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Tre Bicchieri 2018. Parla Tonino Verna di Cantina Tollo

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L'emblema dell'evoluzione delle cantine sociali è Tollo, 3000 ettari, 822 soci in tutto l'Abruzzo e una produzione che supera i 10 milioni di bottiglie, che passa dal vino quotidiano ai prodotti più esclusivi. Come ci sono riusciti?

Un'azienda di dimensioni monster da 10 milioni di bottiglie, oltre 3000 ettari e 822 soci conferitori – con un 15% che opera in regime biologico – che arriva sul mercato con etichette da podio. Sono le ammiraglie della produzione della Cantina Tollo, certo, che si completa anche con etichette più quotidiane a segnare il profilo di una cantina sociale completa capace di lavorare a diversi livelli. Ma anche capace di puntare sulla qualità e sul miglioramento complessivo della sua produzione. Una sfida importante, e per certi versi unica in Europa, affrontata con notevoli investimenti e strategie a lungo termine che integrano risultati in bottiglia con tutela del territorio e della sua specificità ampelografica. Quella di Tollo è un'esperienza emblematica che segna il futuro (auspicabile) delle cantine sociali.

Cantina tollo

Per il terzo anno consecutivo tocca al Montepulciano Mo Riserva sintetizzare le migliori virtù delle creazioni Tollo conquistando così i Tre Bicchieri nella guida Vini d'Italia 2018. Mora, amarena, camino spento, la versione 2013 è destinata a mettere d'accordo sensibilità diverse grazie allo stile avvolgente e contemporaneo. Versatilità espressiva che incontriamo anche nel Pecorino '16. Ma - come dicevamo - è l'intera produzione, nelle sue diverse espressioni, a toccare livelli decisamente alti. Come è stato possibile? Lo abbiamo chiesto al presidente del consorzio, Tonino Verna.

 

Fino a qualche decennio fa cooperativa era sinonimo di grandi numeri e qualità mediocre. Tollo, con altre realtà, sta dimostrando concretamente come le cose stiano cambiando a favore di prodotti di altissima qualità: parliamo di questo percorso.

Si è arrivati a questo risultato con un duro lavoro che l'amministrazione di Tollo ha fatto negli ultimi 12 anni. È un progetto articolato, nato nel 2005, che si concentra su tre fronti: investimenti in risorse umane, investimenti culturali, investimenti tecnologici in azienda.

 

Ci spieghi meglio.

Abbiamo fatto un grande corso di formazione che partiva sin dal lavoro in vigna, rivolto al corpo sociale, soprattutto quello dei territorio ortonese e tollese, ma non solo. Il titolo del corso era Verso la qualità sociale. A questa parte formativa si sono aggiunti una spinta verso l'innovazione tecnologica dei processi produttivi all'interno dell'azienda e l'ampliamento delle risorse con uno staff agronomico ed enologico di rilievo, almeno a nostro parere. Ma visto il consenso di consumatori e guide abbiamo avuto la conferma della correttezza della nostra scelta.

 

Quale è stata la scommessa?

Passare dal mondo della cooperazione tradizionalmente legato al vino da consumo giornaliero,

al vino di livello superiore.

 

Come ci siete riusciti?

Con il Progetto Vigneto Avanzato, partito nel 2005 insieme al corso. Si tratta di un contratto stipulato con alcuni soci nei casi e nelle zone in cui gli agronomi ed enologi riscontravano una maggiore vocazione alla qualità.

 

In cosa consiste?

Abbiamo assicurato ai conferitori scelti un certo prezzo a patto che seguissero le nostre indicazioni. Insomma: ti diamo un tot a patto che lavori come diciamo noi. E questo ha dato i risultati che vedete, e non solo nei prodotti premium, perché c'è stato un miglioramento complessivo della qualità anche dei base, il vino quotidiano.

 

Qual è il ruolo di una così grande azienda cooperativa?

Produrre al meglio i vitigni di eccellenza, valorizzare il territorio, misurarsi al pari delle aziende più blasonate per quanto riguarda il prodotto di eccellenza, quello della categoria premium.

 

L'azienda è in prima linea anche nell'agricoltura biologica: quali sono stati i passi che vi hanno portato a questa scelta e come la gestite?

Siamo tra le prime aziende ad aver sposato il concetto biologico, anche questo rientra nel progetto Vigneto Avanzato e riguarda circa il 15% dei terreni. Poi è scattata la molla della motivazione di quasi tutti i soci del biologico, attenti loro per primi, a seguire con attenzione il disciplinare bio.

 

I prossimi passi per la cantina?

Sicuramente incidere ancora di più e continuare in questo percorso. Vorremmo passare nel giro di 2 o 3 anni a raddoppiare i progetti Vigneto Avanzato allargando il plafond dei vini di livello superiore con altre etichette, ma sempre partendo da quel che è e che può fare il nostro territorio. Rispettando l'orografia e il territorio dei soci di cantina Tollo, con le loro precise caratteristiche. L'esempio è quanto fatto con il trebbiano e il successo del Tre, presentato a Vinitaly quest'anno, conferma che siamo sulla strada giusta.

 

Annata 2017. Come sta andando?

È un'annata difficile, per 109 giorni siamo stati senza pioggia, e solo da un paio di giorni si è presentata l'escursione termica necessaria. Comunque abbiamo chiuso con i bianchi e tra poco iniziamo a vendemmiare il montepulciano, rosso di punta.

 

Cantina Cooperativa Tollo | Tollo (CH) | Via G. Garibaldi, 68 | tel. 0871 96251| http://www.cantinatollo.it/

 

a cura di Antonella De Santis e William Pregentelli

 

 

 

Buoni pasto in agriturismo e al mercato. Fino a 40 euro al giorno. Come cambia la legge

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Entra in vigore il nuovo decreto per regolamentare l'uso dei buoni pasto in Italia. Via libera in agriturismi, mercati, ristoranti, spacci aziendali, fino a 8 ticket al giorno. Il buono sostituisce il contante? Pro e contro. 

Spendere i buoni pasto. Cosa cambia

Buoni pasto, croce e delizia dei consumi. Il nuovo decreto del Ministero dello Sviluppo, in vigore dal 9 settembre scorso, apre un nuovo dibattito sul tema. Se da un lato l'idea è quella di favorire i consumi, riequilibrando le sorti di un'economia nazionale in lenta ripresa, dall'altro la nuova normativa – seppur con buon margine di applicazione alla facoltà dei singoli – potrebbe rivelarsi insidiosa per esercenti e attività commerciali. Di fatto, le novità lampante consiste nella possibilità di pagare un servizio in buoni pasto con molti meno limiti rispetto al passato. E quindi per fare la spesa al mercato, pagare un pranzo in agriturismo, acquistare in fiere e spacci aziendali, saldare il conto del bar. Ma la vera “rivoluzione” riguarda l'innalzamento del tetto giornaliero di spesa, per un ammontare complessivo di circa 40 euro (8 buoni al giorno, ma il Codacons chiede a gran voce l'abbattimento definitivo del tetto).

 

8 buoni al giorno

E con questo si scontreranno i controlli, che d'ora in avanti, fanno sapere dal Ministero, saranno più rigorosi: finora, infatti, la legge autorizzava l'utilizzo di un singolo ticket al giorno. Ma quanti (!) rispettavano la norma? Stesso discorso se si considera la deroga al valore nominale del buono (che resta tale), mai davvero sanzionata. Dunque, la possibilità di cumulare 8 ticket in un giorno potrebbe conferire ai buoni un ruolo importante nel pagamento di tanti servizi e prodotti, rendendo più trasparente (e legale) un'abitudine di fatto già cristallizzata, specie al ristorante o al bar, in pausa pranzo, o alla cassa dei supermercati. Ma il perimetro di legalità conferito alla prassi già consolidata ora spinge nuovi attori di peso ad accettare il sistema: è il caso di Esselunga, che finora non vedeva di buon occhio i buoni pasto. D'altro canto, l'innalzamento del tetto di spesa riconosce i tempi che cambiano: quanti, oggi, riescono a mangiare con 5 euro o poco più (l'equivalente di un ticket), pur contenendo le spese? Per gli esercenti che scelgono di sposare il sistema, invece, gli affari si complicano nella misura in cui il rimborso del servizio anticipato in cambio dei buoni dipenderà dai tempi di pagamento delle società emettitrici (generalmente dai 3 ai 6 mesi). E poi ci sono le commissioni, che variano dal 13 al 20%, e sui ricavi dei piccoli commercianti potrebbero fare la differenza, nel senso deleterio del termine.

 

Il mercato dei buoni pasto in Italia

Ma certo, il bacino potenziale di utenti che vedono di buon occhio la nuova frontiera dei buoni pasto dovrebbe esortare molte attività a correre il rischio: in Italia il 16% degli occupati dispone di buoni pasto (2 milioni e mezzo di italiani), principalmente a Nord Ovest e Centro, circa il 60% del totale finora è stato utilizzato per fare la spesa. E il valore di mercato raggiunge i 2,8 miliardi all'anno, con una crescita costante nell'ultimo periodo. Coldiretti, per esempio, registra positivamente il cambiamento: “È una opportunità per 4 italiani su 10 che fanno la spesa dal contadino, negli agriturismi e nei mercati degli agricoltori”. La palla ora passa alle società emettitrici: perché il sistema possa davvero premiare tutti, è necessario limitare le speculazioni e le aste a ribasso, a scapito degli esercenti. Ma i nodi verranno al pettine solo con l'apertura delle nuove gare d'appalto, nei prossimi mesi.  

 

a cura di Livia Montagnoli

Spirits Selection 2017. Dal Cile la cronaca del concorso mondiale di liquori e distillati

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Si è svolta a fine agosto l’ultima edizione della Spirits Selection, iniziativa dedicata ai distillati e ai liquori di alta qualità, nata quasi vent’anni fa per volere del Concours Mondial de Bruxelles.

Quest’anno il concorso è stato organizzato in Cile, a La Serena, dopo l’edizione messicana del 2016 e quella cinese del 2015. In attesa della prossima tappa prevista nel 2018 a Plovdiv, in Bulgaria, analizziamo i risultati e le curiosità del concorso sugli Spirits più importante al mondo.

Con ben 1.140 campioni iscritti (numero record di partecipazione) si sancisce il valore del concorso che da quasi 20 anni seleziona distillati e liquori di qualità provenienti da tutto il mondo. Un numero in costante crescita, nonostante negli ultimi anni il trend del consumo degli spirits in alcuni paesi non sia stato dei più positivi.

 

 

I consumi di bevande alcoliche e la partecipazione al concorso

In tutto sono 54 i paesi partecipanti alla selezione, con le prime cinque posizioni - per campioni inviati - occupate da Francia, Cina, Taiwan, Italia e Brasile. Francia e Cina primeggiano anche tra i paesi che crescono maggiormente per consumi di bevande alcoliche: secondo Euromonitor International, nella nazione transalpina (compresi i Dom Tom) la domanda di rum, vodka e whiskey aumenta da tre anni a questa parte, mentre in Cina, soprattutto grazie al distillato locale baijou, il mercato è cresciuto del 4% nell’ultimo anno. L’Italia ha fatto la sua parte al concorso soprattutto con le grappe e i liquori, mentre sono ben 5 le nazioni che hanno partecipato per la prima volta all’edizione cilena (il Belize, la Finlandia, il Guatemala, l’Indonesia e la Giamaica).

Sempre secondo Euromonitor il consumo di superalcolici aumenterà nei prossimi anni, con una crescita che potrà arrivare al 10% da qui al 2020: in Europa le categorie più apprezzate sono e saranno whiskey, rum e gin, in Asia invece whiskey, cognac e baijiu cinese, mentre in Sud America si preferirà il bourbon, il cognac, il rum e la tequila.

 

L’edizione 2017 a La serena e il Pisco Cileno

Come accennato, l’edizione 2017 ha visto protagoniste quasi 1200 etichette di liquori e distillati da più di 50 paesi, assaggiati e analizzati da 66 degustatori professionisti provenienti da 22 paesi. Le linee guida per l’analisi dei campioni sono date dal Concours Mondial de Bruxelles, che ha organizzato la 17ma edizione anche grazie al supporto dell’Associazione Produttori di Pisco, del ProChile (il Ministero dell’Agricoltura del Cile) e dei comuni di Vicuña, La Serena, Ovalle e Paihuano e della regione di Coquimbo.

I giudici, in rappresentanza dei 22 paesi, sono stati divisi in panel da 6 persone, per degustare e valutare fino a 35 bevande alcoliche al giorno e attribuire le medaglie d'Argento, d'Oro e la Gran Medaglia d’Oro. Novità di questa edizione, il trofeo speciale dedicato al biologico attribuito ai superalcolici biologici o biodinamici che si sono distinti durante la competizione, e il trofeo assegnato alle bevande più innovative che incarnano le tendenze del settore nel futuro. L’Italia conquista ben due volte la Gran Medaglia d’Oro (una con una grappa Riserva e una con un amaro), otto la Medaglia d’Oro (non solo grappe, ma anche liquori e un gin) e quindici la Medaglia d’Argento in cui spunta anche un Vermuth (categoria ammessa al concorso e tornata di gran moda negli ultimi tempi).

Tutti i risultati si possono scaricare qui

 

Gli obiettivi del concorso itinerante

Spirits Selection si svolge ogni anno in un luogo diverso con l’obiettivo di aiutare le bevande alcoliche di una regione e l'offerta turistica di questa a guadagnare una visibilità internazionale” ha commentato Baudouin Havaux, Presidente del Concours Mondial di Bruxelles, durante la cerimonia di apertura “Il nostro concorso internazionale ha due obiettivi principali: promuovere la regione ospitante e creare un marchio di qualità affidabile per i consumatori. Le medaglie aiutano gli esperti, gli intenditori e gli amanti degli spirits a scegliere i prodotti migliori e più trendy”.

 

 

Il pisco

Il paese ospitante si è reso protagonista con 42 spirits, prodotti da 19 aziende locali. Il distillato cileno per antonomasia è il pisco, acquavite di vino prodotta prevalentemente nelle regioni di Atacama e Coquimbo. La maggior parte dei campioni presentati al concorso è ottenuta da varietà aromatiche come il Muscat d’Alessandria, il Muscat Rosso, il Muscat austriaco, il Torontel e il Pedro Ximénez. Il Pisco Chile, conosciuto sotto questo nome dal 1733, è stata la prima denominazione di origine ottenuta in Cile e in America, negli ultimi anni ne sono stati prodotti circa 36 milioni di litri l’anno e i cileni ne consumano in media 2,2 litri pro capite.

Non esistono molti spirits con denominazione di origine protetta nell'industria. Tutti sanno che il pisco è un distillato paragonato ai brandy europei, ma è importante dare agli esperti internazionali la possibilità di visitare il Cile e di degustare la bevanda nazionale in prima persona”commenta ThierryHeins, Direttore di Spirits Selection “Nel 2014,quando Spirits Selection è stato ospitato dal Brasile” prosegue “la giuria ha degustato l'autentica Cachaça; nel 2015, in Cina, l’autentico baijiu, nel 2016, in Messico, l’autentica tequila. Era giunto il momento di dare un'occhiata alla bevanda nazionale del Cile”.

 

La prossima edizione: Plovdiv capitale mondiale degli spirits nel 2018

La città di Plovdiv, Bulgaria, diventerà capitale mondiale delle bevande alcoliche nel 2018. È qui, infatti, che si svolgerà la 18ª edizione del concorso Spirits Selection. “È la seconda volta che il Concours Mondial sceglie la Bulgaria”ci dice sempre Baudouin Havaux Nel 2016 la Bulgaria ha ospitato il nostro concorso enologico. Siamo rimasti molto colpiti dalla qualità degli alcolici prodotti localmente e dalla motivazione delle persone a organizzare un evento di importanza internazionale”. Non è un caso, inoltre, che si scelga una città che nel 2019 sarà capitale mondiale della cultura. “La nostra giuria internazionale avrà l’occasione di scoprire non soltanto il patrimonio storico e culturale di questo paese dell’Europa orientale poco conosciuto ma anche i superalcolici del luogo e la loro storia”ha aggiunto Thierry Heins.

La Bulgaria sarà protagonista al concorso soprattutto con la rakia, un distillato di frutta considerato bevanda nazionale. Testimonianze storiche suggeriscono che la bevanda fu consumata per la prima volta nell’XI secolo, mentre la produzione industriale è iniziata nel XVIII secolo. La rakia d’uva è la più comune nel paese, ma si può ottenere anche attraverso la distillazione di pere, mele cotogne, fichi, ciliegie, albicocche, pesche e persino petali di rosa. La 18ª edizione dello Spirits Selection si svolgerà dal 21 al 23 agosto 2018 con il sostegno del Ministero dell'Economia e del comune di Plovdiv.

 

a cura di Giuseppe Carrus

Foto: Spirits Selection

 

Anteprima Tre Bicchieri 2018. Val d'Aosta e Ticino

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L'anticipazione dei premiati della nuova guida Vini d'Italia 2018 oggi ci porta a scoprire i migliori vini di Val d'Aosta e Ticino.

Valle d'Aosta

Solo negli ultimi anni la coltivazione della vite, con successiva vinificazione delle uve, e la vendita del prodotto finale in bottiglia permette a qualche viticoltore valdostano di vivere bene. Per molto tempo gli unici vini regionali reperibili nelle enoteche, anche in provincia di Aosta, provenivano da una delle numerose cantine cooperative o dall'Institut Agricole Régional, centro di sperimentazione viticolo e scuola dove sono stati formati numerosi produttori locali. A lungo la cooperazione è stata una necessità. In un territorio così difficile e impervio dove oggi lo spazio dedicato alla vite è di soli 400 ettari, la proprietà è stata storicamente molto frammentata, con susseguente difficoltà per le singole famiglie a trarre reddito dal vino. Ancora oggi molti vignaioli lo sono solo part-time e la dimensione delle cantine non supera le 30mila bottiglie all'anno, con molte realtà che non arrivano a 15mila unità. Numerose sono ancora le aziende che non sottopongono i loro vini al giudizio della critica, perché si trovano senza vino al momento delle degustazioni. Lo stesso Costantino Charrère, proprietario di Les Crêtes, la più grande azienda privata della Valle con una produzione odierna pari a 180mila pezzi, è stato a lungo insegnante. Eppure malgrado le dimensioni ridotte dei vigneti e delle cantine, la Valle d'Aosta produce vini sempre migliori, con punte che, nelle loro tipologie, rappresentano l'apice dell'enologia italiana. Dopo qualche anno di appannamento qualitativo i player più importanti dello scacchiere vinicolo della Valle hanno ripreso a lavorare con più convinzione e più continuità e quindi la qualità media dei vini regionali è cresciuta di colpo. Infatti la produzione delle cantine sociali regionali si attesta quasi sulla metà della produzione totale. Anche se a raggiungere il massimo dei nostri riconoscimenti è ancora una volta La Crotta di Vegneron, c'è stata una presenza importante delle cooperative nelle nostre finali per i Tre Bicchieri. Comunque a guidare la buona schiera degli ottimi vini valligiani troviamo ancora le solite cantine private. In questo panorama giocoforza ristretto è difficile scoprire e valorizzare nuove realtà. Tra i premiati di quest'anno ci sono nomi noti, ma con nuove etichette. Tra le novità, ad esempio, abbiamo assaggiato un grande Cornalin - vitigno autoctono ancora raro ma già ricco di promesse - prodotto dalla famiglia Rosset e soprattutto un Nebbiolo proposto per la prima volta da Costantino Charrère, che viene a ricordarci come il Sud della regione e in particolare la zona di Donnas possa dire la sua riguardo al nobile vitigno. 

 

I vini della Val d'Aosta premiati con Tre Bicchieri

 

Valle d'Aosta Chambave Moscato Passito Prieuré ’15 - La Crotta di Vegneron

Valle d'Aosta Chambave Muscat Flétri ’15 - La Vrille

Valle d'Aosta Cornalin ’16 - Rosset Terroir

Valle d'Aosta Nebbiolo Sommet ’15 - Les Crêtes

Valle d'Aosta Petite Arvine ’16 - Elio Ottin

Valle d'Aosta Pinot Gris ’16 - Lo Triolet

 

Ticino

Dopo alcuni anni torna il Ticino sulle pagine della nostra Guida. La contiguità territoriale e culturale con l'Italia è tale, e il livello della produzione così elevato, da rendere questo passo quasi obbligato. Scorrendo le pagine noterete che la gran parte dei vini recensiti sono a base di uva merlot, un'uva stata introdotta in Ticino circa 100 anni fa che si è acclimatata alla perfezione. Sebbene quindi qui si coltivi il vino da almeno 2000 anni, sappiamo poco del tipo di vitigni e dell'entità delle coltivazioni, quel che è certo è che prima della devastazione della filossera di fine ‘800 si coltivavano vari vitigni americani e ibridi nonché, nel Sopraceneri, l'interessante autoctono bondola. A partire dal 1907 il merlot fa il suo ingresso trionfale, e oggi è il vitigno principe del territorio ticinese che un tempo dava vita a vini piuttosto leggeri, solo successivamente si è affermato uno stile di Merlot più robusto, grazie alla limitazione delle rese, a tecniche di cantina più sofisticate e alle maturazioni in legni nuovi.

Il cantone vitivinicolo del Ticino si divide in due subregioni; Sopraceneri, a nord del passo del Monte Ceneri, ha terreni ricchi di granito e sabbia e comprende i distretti di Bellinzona, Blenio, Leventina, Locarno, Rivera e Vallemaggia. Soprattutto nelle vigne della valle Leventina e della valle Blenio, vicine alle Alpi, si produce un Merlot piuttosto leggero e finemente fruttato. Nel Sottoceneri, che comprende invece i distretti di Lugano e Mendrisio, si trovano suoli più pesanti, calcarei, con varie percentuali di argilla, qui maturano Merlot molto robusti e pieni. Il Merlot è interpretato in diversi stili: come vino estivo leggero e fruttato, ma anche in corpose selezioni maturate in barrique, dov'è pienamente concentrato e adatto per l'invecchiamento e anche vinificato in bianco può essere convincente. Ma il Ticino non vuole essere solo terra di Merlot, pian piano fanno capolino altri interessanti vitigni: chardonnay, pinot noir, gamaret, sauvignon blanc, syrah, cabernet sauvignon e franc e infine la bondola. Infine sono coltivate numerose altre uve, alcune in via sperimentale e altre già vinificate, che stanno dando risultati davvero molto interessanti. Quest'anno due vini del Ticino arrivano ai Tre Bicchieri: si tratta del Merlot Musa '14 di Fawino, dallo stile disteso, fruttato sapido e intrigante, e del Merlot Vinattieri '13 dei Vinattieri Ticinesi, che incarna l'anima più strutturata e profonda di questo vino. Bentornato Ticino.

 

I vini del Ticino premiati con Tre Bicchieri

 

Ticino Merlot Musa ’14 - Fawino Vini & Distillati

Ticino Merlot Vinattieri ’13 - Vinattieri Ticinesi & Castello Luigi

 

Gli altri premi Tre Bicchieri della guida Vini d'Italia 2018

Stop a erborinati e formaggi con la muffa. La Cina contro l'export di Gorgonzola e Taleggio

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L'agenzia doganale responsabile di ispezioni e quarantena mette al bando alcuni tra i formaggi più pregiati d'Italia e d'Europa: in Cina non possono più entrare. Il motivo? La presenza di ceppi batterici non tollerati, tradizionalmente usati per la produzione degli erborinati europei. Come il gorgonzola. E ora che succede? 

I cinesi e il formaggio

Era l'inizio del 2014, e Assolatte lanciava un grido d'aiuto all'Unione Europea. All'epoca le importazioni di formaggi italiani (ed europei) in Cina stavano decisamente decollando, dopo anni di indifferenza pressoché totale, dovuta alle consuetudini radicate nella cultura alimentare cinese. Fino a 30 anni fa, in Cina, il mercato dei formaggi praticamente non esisteva. Poi il riscatto, con margini di crescita esponenziali e potenzialità molto redditizie per i Paesi tradizionalmente produttori come l'Italia. Nel 2013 il mercato dell'export caseario valeva 6 milioni di euro, già l'anno seguente il 39% in più. Per merito di un sostanziale cambio di rotta: solo qualche anno prima, i cinesi si dicevano poco inclini a sperimentare, dichiarando persino una repulsione nei confronti dei prodotti lattiero-caseari, specie davanti a un erborinato, scoraggiati dal profumo marcato. Ma già nel 2014 l'opinione della Cina a riguardo si ribaltava visibilmente: considerati prodotti raffinati ed esclusivi, i formaggi – con particolare riguardo per quelli in arrivo dal Belpaese e dalla Francia – diventavano uno status symbol emblema del buon gusto. E l'inasprimento dei controlli doganali dall'Agenzia della Sicurezza Alimentare Cinese faceva temere per la sorte di un mercato da tutelare, proprio perché ancora alle prime armi.

 

La crescita dell'export caseario

Allora, dopo mesi di trattative, il Ministero della Salute e l'Ambasciata Italiana in Cina erano riuscite a strappare un accordo importante, per definire linee guida condivise e favorire le operazioni degli importatori italiani. Una trattativa pure mirata a contrastare l'italian sounding (la piaga del Parmesan e del Provolone Cheese) e decisamente vantaggiosa per quei prodotti già particolarmente apprezzati dai cinesi: formaggi freschi con mozzarella e ricotta in testa (il dato era valido ancora nel 2016), Parmigiano Reggiano e Grana Padano a seguire, mascarpone, robiola, pecorino e gorgonzola con grandi margini di crescita. 2015 e 2016, infatti, hanno fatto registrare un aumento delle vendite pari al 42%, con 2650 tonnellate esportate sul mercato cinese; e i primi dati del 2017, validi per il primo quadrimestre, parlano di un ulteriore crescita, pari al 36% in più.

 

Il nuovo blocco dell'Aqsiq colpisce gli erborinati

Quattro anni dopo, però, proprio mentre l'Italia si appresta a celebrare la sua sconfinata produzione casearia a Bra, con Cheese 2017, le restrizioni dell'Aqsiq tornano a farsi sentire, e stavolta potrebbero paralizzare per diversi mesi una buona fetta dell'export caseario europeo indirizzato in Cina. La pietra dello scandalo, per le rigide misure sanitarie dei doganieri cinesi, sono le muffe di erborinati e muffettati, precisamente alcuni ceppi di batteri utilizzati tradizionalmente per la produzione di alcuni tra i più famosi formaggi europei: Roquefort, Camembert, Gorgonzola, Taleggio. Un grave danno d'immagine, oltre che economico, per diverse specialità made in Ue, che negli ultimi giorni ha messo in agitazione i produttori italiani ed europei (nelle restrizioni incappano anche Gran Bretagna, Olanda, Danimarca). L'inasprimento dell'agenzia sanitaria, tra l'altro, arriva a pochi mesi dalla ratifica di un accordo tra Ue e Cina per il riconoscimento e la valorizzazione di 100 Dop europee, tra cui diverse specialità casearie, e questo non fa altro che accentuare le perplessità sul Vecchio Continente.

Per l'Italia, nel frattempo, si muovono i ministeri alle Politiche Agricole, Salute e Sviluppo Economico, mentre la Cina, tramite il ministero del Commercio, rinnega ogni ingerenza politica, rimbalzando le responsabilità all'Aqsiq, organo competente e autonomo in materia di ispezioni e quarantena. “Il cibo italiano piace ai cinesi”, conferma il governo locale, ma intanto i produttori italiani sono stati costretti a rallentare le esportazioni, per scongiurare il rischio di veder respingere la merce alla frontiera. All'inizio di ottobre si aprirà un nuovo tavolo Ue-Cina, con la priorità di concordare nuovi parametri condivisi per l'import, sbloccando così una situazione ingarbugliata, che rischia di coinvolgere anche la pancetta e il prosciutto. Di certo le trattative non saranno brevi.  

 

a cura di Livia Montagnoli

Cittamani apre a Milano. Intervista alla chef Ritu Dalmia

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Apre in ottobre a Milano il Cittamani. La sfida? Diventare subito il miglior ristorante indiano d’Italia. A garantire la celebrity chef ambasciatrice della cultura italiana all'estero.

Avrebbe fatto carte false per diventare una chef. E le ha fatte. Siamo nei primi anni Novanta. Il mitico Angelo Paracucchi, ovvero un pezzo di storia della cucina italiana, nella sua Locanda di Ameglia si vede avvicinare da una giovanissima ragazza indiana. Si chiama Ritu Dalmia e dice di essere una giornalista. Lui si lascia intervistare. Mica una mezz’ora. Per un paio di giorni. Perché Ritu torna e ne vuole sapere sempre di più. Perfino troppo.

Poi confessa: non è una giornalista, è un’amante dell’Italia e della cucina italiana. La sua famiglia commercia in marmi e questo la porta spesso nei nostri porti, fra Liguria e Toscana: Genova, Lerici, Forte dei Marmi, Carrara. Vorrebbe restare alla Locanda e imparare qualcosa. Angelo Paracucchi le perdona la bugia e la tiene con sé.

Ecco, oggi che nel suo paese e in tutta la comunità internazionale a forte presenza indiana è ormai considerata una star, una “celebrity chef” (il suo ufficio stampa conferma) Ritu Dalmia si considera ancora un’allieva di Paracucchi, per quel che ha imparato nel periodo trascorso con lui.

Millefoglie di verdure di Ritu DalmiaMillefoglie di verdure 

Il miglior indiano d'Italia?

Ma il locale che sta per aprire a Milano non è un ristorante italiano, è quello che si candida senza mezzi termini a diventare il miglior ristorante indiano d’Italia.

Siamo in piazza Carlo Mirabello in Brera, a pochi passi da via della Moscova, e i lavori sono in corso, con le vetrine oscurate da veli di carta, al posto dello storico Verdi, uno dei ristoranti più frequentati fin dai tempi della Milano da bere. Il 4 ottobre è fissata la presentazione ufficiale del Cittamani, nome che, spiega Ritu Dalmia, evoca significati profondi, una concezione tantrica applicata al cibo: sensualità e liberazione.

La incontriamo al Fioraio Bianchi Caffè, altro storico indirizzo sul lato opposto della piazza. Quarantaquattro anni, energie da vendere, spiega subito: “Ho la cucina indiana nei geni e quella italiana nel cuore. E conosco benissimo i sapori dell’estremo oriente, Cina e sud est asiatico. Il Cittamani però non sarà un mix di queste passioni, sarà il ristorante dove potrete assaggiare la vera cucina indiana”.

Un ristorante indiano, dunque. Al quale toccherà anche abbattere alcuni pregiudizi. Il primo fra tutti: “Non è vero che i piatti indiani sono ‘troppo speziati’. Posso dirvi che, un po’ come capita con i ristoranti cinesi, la cucina 'standard' che qui viene proposta non rappresenta la varietà e le sfumature dei tipi di cucina che si apprezzano non solo nei ristoranti, ma soprattutto nelle case indiane” dice, e continua “Io porterò qui l’autentica cucina di casa, l’autentico amore per il cibo del popolo indiano. Gli indiani e gli italiani hanno con il cibo un rapporto molto simile”. Pane, amore e fantasia. Grandi piatti con cibi poveri.

 

Riso Biyriani con verdure di Ritu DalmiaRiso Biyriani con verdure

Italia-India: un patrimonio di relazioni anche gastronomiche

Con Ritu parliamo a lungo di similitudini e differenze, tra Italia e India. L’uso delle spezie marca una differenza ma disegna anche una storia comune fatta di traffici e di assaggi millenari, fin dai tempi in cui erano gli arabi a far conoscere gli ingredienti più raffinati, tanto ai palati occidentali come a quelli orientali. Non sarà poi una cucina così straniera o tantomeno aliena, quella del Cittamani: “Conosco benissimo i gusti degli italiani. Quindi so scegliere i piatti indiani che piaceranno di più, senza alcun bisogno di snaturarli. E la gran parte degli ingredienti, delle materie prime, saranno italiani”.

Nel menu saranno sempre presenti, contemporaneamente, piatti dalle varie zone di quell’immenso paese, con riferimento ai quattro punti cardinali. Dal pane Naan del Nord alla dosa del sud, dalle frittelle di tapioca dell’ovest al riso e lenticchie bengalese, ovvero il khichdi dell’est.

 

L'ambasciatrice della cucina italiana in India e la pizza nel tandoori

Ritu Dalmia, a Delhi è al timone dell’ormai celebre e gettonatissimo ristorante italiano interno alla nostra ambasciata, Café at ICC (Italian Cultural Centre), dove ogni tre mesi sono protagoniste le ricette di una regione diversa. Il suo primo ristorante aperto nella capitale si chiama Diva Italian, italiano al 100%, “in cantina ho curato la migliore selezione di vini italiani che si possa trovare in India”. Nel 2007 ha condotto la serie televisiva Italian Khana per l’emittente NDTV, programma di divulgazione della nostra cucina, per il quale ha girato l’Italia in lungo e in largo e da cui è stato tratto un libro: la serie è andata in onda per tre stagioni in India, Sud Africa, Mauritius e continua ad essere replicata. Anche per questa sua costante attività di divulgazione della cultura italiana nel mondo, Ruti Dalmia è stata insignita nel dicembre 2011 dell’onorificenza dell’Ordine della Stella d’Italia, consegnatale dall’ambasciatore in persona. Non stupiscono, tra gli aneddoti curiosi, che abbia inventato una pala per infornare la pizza nel tandoori (“viene benissimo, perché la temperatura di cottura è uguale a quella del forno a legna”) o che abbia avuto spesso in cucina come “aiutante” Salvatore Girone, uno dei due marò costretti - per la nota e tragica vicenda dell'uccisione di due pesatori indiani - a vivere per lungo tempo confinati proprio in ambasciata.

Chef_Ritu_Dalmia_-_ph__Modestino_TozziChef Ritu Dalmia. Foto: Modestino Tozzi

L'imprenditrice del gusto

In India è una vera potenza, grazie anche alla partnership empatica con l’imprenditore Analjit Singh, attivo sui mercati di Sud Africa, Inghilterra e Italia. Con la società Leuu Collection Singh sta portando avanti diversi importanti investimenti fra cui è in cantiere la creazione di Villa Querce, a Firenze: un hotel di lusso con più di settanta camere e giardini. Apertura programmata nel 2021; indovinate chi si occuperà del ristorante (questa volta italiano)? Oltre ai due locali citati e al futuro fiorentino, Ruti Dilma a Delhi è a capo di una catena che si occupa di catering per eventi di alto livello e di altri caffè e ristoranti, sette in tutto, fra cui citiamo soprattutto il Latitude 28, presso il Khan Market, frequentatissimo luogo di shopping, dove la chef propone classici da tutto il mondo (“viaggio tantissimo e lì sviluppo tutto quello che imparo e conosco on the road”).

Perché proprio a Brera? Perché proprio a Milano? “Il destino, il fato. Il proprietario del Verdi, il signor Corrado Bonacasa è un gentleman che mi ha conquistata. E lui è contento che nelle sale del suo Verdi nasca il Cittamani” spiega “E poi perché Milano è pronta. È una città cosmopolita che può accogliermi e capirmi”. Dunque prepariamoci. Come Nobu e soprattutto Zuma stanno al Giappone, così la “diva” Dalmia starà all’India. È questa la sfida.

 

Cittamani | Milano | piazza Carlo Mirabello, 5 | da settembre 2017 | www.facebook.com/cittamanimilano/

http://divarestaurants.com/

 

a cura di Saverio Paffumi

 

 

Milano Fashion Week 2017. Dalla Festa della creatività a 28 Posti il cibo che ispira la moda. E viceversa

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Dal 20 al 25 settembre il tradizionale appuntamento con le passerelle della Settimana della Moda animerà non poco la città. Ma per la prima volta Milano vuole celebrare l'eccellenza artigianale e creativa tout court, cibo compreso, con le spettacolari installazioni di Milano XL. Intanto Marco Ambrosino serve i piatti ideati dagli stilisti per Food Runway. 

La Festa della creatività. Milano XL

XL: per la prima volta a Milano la Settimana della Moda celebra l'extralarge. Non in passerella però – difficile sperare tanto – ma ampliando il raggio d'azione del tradizionale appuntamento di fine estate con l'haute couture per la prossima stagione. Di fatto, com'è vero per gli altri appuntamenti cadenzati che scandiscono la scena culturale meneghina, dalla Design week all'esordiente Milano Food City, anche la Fashion Week ha sempre finito per trasformarsi in un grande happening che coinvolge tutta la città. Ma l'edizione 2017, che ufficialmente prenderà vita dal 20 al 25 settembre con oltre 60 passerelle (tra storiche maison e stilisti esordienti, con l'atteso battesimo dei Green Carpet fashion Awards, il 24 alla Scala) e un gran numero di eventi collaterali e party esclusivi, ufficializza l'intento di aprirsi alla città. Come l'ha raccontato il sindaco Beppe Sala un paio di mesi fa, anticipando la nascita di un nuovo format che celebra il made in Italy e l'artigianalità tout court: Milano XL – La festa della creatività italiana, dal 16 al 26 settembre, sfrutterà il traino della Fashion Week per cambiare il volto del centro di Milano, con sette installazioni che valorizzano il saper fare e il gusto italiano, con la direzione artistica di Davide Rampello. A pochi giorni dalla grande festa per i 150 della Galleria (manca solo qualche ora alla spettacolare cena di beneficenza nel Salotto urbano ottocentesco), quindi, la città tornerà sotto i riflettori, diventando vetrina d'eccezione per le filiere produttive di qualità del nostro Paese.

 

L'eccellenza delle filiere artigianali. Cibo compreso

E anche il cibo, l'artigianato gastronomico e la tradizione vinicola, conquisteranno il proprio spazio tra gli emblemi dell'alta manifattura italiana. Gli allestimenti, con l'ideazione scenografica di Margherita Palli e il contributo di molti artisti e artigiani, proporranno un racconto interattivo della creatività tricolore, sfruttando una serie di set inconsueti dislocati in città per esaltare cultura e capacità tecnica dell'artigianato nazionale. Forte l'impatto visivo - tra proiezioni luminose e facciate ripensate per accogliere tessuti, pelli, installazioni ispirate alle arti - sette le tappe di questo percorso onirico che tutte le sere, per 10 giorni, prenderà vita, dalla Biblioteca dei Tessuti al Palazzo della Ragioneria al Salotto delle Gioie in Galleria, al Trionfo dell'amore al Castello Sforzesco. Ma sarà via Montenapoleone, con il coordinamento di Altagamma, a celebrare la cultura enogastronomica, tra Arti e Mestieri protagonisti dell'installazione Dalla Bottega alla vetrina. Sulle facciate della celeberrima via dell'alta moda milanese, si avvicenderanno 9 film realizzati con la tecnica del video mapping, con il supporto di una colonna sonora evocativa. Dalla tessitura all'oreficeria, alla stamperia, alcuni dei video scaveranno nella storia dell'arte della vigna, e della distillazione. Ma le vetrine celebreranno anche le filiere produttive gastronomiche.

 

Vogue Fashion Night Out 2017. Per il Mercato di Lorenteggio

Prima però, già nella notte tra il 14 e il 15 settembre, la città si riverserà in strada per la tradizionale Vogue Fashion Night Out, anche questa in versione allargata, come Vogue for Milano, tra incontri, mostre, proiezioni e spettacoli che esulano dal mondo della moda. Significativo, in questo senso, che i proventi in arrivo dalla vendita dei gadget della manifestazione saranno devoluti per ripensare il Mercato Comunale di Lorenteggio (tra i centri nevralgici della rinascita dei mercati rionali milanesi, negli ultimi anni), che presto potrebbe sfoggiare una nuova copertura su progetto di Renzo Piano. Tra gli appuntamenti a tema gastronomico, oltre agli innumerevoli cocktail proposti dalle maison, lo show cooking del cioccolatiere Alberto Farinelli, da Luisa Spagnoli, e l'aperitivo servito all'Armani Bamboo Bar in edizione limitata, con dedica alla serata. Ma anche la sfilata ispirata dai sapori del Mediterraneo di Salvatore Piccione, designer emergente protagonista al Bar Meraviglia.

Food Runway da 28 Posti

La settimana seguente, in piena Fashion Week, il connubio moda/design/cibo conquista la cucina di 28 Posti: in altre occasioni, Marco Ambrosino, talentuoso chef del ristorante sui Navigli, si è dimostrato particolarmente incline a collaborare con designer e creativi. E anche stavolta, dal 20 al 25 settembre, proporrà agli ospiti un'esperienza insolita. La Food Runway chiama a raccolta 5 stilisti, che accettano la sfida di ripensare la cucina dello chef in chiave creativa. Ognuno di loro - Vivetta, Paula Cademartori, Arthur Arbesser, Massimo Alba eMiahatami - ha lavorato su tre ingredienti dati (più uno a piacere) per definire l'idea di un piatto, che Ambrosino servirà in menu come piatto speciale di benvenuto.

Tra le combinazioni date: porro, aneto e salsa ponzu; rapa, lattuga e limone; anguria, daikon e alghe. Tra qualche giorno gli esiti dell'incontro creativo. Meglio prenotare.

 

Dalla Bottega alla vetrina | Milano | via Montenapoleone | dal 16 al 26 settembre 2017

Il cioccolato Perugina da Luisa Spagnoli | Milano | Corso Vittorio Emanuele II, angolo Galleria San Carlo | il 14 settembre, dalle 17 alle 22

Salvatore Piccione al Bar Meraviglia | Milano | via Vincenzo Cappelli, 2 | il 14 settembre, dalle 20

Armani Bamboo Bar | Milano | via Alessandro Manzoni, 31 | il 14 settembre | www.armanihotelmilano.com

Food Runway | Milano | 28 Posti, via Corsico, 1 | tel. 02 8392377 | dal 20 al 25 settembre 2017

 

a cura di Livia Montagnoli

Foto di Marco Varoli

Export agroalimentare: 10 consigli per conquistare i mercati esteri

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Conoscere e conquistare i mercati esteri è una tappa fondamentale anche per le aziende dell'agroalimentare, piccole o grandi che siano. Oggi un libro, Marketing dei Prodotti Enogastronomici all’Estero, spiega come fare. 
Un concentrato di potenzialità ancora non del tutto espresse: l'agroalimentare è un volano per l'economia italiana che presenta ancora decisi margini di crescita, soprattutto se accetta la grande sfida dei mercati esteri. Una prova che è perfettamente in grado di cogliere, pur tra le mille insidie che giocare su uno scacchiere internazionale altamente competitivo comporta. L'interesse che suscitano i nostri prodotti (ma anche i tranelli di cui è lastricata la strada dell'export) si evidenzia nel fenomeno cosiddetto dell'italian sounding, il mercato delle contraffazioni. Che, da solo, vale circa circa 60 miliardi di euro l'anno, letteralmente rubati al nostro made in Italy. Un patrimonio che potremmo riportare nelle nostre casse se i produttori del Belpaese riuscissero a inserirsi negli scaffali di mezzo mondo con i loro prodotti autentici, senza lasciare spazio a chi, di tricolore, ha solo un'astuta scelta di packaging.
Per riuscirci, però, bisogna sgomberare il campo da improvvisazione e pressappochismo. Servono strategie di marketing, un approccio altamente specializzato e competenze specifiche che vanno dalla creazione di contatti e rapporti di fiducia con buyer e importatori alla scelta dei corrieri, dalla conoscenza delle complicate norme doganali a una comunicazione sempre più digitale e trans-culturale.
 

Il libro

Oggi un volume affronta le tematiche inerenti all'export dell'agroalimentare. Si intitola Marketing dei Prodotti Enogastronomici all’Estero. Guida completa per l’export delle eccellenze italiane e lo firmano tre professioniste del marketing, della comunicazione e dell'export nel settore enogastronomico: Slawka G. Scarso, Luciana Squadrilli e Rita Lauretti - che hanno individuato strategie, consigli pratici, strumenti indispensabili per affrontare questa sfida. Un vademecum per aziende e per chi voglia ricoprire il ruolo di export manager nel settore wine&food.
 
A loro abbiamo chiesto di individuare 10 punti ineludibili per chi volesse avvicinarsi ai mercati internazionali. 10 consigli fondamentali per l'export del cibo di qualità. Sono solo i primi step, gli altri, altrettanto indispensabili, si trovano nel volume edito dalle edizioni LSWR, che dà un quadro di insieme teorico-pratico della materia, dall'analisi delle figure chiave del settore, alla comunicazione, dai suggerimenti per individuare e avvicinare buyer e importatori agli aspetti logistici, alla partecipazione alle fiere. Il tutto corredato da esempi pratici, interviste e testimonianze di professionisti che lavorano con o all’estero: si tratti di aziende, agenzie di comunicazione o spedizionieri.
 

I 10 consigli per l'export agroalimentare 

 
 
1. Fare un’analisi delle risorse interne
Prima ancora di iniziare a pensare a quali sono i possibili mercati verso cui esportare i propri prodotti c’è un passaggio essenziale, ed è quello dell’analisi interna, un’analisi attenta delle reali possibilità dell’azienda, in termini di risorse finanziarie, di capacità di produzione ma anche di risorse umane. È necessario che ci sia qualcuno che conosca le lingue straniere, e abbastanza da potersi interfacciare con possibili importatori, buyer o clienti. Troppo spesso infatti si trascura addirittura il fatto che in azienda non ci sia nessuno che conosca bene almeno l’inglese. Se le risorse mancano, bisognerà trovarle, o investire nella formazione del personale già in opera presso l’azienda.
 
2. Conoscere il mercato da lontano
Il secondo aspetto essenziale è l’analisi del mercato di destinazione. Anziché disperdere le proprie risorse in troppi mercati, è bene concentrarsi solo su alcuni. Per farlo, è molto importante che l’azienda conosca il mercato – esistono fonti ufficiali, dati di mercato e schede Paese da cui trarre informazioni utili. Al tempo stesso la fonte più importante è l’analisi diretta, sul campo. 
 
3. Conoscere il mercato anche da vicino
Visitare il Paese, visitare i punti vendita, parlare con gli operatori locali può infatti fornire utilissime informazioni su cui improntare la propria strategia di export. All’inizio di un percorso di internazionalizzazione, investire in viaggi per capire dove e come sono distribuiti prodotti concorrenti o similari può sicuramente aiutare a raccogliere le prime importanti informazioni da riportare in azienda al fine di individuare il partner commerciale migliore. A meno che non si siano ricevute richieste da altre aree geografiche, è sempre opportuno iniziare con Paesi europei, perché la loro gestione, per distanza e per regolamentazioni, risulta più accessibile. Individuare le persone giuste è prioritario, i buyer e importatori saranno i nostri compagni d’avventura ed è fondamentale trovare quelli più affini a noi e ai nostri prodotti. Prima di fare le valigie, sarebbe opportuno avvalersi di una lista di nominativi (on line si trovano abbastanza facilmente, basta un po’ di metodo) e fissare degli appuntamenti, in genere i potenziali partner commerciali sono sempre disponibili a incontrare i produttori per una prima valutazione.
 
4. Conoscere bene le normative del Paese dove esportare
È fondamentale, soprattutto per le piccole e medie imprese italiane, una chiara valutazione delle proprie strategie di internazionalizzazione e una corretta selezione dei mercati, ricordando che la scelta della modalità di entrata e del Paese estero obiettivo, rappresentano le decisioni più critiche. Uno degli sforzi che molte aziende oggi sottovalutano è comprendere il sistema di norme e certificazioni che l’entrata in un determinato Paese richiede e fare un’analisi dei costi che queste norme e certificazioni impongono (etichettature, autorizzazioni, analisi di laboratorio). Le ragioni di tale complessità sono dovute alle diverse regole che ogni Paese stabilisce per tipologia di prodotto nonché ai cambiamenti normativi, perché ciclicamente può avvenire che un Paese, con l’obiettivo di elevare il proprio livello protezionistico, modifichi e imponga limitazioni ai prodotti che si intendono esportare. Per questo è necessario monitorare costantemente il quadro legislativo del mercato di riferimento.
 
5. Fare rete
Un altro consiglio importante è quello di fare rete con le altre aziende. Si possono creare interessanti sinergie sia con aziende che producono lo stesso prodotto ma in aree diverse, ad esempio due denominazioni diverse nel settore del vino, sia con aziende che producono prodotti alimentari diversi, non in concorrenza tra loro. Un’azione comune permette di moltiplicare i contatti e opportunità.
 
6. Avere un’identità ben definita, possibilmente legata al territorio d’origine
La sfida, per i produttori di nicchia che vogliano esportare i propri prodotti all’estero, sta nell’avere un’identità chiara, ben delineata e condivisa all’interno dell’azienda, che abbracci i valori del localismo e dell’identità territoriale autentica, riuscendo però a comunicarla in chiave local presso i diversi pubblici nazionali.
 
7. Puntare (e investire!) su un sito web ben fatto e progettato per un pubblico straniero
Il sito Internet resta il punto di riferimento principale per chi ci cerca e vuole sapere qualcosa sull’azienda e i prodotti, che si tratti di un possibile cliente, di un agente, di un buyer estero o di un giornalista. Il sito deve essere facile da navigare, chiaro, interessante nei contenuti, coerente con l’immagine aziendale ma anche facile da trovare nel mare magnum del web. I valori devono essere costanti, coerenti con quelli alla base dell’identità aziendale comunicata anche in Italia, ma le rappresentazioni che ne vengono date vanno adattate al mercato a cui ci si rivolge e alle sue specifiche esigenze e abitudini. Questo vuol dire lavorare a una “traduzione” attenta che non è solo letterale ma soprattutto di significati e messaggi. 
 
8. Investire in un blog “professionale”
Un blog in lingua può essere un buono strumento per ampliare la parte dedicata allo storytelling del prodotto, dell’azienda e del territorio dando l’opportunità di cogliere parte del vissuto quotidiano dell’azienda senza appesantire troppo la struttura di base del sito e i suoi contenuti. Naturalmente, questo vale se si ha spesso qualcosa da raccontare (ad esempio nel caso di un’azienda che ha diversi prodotti anche a seconda dei periodi dell’anno, o che organizza o partecipa a molti eventi) e se si ha la possibilità di investire in risorse umane – interne o esterne – che vi si dedichino con costanza e professionalità.
 
9. Social Media, strategie global e contenuti local
I Social Media sono ottimi strumenti per personalizzare il proprio piano di comunicazione in base ai differenti pubblici nazionali cui ci si rivolge, adattando contenuti e linguaggi alle loro specificità culturali; inoltre, si rivelano utili anche per l’ascolto, la conoscenza e il dialogo con pubblici diversi e permettono di osservare le tendenze in atto in nuovi mercati, conoscere i concorrenti e come si muovono, dialogare con gli utenti e fidelizzarli e rafforzare il brand attraverso un efficace storytelling. Anche in questo caso, però, bisogna fare attenzione al pubblico cui ci si rivolge e, nella comunicazione verso mercati diversi da quello italiano, bisognerebbe adottare la filosofia “strategie global e contenuti local” creando contenuti e modalità di condivisione specifici per singoli pubblici e canali ma coerenti con i valori e l’identità aziendale e con la Social Media Policy stabilita. Per esempio, in alcuni Paesi le piattaforme più usate non sono le stesse che da noi e bisogna fare attenzione anche a come usare lingue e linguaggi sui canali Social per adeguare messaggi e rappresentazioni alle specifiche culture. La pianificazione strategica e la gestione di tali canali andrebbero affidate a un team “multi-culturale” che riesca a far coesistere valori e identità “originari” con lingue, linguaggi e abitudini locali.
 
10. Trovare i giusti partner e collaboratori
La scelta più saggia è affidarsi a collaboratori locali per comunicare e promuovere nel modo più opportuno la propria azienda e i propri prodotti presso mercati e Paesi diversi dall’Italia. Per esempio, affidarsi a un’agenzia di PR locale – o magari a un singolo professionista, spesso un italiano che ha deciso di vivere all’estero, se il budget aziendale non consente di coprire i costi ingenti delle agenzie - rappresenta un’ottima soluzione per affacciarsi in un mercato nuovo e creare relazioni con influencer e consumatori locali. In alternativa, a volte sono importatori e distributori – con uno staff dedicato e opportunamente formato - a occuparsi in maniera professionale della comunicazione e promozione di aziende e prodotti raccontandone origini, tradizioni, usi e caratteristiche, assumendo il ruolo di storyteller per il pubblico locale. Nel libro abbiamo intervistato diversi professionisti che lavorano nelle PR o nella distribuzione nei diversi continenti chiedendo di raccontarci le loro esperienze a riguardo.
 
 
Marketing dei Prodotti Enogastronomici all’Estero. Guida completa per l’export delle eccellenze italiane | di Slawka G. Scarso, Luciana Squadrilli, Rita Lauretti | Edizione LSWR | Pagine: 208 | 19,90 euro
 
 
 

Weekend da gustare all'Annunciata di Abbiategrasso. Torna l'Ambasciata del Gusto di Carlo Cracco

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Terza edizione per la rassegna dedicata alla cucina d'autore e alla valorizzazione dei prodotti di qualità del territorio, che quest'anno si concentra sul Parco del Ticino, con la complicità di 60 chef in arrivo da tutta Italia. E ogni domenica, fino all'8 ottobre, chic nic sul prato del chiostro, con le proposte dei giovani talenti dell'associazione. 

Torna l'Ambasciata del Gusto

Nato sotto la stella di Expo, l'avamposto gastronomico dell'Associazione Maestro Martino ad Abbiategrasso, nell'hinterland milanese, continua a coesistere pacificamente con la storia custodita tra le mura dell'ex convento dell'Annunciata, nonostante i timori sollevati nel 2015, quando il Comune scelse di imboccare la strada della concessione gratuita degli spazi, pur di assicurarsi il prestigio dell'associazione e del suo presidente, Carlo Cracco. Due anni e mezzo dopo, com'era stato nel 2016, le attività dell'Ambasciata del Gusto tornano ad animare il calendario di fine estate, con un ciclo di appuntamenti formativi, degustazioni e intrattenimento a tema che si protrarrà per i prossimi weekend, fino alla metà di ottobre. Anche la terza edizione della rassegna, volta a promuovere la cultura del territorio attraverso la cucina d'autore e la valorizzazione dei prodotti locali, si avvarrà della partecipazione di un gran numero di chef, a disposizione del pubblico invitato a trascorrere una giornata diversa, sul prato del Chiostro dell'Annunciata e nelle sale del convento, ripensate come Ristorante didattico. Percorsi nel gusto studiati per accontentare e coinvolgere una platea ampia, e variegata: le famiglie in gita fuori porta, gli studenti degli istituti alberghieri, i professionisti del settore, le buone forchette. Con un occhio di riguardo al talento giovane, come quello dei ragazzi dell'alberghiero di Stresa, che si muovono nella cucina del ristorante didattico, guidati dallo chef Alessandro Manzetti. Si tratta di un esordio per il format didattico che accompagnerà tutte le settimane di programmazione, offrendo agli aspiranti chef l'opportunità di lavorare al fianco di chef d'esperienza e ospiti della manifestazione.

 

Il Canton Ticino a tavola

Lo scorso weekend, il 9 e 10 settembre, le giornate d'esordio hanno celebrato la cucina di mare, con il consueto pic nic, ripensato in forma di Fish Nic, con Lorenzo Lavezzari e Haruo Ichikawa. 16 e 17 settembre (si ripete sabato 23), invece, all'Annunciata sarà la volta del Canton Ticino e del suo territorio, valorizzato con la complicità di venti chef in arrivo da tutta Italia, al lavoro sui prodotti del Parco del Ticino. Degustazioni e show cooking su prenotazione, con posti limitati. E a cena, il menu del ristorante, proporrà una personale interpretazione del tema (protagonista pure dello chic nic della domenica). Tra gli altri appuntamenti, sabato 30 è la volta di funghi e formaggi, sulla tavola imbandita per la cena, mentre domenica 1 ottobre si parla di finger food, prima dell'aperitivo delle 12 con Fabiana Scarica (tutto al femminile il parterre della domenica, con Sara Preceruti, Lucia Tellone, Sabrina Tuzi). Chiude Paolo Griffa domenica 8 ottobre, quando in tavola arriveranno i prodotti della Val d'Ossola.

 

Il programma completo su www.milanogourmetexperience.it

 

a cura di Livia Montagnoli

Foto di Carlo Fico

Anteprima Tre Bicchieri 2018. Valle d'Aosta e Ticino

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L'anticipazione dei premiati della nuova guida Vini d'Italia 2018 oggi ci porta a scoprire i migliori vini di Valle d'Aosta e Ticino.

Valle d'Aosta

Solo negli ultimi anni la coltivazione della vite, con successiva vinificazione delle uve, e la vendita del prodotto finale in bottiglia permette a qualche viticoltore valdostano di vivere bene. Per molto tempo gli unici vini regionali reperibili nelle enoteche, anche in provincia di Aosta, provenivano da una delle numerose cantine cooperative o dall'Institut Agricole Régional, centro di sperimentazione viticolo e scuola dove sono stati formati numerosi produttori locali. A lungo la cooperazione è stata una necessità. In un territorio così difficile e impervio dove oggi lo spazio dedicato alla vite è di soli 400 ettari, la proprietà è stata storicamente molto frammentata, con susseguente difficoltà per le singole famiglie a trarre reddito dal vino. Ancora oggi molti vignaioli lo sono solo part-time e la dimensione delle cantine non supera le 30mila bottiglie all'anno, con molte realtà che non arrivano a 15mila unità. Numerose sono ancora le aziende che non sottopongono i loro vini al giudizio della critica, perché si trovano senza vino al momento delle degustazioni. Lo stesso Costantino Charrère, proprietario di Les Crêtes, la più grande azienda privata della Valle con una produzione odierna pari a 180mila pezzi, è stato a lungo insegnante.

Eppure malgrado le dimensioni ridotte dei vigneti e delle cantine, la Valle d'Aosta produce vini sempre migliori, con punte che, nelle loro tipologie, rappresentano l'apice dell'enologia italiana. Dopo qualche anno di appannamento qualitativo i player più importanti dello scacchiere vinicolo della Valle hanno ripreso a lavorare con più convinzione e più continuità e quindi la qualità media dei vini regionali è cresciuta di colpo. Infatti la produzione delle cantine sociali regionali si attesta quasi sulla metà della produzione totale. Anche se a raggiungere il massimo dei nostri riconoscimenti è ancora una volta La Crotta di Vegneron, c'è stata una presenza importante delle cooperative nelle nostre finali per i Tre Bicchieri. Comunque a guidare la buona schiera degli ottimi vini valligiani troviamo ancora le solite cantine private. In questo panorama giocoforza ristretto è difficile scoprire e valorizzare nuove realtà. Tra i premiati di quest'anno ci sono nomi noti, ma con nuove etichette. Tra le novità, ad esempio, abbiamo assaggiato un grande Cornalin - vitigno autoctono ancora raro ma già ricco di promesse - prodotto dalla famiglia Rosset e soprattutto un Nebbiolo proposto per la prima volta da Costantino Charrère, che viene a ricordarci come il Sud della regione e in particolare la zona di Donnas possa dire la sua riguardo al nobile vitigno. 

 

I vini della Valle d'Aosta premiati con Tre Bicchieri

Valle d'Aosta Chambave Moscato Passito Prieuré ’15 - La Crotta di Vegneron

Valle d'Aosta Chambave Muscat Flétri ’15 - La Vrille

Valle d'Aosta Cornalin ’16 - Rosset Terroir

Valle d'Aosta Nebbiolo Sommet ’15 - Les Crêtes

Valle d'Aosta Petite Arvine ’16 - Elio Ottin

Valle d'Aosta Pinot Gris ’16 - Lo Triolet

 

Ticino

Dopo alcuni anni torna il Ticino sulle pagine della nostra Guida. La contiguità territoriale e culturale con l'Italia è tale, e il livello della produzione così elevato, da rendere questo passo quasi obbligato. Scorrendo le pagine noterete che la gran parte dei vini recensiti sono a base di uva merlot, un'uva stata introdotta in Ticino circa 100 anni fa che si è acclimatata alla perfezione. Sebbene quindi qui si coltivi il vino da almeno 2000 anni, sappiamo poco del tipo di vitigni e dell'entità delle coltivazioni, quel che è certo è che prima della devastazione della filossera di fine ‘800 si coltivavano vari vitigni americani e ibridi nonché, nel Sopraceneri, l'interessante autoctono bondola. A partire dal 1907 il merlot fa il suo ingresso trionfale, e oggi è il vitigno principe del territorio ticinese che un tempo dava vita a vini piuttosto leggeri, solo successivamente si è affermato uno stile di Merlot più robusto, grazie alla limitazione delle rese, a tecniche di cantina più sofisticate e alle maturazioni in legni nuovi.

Il cantone vitivinicolo del Ticino si divide in due subregioni; Sopraceneri, a nord del passo del Monte Ceneri, ha terreni ricchi di granito e sabbia e comprende i distretti di Bellinzona, Blenio, Leventina, Locarno, Rivera e Vallemaggia. Soprattutto nelle vigne della valle Leventina e della valle Blenio, vicine alle Alpi, si produce un Merlot piuttosto leggero e finemente fruttato. Nel Sottoceneri, che comprende invece i distretti di Lugano e Mendrisio, si trovano suoli più pesanti, calcarei, con varie percentuali di argilla, qui maturano Merlot molto robusti e pieni. Il Merlot è interpretato in diversi stili: come vino estivo leggero e fruttato, ma anche in corpose selezioni maturate in barrique, dov'è pienamente concentrato e adatto per l'invecchiamento e anche vinificato in bianco può essere convincente. Ma il Ticino non vuole essere solo terra di Merlot, pian piano fanno capolino altri interessanti vitigni: chardonnay, pinot noir, gamaret, sauvignon blanc, syrah, cabernet sauvignon e franc e infine la bondola. Infine sono coltivate numerose altre uve, alcune in via sperimentale e altre già vinificate, che stanno dando risultati davvero molto interessanti. Quest'anno due vini del Ticino arrivano ai Tre Bicchieri: si tratta del Merlot Musa '14 di Fawino, dallo stile disteso, fruttato sapido e intrigante, e del Merlot Vinattieri '13 dei Vinattieri Ticinesi, che incarna l'anima più strutturata e profonda di questo vino. Bentornato Ticino.

 

I vini del Ticino premiati con Tre Bicchieri

Ticino Merlot Musa ’14 - Fawino Vini & Distillati

Ticino Merlot Vinattieri ’13 - Vinattieri Ticinesi 

 

Gli altri premi Tre Bicchieri della guida Vini d'Italia 2018

Il primo anniversario della Legge Gadda. Ma lo spreco alimentare in Italia vale ancora più di 15 miliardi di euro

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Una legge all'avanguardia, quella che l'Italia varava un anno fa per favorire la lotta allo spreco alimentare. E tanti incentivi per i donatori. Ma oggi, tra le mura domestiche, si spreca ancora molto. I risultati dell'indagine campione.

Un anno di Legge Gadda

Spreco alimentare, un anno dopo. Il 14 settembre 2016, dopo un iter legislativo piuttosto articolato, entrava in vigore la Legge Gadda (166/2016), moderna sintesi dei provvedimenti necessari per arginare una delle piaghe più assillanti dei nostri giorni. Una normativa subito apprezzata per la sua capacità di incentivare il riuso, e la donazione delle eccedenze alimentari, tramite semplificazioni burocratiche, sgravi fiscali e bonus per i donatori (privati cittadini, attività commerciali, enti pubblici). Negli ultimi dodici mesi, con buona ricezione da parte della distribuzione organizzata e delle associazione solidali, i primi risultati sono arrivati – si veda, tra i casi più recenti, l'accordo tra Costa Crociere e il Banco Alimentare – e proprio qualche settimana fa si è chiuso il bando promosso dal Mipaaf, che mette sul piatto 500mila euro per contrastare lo spreco alimentare, finanziando idee intelligenti per gestire il recupero del surplus e sviluppare packaging innovativi (i vincitori saranno resi noti nei prossimi mesi). Eppure gli ultimi dati sulla spazzatura alimentare prodotta dagli italiani continuano a preoccupare.

Lo spreco in famiglia

L'indagine è stata condotta dall'associazione Last Minute Market in collaborazione con l'Università di Bologna, e fotografa soprattutto le abitudini alimentari delle famiglie tra le mura domestiche: 15,5 miliardi di euro è l'ammontare complessivo di cibo sprecato, in termini di ricaduta economica sul Pil nazionale (lo 0,94%). E ben 8 miliardi sono addebitabili alle cattive abitudini casalinghe, almeno a giudicare il questionario sulla gestione del cibo compilato da 400 famiglie campione. Ma si auspicano buoni margini di miglioramento: l'Osservatorio Waste Watcher informa che oggi 7 italiani su 10 sono a conoscenza della Legge Gadda, e il 91% di loro considera allarmante la questione. Anzi, da qualche mese, chi vuole impegnarsi in prima persona, ripensando la gestione dei pasti e della dispensa di casa, può scaricare online il diario Waste Notes, da compilare con frequenza settimanale per fare il punto sulle proprie abitudini di consumo. Per contro, lo spreco alimentare della filiera - dai campi alla produzione industriale, alla distribuzione – vale 3,5 miliardi di euro, un quinto del totale. Pesano sul dato anche realtà come le mense scolastiche, dove si continua a buttare un terzo del cibo cucinato e servito agli studenti. E proprio sul nodo dell'educazione alimentare insiste la campagna istituzionale, perché i giovani siano educati all'ottimizzazione delle dispense, incentivando al contempo i processi produttivi sostenibili. In questo senso, un dato decisamente incoraggiante lo riporta Andrea Segrè, direttore scientifico dell'associazione Spreco Zero: “Il 96% degli italiani insegna ai propri figli a non sprecare”.

Io Spreco Zero. Il libro

Sulla sensibilizzazione scommette l'iniziativa Io Spreco Zero, che il 23 e 24 settembre distribuirà in 1000 piazze italiane il libro antispreco realizzato dalla Comunità Papa Giovanni XXIII. Il vademecum – sessanta pagine con consigli per ripensare la propria giornata in chiave sostenibile, pasti compresi - sarà proposto in cambi di una donazione per finanziare il progetto Un pasto al giorno. E al capitolo contro lo spreco di cibo propone dieci ricette per valorizzare gli scarti, oltre a molti suggerimenti utili per limitarli, per esempio imparando a conservare meglio gli alimenti in frigo. Perché sprecare “significa letteralmente mandare in malora, e il rischio è quello di buttare il nostro futuro”.

Io spreco zero | nelle piazze italiane il 23 e 24 settembre 2017 | unpastoalgiorno.apg23.org/it/il-libro/

a cura di Livia Montagnoli

La Valle dei Mulini. Dove nasce la celebre pasta di grano duro di Gragnano

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Ogni dove ha un perché. Questo è il motto di Giuseppe Di Martino dello storico pastificio Di Martino di Gragnano. E il perché di Gragnano è proprio la pasta. Insieme all'imprenditore, ripercorriamo la storia di questa eccellenza made in Italy.

Il paesaggio di Gragnano

Da un lato, i Monti Lattari, catene rocciose che bloccano il passaggio dei venti da ovest verso est; dall'altro il mare, porto sicuro dove poter avviare un commercio, e nel mezzo, tramontana e scirocco, venti che si muovono fra le vie della città incanalandosi in ogni dove. “Non c'è da stupirsi se siamo diventati famosi per la nostra pasta: è veramente difficile, in una terra del genere, non riuscire a produrla”. A parlare è Giuseppe Di Martino, terza generazione alla guida di un'azienda d'eccezione, Pastificio Di Martino, e grande imprenditore del settore alimentare italiano. È lui, gragnanese doc, a spiegare la nascita del prodotto simbolo del made in Italy per antonomasia: la pasta di grano duro, ma non una qualsiasi. Quella di Gragnano, “un luogo che sembra essere stato creato appositamente con questo scopo”, un'eccellenza della gastronomia italiana che vanta dal 2013 il riconoscimento di Igp, indicazione geografica protetta.

“Ogni dove ha un perché”

A ripercorre origine ed evoluzione di questa specialità, dunque, è lui, ma attraverso le parole di Di Martino veniamo a conoscenza di tanti altri personaggi che hanno fatto la storia della pasta di Gragnano: Liguori, Afeltra, D'Apuzzo, DiNola,maggior produttore a livello nazionale fino agli anni '70”, e ancora altri Di Martino, “miei omonimi, la città è piccola e i cognomi in passato si ripetevano spesso”. Giuseppe oggi vanta tre linee produttive, Antonio Amato, Di Martino e Pastificio Dei Campi; quest'ultima è “la mia scuderia Ferrari”, spiega sorridendo, un prodotto di nicchia studiato su misura per chef professionisti. La strada percorsa da quel lontano 1912, anno di acquisto della bottega, è lunga e articolata, e si inserisce all'interno di un racconto ancora più ampio, quello di un Comune che proprio nella tavola ha trovato il suo punto di forza. “Ogni dove ha un perché, e il perché di Gragnano è la pasta”.

 

Pasta di Gragnano

Via Roma, il regno dei pastai

Essiccata naturalmente dalle brezze bloccate dai Monti e da quelli che arrivano dalla costa, alla fine del Cinquecento la pasta nasce in maniera spontanea, come unica conseguenza logica dei doni preziosi di una terra generosa. In principio fu via Roma la sede dei pastai, una strada che differisce da tutte le altre in città per larghezza e per il modo in cui si snoda a S, creando delle curve perfette per far incanalare il vento necessario all'essiccazione. Così, una dopo l'altra, le botteghe di pasta si susseguono in palazzetti stretti costruiti in asse, molti dei quali riportano ancora oggi le insegne di un tempo. “In passato la pasta veniva messa a essiccare sulle canne, che potevano arrivare fino a 2 metri e mezzo di altezza”. La parte finale di via Roma, dove il vento convoglia maggiormente, era quella riservata ai “pastafinari”, “artigiani particolarmente dedicati che producevano formati insoliti”.Botteghe di pastai, trafilari, canne per l'essiccazione: questi gli elementi caratteristici di via Roma, “che non era abitata, ma serviva solo per la produzione”. A testimonianza di questo, il basolato, “pavimentazione che trattiene molto bene il calore, perfetta per l'asciugatura della pasta, e presente solo in questa strada”.

L'essiccazione

A ogni formato, il suo tempo. Questa la prima regola per l'essiccazione della pasta. Per lo spaghetto, per esempio, in estate erano necessarie circa 30 ore, ma ogni tipologia è diversa, e tutte sono profondamente influenzate dal clima, il livello di umidità, la temperatura e l'escursione termina. “Il detto popolare narra che si impasta con lo scirocco e si asciuga con il maestrale, ma non esistono parametri fissi”. Quel che è certo, però, è il regime che consente ai venti di muoversi all'interno di Gragnano, quel fenomeno che nei secoli ha reso possibile la produzione di pasta. “La brezza termica è ciò che fa funzionare l'intero meccanismo di asciugatura. L'aria calda dalla parte più bassa della città si muove verso l'alto, ma i Monti Lattari la respingono indietro. Dal momento in cui incontra le catene montuose, l'aria inizia a girare e, ancora carica di umidità, asciuga la pasta”. Fondamentale in questa fase è proprio il livello di umidità, “che garantisce un'essiccazione graduale e costante”.

L'acqua

Oltre a fare da barriera ai venti, la montagna a Gragnano dona anche un alleato prezioso nella preparazione della pasta: l'acqua. “Il materiale roccioso qui è prettamente calcareo, vulcanico. Il terreno è leggero, e questo consente all'acqua di scorrere velocemente”. È l'acqua del torrente Vernotico, alimentato dalla sorgente della Forma, a fornire la materia prima ai vari mulini della valle. “Per noi gragnanesi quello dell'acqua è un tema serio. Ci sono due fontane, una in Piazza Leone, l'altra chiamata Asso di coppe, in piazza Aubry, dove converge l'acqua della Forma. Sono i due punti di ritrovo dei più giovani”. Sopra la sorgente della Forma c'è il cosiddetto imbuto dell'acqua, “creato per contenere la quantità e la potenza dell'acqua”.

La Valle dei Mulini

Due chilometri e poco più di verde sferzante, di pareti di tufo e acqua cristallina, sfumature cromatiche e natura incontaminata. È la Valle dei Mulini, un parco naturalistico poco conosciuto nella zona, ma imperdibile per chi si trova a passare per Gragnano. Qui, si dispiega un paesaggio unico nel suo genere, che un tempo custodiva quasi 40 mulini. “Oggi, ne sono rimasti 18, ma la Valle resta un luogo incantato per chi ama passeggiare fra la vegetazione più fitta”. Fra ruderi e arbusti, nella Valle ci si può perdere in un tratto naturale fermo nel tempo, ripercorrendo la storia dei pastai del passato. Anche grazie al lavoro di Giuseppe e il Consorzio Gragnano della Pasta, che da anni si impegna nella manutenzione e conservazione del territorio, “che va preservato il più possibile e con la massima cura. Solo per ricreare il muretto che costeggia la strada abbiamo impiegato 10 anni”. Nella Valle oggi è possibile anche percorrere degli itinerari specifici e, per gli amanti della natura, fare trekking seguendo dei tracciati segnati dal Comune.

Il grano duro: la memoria di forma

All'uovo, acqua e farina, ripiena. Le tradizioni legate ai primi piatti nel Bel Paese hanno origini remote e tutte affascinati. Ma cosa contraddistingue la pasta di grano duro? “La memoria di forma. Una volta scelto il formato, questo non cambia mai, neanche dopo la cottura”. E sono tante le forme della pasta di grano duro, dalle più antiche a quelle più moderne, create dalle aziende per rispondere alle richieste sempre più esigenti della clientela contemporanea. In origine però – e per molti anni – la pasta a Gragnano era solamente lunga, dagli spaghetti alle Mafaldine (conosciute anche come Reginelle), “inventate in occasione dell'arrivo della principessa Mafalda di Savoia a Gragnano, e ispirate proprio ai suoi lunghi capelli ricci”. I formati più corti erano solamente due, conchiglioni e paccheri, oltre alla pasta spezzata a mano, come le candele, “uno dei miei formati preferiti” o gli ziti. La pasta corta e rigata così come oggi la conosciamo nasce invece grazie ai romani: “Inizialmente veniva chiamata pasta 'formato Roma'. Dalla Campania in giù, anche oggi, la pasta di grano duro è tradizionalmente liscia”.Anche quella rigata però, ha ormai trovato un suo posto nelle tavole del Meridione.

La pasta di grano duro oggi

Dalle piccole botteghe di via Roma di fine Cinquecento a oggi sono stati tanti i passi in avanti fatti dai pastai di Gragnano. “Il disciplinare dell'Igp ottenuto nel 2013 impone dei canoni ben precisi, come la presenza per il 13% di contenuto proteico, l'impiego dell'acqua di Gragnano, che è un ingrediente di processo, e la trafilatura al bronzo”. La pasta resta un'invenzione urbana, ed è nelle città che ancora oggi viene consumata maggiormente: “Nelle campagne solitamente si fa ancora la pasta fatta in casa. Quella di grano duro è utilizzata soprattutto nei luoghi dove i ritmi di vita sono più frenetici, e lasciano poco tempo alla cucina”.

 

PastaBar

Un amore storico, quello degli italiani con la pasta, che sembra destinato a perdurare nel tempo. Nel 2017, sono soprattutto i più giovani a consumare abitualmente la pasta secca, circa 5 volte a settimana, se non quotidianamente. E crescono di pari passo anche format di ristorazione innovativi e originali, incentrati sul piatto simbolo della cucina tricolore. Come il SeaFront Pasta Bar di Napoli, una tavola informale con cucina a vista e le ricette di Peppe Guida all'interno dello store del pastificio inaugurato a maggio, e take-away con lo spaghetto pronto al consumo e in confezioni a portar via annesso alla bottega. Ma di questo, delle ricette più succulente consigliate da Di Martino in persona, del continuo successo della pasta di grano duro, ve ne parleremo più approfonditamente in seguito.

a cura di Michela Becchi

Marco Serra Gelatiere. Nuova avventura a Carignano per il maestro piemontese

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Dopo 4 anni a Torino, dietro al progetto Mara dei Boschi, Marco Serra riparte da casa sua, a Carignano, con un nuovo laboratorio per vendita e formazione. La sua storia nella gelateria è lunga, e si nutre di tanti stimoli, dalla ricerca sugli addensanti naturali al gelato gastronomico. Ci racconta il nuovo progetto. 

Marco Serra. Maestro gelatiere

Quando il gelato è buono? “Se c’è la passione, il rispetto per il prodotto, il cliente e per se stessi”. Marco Serra non ha dubbi. Non ne ha quando riflette sulla difficoltà di incontrare gelatieri coerenti (“oggi se ne sente una grande mancanza”), e nemmeno quando, dopo 30 anni di esperienza nel mondo della gelateria, ribadisce convinto la voglia di mettersi in gioco, ancora una volta. Ripartendo dalle origini, quelle della sua famiglia, una lunga tradizione di maestri gelatieri maturata a Carignano, 20 chilometri da Torino e una storia culturale e gastronomica da raccontare. Da una decina di giorni questa storia è anche la sua, tornato a casa per rilanciare l’immagine di Carignano, “un territorio ricco di stimoli da raccogliere, anche se in pochi oggi sembrano aver voglia di provarci”. Lui invece, dal 3 settembre scorso, è ogni giorno al suo posto, nel nuovissimo laboratorio che ha voluto chiamare semplicemente col suo nome, Marco Serra Gelatiere, primo embrione di un marchio registrato che sembra destinato a regalare grandi soddisfazioni, senza escludere di replicare altrove, magari all’estero (già arrivano chiamate da Los Angeles).

L’esperienza alle spalle è tanta: ci sono gli esordi in trasferta, a Barcellona, negli anni al servizio di molta ristorazione italiana in Spagna; poi il ritorno in Italia, i corsi d’aggiornamento frequenti, l’insegnamento, la passione per il gelato gastronomico e il perfezionamento di una ricetta personale e molto apprezzata. E, dal 2012, la lunga e soddisfacente parentesi Mara dei Boschi, pluripremiata gelateria torinese devota al gelato naturale, che oggi, oltre al primo punto vendita in San Salvario conta un altro negozio ad Alba. L’estate scorsa, il sodalizio finisce: “Dopo 4 anni molto intensi, avevo idee diverse da sviluppare. Anche i bei matrimoni finiscono, io ho scelto di cercare me stesso, ancora una volta, e con mia moglie Marina sono ripartito da Carignano”.

La gelateria di Carignano. Il gelato naturale

C’è voluto un anno di progettazione, per curare ogni dettaglio, frenando l’impazienza di ricominciare, che pure era tanta: “Ho avuto tempo per studiare cosa fare da grande!” scherza Marco, che di idee che bollono in pentola ne ha a iosa. Il giorno dell’inaugurazione, davanti al banco di via Trento (6 metri e 40, fulcro di un locale ristrutturato in prima persona, “bellissimo”), sono passate quasi 3000 persone, “un successo di pubblico inaspettato. E non mollano! Se avessi immaginato questa risposta, avrei aperto prima”. Del resto l’occasione è ghiotta, e la fama di Marco lo precede. Ogni giorno entra il laboratorio alle 5.30 del mattino, fino alle 13.30 si produce. Poi il gelato riposa per 8-12 ore di maturazione: “Nella nostra gelateria non abbiamo congelatori, produciamo ogni giorno. È tutto freschissimo”. I gusti “tradizionali” sono 16, tra frutta di stagione e creme. La ricetta mette da parte gli addensanti più comuni, per ottenere un gelato davvero pulito, e leggero: “Uso solo la maranta e la corteccia di baobab, che sono neutri al palato e lasciano spazio al gusto del prodotto principale”.

Il gelato gastronomico. E non solo

Poi c’è il gelato gastronomico, per ora un paio di chili al giorno in assaggio, ogni settimana un gusto diverso, ottimo per l’aperitivo. L’esordio è stato affidato al sorbetto al peperone, in omaggio a quello tipico di Carmagnola, servito con acciuga e cracker croccante. Ma verrà il momento delle olive taggiasche – “ottimo con una tartare di carne al coltello” – o del bagnetto al verde, protagonista della cucina piemontese, e persino del sorbetto alla bagna cauda (per la fiera del ciapinabò, il topinambur carignanese), “fino a quando saranno proprio i clienti a chiedermi di aumentare la produzione salata, con l’idea di servire a casa un antipasto diverso, a base di gelato”. Molte delle sue ricette, Marco Serra le porta in giro per il Piemonte e l’Italia, partecipando a numerosi show cooking; la comunicazione è sempre stata un suo pallino, come la formazione, “e nel nuovo spazio di Carignano (un piccolo caseggiato di due piani in centro città, ndr) abbiamo modo di farla, insegniamo ai ragazzi il nostro modo di fare il gelato”.

Ma in laboratorio, a vista e costantemente sotto gli occhi di chi passa davanti alle vetrine, si studiano anche nuove proposte, meglio se in omaggio alla storia del luogo: “A Carignano nel Settecento è nata la zest d’arancia, poi valorizzata dalla tradizione cioccolatiera, e presto renderò omaggio a questa invenzione”. Come arriverà il panettone, o il torrone a scalpello (il cliente si serve da solo, a partire dal blocco), in collaborazione con Ceretto. Si portano avanti progetti con Domori – “il quartier generale di Piobesi dista pochi minuti” – e con la Scuola di Arte Bianca di Carignano, “ma sarà una sorpresa”. E poi c’è la voglia di giocare con gli stereotipi, scombinandoli: “Esiste ancora la cremeria di una volta, dove sedersi a gustare una coppa di gelato in tranquillità? Appartiene a un immaginario passato, io voglio ricrearla a modo mio, in chiave pop. Sto cercando un bel dehors per realizzare il progetto”. A ringraziare c’è un bel bacino di pubblico, “facendo la somma dei piccoli paesi qui intorno potremmo contare 170mila persone, che di alternative per mangiare un buon gelato non ne hanno molte”. Tanti, non a caso, non hanno tardato a fare visita a Carignano, “forse ho seminato bene”, si schernisce Marco. E il forse si fa presto ad accantonarlo.

 

Marco Serra Gelatiere | Carignano (TO) | via Trento, 8 | dalle 11.30 alle 23 (il lunedì dalle 16, nel fine settimana fino a mezzanotte) | www.marcoserragelatiere.com

 

a cura di Livia Montagnoli

Tre Bicchieri 2018. Parla Luigi Zanini di Vinattieri Ticinesi

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Nell'immaginario comune la Svizzera è terra di laghi, cime innevate, cioccolata e formaggio. Quasi mai, invece, di vino. Peccato, perché negli ultimi anni ha prodotto non poche etichette interessanti.

Non siamo abituati ad annoverare, tra le regioni del vino, anche la Svizzera. Forse perché il suo percorso di qualità è storia recente. Ma negli ultimi 30 anni molte cose sono state fatte, prova ne sia il fatto che, quando abbiamo inserito nelle batterie di assaggio della guida Vini d'Italia, anche delle etichette svizzere, queste siano arrivate nella finale aggiudicandosi due Tre Bicchieri. La valutazione più alta, conquistata da due diverse aziende, entrambe di proprietà della famiglia Zanini.

Luigi Zanini è una figura centrale nell'enologia ticinese. La sua storia nel mondo del vino parte dal 1964 e si compone di studi e viaggi di approfondimento in Italia e in Francia fino alla nascita, alla metà degli anni '80, della cantina Vinattieri Ticinesi, “l’aristocrazia dei vini italiani in Svizzera”. Un centinaio di ettari di vigna sparsi in alcuni comuni del Mendrisiotto per una produzione quasi tutta concentrata su merlot. A questo affianca il marchio Castello Luigi che produce un blend tra merlot, cabernet sauvignon e franc di stile tipicamente bordolese e un bianco a base di chardonnay.

Nella guida Vini d'Italia 2018 il Merlot Vinattieri ’13 raggiunge l’eccellenza. Ha una forte personalità, dettata da un frutto succoso, tannini levigati e lunga persistenza. Tre meritatissimi Bicchieri. Sullo stesso stile, anche se con minori complessità, si esprime il Ligornetto. È un vino che sa farsi valere per eleganza e freschezza. Piacevole pure il Roncaia ‘14.

 

Parliamo del vino elvetico: quali sono le varietà più coltivate; quali sono le zone maggiormente vocate?

Dipende dalle zone: nel Cantone dei Grigioni il vitigno di riferimento è il pinot nero, la Svizzera francese è più riconosciuta per i vini bianchi, mentre il Ticino è terra di merlot.

 

Come mai proprio il merlot?

La presenza del merlot, qui da noi, risale al 1906 quando le prime piante di questo vitigno arrivano nella nostra zona da Bordeaux. I nostri terreni sono molto adatti a questa produzione, abbiamo un bellissimo microclima con tanto sole, abbiamo le montagne che ci danno la frescura, abbiamo i laghi. È una piccola regione molto vocata.

 

Piccola quanto? Di che dimensioni parliamo?

In Ticino contiamo, in totale, 1100 ettari vitati.

 

Come mai, secondo lei, c'è questa difficoltà a pensare alla Svizzera come un Paese del vino?

Rispondo con la nostra storia: noi Vinattieri abbiamo cominciato nell'85 con l'idea di dare un'impronta diversa alla vitivinicoltura rispetto a quella che c'era stata fino a quel momento. Solo a partire dalla metà degli anni '80, quindi, abbiamo dato un impulso alla produzione di qualità.

 

In che modo vi siete mossi?

Abbiamo seguito la filosofia bordolese, dato il vitigno, siamo stati i primi a usare i sistemi di invecchiamento tipici della zona di Pomerol e Bordeaux

 

Parliamo di consumi. Quali sono i vini più bevuti in Svizzera?

Siamo, in linea generale, un buon produttore, e abbiamo un buon mercato interno. Gli svizzeri sono una clientela molto attenta alla qualità. Amano i vini locali, ma gli piace provare e assaggiare tanti prodotti, anche non svizzeri. Non bisogna dimenticare, poi, che il nostro è un mercato rilevante anche perché c'è molta clientela internazionale, quindi nei ristoranti ci sono, spesso, carte dei vini importanti per qualità e quantità.

 

Che vini stranieri si bevono?

Italiani e francesi, soprattutto.

 

In particolare, quali gli italiani più amati?

Piacciono molto i vini veneti, Valpolicella Ripasso e Amarone, vini con certo carattere. Credo che siamo tra i più grandi consumatori mondiali di queste tipologie.

 

Oltre che sul vostro territorio, dove si beve vino svizzero?

Cerchiamo proprio in questi ultimi anni di portare la nostra produzione oltre i nostri confini, siamo un piccolo mercato, una realtà di nicchia. I sommelier e gli addetti ai lavori, per esempio quelli dei grandi alberghi, sanno che siamo buoni produttori di buona qualità.

 

Quanto crede sia importante per il comparto vitivinicolo ticinese la presenza su una guida come quella del Gambero Rosso?

È un importante strumento in più per arrivare anche all'estero che sancisce la qualità della nostra produzione.

 

Vinattieri Ticinesi | Zanini | Svizzera | Ligornetto | Via Comi | tel. +41 (0)91 6472332 | http://www.zanini.ch/

 

 

a cura di Antonella De Santis e William Pregentelli

 

 

 

 

Super Size Me 2: Holy Chicken. Seconda puntata del documentario contro fast food e allevamenti intensivi

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Dopo il junk food del Mc Donald's, il regista americano Morgan Spurlock punta il dito contro gli allevamenti di pollo. I primi dettagli sul nuovo film documentario.

Il regista

Quando sei un regista rivoluzionario, un professionista che, per primo, ha fatto luce su un tema controverso, la pressione da parte dei cinefili più appassionati per un secondo film di successo è alta. Specialmente se il tuo nome è Morgan Spurlock, e oltre 10 anni fa hai creato un documentario di denuncia contro i fast food.

È il 2004 quando il giovane regista statunitense presenta al pubblico americano i risultati della sua ricerca: 100 minuti per sconfessare e mettere a nudo i prodotti utilizzati nelle più grandi catene di fast food. È l'inizio del 2000, e il settore dell'alimentazione è ancora un ambito assai più ristretto e di nicchia rispetto a oggi. La conoscenza del cibo e la consapevolezza dei consumatori è molto distante da quella attuale, ma il campanello d'allarme per una popolazione che conta un numero di persone in sovrappeso sempre maggiore è già scattato. E Spurlock cattura, minuto dopo minuto, la quotidianità dei consumatori americani, calandosi in prima persona nel ruolo dell'occidentale medio, con un'immedesimazione così ostinata da risultare innaturale. Tre pasti al giorno per 30 giorni, tutti presso i punti Mc Donald's. Questa la sfida provocatoria intrapresa dal regista, che nella sua pellicola fornisce, attraverso un'analisi lucida, un'istantanea dei disturbi alimentari che affliggono un'intera popolazione.

Il film

Tredici anni dopo il film che ha sbancato il botteghino, Spurlock torna con un sequel dedicato alla carne di pollo:Super Size Me 2: Holy Chicken, ancora una volta con il regista come protagonista. Ambientato in Ohio, il film si concentra sull'industria del pollame e cerca di chiarire alcuni punti fondamentali, sdoganando luoghi comuni e falsi miti circa la carne bianca. La trama è semplice e lineare: Spurlock apre un suo fast food specializzato nel pollo, cercando di capire dall'interno come funziona il business. Si entra così nell'ambito dei cibi processati, dell'alimentazione industriale e del sistema agroalimentare che è alla base delle catene di paninerie e fast food sparse in tutto il mondo. Perché ancora oggi, fra la maggior parte dei consumatori è diffusa l'idea che quella di pollo sia una carne magra e adatta per ogni tipo di dieta, sana e a basso contenuto calorico. Ma per gestire il suo ristorante, Spurlock è costretto a recarsi di persona dai produttori di pollo, e vedere dal vivo il mondo degli allevamenti intensivi.

La denuncia all'industria della carne parte dalle sue fondamenta più semplici, come la definizione di “Free-Range”, che identifica le galline allevate a terra, un'etichetta che, grazie al lavoro del regista, scopriremo essere molto più labile e fragile di quanto immaginiamo. E ancora, uno dopo l'altro, il film prende in esame i termini più popolari fra gli scaffali dei supermercati, conducendo per ognuno un'indagine specifica. Biologico, privo di ormoni, naturale... Definizioni con le quali ogni consumatore ha a che fare quotidianamente, ma che non sempre corrispondono alla realtà. Perlomeno in America, che - lo ricordiamo - è ancora una volta il territorio dove il regista ha deciso di indagare, un luogo con norme e regolamenti di sicurezza alimentare ben diversi da quelli italiani. A chiarire ogni dubbio in ogni caso, ci auguriamo, ci penserà la pellicola già rilasciata negli Stati Uniti lo scorso 8 settembre. Nessuna indiscrezione, ancora, su una possibile uscita nelle sale italiane, ma secondo le interviste della stampa estera, Spurlock è in cerca di un accordo per diffondere il film via YouTube.

a cura di Michela Becchi


Pantelleria Passitaly 2017, l'anno della svolta

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La manifestazione ha posto le basi per un nuovo corso all'insegna del riconoscimento Unesco alla vite ad alberello, del neonato Parco nazionale e della ritrovata unità nel Consorzio di tutela. L'obiettivo è una giusta remunerazione per il lavoro degli eroici vignaioli panteschi

La viticoltura eroica e la prospettiva turistica

"È stato versato più sudore per dissodare i declivi dove si trovano i filari delle viti che a tirar su le piramidi... Il muretto di pietre è segno di ostinatezza, la foglia della vite di pudore, il grappolo di benessere " scrive Predrag Matvejević nel suo libro Breviario Mediterraneo. Pantelleria, con i suoi 5.000 km di muretti a secco è il massimo esempio della viticoltura eroica delle piccole isole italiane. Una storia millenaria di sudore e di fatica che ha indelebilmente forgiato il paesaggio.

Qui i contadini per sopravvivere hanno inventato delle raffinatissime tecniche agronomiche (vite ad alberello, olivo sviluppato in orizzontale, domesticazione del cappero selvatico) ed architettoniche (dammusi, giardini panteschi, muretti a secco) che non hanno eguali nel Mediterraneo. Oggi però è un equilibrio difficile da mantenere: il grappolo non è più simbolo di benessere come in passato, mentre l'abbandono delle terre e dei vigneti è costante. Per questo la quarta edizione di Passitaly (7-10 settembre scorso) sarà ricordata per aver segnato l'inizio di una nuova fase della vicenda pantesca. Infatti messi da parte i tanti motivi di divisione esistenti, è prevalsa l'idea di assicurare un futuro a Pantelleria, al suo territorio, alla sua vitivinicoltura mettendo "in linea un sistema che vede nel riconoscimento Unesco, nell'Istituzione del Parco nazionale e nel Consorzio di tutela della Doc di Pantelleria - nuovi strumenti operativi e nuove opportunità”ha spiegato Salvatore Gabriele, sindaco dell'isola. “È una risposta di civiltà che propone una visione integrata del sistema produttivo agricolo con quello del turismo. La sfida è quella di offrire alle nuove generazioni una prospettiva in una agricoltura di pregio da vivere con entusiasmo e redditività”.

Vigneto a pantelleria

2017, un'altra vendemmia difficile

Dopo aver vissuto nel 2016 una vendemmia difficile l'annata 2017 non si presenta in modo migliore. Secondo le stime, a causa delle avversità meteo-climatiche che si sono susseguite, il raccolto non sarà superiore a 15.000 quintali, in calo rispetto all'anno precedente (circa 17.000 q.li) contro i 25-30.000 quintali dell'ultimo decennio. Da un punto di vista della qualità secondo AntonioD'Aietti, storico enologo pantesco dell'azienda Vinisola “Le poche uve raccolte saranno ottime per il Passito, mentre lo saranno meno per i vini tranquilli”. LorenzoLandi,enologo dell'azienda Coste Ghirlanda, commenta così “In un luogo così estremo come Pantelleria quando c'è una vendemmia così, anche i risultati sono estremi. Lo zibibbo è un'uva in grado di sopportare molto ma anche i nostri migliori vigneti come Coste hanno sofferto. Buone le uve ma la quantità è proprio scarsa”.

 

Il Consorzio volontario per la tutela e la valorizzazione dei vini Doc di Pantelleria

Con la richiesta di Donnafugata, la più grande azienda vitivinicola di Pantelleria con 68 ettari di vigneto di proprietà, di entrare a far parte del Consorzio, quest'ultimo diventa lo snodo centrale nell'ambito del progetto di rinascita della vitivinicoltura dell'isola. “Abbiamo deciso di mettere da parte gli elementi di divisione per rafforzare ancora di più i tanti motivi di unione” ci ha dichiarato Josè Rallo che insieme al fratello Antonio, gestisce l'azienda. L'adesione arriva dopo anni di “freddo” e apre una nuova fase per la valorizzazione del Passito di Pantelleria. Attualmente al Consorzio, presieduto da Benedetto Renda, amministratore delegato della Carlo Pellegrino, leader di mercato nella produzione (65%) dei vini di Pantelleria, sono associate le Aziende Vinicole Miceli, Gaetano e Fabrizio Basile, l'azienda Serraglia, Salvatore Murana, Vinisola, Donnafugata e oltre 320 viticoltori. È possibile che sulla scia di Donnafugata, secondo le voci che abbiamo raccolto, altre aziende – sono in attività una ventina di cantine - seguano l'esempio. Comunque già sin d'ora gli associati al Consorzio rappresentano oltre il 70% della superficie vitata e l'80% dell'imbottigliato, condizioni di rappresentatività più che soddisfatte (min 40% dei viticoltori e almeno il 66% della produzione certificata) per richiedere di esercitare la vigilanza “erga omnes” su tutti gli utilizzatori della Doc. “Il Consorzio avrà sempre più un ruolo importante come cinghia di trasmissione tra i produttori, la comunità e il Parco azionale”afferma il presidente Benedetto Renda Questa aggregazione ci può consentire di dare maggiore forza e credibilità alle azioni da intraprendere. Negli ultimi anni abbiamo visto sempre di più crescere l’interesse per Pantelleria soprattutto da parte di quei paesi dove è apprezzato il Passito. Nell’immediato punteremo sul connubio Pantelleria/Passito per far conoscere sempre di più l’isola anche in quei paesi dove ancora il suo valore è ancora sconosciuto”.

 

Una strategia di lungo termine condivisa

Per combattere l'abbandono della vitivicoltura e facilitare il turnover generazionale, bisogna arrivare a remunerare sempre più le uve e in generale il lavoro degli eroici vignaioli di Pantelleria. Per farlo è necessario incrementare la domanda attraverso l'incoming turistico, l'unico in grado di generare nuovo reddito per la filiera vitivinicola. “Una campagna di promozione (Pantelleria/Passito) che mette insieme tutte le energie dei produttori”ha aggiunto AntonioRallo, nella veste di presidente della Doc Sicilia “ci potrà consentire di valorizzare le nostre produzioni contribuendo così a preservare dall’incuria e dall’abbandono questo territorio con i suoi muretti a secco e i suoi terrazzamenti”.

Il riconoscimento Unesco e il Parco nazionale

La pratica agricola della coltivazione della vite ad alberello di Pantelleria è stata iscritta il 26 novembre 2014 nella Lista rappresentativa della convenzione per la salvaguardia del Patrimonio Culturale Immateriale Unesco, dopo un iter durato 4 anni. È la prima tradizione rurale al mondo a essere riconosciuta quale Patrimonio dell’Umanità. “Il riconoscimento Unesco”ha spiegato Luca Bianchi, Capo dipartimento del Ministero delle Politiche Agricole “valorizza questo grande lavoro fatto nel tempo dal contadino pantesco. È un patrimonio da mettere in campo per agevolare la nascita di nuove attività commerciali di natura agroalimentare che possano dare sviluppo, crescita e reddito a questa terra”. A questo proposito, il prof. Pier Luigi Petrillo, responsabile dell'Ufficio Unesco del Ministero delle Politiche Agricole e membro del Comitato di gestione del riconoscimento Unesco, ha comunicato che tra le linee guida in corso di approvazione “Si è deciso in primo luogo di permettere ai viticoltori panteschi di inserire nella retro etichetta dei loro vini, la dicitura Prodotto secondo una pratica agricola dichiarata Patrimonio dell’Umanità. In questo modo si dà la possibilità di comunicare l’identità dell’isola dando un informazione aggiuntiva sull’unicità e l’eccellenza di quel prodotto”.

 

uve zibibbo in appassimento

Una pratica agricola identitaria

La vite ad alberello collocata in una conca è la tipologia tradizionale di allevamento che le famiglie pantesche si tramandano da generazioni. Il riconoscimento Unesco inoltre è stato importante per arrivare, nel luglio 2016, all’istituzione del Parco nazionale di Pantelleria, prima area naturale protetta nazionale in Sicilia e ultimo (24°) parco nazionale italiano. Durante la manifestazione sono state inaugurate “le piazze Unesco” con l'apposizione di targhe celebrative nelle contrade di Mueggen, Serraglia, Bugeber, Bukkuram e Tracino in piazza Perugia, da cui partiranno gli itinerari del Parco nazionale di Pantelleria. “Pantelleria è uno dei territori su cui l’Italia deve investire”ha evidenziato Sandro Casano, presidente del consiglio comunale “in termini di innovazione, idee e risorse. Pantelleria e le isole minori rappresentano un patrimonio di inestimabile ricchezza dove l’uomo ha stabilito un equilibrio con la natura, diventandone parte integrante. Se però viene meno la figura del contadino, rischiamo di spezzare questo equilibrio. E noi non possiamo permetterlo”.

 

Un messaggio di unità

Sarà un lavoro lungo, non privo di contraddizioni, ma da Passitaly 2017 è partito un messaggio di condivisione e di unità di intenti, tra il mondo delle imprese, gli enti pubblici, il parco che fa ben sperare per il futuro. Passitaly 2017 è stata promossa dal Comune di Pantelleria con il patrocinio del Ministero delle Politiche Agricole e il Consorzio volontario per la tutela e la valorizzazione dei vini Doc dell’isola di Pantelleria, con la partecipazione delle aziende Carlo Pellegrino, Donnafugata, Vinisola e Salvatore Murana.

 

a cura di Andrea Gabbrielli

 

Anteprima Tre Bicchieri 2018. Liguria

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L'anticipazione dei premiati della nuova guida Vini d'Italia 2018 oggi ci porta a scoprire i migliori vini della Liguria

Per tanti la Liguria è solo sole, mare, cene rilassate e divertimento estivo. Che la Liguria produca invece ottimi vini sfiora la mente di pochissimi. Eppure è così. Questa regione incastrata tra mare e montagna è in grado di offrire vere e proprie perle enologiche, anche se i vigneti non danno nell'occhio e sono spesso nascosti da boschi o colline. I viticoltori liguri hanno saputo, sovente a costo di sforzi economici e personali ingenti, recuperare la poco terra disponibile per metterci a dimora i classici vitigni autoctoni (vermentino, pigato, bianchetta, bosco, rossese) e qualche bel outsider (ormeasco, granaccia, syrah) che si è felicemente ambientato al clima della regione. Dopo decenni poco gloriosi durante i quali la qualità media dei vini non è sempre stata degna degli sforzi dei contadini e della bellezza mozzafiato di certi versanti vitati, si assiste da una decina di anni a una crescita percepibile e costante che permette alle produzioni regionali di confrontarsi senza timori reverenziali con il meglio dell'enologia nostrana.

L'arrivo, in qualche caso, dell'ultima generazione all'interno di aziende storiche o più semplicemente l'apertura di nuove piccole realtà vitivinicole ha dato linfa vitale a tutto il comparto. Le giovani leve non si accontentano più di vendere l'intera produzione in loco, spesso hanno la sana e stimolante ambizione di piacere alla stampa italiana e straniera. Hanno capito che, nell'era della globalizzazione, piacere solo ai tuoi vicini può non essere sufficiente. Tornando invece all'attualità, la vendemmia 2016 è senza alcun dubbio ottima, anche se difetta un po' dell'immediata piacevolezza della 2015. Insieme queste ultime due annate regalano alla regione 7 Tre Bicchieri. Un ottimo risultato per una regione che può contare su poco più di 1500 ettari vitati. Come sempre i premi si dividono quasi equamente tra Levante e Ponente, tra Vermentino e Pigato, con l'unica aggiunta rossa del Dolceacqua di Ka' Manciné. Questo palmarès rispecchia fedelmente la viticoltura ligure: i bianchi regionali - ad est brilla il vermentino, mentre a ovest il pigato non teme rivali - rappresentano circa il 70% dell'intera produzione regionale.   


I vini della Liguria premiati con Tre Bicchieri

Colli di Luni Vermentino Costa Marina ’16 - Ottaviano Lambruschi

Colli di Luni Vermentino Lunae Et. Nera ’16 - Cantine Lunae Bosoni

Colli di Luni Vermentino Sup. Fosso di Corsano ’16 - Terenzuola

Dolceacqua Beragna ’16 - Ka' Manciné

Riviera Ligure di Ponente Pigato Albium ’15 - Poggio dei Gorleri

Riviera Ligure di Ponente Pigato Bon in da Bon ’16 - BioVio

Riviera Ligure di Ponente Pigato U Baccan ’15 - Bruna

 

 

Mangiare a Brescia. 4 nuovi indirizzi giovani da provare in città

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Il panorama della ristorazione bresciana inizia, finalmente, a far parlare di sé. Dalle caffetterie specialty ai ristoranti vegani, ecco 4 nuove insegne da provare nella città lombarda. 

La ristorazione a Brescia

Una cucina povera, frutto del rapporto con la terra, ma che non rinuncia al pesce di acqua dolce (lucci, tinche, anguille, aolette) dei vicini laghi di Garda e Iseo, una tavola contadina autentica, con ricette di umili origini, e una prestigiosa tradizione vinicola, proprio a pochi chilometri dalle bollicine più celebri d'Italia, a chiudere il cerchio. Nonostante il suo ricco patrimonio gastronomico, Brescia è stata per tempo una provincia silenziosa, poco chiacchierata, dove la scena della ristorazione è rimasta ancorata negli anni a una serie di indirizzi storici validi, ma già noti. Come spesso accade in questo settore, però, le città riescono a cambiare pelle in maniera repentina, grazie all'intuizione di imprenditori capaci e risoluti. E Brescia, con 4 nuovi indirizzi aperti nel corso dell'ultimo anno, ne è un fulgido esempio.

 

Tostato, caffè di qualità e arredi d'eccezione

Era l'inizio del 2016 quando gli appassionati dell'oro nero salutavano con entusiasmo l'apertura di Estratto, bar in pieno centro storico di Brescia gestito da Mauro Lussignoli e ispirato al modello delle caffetterie del Nord Europa. Meno di due anni dopo, un nuovo indirizzo dedicato alla tazzina amplia la lista dei bar di ricerca della città. Si chiama Tostato e aprirà i battenti il prossimo 23 settembre, con un'inaugurazione originale affidata a un'ape Piaggio trasformata per l'occasione in bar ambulante. A coadiuvare il progetto, Alberto Nevola, figlio di torrefattori che, da 3 anni a questa parte, ha scelto di intraprendere una strada tutta sua, viaggiando alla scoperta di aromi e gusti particolari e provando le caffetterie migliori di Europa. Dopo essersi formato presso la 9bar, ha scelto di creare un locale tutto suo, dove poter offrire espressi, cappuccini, caffè filtro e anche il caffè preparato con la moka. In uno spazio ampio suddiviso in aree diverse a seconda del tempo di degustazione: “Non tutti i consumatori possono concedersi molto tempo per un caffè, per cui ogni cliente può scegliere la sala dove accomodarsi in base ai minuti che ha a disposizione”. Per il caffè filtro, per esempio, ci sarà un ambiente più accogliente, con poltrone e tavolini più ampi, mentre per l'espresso, sgabelli e un lungo bancone. A curare il progetto architettonico e gli arredi, Federico Tinti della LabZona, studio bresciano che si occupa di architettura e interni. La carta dei caffè è ampia e comprende torrefazioni d'eccezione come DittaArtigianale, LittleBean, LePiantagionidelCaffè, ma il bar offre anche tè in foglia Dammann Frères, infusi di erba e frutta e tisane, oltre a una piccola selezione di vini del territorio e cocktail al caffè. Sul fronte della gastronomia, troviamo invece le preparazioni classiche della tradizione anglosassone, club sandwich, pancake, yogurt con granola per il brunch, e poi insalate, panini e brioche fresche della pasticceria Bosco Corsica, “una realtà giovane, ma molto valida”.

 

Nuovi format: Alimento, fra gelati e focacce

C'è poi chi ha scelto di puntare su formule nuove e insolite, proprio nel cuore della città, a pochi passi dal Tempio Capitolino. Quella fra il maestro gelatiere Cesare Rizzini (ex Nocciola di Monticelli Brusati) e lo chef Michele Valotti de La Madia, ristorante d'autore di Brione, è un'amicizia fondata su passioni condivise e filosofie comuni, come il rispetto della materia prima, la ricerca di prodotti di nicchia, la sperimentazione. L'idea per il loro locale, aperto lo scorso aprile, è nata quasi per caso: “Cesare stava ultimando i lavori per creare un nuovo laboratorio di produzione quando ci siamo resi conto che l'ambiente ristrutturato sarebbe stato perfetto per un punto vendita comune”, racconta Michele. Così, i due amici hanno scelto di creare uno spazio dedicato al gelato e alle focacce artigianali, “Cesare è molto bravo con le lievitazioni”, con un'attenzione particolare alla cucina. I condimenti sono opera dello chef e cambiano di continuo: “Abbiamo preparato la focaccia con maiale cotto nel tè rosso, crema di patate e pere, e poi ancora quella con sarche essiccate al sale di Iseo, oppure formaggi del territorio e verdure biologiche”. Particolare, poi, la scelta dei fermentati: “Produciamo e vendiamo una linea di verdure fermentate, e stiamo avviando la vasocottura. Il nostro obiettivo è quello di offrire una proposta diversa, e creare così una nuova richiesta”.

 

La cucina vegana de Le Notti di Cabiria

Non è difficile intuire dal nome di ispirazione felliniana lo stile e la natura di questo insolito ristorante nei pressi della stazione metropolitana San Faustino. Gli arredi sono in perfetto stile fine anni '50, con colori accesi, vasi di piante in ogni angolo, sedie imbottite dalle linee geometriche, lampadari voluminosi, velluti e mobili vintage, ma la cucina è fresca e moderna, con piatti dal gusto contemporaneo prettamente vegani. Ad avere l'idea è stato Gianluigi Bonometti, proprietario della Vineria Dolcevite, locale poliedrico con un occhio di riguardo ai vini naturali. “Abbiamo aperto alla fine del 2016, optando per una cucina vegana ma con un menu che comprenda anche qualche piatto di pesce per gli amanti del genere”. Vegani o meno, i piatti de Le Notti di Cabiria sono tutti “leggeri e digeribili”, perché il concetto alla base del ristorante è quello di offrire ai consumatori “un pasto buono che non appesantisca”. Le materie prime sono tutte locali, biologiche e, naturalmente, stagionali, mentre la carta dei vini riprende molte delle etichette naturali disponibili da Dolcevite.

 

I cocktail della Riserva del Grande

Proprio dietro il bancone di Dolcevite (ma anche dietro quello del Carmen Town e di altri locali della movida bresciana) si è fatto le ossa Ampelio Zecchini, giovane barman appassionato da poco alle prese con il suo locale Riserva del Grande. Qui sono i cocktail più ricercati a farla da padroni, drink a base di distillati di prima scelta e infusioni fatte in casa, ma il menu non rinuncia anche a una selezione di vini naturali e birre artigianali.

 

Alimento | Brescia | via Agostino Gallo, 6 | www.alimentofood.com/

Le Notti di Cabiria | Brescia | via Porta Pile, 19 | tel. 03 02808370 | enottidicabiria.it/

Riserva del Grande | Brescia | via Paganora, 6 a | www.facebook.com/Riserva-del-Grande-264971503912567/

Tostato | Brescia | via Fratelli Porcellaga, 28 | tel. 338 9979139 | www.facebook.com/Tostatospecialtycoffees/ | dal 23 settembre 2017

 

a cura di Michela Becchi

 

Apre il primo Dumpling Bar di Roma. Gianni Catani e la vera cucina cinese, dai ravioli all'anatra

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Alla metà di ottobre, Gianni Catani si prepara a inaugurare il suo nuovo dumpling bar, dopo il successo della ravioleria estemporanea aperta per qualche mese a Prati. E il discorso si fa molto più serio. Ecco come sarà e perché la cucina cinese, quella autentica, merita di essere scoperta. 

I ravioli cinesi che hanno conquistato Roma

In via dei Vitelleschi, zona Prati, il dumpling bar estemporaneo di Gianni Catani ha chiuso i battenti da qualche giorno appena, dopo un'estate di fuoco. Eppure lui, che la cucina cinese ce l'ha nel sangue, da quasi 30 anni, è impaziente di ricominciare: “Sono 3 giorni che non lavoro, mi manca già”. Infatti la ripartenza non si farà attendere, tempo un mese e il nuovo dumpling bar – in forma molto più articolata e soddisfacente, per chi ci lavora e per chi deciderà di provarlo – ritornerà a servire quei ravioli cinesi che hanno conquistato i romani. Ben oltre le più rosee aspettative: “Abbiamo cominciato appoggiandoci in un locale non nostro, volevo concretizzare un progetto che maturavo da 15 anni. Ma la risposta della città è stata del tutto fuori misura. Praticamente ci ha costretto a chiudere, per non creare disservizi”. I numeri parlano chiaro: circa 120 persone ogni sera, con lunghe attese in strada per accaparrarsi una porzione di ravioli; 19mila dumpling prodotti e serviti in un mese.

La (vera) cucina cinese

Un premio per il coraggio di proporre ricette autentiche e sapori non filtrati da quella occidentalizzazione del gusto che è propria di molte cucine orientali a confronto con la richiesta europea: “Oltre trent'anni fa, con i primi ristoranti aperti nel nostro Paese, i cinesi hanno provato a far mangiare agli italiani la propria cucina. Non è piaciuta, e hanno scelto di italianizzarla. Sono bravissimi in questo: per ogni Paese identificano una caratteristica. Noi siamo stati classificati come mangiatori di fritto, e via con involtini primavera e riso alla cantonese. Loro invece sono attentissimi all’alimentazione, non mangiano fritto, fanno una cucina leggerissima, c’è dietro una filosofia zen”. Gianni l'ha sperimentato sulla sua pelle, da molti anni la sua passione totalizzante l'ha portato ad abbracciare l'alimentazione cinese in tutto e per tutto, anche quando mangia in casa. E i romani che nei mesi scorsi hanno provato con curiosità i suoi ravioli – 12 diversi ripieni, con 5 salse in abbinamento, nel rispetto di tradizioni regionali millenarie – sembrano avergli dato ragione: “Temevo di proporre ricette troppo invasive per il gusto italiano, invece molti sono affascinati dall'originalità. Ho avuto successo anche con l'aglio, le spezie piccanti”. Certo, i pregiudizi sono sempre dietro l'angolo: da diversi anni Gianni gestisce un portale, la Cina in Cucina, e si dedica alla valorizzazione delle cultura gastronomica cinese. Gli stereotipi cerca di combatterli ogni giorno: “Ancora mi chiedono di topi, cani... I soliti cliché”.

Gianni Catani. Una vita in cucina per amore della Cina

Lui, figlio di una cuoca, l'amore per la Cina l'ha scoperto presto, negli anni Ottanta. E ha fatto una scelta radicale: avrebbe proposto le ricette che l'avevano incantato, nel modo più genuino possibile. Facile a dirsi: “Ho cominciato con i video, ne guardavo moltissimi, cercavo di replicare i piatti. Il risultato? Dei pastoni immangiabili. Avevo bisogno di un maestro”. I primi anni, passati in un ristorante cinese, sono trascorsi all'insegna di pollo alle mandorle e gelato fritto, consapevole che quella non era la strada che stava cercando: “Poi, 9 anni fa, ho incontrato Jing, il mio guru. Lui mi ha voluto adottare, abbiamo ricominciato da capo”. Con rigore estremo, quasi fosse un'iniziazione la sua: “Sono stato 6 anni a guardare senza toccare, facevo i video, poi riproducevo. In Cina si comincia da bambini: li addestrano a maneggiare il wok, a 5 anni, per imparare il movimento giusto, che è molto difficile. Poi entrano in cucine per 1000 persone, all'inizio guardano. Si testa la loro tenacia: il mestiere sarà faticoso e devono essere pronti”. Questo, e molto altro, Gianni l'ha imparato da Jing Shan (chef di Kaiyue, a piazza Vittorio, e socio del dumpling bar in cantiere). Ma ha viaggiato molto in Cina, sulla via della Seta, nel deserto a nelle città del Nord, “quelle più interessanti per scoprire la cucina tradizionale”. Ma anche nelle grandi metropoli. A Pechino si è innamorato dell'anatra alla pechinese, quella autentica, “cotta in forni alimentati con legno di ciliegio, e servita in strada, semplicemente fatta a pezzi, 4 euro a porzione”. Molti dei video che ha girato li proietterà sugli schermi del nuovo locale, per raccontare un po' della sua Cina ai romani.

 

Il Dumpling Bar di piazza Meucci

Ma quindi, come sarà il dumpling bar che ha sempre sognato? Una cinquantina di coperti in sala, e un dehors su strada per trenta persone. La cucina non sarà grande, ma due ragazzi (il team, escluso Gianni, è tutto cinese) lavoreranno a vista, alla preparazione dei ravioli, fatti sul momento. Al locale di Piazza Meucci, quartiere Marconi, i lavori stanno terminando: intorno al 20 ottobre tutto dovrebbe essere pronto. Di dumpling bar in Italia non ce ne sono molti (“mi piacciono i ravioli di via Sarpi, ma il concetto è diverso dal mio progetto”), a Roma l'idea è piuttosto nuova. E Gianni pensa in grande: “Sarà un ristorante vero e proprio, con servizio al tavolo, ma anche molto attento al take away, con servizio a domicilio secondo esigenza: i ravioli li proponiamo freschi da cuocere a casa, già bolliti e da ripassare alla griglia, o pronti per essere mangiati”. Al tavolo, invece, si sceglie tra diverse proposte: ravioli, chiaramente, alla griglia o cotti al vapore, con farciture stagionali per tutti i gusti (e salse home made in abbinamento): “Tante verdure, com'è proprio della cucina cinese, poi due ripieni a base di uova, quello ai gamberi e bambù, le alternative con la carne, compresa la mia ricetta con l'agnello, che cerca di replicare l'incredibile raviolo con lo yak del monastero del Labrang”. E poi noodle alla piastra, in tre varianti, spaghetti e ravioli in brodo, dim sum - “la degustazione di piccole portate, ravioli e bocconi simili alle tapas, servite con il tè, che proporremo anche come aperitivo” - e qualche asso nella manica. Come lo Xiao long bao, un raviolo ripieno di brodo bollente, servito in cucchiaio.

I ravioli cinesi. E l'anatra

Del resto di ravioli ne esistono varianti infinite, per ognuna delle 8 regioni gastronomiche della Cina, “nonostante i cinesi non mangino abitualmente dumpling: per loro è un cibo propiziatorio, come le nostre lenticchie a Capodanno. In casa li preparano solo in occasioni speciali, in molti ristoranti non sono in menu, anche se esistono locali specializzati. Ma è l'arrivo in Occidente che li ha sdoganati, a Hong Kong oggi spopolano i dumpling bar”. Un'altra chicca sarà proprio l'anatra, cotta sul girarrosto secondo l'uso pechinese, “ne serviremo sei al giorno, divise a metà: solo 12 porzioni, a cena, a 7 euro l'una”. I prezzi si mantengono popolari su tutta la linea: 5 euro per una porzione piccola di noodle - “per provarne diversi” - 4 per una di ravioli, 5 pezzi a porzione. Alla ricette collabora Jing (“che ne conosce 700 a memoria!”), per la manualità Gianni si è affidato a uno specialista del genere, Simone è il suo nome italianizzato: “Prepara ravioli all'aeroporto, per gli equipaggi delle flotte aeree cinesi”. Da bere tè, con i suggerimenti di un'esperta che si è formata in Cina e lavora nel settore da 10 anni, e birre artigianali, anche cinesi, oltre al vino. Si aprirà a pranzo e cena, fino a tardi, nel pomeriggio per corsi di cucina e workshop. Sperando di scongiurare le file, “l'esperienza dev'essere comunque veloce, non a caso non serviamo dessert”. Con un'altra sorpresa nel cassetto: un dumpling bar più piccolo, che servirà solo ravioli, in via del Porto Fluviale, a pochi passi dalla gelateria la Romana. E la voglia di far crescere il format, per arrivare anche all'estero. È solo l'inizio.

 

Dumpling Bar | Rom | piazza Meucci, 1 | dal 20 ottobre 2017

 

a cura di Livia Montagnoli

Sweety of Milano. 24 maestri a Palazzo delle Stelline: si comincia mangiando con gli occhi

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Il weekend meneghino riunisce i migliori pasticceri d'Italia per la terza edizione della rassegna dedicata alla tradizione dolciaria. Banchi d'assaggio, incontri, laboratori e masterclass per trasformare Palazzo delle Stelline nel regno dei golosi.  

Chi è lo Sweetman italiano per eccellenza? Senza dubbio Iginio Massari, nume tutelare dell'arte pasticcera nazionale, non a caso eletto cerimoniere (e mascotte) di tante manifestazioni sul tema. E in tempi di sovraesposizione mediatica, con la pasticceria che insidia il podio di aspiranti chef e ricette regionali, anche il maestro bresciano ha conquistato il suo spazio in tv, giudice bonario ma rigoroso a confronto con giovani talenti della pasticceria, e dalla primavera scorsa alla guida di un programma suo, The Sweetman, che sta per tornare con nuove puntate su SkyUno. A Palazzo delle Stelline, il 16 e 17 settembre, Iginio Massari non mancherà, tra gli ospiti più attesi di Sweety of Milano. L'appuntamento con i maestri dell'arte dolciaria italiana, a Milano, celebra la sua terza edizione, ospitando pure i casting per il baking-format di Sky. Ma per Massari, in buona compagnia sul palcoscenico delle masterclass di pasticceria d'autore, si prospetta un impegno ben più cospicuo. L'idea della due giorni meneghina, d'altronde, è proprio quella di avvicinare i maestri pasticceri al grande pubblico, che curiosa tra gli stand, assaggia, scopre trucchi e segreti per affrontare la pasticceria casalinga con una marcia in più.

A fare gli onori di casa saranno in 24, al seguito una bella varietà di creazioni golose, 100 specialità d'autore da scoprire e acquistare. E poi c'è il programma, fittissimo, di laboratori: 60 appuntamenti tra incontri gratuiti e lezioni teoriche e pratiche su prenotazione. I nomi sono garanzia di serietà: oltre a Iginio Massari, tra gli altri, Sal De Riso, Luca Montersino, Gino Fabbri, Luigi Biasetto, Alfonso Pepe, Maurizio Santin, Gianluca Fusco, Davide Comaschi. Il gotha della pasticceria italiana. E i banchi parleranno da soli, tra cioccolatini e maritozzi, semifreddi e dolci al cucchiaio, biscotti, babà, crostate, macaron, croissant, pastiera, sfogliatelle, pasticciotti e creme spalmabili.

Sul palco delle masterclass si avvicenderanno in 7: Comaschi, Fabbri, Fusto, Massari, Montersino, Palmieri, Servida (che in questi giorni esordisce a Milano con le sue tartellette ispirate dall'arte). Ma tanti altri animeranno gli incontri gratuiti, con Claudio Gatti a raccontare la tradizione della Spongata di Busseto, Alfonso Pepe in omaggio alla sfogliatella Santarosa, Vincenzo Tiri con la sua brioche golosa al lievito madre, Paolo Sacchetti e la golosità pret a porter: lo zabaione in vasetto. Il biglietto giornaliero costa 7 euro (10 per le due giornate). Intanto un assaggio per immagini. Si mangia prima con gli occhi... Ma un salto a Palazzo delle Stelline, questo fine settimana, è vivamente consigliato.

 

Sweety of Milano | Milano | Palazzo delle Stelline | il 16 e 17 settembre | www.sweety.italiangourmet.it

 

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