, Malevic e Burri) in piatti, traendo ispirazione dalle loro opere per sperimentare con gusti, aromi, sapori, contrasti, consistenze, armonie. A ideare il programma, Didi Gnocchi per 3d Produzioni, con la regia e la direzione artistica di Michele Mally. Ma non era la prima volta che il canale tematico dedicato ad arte, design e cultura attivo in Italia dalla fine del 2012 rivolgeva le sue attenzioni al mondo della cucina d’autore: in passato proprio il canale 120 del pacchetto Sky Italia aveva trasmesso il format “Inspiring Chef: il Gusto dell’arte”, divulgando sei video ritratti girati a partire dall’esperienza del Calendario Lavazza 2014. Tra i protagonisti anche gli italiani Massimo Bottura, Davide Oldani e Carlo Cracco.

La seconda stagione

Dopo il successo della prima edizione, il format torna ancora una volta con Comini, Bonami e una missione: cercare il legame fra arte e cucina. Protagonista della prossima stagione, in onda da metà novembre, Mauro Uliassi, che si impegnerà a realizzare cinque portate ispirate a cinque diversi artisti contemporanei, fra cui il fotografo senigallese Mario Giacomelli. A Bonami, il compito di spiegare e interpretare le opere, raccontandole al pubblico in maniera semplice ed efficace, mentre il barman del Nottingham Forest si destreggerà fra cocktail a base di rum guatemalteco Zacapa in tutte le sue sfumature. Sullo sfondo, la spiaggia di Senigallia, dove sono state girate gran parte delle puntate, che mostreranno, oltre al locale dello chef, i monumenti e i posti più iconici della città, e non solo, perché la troupe ha fatto tappa anche a Milano e Firenze. Protagonista della nuova stagione, però, resta Uliassi, un cuoco eclettico, dalla sensibilità spiccata, da tempo molto vicino al mondo dell'arte, grazie anche al lavoro della sorella Catia, responsabile del servizio di sala e Ambasciatrice del gusto, che nel tempo libero è anche pittrice, ed espone le sue opera in Italia, a New York e Hong Kong.

Piatti e cocktail d’arte | Sky Arte HD, canale 120 | da novembre 2017

a cura di Michela Becchi

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