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Pantelleria e Salina. Ovvero le isole dei capperi

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Elemento essenziale per insaporire i piatti, insieme alla vite e all'olivo, è un prodotto simbolo delle colture mediterranee e fa parte del patrimonio identitario della cultura insulare. A fronte di un consumo nazionale di circa 10 mila quintali all'anno, la nostra offerta non supera i 2500

Seppur molto lontane tra loro, oltre 550 km, Pantelleria e Salina, hanno in comune delle antiche tradizioni agricole. A partire dal vino che entrambe producono con sistemi di appassimento assai simili, dalle uve zibibbo nel primo caso e dalle uve malvasia nel secondo, ma anche per la coltivazione dei capperi, che subiscono un processo di lavorazione simile cioè prima in salamoia e poi sotto sale marino. Non a caso, le due piccole isole sono il riferimento della produzione nazionale di qualità.

Nel nostro Paese ogni anno si producono circa 2500 quintali di prodotto. Il 70% proviene da Pantelleria, che tra l'altro produce circa il 30% del fabbisogno nazionale, e circa 200-300 quintali da Salina mentre la restante parte viene prodotta più che altro in Puglia e anche in Sardegna (per esempio, nell'agro di Selargius, se ne raccolgono una ventina di quintali).

 

Il Cappero di Pantelleria

Il raccolto 2017 è andato decisamente migliore del pessimo 2016. "Quest'anno sta andando molto meglio dell'anno scorso – solo 500 ql - perché la pioggia tra dicembre/gennaio ha rimesso le cose a posto" dice Saro Cappadona, responsabile marketing della Cooperativa Agricola Produttori Capperi "L'acqua infatti non solo ha dissetato una terra esausta per la siccità ma ha decimato le uova della cimice asiatica che lo scorso anno aveva duramente colpito le piante. Nel 2017 la produzione è tornata a circa 1000 quintali. Anche la remunerazione per i contadini è buona – circa 9.50 al kg- tanto che alcuni si sono sentiti invogliati ad impiantare nuovi cappereti".Dal 1996 il Cappero di Pantelleria è a Indicazione geografica protetta (Igp), l’unico in Italia ad avere il riconoscimento europeo, ed è il frutto di una selezione genetica operata dai contadini panteschi nel corso dei secoli (Capparis spinosa, varietà Inermis, Cultivar nocellara).

 

Il Cappero di Salina

Daniela Virgona, produttrice di malvasia e di capperi – quest'anno ne ha raccolti 20 q.li - è presidente del Consorzio di tutela del Cappero e Cucuncio di Salina, presidio Slow Food da quindici anni - a cui aderiscono 5 aziende e diversi piccoli produttori. Ci racconta che "Ormai però il cappero si raccoglie solo da maggio a luglio e non più fino a settembre come si usava una volta. L'effetto del clima e gli attacchi degli insetti, influisce ogni anno di più sulla produzione totale".

Capperi di PantelleriaCapperi di Pantelleria

I danni degli insetti

A Salina dal 1985 la cavolaia, un lepidottero, ha provocato non pochi danni alle piante di cappero, intaccandone la corteccia. Poi si è aggiunto un dittero, una sorta di mosca, che specialmente d'estate aggredisce i cappereti, facendo diminuire la produzione. Insomma gli stessi effetti nefasti che a Pantelleria che provoca la Bagrada hilaris, una cimice di origine asiatica, presente sin dagli anni Settanta che a causa dell’aumento delle temperature e della siccità, ha ampliato la sua diffusione in altri areali. L’insetto, iniettando una saliva tossica, provoca l’arresto della produzione di clorofilla, interrompendo così la normale cadenza del ciclo produttivo.

 

Il futuro è nel biologico?

Gabriele Lasagni, amministratore delegato della Bonomo&Giglio, capperificio commerciale ma anche azienda agricola e laboratorio, esporta capperi di Pantelleria in 25 paesi nel mondo proponendo specialità tra cui foglie di cappero in olio, capperi croccanti, polvere di capperi, granella di cucunci "Noi pensiamo che il futuro della produzione sarà nel biologico" dice Lasagni "e per questo ci siamo attrezzati fondando una società agricola biologica con un cappereto. Oggi è necessario ri-pensare e re-inventare un modo sostenibile per l'approccio all’agricoltura dell’isola, solo così si riuscirà a dare futuro e prospettiva al prodotto".

 

La richiesta della Igp per il Cappero di Salina

Pur essendo la coltivazione una tradizione diffusa in tutte le isole Eolie, Salina da tempo ha affermato il suo ruolo di punto di riferimento, anche quantitivo, della produzione dell'arcipelago tanto che si stima che nelle altre isole si produca meno del 10% del totale di Salina "Attualmente siamo impegnati in un censimento del numero di piante presenti nei nostri cappereti, l'unico strumento in grado di fotografare realmente la situazione degli impianti" continua Daniela Virgona "anche perché questa sarà la base per presentare un nostro disciplinare di produzione e attivare all'Igp Cappero di Salina, isola che da ben 26 anni celebra, nella prima settimana di giugno, la Sagra del Cappero".

 

La battaglia dell'identità tra Salina e il resto delle Eolie

Nel luglio 2016 nell'isola di Lipari un gruppo di 67 soci ha costituito l’Associazione Cappero delle Isole Eolie Dopcon l'obiettivo di valorizzare e salvaguardare la produzione – per lo più familiare - anche delle altre isole eoliane. L'intento sarebbe di valorizzare l’intero territorio dell'arcipelago promuovendo e tutelando il prodotto "si creerebbero opportunità di sviluppo"sostiene l'Associazione "con ricadute positive sull’occupazione, sul reddito e sulla qualità della vita delle popolazioni locali". Attualmente però l'intera produzione delle isole eoliane è circa un decimo, forse meno, di quella di Salina.

A luglio 2017 è stato proposto, durante un'adunanza pubblica alla presenza dei funzionari Mipaaf, il disciplinare del Cappero delle Isole Eolie Dop. Un disciplinare che ha provocato non poche perplessità, per la produzione annua cumulativa prevista (capperi e cucunci) max di 90 q.li/ettaro considerata molto elevata quando nella realtà oggi si raccolgono circa 2 kg per pianta e 40 q.li/ettaro.La proposta di disciplinare non è stata accolta anche per l'opposizione sia dei produttori di Salina sia dei Sindaci Clara Rametta, Riccardo Gullo e Domenico Arabia, rispettivamente primi cittadini dei comuni di Malfa, Leni e Santa Marina Salina, i quali sostengono che "se Dop (denominazione origine protetta) deve essere, deve denominarsi Cappero di Salina, esattamente come è conosciuto ed apprezzato in tutto il mondo, e non genericamente cappero delle Eolie. I capperi provenienti da altri paesi" hanno puntualizzato i sindaci "non devono essere spacciati per quelli di Salina" . Lotte di campanile a parte - perché c'è anche questo aspetto - il problema potrebbe essere risolto con il buon senso dando il giusto riconoscimento al lavoro che a Salina è stato svolto e grazie al quale, la domanda di capperi eoliani, continua a crescere.

 

Un grande spazio di mercato per tutti

In Italia il consumo di capperi si aggira sui 10mila quintali all'anno mentre la produzione non supera i 2500. Insomma il mercato c'è e la domanda pure. Sul fronte dell'offerta nazionale si può fare ancora molto proprio a partire dalle piccole isole dei capperi, Salina, Pantelleria e tutte le altre che, turismo e vino a parte, non hanno altre grandi opportunità agricole. Non a prezzi da svendita però. Il cappero non è solo gustoso ma anche molto prezioso. La fatica e la qualità, devono essere giustamente ripagate.

 

a cura di Andrea Gabbrielli

 

 

 

 

 


Il Gambero Rosso in crescita. Tutti i dati di un semestre da record

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Si chiude con tanti segni più il primo semestre del 2017 per il Gruppo Gambero Rosso, che migliora la sua posizione finanziaria, incrementa gli eventi all'estero e l'attività editoriale, investe in alta formazione e nuovi accordi con partner internazionali importanti. Ecco un bilancio al 30 giugno 2017. 

Sei mesi di consolidamento e crescita che fanno guardare con fiducia al futuro. Così potrebbe riassumersi il primo semestre del 2017 per il Gruppo Gambero Rosso, che in chiusura di bilancio di metà anno, al 30 giugno 2017, si rivela estremamente positivo sotto diversi punti di vista. Innanzitutto c'è il miglioramento della posizione finanziaria netta, cui fa da contraltare il miglioramento del capitale circolante netto; e poi la crescita del numero di eventi internazionali (+ 6% rispetto al 2016) e dei ricavi tv e digital (+4%), oltre all'investimento sulla formazione, con nuovi accordi per master e alta formazione. Elementi determinanti per confermare il buono stato di salute dell'azienda, che nel corso del primo semestre 2017 ha lavorato per consolidare la propria leadership nel settore, con investimenti rilevanti in contenuti esclusivi, eventi internazionali e soluzioni digital e IT.

 

Pubblicazioni, eventi e alta formazione

A cominciare dall'attività editoriale: oltre al rinnovo delle guide, costantemente approfondite e aggiornate, è arrivata la prima guida Gelaterie. Sono stati ristampati inoltre due prodotti di grande successo: “Giorgione Orto e Cucina” e “Vito con i suoi”. Nel frattempo gli eventi esteri costituiscono un business sempre più solido: cresciuti per numero e fatturato, hanno confermato un’elevata redditività grazie anche al positivo avviamento del Top Italian Food&Beverage Experience Roadshow. La forte domanda ha portato ad un calendario ampliato sia in termini di paesi che di tappe. Sul versante della formazione sono stati inseriti nuovi formatprofessionali e sono proseguite joint venture con primarie Università. Sono stati avviati i Master con l'Università del Salento, con il Politecnico di Torino, con l’Università di Siena e con la Supsi di Lugano. Sono stati siglati inoltre accordi con IULM per l’avvio di un nuovo Master e di corsi di alta specializzazione. Con il nuovo Anno Accademico, i Master e i Corsi di Alta Specializzazione offerti al mercato saranno 16 (4 nel 2016).

 

Le partnership internazionali

Importanti, a evidenziare il momento positivo, gli accordi siglati con prestigiosi partner commerciali: gli showcooking con Gruppo Barilla durante i Roadshow Gambero Rosso; l'accordo con gategroup Holding AG, leader mondiale nella fornitura di servizi dedicati al catering del settore aereo d’alta quota, per lo sviluppo di attività, prodotti e servizi di eccellenza del Food & Wine italiano; l'approfondimento dei rapporti con Giglio Group per la creazione e la distribuzione a livello mondiale di un nuovo canale internazionale Gambero Rosso all’interno della piattaforma IBOX di Giglio Group presente in 55 Paesi; accordo con Bohemia Kvetna 1794 divisione Italiana del Gruppo Crystalite Bohemia Kvetna 1794 per l’utilizzo dei prodotti in cristallo di Bohemia in appuntamenti selezionati ed organizzati da Gambero Rosso in Italia; l'esordio dell'evento Tre Bicchieri alla Fiera di Bordeaux grazie alla partnership con Vinexpo.

 

Il fatturato del semestre chiuso al 30 giugno 2017 ha raggiunto euro 8,1 milioni, rispetto a euro 7,9 milioni del primo semestre 2016 (+3%). L’Ebit da consolidato ha raggiunto nel primo semestre 2017 circa euro 1,7 milioni (21% del fatturato) confermando l’alta redditività aziendale. Il margine dell’Ebitda è in linea con il segmento del lusso (Ebitda consolidato primo semestre 2016 euro 1,5 milioni).

 

Tutti i dati e i numeri del primo semestre 2017

Lazio, cosa c'è di nuovo per la viticoltura regionale?

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Da una parte l'accelerata della Doc Roma, dall'altra la nuova rete d'impresa Vigna di Roma. Sarà davvero la volta buona per far uscire la regione dal “terzo mondo” in cui versa il suo sistema vitivinicolo? Intanto riapre l'Enoteca Regionale ed esce il bando per l'assegnazione dei terreni agricoli

Un Consorzio per la Doc Roma

"La Doc Roma è forse l'ultima possibilità per poter rilanciare il nostro vino e il nostro territorio in modo credibile, uscendo dal terzo mondo enologico in cui versa la nostra Regione”. Non ci gira attorno Tullio Galassini, presidente dell'associazione della denominazione laziale nata nel 2011. "Entro l'anno" annuncia "dovremmo riuscire a costituire il Consorzio, cosa che ci consentirà, poi, di esercitare l'erga omnes. Ma questa non è la nostra principale preoccupazione: quello che ci interessa è continuare a crescere con la stessa qualità".

In questa direzione vanno anche le ultime modifiche al disciplinare che hanno introdotto l'imbottigliamento in zona e una versione della Doc più amabile molto apprezzata sui mercati esteri. Oggi, tra produttori e imbottigliatori, sono 17 le realtà vitivinicole della provincia di Roma che hanno aderito alla denominazione, e gli ettari rivendicati sono passati dai 35 del 2011, ai 125 del 2016, ma ci si aspetta di raddoppiare in quest'ultimo anno. Per il 2018 l'obiettivo è di arrivare a 500 mila bottiglie. Sull'annata 2017 Galassini mostra un certo ottimismo: “I nostri principali vitigni Montepulciano e Malvasia sono tardivi, per cui non dovrebbero esserci gli stessi problemi che hanno avuto le altre denominazioni. Le uve appaiono sane e prevediamo di iniziare a vendemmiare intorno al 15 ottobre con un clima da ottobrata romana”.

 

Mercato e obiettivi

Com'è facile immaginare, una denominazione che porta il nome di una città così famosa, quale Roma, gode di riscontri positivi soprattutto all'estero. "La Doc Roma non è un prodotto da mercato nazionale" ci conferma Galassini "l'80% di vendite lo facciamo fuori dall'Italia. Tra i mercati più forti? I Paesi Scandinavi, il Canada, gli Usa e il Giappone. Al momento, non essendo ancora un consorzio, non abbiamo un bilancio e di conseguenza non possiamo partecipare ai bandi Ocm, ma cerchiamo comunque di essere presenti agli eventi internazionali. E poi, per dirla tutta, la domanda oramai è davvero alta, ma il prodotto ancora poco”.

Buoni i rapporti con le altre Doc laziali ("al momento utilizziamo la stessa sede del Consorzio della Doc Frascati"), sebbene la prerogativa per il presidente dell'associazione è "non fare la fine dei Castelli Romani. Dobbiamo essere bravi a non banalizzare il nostro prodotto, come purtroppo è già successo qui nel Lazio. Da enologo, posso dire che la qualità regionale è alta, ma in molte aziende – non quelle della Dop – non c'è stato un rinnovo delle piattaforme ampelografiche, per cui c'è un gap notevole rispetto ad altre regioni".

Non solo, Galassini punta il dito anche contro un sistema vitivinicolo italiano nordcentrico: "Oramai anche il Lazio sta subendo la migrazione dei diritti di impianto verso Nord e qui sempre più terreni restano incolti o si decide, sotto l'input della Regione, di coltivare altro.La sensazione è che anche il Ministero sia completamente appiattito sul Nord Italia e sul Prosecco: d'altronde il mondo vitivinicolo ha interesse a globalizzare e punta su quelle Doc che si allargano inopportunamente. Noi no: abbiamo escluso delle aziende e non abbiamo allargato ad altre provincie proprio perché non rientrerebbe nei nostri standard qualitativi. Speriamo, però, che l'importanza della Doc Roma venga capita e si possa, in questo modo, rilanciare tutta la viticoltura regionale".

 

Nasce Vigne di Roma: 14 aziende vinicole per una rete di imprese

Intanto, a movimentare lo stallo in cui versa la viticoltura laziale, è arrivata pochi giorni fa anche la presentazione di Vigne di Roma, una nuova rete di imprese che riunisce 14 aziende vinicole del Lazio (Marco Carpineti, Casale del Giglio, Casale della Ioria, Castello di Torre in Pietra, Cincinnato, Consoli, Famiglia Cotarella, Federici, Donato Giangirolami, Papalino, Poggio Le Volpi, Principe Pallavicini, Tenuta Sant’Isidoro e Terre di Marfisa). Si tratta di un nuovo (l'ennesimo?) tentativo per mettere insieme le più importanti realtà produttive con l'obiettivo di rilanciare la vitivinicoltura della Regione. I buoni propositi autunnali ci sono, ma bisognerà guardare ai risultati nei prossimi mesi e soprattutto ai programmi nel breve periodo. "Abbiamo necessità di aggregarci e di condividere progetti e programmi, costituendo una nostra lista di priorità" ha dichiarato AntonioSantarelli (Casale del Giglio) "L'accesso ai fondi Psr ci permetterà di avviare delle azioni per rilanciare i nostri prodotti che ormai rappresentano meno del 5% delle carte dei vini dei ristoranti di Roma. Per farlo, abbiamo bisogno, non solo di promozione ma anche di ricerca sui nostri vitigni autoctoni". "Rappresentiamo già tutte le province del Lazio" ha aggiunto Paolo Perinelli (Casale della Ioria)"ma Vigne di Roma è una rete aperta a tutti". Per Marta Cotarella (Falesco) non ci sono dubbi: "Dobbiamo investire perché la qualità dei vini Lazio è poco nota". Marco Carpineti ha messo l'accento sull'importanza di "portare la nostra cultura del vino tra i ristoratori di Roma".

E a proposito di ristorazione, il mese di ottobre segna anche la riapertura dell'Enoteca Regionale del Lazio di via Frattina, già operativa in soft opening.Chiuso il capitolo della vecchia gestione, che nelle parole dell'amministratore unico di Arsial, AntonioRosati:perdeva 600 mila euro l'anno, senza pagare l'affitto”, si riparte – dopo i lavori di restyling - con la società Retail Food di Niccolò Marzotto, Vyta (Santa Margherita). La scelta di affidare la gestione a un privato, dovrebbe, secondo lo stesso Rosati “portare a introiti annui di 400 mila euro”.

 

Terreni agricoli e vigneti. Il bando regionale

E non è finita. In questo momento di grande attenzione mediatica sui vini laziali è arrivato anche il nuovo bando della giunta Zingaretti che assegna 5 mila terreni agricoli (per 8 mila ettari), o a vocazione agricola con lo strumento della Banca delle terre agricole, istituita a livello regionale nel 2016. Èstato, infatti, approvato l'elenco dei beni, secondo quanto previsto dal Regolamento 11/2017 e a seguito delle disposizioni del Collegato agricolo. Una novantina i vigneti censiti nel lungo elenco di terreni, dislocati in diversi comuni laziali, da Viterbo a Sezze, da Fiumicino a Castiglione in Teverina. Grazie alla convenzione con Ismea, fa sapere la Regione, sarà possibile incrementare l'efficienza funzionale ed economica delle imprese agricole e favorire l'attivazione della multifunzionalità delle imprese stesse. L'obiettivo è valorizzare e promuovere il territorio rurale e creare nuove opportunità imprenditoriali, soprattutto giovanili.

L'assessore regionale al Bilancio, demanio e patrimonio, AlessandraSartore, ha parlato di “opportunità per chi cerca terreni da poter coltivare di accedere facilmente al database e di avanzare una proposta d'acquisto o di affitto a seguito dell'avviso pubblicato dalla Regione”. Per i conduttori dei fondi rustici ci sarà la possibilità di prorogare i propri contratti. “Per i giovani di presentare una domanda per l'avvio di un'impresa agricola. E questa” sottolinea Sartore “è una grande novità”. In particolare, il 55% dei terreni non oggetto di rinnovo dei contratti andrà in affitto a favore dei futuri imprenditori tra 18 e 40 anni, con la possibilità di agevolazioni tramite Ismea. Èpossibile consultare caratteristiche dei terreni, posizione, tipo di coltivazioni e valori catastali sul sito della Regione Lazio.

http://www.regione.lazio.it/binary/rl_personale_demanio/tbl_news/Banca_della_terra.pdf

 

a cura di Loredana Sottile e Andrea Gabbrielli

 

Questo articolo è uscito sul nostro settimanale Tre Bicchieri del 28 settembre

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Milano Pisco Week. Alla scoperta del distillato peruviano nei migliori cocktail bar della città. E 2 ricette

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L’acquavite peruviana ha origini molto antiche e oggi conosce una grande fortuna nella miscelazione internazionale. La 10 giorni milanese si propone di promuovere la cultura del Pisco con la complicità di ristoranti e cocktail bar della città. Le proposte di Alessio Miraglia de Le Biciclette e Luca Marcellin di Drinc. 

Il Pisco. Origini e fortuna

È occasione per fare una ricognizione del panorama meneghino della miscelazione, sempre più ricco di valide alternative per chi ama sorseggiare un buon cocktail, l'appuntamento con la settimana dedicata al Pisco. Il distillato peruviano sta vivendo il suo momento di gloria al pari della cultura gastronomica del Paese andino, che specie nelle sue forme più pop – ceviche e tiradito in prima linea – ha ormai conquistato le grandi città europee, con Milano a guidarne la ribalta in Italia. Il Pisco non è altro che un'acquavite ottenuta dalla distillazione del mosto fresco di uve cosiddette “pischere”: oggi è denominazione d'origine (della città di Pisco, 200 chilometri a sud di Lima) riconosciuta dall'Unione Europea, ma la sua storia comincia alla fine del XVI secolo, quando in epoca coloniale spagnola il Perù iniziò a produrre la prima acquavite d'uva nella storia del continente americano (il là lo diedero proprio gli spagnoli, introducendo la coltivazione della vite). La sua gradazione alcolica, tra i 38 e i 48 gradi, lo rende particolarmente versatile per la preparazione di cocktail, e proprio il suo apprezzamento nel mondo della miscelazione internazionale ha determinato nell’ultimo decennio una crescita esponenziale della produzione, che oggi si attesta sugli 8 milioni di litri ogni anno.

 

La cultura del Pisco. La settimana milanese

La Milano Pisco Week, organizzata dall'Ufficio Commerciale del Perù in Italia, ha preso il via da un giorno appena, e si protrarrà fino all'8 ottobre coinvolgendo 27 locali e cocktail bar di Milano, con l'obiettivo di valorizzare la cultura del distillato peruviano, e al contempo utilizzarlo come opportunità per fornire al pubblico italiano nuove esperienze di gusto. Noi, all'inizio di quest'anno, avevamo raggiunto la prima donna distillatrice di pisco, Melanie Asher, per raccontare attraverso il suo brand Macchu Pisco la storia di un mercato sempre più fiorente, intrecciato a doppia trama con le vicende sociali, occupazionali e culturali del Perù. L'idea della 10 giorni milanese, infatti, è proprio quella di comunicare potenzialità e sfumature dell'acquavite peruviana, usata principalmente come base per il Pisco Sour: pisco, succo di limone, zucchero, albume, due gocce d'angostura e ghiaccio. Le variabili, però, sono molteplici, e la partecipazione di tante realtà diverse renderà il gioco molto più divertente, al motto di Pisco is Perù. Tra gli altri, hanno aderito all'iniziativa i ristoranti peruviani Pacifico e El Hornero, il ristorante Daniel di Daniel Canzian (sempre particolarmente attento alle suggestioni dalla cucina sudamericana), il Rebelot, Ceresio 7, la Terrazza Duomo 21, i cocktail bar The Spirit, Ugo, Bulk (il mixology food bar dell'hotel Viu), il Cafè Gorille, l'Octavius Bar all'ultimo piano dello store The Stage, in piazza Gae Aulenti, fresco di riapertura dopo un restyling che l'ha completamente ripensato (sotto la direzione della società atCarmen di Martino De Rosa), con Francesco Cione al bancone del bar.

Il Pisco Art Tonic di Alessio Miraglia

I cocktail

Ognuno presenterà iniziative e drink dedicati al Pisco, dall'Inka Sour con rosolio di bergamotto, lime, albume d'uovo e sciroppo d'acero di Bulk all'Incantevole con liquore al fiore di sambuco, composta di pere e cardamomo, uva nera e lime di Ceresio 7, all'Inca Empire del Rebelot, con pera, cannella, zucchero, rum affumicato e lime. Ingrediente in comune, ca va sans dire, il pisco. Anche Eataly Smeraldo prenderà parte alla rassegna, con il classico Pisco Sour. Le Biciclette Art Bar & Bistrot, in via Torti (zona Navigli) e il suo bartender Alessio Miraglia proporranno invece un Pisco Art Tonic, che prende ispirazione da un gin tonic per mixare un drink fresco, con note floreali. Questa la ricetta:

 

2cl di spremuta d’arancia
2cl di liquore al passion fruit
4.5 cl di Pisco del Perù
2 dash di bitter alla pesca
Top di acqua tonica

 

La proposta di Luca Marcellin da Drinc

Da Drinc, invece, arriva la proposta del Pisco Nikkey My Lovo. Il cocktail bar di via Plinio (dove i nostalgici possono sempre contare su un Negroni sbagliato al Bar Basso) ha festeggiato un paio di mesi fa il primo anno di attività, già tra i locali più celebrati del buon bere meneghino. Al bancone c'è Luca Marcellin, classe 1982 da Pinerolo, barman preparato che vanta un curriculum invidiabile, una lunga parentesi al Four Seasons di Milano e prima ancora presso numerosi alberghi di livello all'estero come bar manager (da Londra all’Australia, alla Svizzera; al Jefferson Hotel di Washington DC era famoso propro per il suo Pisco cucinato a bassa temperatura, con rafano, basilico e succo di passion fruit), fino alla decisione di aprire un locale in proprio, nell'estate 2016. La sua creatività si esprime in una lista nutrita di signature drink (una ventina quelli della casa, raccolti in una mazzetta simil Pantone), ma Luca non tradisce certo la miscelazione più classica, e l'insieme di queste qualità, unite all'eleganza discreta dello spazio, l'ha reso in poco tempo tanto amato dagli appassionati del genere. E con i cocktail, all’ora dell’aperitivo, Luca serve anche formaggi e salumi piemontesi e lombardi provenienti dalla gastronomia di famiglia. Tra i must della casa il Nothing like the first sip, un twist del Martini Cocktail. Ma per la Milano Pisco Week Luca ci regala la ricetta del Pisco Nikkey My Lovo, “Perù e Oriente in un mix perfetto” come dice lui per riassumere la sua creazione:

 

Pisco infuso al pepe di Sichuan & Katsuobushi,

Ginjo Yuzushu (sake&yuzu),

Sciroppo di zucchero,

Lime fresco

Albume d’uovo pastorizzato

Gocce di bitter aromatico e gocce di salsa soia in superficie

 

Il resto scopritelo in giro per la città, mappa della Milano Pisco Week alla mano, fino all’8 ottobre.

 

Milano Pisco Week | Milano | del 28 settembre all'8 ottobre

 

a cura di Livia Montagnoli

 

Festa dello Speck in Val di Funes e Mercato del Pane a Bressanone. Consigli di viaggio per un weekend tra botteghe del gusto

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L'occasione giusta per scoprire Bressanone e la Val di Funes arriva durante il primo fine settimana di ottobre, con le tradizionali feste di piazza dedicate a due delle specialità simbolo dell'Alto Adige: lo speck e il pane nelle sue molteplici varianti. Ecco qualche indirizzo da visitare, tra un assaggio e l'altro.  

La panificazione in Alto Adige. Una storia antica

Pane di segale, multicereali, pagnotta venostana o pusterese. Dimmi che pane preferisci e ti dirò dove andare a cercarlo. Missione particolarmente piacevole quando il perimetro d'azione è quello altoatesino.  Ma se il vostro approccio non è proprio quello dell'ardimentoso esploratore, c'è ancora qualche ora di tempo a disposizione per scoprire il meglio dell'arte bianca regionale a Bressanone, che ogni anno ospita il tradizionale Mercato del Pane e dello Strudel. La manifestazione è arrivata al 15esimo anniversario, e si concluderà domenica 1 ottobre, animando piazza Duomo con le specialità di pane in arrivo dalle vallate circostanti: un patrimonio di ricette tramandate gelosamente che valorizzano differenti miscele e varietà di cereali, esaltando le peculiarità territoriali e culturali dell'Alto Adige. Non a caso il festival va in scena a Bressanone, capoluogo della Valle d'Isarco e centro turistico particolarmente vivace, che attira ogni anno visitatori in cerca di storia, intrattenimento all'aria aperta e buon cibo. Nella cittadina che i documenti d'archivio attestano come la più antica di tutto il Tirolo (fondata nel 901), la panificazione tradizionale – che continua a rappresentare una delle produzioni artigianali di punta della regione – è tenuta in vita da tanti mastri fornai che lavorano sotto l'egida del Marchio di Qualità dell'Alto Adige, garantendo l'utilizzo esclusivo di ingredienti naturali e cereali di provenienza locale.

Il pane altoatesino. Dove acquistarlo a Bressanone

Tra loro, Helmut e Benjamin Profanter lavorano dal 2011 in biologico (ma l'insegna risale al 1967), e in Alto Adige sono i principali acquirenti di cereali locali, con attenzione specifica per farro e segale. La produzione è ampia, dal pane di spelta a quello di segale, al pane croccante di farro con semi di girasole, al classico Schuttelbrot (chiaro o scuro), con linee speciali di prodotti da forno privi di lattosio e di lievito. Ma per pane e strudel – l'altra celeberrima specialità da forno della tradizione regionale protagonista della festa di piazza – segnaliamo anche il Panificio Alberti, nei pressi della stazione di Bressanone. E il panificio Gasser, fondato a Luson nel 1990 da Siegfried Gasser e sua moglie Bernadette e oggi attivo con diversi punti vendita a Bressanone. Specialità della casa proprio lo Schuttelbrot, impastato a mano e prodotto con cereali regionali Regiograno; consigliato anche lo strudel, con ripieno di mele, uvetta, zucchero, cannella, limone e pinoli, perfetto per una merenda di  inizio autunno. Questa la ricetta della famiglia Gasser:

 

Per l'impasto:

2250 g di farina

25 g di lievito in polvere

1500 g di zucchero

750 g di burro

3 uova e 2 tuorli

zucchero vanigliato

limone e una presa di sale

Per il ripieno: 

mele dell’Alto Adige, uvetta, pinoli, zucchero, cannella, limone e un po’ di rum.

 

Amalgamare 1500 g di zucchero e 750 g di burro, eliminando i grumi, aggiungere 3 uova, 2 tuorli, vaniglia, limone e una presa di sale e mescolare. Poi, incorporare 2250 g di farina e 25 g di lievito in polvere e impastare bene.

Il nostro ripieno contiene mele altoatesine, uvetta, pinoli, zucchero, cannella, limone e rum.

Spianare la pasta, farcirla, chiuderla per formare lo strudel e cuocere in forno a 190° C per 45 minuti. Impieghiamo solo burro di marchi locali, così come mele di qualità altoatesina.

La Festa dello Speck in Val di Funes

Ma i primi giorni d'ottobre, in Val di Funes (mezz'ora di macchina appena da Bressanone), raccontano anche un'altra antica tradizione gastronomica locale, quella dello speck. Fino al 1 ottobre, a Santa Maddalena, va in scena la Festa dello Speck Alto Adige, forte di 15 edizioni alle spalle e dedicata agli amanti del re dei salumi altoatesini. Il contesto è quello privilegiato del piccolo borgo di montagna, circondato dalle vette delle Odle, e la festa si consuma nello spirito più consono alle ricorrenze di piazza, tra danze folcloristiche e musica tipica, con il mercato di specialità regionali, i fornai a supporto dei produttori di speck, i momenti di approfondimento per grandi e bambini, come il workshop sulle fasi di produzione dello speck, che fornisce preziosi suggerimenti sull'uso in cucina del salume, che la tradizione casalinga altoatesina ha reso molto versatile. Una ricetta per tutte? I celebri canederli allo speck, serviti asciutti o in brodo. O la più rustica padellata di speck, patate e cipolle, il Grostel, servita in tutta la regione. E ci sarà spazio anche per un momento di divertimento goliardico, che metterà alla prova l'abilità dei tagliatori di speck, in gara per aggiudicarsi il trofeo della Gletscherons, al tagliatore più veloce. A garantire la selezione dei produttori coinvolti c'è il sigillo del Consorzio Tutela Speck Alto Adige, al motto di “prodotto come una volta, solo con metodi più moderni”.

Speck. Dove acquistarlo

Ma per fare qualche acquisto in autonomia, quali sono le botteghe fidate? Tornando a Bressanone, la bottega di Paul Vontavon tramanda un mestiere di famiglia: fondata nel 1957 dai suoi genitori, oggi l'azienda vanta uno stabilimento di produzione proprio in città, ma resta viva la memoria del maso di Velturno, dove tutto è cominciato. L'approccio è moderno e tecnologico, la ricetta quella della tradizione di famiglia, con un mix di spezie rimasto inalterato nel tempo, la cosiddetta “concia” con allora, pimento, rosmarino, ginepro... Tutto bilanciato per regalare alla coscia di suino stagionata in media 7 mesi un gusto equilibrato. E nella macelleria di via Julius Durst è un piacere scorprire anche le altre specialità della casa. Sulla strada di ritorno in direzione Bolzano, invece, a Castelrotto incontriamo la Macelleria Silbernagl, tre fratelli che hanno ereditato dal padre la passione per il mestiere della salumeria, e oggi producono speck (e tante altre specialità) secondo ricetta tradizionale: il loro speck Metzet è stagionato 8 o 9 mesi. Per tutti i suggerimenti gastronomici (e non solo) in Valle d'Isarco e nei dintorni di Bressanone, la nostra guida Mangiare in Montagna dedicata alla valle altoatesina.

 

Festa dello Speck | Santa Maddalena (BZ) | il 30 settembre e 1 ottobre |

www.speck.it/it/festa-dello-speck-val-di-funes/  

 

a cura di Livia Montagnoli

Olio – Lo straordinario mondo dell'olio extravergine di oliva. Un libro dedicato all'oro verde

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Fra corsi di formazione in aumento, nuovi produttori giovani e una comunicazione sempre più efficace, il settore olivicolo sta finalmente iniziando a muovere i primi passi verso una crescita qualitativa e di informazione. Da oggi, un nuovo libro si aggiunge alla lista dei titoli imperdibili per i più curiosi.  

Le autrici

Quella fra Luciana Squadrilli e Simona Cognoli è un'amicizia nata fra i banchi d'assaggio. A unirle negli anni, la passione per l'olio extravergine di oliva, prodotto a cui hanno dedicato ore di studio, lavoro, ricerca, viaggi e gite alla scoperta delle aziende più belle della Penisola. Per entrambe, l'oro verde rappresenta oggi il cuore pulsante del loro lavoro. Fra articoli a tema enogastronomico per varie testate italiane e straniere, e diversi libri di settore già pubblicati, la giornalista Luciana riesce sempre a trovare il tempo per assaggiare oli da tutto il mondo e scrivere di questo prodotto. Così come Simona, ideatrice di Oleonauta, prima bottega su Roma specializzata nell'olio, aperta tre anni fa nel quartiere periferico di Ostia Lido. Oggi, la realtà si è evoluta e Oleonauta rappresenta un progetto ben più ampio, quello di valorizzazione e promozione dell'olio buono, attraverso corsi di formazione, attività di consulenze e partecipazione alle giurie di concorsi internazionali. Insieme, le due si confrontano sulle varie etichette e le ultime novità in campo; insieme, scelgono di unire le loro conoscenze per creare un libro dedicato interamente al prodotto a loro più caro.

Il libro: le sfumature dell'extravergine

Per la precisione, all'olio extravergine di oliva nell'arte, nella mitologia greca, nella cultura latina, negli affreschi e, soprattutto, sulla tavola degli italiani. Quello appena pubblicato da Edizioni Lswr è un volume che, tra consigli pratici, nozioni e informazioni preziose, guida il lettore alla scoperta delle tante sfumature dell'extravergine. Olio – Lo straordinario mondo dell'olio extravergine di oliva si propone, infatti, come una vademecum per tutti i consumatori, dagli appassionati agli chef professionisti, dagli assaggiatori alle mamme che si interrogano su quale sia l'olio migliore da dare ai propri figli. E non solo: le autrici si impegnano anche a scardinare, uno dopo l'altro, i falsi miti e leggende popolari che avvolgono da sempre il mondo olivicolo, per fare maggiore chiarezza sull'ingrediente cardine della dieta mediterranea.

Le ricette, gli abbinamenti, le storie

Un prodotto così intimamente legato alle nostri abitudini che è diventato nel tempo oggetto di proverbi, detti popolari, storie. Ma anche raffigurazioni, dipinti, ceramiche, sculture. Pagina dopo pagina, fra immagini e parole, il lettore viene condotto attraverso il lungo percorso che la pianta di ulivo ha compiuto nei secoli, con un linguaggio semplice e immediato, fruibile da tutti ma che non rinuncia ai dettagli più tecnici. Si viene così a conoscenza del valore dell'olio nella letteratura e nella musica, nel cinema e, naturalmente, in cucina. Come si abbina un extravergine ai piatti? Come si conserva la bottiglia? A queste e altre curiosità rispondono Luciana e Simona in maniera pratica e minuziosa.

I commenti degli autori

A firmare l'introduzione è invece Maurizio Pescari, giornalista specializzato in extravergine, esperto assaggiatore e figura fondamentale nel settore, che commenta così l'iniziativa delle giovani appassionate: “Leggendo queste pagine, si percepisce chiaramente che non sono state scritte da chi vuol mostrare il proprio valore, ma da chi queste cose le vorrebbe innanzitutto leggere”. L'idea del progetto, infatti, nasce “dalle tante volte in cui ci siamo trovate a rispondere alle domande che ci venivano, all'inizio con semplice curiosità e poi, dopo i primi assaggi, con interesse sempre maggiore”. Due donne provenienti da percorsi diversi ma con un amore in comune: “Siamo rimaste entrambe affascinate da questo universo fatto di storie, famiglie, persone, luoghi, ricordi. Per questo abbiamo voluto provare a raccontare i tanti aspetti che compongono questo settore, in maniera più narrativa che tecnica”, spiega Luciana. Affinché ogni lettore possa trovare la sua strada nell'articolato mondo dell'oro verde, con il suo approccio e la sua personale interpretazione. “Gli aspetti antropologici sono senza dubbio i più avvincenti”, aggiunge Simona, “perché ci consentono di avere una visione più ampia e diffusa di questo prodotto così ancestrale così saldo nella nostra memoria collettiva”.

Oltre le parole: il valore del libro

Un manuale, un contenitore di racconti, una guida per i consumatori. Ma soprattutto il frutto di una sinergia. Un testo scritto da mani diverse, con bagagli di esperienze divergenti che si muovono su binari paralleli, avanzando verso lo stesso obiettivo. Un lavoro prezioso che, in un comparto come quello olivicolo, così bisognoso di cooperazione, va al di là della raccolta di contenuti, rappresentando un esempio per tutti coloro che con l'olio di qualità hanno a che fare quotidianamente, dai produttori agli assaggiatori a tutti gli operatori. Perché per realizzare un libro del genere “ci siamo trovate a chiedere consigli e piccoli aiuti ai nostri amici (tra cui molti produttori ed esperti del settore), per alcune informazioni che ci mancavano ma, soprattutto, per il recupero di una parte del materiale fotografico. Alcuni sono addirittura corsi in mezzo agli olivi a scattare fotografie del proprio territorio, cercando panorami e visuali che meravigliano chi non li conosce da vicino”. All'insegna dello spirito di collaborazione e del senso di coesione. Perché per sviluppare il settore occorre fare tanti passi indietro nel passato, nelle nostre radici, prima di procedere in avanti. Ognuno a suo modo, ma seguendo lo stesso tragitto in maniera compatta.

Olio – Lo straordinario mondo dell'olio extravergine di oliva | Ed. Lswr | Cartaceo: Euro 13,50; E-Book: Euro 10,99

a cura di Michela Becchi

Tre Bicchieri. Parla Enzo Barbi di Decugnano de Barbi

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Dalla Lombardia all'Umbria, con un occhio alla Francia. La storia della cantina Decugnano dei Barbi, Tre Bicchieri con l'Orvieto Classico 2016.

A Decugnano si fa vino da centinaia di anni. E tracce di questa storia si possono rinvenire nella grotta etrusca tufacea in cui riposano soprattutto le bottiglie Metodo Classico prodotte dalla famiglia Barbi, bresciani trapiantati in Umbria all'inizio degli anni '70, come ci racconta Enzo Barbi. L'azienda, che unisce il loro nome a quello della zona, conta 32 ettari di vigneto, oltre 100mila bottiglie (principalmente Orvieto) e la capacità di unire fedeltà a territorio di appartenenza e voglia di sperimentare. Ne sono testimonianza proprio il Metodo Classico, nato in tempi in cui fare bollicine in zone senza una grande tradizione spumantistica non era così frequente, e il loro muffato.

I terreni, di origine marina, ricchi di materiale fossile e conchiglie, sono tutti raccontati nei loro vini, tra cui il Rosso, il Metodo Classico (una bollicina rifermentata in bottiglia, ottenuta grazie a un lungo affinamento sui lieviti), una muffa nobile. Ma sul gradino più alto del podio c'è l’Orvieto Il Bianco. L’annata 2016 regala profumi di fiori bianchi, camomilla, agrumi e non manca un cenno di erbette aromatiche, la bocca è fresca, elegante e dallo sviluppo verticale.

 

Cosa ha spinto una famiglia del nord ad acquistare una tenuta nel cuore dell'Italia? E perché la scelta di Orvieto?

Si può dire che ci ha portati qui mio nonno: aveva una cantina a Brescia tra fine anni '60 e inizio anni '70, comprava in giro per l'Italia vino che poi imbottigliava con il suo marchio. Acquistava molto Orvieto. Poi mio padre ha iniziato a seguirlo, ma voleva fare qualcosa di più: voleva a tutti i costi fare vino a partire dalla vigna. Convinse mio nonno a investire in un po' di terra. Dato che per molto tempo stavano a Orvieto decisero che era il posto ideale per costruire la loro azienda. Arrivati a Decugnano si innamorarono di questo posto. Era il 1973.

 

Parliamo della denominazione Orvieto: come sta andando?

Negli ultimi anni assistiamo a una riscoperta della denominazione Orvieto, in linea con la riscoperta generale delle denominazioni storiche, in Italia e fuori. L'Orvieto è una delle più famose: per molto tempo il vino bianco italiano è stato l'Orvieto, e il fatto che mio nonno lo acquistasse negli anni '60 ne è la conferma, significa che era molto apprezzato. Nel tempo ci sono stati alti e bassi, nei momenti più bui è stato identificato con un vino anonimo, di scarso spessore e scarsa qualità. Insomma un vino da poco. Ma le cose stanno cambiando, anche perché negli ultimi 10 anni nella denominazione si stanno facendo importanti passi avanti, e questo viene percepito all'esterno.

 

Di quali cambiamenti parla?

Su tutto il nostro territorio si sta portando avanti un discorso sulla qualità, e in modo sempre più deciso; è il momento della sperimentazione, dalla selezione clonale alla vinificazione. Il Consorzio è una bella squadra, giovane, con le idee chiare, che vuole puntare sulla qualità ed è disposto ad accettare la sfida di fare ogni anno un prodotto migliore. E poi tanti operatori del settore si stanno accorgendo del potenziale dell'Orvieto, che non viene più percepito solo come un vino da consumo immediato. Oggi sappiamo che, se fatto bene, dà il suo meglio dopo qualche anno.

 

Decugnano dei Barbi vanta due primati: il primo Metodo Classico umbro e il primo vino da muffa nobile. Come sono nati questi due vini?

Il Metodo Classico è una sperimentazione dei primi anni dell'azienda. Era il 1978 quando mio padre provò a spumantizzare l'Orvieto. Da bresciano era molto influenzato da quel che si stava facendo in Franciacorta in quel momento. Iniziò con il trebbiano, cui aggiunse, dopo qualche prova, lo chardonnay. Nel 2009 ha introdotto il pinot nero e tolto il trebbiano. È stato il secondo vino dell'azienda dopo l'Orvieto Classico. Ci siamo molto affezionati.

 

Come è ora il vostro Metodo Classico?

Oggi è pinot nero e chardonnay. Produciamo circa 10mila bottiglie l'anno, tutte millesimate. È un prodotto del cuore per noi, anche se non siamo in una zona da bollicine.

 

Per la muffa nobile, invece?

Mio padre si accorse che c'era una botrytis cinerea molto consistente sui nostri vigneti, e dato che pochi anni prima aveva visitato Sauternes e decise di provare. Nel 1981 ci fu moltissima muffa nobile nei vigneti, e lui decise di uscire sul mercato con il suo vino. Lo chiamò Pourriture Noble. Che in francese significa, appunto, muffa nobile. Pensò che così chi conosceva questo tipo di vini sapeva già cosa avrebbe bevuto, chi non lo conosceva non sarebbe stato impressionato dalla parola “muffa”, al contrario, vedendo un nome francese avrebbe potuto pensare, semplicemente, a un buon vino.

 

Come va il mercato dei vini umbri all'estero?

Per fortuna sempre piuttosto bene, c'è molto desiderio di Italia e di tutto ciò che è italiano, soprattutto moda, design e agroalimentare. Dunque partiamo da una posizione molto favorevole, in generale. Certo, non non è sempre facile comunicare il territorio. Ma l'Orvieto è molto conosciuto, ha una lunga storia di esportazione: è stato uno dei primi vini bianchi italiani conosciuti al mondo. Mentre il marchio umbro è più recente, e bisogna ancora comunicarlo e farlo conoscere di più. Insomma: dubito che a Pechino o a Hong Kong sappiano dov'è Orvieto.

 

A proposito di export, quali sono le piazze di riferimento? E quali sono i vini più richiesti?

Stati Uniti, Giappone, Regno Unito, dove ci chiedono soprattutto Orvieto Classico e Rosso Umbria. Produciamo circa 100mila bottiglie l'anno e, per fortuna, non ci sono problemi di vendita, anzi, spesso abbiamo il problema opposto: che non abbiamo abbastanza prodotto.

 

Facciamo il punto sulla vendemmia 2017

Vendemmia tra le più difficili che abbiamo vissuto, con un nettissimo calo di produzione: in media intorno al 50%, in alcuni casi anche di più. Il caldo e la siccità hanno colpito in maniera decisa, abbiamo un terreno molto sabbioso, un ambiente difficile per le viti e in annate del genere soffrono ancora di più.

 

Decugnano dei Barbi | Orvieto | Località Fossatello, 50 | tel. 0763 308255| http://www.decugnanodeibarbi.com/

 

a cura di Antonella De Santis e William Pregentelli

La focaccia e i suoi derivati. 9 specialità dell'Abruzzo e la ricetta della pizzetta tonda

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Viaggio alla scoperta delle focacce e i prodotti da forno abruzzesi. Fra fiadoni, torte rustiche e pizze senza lievito, l'Abruzzo vanta diverse ricette tradizionali a base di farina. Vi presentiamo le 9 focacce più note, e una ricetta speciale. 

Una regione dagli incredibili patrimoni naturalistici, artistici e gastronomici ancora da scoprire. Anche se, negli ultimi anni, l'Abruzzo sta sempre più facendo parlare di sé anche dal punto di vista della ristorazione, grazie al lavoro di cuochi d'eccezione e giovani imprenditori, e alla nascita di congressi e festival di settore. Una terra generosa e aspra, talvolta difficile, ma che sa restituire doni preziosi. Soprattutto, un luogo che vanta una cucina di origini remote, profondamente legata alla tradizione contadina e pastorale dell'appennino. Sono i cosiddetti “piatti poveri” a costituire la ricchezza gastronomica abruzzese, anche sul fronte dell'arte bianca. Ecco i prodotti da forno tipici, e la ricetta della celebre pizzetta tonda di Trieste Pizza, Pescara.

Fiadone

Come abbiamo già avuto modo di constatare per le focacce tipiche molisane, il fiadone è una delle ricette più antiche della tradizione dell'appennino italiano. Solitamente preparato in occasione delle festività pasquali, si compone di una sfoglia a base di farina, uova, olio, vino bianco, e di un ripieno di formaggio, nella versione più classica, tipica delle aree litoranee. Ma non è raro trovarlo anche nella variante dolce, con uvetta e canditi, più diffusa nell'entroterra. Per quanto riguarda il ripieno, si utilizza il pecorino o la ricotta, che vengono amalgamati con uova e spezie e racchiusi nella sfoglia dalla forma tonda.

Parrozzo

È uno dei dolci abruzzesi più celebri, nato a Pescara nei primi anni '20 dalla creatività del pasticcere Luigi D'Amico. Il nome si ispira al pane rozzo, una pagnotta rustica a base di granoturco che i contadini erano soliti portare nei campi. Mandorle, burro e zucchero arricchiscono questa focaccia dolce, alta e soffice, ricoperta interamente da cioccolato – solitamente fondente – e consumata tutto l'anno. Una gustosa evoluzione del parrozzo è il Pan dell'Orso, specialità di Scanno, piccolo borgo in provincia di L'Aquila, creata dalla famiglia Di Masso, proprietaria della pasticceria che prende il nome proprio dal dolce. Nella versione scannese, all'impasto viene aggiunto più burro e soprattutto il miele, tipico prodotto locale.

Pizza con le sfrigole

Le prime testimonianze della pizza con le sfrigole risalgono alla fine degli anni '70, nella pubblicazione di Rino Feranda, Gastronomia Teramana. Si tratta di una preparazione diffusa un po' in tutta la regione, a base di strutto, sale e sfrigole, ovvero scaglie croccanti ricavate dal grasso e dai tessuti connettivi del maiale rilasciati in padella durante la preparazione dello strutto in casa. Chiamate anche grasselli o ciccioli a seconda della zona, le sfrigole vengono cotte a fuoco lento e poi ridotte in polvere, e amalgamate all'impasto di farina, lievito, sale, strutto e olio d'oliva. Una ricetta dell'antica tradizione pastorale della regione, che per molto tempo ha rappresentato uno dei pasti tipici degli agricoltori e pastori grazie al suo apporto calorico.

Pizza e foje

È una delle preparazioni tipiche della cucina povera, nata per recuperare gli avanzi di cucina e impiegare i prodotti raccolti nelle campagne. Si tratta di una pizzetta di granoturco spessa e senza lievito, accompagnata da verdure di campo (le foje, appunto), erbe selvatiche e spontanee. Talvolta, specialmente nella zona di Guardiagrele, in provincia di Chieti, e lungo la costa dei Trabocchi, viene arricchita da alici o sardine sottolio. Ma non esiste una ricetta unica, perché varia in base alle esigenze e ai prodotti avanzati che occorre da smaltire. Proprio questo la rende un piatto nutriente e sostanzioso. Secondo la tradizione, la pizza di mais andrebbe cotta sotto il coppo, un coperchio di ferro o ghisa sul quale si poggiano le braci, diffuso e utilizzato anche nell'Umbria sud-orientale, nella zona fra Foligno e Terni; ma oggi viene spesso preparata in un tegame di ferro.

Pizza lievitata

Uova, latte, farina, lievito, semi di anice. Sono questi gli ingredienti alla base della pizza lievitata di Pasqua, ricetta nata in occasione della festa ma oggi disponibile quasi tutto l'anno in tante varianti, da quella con gocce di cioccolato a quella con uvetta e canditi. Questa golosa specialità dolce, infatti, si presta a essere arricchita in vari modi, ma ciò che accomuna le varie interpretazioni sono i lunghi tempi di lievitazione. In passato, la torta veniva cotta nel forno a legna dalle massaie con largo anticipo rispetto al giorno di Pasqua, per essere pronta per la benedizione durante la funzione religiosa.

Pizza rustica

Una torta salata a base di pasta sfoglia che trova nel ripieno la sua identità. Infatti, ogni borgo e ogni famiglia ha la sua ricetta, che custodisce gelosamente, e che comprende gli ingredienti più disparati. Nella versione più tradizionale, viene farcita con pecorino, prosciutto crudo e cotto, mortadella, mozzarella e uova, ma è possibile trovarla anche con abbinamenti differenti, solitamente sempre a base di salumi e formaggi del territorio. Non mancano, però, anche le versioni vegetariane, e soprattutto quelle dolci. Anche nella declinazione dolce, restano ben saldi i salumi tipici, amalgamati con la ricotta fresca, a cambiare invece è la sfoglia, addolcita con una buona dose di zucchero.

Pizza scima

Tradizionalmente cotta sotto il coppo, la pizza scima è una ricetta molto antica, abitualmente consumata come sostitutivo del pane, e caratterizzata dall'assenza di lievito. La parola scima, deriva dal dialetto “acime”, ovvero azzimo. L'origine di questo prodotto è infatti da ricercare nel retaggio delle numerose comunità ebraiche un tempo presenti in Abruzzo. Nasce lungo la costa dei Trabocchi, in particolare nella località di Lanciano, ma è possibile trovarla anche altrove.

Pizzetta tonda

La storia di Gabriele Ciferni inizia sul lungomare di Pescara alla fine degli anni Cinquanta (era il 1958), quando l'attività a gestione familiare, oggi votata a un modello di imprenditoria vincente, muove i primi passi sulla spiaggia dello stabilimento balneare Trieste. È qui che nasce la sua pizzetta tonda (e non troppo alta), friabile sui bordi e soffice all'interno grazie alla cottura nel padellino. Una lavorazione artigianale che oggi è custodita da Riccardo (il figlio di Gabriele) e sua moglie Laila, e che ha fatto il giro del mondo (Londra, Madrid, e anche Roma). Oggi si trova in tanti gusti diversi, tra le varianti più amate ci sono la classica margherita condita con salsa di pomodoro Triveri (dalle piantagioni di Vasto) e latticini locali (come il fiordilatte vaccino Reginella d'Abruzzo), quella farcita con alici del Cantabrico e broccoli, quella con salsiccia naturale prodotta dalla macelleria di Delio Ginestra a Villa Celiera, ancora una volta in Abruzzo, la carciofini e pecorino, la provola e speck e... chi più ne ha, più ne metta, sempre all'insegna della tracciabilità dei prodotti.

Rimpizza

Diffusa soprattutto nella provincia di Pescara, la rimpizza è un panetto a base di farina, lievito, acqua, uova, olio di oliva, latte, zucchero e semi di anice: una sorta di maritozzo lievitato a lungo e cotto in forno a legna. L'impasto risulta morbido ed elastico, e dà vita a un pane tondo non eccessivamente dolce, da gustare in purezza o farcito di creme, ricotta, confetture o miele. Tradizionalmente, si preparava durante il periodo della trebbiatura, ma nel tempo il successo è stato tale da renderla disponibili tutto l'anno.

La ricetta: la pizzetta tonda broccoli e salsiccia di Trieste Pizza, Pescara

1000 g. di di farina (30% integrale, 20% tipo 1, 50% tipo 0)

700 ml. di acqua

1,1 g. di lievito fresco di birra, 

30 ml. di olio extravergine di oliva

5 g. di sale marino 

25 g. mozzarella fiordilatte a cubetti

60 g. di salsiccia di fegato

30 g. di broccoli

15 g. di cipolla

2 g. di peperone secco

Sale q.b. 

Olio extravergine di oliva q.b. 

Unire tutti gli ingredienti fino a ottenere un composto liscio e omogeneo. Lasciar riposare il panetto a circa 22° C. Dividere l'impasto e stendere il disco nei padellini, e lasciar riposare almeno un'ora. Nel frattempo, tagliare la cipolla a fettine e cuocere al vapore. Una volta pronto, schiacciare l'impasto con le mani e aggiungere il condimento. 

a cura di Michela Becchi

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Snodo alle OGR di Torino. Polo gastronomico all day long nel nuovo mega spazio culturale della città

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Cinque aree distinte, riunite nel transetto delle ex Officine Grandi Riparazioni, per accontentare il pubblico che frequenterà il nuovo polo culturale a ogni ora del giorno. Caffè, bistrot, zona lounge, ristorante gourmet e tavolo sociale di grande impatto scenografico. A guidare la cucina Silvio Saracco. 

Torino e l’archeologia industriale. Il buon esempio

Mille giorni di cantiere e un investimento di 100 milioni sono i numeri della ristrutturazioni che da qualche ora ha restituito alla città di Torino la grande area dismessa delle ex Officine Grandi Riparazioni di corso Castelfidardo. Ancora una sfida importante per il recupero di strutture industriali in disuso che il capoluogo torinese sta lentamente riscoprendo grazie alla sinergia tra pubblico e privato, con l’idea di dotarsi di nuovi spazi di aggregazione e centri di cultura e intrattenimento. È quanto sta succedendo all’ex Incet, dove presto sorgerà un polo gastronomico d’autore, è altrettanto vero per l’ambiziosa sfida intrapresa dalla Fondazione Crt che ha finanziato l’impresa, e oggi festeggia con le più alte cariche cittadine e regionali l’inaugurazione dello spazio polifunzionale sorto sulle ceneri delle ex officine ferroviarie, in una zona della città toccata di recente da un grande fermento costruttivo, tra la nuova Porta Susa e il grattacielo di Intesa San Paolo (quello del ristorante Piano35, per intenderci, a firma Renzo Piano). Così, in attesa di scoprire dove porteranno i lavori della Nuvola Lavazza all’ex centrale elettrica di Aurora, l’attenzione si concentra sui 35mila metri quadri di superficie delle OGR, un grande spazio di architettura industriale della fine dell’Ottocento dove un tempo si riparavano i treni e che, da oggi, ospiterà mostre (già coinvolti 10 artisti internazionali, intervenuti con opere site specific; tra loro anche William Kentridge con Procession of Reparationists), concerti, eventi culturali, a partire dalla festa inaugurale OGR is Big Bang, che si protrarrà per le prossime due settimane con appuntamenti gratuiti per tutta la città.

La sfida delle ex Officine

Dagli anni Novanta le Officine sono state chiuse al pubblico, andando incontro al degrado. Ora la Fondazione che le ha portate alla rinascita (comprandole per 10 milioni di euro dal Comune) parla senza mezzi termini di una ritrovata fabbrica di idee a disposizione di Torino: due bracci, Nord e Sud, e un transetto a unirli, che dall’alto conferiscono al complesso la caratteristica forma ad H. L’ala Nord ospiterà le iniziative culturali, tra i binari, la sala fucine, e il cosiddetto Duomo, cuore della struttura con i suoi 19 metri d’altezza: una cattedrale urbana che ospiterà conferenze e laboratori. Per scoprire l’ala Sud, invece, bisognerà aspettare la prossima primavera, quando la ristrutturazione sarà completata e lo spazio ospiterà uffici e start up innovative. Mentre è già in funzione il transetto, ribattezzato Snodo, che funzionerà da polo gastronomico di supporto alle Officine.

Snodo alle OGR

L’area si articola su una superficie di 2mila metri quadri, suddivisi in 5 ambienti tematici, diversi per ambientazione e finalità. La progettazione è stata affidata a Gruppo Building (che ha curato l’intera ristrutturazione delle OGR) e al responsabile Luca Boffa, che per Snodo ha definito una proposta destinata a valorizzare la filiera enogastronomica piemontese e la cucina della tradizione regionale con il supporto di Italian Food Style Education, realtà piemontese che promuove la gastronomia attraverso la formazione professionale di sala e cucina. Aperto 7 su 7, dalla prima colazione al dopocena (dalle 7 di mattina alle 2 nel weekend), Snodo si presenta alla città con una missione precisa: promuovere le grandi materie prime del territorio, celebrare la buona cucina e le tecniche più moderne, declinare il concetto di ospitalità in ogni momento della giornata. Quindi c’è il caffè per la colazione, l’area bistrot Ristoro con formula veloce per il pranzo (170 posti), il ristorante gourmet con cucina a vista Officine del Gusto, lo spazio lounge per aperitivo e after dinner, ribattezzato Dopolavoro. E poi un lungo tavolo sociale, che attraversa la navata per 25 metri e 60 posti a sedere, sempre a disposizione di chi vuole fermarsi a mangiare qualcosa (ma anche per eventi privati), all day long, dall’insalata all’hamburger, a un primo piatto veloce. L’approccio internazionale all’impresa è legato proprio all’idea di continuità del servizio, con la possibilità di mangiare e bere in qualsiasi momento, a pochi minuti dalla stazione e dal centro di Torino. Anche la spesa varierà significativamente, dalla proposta più economica per un snack o un pranzo al bistrot alla cena più ricercata con menu a 60 euro, concertata con la supervisione di Silvio Saracco, chef dell’Arancera di Racconigi, che dirigerà la brigata. Alla direzione della struttura Vito Andresini, 50 i giovani impiegati per far girare giorno e notte l’impresa, affidata alla gestione di una società creata ad hoc, la Sofito. 

 

Snodo | Torino | corso Castelfidardo, 22 | http://www.ogrtorino.it/locations/snodo

 

a cura di Livia Montagnoli

 

Bocuse d’Or, la finale italiana. Il vincitore è Martino Ruggieri, che porta in Europa la sua Puglia

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Soddisfazione da parte della giuria e del presidente Enrico Crippa. Facce stanche, ma soddisfatte tra i giovani sfidanti che hanno combattuto, cucinando, una finale italiana tra le più convincenti di sempre. Così è andata la giornata di Alba, che ha incoronato Martino Ruggieri. Ora si guarda al futuro. 

Un bello spettacolo

Un applauso per tutti, organizzatori compresi. Ad Alba l’appuntamento con la finale italiana del Bocuse d’Or (meccanismi, protagonisti e aspettative dello storico concorso li abbiamo raccontati alla vigilia della gara) è cominciato presto, “è stata una giornata intensa, ma questo è solo l’inizio, il più difficile deve venire”. Quindi congratulazioni e ringraziamenti diffusi sono quelli che il presidente Enrico Crippa pronuncia dal palco della conferenza stampa a gara conclusa. Ma anche consapevolezza della sfida che animerà i prossimi mesi, in vista di Torino 2018, quando a giugno si disputerà la finale europea (prima di chiudere i giochi al mondiale di Lione 2019): “Giocheremo in casa, ma la strada ora inizia davvero a salire e sarà piena di tornanti”. A rappresentare l’Italia, ora è una certezza, ci sarà Martino Ruggieri, classe 1986 da Martina Franca, Puglia, di stanza a Parigi, dal 2014, presso uno dei maestri più blasonati della ristorazione francese contemporanea, Yannick Allenò, al Pavillon Ledoyen, dov’è deputy head chef (ma vanta esperienze anche alla Pergola di Heinz Beck e all’Atelier di Joel Robuchon, e ancora prima gavetta tra la Germania, al ristorante Rossini di Dusseldorf, e l'Italia di Del Cambio e Lido84, con Riccardo Camanini in veste di mentore e grande fautore dell'esperienza in Francia). Nel quartetto dei finalisti – con lui anche Paolo Griffa, Giuseppe Raciti, Roberta Zulian - sulla lucidità e il curriculum del 31enne pugliese si puntava molto, e lui ce l’ha fatta, con una prova coerente e incentrata sull’italianità, che dovrà essere la carta vincente da spendere in Europa.

L’unione fa la forza. L’importanza del Movimento

Insieme però, e l’appello a giornalisti e sponsor arriva senza esitazione, alla capacità di fare gruppo intorno a una manifestazione di prestigio fin troppo sottovalutata, perseguendo quell’idea dell’unione che fa la forza fuor di retorica. E quindi determinando la crescita di un vero e proprio movimento della cucina italiana, che qualcosa da dire al mondo ce l’ha. Lo dimostra il livello dei concorrenti, lo ribadisce Enrico Crippa: “Rispetto ad altre selezioni c’è stato un grande salto di qualità, sia a livello umano che professionale, tutti hanno centrato il tema e l’obiettivo, tutti sono rimasti nei tempi. Abbiamo visto cose bellissime, sono molto contento del vincitore, ma vedo un bel futuro per l’accademia italiana della cucina. Però L’Accademia italiana del Bocuse d’Or ha bisogno di sponsor e comunicazione: è un movimento italiano che deve andare avanti. Voglio riuscire a portare l’Italia dove se lo merita, bisogna formare uno zoccolo forte. E per organizzare la finale europea ce la metteremo tutta”. Gli fanno eco sul palco gli altri protagonisti di giornata, il giudice Carlo Cracco - “dobbiamo riuscire a fare gruppo, il Bocuse d’Or è un’istituzione mondiale, la nostra selezione è stata molto forte, io personalmente sono molto soddisfatto” - e soprattutto chi ha trionfato facendo parlare la sua cucina, Martino Ruggiero: “Ci siamo preparati ideando un progetto culinario; noi dobbiamo rappresentare l’Italia, farlo con materie prime e tecniche nostre, perché abbiamo grande tecnica e grandi prodotti. Dobbiamo essere identificabili in un tipo di cucina che ci rappresenti, concepire un movimento. Io cerco di fare quello che più mi piace, ho lavorato giorno e notte per questo”. In gara, Martino, si è presentato con due piatti che rispettano la rigida “etichetta” del Bocuse d’Or, ma gridano l’orgoglio per le proprie radici: La sublimazione è nel viaggio. Puglia, Italia, Mondo, per la portata vegetale, Il Trullo, per il piatto di carne. Architetture complesse, e molto scenografiche, senza mai perdere di vista il gusto.

La sublimazione è nel viaggio. Puglia, Italia, Mondo

Un futuro carico di speranza

La pressione, indubbiamente, è fortissima, ma questo dà l’idea di quanto, forse per la prima volta dopo molto tempo, si riaffacci quella fame di vittoria che potrebbe portare verso le vette più alte della competizione. Senza montarsi la testa però, né cercare di emulare qualcosa/qualcuno che non si è. Della Francia che l’ha accolto, e lo forma ogni giorno, Martino sta prendendo il meglio, ma questo non significa rinunciare alla propria italianità: “L’importante era rappresentare la mia regione. Avere una grande organizzazione dietro aiuta tantissimo, si può vincere con un grande progetto, ma si deve vincere anche il giorno stesso. E io ora voglio andare in Europa, e cucinare”. A Luigi Taglienti, chef di Lume a Milano e coach di Martino, il compito di sottolineare una qualità del suo pupillo per nulla scontata, che a detta di molti, tra gli spalti e i tavoli di Alba, l’ha portato alla vittoria: “Martino ha usato molta tecnica culinaria, ma mai fine a se stessa. Ha raccontato un territorio cucinando, e per questo oggi ha vinto”. 

 

a cura di Livia Montagnoli

Anteprima Tre Bicchieri 2018. Emilia Romagna

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L'anticipazione dei premiati della nuova guida Vini d'Italia 2018 oggi ci porta a scoprire i migliori vini dell'Emilia Romagna.

Lambrusco, Lambrusco, fortissimamente Lambrusco... ci viene da esclamare durante le nostre degustazioni finali. È questo il vino che ci sta entusiasmando di più negli ultimi anni tra le proposte della regione. Un fatto singolare, se ci riflettete. Il Lambrusco, nelle sue varie denominazioni, non ha mai fatto parte del Gotha dei grandi vini, dove trovano posto le cuvée Metodo Classico, i potenti bianchi dall'intenso corredo aromatico e i grandi rossi da invecchiamento.

Un po' come la Barbera, il Lambrusco è sempre stato relegato nel limbo dei vini da bere quotidianamente, quei vini che si acquistano senza grandi riflessioni, istintivamente, anche perché hanno un costo accessibile davvero a tutti. Ma sono vini che piacciono a tutti... Bene, partiamo da questa considerazione: c'è Lambrusco e Lambrusco. Dopo gli anni della grande "sbornia" delle vendite da milioni di casse nel mondo, dopo la crisi successiva, negli ultimi anni grazie al lavoro paziente di vignaioli e produttori è riemerso un panorama complesso e articolato nelle varie denominazioni che sta dimostrando sempre di più che anche un vino da bere giovane, dotato di vivacità e freschezza più che di struttura, può essere un grande vino. Quest'anno ne premiamo ben sette, tra quelli di Modena, Reggio e soprattutto Sorbara. Sono vini che ci incantano per finezza, sapidità, equilibrio e piacevolezza.

Subito dopo nella nostra hit parade regionale vengono i Sangiovese della nouvelle vague romagnola, quelli non iper-concentrati, non stremati da maturazioni in legni nuovi che ne soffochino frutto ed espressività. La Romagna ne offre sempre di più, e anche questi a prezzi più che ragionevoli.

Premiamo due Albana, un fresco e vibrante (e moderno) I Croppi '16 di Celli e il gran classico tra le versioni Passito, lo Scacco Matto '13 de La Zerbina.

Segnali incoraggianti arrivano, in termini di vini freschi, distesi e godibili anche dai Colli di Parma, dove premiamo l'ottimo Rosso MDV '16 di Monte delle Vigne. Colli Piacentini e Colli Bolognesi rimangono terroir di grandi potenzialità, ancora parzialmente inespresse.

 

I vini dell'Emilia Romagna premiati con Tre Bicchieri

 

Colli di Parma Rosso MDV ’16 - Monte delle Vigne

Colli di Rimini Cabernet Sauvignon Montepirolo ’13 - San Patrignano

Lambrusco di Modena Brut Rosé M. Cl. ’13 - Cantina della Volta

Lambrusco di Sorbara del Fondatore ’16 - Cleto Chiarli Tenute Agricole

Lambrusco di Sorbara Leclisse ’16 - Gianfranco Paltrinieri

Lambrusco di Sorbara Secco Omaggio a Gino Friedmann ’16 - Cantina Sociale di Carpi e Sorbara

Lambrusco di Sorbara V. del Cristo ’16 - Cavicchioli

Reggiano Lambrusco Concerto ’16 - Ermete Medici & Figli

Reggiano Lambrusco Secco Marchese Manodori ’16 - Venturini Baldini

Romagna Albana Passito Scacco Matto ’13 - Fattoria Zerbina

Romagna Albana Secco I Croppi ’16 - Celli

Romagna Sangiovese Castrocaro e Terra del Sole Crete Azzurre ’15 - Marta Valpiani

Romagna Sangiovese Modigliana I Probi di Papiano Ris. ’14 - Villa Papiano

Romagna Sangiovese Sup. Il Sangiovese ’16 - Noelia Ricci

Romagna Sangiovese Sup. Oriolo ’16 - I Sabbioni

Romagna Sangiovese Sup. Sigismondo ’16 - Le Rocche Malatestiane

 

Gli altri premi Tre Bicchieri della guida Vini d'Italia 2018

Grande degustazione Tre Bicchieri 2018 | Sheraton Rome Hotel | 22 ottobre 2017

 

Simone Cipriani e l'Essenziale, intervista al giovane chef. Da Firenze al Gambero Rosso Channel

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A un anno dall’apertura lo chef ci racconta Essenziale, tra informalità, lavoro di squadra e un programma tv

Come un giovane pinguino. Un giorno Simone Cipriani, lo chef alla guida del ristorante Essenzialea Firenze (che il 22 settembre ha festeggiato il suo primo compleanno) ha scoperto che i pinguini si muovono in gruppo sempre nella stessa direzione, finché un giovane esemplare non decide di provare a sostituire il capo branco e modificare il percorso di tutti. “A me piacerebbe ricoprire questo ruolo, ma cambiare l’alta cucina è difficile” spiega “voglio creare il mio sentiero e far vedere come sia possibile costruire una proposta di livello, curata e con ingredienti di qualità che allo stesso tempo garantisca porzioni maggiori, prezzi inferiori e un ambiente più informale rispetto a ciò a cui siamo abituati”.

Simone Cipriani. foto Giovanni RasotiSimone Cipriani

A un anno dall’apertura del locale - dove non poteva mancare la scultura di un pinguino bianco, soprannominato Gianni - Cipriani registra con soddisfazione un riscontro positivo, ottenuto proprio grazie alla filosofia messa in pratica e anticipata già dall’insegna. Qui l’essenziale si esprime attraverso l’apparecchiatura ridotta al minimo (basti pensare che le posate sono riposte in un cassetto) e la commistione di cucina e sala. Se infatti la scelta di eliminare gli orpelli che a lungo hanno caratterizzato il fine dining è ormai qualcosa di collaudato, secondo lo chef “ciò che sta nascendo ora è la figura di un cuoco sempre più polivalente, capace di servire e spiegare i piatti senza solo recitare la ricetta a memoria”.

 

Essenziale, lo staff. foto Giovanni RasotiEssenziale, lo staff

Un unico ristorante per tante esperienze

Piatti che, a volte, prendono forma direttamente sotto gli occhi del cliente. È questo il caso di uno dei tre nuovi menu, messi a punto da Cipriani e dal suo team al rientro dalla chiusura estiva. “Il nostro intento è costruire delle Esperienze(così qui vengono ribattezzati i percorsi di degustazione, ndr)che in modi diversi declinino la mia idea di ristorazione”racconta “credo che l’evoluzione a cui oggi dobbiamo aspirare sia in realtà un’involuzione, perché questo mondo ha bisogno di ritrovare la semplicità e di alleggerire molti passaggi”. Senza per questo rinunciare a un “approccio gourmet, ragionato e fatto con amore”. Nel caso del menu Buio, composto da otto portate a 80 euro e disponibile solo per i quattro coperti dello chef table, il ragionamento passa attraverso il confronto diretto con i clienti: “in base alle loro esigenze costruiamo una sequenza di assaggi che non gli viene svelata prima della cena”. Ma se qui l’obiettivo resta quello di dimostrare come la qualità possa andare perfettamente a braccetto con esperienze più informali, ecco prendere forma il Conoscersi, ossia il menu ideato per chi preferisce il tavolo conviviale e che cambia ogni settimana: si inizia con uno street food nell’attesa che arrivino tutti (maritozzo al parmigiano o donut di pappa al pomodoro, ad esempio), si prosegue con due portate da condividere - nel senso che bisogna servirsi da un unico piatto - e si conclude con un dolce, il tutto a 35 euro. Infine c’è la sala, dove si mangia alla carta o si opta per il terzo percorso di degustazione.

 

Essenziale. Firenze. Chef Simone Cipriani. foto Giovanni Rasoti

Da Nashville alla Toscana

In ogni caso, qui tutto è espressione della maturazione di uno chef che ha già un cospicuo curriculum alle spalle (ha lavorato al Santo Graal di Firenze e al St. Regis di Roma) e sentito l’esigenza di evolvere. Oggi i suoi piatti sono un omaggio alla tradizione italiana e in particolare toscana, sempre rivisitata con creatività e contaminata da altre influenze culturali. Ecco che, ai fornelli di Essenziale, prendono forma gli spaghetti cacio e pepe (di Sichuan) con crema di cozze, lime e sedano rapa, serviti assieme a un sorbetto di lime e pepe presentato all’interno del guscio del mollusco. E poi ci sono le tagliatelle con sugo di coniglio, camomilla e polline - “mangiandole si ha l’illusione di essere in un prato”, sempre per non perdere di vista il concetto di cucina esperienziale - e il pollo fritto speziato, accompagnato da una base di crema di parmigiana di melanzane e dal cavolo verza conservato in salamoia (omaggio al ricordo gastronomico di un viaggio a Nashville).

 

L’arrivo in tv con Cambio Menu

A chi volesse scoprire come tutte queste ricette nascono, Cipriani ha dato la possibilità di “entrare” nella sua cucina: Cambio Menu è il programma che lo vede protagonista su Gambero Rosso Channel, sei puntate (fino al 27 novembre) che documentano cosa si cela dietro l’ingresso di un nuovo piatto in carta. Prima di tutto c’è una sfida, nel senso più sano del termine, tra lo chef e i suoi collaboratori: Alessio Ninci, estrosità e una sardina tatuata sul braccio, e Davide Chen, origini cinesi e inconfondibile accento fiorentino. Questo trio giovane e scanzonato, che non si è adattato agli schemi di un format televisivo ma ha semplicemente concesso alle telecamere di accedere alla propria quotidianità, è una bella novità: “mi sono divertito molto durante le riprese e sono felice di testimoniare come dietro l’alta cucina non debbano necessariamente esserci atmosfere rigide e combattive”, sottolinea Cipriani.

 

Stelle o essenzialità?

Un clima cameratesco, in cui comunque non mancano determinazione e concentrazione, che lo chef vuole proteggere dalle pressioni esterne. Non lo ha infatti lasciato indifferente la richiesta di Sebastien Bras di essere escluso dalla guida Michelin, soprattutto perché - nel suo discorso - il figlio del leggendario Michel Bras ha detto di voler rinunciare alle Tre Stelle “per potersi concentrare sull’essenziale” . “A prescindere dal significato che questa parola assume e che è del tutto personale” specifica Cipriani “credo che sia davvero facile perderlo di vista, quando ci si ritrova intrappolati nel vortice di aspettative costruite dai giudizi di critici e foodies: non sono queste le persone che riempiono i locali e devono restare l’eccezione”.

 

Essenziale | Firenze | piazza di Cestello, 3R | tel. 055.2476956 | http://essenziale.me/

Cambio Menu | il lunedì h.21.30 | Channel Sky 412

 

a cura di Agnese Fioretti

foto Giovanni Rasoti

 

 

 

 

Vos a Roma. La sfida alle trappole per turisti del nuovo bistrot con drogheria nel cuore della città

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Tra pochi giorni il nuovo locale di via di Pietra si presenterà alla città, e ai tantissimi turisti stranieri che affollano la strada giorno e notte. Con l'idea di proporre una ristorazione informale di qualità, in una giungla acchiappa-turisti difficile da scalfire. Ecco come. 

Via di Pietra e la ristorazione per turisti

Si chiama Vos, è un bistrot dall'anima cangiante che strizza l'occhio al turismo internazionale, e aprirà le porte giovedì 5 ottobre, in via di Pietra numero 74. Il primo dettaglio degno di nota si nasconde proprio nell'indirizzo. Un dato che dirà ben poco a chi con il centro di Roma ha poca dimestichezza, e invece suona come una gran bella nuova per quei romani affezionati alla propria città che piangono la sorte di via di Pietra ogni qualvolta si trovano a districarsi tra tavolini abusivi e buttadentro che espongono, assillanti, menu turistici di bassa lega. È destino comune di tante arterie e scorci storici della Capitale quello di essersi trasformati in trappole per turisti che mettono a dura prova anche i più scaltri. Prezzi esorbitanti, prodotti scadenti, pressapochismo per servizio e gestione dell'attività, quando non addirittura totale illegalità. Dalla suggestiva piazza di Pietra, la via omonima corre dritta verso via del Corso, affollata giorno e notte dal passaggio di stranieri che mappa alla mano si districano in vista di Fontana di Trevi, piazza di Spagna, i Fori Imperiali. La sfida più grande di Vos sarà quella di riuscire ad attirarne l'attenzione, senza però contare sulla giungla di tavoli e ombrelloni su strada di cui sopra. E con la responsabilità di restituire dignità gastronomica a un angolo di centro storico piuttosto sguarnito di validi indirizzi di ristorazione informale, eccezion fatta per il capostipite del genere, Baccano, e qualche buona variazione sul tema degli ultimi tempi, dal rinnovamento del Quirinetta all'oasi di Colbert a Villa Medici, alla nuovissima veste dell'Enoteca Regionale by VyTA in via Frattina.

Vos. Street food, bistrot, cocktail bar

Tra qualche giorno, quindi, anche Vos sarà della partita, e le intenzioni di fare bene ci sono tutte. Il locale potrà contare su un grande spazio, articolato in più sale, con asso nella manica nascosto al passaggio, una bella corte interna da 90 coperti, in parte scoperta (si mangia sotto gli ombrelloni, ma in un contesto ben diverso dalla sciatteria imperante all'esterno), con tanto di fontana ottocentesca a scandire il ritmo rilassato del servizio del bistrot. Ma proprio per destare l'interesse di un pubblico quanto più possibile trasversale, Vos riunirà più anime. Alla guida del progetto c'è Paolo De Angelis, ex direttore di sala de La Zanzara, locale di gran successo a Prati, e come lui buona parte del team proviene da quell'avventura, dallo chef Salvatore Testagrossa ai ragazzi che si muoveranno in sala e in cucina. Il cocktail bar, invece, sarà affidato all'esperienza di Luca D'Amato, ex Baccano. Cosa sarà, dunque, Vos? Street food e gastronomia per quanto riguarda la proposta più veloce e immediata, con carta dei fritti, proposte da banco, sandwich classici e creativi, dal pastrami al club sandwich con pollo teriyaki. Da consumare sul posto o a portar via. Poi drogheria con cucina: un laboratorio/bistrot, con cucina a vista e la possibilità di mangiare al banco, nella sala interna o in cortile. E cocktail bar, fino a tarda notte, anch'esso con posti a sedere di pertinenza, oltre agli sgabelli al bancone.

 

La sfida alle trappole per turisti

In tutto 200 coperti, tutti con servizio al tavolo, e l'ambizione di dialogare con quello che sarà l'albergo di proprietà JK che nascerà nell'edificio tra poco più di un anno (le stanze affacceranno proprio sulla corte di Vos, anche se la struttura potrà contare su un proprio ristorante, e le proprietà sono distinte). A vista, nella sala principale, una cantina di soli vini italiani, eccezion fatta per lo champagne. Dalla cucina, aperta tutto il giorno, dalle 11 a mezzanotte no stop, spunti della tradizione romana, soprattutto tra i primi piatti (con pasta fresca fatta in casa e lasagna della tradizione) e aperture ai tradizionali delle carte internazionali, dall'hamburger al croque monsieur, alla tagliata di Angus. E poi le uova al tegamino, in più varianti, servite in tegame di ghisa. Tra gli antipasti una selezione di fritti e focacce (con burrata e cicoria, salmone). Altrettanto nutrita la sezione insalate. Tra i dolci si scommette soprattutto sul maritozzo al tiramisù. “L'idea è quella di accontentare tutti, chi cerca un pasto veloce o desidera fermarsi per cena in un contesto più rilassato. E con grande attenzione al prezzo, dagli 8 ai 20 euro per le proposte in carta. Con 30-35 euro si potrà fare un pasto completo”, racconta De Angelis, orgoglioso di presentarsi su piazza con un gruppo affiatato e tanta voglia di fare bene: “Puntiamo sul turismo internazionale con una proposta che metta davvero in luce le qualità della ristorazione italiana. Dovranno togliere tutti quei tavoli abusivi, vedremo chi avrà la meglio!”. La sfida è appena iniziata.  

 

Vos | Roma | via di Pietra, 74 | da giovedì 5 ottobre

 

a cura di Livia Montagnoli

Il Bocuse d’Or Italia dall’a alla z

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La giornata di Alba ha decretato finalista per l'Italia il 31enne Martino Ruggieri, dalla Puglia di Martina Franca. Ecco il racconto un po' scanzonato della cerimonia vissuta da spettatori. 

Grande evento ieri ad Alba: la designazione dello chef che rappresenterà l’Italia alle selezioni europee del Bocuse d’Or, che si svolgeranno a Torino il prossimo 11 e 12 giugno. Un evento tutto piemontese insomma, quasi una consacrazione ufficiale di Torino capitale della gastronomia. Com’è noto il prescelto è Martino Ruggieri, del tre stelle Pavillon Ledoyen di Parigi e vi abbiamo già detto com'è andata la giornata in chiave ufficiale. Qui ecco invece – in rigoroso ordine alfabetico - le note a margine, gli appunti e le impressioni del “comune spettatore” davanti al Gotha della cucina nazionale (e non solo).

A Allineati. Eh sì, è stata davvero una bella emozione entrare nella struttura allestita ad hoc in piazza Risorgimento, pieno centro di Alba, e vedere allineati in fondo, dietro a due tavoli lunghissimi, e tutti con toque regolamentare, i membri delle giurie di degustazione: 10 chef per il piatto vegetariano (bella innovazione al Bocuse) e altrettanti per il piatto di carne, più il tavolo della presidenza, con Crippa, presidente dell’Accademia (altra A) che ha fortemente voluto il Bocuse e sosterrà la preparazione dello chef italiano, Cracco e l’americano Matthew Peters, Bocuse d’Or in carica per il 2017.

B Bocuse. L’anima del grande Paul aleggiava e ogni tanto appariva sullo schermo. Un’icona, ormai entrata nella leggenda del food.

C Crippa. Sempre più ascetico, barba solo sul mento e baffi all’insù, più toque ben calzato, assomigliava a un personaggio di Salgari (o a Salgari stesso?), a un principe d’Oriente, al genio della lampada, a scelta. L’altra C della presidenza, Cracco, sfoggiava un paio di occhiali in perfetto stile nerd.

D Donne (chef). Da sapere subito: l’alta cucina non si addice alle donne (a parte la cucina di casa, in quella sì che si destreggiano, eccome). Su 23 chef giurati, solo 2 le donne, una per tavolo: Antonella Ricci e Isa Mazzocchi. Una percentuale da far invidia a Paesi dove il gentil sesso neppure guida l’auto... L’alta gastronomia è ancora cosa per soli uomini?

E Eroico. Uno dei candidati, Paolo Griffa, sous chef del due stelle Marco Sacco al Piccolo Lago, si è tagliato malamente un dito pochi giorni fa: è esploso un frullatore, corsa in ospedale, panico. Ha cucinato con il dito fasciato, per il Bocuse tocca saper soffrire.

F Folla. Dentro e fuori della sala. Fuori, a cercare di entrare (evento solo per accreditati, anche del pubblico). Dentro, a sostenere i propri candidati a gran voce. Altra folla ad assistere al Palio degli Asini, evento in programma ad Alba lo stesso giorno.

G Gruppo. Spirito di gruppo, fare gruppo a livello internazionale. Lo hanno detto Cracco & Crippa: è la strada per il futuro, che Crippa vede roseo, meno male.

H Hour timer. Apparso regolarmente sullo schermo per indicare il tempo di uscita di ogni piatto, da conto alla rovescia, vagamente agitoso. Ma la macchina è stata perfetta, nessuno ha sforato, chapeau.

I Italia. Portare l’Italia in Europa (come cucina, certo). È il progetto dell’Accademia di Crippa che ha dichiarato “forse non sarà quest’anno, magari nemmeno il prossimo, ma ce la faremo”. Bene.

L Lamellatrice. Splendido oggetto design prodotto da Alessi, disegnato dall’olandese Ben van Berkel/UNStudio, e creato per tagliare a lamelle sottili il tartufo bianco, eccellenza locale. Come poteva chiamarsi un oggetto così prezioso? Alba,ça va sans dire. In omaggio-ricordo a tutti i membri della giuria.

M Metro. Food Partner di Accademia Bocuse d’Or Italia “un’ulteriore dimostrazione di come METRO sia sempre più vicina al mondo della ristorazione e ne voglia essere il Partner di elezione” ha dichiarato Claude Sarrailh, Amministratore Delegato METRO Italia. Marchio un po’ ovunque, anche nei collarini appendi-pass.

N Noi di Sala di Alba. Uno sguardo alla professione di cameriere, maitre, sommelier. Indispensabile corollario di qualsiasi grande chef. Insieme ai ragazzi della Scuola di Stresa, due elementi decisivi per la riuscita della giornata.

O Ovazioni da stadio. Striscioni e ola (Sicilia, Sicilia...) dei sostenitori di Giuseppe Raciti, tifo per Paolo Griffa, ma tutti avevano il loro nutrito gruppo di aficionados. Bella atmosfera calda da arena, in contrasto con l’imperturbabile flemma dei giurati.

P Pasticceria. Non basta il Bocuse d’or, a giugno a Torino, nell’ambito di Gourmet Expoforum all’Oval Lingotto si disputeranno anche le selezioni finali della Coppa del Mondo di pasticceria, altra sfida lionese. Gino Fabbri, presidente dell’Accademia dei Maestri Pasticceri, ieri sorrideva sotto i baffi.

Q Quinte. Dietro le quinte altri chef giudicavano quel che non si vede: la giuria cucina con Matteo Baronetto, Michel Mahada, Stefano Deidda e Accursio Capraro e giuria commis, con Marco Acquaroli e Matteo Berti. Premiato per la cronaca il commis del team del vincitore, un giovane ed emozionato Curtis Clement Mulpas.

R Ruggieri. Il vincitore ha il curriculum più internazionale: ora Parigi,prima La Pergola con Heinz Beck, Joel Robuchon sempre a Parigi, e naturalmente la Puglia d’origine. E vuole cucinare italiano in Europa, bella sfida.

S Selfie. La risonanza mediatica di uno chef si è misurata nelle richieste di selfie a fine votazioni, prima del verdetto. Cracco ha dovuto destreggiarsi fra stuoli di fan e anche Cannavacciuolo non scherzava…

T Telefonino. Non c’era giurato che non l’avesse e che non abbia fotografato i piatti in uscita. Cucina social. T anche come Tinto di Decanter, questa volta senza Fede, a ritmare l’evento. Leggero, divertente, infaticabile.

U Uniti. Idea forte di tutti: uniti a rappresentare l’Italia della cucina e portarla dove merita, evviva. Almeno in cucina, siamo una nazione.

V Virilità. (connotazioni simboliche di ). Fra gli chef in giuria, 12 con baffi e barba, 3 con soli baffi. In netta minoranza gli sbarbati.

Z Zanussi. Professional, altro Premium Partner. Scelto dall’ Accademia Bocuse d’Or Italia, per le sue apparecchiature di cottura innovative, sostenibili, affidabili e facili da usare. Si gioca in casa.

 

a cura di Rosalba Graglia

 

 

 

"Così faccio con i cinesi". Intervista a Denise Cosentino, prima enologa italiana in Cina

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Vendemmia agli sgoccioli anche nello Shandong, la provincia orientale cinese affacciata sul Mar Giallo. La novità è che l'annata 2017 della Great River Hill Winery sarà la prima vinificata da una giovane italiana

Ha trent'anni da poco compiuti Denise Cosentino, calabrese di Papasidero (Cosenza), la prima enologa italiana in forza presso una cantina cinese. Che in questi giorni ha concluso la vendemmia alla Great River Hill Winery, più conosciuta come Château Nine Peaks, fondata nel 2008 dal banchiere tedesco Karl Heinz Hauptmann nei pressi della città di Qingdao (provincia dello Shandong). Qui i vitigni prevalenti sono cabernet e chardonnay. Assunta da un paio di mesi, è una professionista versatile che non ha paura di mettersi in gioco e di esplorare nuove strade. Le abbiamo chiesto di raccontarci del suo lavoro.

Denise CosentinoDenise Cosentino

 

Quali sono i principali problemi che devi affrontare in azienda?

L’azienda si trova nella penisola dello Shandong, nella parte est della Cina, ai piedi della montagna omonima (Nine Peaks). A differenza delle altre provincie viticole del Nord e del Centro, ha un clima marittimo, con estati più fresche e inverni più caldi, ma è influenzata dal monsone orientale che provoca le piogge estive, aumentando il rischio di malattie fungine (oidio, peronospora, botrite). Spesso il problema principale è vinificare uve dallo stato sanitario e dalla maturità non sempre ottimali.

 

Quali sono le differenze o difficoltà rispetto a una cantina europea?

Credo che la differenza principale sia riuscire a trovare personale di cantina esperto. L’azienda è la prima e la sola della zona: qui fino a 10 anni fa non avevano mai visto né un vigneto né una cantina.

 

Come è strutturata la Great River Hill Winery?

L’azienda possiede all’incirca 85 ettari di vigneto che si estendono su terreni collinari, argillosi e limosi, gestiti da un giovane agronomo cinese. Le uve presenti sono soprattutto cabernet sauvignon e chardonnay insieme ad altre varietà come cabernet franc, syrah, merlot, cabernet gernischt, marselan e petit verdot. Abbiamo anche un piccolo vivaio dove produciamo i nostri portainnesti. Da queste varietà produciamo circa 300 mila bottiglie all’anno: tre vini bianchi a base chardonnay, (un base, una riserva e un premium) un rosé, un cabernet franc in purezza e tre vini rossi (un entry level, un base e una riserva). Oltre alla cantina abbiamo anche una parte dedicata all’ospitalità con un caffè e un ristorante di cucina sia cinese che occidentale. Siamo la principale attrazione turistica nell’aerea e non siamo molto lontani dalla città di Qingdao, anch’essa località turistica, soprattutto nei mesi estivi. Complessivamente tra produzione e ospitalità in azienda lavorano circa 60 persone.

 

Dove viene venduto il vino dell'azienda?

Gran parte della produzione è rivolta al mercato domestico. Nel 2016 è stato esportato il 20% della produzione, soprattutto nell’area del Sud Est asiatico, ma anche in Stati Uniti, in particolare New York, e Europa dove vi è una base di distribuzione a Bordeaux. Piuttosto che parlare di volumi, per il momento, l’obiettivo dell'azienda è di far crescere l’immagine del vino cinese all’estero e far comprendere che in Cina si può fare vino di qualità.

 

La lingua è un problema?

La lingua non è un grosso problema, in quanto essendo l’azienda di proprietà straniera, quasi tutti parlano o quanto meno comprendono l’inglese. Io ho la mia assistente, che mi aiuta con i cantinieri e a volte riesco a farmi capire con quel po’ di cinese che ho imparato negli anni.

 

Come saranno i vini che stai vinificando? Quali scelte di stile hai in mente?

Non si tratta di apportare uno stile italiano piuttosto che uno internazionale. Siamo in Cina e lo stile sarà cinese, cinese di Chateau Nine Peaks. L'obiettivo è quello di esprimere al massimo il potenziale delle uve di questo territorio, attraverso diverse tecniche e adottandole alla nostra situazione, cercando sempre di produrre vini di una certa finezza ed eleganza. Puntiamo sull'espressione varietale del vitigno da cui sono prodotti, fruttati e senza l'uso della barrique. Insomma, molto diversi dai vini, per esempio della parte ovest della Cina, come Ningxia o Xinjinang, dove si producono vini molto più alcolici, più corposi, tannici e molto più di stampo francese in termini di stile.

 

Ci sono altre donne, in altre cantine, che svolgono ruoli simili al tuo? O altre donne italiane che lavorano nel settore vinicolo cinese?

Oggi, a differenza di 30 anni fa, aumentano le enologhe cinesi e alcune sono a capo delle aziende più rinomate del Paese: in azienda il vicedirettore generale May Xue, è una donna. Non solo, ma le donne stanno diventando una parte integrante dell’industria vinicola cinese e sicuramente hanno, e avranno, un ruolo importante nel suo sviluppo.

 

Si ma altre donne italiane lavorano nel settore vinicolo cinese?

Credo proprio di essere la prima.

 

Cosa consiglieresti a una giovane enologa italiana che volesse intraprendere un percorso simile al tuo?

Di essere curiosa e di essere sempre pronta a mettersi in gioco, di fare tutte le esperienze possibili in ambito vitivinicolo per potersi arricchire da diversi punti di vista. Per quanto riguarda la Cina, non è semplice venire qui e pensare di poter fare un’esperienza lavorativa. Il settore è per molti versi ancora in via di sviluppo, inoltre parliamo di un Paese culturalmente molto diverso dal nostro e questo, a volte, crea delle incomprensioni. Aggiungo che a questo punto della mia carriera, sono contenta di lavorare in Cina in condizioni non sempre semplici e affrontare alcune problematiche che magari in Italia non abbiamo più o non abbiamo ancora: insomma non può che essere una grande opportunità.

 

Denise Cosentino. Il ritratto

Denise Cosentino vive in Cina dal 2014, dopo esperienze lavorative in Italia (Toscana), Francia (Pauillac), Germania (Rheinhessen), Nuova Zelanda (Marlborough), e nelle aree vinicole di Ningxia, Shaanxi e Shandong. Specializzata in viticoltura, enologia e gestione vitivinicola, prima presso l’Università di Torino e poi a Montpellier SupAgro e a Bordeaux Sciences Agro. È docente presso il college di enologia (il primo a essere creato in Asia circa 20 anni fa) della North West A&F University di Yangling). Recentemente Denise, insieme ai colleghi italiani Alessio Fortunato e Giampaolo Paglia, ha partecipato al “Ningxia Winemakers Challenge”, competizione tra 48 winemaker del mondo per la produzione del miglior vino da uve del Ningxia.

 

L'area vitivinicola di Shandong

A mezza strada tra Pechino e Shanghai, è una delle principali aree vinicole cinesi, sede di numerose cantine tra cui la storica Changyu, nata alla fine del XIX secolo. La provincia è anche conosciuta per la Distilleria Tsingtao, fondata dai coloni tedeschi nel 1903, che produce l'omonima birra, molto conosciuta anche all'estero. La vitivinicoltura sta crescendo rapidamente e ha attirato l'attenzione, oltre che degli investitori nazionali, anche di molti gruppi intenazionali tra cui i bordolesi Castel e Barons de Rothschild. LoYantai International Wine Festival è uno degli appuntamenti annuali più importanti del vino cinese e attrae espositori da tutto il mondo.

 

 

a cura di Andrea Gabbrielli

 

Questo articolo è uscito sul nostro settimanale Tre Bicchieri del 14 settembre

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Michelin Gran Bretagna e Irlanda 2018. The Araki è il nuovo sushi bar a Tre Stelle di Londra. In Irlanda la stella va al pub

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Poche sorprese, tante riconferme, e un'edizione diffusamente conservatrice, che a Londra regala un nuovo Tre Stelle, l'esclusivo sushi bar di Mayfair. Tra le novità più curiose il pub irlandese Wild Honey Inn: prezzi popolari e cucina sostanziosa che valgono la stella. 

Tre Stelle al sushi bar di Mayfair

C'è anche un nuovo Tre Stelle, e il riconoscimento più ambito della Rossa stavolta piove dritto su Londra. Eppure non è il nuovo corso della ristorazione contemporanea londinese, pure ricca di tanti buoni spunti, a festeggiare. Niente affatto. Il premio, invece, incorona Mitsuhiro Araki, e il suo sushi bar da 9 posti per 300 sterline a persona The Araki, che nel 2014 ha trovato casa a Mayfair dopo il lungo viaggio che l'ha portato da Tokyo a Londra. Non proprio una novità, quindi: in Giappone il ristorante deteneva le Tre Stelle, nella capitale britannica ne ha conquistate due già nel 2016. Sulle guida Michelin Great Britain e Ireland 2018 invece raggiunge il quartetto Heston Blumenthal, Alain Roux, Gordon Ramsay(che mantiene Tre Stelle nonostante la partenza di Clare Smyth, oggi alla guida del suo ristorante Core) e Alain Ducasse. Per il resto, della scena gastronomica cittadina, gli ispettori quest'anno scelgono di premiare un sistema piuttosto conservatore di indirizzi che fanno tendenza, con un occhio di riguardo per la cucina etnica, però quella più patinata: ottengono così la prima stella i ristoranti indiani Jamavar e Vineeth Bhatia, e una delle più popolari insegne cinesi di Londra, A Wong, il paradiso per gli amanti del dim sum a Victoria. Con loro anche l'avamposto inglese di Anne-Sophie Pic, Le Dame de Pic, Aquavit e la cucina nordica di Mark Jarvis - già premiato con la stella a New York - ed Elystan Street, nuova insegna di Phil Howard, già due stelle per The Square, prima di reinventarsi nel quartiere di Chelsea. Solo un nuovo bistellato, che pure tanto nuovo non è: dopo la chiusura di Hibiscus, Claude Bosi sale direttamente a due macaron per la sua nuova tavola al Bibendum.

 

Una stella al pub. In Irlanda

Poche sorprese, almeno nella capitale. In totale il computo degli stellati in tutto il Regno sale a 175 unità, 5 i Tre Stelle, 20 i bistellati e 150 a vantare un macaron. L'ultimo gruppo può contare, oltre alle novità londinesi, su 10 nuove entrate, la maggior parte in Inghilterra, e un'insegna a testa per Scozia e Irlanda. E proprio dall'Irlanda arriva la novità più curiosa: il primo pub del Paese a ottenere la stella si chiama Wild Honey Inn (finora alla voce Bib Gourmand), si trova a Lisdoonvarna, dirimpetto alle Aran Islands, ed è gestito dallo chef Aidan McGrath con sua moglie Kate. L'atmosfera è quella accogliente di un pub con locanda vecchio stampo, il prezzo popolare, anche se la cucina strizza l'occhio ai classici della tavola francese, pur assecondando palati robusti. Alla cerimonia di premiazione ospitata al The Brewery (Londra) sfilano sul palco anche gli chef di Clock House, Coworth Park, Lympstone Manor, Moor Hall, Paco Tapas, The Coach (anche questo un pub, con la cucina del celebrity chef Tom Kerridge), The Dining Room, The Latymer, Loch Bay (Scozia, sull'isola di Skye). Tutti insigniti con la prima stella.

 

Michelin 2018 Gran Bretagna e Irlanda

 

Tre Stelle

The Araki*

Restaurant Gordon Ramsay

Alain Ducasse at The Dorchester

The Waterside Inn

The Fat Duck

 

Due Stelle

Claude Bosi at Bibendum*

The Ledbury

Marcus

Dinner by Heston Blumenthal

Le Gavroche

The Greenhouse

Hélène Darroze at The Connaught

Sketch Lecture Room and Library

Midsummer House

Gidleigh Park Hotel

Le Champignon Sauvage

The Raby Hunt Restaurant

L'Enclume

The Hand and Flowers

Restaurant Sat Bains

Belmond Le Manoir aux Quat'Saisons

Restaurant Nathan Outlaw

Andrew Fairlie

Restaurant Patrick Guilbaud

 

Le nuove prime stelle

Londra

Aquavit

A Wong

Elystan Street

Jamavar

La Dame de Pic

Vineet Bhatia

Inghilterra

Clock House

Coworth Park

Lympstone Manor

Moor Hall

Paco Tapas

The Coach

The Dining Room

The Latymer

Scozia

Loch Bay

Irlanda

Wild Honey Inn

 

a cura di Livia Montagnoli

 

 

Slow Food in Cina. Il settimo congresso di Carlo Petrini. Obiettivo: incentivare il dialogo tra campagna e città

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Si è chiuso da qualche ora il settimo congresso del movimento presieduto da Carlin Petrini, che quest'anno ha scelto di accendere i riflettori sulla Cina, il suo controverso sistema agricolo e le sfide per il futuro di uno dei Paesi più determinanti in termini di alimentazione globale. Cosa è emerso. 

La prima volta di Slow Food in Cina

Chengdu, 14 milioni di abitanti nella provincia di Sichuan, di cui è la capitale. Qui, in una delle regioni cinesi più rappresentative per storia e cultura gastronomica, per qualche giorno, 400 delegati da 90 Paesi del mondo si sono ritrovati sotto il vessillo di Slow Food, chiamati a pronunciarsi sul futuro dell'alimentazione globale dal presidente Carlo Petrini, cerimoniere del settimo congresso internazionale del movimento fondato alla fine degli anni Ottanta. La prima volta in Asia, ancor più significativa per la scelta della Cina, terreno di sfida incerto e potenzialmente preziosissimo. Il dato di partenza è impressionante: da sola, la Cina sfama un quinto della popolazione mondiale, ma solo il 7% della superficie nazionale è coltivabile. E la direzione intrapresa finora non è delle più felici, tra allevamenti intensivi e largo impiego di pesticidi e fertilizzanti. Non a caso, il problema dell'inquinamento del suolo (per non parlare di quello dell'aria) in Cina è particolarmente pressante e a questo si aggiunge la svalutazione costante del ruolo delle comunità rurali: coltivare la terra, in Cina, non conviene. I raccolti sono minacciati dagli effetti del cambiamento climatico, la resa è bassa, il guadagno misero, le istituzioni, finora, si sono spese ben poco per salvaguardare il settore agricolo, i contadini e le loro famiglie.

 

Il Movimento di Ricostruzione Rurale. Ripartire dal dialogo

La provincia del Sichuan, però, è un'oasi privilegiata di biodiversità, e può rappresentare un punto di svolta per le sfide future poste dalla necessità di sfamare una popolazione mondiale che entro il 2050 raggiungerà quota 9,5 miliardi di esseri umani. Per questo l'appello di Carlo Petrini parte da Chengdu, e si innesta su quel Movimento di Ricostruzione Rurale che lentamente sta muovendo i primi passi sul territorio, tra cooperative agricole moderne, coltivazioni in biologico, fattorie biologiche. Un'idea che dieci anni fa, mettendo in pratica la politica della “nuova campagna”, prendeva le mosse proprio da Chengdu, cercando di ricreare e consolidare il legame tra città e zone rurali. E Slow Food Cina dev'essere interlocutore importante di questa rivoluzione, che allargando lo sguardo porterà benefici al sistema alimentare globale. L'obiettivo concreto è quello di sostenere la nascita nel Paese di centinaia di villaggi rurali votati alla produzione di cibo sano, pulito, sicuro e giusto (1000 nel giro di 5 anni, è l'idea ambiziosa). Ripensando quindi il sistema di produzione dall'interno, sanando le contraddizioni sul piano ambientale e alimentare determinate “da una crescita sfrenata”, ribadisce Petrini in congresso. E continua, indicando “priorità di azione e progettualità”, sulla scorta di due parole chiave: “inclusività e apertura”. Che significa anche coinvolgere il consumatore, perché “senza la consapevolezza dei consumatori non è possibile alcun cambiamento vero”. E credere nella forza di modelli alternativi e vincenti.

 

A chiusura dei lavori, nella giornata di domenica 1 ottobre, Petrini ha presentato al congresso la Dichiarazione di Chengdu, sintetizzando le principali sfide dei prossimi anni: la necessità di battersi affinché a tutti sia garantito l’accesso al cibo buono, pulito, giusto e sano; l’accesso alla conoscenza come un diritto comune e stessa dignità per saperi tradizionali e accademici; il rifiuto di qualunque esclusione di carattere politico, economico e sociale; la salvaguardia dell’ambiente come principale priorità del nostro agire anche grazie alle campagne; la necessità di ribadire che la diversità è la più grande ricchezza di cui disponiamo come esseri umani e come collettività; la volontà di affrontare a tutti i livelli l’iniqua spartizione delle ricchezze e delle opportunità.

In questo contesto si inserisce anche Menu for Change, campagna sul surriscaldamento globale presentata a Bra, in occasione di Cheese.  

 

a cura di Livia Montagnoli

Millennials Festival 2017 e Dit'Unto. Un viaggio nella storia della cucina con l'aiuto dell'archeologo

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Una Siena radiosa. Fucina di nuovi progetti, come il libro dedicato alla tradizione alimentare tardo medievale, e teatro di un festival dedicato ai millenials. Una Siena che offre molto anche spostandosi un po' più in là, a Villa a Sesta. Un borgo che questo weekend sarà invaso da cuochi, musica e artisti di strada.

Un progetto che unisce ambiti diversi, frutto di un groviglio di coincidenze, incontri fortuiti, intuizioni, scommesse e studi sul campo. Tre i protagonisti: uno chef, un archeologo e un rettore. Una sola città fulcro di tutto: Siena. È il progetto di un futuro libro dedicato alle ricette medievali, in anteprima al Millennials Festival. Ma dirla così è riduttivo.

Riavvolgiamo il nastro e partiamo dal principio. Quando Angelo Riccaboni, Rettore dell’Università degli Studi di Siena e ideatore del Millennials Festival (di cui vi parleremo in seguito), ha affidato all’archeologo Marco Valenti, Professore del Dipartimento di Scienze Storiche e dei Beni Culturali dell’Università di Siena,una missione: ricostruire le attività artigianali presenti nel Buon Governo di Ambrogio Lorenzetti. Incarico volto, sì, a pubblicizzare la mostra dedicata a Lorenzetti presso Santa Maria della Scala, ma anche mirato a “dare la possibilità al pubblico presente al festival di interagire con i protagonisti del quadro vivente”, spiega Marco Valenti, che non è nuovo a esperienze del genere. Pensiamo per esempio all'Archeodromo di Poggibonsi, dove è riprodotto in scala 1:1 il villaggio di periodo franco (IX - metà X secolo), una delle più importanti scoperte sulla collina di Poggio Imperiale. Un museo open air che restituisce materialmente le strutture di periodo carolingio scavate dagli archeologi dell’Università di Siena. “La ricostruzione storica, o per dirla in inglese “reenactment e living history” è nata in ambiente anglosassone, ma si è rapidamente diffusa in quasi tutto il mondo, come modo immediato per divulgare la conoscenza della storia, rendendo estremamente fruibile al grande pubblico il risultato delle indagini condotte da professionisti della ricerca”. Si tratta infatti di un'attività basata su ricerche storiche, archeologiche e iconografiche, in cui i reenactors(gli archeologi tuttofare) arrivano a riprodurre attrezzature, ambienti o abiti, cucendoli a mano, colorandone e rifinendo i tessuti come si faceva un tempo, ovvero con i cardi secchi (da qui: “tessuto cardato”).

Il Millennials Festival 2017

Parte di queste ricostruzioni, nello specifico quelle basate sull'affresco di Lorenzetti, animeranno il Cortile del Rettoratodurante il Millennials Festival. Una due giorni (5 e 6 ottobre) dedicata alla “generazione Y”, che con il suo stile di vita sta ridefinendo nuovi bisogni nutrizionali, sociali e produttivi. La carne al fuoco è molta: da una parte c'è l'esigenza di parlare di sostenibilità (dato che il festival è un evento collaterale ufficiale del G7 Science & Technology),dall'altra si vuole coinvolgere i millennials in maniera interattiva con un calendario di eventi, promosso dal Santa Chiara Lab, animato da dibattiti, cooking show e archeologia sperimentale, “dove saranno gli stessi archeologi a calarsi nei panni dei protagonisti del Buon Governo”. Racconta Valenti. “Ci saranno alcune delle figure che compaiono nell'affresco, da colui che cambia le monete, al sarto, passando per il calzolaio o il pizzicagnolo”. Immancabile il tema del cibo e dell'alimentazione: “Per lavoro, quando scavo, ho costantemente a che fare con oggetti attraverso i quali cerco di ricostruire gli usi e i costumi della società di una determinata epoca. Ne fanno parte avanzi di pasto e scarti di macellazione - ossi soprattutto - scorte alimentari e vere e proprie batterie da cucina, come i resti del pentolame impiegato nelle abitazioni”. Resti materiali che se analizzati e contestualizzati, costituiscono alcuni importanti marker sociali da utilizzare nella costruzione di modelli interpretativi. “Tutto ciò mi permette di conoscere e di riflettere sull’alimentazione a tutto tondo, che passa necessariamente per la simbologia del cibo”. Simbologia che nella diacronia ha subito molte inversioni di significato: oggi per esempio la tendenza è il ritorno a prodotti del territorio e tradizionalmente poveri, pensiamo per esempio all'utilizzo del quinto quarto, mentre un tempo si cercava di riunire sulla propria tavola (quella delle élite) tutti i territori possibili in una sorta di grande banchetto universale, superando dunque la dimensione del locale. Nello specifico, nel tardo Medioevo prevale il desiderio di novità e di diversità, come si legge in “Storia dell'alimentazione”di Jean-Louis Flandrin e Massimo Montanari“In quel periodo si vive un'esplicita volontà di estraniarsi dal mondo delle campagne, di scegliere altre cose, altri modelli di consumo”. Via libera dunque a spezie, tartufo, miele, addirittura caviale, con l'obiettivo di raccogliere insieme culture diverse, confonderle, mescolarle.

Matteo Lorenzini. Ph Lido VannucchiMatteo Lorenzini. Ph Lido Vannucchi

L'archeologia del cibo. La cucina toscana all'origine del ricettario europeo

E qui entra in gioco il terzo attore: Matteo Lorenzini, chef di Se.sto On Arno del The Westin Excelsior Hotel. Al quale Marco Valenti propone di replicare alcuni piatti dei ricettari del XIV secolo durante gli show cooking in programma.“Ci siamo conosciuti, e piaciuti immediatamente” sorride Lorenzini. “Così fin da subito ci siamo messi al lavoro su reperti in latino e soprattutto in volgare, manifesti di una cucina elitaria”. Con una specifica divisione dei ruoli. L'archeologo traduce le ricette e le contestualizza storicamente, mettendo in evidenza molti caratteri del cibo: valore curativo, tendenze, caratteristiche degli ingredienti, filosofia di fondo, gerarchizzazione e ruolo sociale, incontro di tradizioni. E lo chef lavora sugli alimenti e le preparazioni, mettendo in pratica le ricette. “Quando ho letto il Ricettario di Anonimo Toscano (fine XIV – inizio XV secolo) e il Libro de arte coquinaria di Mastro Martino de' Rossi (1464/65), non ci potevo credere: moltissime ricette che io reputavo di tradizione francese, sono in realtà toscane! Penso per esempio a un piatto che ho assaggiato durante il colloquio fatto anni fa al Louis XV di Alain Ducasse (sì, durante il colloquio offrono il pranzo). Era un piatto di verdure liguri condite con aceto balsamico e olio taggiasco, con tartufo nero. Quando me lo presentarono, ci rimasi quasi male - per una volta che pranzo qui, mi propongo un piatto di verdure?! - eppure è il piatto più buono che io ricordi. Le verdure italiane erano cucinate, risottate con un brodo di pollo. Una tecnica che ho ritrovato nei ricettari toscani medievali”. Dove al posto del brodo di pollo, c'era quello di faraona.

Miglio cotto nel brodo in terracotta, verdure "de la composta " e salsa all'agresto. Ph Lido VannucchiMiglio cotto nel brodo in terracotta, verdure "de la composta " e salsa all'agresto. Ph Lido Vannucchi

I cooking show con ricette medievali

Una scoperta, che al di là di ogni tipo di campanilismo, getta le basi per un progetto ben più ampio.“Magari un libro dedicato alla tradizione alimentare tardo medievale, con il coinvolgimento di altre persone, tra cui il fotografo Lido Vannucchi, che ci ha appoggiato in questa impresa folle fin dal principio”.

Gli ingredienti per "Empire": pollo di Bresse, funghi alla brace, castagne e salsa verde. Ph Lido Vannucchi

Per ora le ricette ricreate sono 4: Capesante alla brace, lattuga, gelatina di pesci "senz'oglio" e caviale; Miglio cotto nel brodo in terracotta, verdure "de la composta " e salsa all'agresto; "Empire": pollo di Bresse, funghi alla brace, castagne e salsa verde; Falso porcino di seppia, gel di nero di seppia, erbe amare. Auspicando la pubblicazione del libro (di cui vi parleremo in futuro), il pubblico del Millennials Festival potrà assaggiare altre tre ricette, sempre di impronta medievale, di sei grandi chef: Gaetano Trovato (Arnolfo) e Filippo Saporito (La Leggenda dei Frati) si misurano sulla crostata di piccione, Simone Cipriani (Essenziale) e Senio Venturi (Ristorante L’Asinello) riprendono la ricetta con cavolo, zafferano e brodo di faraona. E Matteo Lorenzini e Fulvietto Pierangelini (Il Bucaniere) porteranno la loro versione di nero di seppia, seppie e funghi. Pochi i piatti disponibili, circa una quindicina per chef, distribuiti ai fortunati che pescheranno, da un sacco pieno di monete, quelle con il conio di Carlo Magno. “Chi pesca quelle, magna!”. A completare l'offerta gastronomica, i testaroli dell'Osteria del Buon Governo di Siena. Poi, per il weekend, trasferimento in massa a Villa a Sesta, un intero borgo invaso da cuochi, musica e artisti di strada in occasione di Dit'unto, il festival del mangiare con le mani che celebra il cibo genuino e le preparazioni semplici della campagna toscana.

 

Millennials Festival 2017 | Siena | Cortile Del Podestà, Il Campo - Cortile e Palazzo del Rettorato, Banchi di Sotto, 55 | 5 e 6 ottobre | www.siylab.eu

Dit'Unto | Villa a Sesta, Castelnuovo Berardenga (SI) | domenica 8 ottobre, dalle 11 alle 20 | www.ditunto.it

 

a cura di Annalisa Zordan

foto di Lido Vannucchi

La saga della famiglia Poli, dalla pizzeria per il dopo balera all'Inkiostro di Parma con Terry Giacomello

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Da un locale pizzeria per il “dopo-balera” a Castelnovo Sotto, in provincia di Reggio Emilia, a un ristorante blasonato nel cuore di Parma che ha scelto una cucina d’innovazione e ricerca. È il percorso della famiglia Poli, imprenditori del cibo che nel 2018 festeggeranno 50 anni di storia e un unico file rouge che li attraversa: la ricerca e l’esaltazione della materia prima.

Gli esordi del ristorante Poli

Il ristorante Poli, gestito oggi dai fratelli Giuliano e Marco, nacque nel 1969 da un’idea dei loro genitori Umberto e Adelina. Furono loro ad acquistare una stazione dismessa sulla linea Boretto-Reggio Emilia per eleggerla a propria dimora. Al piano interrato della casa decisero di aprire una pizzeria, un posto dove andare per il pranzo e per la cena, da mezzanotte in avanti come era d’uso negli anni ’60, per il dopo balera e il dopo cinema.

Solo pochi anni dopo - nel 1975 - provati dagli orari pesanti, i Poli decisero di puntare soltanto sul ristorante, ma con una nota che li distinguesse dagli altri competitor: proporre pesce sempre fresco cucinato alla griglia.

Una decisione abbastanza pionieristica, sia perché all’epoca non esisteva ancora alcuna rete di fornitori di pesce, sia perché il locale era situato nel profondo cuore dell’Emilia Romagna, in una città equidistante da entrambe le coste, adriatica e ligure.

Così come per la prima fase della loro storia lavorativa, ancora una volta la famiglia, ormai avviata sulla strada della ristorazione, si rivelò essere la vera risorsa della attività imprenditoriale. Racconta Giuliano Poli: “A La Spezia avevamo dei cugini, uno dei quali era cuoco, specializzato proprio nella cucina di pesce. Lavorò da noi per due anni, durante i quali ci insegnò nel dettaglio come scegliere, trattare e cucinare il pesce. Io, a mia volta, in media tre volte alla settimana, mi alzavo alle 4 di mattina per recarmi al mercato di La Spezia e comprare il pesce fresco”. Comincia così la loro storia, fatta di impegno e sacrifici “Volevo solo materia prima eccellente, di qualità, acquistata direttamente dal produttore, che potesse soddisfare pienamente chi avrebbe cucinato e chi avrebbe consumato” racconta ancora“Sempre con un obiettivo: esaltare il sapore di quel prodotto, senza mai stravolgerne l’anima”.

Famiglia poli: Rossana, Francesca, Giuseppina, Carlotta, e, sotto, Federica, Giuliano, Marco e Gianluca La famiglia Poli: Rossana Ferrarini, Francesca Poli, Giuseppina Baroncelli, Carlotta Poli; sotto, Federica, Giuliano, Marco e Gianluca Poli 

 

Il cambio di generazione

E così iniziò la vera avventura, che vedeva impegnati, oltre a Giuliano e Marco (in sala), le loro mogli, rispettivamente Rossana  e Giuseppina (addette alla griglia) e, a partire circa dal 1995, le due figlie di Giuliano e Rossana, Federica e Francesca, e i loro cugini Gianluca e Carlotta, figli di Marco e Giuseppina. Seguirono un ampliamento del locale e la realizzazione dell’omonimo hotel a fianco del ristorante.

 

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Sulla brace che domina nella sala ristorante, si può assistere alla grigliatura di crostacei, pesce spada, sgombri, sarde e altri pesci, ma anche della tagliata alla toscana, della costata e filetti di manzo, dell’entrecote alla Maitre d’Hotel e delle costolette d’agnello, tanto per citare alcuni piatti. La tradizione è pienamente rispettata nei primi fatti in casa, magari rivisitati. Anche la cantina premia l’italianità. Tra le 800 etichette, a parte qualche bottiglia di firma francese, la maggior parte sono vini provenienti da tutte le regioni della penisola.

 

 

Un nuovo albergo a Parma

La costanza e la fidelizzazione del cliente nel corso degli anni non sopirono tuttavia l’anima imprenditoriale della famiglia Poli. Giusto il tempo di formare le nuove generazioni, Federica, Francesca e Gianluca, Carlotta e la famiglia, sempre unita, sempre all’unanimità, decise alcuni anni dopo che era venuto il momento di investire su un’altra città, dove aprire un albergo. L’occasione arrivò presto, nel 2011, da Parma. Il progetto, tuttavia, includeva anche un dettaglio imprevisto: la realizzazione di un ristorante. Ancora una volta, il caso volle giocare la sua parte.

 

Nonostante non lo avessimo progettato, ci assumemmo l’onere di comprare e gestire anche il ristorante” spiega Francesca Poli, che si occupa al 20% della gestione generale e all’80% del ristorante, a fianco del cugino Gianluca “ma soltanto perché non finisse in mani sbagliate”. Come organizzarlo allora? “Avevamo alle spalle quasi 50 anni di storia e di trascorsi ben definiti e non volevamo che il nuovo ristorante, Inkiostro, diventasse un clone di Poli a Castelnovo Sotto. Accettammo il rischio e, proprio in una città molto fedele alla tradizione come Parma, proponemmo una cucina d’innovazione, ricerca e studio e nel 2013 arrivò la stella Michelin”. Ma la vera svolta in questa direzione venne due anni fa“con l’arrivo dello chef friulano Terry Giacomello, il quale, per cultura, formazione e istinto, portò la ricerca quasi all’estremo”.

 

terry_giacomello_inkiostroTerry Giacomello

Terry Giacomello

Giacomello prese servizio il 5 settembre 2015. Solo una settimana più tardi ebbe luogo il primo controllo in incognitodella Michelin, seguito da un secondo il 28 novembre, poiché il cambio dello chef richiedeva una verifica del mantenimento dei requisiti. A dicembre gli venne confermatala stella. Nella guida Ristoranti d'Italia del Gambero Rosso edizione 2016 si segnalava l'arrivo del nuovo chef, da troppo poco tempo per una valutazione, mentre l'edizione 2017 lo premiava con Due Forchette e una valutazione di 82 su 100. La cantina oggi conta un migliaio di etichette, esposte dietro a una lunga vetrata come fossero in mostra. La coppia più fortunata che prenota per tempo può anche cenarvi nel mezzo.

Inkiostro. il tavolo tra le bottigieInkiostro, il tavolo in cantina

In realtà, la partenza di Terry Giacomello all’Inkiostro non fu affatto facile. “Le prime volte”ricorda lo chef “ricevetti addirittura insulti alla mia uscita tra i tavoli. Ciononostante, da caparbi quali eravamo, proseguimmo per la nostra strada. Con la collaborazione di Davide Cassi dell’Università di Parma e del botanico Villiam Morelli, studiammo la chimica alimentare e l’utilizzo delle radici commestibili. La cultura delle erbe era già radicata in me per cultura e provenienza e venne affinata grazie anche alla mia collaborazione con i due cuochi tristellati francesi Bras e Veyrat,che ne facevano ampio utilizzo”.

Raviolo di patata fritta, peperone croccante e brodo affumicato (piatto di Inkiostro, in carta da una settimana)Raviolo di patata fritta, peperone croccante e brodo affumicato. Uno dei nuovi piatti di Inkiostro

Dietro all’Inkiostro, Giacomello dispone del suo orto, dove vengono coltivati spinaci cileni Malaber, agastache messicane (dal gusto di anice), epazote (piante di origine messicana dal gusto mentolato), kalanchoe (una pianta grassa carnosa leggermente acida utilizzata da Terry per cucinare l’anatra), germogli di cactus (per il cetriolo di mare, un pesce che Giacomello acquista di consuetudine da Barcellona). Tra le novità da poco inserite in menù, sono l’ortica di mare e l’abalone o orecchie di mare.

 

Gnocco di rapa rossa, sfilacci di seppia e brodo di cappero (piatto di Inkiostro, in carta da una settimana) (2)Gnocco di rapa rossa, sfilacci di seppia e brodo di cappero. Uno dei nuovi piatti di Inkiostro

La nuova veste della tradizione

All’Inkiostro non si trovano piatti della tradizione, a meno che non siano profondamente rivisitati. Un esempio sono le mezze maniche di brodo di prosciutto crudo con torta fritta, aceto balsamico tradizionale Dop e Parmigiano Reggiano. Ma la sua firma innovativa, Giacomello la mette ovunque. Tra le carni, troviamo agnello con foglie di senape e riduzione di crostacei, filetto di vitello con tonburi, riduzione di carrube e fiore di zenzero. Tra i pesci, ci colpisce la vongola centenaria delle isole Faroe e il trancio di astice con fondo di vinaccia affumicato. All’Inkiostro i piatti possono restare un anno e mezzo, non ci sono limiti di tempo massimo o minimo. “Dietro ogni piatto c’è tanta ricerca”sottolinea lo chef “ma non è detto che riesca alla prima battuta, per cui lo proponiamo e in corso d’opera lo aggiustiamo e lo affiniamo”.

 

 

Oggi Giacomello è uno chef soddisfatto, che all’Inkiostro ha trovato la propria dimensione e lo spazio giusto per realizzarsi appieno. “Ero appena rientrato dal Noma e sono stato chiamato da Francesca Poli. Ci siamo intesi e piaciuti già al primo incontro” spiega“la stella e gli altri riconoscimenti non li abbiamo cercati, ma sono arrivati e li consideriamo un punto di partenza. Non mi vedrete mai uscire tra i tavoli con la stellina appuntata alla divisa. I maestri che più mi hanno influenzato (Ferran Adrià, Andoni, Bras e tanti altri) avevano una grande caratteristica distintiva: l’umiltà” conclude: “Questa è l’impronta che hanno lasciato anche a me ed è strettamente legata al mio concetto di rispetto per il cliente, il quale si muove per te, viene per la tua cucina”. Una visione che non ha faticato a incontrare quella della famiglia Poli: “Terry ci ha aperto gli occhi su un mondo sconosciuto”interviene Francesca “ha 47 anni e ha investito molto sul proprio percorso. Per me e la mia famiglia rappresenta l’epilogo di una strada lunga 50 anni”racconta, e continua “Nel bagaglio formativo che mi hanno regalato i miei genitori c’era anche questo: la voglia di creare un luogo che convogliasse persone. Ultimamente si è perso di vista, purtroppo, il vero obiettivo di un ristorante, che per noi resta, oggi come negli anni ’70, quello di dar piacere alla gente, non quello di far parlare di sé”.

Conclude Francesca: “l’Inkiostro rappresenta per noi la consacrazione del fatto che in tutti questi anni la mia famiglia ha lavorato bene, con passione e all’unisono. Se oggi siamo arrivati fino a qui, lo devo a tutti loro, che per primi, senza mai tentennare, hanno creduto in questa grande, imprevedibile avventura”.

 

L'Inkiostro | Parma | via San Leonardo, 124 | tel. 0521 776047 | www.ristoranteinkiostro.it 

Ristorate Poli alla Stazione | Castelnovo di Sotto (RE) | viale della Repubblica, 10 | tel. 0522 682342 | http://www.ristorantepoli.it/

 

a cura di Alessandra Ferretti

 

Oli d'Italia 2017. Miglior fruttato medio: Tenute Librandi Pasquale di Vaccarizzo Albanese

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Un olio in grado di emozionare con la sua trama aromatica complessa ed elegante. È il fruttato medio dell'azienda calabrese Librandi, realtà olivicola d'eccezione in provincia di Cosenza. Tutta la storia.

Il fruttato

Leggero, medio, intenso. Sono queste le tre categorie in cui classificare il fruttato di un olio extravergine di oliva, ovvero l'insieme delle caratteristiche organolettiche percepibile al naso. Sentori erbacei, vegetali, balsamici, di frutta fresca e secca: le sfumature che un olio di qualità può assumere sono molteplici, e tutte determinanti per il giudizio complessivo del prodotto. Durante la campagna olearia ormai passata, 2016/2017, diverse etichette si sono distinte per le loro nuance aromatiche e la loro armonia. Fra tutte, però, una solo si è aggiudicata il titolo di miglior fruttato medio dell'anno: la nocellara del Belice di Tenute Librandi Pasquale, storica azienda olivicola di Vaccarizzo Albanese, in provincia di Cosenza, un olio elegante e complesso che difficilmente lascia indifferenti anche gli assaggiatori più esperti.

Le origini

Una famiglia arbëreshe, minoranza etno-linguistica albanese che, alla fine del Quattrocento, si stanziò nell'Italia meridionale e nelle isole. È Michele Librandi a iniziare l'attività agricola alla fine dell'Ottocento, commercializzando olio, fichi e anche carni, ma l'investimento nell'olivicoltura avviene con l'ingresso di Pasquale,che all'inizio degli anni '60 acquista nuovi uliveti. È ancora lui, negli anni '90, a decidere di modificare l'impostazione dell'azienda, inserendo cultivar nuove e ampliando l'offerta.Oggi, io e i miei fratelli ci ritroviamo con un patrimonio naturale e paesaggistico inestimabile”. A parlare è l'altro Michele Librandi, terza generazione attualmente alla guida dell'azienda insieme alle sorelle Angela, esperta assaggiatrice, capo panel e responsabile del processo di trasformazione e del controllo qualità”, Lucia e Carmela, “che gestiscono la parte amministrativa e commerciale”, e al fratello Pino, “alle prese con i macchinari e, insieme a me, con la parte agronomica”.

 

Tenute Librandi

La coltivazione

L'azienda ha delle tenute uniche che si snodano per 155 ettari e che costituiscono un panorama verde ampio ed eterogeneo, fra alberi con tronchi e chiome di dimensioni differenti, posti su vari appezzamenti ad altitudini divergenti. C'è la carolea, varietà tipica della regione, la nocellara del Belice, cultivar siciliana che la famiglia ha scelto di coltivare nei primi anni '90, il frantoio, e poi una serie di cultivar locali come la dolce di Rossano, “pianta secolare”. Per un totale di circa 15 cultivar diverse per aromi, gusto e intensità. Tutte le piante sono a coltivazione biologica, una scelta che richiede investimenti economici notevoli: “Fare agricoltura biologica significa spendere di più per il nutrimento delle piante, e per la loro protezione, per acquistare, per esempio, tutti i prodotti che sfruttano le biotecnologie per allontanare la mosca e altri parassiti”. Inoltre, diminuisce anche la resa, “senza concimi chimici è impossibile spingere la produzione”.

Le cultivar

I primi esperimenti per la nuova annata sono già cominciati, “facciamo sempre dei test preliminari per valutare il livello di maturazione”. Questo perché le piante sono dislocate su livelli diversi, “e la tipologia del terreno e soprattutto l'altitudine influiscono molto sui tempi di maturazione”. Le prove iniziali sembrano aver dato buoni risultati, “ottimi per la carolea, discreti per il leccino, non buoni per il frantoio, che ha bisogno ancora di un po' di tempo”. È proprio la carolea a maturare per prima, una cultivar vigorosa e che vegeta molto, “motivo per il quale necessita di potature annuali”. I vantaggi della varietà? “È resistente e i frutti si staccano facilmente dai rami, anche se questa è un'arma a doppio taglio, perché se da una parte facilita la raccolta, dall'altra rende più precaria la stabilità delle olive in caso di forti venti e precipitazioni”. Si tratta, poi, di una varietà “alternante, che richiede molte cure. Se non viene trattata in maniera adeguata, produrrà ad anni alterni”. Una volta trasformata in olio, la carolea dona profumi piacevoli, “mai eccessivamente intensi, che la rendono perfetta per avvicinare i consumatori meno addentro al settore all'extravergine di qualità”. Rappresenta, infatti, il loro fruttato più delicato, mentre quello medio, vincitore del premio della guida, è un monocultivar di nocellare del Belice. “Abbiamo piantato la nocellara nel '96 su diverse zone delle tenute. I risultati cambiano a seconda dell'appezzamento, e l'olio che se ne ricava differisce molto da quello siciliano. Il nostro monocultivar di nocellara, per esempio, presenta molto meno il sentore del frutto del pomodoro, e lascia invece più spazio alle note aromatiche più erbacee, come quella di foglia di pomodoro”.

 

Olive

Il frantoio

Finita la raccolta, che solitamente inizia attorno ai primi di ottobre, si passa in frantoio, un impianto Alfa Laval a tre fasi. “Abbiamo cambiato diversi macchinari nel tempo e, finalmente, una decina di anni fa abbiamo trovato quello in grado di rispondere alle nostre esigenze”. Gramole Atmosphera, “con sezione circolare che permette uno scambio termico efficiente, e chiusura ermetica, per evitare eventuali ossidazioni”, e poi un decanter a risparmio di acqua. A seguire da vicino le varie fasi di lavorazione è Angela, “molto esigente e attenta all'equilibrio di ogni prodotto”. A ogni cultivar, i suoi tempi di gramolazione, ma quali sono le varietà più difficili da lavorare? “A livello tecnologico, leccino e roggianella, che possono causare, se non controllate a dovere, dei problemi ai macchinari in fase di estrazione”. Perché? “Dipende in parte dalla tipologia di polpa, in parte dal grado di maturazione. Sono tanti i fattori da valutare quando si entra in frantoio”.

Le etichette

Un'azienda che si distingue per una cura maniacale in campo, in frantoio ma anche in fase successiva, durante l'etichettatura. Non è scontato, infatti, trovare nel settore olivicolo etichette ben fatte, dalla grafica accattivante e con un'immagine lineare e moderne. Nella loro essenzialità, le confezioni dell'olio Librandi sono uniche nel loro genere. Linee semplici, pulite, pochi colori e piccole rifiniture. Tutte ispirate alle icone delle chiese di tradizione arbëreshe, “che riprendono l'arte iconografica bizantina”, fra forme geometriche e volumi netti. A curare i disegni, Nju Comunicazione, agenzia di comunicazione specializzata nel packaging.

 

Bottiglie Librandi

Vendita e nuovi progetti

Bottiglie simili trovano, naturalmente, ampio spazio all'estero: “Il nostro mercato di riferimento è la Germania, dove vendiamo la maggior parte del nostro prodotto. Siamo presenti anche in Italia, nei negozi specializzati e nelle piccole botteghe di nicchia, ma il guadagno principale viene dall'estero”. Presenti anche in alcuni siti di e-commerce, “motivo per il quale non abbiamo una sezione di shopping online sul nostro sito: non vogliamo fare concorrenza a chi ci vende il prodotto. A ognuno il suo mestiere”.

 

Etichette Librandi

In arrivo a breve anche una nuova etichetta, “forse due, se gli esperimenti andranno a buon fine”. Ma, almeno per ora, non riveliamo altri dettagli, aspettando fiduciosi l'annata ormai prossima.

Tenute Librandi Pasquale | Vaccarizzo Albanese (CS) | via Marina, 23 | tel. 09 8384068 | www.oliolibrandi.it/

a cura di Michela Becchi

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Oli d'Italia 2017. Frantoio dell'anno: Nicolangelo Marsicani di Morigerati

Oli d'Italia 2017. Miglior monocultivar: Doria di Cassano Allo Ionio

Oli d'Italia 2017. Olivicoltore dell'anno: Frantoio Franci di Castel del Piano

Oli d'Italia 2017. Miglior Dop: Trappeto di Caprafico di Casoli

Oli d'Italia 2017. Miglior olio biologico: Marfuga di Campello sul Clitunno

Oli d'Italia 2017. Miglior monocultivar: Sebastiana Fisicaro Oleificio Galioto di Ferla

Oli d'Italia 2017. Miglior blend: Fattoria Ambrosio di Salento

Oli d'Italia 2017. Miglior performance territoriale: Accademia Olearia di Alghero

Oli d'Italia 2017. Miglior olio biologico: Viola di Foligno

Oli d'Italia 2017. Olivicoltore dell'anno: Fonte di Foiano di Castagneto Carducci

Oli d'Italia 2017. Miglior rapporto qualità/prezzo: Doganieri Miyazaki di Castiglione in Teverina

Oli d'Italia 2017. Miglior blend: Tenuta Zuppini di Torricella Sicura

Oli d'Italia 2017. Miglior olio Igp: Centonze di Castelvetrano 

Olio extravergine di oliva. Glossario essenziale per conoscere l'oro verde

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