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Le sagre estive non sono tutte pessime. Fabrica di Roma e anti-sagra del fagiolo a carne

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27mila sagre finte per un giro di 558 milioni di euro. Questa la foto delle feste paesane che fa polemicamente la Confcommercio. Ma alle pendici dei Cimini va in onda una sagra che invece ha riportato in vita una coltura antica che si candida anche per il futuro. E Cannavacciuolo affonda: la tradizione non è fatta di piatti, ma di ingredienti che nascono nei territori.

Ò rronkàto sta lètta de faćòl a kkàrne, è ppe ffàlli sekkà bbè l ò ppikkàti se piànte”. Alla lettera F del vocabolario dialettale di Fabrica di Roma scritto da Paolo Monfeli, la fa da protagonista il “faćòl a kkàrne” che il contadino dice di aver tagliato e appeso sulla pianta affinché secchi per benino. Questo particolare tipo di legume ha caratterizzato per secoli la produzione orticola del paese alle pendici dei Cimini, nella Tuscia Viterbese, grazie alla specifica configurazione idrogeologica del terreno, ed è tornato a fare da collante identitario di Fabrica che gli dedica una importante sagra cittadina – dal 15 al 17 settembre – in cui le donne del paese cucinano il legume nei diversi modi cui la tradizione lo ha declinato: con le cotiche, a insalata, all’uccelletto, arricchiti delle erbe aromatiche selvatiche di cui sono pieni campi e pascoli della zona.

 

Una festa collettiva

Domanda: ma tra tutte le sagre che affollano e hanno affollato l’estate, proprio di questa si va a parlare? Beh, in realtà questa di Fabrica di Roma è una sagra “anomala”, ovvero: dovrebbero essere così le sagre, rappresentare un prodotto che abbia un senso nella storia del paese, cosa che però non accade più tra rane importate dalla Cina, gnocchi surgelati, bistecche prese chissà dove, funghi che si materializzano in stagioni improbabilissime. Ecco, questa di Fabrica si chiama sagra, ma “sagra” in realtà non è: si tratta di una festa, di una cerimonia collettiva che celebra la tradizione di un ingrediente che affonda le radici (e il seme è lo stesso) nel Medioevo, un ingrediente che trova oggi altri motivi per riproporsi verso il futuro. Altro che sagra della bruschetta o della tagliata, cose dannose non solo per l'immagine e la cultura gastronomica. Perché, denuncia la Confcommercio, in Italia ci sono oltre 27mila sagre finte che fatturano ben 558 milioni di euro: un bel danno per chi invece fa impresa regolarmente. Senza contare che spesso, in queste situazioni, l'aspetto contributivo è alquanto dubbio.

fabrica roma

Il Biodistretto della via Amerina

Ma c’è anche un altro elemento che fa di questa festa un momento importante per questa zona. Un'area che va dalle pendici dei Cimini fino alle forre lungo il corso del fiume Treja: Fabrica, insieme ad altri 12 Comuni della provincia di Viterbo di cui il più grande è Civita Castellana, fa parte del Biodistretto della via Amerina. Un'area in cui i diversi individui presenti sul territorio lavorano per gestire le risorse in modo sostenibile contribuendo, così, alla tutela e alla valorizzazione dell'ambiente circostante. È l’unico (dei tre esistenti) ad avere già preso concretamente il via.

Qui, in una zona dominata fino a 2-3 decenni fa dalla industria ceramica, la crisi economica e la globalizzazione hanno imposto un cambiamento di vita e la terra – poco sfruttata e ancora integra – è diventata protagonista di tante coraggiose scelte da parte di imprenditori che ne hanno fatto un campo di lavoro importante, mettendoci la faccia e dando vita a vere e proprie eccellenze enogastronomiche. Il tutto a una manciata di chilometri tra Roma e Terni.

fagiolo a carne

La rinascita della coltivazione

Tornando a Fabrica, il progetto di ridar vita a questa antica produzione è stato voluto dal sindaco Mario Scarnati e perseguito con passione da Sigismondo Sciarrini, imprenditore della zona e assessore a Fabrica. “Abbiamo studiato il fagiolo, abbiamo recuperato il seme originario della nostra terra e ne abbiamo distribuito un po’ ciascuno a dieci contadini che abbiamo convocato in Comune”ricorda Sigismondo “Era il 2012, e da allora sono almeno cinque i coltivatori che ogni anno producono oltre dieci quintali di questo pregiato legume”. Una coltura che si sarebbe persa, ma che invece ha in questo territorio una vera e propria ragione di essere, tanto che da secoli è presente in molti documenti dell’archivio storico, che ne testimoniano l'uso anche come forma di pagamento per i diritti di enfiteusi sui terreni da parte dei contadini, fin dall’epoca tardomedievale.

 

La riscoperta delle radici

Cos’ha di speciale questo fagiolo? “Beh, intanto il suo importante contenuto di proteine nobili, caratteristica che gli ha guadagnato il nome di 'carne' in epoche in cui la carne era un bene raro”sorride l’assessore“E per questa ragione, oggi, in un’epoca in cui il vegetarianesimo e il veganesimo stanno avanzando a grandi passi conquistando sempre più proseliti, il fagiolo a carne diventa un ingrediente prezioso”.

Il legume di Fabrica di Roma ha ottenuto anche la registrazione tra i prodotti tradizionali da parte della Regione Lazio che, tra le altre cose, conferma nella scheda tecnica il particolare significato che ha nella produzione agricola della zona: “A Fabrica di Roma, fin dal passato, le zone altamente vocate alla coltivazione del fagiolo a carne sono quelle a fianco dei due ruscelli sgorganti dalle fonti del Barco e dei Salvani, appena fuori le mura dell’abitato, arrivando in località La Mola, sito di localizzazione del mulino a grano della Comunità, dove il Comune stesso era proprietario di un grande e pregiato appezzamento irriguo, frequentemente citato in contratti di locazione. La disponibilità dell’acqua oltre a consentire l’impianto di molte specie, rendeva possibile la coltivazione di questo particolare tipo di fagiolo selezionato nel tempo anche in 'secondo raccolto' dopo la mietitura dei cereali a luglio. La possibilità di avere due raccolti annui fece privilegiare la coltivazione del fagiolo, rispetto ad altre colture, favorendo con gli anni la selezione e diffusione di questa antica varietà di 'fagiolo a carne' adattata con un naturale processo selettivo e migliorativo alla situazione pedoclimatica del pese di Fabrica di Roma”.

 

La sagra delle polemiche

Abbiamo preso a esempio la festa del fagiolo di Fabrica di Roma anche per parlare un po’ di sagre in generale. Si tratta spesso – dicevamo – di iniziative su temi e prodotti improbabili come quelle, per esempio, dedicate al cinghiale in pieno agosto, ovvero in un periodo non propriamente dedicato alla cacciagione. A Piazze (Cetona) - per continuare con qualche esempio di sagra improbabile - in maggio si è tenuta la Sagra della Fragola: e passi. Ma sulla locandina viene sbandierato l’accompagnamento del calzone fritto e ripieno di… Nutella! A Usago, nel comune di Travesio (PN), le rane sono parte della memoria storica e ovviamente hanno dato vita alla solita sagra: peccato, però, che da decenni ne è vietata la cattura e che quindi vengono congelate direttamente dalla Cina (o giù di lì). Passiamo in Abruzzo: Campo di Fano di Prezza, dove si tiene la «giusta» sagra dell’aglio rosso, c’è anche la sagra della Carne al Fuoco, ovvero della bistecca, con tanto di locandina carica di cowboy a far da sfondo alla griglia. beh, avrebbe senso una sagra del panino alla fettina a Nuoro (tipico de questa cittadina sarda), ma la bistecca!!! Come dire - appunto - la sagra delle banalità. 

Ma è interessante questa piccola sagra del fagiolo a carne del viterbese perché quest’anno proprio in terra di Tuscia – in particolare a Canepina – è esplosa una polemica politica sui finanziamenti alle associazioni locali che avrebbero preso nel Lazio più soldi di quanti ne siano stati stanziati per i terremotati (sempre del Lazio). Ma le feste popolari non sono tutte esperienze dubbie: proprio a Canepina la Sagra del Fieno è una di quelle occasioni in cui viene celebrato il cibo che identifica quel paesino incastonato tra i Cimini e che, oltre a castagne e nocciole, ha proprio i “maccheroni” (così si chiamano i sottilissimi tagliolini prodotti quotidianamente dalle donne in casa) come elemento identificativo; tanto da farne sia un brand di marketing territoriale sia un elemento di sviluppo economico per i ristoranti del paese e per la produzione artigianale del Pastificio Fanelli, che ha dato ali e numeri a questa pasta all’uovo secca.

 

Commercianti e ristoratori

Il punto è che – a parte le feste identitarie (come ad esempio la Sagra delle Sagre di Asti del 9 e 10 settembre che mette in mostra le tradizioni storiche e culinarie delle popolazioni della provincia e che è comunque è stata terreno di polemica politica tra chi voleva partecipare e chi no) – ci sono realtà dove le sagre durano mesi e mesi. Massarosa (in Versilia), che l’anno scorso contava ben 310 giorni di feste paesane con tanto di ristoranti da campo, quest’anno ha “ridotto” le serate a 150 (più altri 30 giorni di feste sul territorio del Comune) in un periodo di 210 giorni e mantiene il primato di capitale delle sagre paesane. Di certo proprio qui, nel Comune delle Sagre, le occasioni di festa conviviale sono ogni anno occasione di scontro tra maggioranza, opposizione e parti sociali, ristoratori e commercianti che contestano una concorrenza sleale fatta senza alcun controllo, senza documenti fiscali e senza gli standard che invece sono tenuti a garantire gli imprenditori “normali”. Una polemica che evidenzia pienamente cosa sia diventato ormai l’universo delle sagre in Italia.

Stessa musica in Sardegna, quest’anno come mai presa d’assalto da turisti italiani e stranieri: l’Isola delle Sagre – così chiamata da chi denuncia il fenomeno – ha contato in estate, da giugno a settembre, una sagra ogni sera. “In estate è diventato un fenomeno inarrestabile”attacca GavinaBraccu,responsabile Fipe per il nord Sardegna “Molte nascono dal nulla, senza neanche uno straccio di autorizzazione. Anche se spesso sono i comuni che danno il via libera perché attirano turisti. Eppure il sindaco è anche un pubblico ufficiale e risponde anche della salute dei cittadini”.

 

Cannavacciuolo: tradizione & territorio

La polemica sulle sagre, oltre al terreno economico e d’impresa, abbraccia anche il terreno più propriamente culturale, riguarda il prodotto e la qualità e autenticità di quanto portato in tavola. E investe non solo le feste paesane, ma anche il modo di funzionare di molte cucine professionali in Italia. Non a caso lo chef più amato dal grande pubblico, Antonino Cannavacciuolo, ha puntato la sua cucina proprio sulla qualità degli ingredienti e sul loro stretto legame di produzione nei diversi territori: cosa che nelle sagre quasi mai avviene, pur essendo dedicate a prodotti identitari. Lo chef campano, patron di Villa Crespi a Orta San Giulio (Piemonte), è il protagonista della copertina del mensile Gambero Rosso di settembre ora in edicola: presenta i suoi dieci piatti che più lo rappresentano e fa un’affermazione forte che dovrebbe essere ben meditata dai colleghi chef, ma anche da chi presta lavoro volontario (e magari anche con passione) nelle sagre paesane: “In Italia, per fortuna, abbiamo una tradizione enorme. La tradizione è ingrediente, non tanto ricetta. Quindi non puoi rispettarla senza la ricerca costante della qualità o con prodotti che non ne fanno parte. C’è gente che 'scassa' perché il pollo alla diavola deve essere fatto come un tempo e poi scopri che acquista la carne del Nord Europa e il pomodoro del Marocco…”A proposito di ingredienti e terroir, Cannavacciuolo è stato attaccato anche perché a Masterchef non ha attribuito agli abruzzesi la paternità dello spiedino di pecora, l’arrosticino. Ma lui, sempre a proposito di territori e cultura, contrattacca: “Non ho mai detto che quelli erano spiedini napoletani... Però vorrei che quanti si sono scatenati contro di me se la pigliassero maggiormente con le persone che in tanti locali (e sagre) mettono gli arrosticini congelati direttamente su una piastra sporca. E poi raccontano che sono il simbolo dell’Abruzzo. Quella sarebbe la vera difesa del prodotto”.

 

A proposito di pecora

Tornando ancora a Fabrica, presa qui come esempio di sagra nel senso corretto del termine (legate al senso collettivo del sacro e al raccolto locale), e a proposito degli arrosticini, non possiamo non nominare l'altra sagra che ha luogo a Fabrica di Roma (nel mese di luglio, però) e che ha al centro la pecora. Una festa che è stata al centro di forti polemiche all'interno dell'amministrazione del Comune. Ma che ha comunque un fortissimo radicamento nel territorio: la zona di Fabrica e dell'antica città di Faleri, fino ai prati e campi a ridosso di Corchiano e di Civita Castellana, è dagli inizi del secolo un'area di pascolo e di allevamento delle pecore. Sono tanti i pastori che abitano qui e che in estate portano le greggi in transumanza fino in Abruzzo. Ci sono documenti e filmati storici risalenti ai primi del '900 che attestano la fortissima presenza dell'allevamento ovino in queste terre.

 

La pecora è dunque un elemento fondamentale, sia del territorio che dell'economia di questi comuni. E la sagra dedicata alle carni nobili di questo animale a torto considerato di serie B sul piano alimentare ha un suo senso, proprio qui. Tanto che si sta pensando di gemellare questa festa con la Sardegna, in particolare con Siddi, in Marmilla, il paese che ospita lo chef Roberto Petza che della carne di pecora ha fatto una sua bandiera gastronomica. Una mossa intelligente e lungimirante che guarda ben oltre la semplice sagra paesana e che punta a dare definizione e maggiore identità non solo al paese, ma a tutto il Biodistretto della via Amerina. Nel senso proprio che dice Antonino Cannavacciuolo.

 

Sagra del fagiolo a carne | Fabrica (VT) | dal 15 al 17 settembre 2017 | http://www.comune.fabricadiroma.vt.it/comune/news-dal-comune/v%C2%AA-sagra-del-fagiolo-carne.html

 

a cura di Stefano Polacchi

foto di copertina Marcello Rapiti


Libri sul cibo per l'estate. Cibi di Strada - il Sud

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Dall'ideatore di Re Panettone, un volume che racconta il cibo di strada tipico dell'Italia meridionale. Dopo il successo del primo libro dedicato allo street food del Nord del Paese, Stanislao Porzio torna con una nuova, insolita guida gastronomica.

L'autore

Napoletano trapiantato a Milano, Stanislao Porzio conduce da anni indagini approfondite sulle tradizioni gastronomiche regionali del nostro Paese. Appassionato di cucina, l'autore è anche l'ideatore dell'ormai celebre appuntamento natalizio Re Panettone, dedicato al grande lievitato delle feste per antonomasia. Un festival nato in seguito al suo volume Panettone, Storia, leggende e segreti di un protagonista del Natale, che ripercorre lo sviluppo e la tradizione di questo dolce nelle tavole italiane. Ma sono tante le ricette tipiche del Natale, così tante che Porzio ha deciso di scrivere un libro sui diversi piatti delle feste, Natali d'Italia. Le regioni a tavola nei racconti di chi ci è nato. L'interesse dell'autore per la gastronomia però va ben oltre le tradizioni natalizie: in Taste the West, Ricette e aneddoti della vecchia frontiera Americana, Porzio raduna le ricette storiche che hanno contribuito a costruire l'attuale cucina statunitense così come oggi la conosciamo, ripercorrendone origini e evoluzione. Nel 2008 pubblica invece un libro sullo street food italiano Cibi di Strada – Italia del Nord, Toscana, Umbria, Marche, e ora è la volta del Sud, con un nuovo viaggio alla ricerca del mangiari di strada di ogni regione.

Il libro

Edito da Guido Tommasi Editore, Cibi di Strada – Il Sud si propone di far luce sulla ricca tradizione gastronomica dell'Italia centro-meridionale, Lazio e Abruzzo compresi. Un'analisi dei prodotti tipici di ogni regione, delle diverse ricette che li vedono protagonisti, e delle aziende e gli artigiani che da tempo si impegnano a valorizzarli. Si parte dalla Puglia, con la tradizione degli allievi sul molo, seppioline sapide e un po' metalliche, che “respingono la stretta dei denti con elasticità, poi cedono di botto, lacerandosi con un taglio perfetto”. E polpi, cozze, cozze pelose, frutti di mare di ogni genere. E poi il Lazio, con il maritozzo, il cornetto, il supplì, la pizza a taglio, ma anche le formule di street food più contemporanee, come quella del trapizzino di Callegari. E ancora pizza napoletana, seadas sarde, taralli della Basilicata, arrosticini abruzzesi, crispeddhe calabresi, pane e panelle dalla Sicilia. Ogni morso è un ricordo; ogni assaggio, una storia: “Non posso rinunciare alle puntarelle, per me sono una madeleine, croccante-amoro-acciuga: è un'epifania. Ne prendo qualche ciuffo e già mi ritrovo diciannovenne, che scopre Roma perché ci viene a studiare composizione”.

L'evoluzione del libro

Una guida insolita, dunque, che offre al lettore una selezione di indirizzi validi, ma che non si propone come manuale di gastronomia, piuttosto come un vademecum da cui prendere spunto. La stesura del testo ha richiesto all'autore uno studio lungo e approfondito, durato ben 9 anni. Nel 2008, concludeva così l'introduzione della prima parte dedicata al Nord Italia: “La seconda arriverà a breve. Giusto il tempo di digerire”. Oggi aggiunge, con quel pizzico di ironia che contraddistingue il suo stile: “Mai digestione è stata più lunga”. Perché Porzio si è soffermato sul particolare di ogni piatto, ogni dolce, ogni panino: “Ogni escursione è stata un viaggio e mi dolgo di non aver potuto approfondire diversi temi e visitare alcuni territori a causa delle distanze”. Il ritardo nella pubblicazione ha però consentito all'autore di osservare e registrare un fenomeno in crescita, che nel 2008 era ancora in fase embrionale, quello dello street food contemporaneo: “L'ampliarsi dell'attenzione dei media per il mondo della ristorazione ha portato alla ribalta il cibo di strada come uno degli ultimi frammenti di autenticità della nostra cultura materiale, sempre più influenzata da mode che vengono da lontano”. E non solo: “Parallelamente all'interesse del pubblico è in crescita quello dei produttori, fra i quali si registrano grandi manovre”.

Il valore dello street food al giorno d'oggi

Stesso stile, dunque, ma con un approccio diverso, che tiene in considerazione l'attuale concetto di street food. Un diario di viaggio fra le tavole del Meridione, alla scoperta dei frutti di terre rigogliose, ricche di tradizioni antiche, usanze custodite nel tempo. Perché quello del cibo di strada oggi è un trend inarrestabile, ma che ha origini remote. E non passa settimana, nella fitta agenda dei gastrofili, senza una manifestazione che offra agli avventori supplì, arancini, panzerotti, olive ascolane e chi più ne ha più ne metta. Tanti gli eventi dedicati, e altrettante le nuove aperture, con formule diversificate sì, ma con richiami espliciti a tradizioni antiche. È lo street food di oggi, di ieri e di domani quello che Porzio si impegna a raccontare. Storie di luoghi, prodotti ma soprattutto di persone, professionisti dell'artigianato che guidano l'autore per tutta l'indagine.

Cibi di Strada – Il Sud, Stanislao Porzio | ed. Guido Tommasi Editore | Euro 15,00

a cura di Michela Becchi

Libri sul cibo per l'estate. Bee Happy. Storie di alveari, mieli e apiculture

Libri sul cibo per l'estate. Lima, Cucina dal Perù

Libri sul cibo per l'estate. Mozzarella in carrozza. Ricette d'artista

Libri sul cibo per l'estate. Omicidi all'acqua pazza

Tropico dei Colli. La frutta esotica più strana si coltiva a Bergamo: dal kiwi rosso al mirtillo siberiano

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Due anni fa nasceva nella campagna di Bergamo il progetto sperimentale di due giovani agronomi, intenzionati a portare in Italia frutti mai coltivati prima. Ora il primo raccolto fa pensare in grande e intercetta una nuova fetta di mercato. Ma cos'è il kiwi arguta? E il feijoa? 

Coltivare frutta esotica. In Italia

Con frutta e ortaggi esotici la Lombardia, insospettabilmente, ha una certa familiarità. All'inizio del 2016 raccontavamo l'iniziativa del distaccamento regionale di Cia, Nutrire la città che cambia. Un progetto che all'agricoltura guardava come risultato di un'operazione culturale, secondo una visione estesa del concetto di biodiversità. Nella pratica, una sperimentazione avviata nei campi lombardi per valutare l'adattabilità di ortaggi non comunitari, indagando le potenzialità di una filiera specializzata piuttosto insolita: okra, quinoa, cilantro, melanzana africana. Made in Lombardia. Con la possibilità di alimentare la richiesta del mercato ortofrutticolo milanese, chiamato a soddisfare le esigenze di una comunità sempre più multietnica. Nel frattempo, secondo gli ultimi dati di consumo, di pari passo con l'aumento del consumo pro capite di frutta e verdura (registrato da Coldiretti nel primo bimestre del 2017), buona parte degli italiani sembra aver scoperto il fascino della frutta tropicale: un trend in ascesa da più di qualche anno, che ha portato sulle nostre tavole manghi, papaye, avocado. Fino all'esplosione dell'avocadomania, l'ultima declinazione di quella cucina salutare che nel frutto ricco di Omega3 e proprietà nutrititive ha individuato un bel giro d'affari. Lo scotto da pagare, in senso letterale, è un listino dei prezzi da capogiro, che alimenta un mercato delle importazioni esotiche da 650 milioni di euro all'anno. E porta con sé un gran numero di questioni etiche, sulla sostenibilità ambientale di colture particolarmente esose in situazioni di coltivazione intensiva, sull'inquinamento generato da trasporti extracontinentali massivi, sullo sfruttamento del lavoro nei campi dell'America Centro e Meridionale. Non ultima, sulla qualità di un prodotto costretto a subire lunghi tragitti in stiva prima di raggiungere i banchi del mercato. Come si scongiura il problema, senza rinunciare alla frutta tropicale, tra l'altro molto utilizzata in pasticceria? Dell'azienda siciliana che produce avocado di prima qualità abbiamo già parlato.

Oltre l'esotico. Frutta inedita, da Bergamo

Da Bergamo, invece, arriva la storia del Tropico dei Colli, un bel gioco di parole per raccontare l'azienda agricola sperimentale impiantata un paio di anni fa nella campagna bergamasca da due giovani agronomi, che prova a vincere una sfida nella sfida: non semplicemente frutta tropicale, ma specie nuove, mai coltivate prima in Italia. Al motto di “assapora l'inedito”. Giulia Serafini e Mirko Roberti sono i pionieri di un progetto che oggi coinvolge dieci realtà del territorio: una rete di produttori della provincia che coltivano frutta esotica sotto le direttive dei ragazzi, che forniscono loro piante, assistenza sul campo e un aiuto per la commercializzazione del prodotto. Il primo raccolto è arrivato quest'anno, ed è decisamente curioso: mirtillo siberiano, feijoa, asimina. Frutti talmente particolari da richiedere il glossario delle specie vegetali per capire di cosa stiamo parlando: l'asimina, per esempio, è originaria della regione dei Grandi Laghi, nel Nord America; a polpa gialla, si mangia con il cucchiaino, e ricorda il gusto del mango. Il feijoa del Sud America, invece, è più simile a un lime con sentori d'ananas. E poi noci pecan e kiwi arguta (di colore rosso, in arrivo dalla Siberia, molto dolce, da mangiare con la buccia), prenotabili online e recapitati a domicilio, anche per ristoranti, pasticcerie, gelaterie. Con il progetto di raggiungere la grande distribuzione quando l'attività girerà a pieno regime. Dietro c'è la passione per le nuove coltivazioni, cresciute in biologico per preservare i nutrienti del frutto. L'azienda, tra Colombano a Valtesse, ha preso vita grazie ai fondi del concorso Luberg Camp, per aspiranti giovani imprenditori con idee da mettere a frutto. Giulia e Mirko hanno preso in parola la consegna, e dopo due anni la loro attività si avvia verso la sostenibilità economica. Dalla loro, oltre alla preparazione tecnica, l'intuizione di scommettere su fette di mercato ancora inesplorate del mercato ortofrutticolo biologico. I criteri dietro la selezione? L'adattabilità al clima locale, la resitenza alle patologie e l'utilità del frutto, buono e riconoscibile. Presto il kiwi che non si sbuccia potrebbe fare capolino nel vostro mercato di fiducia: per arrivare preparati, il sito del Tropico dei Colli è una miniera di informazioni su proprietà, storie e caratteristiche dei frutti.

 

Tropico dei Colli | Bergamo | Salita dello Scorlazzone, 10 | www.tropicodeicolli.it

 

a cura di Livia Montagnoli

Riccardo Di Giacinto e Ramona Anello alla Rinascente di Roma, che inaugura a ottobre

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Una proposta gastronomica accessibile, disponibile a tutte le ore, con vista mozzafiato sul centro di Roma. La nuova Rinascente prossima a inaugurare in via del Tritone promette di regalare alla Capitale grandi magazzini degni di una città internazionale; al sesto e settimo piano l’area food, super terrazzata. Le prime indiscrezioni.

100 anni di Rinascente

In un secolo di storia, 100 anni tondi, ha intercettato l’evoluzione dei modelli di consumo, accompagnando pure, da un palcoscenico privilegiato, le mode che cambiavano, e dettando le ultime tendenze in fatto di gusto. Ripercorrere la storia della Rinascente, fondata nel 1917 a Milano, significa addentrarsi tra i corridoi dei grandi magazzini più eleganti d’Italia: per scegliere il nome, all’epoca, si scomodò persino D’Annunzio. E il sodalizio con l’arte e le espressioni più innovative del design si protrarrà per tutto il secolo, a sugellare l’ascesa di un marchio che ha scritto capitoli importanti della storia del costume, della comunicazione e della grande distribuzione italiana. Chi visita Palazzo Reale, a Milano, ancora per qualche giorno (fino al 24 settembre) può verificarlo con i propri occhi, tra pezzi di design e documenti d’archivio della mostra Rinascente, Stories of Innovation. Nel 2011, la catena è stata acquisita dal gruppo thailandese Central Retail Corporation, e solo un anno fa, il primo prestigioso punto vendita del gruppo (che ereditava un’idea ottocentesca dei fratelli Bocconi), in piazza del Duomo, è stato proclamato The Best Department Store in the World, per la capacità di generare innovazione e performance eccezionali. Oggi La Rinascente conta 12 punti vendita, l’ultimo – il primo all’estero – è stato inaugurato qualche anno fa a Copenaghen, rilevando il magazzino Illum.

La nuova Rinascente a Roma

Ma presto, prestissimo, l’attenzione si concentrerà su Roma, in via del Tritone, dov’è finalmente agli sgoccioli il monumentale cantiere che si è protratto per 10 anni, tra imprevisti e rallentamenti dovuti pure al ritrovamento di un acquedotto romano. Nel cuore della Capitale, la nuova Rinascente aprirà le porte al pubblico il 13 ottobre, mentre ancora si lavora per completare uno store che non avrà nulla da invidiare al suo omonimo milanese. Pierluigi Cocchini, nuovo ad del gruppo, negli ultimi mesi ha avuto modo di spiegarlo più volte. Il punto vendita di Roma, oltre a custodire un mini museo archeologico che valorizza gli scavi dell’Acquedotto Vergine, sarà imponente: 8 piani per una superficie di quasi 14mila metri quadri, con una terrazza strepitosa per posizione e vista sulla città. Al food, che anche a Milano gioca un ruolo importante, saranno dedicati due piani interi, il sesto e il settimo, sul modello misto “indoor-outdoor” che in piazza Duomo ha riscontrato tanto successo, ha anticipato Cocchini: “La differenza, oltre all’offerta food-gastronomica gestita a partire dalle insegne locali, è il panorama a 360 gradi da San Pietro a Monte Mario, all’altare della Patria”.

Riccardo Di Giacinto alla Rinascente

Ed è proprio sul riferimento esplicito al coinvolgimento di insegne locali, che nelle ultime settimane si concentra il toto-scommesse per scoprire chi avrà la fortuna di confrontarsi ogni giorno con migliaia di romani e turisti su un palcoscenico così importante. Indiscrezioni insistenti, ora che il completamento dei lavori si avvicina (anche se proprio ai piani alti si lavora ancora alacremente) raccontano di una piazza gastronomica ricca di attori, ognuno con il proprio spazio, che insieme divideranno la food hall del sesto piano. Tra questi, un posto privilegiato dovrebbe spettare a una conoscenza ben nota ai gourmet della Capitale, Riccardo Di Giacinto. Per lo chef patron di All’Oro, da qualche mese nuovamente operativo nel palazzetto (con ospitalità) di via Pisanelli, l’ultimo anno è stato denso di impegni. Con Ramona Anello, compagna nella vita e sul lavoro, Di Giacinto coordina la proposta più informale di Madre (anche qui doppio impegno con ristorazione e ospitalità, in zona Monti), ma il cuore dell’impresa resta sempre il nuovo All’Oro e The H’All Tailor Suite. Questo non sembra aver precluso la possibilità di scommettere ancora sulle proprie capacità, conquistando un altro avamposto importante nel centro di Roma. Il ristorante di Riccardo a Ramona all’interno della Rinascente (ancora avvolto nel mistero il nome dell’insegna), dovrebbe aver ottenuto lo spazio più grande, 700 metri quadri tra sesto e settimo piano, con uso esclusivo della terrazza al settimo. Un’attività che si articolerà, in piena autonomia (dalla progettazione degli interni alla scelta del personale), tra ristorante e lounge bar, con spazi interni e tavoli all’aperto, sia al sesto che al settimo livello. L’offerta, com’è logico che sia per accontentare un pubblico di riferimento molto eterogeneo, dovrebbe concentrarsi su una proposta accessibile a tutti, niente fine dining, ma comunque piacevolmente curata, sotto la supervisione diretta di Riccardo. E si potrà mangiare a tutte le ore, con una linea che cambia dalla colazione al menu leggero per il pranzo, fino alla proposta per la cena: come già succede a Milano, l’area food resterà aperta qualche ora in più rispetto alla chiusura del magazzino, per garantire il servizio serale. E chissà che in terrazza non arrivi anche la pizza al piatto già collaudata da Madre!

La Rinascente Tritone | Roma | via del Tritone | dal 13 ottobre 2017

 

a cura di Livia Montagnoli

Natale a piazza Navona. Il nuovo bando (non) premia la qualità gastronomica

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In vista della prossima Festa della Befana in una delle piazze più belle della Capitale, l’assessore al Commercio Alessandro Meloni presenta il nuovo bando per l’assegnazione delle concessioni. E per i banchi dei dolciumi spunta il criterio di qualità, tra Dop, bio e prodotti dei territori terremotati. Ma sarà sufficiente? 

La Festa della Befana di Roma. Come sarà

Lo scorso Natale, a piazza Navona, la tradizionale fiera della Befana saltò. Un ennesimo anno di purgatorio per la festa che negli ultimi tempi aveva finito per trasformarsi in una distesa indistinta di bancarelle di dubbio gusto e prodotti scadenti, in balia di concessionari anch’essi dubbi sotto diversi punti di vista. E in vista del Natale 2017, a Roma, tutti aspettavano il bando promesso dall’assessore al Commercio Alessandro Meloni, per restituire dignità a una festa molto sentita della tradizione capitolina, nel rispetto di una delle piazze più belle della città, e del mondo. Da qualche ora il bando della Befana di Piazza Navona è di dominio pubblico, presentato in Campidoglio dall’assessore Meloni con un certo orgoglio per il risultato raggiunto, in nome del decoro e dello spirito natalizio, “perché la festa della befana torni a essere la festa dei bambini e delle famiglie”. Finalmente la rivincita della qualità, si affretterà a dire qualcuno scorrendo tra le righe di un testo che assegna ben 60 punti su 100 in base alla qualità dei prodotti proposti. A ben guardare, però, oltre i proclami c’è di più.

Il bando. La qualità supera l’anzianità

Quest’anno le fiera si svolgerà dal 2 dicembre al 6 gennaio 2018, e sarà animata da 28 attività commerciali (su un totale di 73 postazioni, come richiesto da Vigili del Fuoco e Soprintendenza 30 in meno rispetto agli anni passati, considerando pure gli stand ludico-ricreativi e le attività artigianali). Di queste, 10 saranno riservate alla vendita di “dolciumi”, categoria onnicomprensiva per descrivere quelle specialità natalizie che fanno la gioia di tutti i bambini (e non solo). L’idea della nuova Giunta, bisogna sottolinearlo, è stata sin dall’inizio quella di promuovere un bando aperto e trasparente, per porre fine allo strapotere dei soliti noti. Ma se l’obiettivo era quello di dare una scossa alla politica della assegnazioni viziate, la scommessa non è stata vinta: probabilmente le intenzioni della Giunta non hanno collimato alle pressioni del Consiglio. E il motivo è presto detto, entrando nel merito dei criteri di valutazione: su 100 punti totali, solo 20 saranno attribuiti per anzianità. Di questi, 10 sono relativi all’anzianità maturata dal candidato nel settore merceologico per cui si propone. E questo è certamente un bene: solo un massimo di 10 punti, infatti, spetterà di diritto a chi negli anni passati ha già partecipato alla fiera.

Che significa qualità?

Più controversi i criteri che regolano l’assegnazione di punti per meriti e qualità. Di 60 punti in palio, ben 25 saranno assegnati a chi dimostra di poter coprire l’intera superficie espositiva con “prodotti tipici natalizi”, senza nessuna altra specifica. Ma attenzione, perché il punteggio può raddoppiare, a patto che tutti i prodotti in vendita siano dotati di certificazione di qualità; leggasi marchio Dop, Igp, Stg. Denominazioni protette che, l’abbiamo ripetuto più volte, identificano un disciplinare di produzione e un’origine territoriale di appartenenza, ma non necessariamente certificano la qualità del prodotto. Nel caso specifico, paradossalmente, prodotto artigianali di comprovata qualità – facciamo l’esempio di un panettone di Alfonso Pepe o della mitica focaccia di Tabiano di Claudio Gatti – non si sono mai preoccupati di rifugiarsi sotto il cappello di una certificazione d’origine: non ne hanno alcun bisogno. Un panettone industriale, invece, ha sempre il marchio CE. E così il raddoppio del punteggio rischia di funzionare esattamente da sbarramento al contrario: più porti prodotti di eccellenza, più perdi punti; più dimostri di esporre produzioni industriali più raddoppi! Punti aggiuntivi sono attribuiti pure per l’offerta di prodotti per celiaci e l’utilizzo di ingredienti biologici (ma sappiamo quanto questa indicazione, senza specifiche di sorta, sia generica e non dirimente, oltre che complicatissima da controllare visto che non si parla da nessuna parte di fatture e controprove). Insomma, l’impressione è che facilmente sarà possibile scalare la classifica dei criteri di qualità, anche per chi con la qualità non ha mai avuto troppa confidenza: ma se tutti, con uno sforzo nullo, possono raggiungere i requisiti di qualità, allora i requisiti di anzianità, anche se ridotti, diventano decisivi. E il cambiamento promesso diventa un inganno a svantaggio degli operatori di qualità e dei consumatori.

I prodotti delle zone terremotate

Abbastanza singolare, infine, la specifica sui prodotti provenienti da zone colpite “dai recenti eventi sismici”: per chi li espone in piazza, 5 punti in più. Resta da capire quali e quanti dolciumi natalizi siano davvero ascrivibili a quel territorio, e soprattutto quanto la postilla sia frutto di una concessione alla demagogia che ci sta sempre bene: la concessione, si legge sul bando, avrà durata di 9 anni. Tra qualche anno, passata (ci auguriamo) l’emergenza, che senso avrà fare un distinguo tra prodotti “terremotati” e non? Qualche perplessità pure sui 15 punti attribuiti per la tutela ambientale dell’area, sicuramente lodevoli, ma facilmente cumulabili con qualche luce a led e contenitori ecocompatibili (ma l'illuminazione di un evento storico simile non dovrebbe essere omogenea, perché si lascia a ciascun banco di proporre la propria?). Leggiamo, infine, che in caso di parità si procederà all’assegnazione privilegiando l’anzianità. E perché non quella qualità che si è deciso di mettere in risalto? “Promuoviamo chi fa meglio” ha ribadito in conferenza l’assessore Meloni. Presto sapremo se è vero osservando i risultati del bando, la sensazione è che anche per i prossimi 9 anni non ci sarà spazio nella Festa della Befana di Piazza Navona per nessunissima proposta gastronomica di eccellenza. 

 

a cura di Livia Montagnoli

Tre Bicchieri 2018. Parla Roberto Ceraudo

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È una delle punte di diamante della regione, per l'attenzione all'ambiente, la struttura bellissima, la cucina d'autore firmata dalla giovane Caterina, gli ulivi millenari e, non ultimo, il vino. Quello di Roberto Ceraudo.

Un'azienda agricola biologica e biodinamica che rappresenta una delle perle della regione, un piccolo paradiso a due passi da Strongoli. Appena si varca la soglia ci si trova immersi in un'atmosfera e un paesaggio bellissimi: il borghetto rurale curato in ogni dettaglio, le stanze, la piscina, il museo naturale degli ulivi millenari, vere sculture botaniche, il ristorante Dattilo (Due Forchette nella guida Ristoranti d'Italia del Gambero Rosso) in mano alla giovane Caterina, cuoca, sì, ma anche enologa. Lei ha saputo in pochi anni tirar fuori una gamma di vini brillanti, aromaticamente complessi, e capaci di emozionare. Frutto di un attentissimo lavoro in vigna che segue i precetti di un'agricoltura in piena armonia con la natura. Certificata biologica ma sbilanciata in modo evidente verso la biodinamica. Tutto per preservare quell'ambiente naturale, umano e culturale di cui Roberto Ceraudo si fa tutore e portavoce. Lui, con i suoi tre figli – oltre a Caterina anche Giuseppe al suo fianco nel lavoro agricolo, Susy in amministrazione – sono i creatori di una delle più belle e complesse realtà calabresi. A loro, e al loro Grisara 2016, profumato di anice stellato, erbe officinali e frutti esotici, dal sorso sapido e ricco di polpa, i Tre Bicchieri della guida Vini d'Italia 2018.

 

Ceraudo

 

Qual è lo stato della vitivinicultura calabrese?

Credo che gli ultimi 10 anni sia in piena crescita, e questo soprattutto grazie all'avvento di tecnologie moderne che hanno portato un miglioramento in tutto il reparto vinicolo.

 

Parla della zona di Cirò?

Non solo, ci sono altre province che stanno uscendo molto bene, c'è molto fermento. Le zone di Reggio Calabra e di Cosenza, per esempio, mentre è rimasta un po' indietro la provincia di Catanzaro. Ormai sono molti che, vista la crisi della vendita dell'uva degli ultimi anni, hanno deciso di imbottigliare. E in tanti lo stanno facendo bene.

 

Comunicare il vino calabrese nel mondo com'è?

La difficoltà ci sono, ma solo all'inizio, dopo che il vino viene assaggiato le cose vanno bene. Il vero biglietto da visita è la bottiglia. Noi, poi, come azienda stiamo chiudendo tutta la filiera: vino, olio, agriturismo, ristorante. E questo ci aiuta a far conoscere tutti i nostri prodotti.

 

Quali sono i vostri mercati?

In Italia e all'estero, per un 40%: Europa, Stati Uniti, Giappone.

 

Che dimensioni avete?

Non siamo grandi: 20 ettari di vigneto, il resto è uliveto. 1000 piante.

 

Tra l'altro storiche...

Hanno 1100 – 1200 anni, un museo a cielo aperto.

 

Siete stati tra gli antesignani del bio in Calabria...

Faccio agricoltura biologica seria da 30 anni, da quando ho avuto un avvelenamento con degli antiparassitari: allora ho capito che così non poteva andare. Sono stato il primo in Calabria a fare una scelta del genere.

 

Come è andata?

All'inizio la conversione al bio non è stata facile, però sono stato aiutato anche dall'Istituto Sperimentale di Conegliano Veneto per arrivare ai risultati di oggi. È difficile, ma poi i frutti ci sono e tutto l'ambiente si fortifica. Faccio un esempio: nella trappole ai ferormoni ci sono sempre meno catture, e tra un anno o due contiamo di non dover più combattere la tignoletta, perché la natura sta provvedendo da sé con degli antagonisti. Più riesci a seguire bene il bio, più la natura fa il suo corso, le piante sono più resistenti e hanno più anticorpi. Si crea una flora batterica fondamentale. Ora ho capito come è la natura, la peggior bestia che esiste è l'uomo.

 

E ora quali sono i prossimi obiettivi?

Ho un sogno, più che un obiettivo: di ricostituire il terreno com'era 100 anni fa, con tutta la flora batterica integra e ricca. L'obiettivo è non toccare più il terreno e non usare mezzi meccanici che rovinano il suolo e quel che c'è sotto. Tutto quel mondo sotterraneo preziosissimo.

 

Un metodo che punta alla prevenzione e all'autodifesa che richiama la biodinamica

In vigna sì, invece in cantina seguiamo il disciplinare bio: non posso permettermi dei problemi. Ci ho messo 30 anni a fare una piccola commercializzazione, non posso rischiare problemi come rifermentazione o altro.

 

Quali sono le sfide future?

Se campo altri 15 anni posso fare uno dei migliori vini d'Italia, ancora è troppo presto. Ma lasciatemi sognare.

 

Che importanza ha avuto l'ingresso della nuova generazione nell'azienda?

La Calabria si sta impoverendo, perché non c'è un'economia forte e chi va fuori a studiare poi non torna più. Invece i miei figli sono tornati a casa. Sono stato fortunato. Giuseppe segue la produzione agricola, Susy la parte amministrativa, Caterina, invece è in cucina. Si sono appassionati ed è bellissimo. Per il resto le cose si fanno man mano, quando si può. Per esempio per le botti, ho sentito di alcune di cemento francesi e di legni austriaci. Ma ogni cosa si fa pian piano con il lavoro: la nostra è una piccola azienda con 25 dipendenti, abbiamo una responsabilità verso di loro e i loro figli.

 

Dattilo | Strongoli (KR) | loc. Dattilo | tel. 0962 865613 | www.dattilo.it

 

a cura di Antonella De Santis e William Pregentelli

 

 

 

 

Il Cammino di San Tommaso: da Roma a Ortona. Un weekend insolito in Abruzzo

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316 chilometri e 15 tappe, dalle porte di Roma a Ortona, sulle tracce di San Tommaso. Percorre l’Abruzzo meno turistico il Cammino dedicato al santo dell’incredulità, che ci accompagna in un viaggio tra ristoranti tradizionali, botteghe, specialità gastronomiche e una miracolosa Fontana del vino. I nostri consigli. 

Sulle tracce di San Tommaso. In Abruzzo

Settembre andiamo, è tempo di… peregrinar. Non ce ne voglia D'Annunzio se andiamo a scomodarlo, ma i suoi versi sembrano descrivere al meglio la stagione dei pellegrinaggi che si è appena aperta proprio in terra abruzzese. Non tutti sanno, infatti, che oltre ai tradizionali itinerari sulle vie della Fede - come la Via Francigena, il Cammino di Assisi, la Via degli Dei o il quotatissimo Cammino di Santiago - ve ne è uno che collega la Basilica di San Pietro di Roma con quella di Ortona, dove sono custodite le spoglie dell'Apostolo San Tommaso sin dal 1258. Molto più giovane, invece, il Cammino a lui dedicato, la cui associazione di riferimento è nata appena cinque anni fa, come racconta il suo presidente Fausto Di Nella: “Rivendichiamo la nostra giovinezza e anche la nostra modernità, che ci distingue dagli altri Cammini nel mondo. In questi anni, abbiamo prima lavorato a rendere fruibile il percorso da un punto di vista fisico, poi ad animarlo in una sorta di lavoro di comarketing, cercando anche strutture che ci appoggiassero per fornire ai pellegrini una serie di servizi, tra cui anche una traccia gps e una lista di strutture convenzionate (20 euro a notte per pernottamento e colazione)”. Il percorso si svolge in 15 tappe per 15 giorni, per un totale di 316 km da percorrere a piedi, in bici o a cavallo. Chi pensasse, però, che i pellegrini debbano percorrere il Cammino senza bere né mangiare sarebbe assolutamente fuori strada. Il percorso diventa anche pretesto per vivere un'esperienza totalizzante: oltre che spirituale, enogastronomica, alla scoperta dei luoghi più autentici del Lazio e dell'Abruzzo. Cedere alla tentazione, dunque, è solo un piccolo peccato di gola, per arrivare più appagati alla meta.

Il Cammino dei vignandanti

Lo sanno bene i “vignandanti” che domenica 10 settembre, accompagnati dai camminatori dell'Associazione Il Cammino di San Tommaso partiranno da Tollo in mattinata per giungere nel pomeriggio alla Cattedrale di San Tommaso di Ortona. Un mini Cammino, giunto alla sua terza edizione e realizzato all'interno dell'evento Cantine Aperte in Vendemmia del Movimento Turismo del Vino, che attraverserà i vigneti abruzzesi, incrociando enologi e agronomi alle prese con la vendemmia. Arrivati al traguardo, ai partecipanti sarà consegnata anche una bottiglia di vino, che completerà il cosiddetto kit del vignandante (carta-passaporto; buono pasto; buono degustazione vini). Solo un piccolo assaggio del Cammino completo.

Per quello, armatevi del taccuino del viandante e segnate le tappe enogastronomiche che vi proponiamo.

 

Il fronte romano. Albano Laziale – Lariano - Genazzano

Partiti dalla Capitale, si punta dritti sui Castelli Romani. Prima sosta per iniziare il Cammino con la giusta dose di energie è Albano Laziale, dove al di là delle varie fraschetterie più o meno turistiche - attingendo dalla nostra guida Ristoranti d'Italia - suggeriamo una visita alla Galleria di Sopra, locale che - giusto per restare in tema di pellegrinaggi e religione - sorge all’interno di un vecchio granaio di un convento di clarisse del Seicento. Qui i fratelli Carfagna propongono una cucina a metà tra terra e mare: dal fritto di paranza e tortellini di cozze e fagioli del Purgatorio agli gnocchi di topinambur e cannelloni di coniglio alla cacciatora.

Da Albano a Lariano il passo è breve. Neanche a dirlo, questo borgo dei Castelli è, invece, diventato celebre per l'omonimo pane, ottenuto con l'impasto del lievito naturale, la farina di grano tenero semintegrale e la cottura nel forno a legna con le fascine di castagno che conferiscono il particolare aroma. Grazie alla lunga durata della sua fragranza, se ne può fare una buona scorta per i giorni di Cammino a venire. In Paese ci sono diversi forni familiari dove è possibile acquistarlo, ma occhio alle imitazioni: l'originale ha il bollino con il marchio collettivo geografico (Mcg).

Altra tappa, altra pausa gourmet. Genazzano è ormai il regno indiscusso di Marco Bottega che nel suo resort di campagna – Aminta Resort  – propone una cucina fatta dei sapori forti della sua terra, realizzati con mano pulita. Notevoli il risotto con tartufo, nocciole e salvia e il cannellone con stinco di agnello, ortiche e passion fruit. Il contesto è da contemplazione. Ma ci sono ancora 250 km da percorrere.

 

Oltre il confine. Cappadocia - Tagliacozzo – Masse d'Alba

Superato il confine laziale, la prima tappa indicata dall'Associazione del Cammino di San Tommaso è Cappadocia, un piccolo comune in provincia dell'Aquila, nel cuore dell'Appennino centrale, dove si erge una delle poche insegne della zona: il Grifone (località Petrella Liri), una tipica trattoria di paese a conduzione familiare, che propone una cucina rustica, dove sono sempre garantiti la pasta fatta in casa (i classici abruzzesi sono di casa) e la griglia accesa per bistecche, salsicce o costolette di abbacchio.

Per una scorpacciata di ottimi salumi e formaggi, invece, basta spingersi un po' più avanti a Tagliacozzo, dove i primi si possono trovare alla Norcineria, proprio nella piazza principale del paese, i secondi, poco distante, alla fornitissima Le fromage di Paola Iacovone.

Il Cammino può, poi, proseguire alla volta di Masse d'Alba: siamo in territorio marsicano, ai piedi del Velino e qui sorge lo splendido sito archeologico Alba Fucens di epoca romana. Dopo la visita culturale si può far tappa alle Antiche Mura, una pizzeria-ristorante dalla cucina schietta e pulita: gnocchi, tagliatelle al cinghiale, agnello arrosto, tagliata di manzo.

 

Mangiare e dormire a Fontecchio

Per proseguire sul fil rouge della spiritualità senza rinunciare ai piaceri della tavola, l'indirizzo giusto è a Fontecchio, dove un ex convento francescano oggi ospita il ristorante il Sirente. La sala principale è l'antica chiesa, dove sopravvivono i resti degli affreschi, all'interno, invece, si apre un suggestivo cortile. I sapori proposti spaziano da quelli dalle forti radici locali, come funghi, pancetta, tartufi e zafferano a quelli di una cucina meno regionale, ma sempre attenta alle materie prime.

Fontecchio, decima tappa del Cammino, è anche sede di Ilex-Italian Landscape Exploration, un centro di educazione al paesaggio che lavora sui temi dello sviluppo sostenibile, paesaggio e cultura locale, promuovendo corsi di vario genere, tra cui anche quelli di cucina. Il suo fondatore, Alessio Di Giulio, dà anche ospitalità a pellegrini e turisti nella casa “Torre del Cornone”, un b&b con camere "sospese" sul Parco Nazionale del Sirente. Tutt’attorno un giardino sulle mura, con piante di rosmarino, fico, melo, prugno, alloro e pergole d’uva. I tavoli fuori offrono una vista a strapiombo sulla valle e un'esperienza di meditazione fuori dal tempo, da cui è difficile staccarsi per proseguire il Cammino. Ma la meta è ormai vicina.

 

Navelli e il suo oro rosso

Ancora qualche km per arrivare a Navelli, località legata a una delle spezie più pregiate e costose al mondo, lo zafferano. Il suo arrivo in territorio abruzzese è legato a un altro “cammino spirituale”, quello del monaco Santucci di Navelli, che nel 1230, di ritorno da un viaggio in Spagna per il Tribunale dell’Inquisizione, riportò di nascosto dei bulbi. La consacrazione della sua produzione è, invece, di epoca più recente, precisamente nel 2005, quando ottenne la Dop col nome di “Zafferano dell’Aquila”.

Dove assaggiarlo? Uno degli indirizzi migliori è l'Antica Taverna, che lo propone con tagliolini e guanciale croccante, ma anche per dessert con una saporita crema a base proprio di quest'oro rosso. Tuttavia c'è anche un altro modo per assaporarlo nella sua interezza: mangiarlo con gli occhi. Nel mese di ottobre, infatti, culmina la tanto attesa fioritura che tinge tutta la piana circostante di viola (il colore dei fiori), rosso e arancio (il colore degli stimmi dello zafferano): uno spettacolo senza eguali che aggiunge un tocco di estasi al Cammino dei viandanti, ormai a meno sei tappe dalla meta.

 

I borghi di Capestrano, Pretoro e Manopello

Poco più avanti, si apre alla vista il borgo di Capestrano, un' armoniosa miscela di architetture medievali e rinascimentali, ai confini del Parco del Gran Sasso, di cui rappresenta praticamente una delle porte di accesso. Per ammirarlo dal basso, sulle sponde del Tirino, si consiglia una sosta all'agriturismo Terra di Solina che, come suggerisce il nome, propone soprattutto impasti a base di grano Solinas (antico grano autoctono della vallata), oltre che prodotti a km zero direttamente dall'orto dei proprietari, Alfonso e Carla.

Lungo il percorso, altro borgo che merita una sosta è Pretoro, un vero presepio della provincia teatina, all’ombra della Majella e immerso nell’omonimo parco nazionale. Da visitare l’area faunistica del lupo, la chiesa della Madonna della Mazza e la grotta dell’eremita. Per un'esperienza di ospitalità e cortesia, bisogna, infine, “bussare” a Casa Milà, il curatissimo b&b di Pamela Perseo che, incastonato nella montagna domina il paesaggio sottostante. Non si farà dimenticare neppure la locanda scavata nella roccia dell'antica cantina. La proposta è tutta made in Abruzzo: le "p’ttolozz" (rombi di pasta fatta di farina e acqua) al sugo, la pasta alla chitarra, l'agnello pretorese, i turcinelli (budella di maiale), la "pizz’ e foij", stufato di verdure servito con la sarda affumicata, e la "pizza scim", pane bianco non lievitato e senza sale.

Altro must del Cammino è il borgo di Manopello, sede delSantuario del Volto Santo, dove viene custodita la famosa reliquia che, assieme alla Sacra Sindone di Torino, raffigura la vera effigie di Cristo. In cima alla collina c'è anche Casale Centurione, una country house che tra vigneti e oliveti, domina il paesaggio. I pellegrini ormai conoscono benissimo i ravioli di Giulia, la padrona di casa, che organizza quotidianamente delle cooking class in inglese e spagnolo per i suoi ospiti.

Il vino lungo il Cammino

Non è ancora finita. Prima di piantare la bandierina davanti alla Basilica di Ortona, vale la pena perdersi nelle distese di vigneti, che annunciano la prossimità della costa adriatica. Il percorso di San Tommaso attraversa, infatti, la tenuta il Feuduccio di Santa Maria d’Orni (Orsogna), in una splendida zona collinare che si estende dalle falde del monte Majella al mare. “Dare da bere agli assetati” si legge nel Vangelo secondo Matteo, e così, obbedendo a questo precetto, la cantina è ormai divenuta meta di pellegrini da tutto il mondo a cui non viene mai negato un calice di vino: Montepulciano d'Abruzzo, Cerasuolo d'Abruzzo, Pecorino e Passerina. A chi ha il piacere di incontrarlo, Gaetano, la terza generazione della famiglia Lamaletto, sarà ben contento di raccontare la sua storia: furono i nonni a realizzare la cantina, prima di partire negli anni '50 per il Venezuela e diventare affermati industriali nella produzione di ceramiche e piastrelle. Oggi, però, il nipote è tornato in Italia per portare avanti quel sogno abruzzese.

Ha realizzato un piccolo sogno, anche Nicola D'Auria della cantina Dora Sarchese di Villa Caldari (Ortona), che lo scorso anno ha costruito, in mezzo ai vigneti, la sua fontana del vino. L'iniziativa ha fatto in poco tempo il giro dei giornali, anche stranieri, e il Consorzio ne ha riconosciuto la grande spinta promozionale per tutto il territorio abruzzese, con un premio al suo proprietario, che scherzosamente si definisce “il fontaniere”. Il Cammino di San Tommaso, quindi, non poteva che passare da qui. Segnalata dai versi del filosofo Omar Khayyâm “Bevi vino, ché non sai donde sei venuto: sii lieto, perché non sai dove andrai”, la Fontana miracolosa (sicuramente lo è per il turismo che sta portando sul territorio) si trova all'interno di una vecchia botte da 7 mila litri da cui sgorga ininterrottamente Montepulciano d'Abruzzo, collegato direttamente alla cantina sottostante. I cancelli rimangono sempre aperti per accogliere pellegrini e appassionati, “a patto che”, racconta il simpatico proprietario “non arrivino armati di damigiane da riempire e portarsi a casa. È successo anche questo”. Non ci credete? “Beati coloro che non videro e tuttavia credettero”. San Tommaso docet.

 

a cura di Loredana Sottile

 

La Galleria di Sopra | Albano Laziale (Roma) | via Leonardo Murialdo, 9 | tel. 06 932 2791| www. lagalleriadisopra.it

Aminta Resort | Genazzano (Roma) | Via Trovano, 5 | tel. 06 957 8661| www.amintaresort.it

Il Grifone | Petrella Liri -Cappadocia (L'Aquila) | via Vittorio Veneto, 8

Norcineria | Tagliacozzo (L'Aquila) | Piazza Duca degli Abruzzi, 52, | tel. 0863 610269

Le fromage | Tagliacozzo (L'Aquila) | Largo del Popolo

Le Antiche Mura | Albe Fucens (L'Aquila) | tel. 0863 441086

Il Sirente | Fontecchio (L'Aquila) | Via S. Pio, 1 | tel. 0862 85376|  www.ristoranteilsilento.com

Casa Torre del Cornone | Fontecchio (L'Aquila) | Via Cantone della Terra, 22 | tel. 0862 85441(struttura convenzionata con l'associazione il Cammino di San Tommaso)

Antica Taverna | Navelli (L'Aquila) | via dell'Osteria, 16 | tel. 0862 959171 | www.navelli.anticataverna.it

Agriturismo Terra di Solina | Capestrano (L'Aquila) | Nucleo Capodacqua, 4 | tel.  331 676 6139

Casa Milà | Pretoro (Chieti) | Piazza Roma, 3 | tel. 334 992 5508| www.bebmila.it (struttura convenzionata con l'associazione il Cammino di San Tommaso)

Country House Casale Centurione | Manopello (Pescara) | Via Santa Maria Arabona, 2 |  tel. 335 825 7345| www.casalecenturione.it (struttura convenzionata con l'associazione il Cammino di San Tommaso)

Cantina Feuduccio di Santa Maria d’Orni | Orsogna (Chieti) | Via Feuduccio, 2 | Tel 0871 891646| www.ilfeuduccio.it

Cantina Dora Sarchese | Ortona (Chieti) | Contrada Caldari Stazione, 65 |Tel 085 903 1249 | www.dorasarchesevignai.wixsite.com

Michelin Stars. Il film sulla guida più temuta al Culinary Zinema di San Sebastian

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Il 23 settembre, in anteprima mondiale, il Festival del Cinema di San Sebastian presenta il film che racconta il mondo delle stelle Michelin e le aspettative degli chef in lizza per il riconoscimento. Un documentario che ha richiesto due anni di lavoro e fa parlare 15 tra i più celebrati chef dell'alta cucina. 

Autunno al cinema... Gastronomico

È decisamente un autunno in accelerazione per il cinema a tema gastronomico. All'inizio di ottobre, nelle sale francesi, uscirà l'atteso documentario di viaggio sulle tracce di Alain Ducasse, prossimo pure a inaugurare un nuovo ristorante a Parigi. E solo qualche giorno dopo, dal 13 ottobre, in rete comincerà a circolare l'ultimo lavoro di Anthony Bourdain, un lungometraggio sullo spreco alimentare che coinvolge chef del calibro di Massimo Bottura e Dan Barber. Prima ancora, però, i cinefili appassionati del genere si ritrovano a San Sebastian, per un aggiornamento sulle ultime novità al Culinary Zinema del San Sebastian Film Festival. Nella capitale basca dell'avanguardia gastronomica, la kermesse giunta alla 65esima edizione dedica una sezione speciale alle pellicole che trattano di cucine, chef e storie che con il cibo, la sua produzione e consumo, hanno a vario titolo a che fare. Con un paio di settimane d'anticipo sul congresso di Gastronomika, che quest'anno si terrà dall'8 all'11 ottobre e omaggerà l'India.

Il Film Festival, invece, prenderà il via il 22 settembre, per concludersi con la premiazione dei film in concorso il 30 del mese. Sette le pellicole in proiezione nella sezione Culinary Zinema, dalla storia del re del ramen Osamu Tomita (Ramen Heads) al lungometraggio tedesco The Cakemaker, al viaggio attraverso le tradizioni gastronomiche spagnole in scena con The Trip to Spain (il terzo progetto di un format di successo, già passato anche in Italia, per la regia di Michael Winterbottom). Della Spagna gastronomica d'autore, invece, racconta Laura Collado in Constructing Albert, sulle orme di Albert Adrià; mentre Dad's Lunch Box, dal Giappone, è una variazione sul tema del rapporto padre/figlia attraverso il “rituale” del bento. Ma c'è spazio anche per l'Italia, e la sua storia alimentare: E il cibo va è frutto di una coproduzione tra Argentina, Italia e Usa, e racconta attraverso il cibo la diaspora degli emigranti italiani tra il XIX e XX secolo, cercando nell'America di oggi tracce dell'eredità gastronomica arrivata dalla Penisola.

"Michelin Stars – Tales From The Kitchen" Trailer from Bon Vivant Communications on Vimeo.

Michelin Stars. Il film

La proiezione più attesa, però, aprirà in anteprima mondiale il calendario della sezione il 23 settembre, portando in sala Michelin Stars – Tales from the Kitchen, del danese Rasmus Dinesen. Del film che segue le vicende di 15 tra i migliori chef del mondo si è molto parlato: il progetto ha richiesto due anni di lavorazione, e ha coinvolto da vicino anche giornalisti di settore e vertici della guida Rossa per cercare di spiegare quale sia l'impatto delle stelle sul mondo enogastronomico. E perché anno dopo anno la Michelin continui a determinare le sorti del settore. Splendori e miserie delle cortigiane, l'avrebbe forse intitolato Honoré de Balzac: nelle premesse, il film si prefigge di scavare nell'industria dell'alta ristorazione, oltre la facciata patinata fatta di incoronazioni e lustrini. Del resto l'idea di umanizzare lo chef è una strategia che nella comunicazione della cucina d'autore si è rivelata molto efficace: scoperto il personaggio, mettine a nudo gioie e dolori, e costruirai un mito. Michelin Stars, questi divi della ristorazione mondiale (da Alain Ducasse a Guy Savoy, da Andoni Luis Aduriz a Yoshihiro Narisawa), li mette tutti a confronto con una semplice domanda: qual è il tuo rapporto con le stelle? Le reazioni sono disparate, il trailer – diffuso qualche giorno fa – ne anticipa alcune. Così Daniel Humm (Eleven Madison Park) ammette che “le tre stelle sono qualcosa che non puoi neanche riuscire a sognare”, mentre più prosaica Barbara Eselbock ricorre a un paragone calzante: “La Michelin è come un ex fidanzato che non vuole più vederti”. “Michelin è tutto” riassume Martin Berasategui, lo chef più stellato di Spagna; “la prima è la migliore”, sostiene Renè Redzepi, che ancora non è riuscito a strappare la terza. Michael Ellis, direttore della guida, invece, gioca la sua partita, ripreso mentre contatta i ristoranti per annunciargli l'arrivo di una stella.

Per tutta la durata della manifestazione, gli ospiti del festival potranno partecipare alle cene del Basque Culinary Center, con gli chef invitati a cucinare per l'occasione, da Elena Arzak a Kamilla Seidler, a Osamu Tomita.

 

a cura di Livia Montagnoli


La focaccia e i suoi derivati. 6 specialità della Lombardia

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Tra pianure, montagne e laghi, il territorio lombardo offre una grande varietà di panorami e una altrettanto diversificata scelta di prodotti tipici, ingredienti preziosi che vanno a costituire la ricca tradizione gastronomica della regione. Fra polenta e risotti, trovano spazio anche i classici prodotti da forno. 

Protagonista di tutti i forni delle varie zone, il pane in Lombardia è un una cosa seria che in ogni città trova la sua espressione, da quello di riso della Lomellina al miccone pavese, dalla busella di Bergamo al pane mantovano, dal panon della Viadana al pane di Como. Non mancano, però, anche focacce e altri prodotti da forno, specialmente nella zona di Mantova. Abbiamo cercato di radunarle tutte qui, insieme a una ricetta d'autore dal panificio Longoni di Milano.

Brusadela

Romagnese è un piccolo comune della Val Tidone che conta meno di 700 anime. Qui, in questo borgo fermo nel tempo, le tradizioni artigianali del passato continuano a vivere grazie all'impegno dei cittadini e della Pro loco, che ogni anno lavorano per recuperare le ricette storiche attraverso sagre ed eventi specifici. Fra questi, la più nota è quella della brusadela, una focaccia a base di acqua, farina, sale e lievito, cotta in forno a legna. L'abbinamento vincente in questo caso è anche quello più semplice, ma mai banale: salumi e formaggi locali, e un buon bicchiere di vino dell'Oltrepò Pavese.

Chilozina

Una schiacciata nata nel Cinquecento a Mantova, tradizionalmente cotta nel testo oppure, più frequentemente, sotto la cenere. Esistono diverse varianti della chilozina, che prevedono ingredienti e procedimenti differenti. Alcune ricette vogliono l'utilizzo di farina, acqua, sale e un pizzico di bicarbonato, altre invece richiedono anche l'impiego del grasso di cottura del cotechino, le uova e il latte, il tutto cotto al forno in una teglia di rame.

Focaccia fioretto

Non mancano all'appello anche le schiacciate dolci, come la focaccia fioretto, o fügascia de fiorétt in dialetto valchiavennasco, tipica della provincia di Sondrio. Semi di anice (il fioretto, appunto), pasta del pane, burro e zucchero: questi gli ingredienti alla base della focaccia. Un dolce semplice che riprende i sapori di una volta, una ricetta povera nata come evoluzione del pane, che in questa variante viene impreziosito con materie prime golose e succulente.

Riccioline mantovane

Piccoli pani allungati a base di farina, lievito, olio extravergine di oliva e acqua: sono le riccioline mantovane, filoncini di pasta dura croccanti e friabili. Buone se gustate da sole come goloso aperitivo o snack, ma ancora più sfiziose se accompagnate da salumi e formaggi del territorio. Le riccioline sono un'alternativa al classico baule mantovano, un pane antico realizzato a partire da un impasto di farina di grano tenero, acqua, lievito madre e sale.

Spongada

Anche a Brescia si possono trovare pani e focacce di qualità dalla storia antica. Qui, è la spongada a fare la parte del leone. È una ricetta tradizionale diffusa in tutta la Val Camonica: si tratta, nello specifico, di una piccola pagnotta cosparsa di zucchero, disponibile tutto l'anno ma originariamente preparata in occasione della Pasqua. L'etimologia del nome fa riferimento alla sua consistenza, soffice e spugnosa, dovuta alla presenza delle uova nell'impasto. Come nelle migliori tradizioni gastronomiche italiane, la ricetta subisce diverse modifiche a seconda della zona di provenienza, ma nella maggior parte dei casi prevede l'utilizzo di uova, farina di frumento, latte, zucchero, burro, sale e lievito. In passato, l'impasto veniva solitamente inciso con una croce, simbolo della Pasqua, e una volta cotta, la focaccia veniva decorata con foglie d'ulivo benedette.

Tiròt

A Felonica, in provincia di Mantova, è il tiròt a farla da padrone fra i banchi dei forni locali. Una focaccia bassa e soffice insaporita con le cipolle, che deve il suo nome a una delle fasi di preparazione in cui l'impasto viene “tirato”, ovvero steso, dentro la teglia prima della cottura in forno. Nato all'inizio dell'Ottocento, nella tradizione mantovana il tiròt veniva preparato in origine soltanto da maggio a settembre, nel periodo di raccolta delle cipolle bionde, una varietà dolce che per secoli ha rappresentato una delle principali fonti di reddito degli abitanti di Felonica. Alla base della focaccia, farina, strutto, sale, acqua e lievito, un mix di ingredienti che dà vita a un impasto colloso e morbido, che per tempo ha costituito il pranzo dei contadini e dei pastori.

a cura di Michela Becchi

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La focaccia e i suoi derivati. 7 specialità della Lombardia e la ricetta della torta di pane

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Tra pianure, montagne e laghi, il territorio lombardo offre una grande varietà di panorami e una altrettanto diversificata scelta di prodotti tipici, ingredienti preziosi che vanno a costituire la ricca tradizione gastronomica della regione. Fra polenta e risotti, trovano spazio anche i classici prodotti da forno. 

Protagonista di tutti i forni delle varie zone, il pane in Lombardia è un una cosa seria che in ogni città trova la sua espressione, da quello di riso della Lomellina al miccone pavese, dalla busella di Bergamo al pane mantovano, dal panon della Viadana al pane di Como. Non mancano, però, anche focacce e altri prodotti da forno, specialmente nella zona di Mantova. Abbiamo cercato di radunarle tutte qui, insieme a una ricetta d'autore dal panificio Longoni di Milano.

Brusadela

Romagnese è un piccolo comune della Val Tidone che conta meno di 700 anime. Qui, in questo borgo fermo nel tempo, le tradizioni artigianali del passato continuano a vivere grazie all'impegno dei cittadini e della Pro loco, che ogni anno lavorano per recuperare le ricette storiche attraverso sagre ed eventi specifici. Fra questi, la più nota è quella della brusadela, una focaccia a base di acqua, farina, sale e lievito, cotta in forno a legna. L'abbinamento vincente in questo caso è anche quello più semplice, ma mai banale: salumi e formaggi locali, e un buon bicchiere di vino dell'Oltrepò Pavese.

Chilozina

Una schiacciata nata nel Cinquecento a Mantova, tradizionalmente cotta nel testo oppure, più frequentemente, sotto la cenere. Esistono diverse varianti della chilozina, che prevedono ingredienti e procedimenti differenti. Alcune ricette vogliono l'utilizzo di farina, acqua, sale e un pizzico di bicarbonato, altre invece richiedono anche l'impiego del grasso di cottura del cotechino, le uova e il latte, il tutto cotto al forno in una teglia di rame.

Focaccia fioretto

Non mancano all'appello anche le schiacciate dolci, come la focaccia fioretto, o fügascia de fiorétt in dialetto valchiavennasco, tipica della provincia di Sondrio. Semi di anice (il fioretto, appunto), pasta del pane, burro e zucchero: questi gli ingredienti alla base della focaccia. Un dolce semplice che riprende i sapori di una volta, una ricetta povera nata come evoluzione del pane, che in questa variante viene impreziosito con materie prime golose e succulente.

Riccioline mantovane

Piccoli pani allungati a base di farina, lievito, olio extravergine di oliva e acqua: sono le riccioline mantovane, filoncini di pasta dura croccanti e friabili. Buone se gustate da sole come goloso aperitivo o snack, ma ancora più sfiziose se accompagnate da salumi e formaggi del territorio. Le riccioline sono un'alternativa al classico baule mantovano, un pane antico realizzato a partire da un impasto di farina di grano tenero, acqua, lievito madre e sale.

Spongada

Anche a Brescia si possono trovare pani e focacce di qualità dalla storia antica. Qui, è la spongada a fare la parte del leone. È una ricetta tradizionale diffusa in tutta la Val Camonica: si tratta, nello specifico, di una piccola pagnotta cosparsa di zucchero, disponibile tutto l'anno ma originariamente preparata in occasione della Pasqua. L'etimologia del nome fa riferimento alla sua consistenza, soffice e spugnosa, dovuta alla presenza delle uova nell'impasto. Come nelle migliori tradizioni gastronomiche italiane, la ricetta subisce diverse modifiche a seconda della zona di provenienza, ma nella maggior parte dei casi prevede l'utilizzo di uova, farina di frumento, latte, zucchero, burro, sale e lievito. In passato, l'impasto veniva solitamente inciso con una croce, simbolo della Pasqua, e una volta cotta, la focaccia veniva decorata con foglie d'ulivo benedette.

Tiròt

A Felonica, in provincia di Mantova, è il tiròt a farla da padrone fra i banchi dei forni locali. Una focaccia bassa e soffice insaporita con le cipolle, che deve il suo nome a una delle fasi di preparazione in cui l'impasto viene “tirato”, ovvero steso, dentro la teglia prima della cottura in forno. Nato all'inizio dell'Ottocento, nella tradizione mantovana il tiròt veniva preparato in origine soltanto da maggio a settembre, nel periodo di raccolta delle cipolle bionde, una varietà dolce che per secoli ha rappresentato una delle principali fonti di reddito degli abitanti di Felonica. Alla base della focaccia, farina, strutto, sale, acqua e lievito, un mix di ingredienti che dà vita a un impasto colloso e morbido, che per tempo ha costituito il pranzo dei contadini e dei pastori.

Torta di pane

Una ricetta semplice, "povera", parte della tradizione contadina. La torta di pane è a base di pane raffermo bagnato nel latte (o acqua), a cui solitamente vengono aggiunti amaretti, uva passa, pinoli e cacao. Un dolce goloso nella sua semplicità, da poco recuperato, che nel tempo è stato rielaborato in diverse variante. Qui, vi proponiamo quella del panificio Longoni.

La ricetta: torta di pane del panificio Longoni, Milano

Ingredienti

250 g. di pane raffermo senza crosta

1 l. di latte

200 g. di biscotti secchi

200 g. di amaretti tipo Saronno

2 uova

150 g. di cacao amaro

100 g. di cioccolato fondente a scaglie

100 g. di zucchero di canna

200 g. di uvetta ammollata

50 g. di cedro candito

Pinoli q.b.

Pan grattato q.b.

Rhum q.b.

Far ammollare il pane nel latte in frigorifero per circa 2/3 ore. Aggiungere gli altri ingredienti e impastare fino a ottenere un composto omogeneo. Versare l'impasto in una teglia precedentemente imburrata e spolverare di pan grattato. Decorare con i pinoli e cuocere in forno a 180°C per 45 minuti.

a cura di Michela Becchi

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Anteprima Tre Bicchieri 2018. Abruzzo e Molise

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L'anticipazione dei premiati della nuova guida Vini d'Italia 2018 oggi ci porta a scoprire i migliori vini di Abruzzo e Molise.

Abruzzo

Come sembrano lontani i tempi in cui la vitivinicoltura abruzzese veniva raccontata come una sorta di grande serbatoio indistinto alla mercé di operatori collocati altrove. Intendiamoci: gli sfusi imbottigliati fuori regione rappresentano ancora una quota rilevante della produzione, ma reputazione e identità del comparto si rafforzano anno dopo anno, lasciando intravedere un futuro perfino più roseo.

Per tanti operatori specializzati e bevitori consapevoli è ormai chiaro quanto ci si diverta da queste parti, oltretutto salvaguardando il portafogli. Non solo sui base, ma anche al cospetto di etichette che figurano regolarmente tra le migliori opzioni in assoluto per versatilità espressiva e vocazione gastronomica. Ce n'è davvero per ogni sensibilità stilistica: vini appenninici e mediterranei, tradizionali e moderni, lavorati con protocolli classici o rimodulazioni di tecniche ancestrali (fermentazioni spontanee, macerazioni sulle bucce anche per le uve bianche, maturazioni in cemento e terracotta), e tutto quanto sta in mezzo. Complessità interpretativa che fa il paio con quella aziendale: al vertice della piramide incontriamo cantine storiche ed emergenti, piccole imprese artigiane e marchi da milioni di bottiglie. Senza dimenticare il ruolo, sociale ancor prima che commerciale, delle numerose cooperative abruzzesi da tempo sulla cresta dell'onda per livello medio delle gamme e vette d'eccellenza. Oppure il rilevante gruppo di realtà che fanno propri i dettami del cosiddetto movimento "naturale", non solo sul piano strettamente viticolo (leggi risparmio energetico e progetti di sostenibilità ambientale). Polifonia filosofica peraltro restituita con forza dagli ultimi assaggi. Nella lista dei premiati, infatti, sono equamente rappresentate tutte le zone produttive della regione, complice una sequenza di vendemmie favorevoli per le principali tipologie. Come la fresca e luminosa 2013 per i Montepulciano da invecchiamento, dove debutta nel club dei Tre Bicchieri l'Ursonia del Feuduccio di Santa Maria d'Orni. O l'accoppiata 2015-2016 per i bianchi da Trebbiano e Pecorino, che vede esordire al nostro massimo riconoscimento lo spettacolare Casadonna '15 di Feudo Antico. Ma il vero exploit di questa edizione è senza dubbio quello dei Cerasuolo, forse mai così convincenti su larga scala. Il più rosso dei rosati, grazie al quale la famiglia Montori si aggiudica col Fonte Cupa '16 il primo alloro della sua gloriosa storia. 

 

I vini dell'Abruzzo premiati con Tre Bicchieri

 

Cerasuolo d'Abruzzo Fonte Cupa ’16 - Camillo Montori

Cerasuolo d'Abruzzo Myosotis ’16 - Ciccio Zaccagnini

Cerasuolo d'Abruzzo Piè delle Vigne ’15 - Luigi Cataldi Madonna

Montepulciano d'Abruzzo Amorino ’13 - Castorani

Montepulciano d'Abruzzo Mo Ris. ’13 Cantina Tollo

Montepulciano d'Abruzzo Ursonia ’13 - Il Feuduccio di Santa Maria D'Orni

Pecorino ’16 - Tiberio

Pecorino Casadonna ’15 - Feudo Antico

Trebbiano d'Abruzzo ’13 - Valentini

Trebbiano d'Abruzzo Sup. Notàri ’15 - Fattoria Nicodemi

Trebbiano d'Abruzzo V. del Convento di Capestrano ’15 - Valle Reale

 

Molise

Nessuna nuova, buona nuova: il vecchio adagio popolare sembra calzare a pennello per inquadrare lo scenario produttivo molisano alla luce degli ultimi assaggi. Le aziende di riferimento restano più o meno le solite che abbiamo imparato a conoscere da almeno un lustro a questa parte e la regione non è esattamente la riserva ideale di caccia per chi cerca esordienti da scoprire a ogni test. D'altro canto il limitato turnover di cantine può essere letto anche come segnale di consolidamento: le migliori cantine indicano la strada e alle loro spalle c'è in ogni caso una piccola squadra affidabile e competitiva, soprattutto sul fronte qualità prezzo. Nel primo gruppo di merito figurano autentici leader e ispiratori come la famiglia Di Majo Norante, ancora una volta unica rappresentante molisana nell'élite dei Tre Bicchieri col suo Aglianico Contado Riserva '14. Oppure realtà come Borgo di Colloredo, Claudio Cipressi o Tenimenti Grieco, che ci ricordano con le loro variopinte gamme la natura intrinsecamente di frontiera del comprensorio.

Al di là delle singole riuscite, infatti, i principali elementi di interesse si legano sempre all'incredibile mosaico di condizioni pedoclimatiche, giacimenti ampelografici, modelli interpretativi. Il grande fascino di un territorio che evidenza continui punti di contatto con le zone limitrofe (Abruzzo, Sannio Beneventano, Lazio interno, Foggiano), restando comunque un distretto a parte, difficile da incasellare. Italia centrale e meridionale che si incontrano nei rossi da montepulciano e aglianico, con la tintilia a rafforzare vendemmia dopo vendemmia il suo ruolo di autoctono originale e versatile. Ma anche le speculari espressività delle aree adriatiche e appenniniche tenute insieme nel laboratorio bianchista, dove trovano spazio varietà internazionali (sauvignon e chardonnay in primis) accanto a falanghina, greco, trebbiano e malvasia. Senza trascurare i rosati, probabilmente la tipologia maggiormente cresciuta nelle recenti stagioni: vini perfetti per la mescita e un vasto campionario di abbinamenti gastronomici. Non è poco, se teniamo conto della fisiologica ristrettezza di opzioni. Il Molise del vino esiste, eccome, e siamo ragionevolmente convinti che i tempi per un suo definitivo exploit siano ormai maturi.

I vini del Molise premiati con Tre Bicchieri

 

Molise Aglianico Contado Ris. ’14 - Di Majo Norante

 

 

 

Gli altri premi Tre Bicchieri della guida Vini d'Italia 2018

 

 

Oli d'Italia 2017. Miglior olio Igp: Centonze di Castelvetrano

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Fondata nel 1953, Centonze è un'azienda storica del trapanese, che ha fatto della qualità dell'extravergine il suo marchio di fabbrica. Oggi vi raccontiamo la sua storia, quella di una delle realtà olivicole migliori della Sicilia.

Il premio

Quando si tratta di prodotti agroalimentari, il legame con il territorio è immediato. I produttori, infatti, non si limitano a coltivare la terra, ma operano un lavoro di valorizzazione e promozione della zona e dei suoi prodotti. Ogni regione ha i suoi frutti tipici, che trovano espressioni diverse a seconda di chi li lavora. In Sicilia, dal punto di vista olivicolo sono due le principali aree produttive della regione, ognuna con le sue cultivar autoctone principali a spiccare sulle decine di varietà minori. Nella parte orientale c'è la tonda iblea, mentre nella zona occidentale è la nocellara del Belice a fare la parte del leone, una varietà a duplice attinenza molto apprezzata anche nella versione di oliva da mensa. Tra le aziende che la rappresentano al meglio, Centonze di Castelvetrano, in provincia di Trapani, vincitrice del premio miglior olio Igp della guida Oli d’Italia 2017 del Gambero Rosso.

Le origini

L'azienda è stata fondata nel 1953, ma gli ulivi sono molto più antichi, così come le pietre che caratterizzano le tenute della famiglia Centonze. Una realtà olivicola che trae ispirazione dalla storia dell'ulivo nel bacino del Mediterraneo, in particolare dalle case di latomie, che danno il nome alle diverse etichette. “Le latomie - dal greco lâs ‘pietra’ e tomíai ‘tagliare’ - erano le cave utilizzate dagli antichi greci per ricavare il tufo. Ho la fortuna di avere nella mia proprietà delle latomie dell'800 a. C. Le mie piante crescono all'interno di quelle stesse cave che, secoli fa, consentirono ai greci di iniziare a edificare”. A iniziare l'attività agricola fu nonno Nino, “mio omonimo”, ma a trasformare l'azienda e creare un marchio riconosciuto è stato l'attuale proprietario, l'altro Nino Centonze, che ha preso ufficialmente in mano le redini delle tenute nel 2008.

La produzione

L'azienda si estende per 38 ettari e conta circa 8mila piante secolari. Tre etichette principali: Case di Latomie Igp Sicilia, un blend di nocellara del Belice, cerasuola e biancolilla, Case di Latomie, monocultivar nocellara del Belice bio e Chiaro di Luna, monocultivar nocellara del Belice Dop Valle del Belice. Protagonista assoluta qui, è evidente, è la nocellara del Belice, “una pianta tipica della nostra zona, che nel nostro caso cresce all'interno del tufo, quindi in un terreno minerale dolce, duttile, friabile, e basico”. È proprio questa tipologia di terra che, secondo Nino, riesce a conferire al monocultivar “la perfetta armonia fra fruttato e le sensazioni di amaro e piccante”.

La cura delle piante

Una pianta vigorosa e resistente che, come sempre, va curata attentamente durante tutto l'anno. “La coltivazione di nocellara è biologica, cerchiamo di rispettare il terreno il più possibile”, e di mantenere alto lo standard di qualità delle olive grazie a una potatura corretta. “Potare le piante è fondamentale. Per la nostra nocellara abbiamo scelto la potatura a vaso piatto rovesciato, che consente di tenere l'ulivo basso ma largo di circonferenza, in modo da agevolare la raccolta”. Che da Centonze è interamente manuale e comincia a settembre, “quest'anno il 22, causa il clima torrido degli ultimi mesi che ha stressato le piante in maniera notevole”. Temperature così elevate e un livello di umidità talmente alto che hanno messo dura prova gli olivicoltori, ma al contempo hanno impedito la diffusione della mosca. L'annata, infatti, promette bene, “a livello quantitativo, siamo messi molto meglio dello scorso anno, anche se la nostra produzione è sempre omogenea, perché effettuiamo le potature ad anni alterni”. Centonze produce, inoltre, anche olive da mensa: “Se ben lavorata, la nocellara è un'ottima oliva da tavola, di grandi dimensioni e dalla polpa carnosa. Non le realizzo personalmente, ma porto le olive più grandi e meno adatte per la produzione di olio (perché ricche di acqua) a un'azienda vicina che in cambio mi fornisce quelle più piccole già setacciate”.

Il frantoio

Il lavoro continua, poi, in frantoio, un impianto moderno a due fasi firmato VitoneEco, personalizzato su misura. “Sono molto orgoglioso del lavoro di Nicola Vitone, grande professionista e amico che negli anni ha saputo accontentare tutte le mie richieste. Ho apportato diverse modifiche ai macchinari, per cercare di ottenere un prodotto sempre migliore, e Nicola ha fatto un lavoro eccezionale”. Fase critica della lavorazione delle olive è quella della gramolatura, “solitamente molto breve, mai oltre i 25/30 minuti”. Da Centonze, si molisce spesso di notte, “facciamo raccolte notturne perché la nostra zona è molto turistica e l'azienda è adibita anche ad agriturismo. Per non disturbare gli ospiti, raccogliamo e moliamo a tarda notte”. Una volta estratto, l'olio viene immediatamente filtrato e conservato in un ambiente a temperatura controllata in silos sottoazoto.

La vendita

L'extravergine di Centonze è acquistabile presso diversi negozi italiani, nei punti Eataly, nei maggiori aeroporti d'Italia, e anche in alcuni supermercati: “La gdo non va esclusa per principio. Sono molto felice di essere presente nei punti Conad della provincia di Trapani, perché diverse catene della grande distribuzione stanno iniziando a creare dei piccoli corner dedicati ai prodotti di nicchia, per rispondere alle richieste di una clientela sempre più esigente”. Ma l'azienda vende molto anche all'estero, in 43 diversi paesi, “specialmente in Europa e in Asia”. Il mercato asiatico, in particolare, sembra essere tra i più promettenti del momento per l'oro verde di qualità: “I clienti asiatici sono molto interessati all'extravergine buono, e sono disposti a spendere di più per un prodotto sano e di qualità”.

La comunicazione

Appassionato di olivicoltura, amante della natura e della buona tavola, Nino ha una visione positiva e ottimistica di questo settore: “Credo che i consumatori siano molto più consapevoli e attenti, oggi. In generale, noto una crescita del mondo olivicolo, grazie soprattutto al lavoro dei media che si impegnano a diffondere informazioni sull'argomento”. Il produttore cerca, inoltre, di promuovere più possibile il suo olio attraverso fiere, manifestazioni, e anche mediante l'attività dell'agriturismo: “Abbiamo 27 camere, 2 piscine, una Spa e una cucina basata su prodotti a chilometro zero. Gli ospiti possono gustare tutte le nostre materie prime, olio incluso”. Non manca, poi, la comunicazione sul web e sui social media, “molto distanti dalla mia mentalità, ma necessari”.

Un consiglio per chi vuole intraprendere questa strada? “Fare spazio agli imprevisti. Una grandinata può vanificare il lavoro di un anno intero, ma non bisogna mai perdersi d'animo. È un lavoro che non dà certezze, perché la natura non può essere controllata. Se si vuole realizzare un buon prodotto, poi, bisogna essere pronti a investire”. Ma il gioco vale la candela, “la qualità ripaga sempre, e in qualche modo riesce a trovare un suo posto nel mercato”. Altro? “Che dire? È il lavoro più bello del mondo”.

Centonze | Castelvetrano (TP) | c.da Latomie | tel. 0924 904231 | www.oliocentonze.com

Guida Oli d'Italia 2017. Ecco tutti i premi speciali

Oli d'Italia 2017. Azienda dell'anno: Agrestis di Buccheri

Oli d'Italia 2017. Frantoio dell'anno: Nicolangelo Marsicani di Morigerati

Oli d'Italia 2017. Miglior monocultivar: Doria di Cassano Allo Ionio

Oli d'Italia 2017. Olivicoltore dell'anno: Frantoio Franci di Castel del Piano

Oli d'Italia 2017. Miglior Dop: Trappeto di Caprafico di Casoli

Oli d'Italia 2017. Miglior olio biologico: Marfuga di Campello sul Clitunno

Oli d'Italia 2017. Miglior monocultivar: Sebastiana Fisicaro Oleificio Galioto di Ferla

Oli d'Italia 2017. Miglior blend: Fattoria Ambrosio di Salento

Oli d'Italia 2017. Miglior performance territoriale: Accademia Olearia di Alghero

Oli d'Italia 2017. Miglior olio biologico: Viola di Foligno

Oli d'Italia 2017. Olivicoltore dell'anno: Fonte di Foiano di Castagneto Carducci

Oli d'Italia 2017. Miglior rapporto qualità/prezzo: Doganieri Miyazaki di Castiglione in Teverina

Oli d'Italia 2017. Miglior blend: Tenuta Zuppini di Torricella Sicura 

Olio extravergine di oliva. Glossario essenziale per conoscere l'oro verde

Autunno di novità gastronomiche a Milano, dalla rosticceria giapponese al Cinema Anteo. Al gastropub del Birrificio Italiano

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Da un paio di giorni, il Palazzo del Cinema Anteo è tornato ad accogliere la città. E in collaborazione con Eataly si inventa la sala-ristorante. Intanto la scena gastronomica si muove ancora, dalla gastronomia giapponese al Duomo alla pasticceria con galleria d'arte. Al gastropub del Birrificio Italiano. 

Gastronomia Yamamoto

Una ciotola da ramen che accoglie il disegno stilizzato del Duomo, con le sue inconfondibili guglie. È piuttosto intuitivo il logo di Gastronomia Yamamoto, rosticceria giapponese di prossima apertura, che sulla grafica accattivante fa leva per raccontare l'incontro tra due mondi, quello tra la cultura gastronomica giapponese più genuina e una città che negli ultimi mesi ha tenuto a battesimo un gran numero di insegne a tema nipponico. E non parliamo di sushi, che pure (soprattutto) a Milano ha dovuto cedere il passo al fascino di noodle, okonomiyaki e pancetta di maiale. A questo proposito, Milano vanta l'insegna che per l'originalità dei suoi ramen – ideati da Luca Catalfamo – ha conquistato quest'anno i Tre Mappamondi, sulla guida Milano 2018 del Gambero Rosso. Ma il 2017 è stato soprattuto l'anno dei grandi investimenti, con l'arrivo in città di Toridoll, e l'ascesa di due format già collaudati del gruppo: Tokyo Table e Bottega del Ramen.

Gastronomia Yamamoto, invece, è decisamente più orientata a offrire un'atmosfera familiare, proponendo i piatti della cucina casalinga giapponese (ricordate il successo di Yuzuya a Bologna?), da consumare in loco o per il take away, nelle tradizionali bento box. L'idea è di Shih Chy e Aya Yamamoto, mamma e figlia, già nel mondo della ristorazione meneghina. Lo chef, Yasuhiro Masumoto, arriva dall'esperienza di ristoranti giapponesi in città, Osaka e Zakuro. E il locale sarà in attività a partire dal 15 settembre in via Amedei, proprio in vista del Duomo.

 

Da Cittamani a Sorbillo. All'esordio del Birrificio Italiano in città

Ma nell'autunno milanese, la cucina di casa Yamamoto non è l'unica novità. Il 4 ottobre aprirà Cittamani, il primo ristorante italiano della chef indiana Ritu Dalmia, di cui avevamo raccontato tempo fa. E sempre all'inizio di ottobre, l'8 del mese, arriverà anche il secondo locale di Berberè: dopo Isola, la pizzeria che sta conquistando l'Italia (e Londra) aprirà in zona Navigli. E a proposito di pizza, in via Ugo Foscolo, tra il Duomo e la Galleria, tutti aspettano l'inaugurazione di Pizza Gourmand, la quarta insegna milanese di Gino Sorbillo, che Milano sembra sempre più intenzionato a presidiarla su tutti i fronti. Dopo Lievito Madre, la pizza fritta di Zia Esterina e Olio a crudo sui Navigli, la pizzeria con ambizioni gourmand proporrà una decina di pizze con ingredienti di qualità, in rappresentanza di diverse regioni d'Italia, e i dolci della tradizione campana. La novità? La cottura in forno a gas. Apertura prevista entro la fine di settembre. E se di pizzerie blasonate ormai la città è piena, tra qualche settimana anche gli amanti della birra artigianale potranno contare su un indirizzo di fiducia in più: il Birrificio Italiano di Agostino Arioli apre il primo locale in città, a pochi metri dalla Stazione Centrale. Il grande spazio di via Aporti affiancherà al lungo bancone con 12 spine (e due pompe) uno spazio dedicato alla ristorazione, con una proposta gastronomica da gastropub, sulla falsariga del menu proposto al quartier generale dello storico birrificio lombardo (in attività dal 1996), a Lurago Marinone. Disponibili anche birre in bottiglia.

La cucina itinerante di Zibo trova casa

Da Scatti di gusto, intanto, arriva l'anticipazione di una curiosa apertura in zona Sant'Ambrogio (via Caminadella). Il food truck di Zibo – Cuochi Itineranti negli ultimi anni si è fatto notare in giro per l'Italia per l'originalità della proposta, grazie all'intraprendenza di Alessandro Cattaneo e Giulio Potestà, entrambi con un passato nelle aule dell'Alma (e poi di gavetta tra cucine di tutto rispetto, da Extebarri a Uliassi, da La Madia al Pont de Ferr). Punto di forza: la pasta ripiena. Dell'arrivo in via Caminadella si sapeva da tempo, ora lo spazio, già ribattezzato Campo Base, è pronto per offrire una sistemazione stanziale alle idee di Zibo: cucina a vista, una trentina di posti in sala e una finestra su strada destinata al take away, per non tradire le origini. In menu pasta ripiena, rivisitazioni regionali e suggestioni internazionali. Si apre il 22 settembre.

A la Folie. Pasticceria e galleria d'arte

Già tra qualche giorno, giovedì 14, in via Statuto prende forma un progetto gastronomico che è insieme artistico, e viceversa. A la Folie è una pasticceria-galleria d'arte che unisce gli spunti del pittore Mihailo Beli Karanovic ai dolci del pastry chef Alessandro Servida; filo conduttore è la femminilità, e la sua celebrazione, che ispirerà i lavori esposti nel temporary store (si va avanti fino a novembre) commissionato da Delifrance. L'obiettivo è quello di presentare alla città un nuovo modello di pasticceria, che punta sulla qualità della proposta gastronomica come sul coinvolgimento emotivo di chi indugia tra le opere dell'artista serbo.

La linea di pasticceria declina l'idea di tartelletta monoporzione (anche a portar via) in venti identità ispirate alle tele di Karanovic, ognuna dal nome evocativo di un tratto della personalità femminile: risolutezza, passionalità, egoismo, consapevolezza.

 

Il nuovo Cinema Anteo

Arte e cibo, seppur in forma e contesto molto diversi, sono protagonisti pure del rilancio del Cinema Anteo, inaugurato l'8 settembre dopo una ristrutturazione imponente (5 milioni di euro e 8 mesi di cantiere, su progetto di Riccardo Rocco) dello storico edificio all'angolo tra via Milazzo e piazza XXV aprile. Il rinnovato Palazzo del Cinema offrirà d'ora in avanti 11 sale (prima erano 4, ora ce n'è anche una on demand), una biblioteca, un bar e un'osteria (con prodotti e piatti di Eataly), su quattro piani, per restituire ai milanesi un nuovo spazio dove incontrarsi, con qualche bella novità. Come la sala “ristorante” Nobel realizzata con la complicità di Eataly, con menu che cambia in base alla pellicola in cartellone: 18 posti in tutto, su prenotazione, proposta per l'aperitivo a 18 euro, cena a 35. Le ordinazioni vengono prese prima della proiezione, la prima portata arriva nel primo tempo, secondo e dolce durante la seconda parte del film. E poi laboratori di cucina, una birreria e un giardino segreto con vista sul chiostro dell'Incoronata. Si apre alle 10 del mattino, fino all'una di notte. 7 su 7.

 

Gastronomia Yamamoto | Milano | via Amedei, 5 | www.facebook.com/gastronomiayamamoto/

Cittamani | Milano | piazza Carlo Mirabello, 5 | dal 4 ottobre 2017 | www.facebook.com/cittamanimilano/

Pizza Gourmand | Milano | via Ugo Foscolo | entro la fine di settembre

Berberè | Milano | via Vigevano, 8 | dall'8 ottobre 2017 | www.berberepizza.it

Birrificio Italiano | Milano | via Ferrante Aporti, 12 | www.birrificio.it

Zibo | Milano | via Caminadella, 21 | tel. 02 35999463 | www.zibocuochiitineranti.it

A La Folie | Milano | via Statuto, 16 | fino a novembre 2017

Palazzo del Cinema Anteo | via Milazzo, 9 | tel. 02 6597732

 

a cura di Livia Montagnoli

Gusto per la ricerca e Pizzaioli Magnà(nimi). Beneficenza nel mondo della gastronomia

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L’associazione benefica nata per iniziativa di Massimiliano Alajmo in collaborazione con la Fondazione Città della Speranza organizza ogni anno un appuntamento che riunisce grandi chef per finanziare la ricerca sulle neoplasie infantili. A Napoli, invece, 30 maestri pizzaioli uniscono le forze per raccogliere fondi per aiutare minori e famiglie in difficoltà. 

Il Gusto per la ricerca

Tredici anni fa, grazie all’impegno di Massimiliano Alajmo, alla guida del pluripremiato ristorante Le Calandre, e con il sostegno di grandi chef – amici e colleghi di sempre - prendeva vita un progetto solidale a sostegno della ricerca scientifica sulle neoplasie infantili, coordinata dal dottor Stefano Bellon. Da allora, con oltre 1 milione e mezzo di euro di donazioni raccolte all’attivo, ogni anno i vertici dell’eccellenza gastronomica si riuniscono per onorare l’appuntamento con Il Gusto per la Ricerca, raccogliendo fondi a favore della Clinica di Oncoematologia Pediatrica di Padova, in collaborazione con la Fondazione Città della Speranza.


Per la quattordicesima edizione del grande evento di beneficenza, i principali protagonisti dell’alta cucina italiana si incontreranno domenica 24 settembre 2017, negli spazi della terrazza del Fondaco dei Tedeschi di Venezia. Per un pranzo di gala, tra presenze consolidate e nuovi volti che si uniscono al gruppo: Federico Belluco, Davide Bisetto, Gianni Bonaccorsi, Francesco Brutto, Silvio Giavedoni, Mara Martin, Luca Veritti, e naturalmente Massimiliano Alajmo. A offrire l'aperitivo a base di ostriche, invece, l'oste Mauro Lorenzon de La Mascareta di Venezia. Ogni ristoratore proporrà piatti d'autore a proprie spese, senza alcun rimborso, e tutti i soldi raccolti verranno devoluti a Fondazione Città della Speranza, Cure Palliative e Terapia Antalgica Pediatrica/Hospice Pediatrico Azienda Ospedaliera Padova, Neurologia Pediatrica dell'Azienda Ospedaliera di Padova, Casa Nazareth di Chirignago Venezia, Centro di accoglienza per bambini e minori in difficoltà. L'offerta minima di partecipazione all'evento, interamente devoluta, è di 700 euro per sostenitore.

 

Pizzaioli Magnà(nimi)

Non solo grandi chef: anche i maestri dell'arte bianca si riuniscono per mostrare la loro solidarietà ai meno fortunati attraverso una delle ricette simbolo della cucina tricolore, la pizza. A Napoli, 30 pizzaioli partenopei si impegnano a raccogliere fondi per la Casa dei Cristallini, associazione nata nel 2002 per idea di un gruppo di volontari in collaborazione con il parroco del Rione Sanità Don Antonio Loffredo, che si propone come struttura di accoglienza per tutte le famiglie in difficoltà. Saranno proprio i bambini del Rione Sanità a dipingere e decorare i cartoni delle pizze realizzate dai mastri pizzaioli e messi a disposizione dalla Inpact per idea della giornalista enogastronomica Monica Piscitelli. L'iniziativa, partita da pochi giorni, continuerà fino al prossimo 29 ottobre, giornata conclusiva durante la quale la Inpact presenterà il progetto di beneficenza a Host 2017 a Milano.

 

Starita, Palazzo Vialdo, Pizzeria Fratelli Vuolo e tanti altri i locali che hanno scelto di aderire all'iniziativa. Contribuire è semplice: basta ordinare la pizza da una delle insegne sostenitrici, e gustarla comodamente in casa propria; il ricavato sarà devoluto a sostegno dei progetti a favore delle famiglie più in difficoltà. Ogni scatola per la pizza è decorata interamente a mano da un bambino del Magnà, laboratorio di disegno alimentare della Casa dei Cristallini, da sempre impegnato nell'educazione alimentare dei più piccoli attraverso progetti originali e creativi, grazie alla collaborazione di Monica Piscitelli, del giornalista Walter Medolla e la designer Ilaria Grimaldi.

 

Gusto per la Ricerca | Venezia | 24 settembre 2017 | www.ilgustoperlaricerca.it/

Pizzaioli Magnà(nimi) | Napoli | fino al 29 ottobre 2017

 

a cura di Michela Becchi

Gourmet Food Festival. Il cioccolato, la rivincita del latte

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Salvate la terra, è l’unico pianeta con il cioccolato! È il tormentone – giocoso e disperato – che dilaga sulle pagine web, su cartelli, shopper, magliette, perfino su magneti da attaccare al frigo. E di cioccolato parleremo in occasione di Gourmet Food Festival, manifestazione organizzata a Torino Lingotto Fiere dal 17 al 19 novembre 2017.  

Terza edizione di Gourmet, la prima aperta al pubblico, terzo appuntamento con l'oro nero. Dopo il convegno sul raw chocolate (edizione 2015) e quello dedicato alle declinazioni del cioccolato,blend, monorigine, cru, criollo (edizione 2016), l'evento novembrino del mangiarbene organizzato a Torino torna sull'aromatico cibo degli dei con un incontro focalizzato sul cioccolato al latte. 

Cioccolato al latte di qualità: esiste?

Una scelta audace e insieme una sfida: le preferenze del consumatore evoluto e gourmet vanno verso il fondente, considerato il vero autentico cioccolato, dove si possono apprezzare le infinite sfumature del cacao pregiato, fine e aromatico, riconoscerne le provenienze, avvertire i molteplici aromi. Quello al latte, invece, è da sempre considerato roba da bambini, da palati semplici, non educati, abituati a sapori facili, immediati e soprattutto dolci. Più ruffiano e piacione, anche grazie all'aroma caldo e avvolgente della vaniglia, che spesso l'accompagna. È ancora così o qualcosa è cambiato nel mondo del milk chocolate? Esistono prodotti gourmet capaci di sdoganare il cioccolato al latte dal mondo dell'infanzia? È questa la domanda intorno alla quale girerà il convegno di venerdì 17 novembre, dalle 15 alle 16, alla quale cercheranno di rispondere due maestri pasticcieri (il raffinato Pasquale Marigliano, e l'emergente Andrea Monti), l'eclettico gelatiere Marco Serra (ex Mara dei Boschi, che ha appena aperto nell'hinterland di Torino un nuovo laboratorio del sottozero), uno chef visionario come Nicola Batavia. E il cioccolatiere “from bean to bar” Guido Castagna, piccolo mâitre chocolatier con laboratorio a Giaveno, a 35 chilometri da Torino, e negozio nel centro del capoluogo piemontese: “La sfida” spiega Castagna “è realizzare un cioccolato al latte nobile, aristocratico, che si avvicini il più possibile alla lavorazione del fondente”.

Le diverse cru di cacao

L'evoluzione del cioccolato al latte: percentuali di cacao maggiori

Già alcuni anni fa, in una degustazione comparativa di tavolette di cioccolato al latte abbiamo avuto la prova provata di quanto questo derivato dal cacao fosse in piena evoluzione e si stesse ritagliando un suo dignitoso posto nel mercato di nicchia. Offerta più ampia con diverse percentuali di cacao, non solo tra il 25% (il minimo di legge) e il 35%. Impiego di cacao fine e aromatico: il raro Criollo, il Trinitario e il Nacional dell'Ecuador, l'unico forastero pregiato. Nascita di prodotti dark e strong, un genere nuovo creato da Andrea Slitti, maestro pasticciere dell'AMPI (Accademia Maestri Pasticceri Italiani) con laboratorio a San Gennarello di Ottaviano,diciassette anni fa con la linea LatteNero, ad alto contenuto di cacao (dal 45% fino al 70%). Un cioccolato al latte che, oltre a soddisfare i gourmet, consente abbinamenti più facili e ampi rispetto a un fondente. La dolcezza del latte lo rende più ruffiano e versatile” spiega Slitti “ideale con vini passiti, chinati e liquorosi, perfetto con un sigaro e un rum morbido”. Abbinamenti non solo con i compagni di bicchiere. Con il cioccolato al latte si può giocare di contrasto,ci si può sbizzarrire con frutta, agrumi, spezie e perfino ortaggi disidratati e polverizzati, come il peperoncino, il pomodorino verde oltre che il lampone o l'arancia...”.

Equilibrio e materie prime

L'impatto gustativo di un milk chocolate è dato non solo dalla quantità di cacao ma anche dalla sua qualità e capacità di accompagnare il latte senza prevaricarlo. Blend o origine non importa: l'essenziale è che non copra l'ingrediente comprimario ed esprima gli aromi secondari tipici di un cacao fine e aromatico. E fondamentale è anche la qualità del latte: gli aromi, la finezza, la pulizia. Pure l'equilibrio tra i vari ingredienti e la costruzione del prodotto sono essenziali, dolce ma non troppo e con la parte grassa che rende la struttura morbida e vellutata, ma senza sporcare la bocca. È categorico Guido Castagna: “È fondamentale la selezione della materia prima, ovvero la scelta dalla fava di cacao, che sia delle varietà pregiate e che provenga da cooperative certificate che lavorano senza lo sfruttamento minorile. Poi un grande burro di cacao, un ottimo latte in polvere. Noi usiamo quello di Inalpi ottenuto da latte di vacche piemontesi”.

Latte in polvere: roller o spray?

Già, la qualità del latte in polvere: dettaglio fondamentale. Ci sono due metodi per ottenerlo: roller-dry e spray-dry. Nel primo il latte viene fatto cadere dentro due cilindri roventi a 130-150° C: in pochi secondi l'acqua evapora e si forma la sostanza secca, di colore giallognolo e dal sapore di cotto. In questo modo il grasso rimane all'esterno dando scorrevolezza alla struttura, morbidezza al sapore e l'aroma di caramello”. Spiega Silvio Bessone, che sull'argomento ci ha scritto pure una tesi di laurea, “Biografia del cioccolato artigianale”, in Scienze Culinarie presso l'Università Jean Monnet di Bruxelles. Con il metodo spray-dry l'essiccazione avviene per nebulizzazione e ventilazione con aria calda a 150° C, che disidrata istantaneamente le minuscole goccioline di latte. Questo tipo di latte in polvere non avrà la morbidezza ottenuta con il roller-dry (perché il grasso rimane all'interno) ma subisce un minore impatto tecnologico e ridotte alterazioni organolettiche, e “ha un gusto fresco e pulito”, chiosa Slitti.

Pregi e difetti

Sulla rivincita del cioccolato al latte, però, non sono tutti d'accordo.Domori, la nota azienda fondata giusto 20 anni fa da Gianluca Franzoni, fin dalla prima ora ha puntato sul fondente, l'unico capace di valorizzare ed esprimere l'aromaticità pura e aristocratica del cacao fine. E fedele alla filosofia iniziale non punta, strategicamente, sul cioccolato al latte (anche se la sua tavoletta di Javagrey, 45% di cacao criollo di East Java 45% unito a latte d'alpeggio delle mucche grigie del Tirolo,ora non più in produzione, vinse la nostra classifica della categoria dell'ultra dark milk chocolate, pubblicata sul mensile Gambero Rosso di aprile 2013).

Ma altri mâitre chocolatier non si tirano indietro e accettano la sfida. Tra questi Guido Castagna, che si cimenta nella produzione di questo derivato del cacao, “forse facile da degustare ma non da realizzare”precisa Castagna. “È più difficile fare un cioccolato al latte che un fondente: il latte tende a irrancidire e a creare ossidazioni nella struttura e negli aromi. E ha un punto di fusione più basso rispetto al fondente, è più umido e burroso, e come una spugna assorbe tutto quello che c'è intorno: umidità, odori...”.Rincara la dose Pasquale Marigliano, che tuttavia ha risolto i problemi di conservazione “mettendo cioccolatini, mini tavolette e praline in alveoli di plastica, poi cellophane, scatola di cartone e sottovuoto, e inserendo nella confezione una bustina di sale: il cioccolato così si mantiene anche un anno!”. Non solo, il latte gli ha risolto un problemino non da poco: “Nel cioccolato pralinato sopra alla camicia di fondente spruzzo del cioccolato al latte, la proteina del latte fa sì che il burro di cacao non fuoriesca e che il pralinato si mantenga senza conservanti per sei mesi”.

Barrette di cioccolato al latte

Cioccolato e nutrizione

Fin qui pregi e difetti (superabili) del cioccolato al latte per quanto riguarda lavorazione e profilo sensoriale. E sotto l'aspetto nutrizionale? Il cioccolato contiene teobromina, sostanza che rientra tra quelle eccitanti del sistema nervoso centrale, esattamente come la caffeina, e svolge le stesse funzioni: mantiene l'attenzione e la concentrazione quindi è adatto a chi studia, lavora e fa sport”. Spiega Alessandra Mallarino, nutrizionista, dietologa e docente/formatore presso numerose strutture di Torino e provincia. “Inoltre il cioccolato libera serotonina, fa bene all'umore ed è associato al benessere psicofisico. Contiene ferro, anche se non così disponibile a livello biochimico, e non nell'immediato, come quello di origine animale. È energetico ed estremamente valido dal punto di vista calorico, soprattutto a colazione, in quanto apporta zuccheri a rapido assorbimento”. Dovendo scegliere, consiglia la dottoressa Mallarino, meglio preferire quello fondente, con meno zucchero, poi tutti gli altri. Ma il cioccolato al latte è quello più apprezzato nella prima infanzia per la presenza del calcio e delle proteine del latte. C'è chi lo demonizza e chi lo sdogana. La via di mezzo è sempre la migliore”.

 

Gourmet Food Festival | Torino | Lingotto Fiere, via Nizza, 294 | dal 17 al 19 novembre 2017, venerdì dalle 17 alle 23, sabato dalle 10 alle 23, domenica dalle 10 alle 20 | www.gourmetfoodfestival.it

Per leggere gli altri appuntamenti: www.gamberorosso.it/it/gourmet-food-festival

 

a cura di Mara Nocilla

 

 

 

 

 


Il Rum è Servito, sesta edizione. Ron Zacapa e cucina d'autore: il tour parte dalla Liguria de L'Armatore

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Sesta stagione per la rassegna itinerante che valorizza la cultura del rum e l'abbinamento a tutto pasto con il distillato, grazie alla complicità dei migliori chef della Penisola. Il programma dell'iniziativa e il menu della prima cena, con lo chef Luca Collami. 

Dieci appuntamenti, dieci cene ancora per celebrare una rassegna di successo, che un anno dopo l'altro si rinnova coinvolgendo gli appassionati di rum. E chiamando in causa gli chef più interessanti della ristorazione italiana per raccontare anche a chi per la prima volta si avvicina al mondo della distillazione segreti e sfumature del distillato da canna da zucchero. Ron Zacapa, storica realtà guatemalteca, è protagonista, con la collaborazione di Gambero Rosso, della sesta edizione de Il Rum è Servito. Per tutto l'autunno, fino all'inizio di dicembre, gli appuntamenti si avvicenderanno da Nord a Sud della Penisola, secondo una formula ormai consolidata, proponendo agli ospiti delle serate l'abbinamento a tutto pasto con il rum, nelle tre varianti della gamma Zacapa: Ron Zacapa 23 – gusto morbido e sentori di frutta tropicale e vaniglia – Ron Zacapa 23 Etiqueta Negra – più intenso, con note di cioccolato e spezie – Ron Zacapa XO – aroma di tabacco, caramello e cannella. E il motto resta lo stesso di sempre:  The art of Slow, per godere di un'esperienza gastronomica fuori dal comune senza premura di concludere la cena, coccolati dalle attenzioni di alcune tra le migliori cucine d'Italia. Agli chef coinvolti il compito di studiare l'abbinamento perfetto, per affinità o contrasto, e stupire i commensali con effetti speciali, perché il rum non sia solo una piacevole conclusione di serata, ma un compagno di cui godere a tavola, esaltato dal confronto con il cibo nel piatto.

 

L'Armatore e la cucina di Luca Collami

Quest'anno il tour inizia in Liguria, giovedì 21 settembre, sul lungomare di Finale Ligure, dove lo chef Luca Collami guida con personalità la cucina di mare de L'Armatore, ristorante del Marina Hotel, recentemente rinnovato. Semplice l'idea, che valorizza il pescato freschissimo, i prodotti e le verdure liguri, contaminando la materia prima locale con spezie esotiche e suggestioni in arrivo dal mondo. Tanto mare anche nel menu ideato per la cena Zacapa, che alla freschezza del pesce, spesso lasciato crudo, abbina le note aromatiche del rum:

 

Gambero crudo e frutto della passione 

Capesanta/Mandorla/Fava di Cacao

Ron Zacapa 23

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Conchiglione Cicale e Lime

Ron Zacapa Edicion Negra

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Triglia laccata con il suo fondo e nocciole

Ron Zacapa Edicion Negra 

***

Cremoso al cioccolato 68% Varhona
Ron Zacapa XO

 

Nelle settimane successive il viaggio continuerà tra Roma, Bologna, Lecce, Catania. Ma avremo modo di riparlarne presto. Per la prenotazione è necessario rivolgersi ai recapiti del ristorante.

 

L'Armatore | Finale Ligure (SV) | via Anton Giulia Barrili, 22 | il 21 settembre 2017 | tel. 01 9692561 | www.ristorantelarmatore.it

Scopri il calendario delle cene in programma

San Pellegrino Young Chef 2018. Il finalista italiano è Edoardo Fumagalli, dalla Locanda del Notaio

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Classe 1989, lo chef brianzolo si aggiudica la finale italiana con un gambero carabiniere e animelle glassate, scelto dai giudici tra i dieci piatti che sfilano sul palco del Circolo Antonio Marras, a Milano. Il suo è un inno all’italianità che guarda al futuro, e con l’aiuto di Anthony Genovese si contenderà la vittoria internazionale a giugno 2018. 

San Pellegrino Young Chef. Alla ricerca del talento

Al Circolo Antonio Marras, casa d’artista milanese, le giovani brigate lavorano alacremente. E già l’eccezionalità del contesto rende l’idea della ricorrenza speciale. Per portare un piatto fatto e finito fin qui, quello capace di contendersi la vittoria finale sul palcoscenico internazionale nel 2018, ci sono voluti mesi: prove e controprove, assaggi incrociati, combinazioni millimetriche di gusti e consistenze, presentazioni efficaci che, qualcuno dei concorrenti ammette, hanno richiesto anche 7 mesi di lavoro continuativo. Extra, sia ben chiaro, perché ciascuno dei talentuosi chef sotto i 30 anni un lavoro vero ce l’ha, e la scommessa di San Pellegrino Young Chef è una possibilità in più di ritagliarsi una vetrina importante sulla scena gastronomica che conta. È successo così ad Alessandro Rapisarda, da Recanati, che l’anno scorso si era aggiudicato la finale nazionale, volando all’ultimo scontro col suo mentore di allora, Davide Oldani, senza però tornare a casa con la vittoria più ambita, la corona internazionale, finita negli Stati Uniti. Quest’anno, lo chef quasi trentenne, prossimo ad aprire un ristorante tutto suo, ci riprova, insieme ad altri 9 ragazzi selezionati tra 300 candidati, “il numero di adesioni più alto tra tutte le “regioniin competizione”, ribadisce Stefano Marini. Sul palco, guidati da Francesca Barberini, ci sono i giudici, chiamati a valutare i piatti: Cristina Bowerman, Loretta Fanella, Caterina Ceraudo, Carlo Cracco, Ciccio Sultano, Anthony Genovese (che sarà mentore del vincitore, e lo aiuterà in vista della finale internazionale).

Il maestro e l’allievo, secondo Davide Oldani

Più tardi, mentre si aspetta il verdetto, prenderà il microfono anche Davide Oldani, che spende belle parole sul rapporto tra giovane e maestro in cucina: “Nel nostro lavoro le regole sono importanti, noi abbiamo il compito di insegnarle ai giovani, che in cambio ci restituiscono la grinta e l’energia necessarie per fare bene. A loro consiglio di non correre, e godersi il momento: il mestiere del cuoco non è un exploit, bisogna stare sul pezzo per molti anni, restare psicologicamente attaccati alla propria idea. In Italia, da quello che vedo abbiamo un futuro assicurato per la qualità”. Il prossimo 25 settembre, lo chef del D’O concretizzerà finalmente un suo sogno, con l’inaugurazione della scuola alberghiera Olmo di Cornaredo. Intanto sul palco si fa strada la busta, la più attesa, col nome del vincitore: “Una decisione molto difficile” ribadisce Genovese “con tre risultati sopra gli altri, e in generale un livello molto alto; tutti hanno voluto mettersi alla prova, molti hanno scelto carni difficili”.

Il vincitore. Chi è

Alla fine il trofeo lo porta a casa Edoardo Fumagalli, classe 1989, alla guida della cucina stellata della Locanda del Notaio di Pellio Intelvi, Como. Lui è brianzolo, e in competizione porta un Gambero Carabiniere, animelle glassate, croccante alle alghe con insalatina aromatica, con tanti omaggi al suo territorio (specie nell’impiattamento, con l’utilizzo dei sassi di Moltrasio “quelli delle mura di Como”, ma pure nella scelta degli ingredienti, con la spirulina, un’alga di acqua dolce di cui sottolinea le proprietà iposodiche) e un abbinamento di carne e ingredienti d’acqua che accomuna molte proposte viste sul palco. In gara, all’inizio della serata, era stato il primo a rompere il ghiaccio, sicuro di sé, per la seconda volta a San Pellegrino Young Chef: “Mi piace partecipare ai concorsi”, dice.

L’italianità oggi

Come altri, ha scelto di puntare sul quinto quarto, forse una moda, ammettono i giudici, “ma comunque ben venga la riscoperta delle frattaglie della nostra tradizione” chiosa Cristina Bowerman, veterana del concorso (alla terza edizione), che quest’anno ritrova tra i ragazzi “uno stile più personale, più italiano. Le ondate di stile esterofile sembrano passate, e questo è un buon segno”. Il piatto di Edoardo, non a caso, è un omaggio all’italianità, fatto di molti ricordi personali: c’è la padronanza delle cotture basiche, il gambero cotto al vapore, la salsa ottenuta dalla testa spremuta; e una parte vegetale che rivendica la sua autonomia, l’insalata di erbe aromatiche e gentili, e germogli, servita a parte. Poi le animelle avvolte nell’ostia, una passione ereditata dall’esperienza alla macelleria di Sergio Motta (ma lui è passato anche a Le Taillevent di Parigi, e a New York, con Daniel Boulud, o al Marchesino, con Daniele Canzian). Tanti, tantissimi elementi che si combinano, con l’idea “di servire un piatto che rappresenti la forza italiana, ma guardi al futuro e conquisti per la sua internazionalità”, racconta Edoardo. Proprio per questo, intuendo la spendibilità del piatto sul palco di Milano, che a giugno 2018 riunirà tutti i finalisti del mondo, i giudici hanno scelto Edoardo. I prossimi mesi, con l’aiuto di Anthony Genovese, saranno lunghi e concentrati a perfezionare ogni dettaglio. “Ci divertiremo” dice lo chef del Pagliaccio “E andremo per vincere, vero?”.

 

a cura di Livia Montagnoli

 

Tutti i semifinalisti sul palco:

Edoardo Fumagalli

Manuel Bentivoglio

Vincenzo Dinatale

Carmelo Fiore

Daniele Groppo

Alberto Lazzoni

Luca Natalini

Alessandro Rapisarda

Antonio Sena

Andrea Vitali

L'aceto balsamico di Modena vola in Gran Bretagna. British Food compra Acetum

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Il gruppo fondato da Cesare Mazzetti e Marco Bombarda è oggi leader di mercato per la produzione di aceto balsamico di Modena non tradizionale, vincolato al territorio di origine dall'Igt. Questo non ha impedito la cessione del marchio a British Food, colosso internazionale, già proprietario di Twinings. 

Dal tè all'aceto balsamico

Il nome British Food, a molti, non dirà granché. Ma una bustina di Twinings, di certo, almeno una volta tutti l'hanno provata. E proprio all'Associated British Food, colosso multimiliardario dell'industria alimentare (e non solo), fa capo uno dei marchi di tè più celebri al mondo; del resto, il gruppo conta 130mila dipendenti in 50 Paesi, per un fatturato di quasi 13 miliardi e mezzo di sterline ogni anno e un'attività diversificata tra food, ingredienti e retail, in quattro ambiti di pertinenza, zucchero, agricoltura, vendita al dettaglio, drogheria. E, per citare un'altra referenza celebre, anche Primark fa parte del suo portafoglio, come AB Mauri, società che in Italia controlla l'industria dei prodotti da forno. L'ultimo acquisto della scuderia, però, riguarda una produzione alimentare specificamente made in Italy, l'aceto balsamico di Modena. Con l'acquisizione di Acetum, controllata del gruppo Clessidra, British Food porta Oltremanica la proprietà del principale produttore italiano di aceto balsamico non tradizionale. E riapre la campagna acquisti degli investitori internazionali nel comparto dell'industria agroalimentare italiana, solo qualche giorno dopo la buona riuscita della trattativa tra il Consorzio Calasco del Pomodoro e Generale Conserve, per tenere in Italia lo storico marchio De Rica. Diversa invece la sorte per il gruppo fondato da Cesare Mazzetti Marco Bombarda, che dal 2015 era controllato all'80% dal fondo Clessidra.

 

La tutela dell'Igt

La produzione di aceto balsamico, però, resterà in Italia, com'è d'obbligo in relazione ai vincoli imposti dall'indicazione di origine protetta. E la guida sarà mantenuta dai fondatori dell'azienda, seppur sotto l'egida di British Food, che si dice molto soddisfatta dell'operazione: “Questa è un'occasione meravigliosa per diventare i custodi di un prodotto italiano con grande reputazione, promuovendo progetti di crescita ambiziosi in tutto il mondo”. Come da copione, la controparte, per bocca di Cesare Mazzetti, si dichiara altrettanto fiduciosa in un futuro radioso per Acetum, specie per l'opportunità di inaugurare una nuova era votata all'internazionalizzazione del brand: “Si tratta di una conferma della grande attrattività delle aziende dotate di Igp nei confronti di gruppi internazionali. Abf ha la capacità di sviluppare imprese familiari e non vedo l'ora di lavorare insieme in futuro”. Tra i marchi che passano alla Gran Bretagna nell'ambito dell'operazione anche Mazzetti (leader in Germania e Australia per l'aceto balsamico di Modena) e Fini (Acetum produce anche glasse balsamiche, aceto di vino e di mela, e altri condimenti). Ora, l'ultimo ostacolo, è il controllo dell'Antitrust, già scattato in Germania e Austria per prevenire posizioni di monopolio scorrette. E intanto il novero delle aziende italiane del food che volano all'estero continua a crescere. 

 

a cura di Livia Montagnoli

Chef in vacanza. 4 ristoranti in Portogallo secondo John Regefalk

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In Portogallo con John Regefalk, alla scoperta di ristoranti che raccontino l'anima gastronomica del paese. Un mini tour tra i sapori tradizionali e nuove spinte creative.

Un giro itinerante per il Portogallo, alla scoperta di panorami magnifici e tavole imperdibili. Un tour tra locali tipici e nuovi ristoranti, alla ricerca dell'anima gastronomica del paese di José Saramago e di Fernando Pessoa, del fado e del bacalhau.

 

John Regefalk

Ex sous chef storico di Roy Caceres al Metamorfosi di Roma (ruolo oggi occupato da Ciro Scamardella), lo svedese John Regefalk è da un anno preciso al Basque Culinary Center di San Sebastian. Uno dei templi dell'alta formazione gastronomica in Europa. La scuola in cui nascono i grandi chef baschi (e non solo) lo vede nel corpo docente, impegnato nell'insegnamentodi tecniche d'avanguardia per gli allievi più esperti del master di scienze gastronomiche, una sorta di formazione universitaria per cuochi della durata di 4 anni. In Italia, prima di approdare al Metamorfosi di Roma, dove ha lavorato come secondo dello chef colombiano occupandosi anche del pane, è passato in Sicilia e a Roma, all'Antico Arco.

Basque Culinary Center | San Sebastian | Paseo Juan Avelino Barriola, 101 | www.bculinary.com

 

Il viaggio

È stato un viaggio alla (ri)scoperta di un Portogallo che lo aveva accolto prima del suo arrivo in Italia. All'epoca, una decina di anni fa, una nazione ancora poco vivace dal punto di vista gastronomico, che oggi sta mostrando il segno di una rinascita. Il pesce e i frutti di mare sono protagonisti delle tavole, tradizionali e non. “In Portogallo abbiamo mangiato veramente bene in tanti posti” racconta John. E racconta anche di abitudini diverse dalle nostre: “è curioso che in Portogallo molti locali non accettino prenotazioni, sopratutto ristoranti e bistrot della nuova generazione”, arrivi, appunti il nome sulla lista di attesa, ti bevi un paio di drink e ti fanno sedere quando si liberano i tavoli. Non solo: “abbiamo trovato anche molti posti dove non prendono carte di credito”. Indicazioni che sicuramente torneranno utili in viaggio.

 

Taberna da mare

Taberna da Maré

Siamo nell'Algarve, più precisamene a Portimão. La Taberna da Maré è un posto storico, che ha più di 70 anni di vita. Qui arrivi e attendi pazientemente il tuo turno, fai la fila con gente locale e turisti, però una volta che ti siedi non c'è dubbio dove ti trovi: sei nella parte meridionale del Portogallo, in una delle destinazioni turistiche più importanti, lo suggeriscono pesce e frutti di mare freschissimi cotti nella maniera meno invasiva possibile. È una località famosa per la qualità delle sue sardine, che infatti in stagione (tra giugno e settembre) non mancano mai in menu. Tra i piatti da provare assolutamente: sardinas alla brace, cataplana (un mix di carne e frutti di mare) e i calamari a spillo con aglio e patate. Da bere, secondo me, con un Vinho Verde: freschissimo e leggermente effervescente.

Taberna da Maré | Portogallo | Portimão | 755, Tv. da Barca 9 | tel. +351 282 414614 | https://www.facebook.com/tabernadamare/

 

Café Garrett

Café Garrett

Nel nostro passaggio a Lisbona abbiamo fatto un pranzo a Café Garrett, un ristorante che da 15 mesi si trova all'interno del foyer del teatro nazionale D. Maria II, ma in futuro si sposterà in un altro locale lì vicino, lasciando questa ambientazione particolare. Chef Leopoldo Calhau è bravissimo (e molto simpatico) e porta in tavola i sapori della sua terra nativa: Alentejo, nella parte centro-sud del paese. Noi abbiamo ordinato diversi piccoli piatti del menu, tutti da “compartir”: condividere è infatti parte integrante dell'esperienza. I nostri migliori assaggi sono stati Tomate, tomate, tomate,una insalata di 3 tipi di pomodoro con sorbetto di olio di oliva, e la zuppa di testa di agnello con crostini alle erbe: wow. Come dolce bisogna assolutamente ordinare il Pudim de Noz da Joana, il pudding di noci, e la mousse al cioccolato fondente, e mangiarli insieme. Waaaaa spettacolo!

 

Cafe Garrett | Portogallo | Lisbona | Praça Dom Pedro IV, 1100-201 | tel. +351 21 193 3532 | https://www.facebook.com/CAF%C3%89-Garrett-742797112516985/| http://www.tndm.pt/pt/informacoes/cafe-garrett/

 

Pedro Limao

Pedro Limão

Un ristorante ("neo-bistrot" è tanto brutto!) nuovo, ma anche se è aperto solo da pochi mesi, si nota immediatamente che lo chef ha molta esperienza e una bella mano. Il locale è intimo e fresco, e in mezzo alla piccola sala si trova una mini-cucina, aperta e a vista, ovviamente. Pedro Limão fa una cucina a misura del suo locale: piatti con pochi ingredienti, ma con una chiara personalità portoghese, abbinamenti a volte interessanti, ma soprattutto golosi. Al massimo, volendo fare un appunto, mancherebbe giusto un pizzico di "finesse". Però per quanto costa il menu degustazione, 37€ per 10 piatti, non mi lamento!

Pedro Limão | Portogallo | Porto | R. do Morgado de Mateus 49 | tel. +351 966 454599 https://www.facebook.com/restaurantepedrolimao/

 

Orto, Casa Mae

È il ristorante di un bel design hotel di Lagos, tutto declinato nei toni del bianco. I piatti sono molto equilibrati nei loro sapori, buoni, freschi e semplici. A volte quasi troppo semplici: in un ambiente come questo, dall'estetica così curata, forse ci si aspetterebbe altro. Ma il design è solo un aspetto di questo posto: collegato al ristorante c'è infatti un orto dove vengono coltivati alcuni degli ingredienti in menu, e anche quello che non viene dall'orto è comunque un prodotto locale. L'attenzione alla materia prima è infatti massima. Lo si percepisce, per esempio, su alcune proposte, assolutamente da provare, per esempio crudi di pesce, insalate, salumi e formaggi... tutto insomma. A parte pranzo e cena fanno anche brunch e grigliate nella cucina esterna. I prezzi non sono bassi, però ne vale la pena.

Orto, Casa Mae | Portogallo | Lagos | R. do Jogo da Bola 41| tel.+351 968 369732 | http://casa-mae.com/

 

a cura di Antonella De Santis

 

 

Chef in vacanza. 4 ristoranti a New York secondo il Magorabin Marcello Trentini

Chef in vacanza. 4 ristoranti a Stoccolma e Copenaghen secondo Ciro Scamardella

 

 

 

 

 

 

Novità d'autore dall'America. I cocktail di Achatz a New York, Elliot a Chicago. E Claus Meyer apre a Brownsville

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L'arrivo di Grant Achatz, a New York, tutti lo aspettavano con trepidazione. Soprattutto gli amanti del bere miscelato. Ora The Aviary apre al Mandarin Oriental. Ma in città la buona notizia arriva dal quartiere di Brownsville, dove il centro gastronomico con ristorante di Claus Meyer è finalmente operativo. 

Della ristorazione americana, quella più popolare come quella che può contare sugli chef più blasonati degli Stati Uniti, sentiamo spesso dire che per sopravvivere ha bisogno di macinare numeri. Il tenore degli investimenti, specie nelle grandi città dove gli affitti salgono alle stelle, e la concorrenza spietata sono fattori che sin dall'inizio orientano la portata della sfida anche per gli imprenditori più avvezzi e i veterani del settore. Il rischio d'impresa, però, non scoraggia le operazioni ambiziose, pur meditate a lungo prima di concretizzarsi. È il caso dell'arrivo a New York di Grant Achatz – al seguito il socio di sempre Nick Kokonas – punto di riferimento indiscusso dell'alta ristorazione americana, di stanza a Chicago. A lungo, lo chef di Alinea ha meditato il raddoppio fuori dalla sua città, e, stretto l'accordo con il gruppo Mandarin Oriental, ha scelto di iniziare la sua scalata in trasferta proprio dalla Grande Mela. Un'apertura annunciata da tempo, pianificata nel dettaglio, e ora prossima a concretizzarsi.

The Aviary New York. Dignità al cocktail

Già dallo scorso giugno, al 35esimo piano dell'esclusivo hotel di Columbus Circle, con vista sul Central Park, è operativo lo speakesy The Office; entro la fine di settembre entrerà in funzione anche la cocktail kitchen di The Aviary, format di successo dedicato alla miscelazione d'avanguardia. E così, dal seminterrato di Chicago il concept bar con cucina ideato da Achatz nel 2011 spiccherà il volo alla volta di uno degli spazi più ambiti in città. Candidandosi a diventare uno dei bar più frequentati di New York. La formula è quella d'ordinanza, con la proposta più informale (a patto di poter associare l'idea al pensiero gastronomico di uno degli chef più creativi del mondo) del corner The Office e la sperimentazione che non sembra conoscere limiti di The Aviary, dove i drink sono miscelati dietro le quinte da bartender con ambizione da alchimisti. E arrivano al banco tra effetti speciali e presentazioni ricercate. A New York il bar aprirà dalle prime ore del mattino, con un'offerta formulata su tè e caffè, anche in versione miscelata, come il cocktail dedicato a New York, che profuma di bagel e caffè. Ci sarà anche il cibo, una linea di menu degustazione studiati per il pairing, da 3, 5, 7 portate, che superano le 10 per chi sceglie di accomodarsi al tavolo dello chef, direttamente in cucina. Ampio lo spazio a disposizione, con 90 posti distribuiti tra banco e sala. E il progetto di replicare presto, con la complicità del Mandarin Oriental, in altri Paesi del mondo (magari anche in Italia?).

 

Graham Elliot torna a Chicago

In questo viavai di stelle, un altro peso massimo della cucina d'autore statunitense si appresta ad aprire un nuovo ristorante a Chicago. Lui è Graham Elliot, conosciuto ai più per la sua partecipazione in qualità di giudice a Masterchef USA. Sempre più assorbito dagli impegni televisivi, Elliot nell'ultimo anno era rimasto lontano dalla scena gastronomica, dopo la chiusura di tutte le insegne del gruppo (il ristorante omonimo, due stelle Michelin, è chiuso dal 2013). Ma a ottobre ci riproverà con Gideon Sweet, dove un tempo sorgeva il Graham Elliot Bistro. Si tratta in realtà di una consulenza importante, in collaborazione con il socio in affari Matthias Merges, e proporrà una cucina informale in abbinamento a una linea di cocktail d'autore, con propensione alla miscelazione vintage.

Brownsville Culinary Center. Buono, formativo e solidale

Ma è ancora da New York che arrivano le novità più interessanti. Del progetto di Claus Meyer nel quartiere popolare di Brownsville avevamo anticipato obiettivi e ambizioni quando l'idea era ancora lungi dal concretizzarsi, circa un anno fa. Lo chef imprenditore danese, fondatore con Redzepi della New Nordic Cuisine, del Noma e del Nordic Food Lab, da qualche anno a questa parte ha stabilito a New York il suo quartier generale, importando in città la Meyers Bageri e poi moltiplicando gli sforzi al Grand Central Terminal. Dalla primavera scorsa, inoltre, è operativo anche Norman, avanguardistica “mensa” ideata in collaborazione con Fredrik Berselius, a Brooklyn. Ma il progetto più desiderato, quel polo gastronomico e di aggregazione sociale ribattezzato Brownsville Culinary Center, ha dovuto scontare diversi mesi di ritardo sui piani. Dal mese di agosto, invece, il ristorante del centro ha aperto le porte al pubblico, nel cuore di un quartiere “che non ha visto l'apertura di un solo ristorante con servizio al tavolo negli ultimi 50 anni”.

Al lavoro in cucina e sala ci sono i ragazzi che seguono i corsi di formazione; in menu tante influenze della cultura afroamericana e caraibica, espressione di una comunità multietnica come poche altre in città. Si apre dalla colazione e per tutta la giornata, la sera si mangia con 22 dollari, per tre portate (con sconto del 50% per gli indigenti nel programma degli aiuti alimentari statali); i proventi sono tutti destinati a finanziare l'associazione Melting Pot, che ospita il ristorante. E sul posto si produce anche la farina per i prodotti sfornati ogni giorno dalla bakery, dai biscotti al burro ai croissant danesi, al pane di segale.  

 

The Office e The Aviary | New York | Mandarin Oriental, 80 Columbus Circle | https://theaviary.com/site/ - www.mandarinoriental.com/new-york/fine-dining/lounges/the-office-nyc

Gideon Sweet | Chicago | 841 W Randolph Street | da metà ottobre 2017

Brownsville Culinary Center | New York | 69 Belmont Avenue, Brooklyn | www.meltingpotfoundationusa.org/

 

a cura di Livia Montagnoli

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