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Taste of Roma 2017. La cucina d'autore romana si mette in gioco: i piatti degli chef

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Racconto biografico, ispirazione musicale (il tema dell'edizione 2017), voglia di presentare al meglio la propria cucina davanti a un pubblico eterogeneo, in cerca di un'esperienza gastronomica insolita. Da sei anni la giostra di Taste conquista un gran numero di romani, il format piace, gli chef si divertono a partecipare. Ma la scelta dei piatti può rivelarsi molto importante. 

Taste piace ai romani

Conto alla rovescia per l'inizio di Taste of Roma, fortunata edizione capitolina del format che si prefigge di avvicinare il grande pubblico alla cucina d'autore. Fortunata perché, dopo cinque edizioni – quella che si aprirà il 21 settembre è la sesta – la città continua a rispondere in forze, dimostrando un'affezione alla rassegna difficile da trovare altrove: “A Roma i numeri parlano chiaro, rispetto a Milano il riscontro è maggiore, e tanti sono gli abituèè che ogni anno aspettano di scoprire i menu del festival”, racconta dati alla mano Mauro Dorigo, che della kermesse gastronomica è il coordinatore per l'Italia con Brand Events Italy. Insomma, ai romani che difficilmente si avventurano fin sulla terrazza dell'Hotel Eden o che Heinz Beck l'hanno visto solo in televisione, e che di Cristina Bowerman conoscono perlopiù il lato pop (il polo Romeo e Giulietta all'Emporio, per intenderci), non sembra vero di ritrovarsi ogni anno, alla fine dell'estate, ai Giardini Pensili dell'Auditorium, menu alla mano per orientarsi tra le proposte di 15 chef, pronti anche loro ad affrontare il bagno di folla. Numeri importanti, logistica, spazi di manovra, confronto diretto con una platea eterogenea sono le variabili che mettono alla prova molti dei partecipanti, alle prese con il conteggio delle porzioni da preparare in anticipo, i ritmi serrati per smaltire velocemente le code, la gestione di cucine estemporanee da presidiare per quattro giorni, tra mille imprevisti.

Il gazpacho alle mandorle con scaglie di foie gras di Cristina Bowerman

Una vetrina per la cucina d'autore

Tanti sono veterani, Cristina Bowerman, con Apreda e Beck, non ha mai mancato un appuntamento, e ricorda, “sei anni fa, fui la prima ad accettare la sfida”. Del resto l'idea è anche quella di divertirsi uscendo arricchiti dallo scambio con un pubblico in buona parte diverso da quello che frequenta i rispettivi ristoranti. Alcuni, conquistati dal primo approccio con la cucina gourmet, cederanno al brivido di prenotare un tavolo da Glass (“Sono venuto da te la prima volta a Taste, mi dice qualcuno. È un'ottima cosa per i ristoranti e per la città” ribadisce Cristina), o sulla terrazza dall'Hassler per un'occasione speciale che merita le coccole di Francesco Apreda e del suo team. Altri accantoneranno il pregiudizio su quel mondo dell'alta ristorazione spesso considerato irraggiungibile, perché sconosciuto. E l'impegno, da parte degli chef, dev'essere quello di non abbassare la guardia, davanti a un pubblico sempre più esigente: “Da sempre ho voluto che i piatti presentati rappresentassero la mia cucina e il mio ristorante, per rispettare le aspettative di chi verrà a trovarmi”, continua Cristina. Come lei - che quest'anno presenterà oltre al Gazpacho con mandorle e scaglie di foie gras ("un piatto fresco, leggero, rapido da assemblare") anche un maritozzo artigianale con insalata di granchio, e un goloso piatto di ravioli del plin con salsa all'amatriciana e guanciale croccante, “con sorpresa” - tanti degli chef coinvolti hanno scelto di proporre piatti solitamente presenti in carta.

La vista dalla Terrazza dell'Hotel Eden

I piatti degli chef. La scelta del menu

Fabio Ciervo, chef de La Terrazza (con splendida vista sulla città) all'Hotel Eden, fresco di riapertura dopo uno scenografico restyling, per esempio ha scelto di includere nel quartetto un signature dish proposto in carta dal 2010, con grande riscontro: le capesante con mango e frutto della passione, “un piatto molto fresco, leggero, nel rispetto dei cinque principi che ispirano la mia ricerca: innovazione, gusto, benessere, ingrediente, arte”. La sperimentazione costante, la ricerca su tecniche di cottura e valorizzazione delle proprietà nutritive di ogni ingrediente, gli sono valse l'appellativo di chef “tecnologo”. A Taste presenterà anche un'elegante Pasta fresca, estrazione di granchio, dal fascino esotico, e molto originale per il formato di pasta, piccoli dischi da scovare in una zuppetta di granchio, con alghe, pomodoro, erbe aromatiche a profumare. Cambio di set, per scoprire la proposta di Alessandro Narducci, giovane chef (classe 1989) di Acquolina, recentemente riallestito a pochi metri da piazza del Popolo, all'interno del The First Luxury Hotel. La caratterizzazione del quartetto di piatti concertato da Alessandro racconta bene la filosofia di una squadra giovane e molto affiatata: “Facciamo una cucina marinara fuori dagli schemi, ci sono la tecnica, la golosità e la passionalità. Stavolta ci ha ispirato anche la musica, in omaggio al tema dell'edizione 2017”.

Il polpo alla Luciana al contrario di Alessandro Narducci

L'ispirazione musicale

Quindi un Carpaccio di gambero 37.1 (come la zona Fao dello Ionio, dov'è stato pescato il gambero) con una neve di 'nduja, la Pappardella di astice in salmì - “per esaltare il suo sapore fangoso e prepotente, trattandolo come un cinghiale, secondo la marinatura della ricetta umbra” - il Polpo alla Luciana al contrario, prima cotto sottovuoto con capperi, olive, aglio e pomodoro, e poi arrostito alla fine, come fosse un pezzo di carne da arrostire. E il dessert Nel blu dipinto di blu, un gioco ardito di rimandi alla canzone di Domenico Modugno, “che rappresenta l'italianità nel mondo, all'epoca piacque per l'arrangiamento moderno, e parla di sogni, come il nostro, che ci spinge avanti”. La tecnica è al servizio del tema, per ricreare la sensazione del volo e l'idea del sogno che svanisce, “anche se pure da svegli si può continuare a sognare, come dice Modugno”. Quindi cioccolato blu a dipingere il piatto, una nuvola di cioccolato bianco e yogurt abbattuta con l'azoto, una granita di cetriolo e zenzero per rinfrescare. A Taste, per il secondo anno, torna anche Adriano Baldassarre, chef del Tordomatto. Per lui l'occasione è importante, “la manifestazione avvicina il pubblico alla cucina, a prescindere dal budget. E per noi è una bella opportunità”. Quindi il menu di Adriano segue un fil rouge biografico: il Cappuccino di baccalà con polvere di muggine, un piatto iconico ideato nel 2004, le Linguine con gamberi rossi e peperoni, la Vitella alla fornara con rape e acetosa; e poi l'omaggio alla Canzone del Sole di Lucio Battisti, Scampi, sabbia, spugne e coralli.

Il Cappuccino di Baccalà di Adriano Baldassarre

Il parterre al completo annovera le personalità più rappresentative della scena gastronomica capitolina gourmet: Alba Esteve Ruiz, Angelo Troiani, Lele Usai, Francesco Apreda, Giulio Terrinoni, Heinz Beck, Kotaro Noda, Luigi Nastri, Massimo Viglietti, Roy Caceres, Stefano Marzetti. Come funziona il gioco lo abbiamo spiegato qualche giorno fa. Appuntamento dal 21 al 24 settembre. Aspettando l'esordio del primo Taste “di montagna”, a Courmayeur, a gennaio 2018.

 

Taste of Roma | Auditorium parco della Musica, piazzale De Coubertin | dal 21 al 24 settembre | www.tasteofroma.it

 

a cura di Livia Montagnoli

In apertura Pasta fresca, estrazione di granchio di Fabio Ciervo


Libri sul cibo per l'estate. Il balsamico della tradizione secolare

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È uno dei prodotti più apprezzati e che meglio rappresentano il Made in Italy nel mondo. Ha un volume d'affari considerevole, con il 92% della produzione rivolto ai mercati esteri. In questo volume, la Consorteria dell'Aceto balsamico tradizionale di Modena ripercorre la storia di una grande specialità emiliana.

L'associazione

Nata nel '67 a Spilamberto, laConsorteria dell'Aceto balsamico tradizionaledi Modena è un'associazione che si propone di promuovere iniziative e manifestazioni dirette alla tutela e alla valorizzazione dell'aceto balsamico, nonché alla diffusione della sua conoscenza nel rispetto assoluto della tradizione, mediante eventi, corsi di formazione e degustazioni. E anche attraverso un libro dedicato alla sua storia,Il Balsamico della tradizione secolare, un volume pubblicato nel '99 - proprio alle soglie del terzo millennio - con lo scopo di recuperare il mito dell'aceto balsamico di Modena. Un testo che oggi, a distanza di 18 anni, ritorna più attuale che mai dopo le recenti notizie circa l'acquisizione della storica azienda Acetum, controllata del gruppo Clessidra, da parte di Associated British Food, colosso multimiliardario dell'industria alimentare e non solo.

Gli autori

A curare l'intero libro, Francesco Saccani, Gran Maestro della Consorteria e responsabile delle visite guidate al museo del Balsamico Tradizionale di Spalimberto, e Vincenzo Ferrari Amorotti, assessore agli assaggi. A firmare i testi che compongono il volume, però, sono diversi esperti assaggiatori e operatori del settore, professionisti che negli anni hanno lavorato a stretto contatto con il prodotto e che si sono fatti le ossa direttamente in acetaia.

Il libro

Edito dalla Consorteria stessa, il volume inizia a raccontare il prodotto partendo dai cenni storici, da quelle prime testimonianze risalenti al 1556, passando per gli originari interventi dell'uomo “per modificarne le caratteristiche e renderlo maggiormente appetibile negli usi domestici”. A corredare la narrazione, immagini di bottiglie antiche, botti, cucchiai per l'assaggio, foto delle varie fasi di preparazione dell'aceto con didascalie esplicative. Così, pagina dopo pagina, il libro esplora l'intricato universo dell'aceto balsamico di Modena, dalle tecniche alle materie prime, dagli aspetti chimici alle proprietà nutraceutiche fino ad arrivare alle note di assaggio e al suo impiego in cucina. Venti capitoli dedicati al gusto dell'aceto balsamico, più un glossario conclusivo in cui gli autori radunano tutti i termini più rilevanti del settore, spiegandoli con un linguaggio semplice e fruibile da tutti, ma dettagliato.

Vivere con il “balsamico”

Vivere con il 'balsamico' non è un semplice e curioso modo di dire. Operare in acetaia con amore e passione, seguire passo dopo passo tutti i processi di maturazione del mosto cotto, constatare di prima persona i progressi, lenti ma continui, del proprio lavoro: sono particolari attimi di vita che soltanto chi conosce a fondo l'aceto balsamico tradizionale e la sua 'vita', può comprendere per intero”. Sono queste le prime righe del libro, le parole iniziali da cui traspare fin da subito il trasporto degli autori per questo prodotto, e soprattutto una conoscenza profonda della materia, acquisita attraverso anni di esperienza e contatto continuo con l'aceto. Pur contenendo informazioni precise e dettagli tenici, il libro non ha “l'arroganza di chi vuole imporre un metodo, ma la delicatezza di chi osa invece proporre uno stile di vita, una passione, un sogno”. Un modus vivendi che contempla il fascino dell'analisi sensoriale, dei piaceri della degustazione e del gusto di un prodotto antico che ha fatto il giro del mondo: “Vivere con il 'balsamico', oggi, significa assaporare odori che il mondo ci invidia. In America impazza il Balsamic Viengar, da circa un decennio i maggiori ristoranti d'Italia ne hanno fatto oggetto di culto; non vi è angolo d'Europa in cui un ristoratore non lo rispetti e non l'ammiri”.

L'aceto a Spalimberto

Questo successo a livello internazionale deriva non solo dalla qualità di questo prodotto, ma anche dalla sua storia centenaria, e dalla sua connessione autentica e duratura con il territorio di Modena, un “sentimento che legava e lega, dalle generazioni passate ai nostri giorni, i protagonisti della nostra terra di Spalimberto, quelle donne, quegli uomini che hanno saputo, da regole tramandate rigidamente di generazione in generazione, rendere inimitabile questo straordinario profumo, questo ineguagliabile sapore”. Patria della pasta all'uovo, di piatti unici che hanno determinato la fama della cucina italiana nel mondo, di salumi d'eccezione, e custode di tradizioni di origini remote, l'Emilia è da sempre sinonimo di cibo di qualità nel nostro Paese e all'estero, e l'aceto balsamico di Modena è uno dei prodotti che più hanno contribuito all'affermazione della tavola tricolore nelle cucine internazionali. “L'Aceto balsamico tradizionale è un vanto per le nostre terre: per Spilamberto, sede della Consorteria, lo è ancora di più”.

Il Balsamico della tradizione secolare | ed. Consorteria dell'Aceto balsamico tradizionale di Modena | euro 27,55

a cura di Michela Becchi

Libri sul cibo per l'estate. Bee Happy. Storie di alveari, mieli e apiculture

Libri sul cibo per l'estate. Lima, Cucina dal Perù

Libri sul cibo per l'estate. Mozzarella in carrozza. Ricette d'artista

Libri sul cibo per l'estate. Omicidi all'acqua pazza

Libri sul cibo per l'estate. Cibi di Strada – Il Sud

Social media week. Gli incontri dedicati a chef e cantine

Giovani, appassionati, di belle speranze. Il nuovo spot di Mulino Bianco a confronto con Buondì Motta

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Grottesca e dissacrante la campagna affidata a Saatchi&Saatchi, con l’asteroide Buondì che spazza via decenni di stereotipi sulla famiglia felice; rinnovata nel cast e idealista ai limiti della retorica la nuova pubblicità di Mulino Bianco, che chiama alla regia la firma di Emanuele Crialese. Un confronto. 

Provocazione vs idealismo

La natura, la genuinità e il saper fare dal campo alla tavola, da un lato. Le pretese di una petulante ragazzina che scandiscono i tempi della pubblicità di merendine più discussa di sempre, dall’altro. La summa dei valori messi “in campo” dall’ultimo spot di Mulino Bianco, in tv e sul web a partire dal 17 settembre ma già nelle sale cinematografiche da un paio di giorni, marca la differenza tra due stili di comunicazione diametralmente opposti. E così, mentre il Buondì Motta veleggia verso picchi di popolarità inaspettati grazie all’idea controversa di Saatchi&Saatchi, la nuova campagna pubblicitaria di Mulino Bianco interpreta il tentativo di stare al passo con i tempi a modo suo. E, accantonato il bel Antonio (Banderas) che per anni ha imperversato al mulino insieme alla fidata gallina Rosita ammiccando al popolo delle casalinghe italiane, prova a svecchiare la sua immagine con una coppia di protagonisti nuova di zecca. Ma sempre nel perimetro della sua comfort zone: facce pulite e sani principi, vita all’aria aperta, tenacia e attitudine alla fatica, senso della famiglia e belle speranze. Sullo sfondo c’è sempre il Mulino, luogo metafisico di una vita che scorre ovattata e bellissima, persino nei momenti di difficoltà: gli sguardi complici, le risate tra amici, una teglia di biscotti appena sfornata, il grano che si accende sotto i raggi del sole. Fa tutto parte di quella poetica rassicurante che ha segnato la storia pubblicitaria del Mulino Bianco, dai primi spot girati nella casa sul fiume fino all’ultima lunga parentesi con la star di Hollywood, nel solco di una tendenza sempre più diffusa tra i grandi marchi dell’alimentare, e non solo.

Addio agli stereotipi. Spazzati da un asteroide

Un approccio opposto, insomma, alla provocazione inscenata da Motta, che coraggiosamente ha deciso di scardinarla quella poetica della famiglia perfetta così distante dalla realtà di tutti i giorni. A tanti lo sterminio causato dall’asteroide Buondì non è piaciuto: è irriverente ai limiti della decenza e del buon gusto, si è detto nelle ultime settimane. Altri invece hanno capito e apprezzato il senso dell’operazione, che davvero strizza l’occhio a un pubblico trasversale senza bisogno di ricorrere a grandi attori e sceneggiature hollywoodiane, spazzando via in un colpo solo tanti stereotipi imperanti. Strappando una risata, e regalando un piacevole senso di libertà: non c’è bisogno di simulare una vita migliore, insomma, a rischio di spezzare quel modello di comunicazione aspirazionale che ci fa correre al supermercato per riempire il carrello di merendine, in cerca della felicità della famiglia perfetta. Perché la parodia, che indigna chi manca di sarcasmo, diventa uno strumento ben più potente tra le mani di un creativo. E tutto viene messo in discussione, finanche quel mondo della pubblicità schiacciato dagli stereotipi che ha costruito nel tempo. Se il coraggio (l’incoscienza?) di Motta ha dato i suoi frutti lo diranno le vendite dei prossimi mesi.

Giovani e appassionati, la nuova generazione Mulino Bianco. Con la regia di Crialese

Che succede, invece, da domani, in casa Mulino Bianco? Per la regia di Emanuele Crialese (ancora un grande regista alle prese con la pubblicità, dopo Pupi Avati, Tornatore, Salvatores...), arrivano in campagna Giorgio Pasotti e Nicole Grimaudo – Giovanni ed Emma – una giovane coppia carica di belle speranze da riversare sul pubblico che vorrà emozionarsi con loro, “giovani, ottimisti, appassionati, e anche un po’ idealisti”, come li descrive il plot ideato da Mulino Bianco. E si rientra nel perimetro dato, strizzando l’occhio però a un modello nuovo (?) di famiglia. “Lei, dopo aver imparato le basi dal padre, torna a casa dopo anni di esperienze in forni e pasticcerie, lui, laureato in agraria, torna dopo anni in giro passati a lavorare come consulente di aziende agricole”, recita la sceneggiatura da cui si dipana la narrazione. L’idea è quella di instillare in chi guarda un senso di fiducia in se stessi e nel mondo, nel rispetto dei ritmi della natura – il profilo di Giovanni è sin troppo didascalico, appassionato di metodi di coltivazione naturali e sostenibili, desideroso di tornare ad assecondare il ritmo delle stagioni rispolverando la sapienza contadina – e confortati dalla bontà del cibo, che nutre il corpo e l’anima. Ricapitolando: con Motta siamo di fronte al grottesco che spiazza, alla sensibilità di ognuno decidere se il limite è stato superato; Mulino Bianco, però, con la consueta messinscena patinata (per quanto d’autore e di ottima fattura) non rischia di arroccarsi, ancora una volta, nella sua torre d’avorio? Impegnarsi in prima persona per sognare un mondo migliore fa bene a tutti. La retorica, però, può non essere utile alla causa.

 

a cura di Livia Montagnoli

Tre Bicchieri 2018. Parla Diego Bosoni di Cantine Lunae Bosoni

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Vino, liquori, ospitalità. La cantina Lunae Bosoni è un organismo sempre più articolato che si basa sul rispetto del territorio, ricerca delle tipicità locali, impegno verso la qualità.

Ancora poco sconosciuta, la Liguria è una terra in cui la viticoltura ha radici antiche. Una regione da scoprire, stretta tra mare e montagna, dove la famiglia Bosoni porta avanti una viticoltura di qualità, basata sul rispetto della tradizioni, la valorizzazione di vitigni autoctoni e lo studio delle caratteristiche delle sottozone. Un lavoro certosino, portato avanti dall'intera famiglia che ormai ha consolidato, come ci ha spiegato Diego Bosoni, la presenza delle nuove generazioni, che portano energia, idee, e grandi competenze all'azienda. Consolidandone la presenza ai vertici del panorama enologico regionale e non solo.

Continua ad ampliare il raggio d'azione e gli ettari vitati con l'acquisizione, lo scorso anno, di un terreno di circa 2 ettari nella zona pedecollinare e collinare tra Castelnuovo Magra e Luni (fino al 2016 chiamato Ortonovo), in piena e vocata zona a denominazione Colli di Luni. Un unico appezzamento impiantato nel 2017 con sole uve vermentino. Ma la storia e la forza dell'azienda è anche nei conferitori e nel rapporto stretto con loro negli anni.

L'Etichetta Nera '16 riconferma l'alto valore qualitativo: il corpo intenso, fine ed elegante, è ricco di belle note di agrumi, di frutta bianca matura che evolve alla caramella. In bocca si avverte armonia e grande piacevolezza. Caratteristiche che gli sono valse i Tre Bicchieri 2018.. Di gran fattura l'Etichetta Grigia '16, con profumi di gelsomino, frutta bianca e piacevoli note agrumate.

 

Siete un'azienda familiare. Cosa è cambiato dall'ingresso della nuova generazione?

È vero, è un'azienda familiare e questa caratteristica rimane: il lavoro è condiviso e c'è la partecipazione di tutta la famiglia in tutte le fasi, dal lavoro in vigna alla commercializzazione, anche se poi ognuno ha una sua area specifica.

 

Quali sono i ruoli?

Mia sorella Debora si occupa dell'aspetto, sempre più importante, del turismo, o meglio l'enoturismo: abbiamo una struttura recettiva, organizziamo degustazioni, visite guidate e abbiamo anche un museo del vino. Io da quando sono entrato in azienda, poco più di 10 anni, mi sono occupato della parte commerciale e di comunicazione.

 

Per quanto riguarda la produzione, invece?

Quella è sempre diretta e coordinata da mio padre anche se, come dicevo, c'è una condivisione di idee e principi. Ormai i nostri pensieri si sono fusi alle esperienze maturate negli anni da mio padre, e negli ultimi anni c'è un nostro contributo e una piccola evoluzione.

 

Quale?

C'è stata sempre la volontà di elevare il profilo qualitativo dei nostri vini, di studiare le peculiarità del nostro territorio che vanta una tradizione vitivinicola che risale all'antichità. La ricerca, per noi, è sempre stata un obiettivo, anche perché la nostra è una Doc giovane, nata nel 1989, e ha ancora un potenziale tutto da esplorare.

 

In quale direzione vi state muovendo?

Una parte importantissima è lo studio delle zone e delle sottozone, delle caratteristiche delle varie aree. E ovviamente la ricerca dei vitigni autoctoni. Solo conoscendo tutte queste cose possiamo raccontare al meglio, attraverso i vini, le caratteristiche della nostra terra. E tirare fuori il meglio da essa.

 

Come viene recepita all'estero la Liguria?

Negli ultimi anni c'è una maggiore attenzione verso la nostra regione, siamo contenti. Ma è un territorio che deve essere raccontato. Sono molti che non conoscono questo angolo d'Italia, che ha delle caratteristiche e una storia che meritano di essere illustrate con cura.

 

Quali sono i vostri mercati di riferimento?

Il principale, per il 70%, è l'Italia. Ma ci sono interessanti evoluzioni e si aprono delle prospettive anche all'estero, nelle zone in cui i mercati sono più maturi, Stati Uniti, Europa, Giappone. Posti dove c'è più sensibilità e curiosità nei confronti del vino anche di regioni vitivinicole meno note.

 

Ci racconti Essentiae Lunae, la liquoreria

Alla fine degli anni '90 c'è stato l'incontro con Fiorella Stoppa, la proprietaria di una liquoreria di grandissima qualità a La Spezia. Quando abbiamo saputo che non era sicura di riuscire a portare avanti la produzione, abbiamo rilevato e trasferito l'attività a Ca' Lunae. Continuandola come la faceva lei. O meglio, insieme a lei, perché Fiorella è venuta ad abitare con noi. L'anima artigianale dei prodotti è rimasta la stessa, così come le ricette antiche, quasi tutte tradizionali della zona, con liquori come il Persichetto, tipico delle Cinque Terre, il liquore di erba cetrina, o il rosolio.

 

La vostra è un'azienda in continuo fermento: quali sono i prossimi obiettivi?

Oltre a Ca' Lunae, il casale destinato all'attività recettiva, dove è possibile anche pernottare e dove c'è il museo del vino, stiamo realizzando un'altra struttura, una nuova cantina per la vinificazione che dovrebbe essere pronta per la prossima vendemmia. È un progetto a cui teniamo molto, pensato con una attenzione particolare alle uve e al vino e ai processi produttivi, ma anche all'ambiente e alle persone che lo vivranno.

 

Come è la vendemmia 2017?

Per noi non è stata un'annata calda, ma non caldissima come da altre parti d'Italia, il clima della nostra zona è sempre abbastanza clemente. Abbiamo anticipato di parecchio la vendemmia, raccolto le diverse varietà al momento giusto e al giusto grado di maturazione, ma le vigne non hanno patito stress idrico e c'è stata una buona escursione termica. Non ci sono state grandinate, l'uva è integra, le rese sono state un po' inferiori, a causa del caldo e la mancanza di pioggia, ma nulla di drammatico.

 

Lunae Bosoni | Colombiera-Molicciara (SP) | Via Palvotrisia, 2 | tel. 0187 660187| http://cantinelunae.it/

 

a cura di Antonella De Santis

 

 

Ecco l'uovo vegano. Il brevetto di 4 studentesse di Udine che inventano l'uovo sodo sostenibile e salutare

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Stesso aspetto e sapore, caratteristiche organolettiche inalterate. Lo assicurano le 4 studentesse dell'ateneo di Udine che brevettano il primo uovo sodo vegano, a base di proteine dei legumi e oli naturali. Senza colesterolo, né glutine. Piacerà al mercato italiano? 

L'alternativa vegana che piace all'industria alimentare

L'idea nasce tra aule e laboratori di un'università italiana, l'ateneo di Udine. Ma è destinata a far parlare di sé, come tutte le sperimentazioni destinate a cambiare la nostra percezione del cibo, in risposta a nuove esigenze e abitudini alimentari. L'ambito di riferimento è quello dei surrogati vegani dei prodotti più comuni sulle nostre tavole. Quest'estate, l'Impossible burger dall'azienda californiana Impossible Food ha destato scalpore: l'idea alla base dell'hamburger 100% vegetale prodotto in laboratorio è quella di contenere inquinamento e spreco di risorse tagliando fuori dalla catena produttiva il passaggio dell'allevamento animale. Offrendo un'alternativa sostenibile agli amanti del panino da fast food. Le prime prove d'assaggio, però, hanno destato più di qualche perplessità. Eppure, il mercato dei prodotti vegan friendly negli Stati Uniti è molto fiorente: tante sono le realtà della piccola e media industria americana specializzate in alimenti a basso impatto ambientale, come del resto le “invenzioni” che fanno discutere. Hampton Creek, food startup che a 5 anni dal lancio dei primi prodotti annovera un centinaio di referenze vegane in catalogo, per esempio, è celebre per il brevetto della Just Mayo, maionese che alle uova sostituisce un preparato a base di piselli gialli canadesi, che garantiscono l'apporto proteico senza ricorrere a prodotti di origine animale.

 

L'uovo sodo. Vegano

Proprio l'uovo, o meglio il suo surrogato, nell'ultimo anno e mezzo di ricerche presso i laboratori del dipartimento di Scienze agroalimentari, ambientali e animali dell’Università di Udine, è diventato oggetto del brevetto numero 100 registrato presso l'ateneo friulano. L'uovo vegano, com'è stato ribattezzato, è figlio delle ricerche di 4 studentesse del corso di laurea in Scienze e Tecnologie Alimentari – Francesca Zuccolo, Greta Titton, Arianna Roi, Aurora Gobessi – e a prima vista inganna l'occhio più attento, pensato per somigliare in tutto e per tutto al classico uovo sodo. Anche le caratteristiche organolettiche, specificano le ricercatrici, restano inalterate, come il sapore dell'uovo di gallina, che il suo alter ego vegetale vuole riprodurre, e la consistenza tipica del prodotto tradizionale. L'uovo vegano, però, è frutto di un mix di ingredienti di origine vegetale e naturale, prevalentemente farine proteiche a base di legumi, oli vegetali, un gelificante e un sale speciale. L'insieme restituisce un prodotto pronto per il consumo, da consevare in frigo e utilizzare in insalata, ideale anche per chi segue regimi alimentari controllati, non contenendo colesterolo, e per i celiaci, visto che è sprovvisto di glutine. E le potenzialità del prodotto sono talmente spendibili che presto il brevetto comincerà l'iter per la commercializzazione, e le aziende interessate potranno presentare domanda per avviare la produzione. Ricordiamo, prendendo in prestito i dati dell'Osservatorio Vegan Ok, che all'inizio del 2017 gli italiani che si dichiaravano vegani raggiungevano una percentuale del 2,6%, in netto incremento rispetto al 2016. Tanto che, per la prima volta quest'anno, nel calcolare i tassi di inflazione, l'Istat ha inserito anche i prodotti vegani nel paniere di spesa degli italiani. Che accoglienza riceverà l'uovo vegano? 

 

a cura di Livia Montagnoli

La focaccia e i suoi derivati. 8 specialità del Lazio e la ricetta della pizza a taglio alla romana

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La pizza a taglio è uno dei grandi classici dell'arte bianca capitolina. Non il solo: nel Lazio sono diverse le focacce e i pani tipici della tradizione contadina più antica, nati soprattutto nei borghi di campagna. Storia e ricette delle pizze laziali.

Ciriole, rosette, pizza bianca croccante, meglio ancora se farcita con una mortadella di buona qualità, e l'immancabile pane di Lariano: sono questi i prodotti da forno laziali più noti nell'immaginario collettivo. Prodotti di umili origini, a base di ingredienti “poveri” e da sempre parte integrante della tradizione regionale dove la parte del leone la fa la pizza. Il Lazio vanta anche una serie di focacce, pizze rustiche e schiacciate tipiche delle varie zone, soprattutto dell'entroterra. Una tradizione di lunga data, certificata dalla sopravvivenza di un'antenata della pizza che risale all'Antica Roma, la cosiddetta pinsa, che qualche anno fa è stata recuperata e reimmessa sul mercato. Oggi i fornai più specializzati sperimentano con lievitazioni, impasti e nuove forme, tenendo sempre un occhio di riguardo alla tradizione del passato. Qui, abbiamo voluto radunare 8 prodotti d'eccezione del Lazio, più una ricetta fornita dal mastro pizzaiolo romano Gabriele Bonci, che per l'occasione ha scelto di condividere con noi ingredienti e dosi per la classica pizza in teglia alla romana, ma farcita con gli ingredienti più succulenti della stagione.

Ciambella Sorana

Si chiama ciambella sorana ma a Sora, nella provincia di Frosinone, proprio nel cuore della Ciociaria, è conosciuta come ciammèlla, una ricetta che porta con sé tutto il gusto della campagna laziale. Alla base di questa specialità, infatti, c'è il grano tenero tipico della zona, unito a lievito, sale, acqua e uova. A insaporire la ciambella dal gusto neutro, i semi di anice, che donano aromaticità e profumi al prodotto, solitamente accompagnato da salumi e formaggi del territorio, ma anche acciughe sotto sale o verdure. La pasta viene dapprima bollita in acqua e poi passata in forno fino a che non diventa croccante e dorata. La ricetta, come nelle migliori tradizioni contadine, è semplice e genuina, e soprattutto economica, adatta a tutti, e contempla pochi ingredienti.

Falia

Nella zona delle Colline Pontine, in provincia di Latina, oltre alla celebre tiella di Gaeta è d'obbligo un assaggio della falia di Priverno. Una ricetta tramandata nei secoli dai fornai del luogo, a base di farina, acqua, lievito e olio extravergine di oliva, mix di ingredienti che dà vita a una focaccia dalla forma allungata che solitamente presenta delle piccole incisioni in superficie. Inserita nell'elenco ufficiale dei prodotti tipici del Lazio Dop e Igp, viene comunemente accompagnata da mortadella e mozzarella di bufala di Pontinia, o ancora con verdure locali, in particolare con i broccoletti della valle di Amaseno. A questo goloso abbinamento viene, inoltre, dedicata una sagra di paese ogni inverno, in genere a febbraio, nel pieno della stagione dei broccoletti.

Pangiallo

Il dolce natalizio viterbese per antonomasia: il pangiallo non può mancare sulle tavole della Tuscia in tempo di festa. Si tratta di un pane dolce lievitato a forma di cupola realizzato con la frutta secca, dalle nocciole alle mandorle, dai fichi secchi alle noci, senza dimenticare i pinoli. A conferire i profumi più dolci, scorze di agrumi candite, cacao, cioccolato e miele; il risultato, come si intuisce dalla lista degli ingredienti, è un pane soffice dal gusto suadente e pieno, dalla ricca aromaticità.

Pinsa romana

L'antenata dell'attuale pizza è una versione primordiale di uno dei prodotti più amati e consumati in Italia recentemente recuperata e introdotta di nuovo sul mercato. Il suo nome deriva dal verbo latino pinsere, ovvero stendere, allungare, che richiama l'azione che ancora oggi ogni artigiano compie per stendere l'impasto nella teglia. Dalla forma allungata e ovale, la pinsa oggi viene realizzata con farina di frumento, soia e riso, in grado di restituire una pasta leggera e facilmente digeribile. Fondamentale nell'antica ricetta romana è il grado di idratazione (molto alto) che consente all'impasto di ottenere un buona alveolatura e maggiore ariosità.

Pizza di Pasqua

A Roma e dintorni una delle tradizioni pasquali più diffuse è quella della colazione di Pasqua, un pasto ricco che comincia la mattina e si prolunga, talvolta inglobando il pranzo, fino al primo pomeriggio, con ricette dolci e salate, torte rustiche, colombe, uova di cioccolato e uova sode. Fra i dolci tipici, la pizza di Pasqua, un lievitato alto e soffice, solitamente consumato con la corallina, salame di origine umbra molto popolare nelle case laziali. Detta anche “pizza ricresciuta”, questa specialità prevede la lavorazione dell'impasto a più riprese, e l'impiego di diversi ingredienti. Farina, zucchero, uova, burro, lievito e tanti aromi, dalla cannella all'anice, dall'alchermes alla noce moscata: questi i prodotti che danno vita al dolce, che tanto dolce in effetti non è. Ogni famiglia, poi, ha la sua ricetta, che comprende quasi sempre l'utilizzo di liquori fatti in casa per aggiungere un tocco aromatico alla pasta.

Pizza a taglio

Bisogna attendere la fine degli anni '50 perché il fenomeno della pizza in teglia inizi a diffondersi nella Capitale. A iniziare, i pizzaioli più innovativi, in cerca di un guadagno maggiore e di un modo intelligente per recuperare gli impasti avanzati. Negli anni la pizza in teglia è diventata uno degli street food più comuni in città. Ma a dare una svolta autentica a questo mondo è stato, a Roma, in Italia e anche e soprattutto all'estero, Gabriele Bonci, mastro pizzaiolo d'eccezione che in 10 anni ha letteralmente rivoluzionato il modo di concepire e approcciarsi all'arte bianca. Un prodotto, dunque, di storia recente, ma che in pochi decenni è riuscito a creare un tassello fondamentale della tradizione gastronomica capitolina e – ormai possiamo dirlo – nazionale. In passato, la pizza a taglio era piuttosto croccante, sottile, ricca di condimento, ma oggi sono tante le declinazioni di questo prodotto, dai tempi di lievitazione alla tipologia di farine scelte.

Tiella di Gaeta

Non esiste gita al mare in direzione Terracina, Sperlonga, Sabaudia senza una tappa per gustare la tiella di Gaeta. Un guscio di pasta piuttosto sottile farcito in diversi modi: polpo e olive, con la scarola oppure spinaci, o ancora baccalà, alici, sarde. La tiella nasce in origine come ricetta dei contadini e dei pescatori, che durante le giornate di lavoro avevano bisogno di un pasto nutriente e sostanzioso, e soprattutto in grado di conservarsi per diversi giorni. La tiella, inoltre, consentiva di consumare il pescato del giorno e impiegare la farina, e unire insieme diversi ingredienti di terra e di mare.

Trapizzino

Stefano Callegari è un nome noto nel panorama gastronomico romano e non solo. Famoso per la sua pizza tonda, le sue capacità imprenditoriali, i suoi locali, i progetti innovativi in Italia e all'estero, ma prima ancora per una delle creazioni più golose e intelligenti degli ultimi anni. Un cibo da strada sui generis che ha raccolto fin da subito l'entusiasmo dei buongustai di tutta Italia, e che è entrato ormai di diritto a far parte della schiera di focacce, pani e prodotti da forno tipici della Città Eterna. Il trapizzino è una sacca di pizza dalla forma triangolare croccante esternamente e soffice all'interno, che presenta un'alveolatura invidiabile e un gusto unico. All'interno, i sughi della tradizione, dal pollo alla cacciatora alla trippa, dalla lingua in salsa verde alle polpette al sugo, dalla parmigiana di melanzane alla burrata con le alici, e molto altro ancora.

La ricetta: pizza con zucca, provola e pancetta di Pizzarium, Roma

Ingredienti

Per l'impasto

500 g. di farina buratto tipo 2

250 g. di farina di farro bianco

250 g. di farina di farro integrale

700 g. di acqua

40 g. di olio extravergine di oliva

20 g. di sale

4 g. di lievito di birra secco o 100 g. di lievito naturale pronto

Per il condimento

1 kg. di zucca mantovana

300 g. di provola affumicata

300 g. di pancetta affettata

Olio extravergine di oliva q. b.

Sale q. b.

Preparare l'impasto unendo gli ingredienti e lasciarlo riposare in frigorifero per 24 ore. Eliminare i semi e tagliare la zucca a fettine. Disporre su una teglia rivestita con carta da forno e cuocere in forno preriscaldato a 220°C per circa 45 minuti. Una volta che la zucca si sarà ammorbidita, estrarre la polpa e frullare insieme a un filo di olio d'oliva, un pizzico di sale e mezzo bicchiere di acqua calda. Stendere l'impasto in una teglia precedentemente unta con olio d'oliva e aggiungere la crema di zucca. Cuocere in forno a 220°C per 30 minuti. Una volta cotta, unire la provola affumicata tagliata a fette spesse circa un centimetro e completare con la pancetta cruda.

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I Vini Piceni a Roma. La grande degustazione alla Città del gusto di Roma

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Una serata in compagnia delle migliori cantine del territorio piceno, con 60 etichette in assaggio, l'abbinamento con tante specialità gastronomiche, il seminario di degustazione guidata con gli esperti del Gambero Rosso. Appuntamento il 28 settembre alla Città del gusto di Roma. Ecco come partecipare. 

I Vini Piceni a Roma

Aspettando la guida Vini d'Italia 2018 e l'appuntamento annuale con la premiazione dei Tre Bicchieri (l'attesa è quasi finita), la Città del gusto di Roma riapre le porte alle grandi degustazioni in compagnia degli esperti del Gambero Rosso. E ad aprire la stagione autunnale, in via Ottavio Gasparri, a pochi passi da Villa Pamphili, saranno i Vini Piceni, con le migliori proposte vinicole che esprimono le caratteristiche di un territorio molto vocato delle Marche. Giovedì 28 settembre, dalle 20 alle 23, 21 cantine locali presenteranno le proprie etichette ai banchi di assaggio, per un totale di circa 60 referenze che parlano molto del territorio piceno e dei suoi vitigni autoctoni, il Pecorino, la Passerina, il Montepulciano.

Il seminario guidato e il Wine Tasting con 60 etichette

Prima però, dalle 19 alle 20 (e solo su prenotazione online, nella sezione eventi del sito del Gambero Rosso), chi volesse approfondire è invitato a partecipare al seminario degustazione in compagnia di Marco Sabellico e William Pregentelli, dedicato alle diverse espressioni vinicole del territorio piceno. Poi, la serata proseguirà all'assaggio, tra le etichette in degustazione e l'abbinamento goloso con olive all'ascolana, mezze maniche cacio e pepe e pizza bianca con mortadella. Costo d'ingresso per il Wine Tasting 10 euro, e solo fino a esaurimento posti (l'acquisto offre la possibilità di partecipare al seminario guidato, ma ricordiamo, previa prenotazione, perché solo 30 persone potranno accedere). Per tutte le informazioni pratiche e l'elenco completo delle cantine partecipanti, con la lista delle etichette in degustazione, rimandiamo alla pagina dell'evento.

 

I Vini Piceni a Roma | Città del gusto Roma, via Ottavio Gasparri, 13 | il 28 settembre 2017

 


Anteprima Tre Bicchieri 2018. Puglia

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L'anticipazione dei premiati della nuova guida Vini d'Italia 2018 oggi ci porta a scoprire i migliori vini della Puglia

La Puglia conferma la tendenza di questi ultimi anni, in cui è cresciuta e ha trovato una continuità produttiva ad alto livello, difficilmente immaginabile anche solo dieci anni fa, aspetti legati soprattutto alla raggiunta consapevolezza di avere vitigni, vigneti e territori unici nel panorama vitivinicolo italiano e mondiale.

Il primitivo è ormai il vitigno più importante della regione non solo nelle zone storiche, Gioia del Colle e Manduria. Gioia del Colle sta costruendo anno dopo anno il suo successo anche grazie a un consorzio forte e compatto nel proporre un'idea di vino di qualità. Per quanto riguarda invece Manduria, bisogna constatare che alcune delle aziende più significative del territorio hanno scelto di proporre i loro vini fuori dalla denominazione, in certi casi da tempo, in altri recentemente, come reazione a un disciplinare che sembra francamente piuttosto discutibile. Se da un lato siamo felici che ormai un buon numero di cantine sia costantemente ai vertici qualitativi nazionali, dall'altro siamo un po' sorpresi dal non vedere molte novità emergenti.

I Tre Bicchieri così sono quasi tutti delle conferme, a partire dai Gioia del Colle Primitivo, come il Contrada Barbatto di Nicola Chiaromonte, il 17 Vigneto Montevella di Polvanera, la Riserva di Tre Pini, il Senatore di Coppi, cui si aggiunge il ritorno del Marpione di Viglione.

Per quanto riguarda i Salice Salentino, la cantina cooperativa Due Palme e la Leone de Castris confermano il ruolo di produttori di riferimento, con le Riserve Selvarossa e Per Lui. Stessa situazione nella denominazione Castel Del Monte, dove la Torrevento di Francesco Liantonio è ormai diventata il modello da seguire, in particolare con la sua Riserva Vigna Pedale, termine di paragone non solo per la denominazione ma anche per tutti i vini prodotti da uve nero di Troia. Per quanto riguarda il Primitivo di Manduria, troviamo affiancati la storia di questo territorio, con il Sinfarosa Zinfandel, e la passione accompagnata dalla tecnica, con il Raccontami della famiglia Vespa. Si conferma Tenuta Rubino con l'Oltremé, a tenere alta la bandiera del susumaniello - vitigno autoctono alla cui riscoperta la famiglia Rubino dedica tempo, risorse e passione - mentre Paolo Leo e Carvinea ottengono di nuovo il massimo riconoscimento con etichette mai iridate: il Negramaro per il primo, il Primitivo per il secondo.

Chiudiamo parlando ancora una volta della moda detestabile delle bottiglie ultrapesanti: ci sembra veramente inaccettabile che si decida di utilizzare bottiglie che superano abbondantemente il chilo di peso per 750 ml di vino fermo, e una grave mancanza di coerenza per le aziende che dichiarano di realizzare una produzione ecosostenibile o che portano avanti una viticoltura biologica o biodinamica.

Castel del Monte Rosso V. Pedale Ris. 2014 - Torrevento

Gioia del Colle Primitivo 17 Vign. Montevella 2014 - Polvanera

Gioia del Colle Primitivo Marpione Ris. 2013 - Tenuta Viglione

Gioia del Colle Primitivo Muro Sant'Angelo Contrada Barbatto 2014 - Tenute Chiaromonte

Gioia del Colle Primitivo Ris. 2014 - Tre Pini

Gioia del Colle Primitivo Senatore 2011 - Coppi

Oltremé 2016 - Tenute Rubino

Orfeo Negroamaro 2015 Cantine Paolo Leo

Primitivo 2015 - Carvinea

Primitivo di Manduria Raccontami2015 - Vespa - Vignaioli per Passione

Primitivo di Manduria Sinfarosa Zinfandel 2015 - Felline

Salice Salentino Rosso Per Lui Ris. 2015 - Leone de Castris

Salice Salentino Rosso Selvarossa Ris. 2014 - Cantine Due Palme

 

La pasta di grano duro conquista i millennials. E Di Martino si allea con Dolce&Gabbana

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Aumentano i consumi di pasta di grano duro e, di pari passo, cresce il numero di iniziative dedicate che si impegnano a promuovere questa specialità italiana. I dati Aidepi e il nuovo progetto di Di Martino.

We Love Pasta

3.2 milioni di tonnellate. È la quantità di pasta che l'Italia, leader mondiale del settore, riesce a produrre in un anno. Per valorizzare quel rapporto ancestrale che lega gli italiani a questo prodotto, Aidepi (Associazione delle industrie del Dolce e della Pasta Italiana) ha lanciato da 2 anni la campagna We Love Pasta, un'iniziativa di promozione e tutela di questa specialità italiana che, attraverso incontri, degustazioni, cene, visite aziendali e tour in giro per lo Stivale, si impegna a diffondere la cultura della pasta di qualità, prodotto tanto amato quanto spesso sottovalutato, perché dato per scontato. Quest'anno, in occasione dei 50 anni dalla cosiddetta “legge di purezza sulla pasta” (L. 580/67), normativa che stabilisce ferrei parametri e standard qualitativi del prodotto, Aidepi ha deciso di lanciare una campagna di comunicazione focalizzata sul ruolo del pastaio. “Alcuni vogliono far credere che per fare una pasta buona servano solo materie prime eccellenti, ma c'è molto altro”, ha spiegato Mario Piccialuti, direttore di Aidepi, che aggiunge: “È importante che gli italiani riscoprano la passione, la storia e la ricerca, i test sensoriali e il laboratorio, insomma tutto l'impegno dei produttori dietro un'ottima forchettata di pasta”.

Consumi: dati e preferenze

Ma quanta pasta mangiano gli italiani? Solo nel 2016, nel Mezzogiorno sono state vendute oltre 378mila tonnellate di pasta, il 36% del totale, il doppio rispetto al Nord Est e un terzo in più rispetto al Nord Ovest e al Centro Italia. Per un consumo pro-capite totale di circa 25-26 chilogrammi di pasta l'anno. Apprezzata in tutte le regioni, la pasta di grano duro è un'invenzione urbana e meridionale, e storicamente legata ai piatti della tradizione del Sud Italia. E per questo, ancora oggi, è il territorio che si estende da Roma in giù a consumarne maggiori quantità e con frequenze più ravvicinate. Il 48%degli abitanti del Sud Italia ha infatti scelto la pasta come alimento preferito, per ragioni di gusto e salute. In termini di vendite, si parla di 4 pacchi di pasta secca su 10 totali venduti fra Lazio e Sardegna. Cresce, poi, l'interesse per la pasta integrale: il 47% dei soggetti intervistati dichiara di acquistarla abitualmente, un numero considerevole rispetto al 14% di tre anni fa. Ma ad apprezzare la pasta sono soprattutto i millennials, le nuove generazioni che dichiarano di consumarla quotidianamente, un po' per la sua praticità e facilità di preparazione, ma soprattutto per il gusto.

A ogni formato il suo sugo

Tante le tipologie di grani, tecniche di preparazione e formati che la pasta può assumere, e ogni italiano ha i suoi preferiti. Distinzione fondamentale è quella fra pasta liscia, diffusa da Roma (esclusa) in giù, e rigata, nata proprio grazie ai buongustai della Capitale. 300 e oltre formati fra cui scegliere, ognuno in grado di accogliere condimenti diversi, da quelli più succulenti ai sughi più leggeri, e a confermarlo è il guru della pasta di grano duro, Giuseppe Di Martino, da tempo impegnato a far conoscere al pubblico la bellezza degli abbinamenti fra formato e condimento, non sempre così scontati. “Basta pensare al sugo alle vongole”, spiega il produttore, “impensabile senza uno spaghetto o una linguina. Sono formati perfetti per abbracciare il condimento e legarlo alla pasta grazie alla leggera perdita di amido dalle sue 'alette'”. Allo stesso modo, per un ragù sostanzioso, l'ideale è una pasta più corta e tenace, come gli ziti spezzati o le fettuccine, perfette per “spessore e porosità”.

Pastificio Di Martino e Dolce&Gabbana

Proprio per conquistare i millennials, Pastificio di Martino, una delle tre linee produttive di Giuseppe e punto di riferimento per la pasta di grano duro di qualità, ha scelto di allearsi con una delle case d'alta moda italiane più note a livello internazionale. Nata nel 1985, Dolce&Gabbana è un marchio simbolo dello stile italiano nel mondo, da sempre molto attento allo stile dei più giovani, con collezioni fresche, moderne e meno impegnative, che non rinunciano all'alta sartorialità. Due aziende d'eccezione che simboleggiano il senso di gusto e benessere e che, insieme, hanno deciso di creare un packaging unico per la pasta firmata Di Martino. “Il prodotto rimane lo stesso, così come il prezzo, solo in una veste nuova e più bella, disegnata da due grandi stilisti in un'edizione limitata”. Una collaborazione significativa per entrambi i settori, quello della moda che – ci auguriamo – possa avvicinarsi al mondo dell'alimentazione sempre di più, e quello della gastronomia, che continua a puntare anche sull'estetica e le confezioni dal design più accattivante. “Mi sento molto vicino a Dolce&Gabbana come filosofia e approccio al lavoro, e soprattutto voglio arrivare ai millennials, che già da tempo rappresentano uno dei target di riferimento per gli stilisti”.

a cura di Michela Becchi

In Spagna è l’autunno della cucina d’autore. Il ceviche di Acurio a Barcellona, Leon e Berasategui a Madrid

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Dopo l’estate, la stagione gastronomica di Barcellona e Madrid si apre all’insegna di nuove sfide per i big dell’alta ristorazione spagnola. Nel capoluogo catalano, Gaston Acurio ci riprova con una cevicheria d’autore, Yakumanka. Mentre a Madrid si affollano i grandi chef del Paese: Angel Leon, Ricard Camarena, Martin Berasategui. Aspettando il nuovo ristorante firmato David Muñoz. 

La cevicheria di Gaston Acurio

Di cevicherie, tiradito e pisco bar, da quando i piatti più facilmente esportabili della tradizione peruviana sono diventati tendenza, ne è pieno il mondo. Barcellona, però, da qualche giorno può vantare una cevicheria d’autore che vede mettersi alla prova il più apprezzato chef peruviano di tutti i tempi, Gaston Acurio. Si chiama Yakumanka - che il lingua quechua allude all’acqua del mare, dei fiumi, che permette la vita - ed è l’ultimo esperimento spagnolo dello chef di Lima, dopo la fine della collaborazione con il Mandarin Oriental, dove firmava la proposta sulla terrazza di Tanta (un format che ha esportato anche a Chicago). Ancora una volta, dunque, Acurio torna a investire sul capoluogo catalano, mentre a Madrid la succursale spagnola del celebre Astrid y Gaston, in attività dal 2007, è chiusa fino a data da destinarsi, “per un periodo di cambiamento necessario a garantire la stessa qualità di sempre”.

A Barcellona, invece, comincia una nuova storia, con l’obiettivo di proporre un’offerta autentica, rispettosa delle ricette tradizionali peruviane ma capace di valorizzare gli ingredienti locali, con piatti da condividere a prezzi accessibili. In cucina c’è Cesar Bellido, uno dei discepoli più vicini al maestro peruviano negli ultimi anni, e la carta proporrà principalmente variazioni sul pescato freschissimo esposto in sala, condito con leche de tigre e differenti intensità di peperoncino. Poi piatti caldi, dalla frittura al pesce grigliato, alle cotture al wok. Il concetto, nelle intenzioni di Acurio, replica l’idea del format La Mar, che a Lima serve 700 persone ogni giorno, e negli anni è stato esportato nel mondo per raccontare i sapori del Perù in chiave facilmente accessibile. Da bere cocktail, con l’immancabile pisco a farla da padrone.

 

Angel Leon a Madrid. Glass all’Hotel Urban

Ma l’autunno alle porte – in attesa della nuova edizione Michelin che tornerà a premiare la ristorazione d’autore il prossimo 22 novembre - porterà significative novità specialmente a Madrid, sempre più capace dopo anni di subalternità con Barcellona e con l’area Basca di attirare chef blasonati e format d’autore. Tra gli ultimi arrivati c’è anche il bistellato Angel Leon, chef di Aponiente, nel sud del Paese. Da settembre Leon cura la proposta di Glass all’Hotel Urban (gruppo Derby Hotel), forte di un’esperienza consolidata nella ristorazione d’hotellerie: a Barcellona, nel 2014, era arrivato a dirigere la cucina di BistrEau al Mandarin Oriental, un format giocato sul mare e le sue risorse che all’inizio di quest’estate è passato di mano a Carme Ruscalleda (già alla guida di Moments, tra le proposte di punta dell’hotel). Così Leon si concentra sul nuovo progetto a 5 stelle: all’Hotel Urban proporrà una versione ridotta dell’esperienza gastronomica di Aponiente, ereditando uno spazio già esistente, quello di Glass, per ripensarlo alla sua maniera. Alla barra di Glass lo chef presenterà quindi una variazione di bocados che hanno fatto la fortuna del suo ristorante a Cadice (al Puerto di Santa Maria).

Camarena, Berasategui… E David Munoz

Ma la capitale spagnola aspetta con trepidazione anche l’arrivo di Martin Berasategui, finora rimasto lontano dalla città nonostante la forza del suo gruppo di ristorazione. A Madrid, lo chef spagnolo più stellato di sempre, si cimenterà entro la fine dell’anno con una sfida insolita, aprendo Ball Berasategui… All’interno dello stadio Bernabeu! Poi, nel 2018, sarà la volta di una seconda insegna madrilena, all’interno dell’Hotel Velazquez (ma si parla anche della prima incursione in Portogallo, a Lisbona, già entro la fine del 2017, con il concept 50 segundos Martin Berasategui; mentre un altro alfiere della cucina basca, Eneko Atxa è pronto per Tokyo, dove entro la fine del mese porterà Eneko, format nato a Londra nel 2016 e da giugno operativo al quartier generale di Larrabetzu: 9 piatti cucinati a vista, a 55 euro). E non finisce qui. Da un paio di mesi, a Madrid, è arrivato anche Ricard Camarena, con uno dei suoi format più apprezzati, il Canalla Bistro, che lo chef valenciano propone al pubblico che ogni giorno visita numeroso Platea, il grande polo gastronomico nel barrio di Salamanca, in calle de Goya. E se la concorrenza si fa più agguerrita, David Muñoz non resta a guardare. Lo chef più controverso di Spagna, unico tristellato di Madrid, aprirà presto, entro la fine dell’anno, un nuovo ristorante per festeggiare i suoi dieci anni di attività. Il progetto è ancora avvolto nel mistero, ma una cosa è già chiara, “non sarà simile a niente di quello che avete visto finora”. E se lo dice David Muñoz…

 

Yakumanka | Barcellona | Valencia, 207 | www.yakumanka.com

Glass all’Hotel Urban | Madrid | Carrera de San Jeronimo, 34 | www.hotelurban.com

Canalla Bistro | Madrid | Platea, calle de Goya, 5-7 | http://ricardcamarena.com/restaurante/canalla-bistro-madrid/

 

 

a cura di Livia Montagnoli

La pasta di grano duro conquista i millennials

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Aumentano i consumi di pasta di grano duro e, di pari passo, cresce il numero di iniziative dedicate che si impegnano a promuovere questa specialità italiana. I dati Aidepi e il nuovo progetto di Di Martino.

We Love Pasta

3.2 milioni di tonnellate. È la quantità di pasta che l'Italia, leader mondiale del settore, riesce a produrre in un anno. Per valorizzare quel rapporto ancestrale che lega gli italiani a questo prodotto, Aidepi (Associazione delle industrie del Dolce e della Pasta Italiana) ha lanciato da 2 anni la campagna We Love Pasta, un'iniziativa di promozione e tutela di questa specialità italiana che, attraverso incontri, degustazioni, cene, visite aziendali e tour in giro per lo Stivale, si impegna a diffondere la cultura della pasta di qualità, prodotto tanto amato quanto spesso sottovalutato, perché dato per scontato. Quest'anno, in occasione dei 50 anni dalla cosiddetta “legge di purezza sulla pasta” (L. 580/67), normativa che stabilisce ferrei parametri e standard qualitativi del prodotto, Aidepi ha deciso di lanciare una campagna di comunicazione focalizzata sul ruolo del pastaio. “Alcuni vogliono far credere che per fare una pasta buona servano solo materie prime eccellenti, ma c'è molto altro”, ha spiegato Mario Piccialuti, direttore di Aidepi, che aggiunge: “È importante che gli italiani riscoprano la passione, la storia e la ricerca, i test sensoriali e il laboratorio, insomma tutto l'impegno dei produttori dietro un'ottima forchettata di pasta”.

Consumi: dati e preferenze

Ma quanta pasta mangiano gli italiani? Solo nel 2016, nel Mezzogiorno sono state vendute oltre 378mila tonnellate di pasta, il 36% del totale, il doppio rispetto al Nord Est e un terzo in più rispetto al Nord Ovest e al Centro Italia. Per un consumo pro-capite totale di circa 25-26 chilogrammi di pasta l'anno. Apprezzata in tutte le regioni, la pasta di grano duro è un'invenzione urbana e meridionale, e storicamente legata ai piatti della tradizione del Sud Italia. E per questo, ancora oggi, è il territorio che si estende da Roma in giù a consumarne maggiori quantità e con frequenze più ravvicinate. Il 48%degli abitanti del Sud Italia ha infatti scelto la pasta come alimento preferito, per ragioni di gusto e salute. In termini di vendite, si parla di 4 pacchi di pasta secca su 10 totali venduti fra Lazio e Sardegna. Cresce, poi, l'interesse per la pasta integrale: il 47% dei soggetti intervistati dichiara di acquistarla abitualmente, un numero considerevole rispetto al 14% di tre anni fa. Ma ad apprezzare la pasta sono soprattutto i millennials, le nuove generazioni che dichiarano di consumarla quotidianamente, un po' per la sua praticità e facilità di preparazione, ma soprattutto per il gusto.

A ogni formato il suo sugo

Tante le tipologie di grani, tecniche di preparazione e formati che la pasta può assumere, e ogni italiano ha i suoi preferiti. Distinzione fondamentale è quella fra pasta liscia, diffusa da Roma (esclusa) in giù, e rigata, nata proprio grazie ai buongustai della Capitale. 300 e oltre formati fra cui scegliere, ognuno in grado di accogliere condimenti diversi, da quelli più succulenti ai sughi più leggeri, e a confermarlo è il guru della pasta di grano duro, Giuseppe Di Martino, da tempo impegnato a far conoscere al pubblico la bellezza degli abbinamenti fra formato e condimento, non sempre così scontati. “Basta pensare al sugo alle vongole”, spiega il produttore, “impensabile senza uno spaghetto o una linguina. Sono formati perfetti per abbracciare il condimento e legarlo alla pasta grazie alla leggera perdita di amido dalle sue 'alette'”. Allo stesso modo, per un ragù sostanzioso, l'ideale è una pasta più corta e tenace, come gli ziti spezzati o le fettuccine, perfette per “spessore e porosità”.

a cura di Michela Becchi

Gourmet Food Festival. I tortellini di Vito

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Quello dell’impasto è un gesto antico, rassicurante, faticoso, terapeutico. Per realizzarne uno ben fatto, le regole non sono molte e non esiste scuola migliore della pratica. E di pratica ne ha fatta Stefano Bicocchi, in arte Vito, vissuto in una casa dove la cucina era il centro di tutto. A Gourmet Food Festival racconterà i segreti di famiglia, e dei classici tortellini, come solo lui sa fare. Ecco qualche anticipazione.

Acqua, farina, uova e pazienza. La pasta fresca è il prodotto casalingo per eccellenza. Impastare le tagliatelle, farcire i ravioli o tirare la sfoglia per le lasagne sono operazioni semplici ma delicate, i cui segreti vengono spesso tramandati tra le mura domestiche. Vi raccontiamo quelli della famiglia di Stefano Bicocchi, in arte Vito. Protagonista della serie Vito con i suoi su Gambero Rosso Channel (Sky canale 412), autore dell'omonimo libro che racconta tutto il buono dell'Emilia in 60 ricette, e anima-attore dell'appuntamento torinese dedicato alla pasta fresca, durante Gourmet Food Festival.

Origine dei tortellini: la leggenda

La pasta fatta in casa deve molto alla fantasia delle massaie italiane che ne hanno inventato gli impasti e modellato le forme in relazione alle esigenze della famiglia. Ecco allora i piemontesi ravioli del plin, dal pizzicotto che sigilla la pasta una volta farcita; i maccheroncini alla chitarra abruzzesi, chiamati così per via del telaio di legno utilizzato per tagliarli, composto di corde allineate come una chitarra; i maltagliati emiliani, pasta recuperata dallo scarto della lavorazione delle tagliatelle; i bigoli veneti da mangiare nei giorni di magro. O i tortellini: “C'è chi il tortellino lo prepara della grandezza di un mignolo” racconta Vito, che deve la sua passione per la cucina al padre Roberto (un cuoco in pensione) e mamma Paola (sopraffina cuciniera) “mentre quello che facciamo noi è come l'ombelico di Venere: leggenda narra che a Castelfranco Emilia un oste spiò dal buco della serratura la contessa che si lavava nella tinozza; vide il suo ombelico e andò in cucina a impastare. Così sarebbe nato il tortellino”. Tortellino, di cui esistono almeno quattro tipologie: di Bologna, di Modena, di Valeggio sul Mincio e l’autentico tortellino alla bolognese con tanto di ricetta depositata alla Camera di Commercio di Bologna dalla Dotta Confraternita del Tortellino. Ma andiamo con ordine.

La pasta fatta in casa: quale farina

La pasta fatta in casa, in generale, si ottiene dall’impasto di farina con una parte liquida che può essere data dall’acqua, dalle uova o da entrambe. Paste speciali a parte, le farine solitamente impiegate nella lavorazione della pasta fresca sono quella di grano tenero e la semola di grano duro. Quest’ultima assorbe poca umidità, una delle principali minacce per la buona riuscita di una sfoglia, e rende l’impasto più resistente. La farina di grano tenero, invece, è la più utilizzata a livello artigianale e casalingo, e conferisce alla sfoglia sapore e dente; ma è più difficile da gestire proprio perché assorbe molta umidità. Chi ha ragione e chi ha torto, chi sceglie semola o farina di grano tenero? La soluzione perfetta è quella di utilizzarle entrambe, sapendole gestire e cercando sempre di ottenere l’equilibrio desiderato. Lasciamo comunque a ognuno le proprie preferenze. “In casa nostra il maestro indiscusso della sfoglia è mio padre Roberto. E lui preferisce la farina 0”. Racconta Vito. Ok, ma in che quantità? “La dose è approssimativa perché qui da noi si specificano quante uova si vogliono utilizzare: in relazione poi alla grandezza di albumi e tuorli, all'umidità e alla temperatura dell'ambiente, toccherà aggiungere o sottrarre farina”. Se poi volete per forza un'indicazione più precisa, la dose consigliata, quella da manuale per intenderci, è di 1 uovo ogni 100 g di farina.

Le uova

Per una buona pasta, inoltre, è necessario saper scegliere le uova giuste in base a poche ma importantissime regole. La freschezza prima di tutto: è consigliabile non far trascorrere più di quattro, cinque giorni dall’acquisto delle uova. Aprendone uno è possibile verificarlo: il tuorlo deve essere gonfio e di un colore omogeneo, mentre l’albume deve risultare compatto e ben sodo intorno al tuorlo. Un uovo fresco assorbe più farina (evitando l'eccessiva umidità) e mantiene intatte tutte le proprietà organolettiche, in tutte le fasi, dalla lavorazione alla cottura. È preferibile scegliere un prodotto biologico o quanto meno di filiera certa e corta a garanzia di un prodotto di qualità e di gran freschezza. Per sapere cosa scegliere negli scaffali del supermercato, è importante imparare a leggere il codice stampato o sulla confezione o sulle uova stesse, che ci dice tutto sulla provenienza e il tipo di allevamento a cui è stato sottoposto l’animale. Il primo numero dice come è stata allevata la gallina: lo 0 in allevamento biologico, l’1 all’aperto, il 2 a terra, 3 in gabbia (ossia in batteria, in allevamenti intensivi con spazio a pennuto più piccolo di un foglio A4). Seguono il codice dello Stato (IT per l'Italia), un numero a 3 cifre che identifica il comune dell’azienda produttrice, la sigla della provincia, infine un altro numero di 3 cifre che rimanda all'allevamento.

Stefano Bicocchi, in arte Vito, mentre cucina

Gli strumenti necessari e l'impasto

Scelti con cura gli ingredienti e stabilite le quantità ottimali si può procedere con l’impasto. Le fasi della preparazione non sono molte ma devono essere seguite con la massima cura e attenzione: versare le uova in una capiente ciotola di acciaio, unire a poco a poco la farina, mescolando lentamente ma con decisione, riversare l’impasto sul piano di lavoro, possibilmente di legno. E continuare a impastare con forza senza mai aumentare la velocità; non appena pronto lasciar riposare.

Per quel che riguarda gli strumenti, bastano un piano di legno poroso, un matterello lungo e liscio, una spatola (ma vanno bene anche un coltello o una forchetta), un setaccio, alcuni canovacci bianchi e puliti, la pellicola trasparente, fondamentale per avvolgere l’impasto nella fase di riposo prima della stesura, e, parlando di paste ripiene, la rotella taglia-pasta. Avere una macchina sfogliatrice(manuale o elettrica) per tirare la pasta risolve uno dei principali problemi moderni: la mancanza di tempo. O l'enorme quantità di pasta all'uovo, come nel caso di casa Bicocchi: “Gli ortodossi storceranno il naso: come la macchina per tirare la pasta? Certo il mattarello è il principe degli strumenti in questa questione, ma voglio vedere voi a tirare la sfoglia al mattarello tutti giorni. O, quando arriva Natale, dover produrre 40 kg di tortellini! Diciamo che noi consideriamo fondamentale la rugosità che il legno regala alla pasta all'uovo quando si tratta delle tagliatelle. Invece per preparazioni come i tortellini o le lasagne la macchina fa il suo lavoro ottimale”. Basta che la preparazione avvenga in un luogo asciutto e non troppo areato, altrimenti la pasta si seccherebbe troppo e si formerebbero le tipiche screpolature. Lo spessore della pasta, poi, dipende dal tipo di piatto che si vuole realizzare: nel caso del tortellino, quello “bicocchiano” deve essere molto sottile.

Tema completamente a parte è il ripieno, ma questo lo affronteremo durante l'appuntamento torinese. E ovviamente la presentazione del piatto a tavola. Che da Vito è “assolutamente in brodo: mio padre si infuria se gli chiedi i tortellini con altri condimenti. Pensate che per poterli mangiare con la panna, mandavo in avanscoperta i nipoti a chiederglieli. L'unica variante ammessa è lo scrigno di Venere (la ricetta la potete leggere nel suo libro, ndr)”.

Ultima domanda: come hai imparato a fare i tortellini? “È impossibile non imparare a farli se vivi in una famiglia dove tua nonna ogni lunedì prepara la sfoglia per l'intera settimana: lo impari anche se non vuoi! Poi quando arriva Natale, e la produzione si spinge fino ai 40 kg, ecco, è lì che non appena ti distrai entri di diritto nella catena di montaggio dei tortellini, tutti perfettamente allineati con le punte rivolte nella medesima direzione”. Fabbrica di tortellini a parte, non vediamo l'ora di ascoltare le peripezie di Vito e famiglia a Gourmet Food Festival.

 

Vito con i Suoi | di Stefano Bicocchi, foto di Giovanni Bortolani | Gambero Rosso, 2016 | 151 pp. | 18 euro | www.gamberorosso.it/it/store/libri-e-guide/ricette-dintorni/vitoconisuoi-detail

 

Gourmet Food Festival | Torino | Lingotto Fiere, via Nizza, 294 | dal 17 al 19 novembre 2017, venerdì dalle 17 alle 23, sabato dalle 10 alle 23, domenica dalle 10 alle 20 | www.gourmetfoodfestival.it

 

Per info sugli altri appuntamenti: www.gamberorosso.it/it/gourmet-food-festival

 

 

a cura di Annalisa Zordan

 

Bologna Design Week. Gli appuntamenti a tema gastronomico da Vs Meat alla prima Cocktail Week

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Dal 26 al 30 settembre il capoluogo emiliano è protagonista della rassegna dedicata alla creatività in tutte le sue forme. Ma la terza edizione si arricchisce di tanti appuntamenti collaterali, con l'anticipazione della Food Art Week e l'esordio della Cocktail Week, con i migliori bartender della città. Una guida agli appuntamenti da non perdere. 

Una città che cambia faccia per 5 giorni, oltre 100 eventi tra mostre, talk, collettive e convegni che coinvolgeranno palazzi storici, gallerie d'arte, ristoranti, bar, spazi pubblici e musei. Per la sua terza edizione, la Bologna Design Week si presenta più ricca di sempre, forte del sodalizio con Cersaie. L'appuntamento è dal 26 al 30 settembre nel capoluogo emiliano, con la serata di punta in programma per mercoledì 27, quando tutta la città parteciperà alla Design Night, dalle 19 alla mezzanotte, con l'obiettivo di ripensare spazi inediti all'insegna della creatività d'autore. Due sono i quartier generali della rassegna, Palazzo Isolani e l'ex Ospedale dei Bastardini, che per il secondo anno ospiterà anche il cocktail bar di riferimento della manifestazione, Good Vibes. Ma l'operazione, come di consueto negli ultimi anni, attirà un gran numero di progetti a tema gastronomico, che scommettono sulla contaminazione tra arte, cibo e design (che ispira anche il progetto 7 Tavole, in partenza oggi con i fratelli Roca allo Spazio Battirame), proponendo nuove chiavi di lettura del sistema alimentare, indagato dall'occhio critico di artisti e designer.

Food Art Week. La prima volta a Bologna

Esempio calzante è il progetto perfezionato da Tania Guedes a Berlino (dove dirige l'Entretempo Kitchen Gallery), che dalla capitale tedesca – dove raccoglie un pubblico di 10mila persone - è arrivato prima a Parigi, e ora si appresta a inaugurare la settimana del design bolognese, per la prima volta in Italia. L'idea di Food Art Week, che coinvolgerà diversi spazi della città, è quella di leggere il cibo, dalla produzione al consumo, attraverso il filtro della sostenibilità e delle problematiche ambientali, sociali, economiche che lo riguardano da vicino. Il tema parla chiara: vs Meat è il titolo della rassegna che prenderà vita dal 22 al 25 settembre in città, facendo base alle Serre dei Giardini Margherita, in collaborazione con Kilowatt. Agli artisti coinvolti il compito di sensibilizzare il pubblico sul ruolo del cibo nel cambiamento sociale, con appuntamenti diffusi che coinvolgeranno anche il Mercato Ritrovato (sabato 23, dalle 11, tra performance, laboratori per bambini e l'installazione To meat or not to meat) e diversi ristoranti e locali bolognesi. Tra gli incontri da non perdere, sabato 23 alle 16, la tavola rotonda Meat Positions alle Serre; e il 28 settembre, in piena Design Week, il convegno con i docenti dell'università di Bologna sulle sfide del futuro per la sostenibilità alimentare.

Berberè, Zoo, Emporio Armani Caffè per la Design Week

Tra le iniziative da segnalare in città, invece, giocano sul tema gastronomico gli appuntamenti allo spazio Zoo – galleria, bakery e pasticceria di Strada Maggiore – con la presentazione del ricettario di carta 3d di Watanabe Monoaware (il 27 settembre, dalle 19) e il mercato di design non convenzionale Uovo (il 30 settembre, con food corner e drink list). L'Essse Caffè, torrefazione storica di via Galliera, invece, ospiterà la presentazione delle nuova collazione di tazzine d'artista di Carlo Bonfà, per tutta la durata della manifestazione; mentre sabato 30 settembre, in diverse gallerie della città, prenderanno vita le colazioni creative di Design & Breakfast. Tra i locali direttamente coinvolti, il nuovo Emporio Armani Caffè alla Galleria Cavour dedicherà alla rassegna un cocktail limited edition, in abbinamento a una selezione di finger food per l'aperitivo. Miscelazione protagonista anche da Berberé, che proprio durante la Design Week, il 27 settembre, svelerà alla città il nuovo look dello spazio di via Petroni, a cura di Comunicattive: Sbam! Pizza e cocktail è il titolo della serata gratuita (fino a esaurimento scorte) in collaborazione con i bartender di Ruggine. E se la scena della mixology bolognese si fa sempre più competitiva nel panorama nazionale, perché non celebrarla con un appuntamento tutto dedicato agli amanti dei cocktail d'autore?

 

La prima Bologna Cocktail Week

Sfruttando il traino della settimana del design, dal 25 settembre al 1 ottobre, esordisce in città la Bologna Cocktail Week, format di successo internazionale, già sperimentato a Firenze e Roma. All'edizione emiliana ha lavorato l'Accademia del Bar, coinvolgendo 26 realtà cittadine nella creazioni di cocktail in edizione limitata, che disegneranno una mappa della miscelazione creativa da scoprire nel corso della settimana. Al termine della rassegna, proprio l'apprezzamento del pubblico determinerà la classifica dei cocktail migliori. All'appuntamento partecipano non solo i cocktail bar “puri” - da Ruggine a Dal Sarto, al Rialto – ma anche format ibridi e ristoranti con proposta di miscelazione, dal nuovissimo Vivo Taste Bar di Vincenzo Vottero al Fourghetti di Bruno Barbieri, dal Wood Gastrobar a Stix, da Gesto all'Ora d'Aria, all'Emporio Armani Caffè. In contemporanea, anche la competizione professionale per i bartender iscritti, giudicati su originalità ed esecuzione tecnica dei cocktail proposti dagli esperti dell'Accademia del Bar.

 

Food Art Week | Bologna | Serre dei Giardini Margherita | dal 22 al 25 settembre | www.foodartweek.com

Bologna Cocktail Week | Bologna | dal 25 settembre al 1 ottobre | www.bolognacocktailweek.com

Sbam! Pizza e cocktail | Bologna | Berberè, via Petroni, 9c | il 27 settembre, dalle 19 | www.berberepizza.it

Recipe e Uovo Market da Zoo | Bologna | Strada Maggiore, 50 | il 27 e 30 settembre

Emporio Armani Caffè | Bologna | Galleria Cavour, 1v | il 28 settembre, dalle 18.30

Il gioco dell'arte | Bologna | Essse Caffè, via Galliera, 18b | dal 26 al 30 settembre

Tutti gli appuntamenti della Bologna Design Week su www.bolognadesignweek.com

 

a cura di Livia Montagnoli

Cheese 2017 report. 20 anni di successi per i formaggi di qualità a Bra

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Sapori, profumi, mestieri e tradizioni. Cheese, manifestazione dedicata al latticino a Bra, in provincia di Cuneo, si è conclusa oggi raccogliendo ancora una volta l'entusiasmo del pubblico nazionale e straniero. Ecco i temi che sono stati affrontati.

20 anni di Cheese

Da 20 anni a questa parte, Bra, piccola località in aperta pianura costeggiata dalle colline che segnano l'inizio del Roero (Cuneo), si anima di casari, affinatori, selezionatori: un esercito di addetti ai lavori e appassionati che si riunisce per presentare, scoprire e assaggiare i migliori formaggi del mondo. La festa del latticino di qualità, che ogni due anni richiama l'attenzione del pubblico internazionale interessato ai prodotti di nicchia. Ma Cheese rappresenta molto di più di una semplice manifestazione gastronomica: “È la battaglia di un'umanità che crede e mette in pratica un'economia diversa, che distribuisce ricchezza ed è inclusiva”, ha spiegato il fondatore di Slow Food Carlo Petrini in occasione del ventennale dell'edizione appena conclusa. Quattro giorni di degustazioni, convegni, incontri, laboratori e soprattutto confronti: chiude i battenti oggi, 18 settembre 2017, una delle edizioni più seguite degli ultimi anni, questa volta dedicata ai formaggi naturali, ovvero quelli prodotti senza l'ausilio di fermenti industriali. Ma non solo: vietato l'ingresso ai formaggi a latte pastorizzato, via libera invece a quelli a latte crudo, dal gusto intenso e persistente. Una sfida che Slow Food, associazione ideatrice di Cheese, porta avanti da anni, insieme alla lotta per la trasparenza della filiera e la tracciabilità dei prodotti. Fil rouge dei vari forum e seminari, infatti, è stato il tema della sostenibilità e della tutela dell'ambiente, argomento centrale che è stato affrontato sotto diversi punti di vista.

Caseari resistenti

Legame con il territorio, benessere animale, rispetto per il paesaggio. Sono questi i principi cardine che guidano l'organizzazione del festival. Perché, come hanno ripetuto gli organizzatori, “questi formaggi sono caratteristici delle realtà di piccole dimensioni, dove c'è il pieno controllo sulla propria filiera, e perché dietro un prodotto ci sono le persone che lo fanno e la loro idea di sviluppo e di futuro”. Per questo, da 20 anni, a inaugurare Cheese è l'assegnazione dei premi speciali per la Resistenza Casearia. Così, la mattina di venerdì 15 settembre, hanno sfilato sul palco di Piazza Caduti per la Libertà, uno dopo l'altro, i giovani imprenditori impegnati a mantenere vivi paesaggi e tradizioni. Andy Hatch, produttore del Presidio Slow Food dei formaggi a latte crudo americani, il georgiano Kakha Abulidze, in rappresentanza dei produttori della Agricultural Cooperative Alaznistavi, custodi delle razze locali a forte rischio di estinzione, Roberto Logias del Presidio Slow Food del Fiore sardo dei pastori, Irineu Eusebioda Luz da Capo Verde, membro della Cooperativa Criadores das Montanhas che da anni raduna insieme le tre diverse popolazioni (africana, europea, portoghese) di Capo Verde all'insegna del buon gusto, Luigi De Carolis (Umbria) e Paola Capanna (Amatrice), in rappresentanza di tutti i produttori delle regioni dell’Italia centrale colpiti dal terremoto nel 2016.

Gli assaggi

Cuore pulsante dell'evento restano le degustazioni di formaggi di ogni tipo, a latte vaccino, ovino, a pasta filata o dura, freschi e stagionati. Passeggiando fra gli stand sparsi per le vie che si snodano attorno a Piazza XX settembre, ci si immerge in un'atmosfera familiare, accogliente, informale ma che non rinuncia a una buona dose di informazione tecnica sull'argomento. Produttori da tutto il mondo hanno dato ai visitatori la possibilità di assaggiare i loro formaggi, rispondendo alle domande del pubblico più curioso, spiegando tecniche di lavorazione, dettagli e caratteristiche organolettiche, aree di produzione. Ma non solo formaggio: spazio anche al miele millefiori di alta montagna e quello di Ape Nera Sicula, entrambi presìdi Slow Food, e poi conserve, confetture dolci e salate, mosto cotto e tante altre specialità italiane che solitamente accompagnano i latticini, oltre a biscotti, torte da credenza e prodotti da forno a base di burro e altri derivati del latte.

Allarme clima: gli effetti sui formaggi

Eccellenze agroalimentare dietro le quali si celano tradizioni secolari, gesti e rituali ripetuti nel tempo, ma anche territori, fauna, flora, paesaggi, venti, precipitazioni. Ed è proprio sull'ambiente che circonda le fattorie che Cheese ha voluto porre l'accento più volte durante le quattro giornate, dapprima con un focus sull'Appennino, messo a repentaglio dal terremoto e dalle forti nevicate dello scorso inverno, con un cambiamento nel cuore dell'Italia pastorale, e poi con un convegno dedicato al cambiamento climatico. Una problematica che colpisce produttori di tutte le latitudini fra catastrofi climatiche - come il recente uragano Irma in Florida - e una siccità straordinaria, specialmente in Italia e buona parte dell'Europa mediterranea, dove si è chiusa da pochi giorni “la seconda estate più calda e la quarta più secca dal 1753”, ha spiegato il climatologo LucaMercalli. Un mutamento iniziato già dal 2003, con effetti considerevoli sulla terra, gli animali e, di conseguenza, gli alimenti: “Anche in alta montagna l'aumento delle temperature sta cambiando il modo di condurre gli alpeggi e i malgari sono costretti a tornare in pianura con un mese di anticipo. Siccità e parassiti arrivano dove finora non si erano mai visti”.

I dati

Così, uno dopo l'altro, i meteorologi presenti alla manifestazione mostrano al pubblico gli inquietanti numeri dei danni ambientali a cui stiamo assistendo oggi. Il settore agricolo è attualmente tra i più impattanti in termini di gas serra, con il 21% di emissioni, secondo solo alle attività legate all’energia (37%). Ruolo fondamentale in questo caso lo ricopre la fermentazione enterica degli allevamenti industriali, che rappresenta il 70% di questo dato. “Non ci dobbiamo però concentrare solo sulla valutazione delle attività principali, ma valutare le attività di pre-produzione (mangimi e concimi) e di post-produzione (trasporto, stoccaggio, packaging)”. Senza dimenticare che le emissioni di CO2 non sono l’unico parametro da tenere in considerazione: “Vanno tenuti in conto anche il contesto geografico di produzione, la qualità dei suoli e il loro livello di tossicità e l’uso in quanto risorsa scarsa, l’utilizzo di acqua e di biosfera”.

Menu for Change

Per far fronte a questa problematica, nel cuore del festival, la scorsa domenica Slow Food ha presentato la campagna Menu for Change, progetto di raccoltafondi internazionale presentato da Petrini. “A chi si domanda perché un’associazione che si occupa di cultura alimentare dovrebbe promuovere una campagna sulle questioni del cambiamento climatico, posso rispondere questo: è incosciente chi si bea della qualità alimentare di un prodotto senza chiedersi se a monte c’è distruzione dell’ambiente e sfruttamento del lavoro”. Ogni consumatore, dunque, deve acquisire maggiore consapevolezza, autonomia, senso di responsabilità. Punti focali per i quali Slow Food si batte da anni. “Il più grande terreno da coltivare è la lotta allo spreco. Tutte le istituzioni internazionali ripetono che siccome nel 2050 saremo 9 miliardi e mezzo bisogna produrre più cibo, ma già oggi abbiamo cibo per 12 miliardi di viventi. Significa che un’ampia parte di quello che viene raccolto, trasformato e venduto finisce nella pattumiera”. Parole autentiche, cariche di gravità. Un grido d'allarme che vuole arrivare a tutti, nessuno escluso. “Siamo tutti chiamati in causa, le piccole azioni moltiplicate per milioni di persone possono cambiare il mondo”.

Le Dop. Crisi o opportunità?

Una triste verità, quella del cambiamento climatico. Una ferma convinzione, quella di doverci porre rimedio. Fra certezze e sicurezze, un interrogativo. “Il futuro delle Dop è nelle mani dei giganti?” è il titolo della conferenza dedicata alla certificazione messa in discussione a partire dal libro-inchiesta di Véronique Richez-Lerouge, giornalista e presidente dell’Association Fromages de Terroirs, che rivela che ben due terzi dei formaggi francesi protetti dalla Aop sono gestiti e controllati dalle grandi industrie. Un dettaglio che ha molto poco a che fare con il concetto di terroir e legame con la terra d'origine che la certificazione dovrebbe garantire. All'incontro di sabato 16 settembre, è stata l'autrice in persona a fare luce sull'argomento. “Prendiamo ad esempio il Camembert. Oggi il 50% della sua produzione è in mano a una sola grande azienda”. Il risultato? “I formaggi a latte crudo cadono vittime della stessa standardizzazione che vogliono evitare”.

La risposta dei produttori

A confermarlo, Joe Schneider del Presidio dello Stichelton, celebre formaggio blu inglese, nato in seguito a una disputa con il marchio di tutela europea. Nel Regno Unito, infatti, esiste una Dop per lo Stilton, storico formaggio vaccino che però non può essere prodotto con il latte crudo. “Paradossalmente, se nello Stilton ci mettiamo un ananas, per la Dop quello rimarrà sempre Stilton. Ma se usiamo latte crudo no”. Proprio per questo, i produttori più appassionati hanno avviato un progetto per riportare in auge un prodotto antico realizzato secondo tradizione, “quella vera”. Ma la Commissione Europea sembra non essere favorevole, “per questo abbiamo cambiato nome al nostro formaggio che da Stilton è diventato Stichelton”.

Le Dop in Italia

Un problema non solo estero, ma anche nazionale: “In Italia abbiamo tantissime Dop non rivendicate dai produttori”, spiega Carlo Hausmann, assessore all'Agricoltura della Regione Lazio. Il motivo? “Quelle certificazioni non riconoscono un valore aggiunto alla categoria, né ai produttori né al mercato intero”, che va invece preservato con cura, “come ci insegna l'esempio dei Presìdi Slow Food”. Perché l'Italia vanta un paradigma agricolo ampio e ricco, una biodiversità unica, e prodotti di nicchia straordinari, che non dobbiamo dimenticare. Meglio, piuttosto, sfoltire il numero di Dop, “concentrandoci su quelle che avvalorano la nostra biodiversità e che creano ricchezza”.

Cheese 2017 | Bra (CN) | dal 14 al 18 settembre 2017 | cheese.slowfood.it/

a cura di Michela Becchi


Pizzerie d'Italia 2018 on Tour. La nuova edizione della guida e una serata a Napoli all'insegna della pizza d'autore

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Enzo Coccia con Simone Padoan, Franco Pepe e Renato Bosco a Caiazzo, Gino Sorbillo e Giancarlo Casa. Duetti inediti per la serata speciale di Pizzerie d'Italia on Tour, che celebra la nuova edizione della guida Pizzerie d'Italia. Ma prima la premiazione a Palazzo Caracciolo, con la degustazione all'ora dell'aperitivo. 

Pizzerie d'Italia 2018 è alle porte. Mercoledì 20 settembre, dalle 11.30, sarà ancora una volta Palazzo Caracciolo a ospitare la presentazione della guida che il Gambero Rosso dedica alle migliori pizzerie della Penisola, ai suoi pizzaioli più meritevoli e alle diverse espressioni di un'arte sempre più variegata per esiti, scuole di pensiero, posizionamento geografico. E Napoli, che custodisce e rinnova una delle tradizioni più antiche e radicate in materia, accoglierà i maestri premiati dalla guida, prima sul palco e poi dietro ai banchi d'assaggio, per una degustazione con i protagonisti dell'edizione 2018, la quinta nella storia del Gambero Rosso, riservata agli ospiti della cerimonia. Dalle 18, però, Palazzo Caracciolo apre le porte al pubblico, invitato a partecipare alla festa dei migliori pizzaioli d'Italia: fino alle 20.30, in via Carbonara 112, andrà in scena una grande degustazione con pizze al taglio e al piatto, proposte dai premiati Tre Spicchi, Tre Rotelle e dai vincitori dei premi speciali della nuova edizione. In abbinamento una selezione di birre artigianali d'Italia. L'obiettivo è quello di raccontare, attraverso un percorso gastronomico nel presente della pizza d'autore italiana, come il comparto pizzerie stia attraversando un momento di slancio, incline alla sperimentazione e sempre più capillare sul territorio nazionale. Biglietto d'ingresso: 20 euro, solo su prenotazione.

 

La serata in pizzeria. Cene a 4 mani e duetti inediti

Ma certo Napoli resta regina del settore, e la Città del gusto Napoli ha organizzato per l'occasione una serata itinerante in collaborazione con cinque grandi insegne campane della pizza. Per Pizzerie d'Italia 2018 on Tour, le pizzerie coinvolte – per la prima volta non solo in città - ospiteranno contemporaneamente una degustazione a quattro mani, per un gemellaggio tra i protagonisti della pizza campana e illustri colleghi in arrivo da tutta Italia. Partecipano all'iniziativa 'O Sfizio d'a Notizia, con Enzo Coccia padrone di casa in duetto con Simone Padoan (I Tigli), Concettina ai Tre Santi – Ciro Oliva insieme a Gianluigi di Vincenzo della pizzeria Giangi di Arielli, Chieti – Gino Sorbillo ai Tribunali, in coppia con Giancarlo Casa, patron de La Gatta Mangiona di Roma. Fuori città, duetti d'autore a Caiazzo, con Franco Pepe che ospita Renato Bosco (Saporè), e Aversa, alla pizzeria Morsi e Rimorsi con Gianfranco Iervolino e Gennaro Battiloro della Kambusa di Massarosa (Lucca). Per info e prenotazioni è necessario rivolgersi alle pizzerie coinvolte.

 

Pizzerie d'Italia 2018 on Tour | Napoli | Palazzo Caracciolo, via Carbonara, 112 | il 20 settembre 2017, dalle 18 alle 20.30 | 20 euro | per info e prenotazioni tel. 081 3119800/ napoli@cittadelgusto.it | Acquista su store online

La pasta di grano duro conquista i millennials. E Di Martino si allea con Dolce&Gabbana

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Aumentano i consumi di pasta di grano duro e, di pari passo, cresce il numero di iniziative dedicate che si impegnano a promuovere questa specialità italiana. I dati Aidepi e il nuovo progetto di Di Martino.

We Love Pasta

3.2 milioni di tonnellate. È la quantità di pasta che l'Italia, leader mondiale del settore, riesce a produrre in un anno. Per valorizzare quel rapporto ancestrale che lega gli italiani a questo prodotto, Aidepi (Associazione delle industrie del Dolce e della Pasta Italiana) ha lanciato da 2 anni la campagna We Love Pasta, un'iniziativa di promozione e tutela di questa specialità italiana che, attraverso incontri, degustazioni, cene, visite aziendali e tour in giro per lo Stivale, si impegna a diffondere la cultura della pasta di qualità, prodotto tanto amato quanto spesso sottovalutato, perché dato per scontato. Quest'anno, in occasione dei 50 anni dalla cosiddetta “legge di purezza sulla pasta” (L. 580/67), normativa che stabilisce ferrei parametri e standard qualitativi del prodotto, Aidepi ha deciso di lanciare una campagna di comunicazione focalizzata sul ruolo del pastaio. “Alcuni vogliono far credere che per fare una pasta buona servano solo materie prime eccellenti, ma c'è molto altro”, ha spiegato Mario Piccialuti, direttore di Aidepi, che aggiunge: “È importante che gli italiani riscoprano la passione, la storia e la ricerca, i test sensoriali e il laboratorio, insomma tutto l'impegno dei produttori dietro un'ottima forchettata di pasta”.

Consumi: dati e preferenze

Ma quanta pasta mangiano gli italiani? Solo nel 2016, nel Mezzogiorno sono state vendute oltre 378mila tonnellate di pasta, il 36% del totale, il doppio rispetto al Nord Est e un terzo in più rispetto al Nord Ovest e al Centro Italia. Per un consumo pro-capite totale di circa 25-26 chilogrammi di pasta l'anno. Apprezzata in tutte le regioni, la pasta di grano duro è un'invenzione urbana e meridionale, e storicamente legata ai piatti della tradizione del Sud Italia. E per questo, ancora oggi, è il territorio che si estende da Roma in giù a consumarne maggiori quantità e con frequenze più ravvicinate. Il 48%degli abitanti del Sud Italia ha infatti scelto la pasta come alimento preferito, per ragioni di gusto e salute. In termini di vendite, si parla di 4 pacchi di pasta secca su 10 totali venduti fra Lazio e Sardegna. Cresce, poi, l'interesse per la pasta integrale: il 47% dei soggetti intervistati dichiara di acquistarla abitualmente, un numero considerevole rispetto al 14% di tre anni fa. Ma ad apprezzare la pasta sono soprattutto i millennials, le nuove generazioni che dichiarano di consumarla quotidianamente, un po' per la sua praticità e facilità di preparazione, ma soprattutto per il gusto.

A ogni formato il suo sugo

Tante le tipologie di grani, tecniche di preparazione e formati che la pasta può assumere, e ogni italiano ha i suoi preferiti. Distinzione fondamentale è quella fra pasta liscia, diffusa da Roma (esclusa) in giù, e rigata, nata proprio grazie ai buongustai della Capitale. 300 e oltre formati fra cui scegliere, ognuno in grado di accogliere condimenti diversi, da quelli più succulenti ai sughi più leggeri, e a confermarlo è il guru della pasta di grano duro, Giuseppe Di Martino, da tempo impegnato a far conoscere al pubblico la bellezza degli abbinamenti fra formato e condimento, non sempre così scontati. “Basta pensare al sugo alle vongole”, spiega il produttore, “impensabile senza uno spaghetto o una linguina. Sono formati perfetti per abbracciare il condimento e legarlo alla pasta grazie alla leggera perdita di amido dalle sue 'alette'”. Allo stesso modo, per un ragù sostanzioso, l'ideale è una pasta più corta e tenace, come gli ziti spezzati o le fettuccine, perfette per “spessore e porosità”.

Pastificio Di Martino e Dolce&Gabbana

 

Proprio per conquistare i millennials, Pastificio di Martino, una delle tre linee produttive di Giuseppe e punto di riferimento per la pasta di grano duro di qualità, ha scelto di allearsi con una delle case d'alta moda italiane più note a livello internazionale. Nata nel 1985, Dolce&Gabbanaè un marchio simbolo dello stile italiano nel mondo, da sempre molto attento allo stile dei più giovani, con collezioni fresche, moderne e meno impegnative, che non rinunciano all'alta sartorialità. Due aziende d'eccezione che simboleggiano il senso di gusto e benessere e che, insieme, hanno deciso di creare un packaging unico per la pasta firmata Di Martino. “Il prodotto rimane lo stesso, così come il prezzo, solo in una veste nuova e più bella, disegnata da due grandi stilisti in un'edizione limitata”. Una collaborazione significativa per entrambi i settori, quello della moda che – ci auguriamo – possa avvicinarsi al mondo dell'alimentazione sempre di più, e quello della gastronomia, che continua a puntare anche sull'estetica e le confezioni dal design più accattivante. “Mi sento molto vicino a Dolce&Gabbana come filosofia e approccio al lavoro, e soprattutto voglio arrivare ai millennials, che già da tempo rappresentano uno dei target di riferimento per gli stilisti”. 

 

a cura di Michela Becchi

 

Il gusto genuino della prima colazione. Menu d'autore, da Massari a Cerea per valorizzare l'East Lombardy

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L'iniziativa è frutto dell'impegno delle 4 province della Lombardia Orientale, regione europea della gastronomia 2017. Se il territorio è ricco di prodotti e ricette tradizionali, perché non valorizzarli già dalle prime ore del mattino? Ecco la colazione d'autore in 25 tappe, dall'aeroporto al “banchetto” di Enrico Cerea. 

La colazione da riscoprire

Continentale o all'italiana. Alla voce colazione, la tradizione tricolore, fondata sulle specialità dell'arte dolciaria nazionale (che si moltiplica all'infinito nelle varianti regionali) può contare su un capitolo dedicato, che l'ha resa famosa nel mondo. Penalizzata da stili di vita che cambiano per assecondare ritmi sempre più sostenuti, e troppo spesso messa in un angolo quando si tratta di valorizzare l'enogastronomia made in Italy, la prima colazione può rivelarsi un asso nella manica per la promozione turistica di un territorio. Così la pensano la 4 province riunite nel circuito East Lombardy, quella Lombardia Orientale che fino alla fine dell'anno deterrà lo scettro di regione europea della gastronomia. E per valorizzare i prodotti e le tradizioni del territorio, dopo tante iniziative che per tutto l'anno hanno acceso i riflettori sulle eccellenze locali, l'ultima trovata ripensa il ruolo della colazione, come emblema dell'ospitalità all'italiana. L'iniziativa, che coinvolge diverse realtà di ristorazione e hotellerie nelle province di Bergamo, Cremona, Mantova e Brescia, si prefigge di suggerire un circuito d'eccellenza tra colazioni d'autore, a cominciare dall'aeroporto di Bergamo, prima tappa di un soggiorno all'insegna del gusto, e approdo di oltre 11 milioni di passeggeri nel 2016 (da oltre 110 destinazioni in 36 Paesi).

 

Le colazioni d'autore di Massari e Cerea

Per farlo, il gruppo che coordina East Lombardy, ha scelto due testimonial d'eccellenza, Iginio Massari ed Enrico Cerea, entrambi impegnati a ideare un menu-colazione di territorio, nel rispetto dei valori privilegiati dall'iniziativa: freschezza, qualità delle materie prime e varietà. Al maestro della pasticceria italiana, il compito di rilanciare sulla golosità di un inizio di giornata tutto giocato sul dolce, con Bussolà, Torta Paradiso, Plum Cake all’olio extravergine di oliva Garda Dop. Mentre per gli ospiti del Relais&Chateaux Da Vittorio, Enrico Cerea mette insieme una colazione che spazia dal dolce al salato, con proposte signature come la Gioconda, dolci della tradizione locale come la sfoglia di mele della Val Brembana e la crostata morbida ai lamponi del Parco dei Colli di Bergamo, ma anche formaggi caprini bergamaschi, pan brioche, focacce ripiene e pani di vari formati preparati con olio di oliva extravergine Dop Sebino. Ma non è finita qui. In tutta la regione, hanno aderito al progetto 25 realtà, tra pasticcerie, ristoranti, bar, hotel, agriturismi e b&b, che proporranno un menu dedicato alla prima colazione col sigillo di East Lombardy.

Polenta e Osei, La Marianna

25 tappe per una colazione di territorio. Non solo dolce

A loro il compito di onorare l'importanza del primo pasto della giornata, che nelle diverse province, seppur confinanti tra loro, si traduce in una grande varietà di specialità tipiche: solo sul versante ciambelle si distinguono il Bussolano mantovano, il bresciano Bussolà e il Bussolano di Soresina nel cremonese. Tra i dolci della tradizione da scoprire tra le tappe di quest'inedito itinerario lombardo anche la torta Donizetti di Bergamo o l’Anello di Monaco e la Sbrisolona mantovani; e poi la tipica Polenta e Osei bergamasca che gioca con una ricetta della tradizione salata, i Bunbunèen e i baci di Cremona e la Spongada bresciana. A chi invece non sa proprio rinunciare alla colazione salata è dedicato un paniere di prodotti locali anch'esso molto vario, tra formaggi caprini e sardine essiccate del lago d'Iseo, da accompagnare con focacce o crostoni di polenta. La saggezza popolare parla chiaro: “Prima colazione da re, pranzo da principe e cena da povero” recita il proverbio. Un viaggio alla scoperta delle Lombardia Orientale è un ottimo modo per onorarlo.

 

CHI ADERISCE

In provincia di Bergamo:Da Vittorio, Pasticceria La Marianna, Hotel Petronilla, Agriturismo Polisena

In provincia di Brescia: Pasticceria Veneto, Profumo di Lievito, Pasticceria Di Novo

In provincia di Cremona: Al Carrobbio, Locanda Torriani, Lounge Bar Chiave di Bacco, Pasticceria Dondeo (tutte in città)

In provincia di Mantova: Pasticceria Antoniazzi Caffè Borsa(storiche insegne cittadine), Locanda Majestic 2, gli otto B&B dell’associazione Colline del Garda Ospitalità

All’interno dell’Aeroporto Milano Bergamo: Winegate11, La Marianna

 

a cura di Livia Montagnoli

Anteprima Tre Bicchieri 2018. Lombardia

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L'anticipazione dei premiati della nuova guida Vini d'Italia 2018 oggi ci porta a scoprire i migliori vini della Lombardia

La Lombardia nel vissuto comune viene percepita più come una regione industriale che agricola, e il ruolo di capitale economica del Paese che Milano rivendica non aiuta certo ad avvalorare altre visioni. Ma la Lombardia, con i suoi diversi terroir che spaziano dalla Pianura Padana alle Alpi, dal corso del Po ai grandi laghi di Garda e Iseo è anche una terra che ha una straordinaria vocazione a un'agricoltura - e soprattutto a una viticoltura - di qualità. Su questa si innesta una attitudine tipicamente lombarda a trasformare piccole attività di famiglia in fiorenti imprese economiche, che riescono a crescere negli anni, creando intorno a loro il tessuto connettivo che fa decollare il territorio. Questo accade anche nel settore del vino.

Il miglior esempio, in questo caso è, probabilmente, la Franciacorta, straordinaria terra da vino - anzi, pardon, da Franciacorta - che fino al 1961 non era presente sulle carte enologiche, mentre oggi è una denominazione di prima grandezza a livello italiano. E proprio dalla Franciacorta viene la pattuglia più rappresentativa tra i 23 vini premiati quest'anno, cifra record per il secondo anno consecutivo. Nove sono le cuvée di Franciacorta premiate, tra le quali segnaliamo un nuovo ingresso, quello della Lantieri de Paratico di Capriolo che ci ha proposto un eccellente Arcadia Brut '13, che si affianca ad aziende ormai consolidate.

Segue con otto vini premiati un altro distretto d'eccellenza, l'Oltrepò Pavese, altra grande terra di bollicine, soprattutto da pinot nero in questo caso. Due eccellenti Rosé, quelli di Monsupello e Calatroni, e altre cinque etichette dove le uve nere giocano un ruolo di protagonista, con la piacevole new entry di Bertè & Cordini, per finire con un altro debuttante, l'ottimo Pinot Nero Arfena di Andrea Picchioni.

Il terzo grande blocco dell'enologia lombarda è per importanza la Valtellina. Abbiamo assaggiato una serie di vini appassionanti e ne premiamo ben cinque. Completa l'elenco un altro classico da una denominazione di successo, il Lugana Molin '16 di Ca' Maiol, un vino di freschezza e di pulizia esemplari. Fin qui il palmarès, ma se scorrerete queste pagine troverete segnalati con i due bicchieri in rosso una serie di vini che vi sorprenderanno per intensità di profumi ed eleganza.

I vini della Lombardia premiati con Tre Bicchieri

Brut Rosé - Monsupello
Extra Brut Farfalla - Ballabio
Franciacorta  Nature '61 ’10 - Guido Berlucchi & C.
Franciacorta Brut ’12 - Lo Sparviere
Franciacorta Brut Arcadia ’13 - Lantieri de Paratico
Franciacorta Brut Museum Release ’07 - Ricci Curbastro
Franciacorta Brut Naturae ’13 - Barone Pizzini
Franciacorta Brut Satèn Soul ’11 - Contadi Castaldi
Franciacorta Dosage Zéro Vintage Collection ’12 - Ca' del Bosco
Franciacorta Pas Dosé 33 Ris. ’10 - Ferghettina
Franciacorta Pas Operé  ’10 - Bellavista
Lugana Molin’16 - Cà Maiol
OP Brut Pinot Nero 'More ’13 - Castello di Cigognola
OP Brut Top Zero - F.lli Giorgi
OP Dosage Zero Vergomberra ’12 - Bruno Verdi
OP Pinot Nero Brut M. Cl. Cuvée della Casa - Francesco Montagna - Bertè & Cordini
OP Pinot Nero Rosé M. Cl. NorEma ’13 - Calatroni
Pinot Nero Arfena’15 - Andrea Picchioni
Valtellina Sforzato Albareda’15 - Mamete Prevostini
Valtellina Sfursat Carlo Negri’15 - Nino Negri
Valtellina Sup. Dirupi Ris.’14 - Dirupi
Valtellina Sup. Sassella Ris.’13 - Aldo Rainoldi
Valtellina Sup. Sassella Rocce Rosse Ris. ’07 - Ar.Pe.Pe.

Lino Banfi lancia Orecchietteria Banfi e Bontà Banfi. Tre generazioni per la cucina pugliese

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Apre a Roma il ristorante di Lino Banfi e famiglia dedicato a orecchiette, panzerotti e book sharing. Un progetto che guarda al territorio e che valorizza i giovani. Incluso il ragazzo 81enne famoso per mille film e serie tv. 

Lino Banfi ha aperto un ristorante dedicato agli amanti della cucina pugliese. Orecchiette e panzerotti saranno i protagonisti di questa nuova avventura tutta familiare: tre, infatti, le generazioni coinvolte. Da “nonno” Lino, passando per i figli Rosanna (con suo marito Fabio) e Walter sino alla giovanissima nipote (e al suo fidanzato), entrambi cuochi.

Non si tratta di un ristorante convenzionale, ma di un luogo pensato per l'asporto che prevede però alcune sedute, circa sessanta, per il consumo in loco. Ricavata dai locali di una ex videoteca, Orecchietteria Banfi è completamente incentrata sulla figura del noto attore, ma non mette da parte la qualità della materia prima, tutta rigorosamente pugliese.

Una massiccia operazione di ricerca iniziata da un'altra avventura, quella di “Bontà Banfi”, un marchio di prodotti alimentari selezionati con tempo e cura da tutta la famiglia che si rivolgerà alla grande distribuzione come ai mercati esteri.

Inutile dirlo, il linguaggio usato nel menu e nei pannelli che arredano gli interni è quello 'banfista' che ha caratterizzato la figura di Lino, al secolo Pasquale Zagaria, nella sua vasta produzione cinematografica. Storpiature che derivano dal dialetto di Andria e della Puglia tutta danno il nome ai piatti della tradizione che diventano così “chepra e chevoli” per il condimento con ricotta di capra e cime di rapa, “se Parigi”, che prevede pomodorini datterini e stracciata e “porca puttena”, inequivocabilmente per un piatto piccante.

Di facile fruibilità, tutto è pensato per una permanenza breve e piacevole (i piatti e le posate, così come i bicchieri e tutto il resto, sono monouso e compostabili), Orecchietteria Banfi ha previsto anche uno spazio per lo scambio della cultura. Nel piccolo androne antistante la porta di ingresso, infatti, una libreria di design a completa disposizione di clienti e non, invitati a lasciare un libro per prenderne un altro. Questo spazio, in particolare, è stato pensato per rimanere aperto anche negli orari di chiusura del ristorante.

I progetti della famiglia non si fermano solo al ristorante, che mentre scriviamo è ancora in fase di decollo e aprirà al pubblico solo tra qualche giorno. Con l'intenzione di creare un vero e proprio faro di attenzione sui prodotti pugliesi, il cantiere prevede, ma solo a condizione che si trovi un locale adatto, di creare un punto vendita così che chi abbia assaggiato la proposta gastronomica di Orecchietteria Banfi possa acquistare le stesse materie prime, per cimentarsi a casa propria. Un progetto ambizioso che prenderà corpo solo dopo l'avvio del ristorante.

 

Orecchietteria Banfi | Roma | via Gioachino Belli, 116 | tel. 06 3201505 | dal 21 settembre 2017

 

a cura di Saverio De Luca

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