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Chiude Eleven Madison Park. In vendita online pentole e oggetti del celebre ristorante newyorkese

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Il ristorante più chiacchierato di New York come l'abbiamo sempre conosciuto ha chiuso i battenti lo scorso giugno, in vista di una ristrutturazione che lo trasformerà entro l'autunno. E ora, l’Eleven Madison Park mette in vendita utensili e altri oggetti storici del locale.

La chiusura e il pop up estivo


Sono trascorsi pochi mesi da quando l’Eleven Madison Park di New York è stato premiato dal gotha della ristorazione internazionale, la World’s 50 Best Restaurants, come miglior ristorante al mondo, scippando lo scettro all’Osteria Francescana di Massimo Bottura. Una delle cucine più celebrate nel mondo, e di più, un modello di ristorazione vincente firmato Daniel Humm e Will Guidara che lo scorso 9 giugno 2017 ha chiuso temporaneamente i battenti prima del cambio di pelle che segna un nuovo inizio. L’ultimo servizio ha rappresentato per il consolidato duo della Grande Mela “the end of an era”, la fine di un’epoca all’11 di Madison Avenue, ma anche l’ingresso di una nuova epoca. Sotto le direttive dell’architetto Brad Coepfil, che promette un’atmosfera più colorata e una zona bar più imponente, il ristorante, uguale a se stesso dal 2006, verrà completamente trasformato. Nel frattempo, il locale numero uno al mondo non lascia di certo sguarnita la piazza newyorkese: al contrario, si ripresenta in veste di pop up estivo (fino all'inizio di settembre) agli Hamptons con l'EMP Summer House, una cucina d’autore in un’atmosfera informale.  



La vendita


Il ristorante potrà anche essere oggetto di rinnovo e ristrutturazione, ma alcuni degli elementi storici che ne hanno fatto parte per gli ultimi 11 anni possono ora essere acquistati dai clienti più affezionati. A cominciare dall’insegna, già venduta al prezzo di 10mila dollari, e poi ancora piatti, oggetti di design, mobili e tanti altri articoli di decoro che hanno caratterizzato l’atmosfera del locale fin dalla sua apertura. Come la credenza della sala da pranzo, in vendita per 7.500 dollari, le ringhiere in ottone (2mila dollari), la sautese, una padella dal bordo alto utilizzata per saltare, scottare la carne e preparare le salse, disponibile al prezzo di 500 dollari, e lo specchio della sala privata del valore di 1.500 dollari. Utensili che, come ci tiene a sottolineare il sito dello store, hanno accompagnato il lavoro degli chef durante l’intero percorso, e che per questo motivo possono presentare graffi e segni di deterioramento. “L’idea di gettare via questi oggetti o lasciarli in un magazzino ci spezzava il cuore”, ha dichiarato la squadra del ristorante, che aggiunge: “Vogliamo disperatamente che ogni utensile trovi una nuova casa, e al contempo vogliamo dare l’opportunità a tutti coloro che hanno apprezzato il nostro ristorante tanto quanto noi di portare a casa un pezzo di storia, prima della ristrutturazione”.  Acquistabili online, i vari articoli verranno consegnati a casa del cliente entro un massimo di 5 giorni lavorativi.

elevenmadisonpark.store/


a cura di Michela Becchi


Appunti di degustazione. 8 cantine per 24 grandi Riesling della Mosella

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Vino in Germania significa Riesling e, soprattutto, Mosella. È la regione più famosa e apprezzata dagli appassionati del bere bene, quella che si distende tra Trier e Koblenza lungo le anse della Mosella e dei suoi due affluenti principali, Ruwer e Saar.

Una regione che regala vini straordinari: complessi, longevi, un universo diversificato di stili produttivi e visioni differenti, tanto da necessitare di una classificazione tutta loro. Oggi siamo andati a provare le ultime annate e qualche vecchia etichetta nelle più interessanti cantine sul territorio.

Weingut Maximin Grünhaus Von Schubert

Abtsberg Riesling Spatlese 2014

Le uve di questo vino provengono dal cosiddetto vigneto dell’Abbate, il più importante della cantina caratterizzato dall’ardesia blu dei terreni. Naso ampio dai sentori floreali e di frutta esotica a cui si aggiungono sentori che rimandano a erbe mediterranee, acetosella e timo in particolare, agrumato e leggermente salino il sorso a bilanciare un bel frutto dolce e succoso.

Abtsberg Riesling Superior VDP Grosse Lage 2015

Nella collina dell’Abtsberg si coltiva la vite da più di 1.000 anni e i 14 ettari del vigneto sono contraddistinti da pendenze che arrivano al 70%. Il vino è molto complesso al naso dove incalzano sentori floreali, speziati e minerali, ma anche eleganti e fresche note mentolate, mentre il frutto ancora sopito al naso esplode in bocca esaltato da un’acidità cristallina che ne amplifica la persistenza.

Herrenberger Riesling Superior VDP Grosse Lage Trocken 2015

Anche i 19 ettari dell’Herrenberger sono caratterizzati da pendenze molto elevate mentre i suoli sono ricchi di ardesia rossa. Ampio e ben articolato, il bouquet spazia dalle spezie alla frutta a polpa bianca, dal pompelmo all’anice, a note minerali che rimandano alla pietra pomice; in bocca una freschissima sorgente acida imbriglia bene il frutto dolce, polputo e ben maturo.

Weingut Maximin Grünhaus Von Schubert | Germania | Mertesdorf | Hauptstrasse, 1 | D-54318 | tel. +49 (0)651 5111 | www.vonschubert.de

 

Weingut Fritz Haag

Brauneberg Juffer Sonnenuhr Riesling Troken GG 2015 

Lo Juffer Sonnenuhr è la parte più pregiata del famoso vigneto Brauneberg. Intenso e persistente, l’ampio ventaglio di profumi offre note minerali, spezie, resina di conifera, agrumi, pesca, fiori di pitosforo; freschissimo l’approccio al palato che poi lascia spazio a un frutto tonico e perfettamente maturo. Nel finale lungo, dinamico e persistente tornano i sentori agrumati.

Brauneberger Riesling Feinherb 2015

Con il termine Feinherb vengono indicati i vini demisec: in questo caso gli zuccheri residui sono 17 grammi/litro. Le prime note percepite al naso rimandano al sale affumicato, albicocca e nespola; dopo qualche attimo nel bicchiere ecco venir fuori nuance che ricordano le felci, i fiori di campo e le spezie. Il bicchiere fresco e sapido invita decisamente alla beva.

Brauneberger Juffer Sonnenuhr Riesling Auslese Goldkapsel 2015

L’equilibrio tra i 13 grammi di acidità, i 135 di zucchero residuo e i soli 7,5 gradi di alcol di questo vino ha qualcosa di miracoloso. Elegantissimo il naso, tra note di cedro, ananas candito, erbe aromatiche, spezie gialle, fiori di camomilla e tiglio; agile e perfettamente bilanciato il sorso dolce e cremoso, energizzato da un nervo acido ancora vibrante che lo tiene in tensione per tutto il lunghissimo finale.

Weingut Fritz Haag | Germania | Brauneberg | Dusemonder strasse, 44 | D-54472 | tel. +49 (0)6534 410 | http://weingut-fritz-haag.de/

 

Weingut Schloss Lieser

SL Kabinet Trocken 2016

Thomas Haag può contare su 22 ettari di vigneto sparsi su 25 km e 8 diversi gran cru per un totale di 150 parcelle differenti. Molto piacevole questo entrylevel dai bei toni minerali che ricordano la pietra focaia e fanno da sfondo a un bouquet ricco di note floreali, frutta a polpa bianca, agrumi e macchia mediterranea; piacevolissimo il sorso, più elegante e spesso, ben giocato tra sapidità e frutto e impreziosito da un bell’allungo finale fresco e agrumato.

Juffer Kabinet 2016 

Profumi fitti e persistenti per questo vino che esordisce al naso con intense note minerali e affumicate che piano lasciano spazio a fiori bianchi, sentori balsamici, agrumi, albicocca e pesca in quantità. In bocca l’energica spinta acida è ben armonizzata al frutto nitido e rotondo; lungo e appagante finale all’insegna del frutto.

Doctor Auslese 2016

Nei primi anni del ’900 il Doctor era considerato il cru più caro della Germania: all’epoca per un metro quadro bisognava sborsare la bellezza di 100 marchi d’oro, l’equivalente odierno di un milione di euro per ettaro. È molto eterogeneo al naso tra note minerali di grafite, fiori di pitosforo, mela gialla, pesca noce, arancia sanguinella, mango e fresche nuance balsamiche di menta. Ha un sorso vellutato e ben vitalizzato da una acidità sapida e fresca in un contesto di raro equilibrio che non stanca mai il palato nonostante i tanti zuccheri non svolti.

Weingut Schloss Lieser | Germania | Lieser | Am Markt 1-5 | tel. +49 (0)6531 643 | www.weingut-schloss-lieser.de

 

Weingut Dr. H. Thanisch

Bernkasteler Lay Riesling Feinherb 2014 

Lay, nell’antica lingua gaelica, significa ardesia: in particolare quella del Bernkasteler Lay è la classica ardesia blu che si ritrova in tanti altri vigneti della Mosella. Profumatissimo ed elegante all’olfatto dove si confrontano sentori minerali, fiori di zagara, tè verde, agrumi, frutta tropicale, leggere note balsamiche che rimandano all’eucaliptolo, è aromaticamente ben definito al palato, in buon equilibrio tra percezioni dolci di frutto e sapidità minerale; nel lungo finale fa capolino una fresca nota balsamica.

Bernkasteler Doctor Riesling Kabinett 2015 

La leggenda vuole che questo ripidissimo vigneto di Bernkastel sia chiamato Doctor perché nel XIV secolo il vino lì prodotto guarì Boemund II, signore di Trier, gravemente malato. Elegantissimo e fitto, il bouquet è fatto di gelsomino e glicine, pepe rosa, sentori di affumicatura, frutta a polpa gialla e timo. Semplicemente stupefacente l’equilibrio tra i quasi 70 grammi di zucchero residuo, l’acidità e i soli 8° di alcool: in bocca ha stoffa raffinata che conquista il palato lasciandolo a lungo fresco e ricco di sentori fruttati

Bernkasteler Doctor Riesling Spatlese 1997 

Delizioso al naso, ampio e complesso (solo una sottile e gentile vena di idrocarburo denuncia il passare degli anni) offre aromi di agrumi, spezie, frutta esotica, pesca, cedro candito, note balsamiche mentolate e di erbe aromatiche; in bocca è soffice, ma teso al tempo stesso, dotato di una carica di acidità ancora vitale e freschissima che avvolge il frutto spalmandolo bene su tutto il palato. Lunghissimo il finale scandito da rimandi agrumati e balsamici.

Weingut Dr. H. Thanisch | Germania | | Bernkastel-Kues | Junkerland, 14 | tel. +49 (0)6531 9179010| www.drthanisch.de

 

Weingut Markus Molitor

Wehlener Klosterberg Spatlese Grüne Kapsel 2015 

I vini di Markus Molitor hanno le capsule di tre colori differenti in base alla dolcezza (bianco, verde e dorato): la capsula verde segnala i vini semi-secchi. L’approccio al naso rimanda alle erbe aromatiche appena raccolte, poi cominciano a venir fuori profumi minerali, di frutta esotica, di fiori gialli, mandarino e lavanda. In bocca si distende agile ed elegante grazie anche a una bella struttura piena e persistente a cui fa da contraltare un’acidità ancora nervosissima.

Bernkasteler Lay Auslese ** Weiße Kapsel 2015 

La capsula bianca identifica i vini secchi, mentre le stelle (da una a tre) indicano il rating assegnato da Molitor a quello specifico vino in quell’annata. Profilo olfattivo di ampio spettro tra note minerali sassose, nuance floreali, pompelmo rosa, mela gialla e frutta esotica, il sorso si distende con classe: ben bilanciato tra frutto e sapidità, ritmato dalla progressione impressa da una vitalissima corrente acida; lungo e speziato il finale.

Zeltinger Sonnenuhr Auslese*** Weiße Kapsel 2015

Vino che cattura subito l’attenzione per via dei brillantissimi riflessi dorati, ma che conquista definitivamente grazie all’elegantissimo bouquet fatto di fiori gialli, frutta esotica, zafferano, biscotti al forno, anice, erbe officinali… ma anche spezie piccanti che si inseguono in un turbinio di sensazioni olfattive di rara abbondanza e persistenza. Spesso e morbido di frutto, il sorso è rassodato da un’acidità importate e ancora vibrante, mentre il finale lascia sul palato una decisa nota agrumata.

Weingut Markus Molitor | Germania | Bernkastel-Wehlen | Haus Klosterberg | tel. +49 (0)6532 954000 | www.markusmolitor.com

 

Weingut Dr. Loosen

Graacher Himmelreich GG 2015

L’Himmelreich (il regno dei cieli) è un vigneto a piede franco impiantato più di cento anni fa a Grach in una delle zone più belle della Mosella. È raffinato e complesso al naso, dove si distinguono nuance di sambuco, gardenia, erbe mediterranee, frutta a polpa gialla e agrumi; in bocca è di grande impatto, teso e di lunga persistenza aromatica: dove si fanno largo belle sensazioni agrumate che lo accompagnano anche per tutto il lungo e freschissimo finale.

Urziger Wurzgarten Riesling Trocken GG alte Reben 2015 

Wurzgarten, ovvero il giardino delle spezie: da sempre i vini che nascono dall'ardesia rossa di questa vigna centenaria sono particolarmente profumati. Proprio come questo vino dall'ampio corredo aromatico fatto di gelsomino, glicine, menta, spezie gialle, mandarino, nespole e albicocche mature e persino una delicata nota di cassis. Nel bicchiere l'acidità scalpitante che non molla mai la presa sul frutto ben maturato rende sin da adesso decisamente piacevole la beva.

Wehlener Sonnenuhr Riesling Trockenbeerenauslese 2006 

La tipologia Trockenbeerenauslese è molto rara in casa Loosen: se ne producono pochissime bottiglie e solo in annate particolarmente favorevoli, in media un paio di volte a decennio. Naso fittissimo di cedro candito, datteri, sorbo, cera d'api, lavanda, crema, curcuma e altre spezie, miele, cremosa la beva ma per nulla stucchevole grazie alla tensione creata da un’acidità impressionante per un vino da meditazione, lunghissimo il finale impreziosito da fresche note agrumate e balsamiche.

Weingut Dr. Loosen | Germania | Bernkastel | St. Johannishof | tel. +49 (0)6571 1463 14 | http://drloosen.de/

 

Weingut Melsheimer

Reiler Mullay Hofberg Riesling Kabinett 2015 

Si ha notizia del vigneto di Reil Mullay sin dal 1143, citato in un atto di donazione al convento di Springierbach. Ripidissimo e ricco di ardesia rossa e grigia, è da sempre famoso per l'eleganza dei suoi vini. Non è da meno questo vino dai profumi minerali, floreali, agrumi e frutta esotica (alchechengi) che si apre bene al palato in perfetto equilibrio tra frutto e una bella acidità che gli dona vitalità accompagnandolo per tutto il lungo e succoso finale.

Lentum 2013

Lentum: a sottolineare la lunga elaborazione di questo vino che affina per ben 36 mesi sulle fecce fini in botti di rovere da 1.000 litri e senza nessun tipo di intervento se non i rabbocchi per la colmatura quando è necessario. Il risultato è un vino dal sorprendente equilibrio, profumato di frutta gialla, clementine e spezie; in bocca è vibrante, succoso di frutta matura, fresco di agrumi e dotato di una mirabile sapidità che dona al sorso grinta ed energia.

Molun 2015

Tutti i vini di Melsheimer vengono vinificati in vecchie botti di almeno 50 anni dove sostano sulle fecce fini per almeno un anno. Il Molun (l'antico nome della collina di Mullay) concede al naso intensi profumi di pesca noce e albicocca, spezie piccanti e fiori di gardenia e una sottile nota minerale che incornicia bene il piacevole corredo aromatico; bocca fresca, sapida ben armonizzata tra tensione acida e struttura per un bel finale giocato tra frutto e sapidità.

Weingut Melsheimer | Germania | Reil an der Mosel | Dorfstrasse 21 | tel. +49 (0)6542 2422 | www.melsheimer-riesling.de  

 

Weingut Martin Muellen

Trarbacher Huhnerberg Spatlese riesling troken 2015

A Trarbacher Huhnerberg Martin Mullen possiede 2 ettari nella parte più alta e scoscesa del vigneto: si tratta in gran parte di piante centenarie a piede franco. Al naso le note floreali e fruttate si fanno sempre più ampie e complesse, mentre in seconda battuta arrivano note speziate e balsamiche. Ben gestito il sorso: ricco, succoso, dotato di vitalità e lunghezza e di grande persistenza aromatica.

Krover Paradise Riesling Spatlese* 2015

Il Kroven Paradise si trova al centro di una stretta ansa della Mosella tra i borghi di Krov e Wolf, qui Martin Mullen possiede tre piccoli vigneti per un totale di poco più di un ettaro. Il vino è elegante al naso, dai profumi di erbe e fiori spontanei di montagna (ma anche spezie e frutti a polpa gialla) in una delicata cornice di mineralità ferrosa. In bocca riesce a essere grasso e strutturato senza perdere in tensione e senza mai scadere nello stucchevole mantenendo nel contempo una invidiabile bevibilità.

Krover Steffensberg Spatlese Riesling Trocken 2000

Considerato che la vigna del Krover Steffensberg conta poco più di 1.000 metri quadri, di questo vino se ne fanno davvero poche bottiglie. Al naso la gamma di aromi è ampia e complessa: mineralità, frutta esotica, mela, pepe verde, erba limoncina, sentori balsamici e di macchia mediterranea si susseguono in continua evoluzione. In bocca la bell’acidità trasmette al vino la giusta energia per riempire bene il palato amplificando un quadro aromatico degno di nota.

Weingut Martin Muellen | Germania | Traben-Trarbach | Alte Marktstrasse 2 | tel. +49 (0) 6541 9470 | www.muellen.de

 

a cura di Massimo Lanza

 

Articolo uscito sul mensile di Giugno 2017 del Gambero Rosso. Per abbonarti clicca qui

 

 

 

 

Come funziona Foody, la startup che collega turisti e cuochi dei territori

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Quello del social eating è un panorama in continuo fermento, che vede costantemente la nascita di startup innovative dedicate alla condivisione del cibo. L’ultimo progetto si chiama Foody, ed è una piattaforma di turismo enogastronomico pensata per far vivere ai viaggiatori un’esperienza culinaria a 360 gradi.

La piattaforma



Il principio di base è lo stesso di altre piattaforme di social eating, creare una rete fra chi ama cucinare e chi ama mangiare, a cambiare però è il taglio, più indirizzato al turismo. Foody è l’ultima novità nel mondo del social eating, una startup nata a Genova per idea di quattro giovani amanti della buona tavola, Elena Bisio, Michele Arleo, Chiara Ricci e Ilaria Tornati. Attiva già da due mesi, Foody si propone di rispondere alla sempre crescente tendenza del turismo enogastronomico, consentendo a tutti gli utenti di scoprire le tradizioni culinarie delle varie città. “Oggi il cibo sta diventando uno degli ingredienti principali nella scelta della meta, e mi piace paragonare Foody all’amico del posto che ti prende per mano e ti accompagna alla scoperta della sua città e dei suoi piatti preferiti”, ha commentato Elena. Ogni visitatore che sceglie di affidarsi alla startup, potrà quindi scoprire gusti e tradizioni locali direttamente in casa delle persone che hanno scelto di aderire al progetto.



La cucina e i tour gastronomici


Eat local with local è lo slogan chiaro ed efficiente di Foody, che si impegna a far vivere a ogni turista un’esperienza diretta a 360 gradi. Ogni commensale, infatti, ha la possibilità di sporcarsi le mani in prima persona, preparando con i padroni di casa specialità tipiche del luogo. Un’idea creativa che ha avuto origine nel capoluogo ligure, ma che ha tutte le carte in regola per diffondersi anche nelle altre città italiane. Ad arricchire l’offerta, tour gastronomici alla scoperta delle botteghe artigianali, forni, caffetterie e tutte le insegne che caratterizzano l’identità gastronomica di un luogo.



L’obiettivo



Una piattaforma che mette in comunicazione i viaggiatori con i cuochi locali, professionisti e amatoriali, all’insegna della condivisione e del senso di convivialità che da sempre rappresenta la tavola degli italiani. Ma non solo: l’innovativa startup è riuscita a coniugare con successo il turismo gastronomico e il sempre più diffuso fenomeno della sharing economy, nuovo modello economico che si propone di far fronte alla crisi promuovendo forme di consumo più consapevoli, risparmiando e condividendo esperienze uniche con un gruppo di persone. Prenderà piede anche altrove?

a cura di Michela Becchi

Le ricette di Laura Ravaioli in Israele. La shakshuka: tipiche uova in salsa

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Il cammino da Gerusalemme a Tel Aviv volge al termine. E Laura Ravaioli, tra saluti nostalgici e bei ricordi, racconta e spiega la ricetta della shakshuka.  

Appunti di viaggio. Laura Ravaioli in Israele arriva alla sua sesta e ultima puntata. Nel corso della quale la chefcammina verso la parte sud di Tel Aviv, arrivando nella città vecchia di Yafo. Qui scopre la trattoria Dr. Shakshuka che fa una delle migliori shakshuka della città. Per maggiori dettagli seguite tutta la puntata su Gambero Rosso Channel, questa sera alle ore 21:30.

Dr. Shakshuka, una trattoria di Tel Aviv

Camminando verso la parte sud di Tel Aviv si arriva nella città vecchia di Yafo, o se preferite Jaffa. Tutto qui parla di Oriente: i palazzi, le strade, i vicoli e i cortili. Ed è proprio in uno di questi straordinari e romanticamente decadenti cortili che troviamo Dr. Shakshuka. Una sorta di trattoria a cielo aperto dove regna incontrastato Bino Gabso, in arte (per l'appunto) Dr. Shakshuka. Che nonostante la sua mole, trabocca di energia e si muove come in un balletto tra i tantissimi tavoli che affollano il suo incredibile locale. Sarà lui il mio maestro che, passo passo, mi mostrerà la preparazione di un piatto molto popolare in Israele: la shakshuka.

Shakshuka. Le uova in salsa israeliane

La shakshuka

La parola deriva dall’arabo e significa “mescolato” e ben si presa alle interpretazioni. Solitamente è vegetariano (composto da uova e pomodoro) ma come spesso accade per le ricette più conosciute, ognuno ha la sua “ricetta migliore”, con le sue personali varianti e gli ingredienti immancabili. La shakshuka, non fa eccezione: non a caso Bino ha aggiunto qualcosa di suo alla ricetta base, rendendola più ricca e sontuosa grazie alla presenza delle salsicce di manzo speziate, piccanti e profumate di cumino. Ricca e opulenta la sua shakshuka merita un applauso.

Ingredienti

1 dl di olio

8 peperoncini verdi grandi

4 cucchiai colmi di aglio affettato

8 salsicce di manzo speziate (margev o merguez)

5 pomodori ramati grandi

1 cucchiaio di paprika dolce

1 cucchiaio di paprika piccante

1 cucchiaio di un mix di spezie piccanti

12 uova

Sale

Mettere a scaldare a fiamma vivace un’ampia padella, aggiungere l’olio e quando è ben caldo, unire i peperoncini e l’aglio. Far soffriggere vivacemente. Sempre a fiamma alta, aggiungere le salsicce e lasciarle cuocere per 4-5 minuti muovendo continuamente la padella per non farle attaccare. Unire i pomodori tagliati a pezzi, una presa di sale e lasciare cuocere fino a ottenere un sorta di salsa. A questo punto aggiungere abbondante paprika dolce e piccante e il misto di spezie, mescolare e lasciare insaporire per un paio di minuti. In una ciotola aprire le uova, perché la shakshuka è un piatto proprio a base di uova, e farle scivolare dolcemente nella salsa. Appena si formano delle bolle bianche, con il manico di un cucchiaio cominciare a muovere, con abile delicatezza, l’albume intorno al tuorlo facendo attenzione a non romperlo: questa azione viene definita “ricamo”, perché rapprendendosi il bianco dell’uovo forma delle increspature che assomigliano a un merletto. Così facendo si otterrà una perfetta cottura dell’uovo, con il tuorlo caldo ma ancora liquido. Servire accompagnata da moltissimo pane o pita che servirà da cucchiaio.

 

a cura di Laura Ravaioli

 

Questi e altri piatti della tradizione ebraica, Laura Ravaioli ce li racconta in Appunti di viaggio. Laura Ravaioli in Israele. In onda tutti i martedì su Gambero Rosso Channel alle ore 21:30, a partire dal 18 luglio 2017

 

Appunti di viaggio. Laura Ravaioli in Israele

Il pane dello Shabbat

Injera, il pane dell’Etiopia

Le borekitas, deliziosi fagottini dolci

I sinya, sfiziosi bocconcini di carne ricoperti di salsa tahina

Il pesce alla mediterranea 

Firenze sempre più capitale della pizza. Mario Cipriano di Palazzo Pretorio arriva in città

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Il giovane pizzaiolo aveva preso il posto di Giovanni Santarpia a San Donato in Poggio, tra le colline del Chianti, raccogliendo una sfida importante e confermando i Tre Spicchi a Palazzo Pretorio. Dal 28 agosto si apre un nuovo capitolo, nel centro di Firenze. 

La pizza a Firenze

Non solo Milano. Che anche Firenze fosse destinata a diventare una città che ama la pizza non molti potevano immaginarlo fino a un paio di anni fa. Poi, alle prime avvisaglie – l’arrivo di Giovanni Santarpia in città, l’apertura di Berberè, la pizza del Mercato Centrale, che oggi si avvale di due maestri romani in trasferta, Stefano Callegari a San Lorenzo e Pier Daniele Seu ai Gigli – ha fatto seguito un numero crescente di esperienze da segnalare, che si sono concretizzate proprio negli ultimi mesi. E oggi i fiorentini con il pallino per la pizza napoletana possono scegliere pure tra la proposta di Antonio Starita della Buoneria alle Cascine e l’esuberanza di un giovane campano d’adozione fiorentina come Romualdo Rizzuti, che dopo l’addio al Mercato Centrale dove aveva i Tre Spicchi, da un paio di mesi è di casa in viale Europa, con Le Follie di Romualdo. C’è spazio per tutti, insomma, e il capoluogo toscano è diventato un potente attrattore per tanti pizzaioli di talento che contribuiscono a fare dell’intera Penisola un territorio da scoprire per qualità dell’offerta e molteplicità di mani e scuole di pensiero (a questo proposito, non manca molto all’uscita della guida Pizzerie d’Italia 2018 del Gambero Rosso).

Mario Cipriano arriva in città

L’ultimo acquisto della città è Mario Cipriano, che dalla fine del 2015, all’indomani dell’addio di Giovanni Santarpia a Palazzo Pretorio, l’aveva brillantemente sostituito alla guida della pizzeria Tre Spicchi di San Donato in Poggio (Tavernelle Val di Pesa), nel Chianti fiorentino. Dal 28 agosto, dopo quasi due anni di collaborazione, anche il giovane di origini campane – cresciuto a Trieste e da diversi anni nell’orbita toscana – seguirà le orme del maestro, tra l’altro non molto distante dall’insegna di successo di largo Annigoni. L’occasione giusta per trasferirsi in città e cimentarsi con una nuova sfida è arrivata grazie all’accordo con Pasquale Naccari, già proprietario del ristorante e pizzeria Il Vecchio e il Mare di via Gioberti. La tavola, specializzata in cucina di pesce, è in attività dal 2007, e 10 anni dopo c’è la voglia di abbracciare un nuovo progetto, con Cipriano attivamente coinvolto in qualità di socio e supervisore della pizzeria: “Stiamo completando i lavori di ristrutturazione, dopo aver acquisito un fondo adiacente che ci garantirà circa 130 metri quadri in più da sfruttare” racconta Cipriano. La pizzeria, quindi, disporrà di uno spazio dedicato: 30 metri quadri di laboratorio, un bel banco di 5 metri, più un piano di lavoro riservato agli impasti gluten free, e due forni, uno a legna Valoriani e un elettrico a due camere (per la pizza in pala la prima, per la pizza senza glutine la seconda). Anche il numero complessivo di coperti aumenta, e si fa imponente: più di un centinaio i posti nello spazio esterno, altrettanti all’interno.

La pizza de Il Vecchio e il Mare

Un impegno ambizioso, quindi, che affiancherà alla proposta del ristorante la pizza del 35enne, che è pure docente pizzaiolo e della leggerezza e digeribilità dei suoi impasti ha fatto un vanto: “Avremo in carta 15 pizze al piatto, la classica napoletana con il cornicione morbido e dal morso corto (mai gommoso, però!), con un paio di fuori menu che cambieranno settimanalmente; e poi la proposta alla pala, servita su taglieri in legno, disponibile su prenotazione e in un giorno dedicato della settimana, ancora da stabilire”. Oltre all’alternativa senza glutine, da novembre, “fatta con criterio, e nel rispetto delle norme in materia”, e alla proposta per il pranzo, dal lunedì al giovedì, limitata alle pizze più semplici. E dal forno elettrico (“l’ho voluto perché mi permette di giocare con le alte idratazioni della pizza in teglia”) arriverà anche il pane per la tavola del ristorante. Sulla pizza - da farine a basso contenuto proteico, impasto ben idratato, lievitazione a 36 ore – solo prodotti di qualità: il pomodoro Gustarosso, capperi e origano di Pantelleria, alici di Cetara, il crudo di Pratomagno. Prezzi popolari: 6 euro per una Margherita, 12.50 euro per la pizza più cara in menu. “Il buono è soggettivo, ma la leggerezza del prodotto tutti possono apprezzarla: la pizza fa bene, dev’essere mangiata e digerita. E questa è la mia sfida”. A coadiuvare Mario, un team giovane, di ragazzi selezionati e stagisti, che velocizzeranno i condimenti e le preparazioni a crudo. La piazza fiorentina comincia a farsi affollata, Mario che ne pensa? “C’è spazio per tutti, siamo tutti bravi e questo è stimolante. La clientela è tanta e l’importante è fare. Con Santarpia per esempio siamo amici, oltre che colleghi. Non escludo si possa fare qualcosa insieme, qualche serata ogni tanto”. E invece a Palazzo Pretorio che succede? “Ci sarà un passaggio di consegne, ho formato una squadra che prenderà le redini. Di fatto, però, ora il mio posto è a Firenze”.

 

Il Vecchio e il Mare | Firenze | via Vincenzo Gioberti, 61 | tel. 055 669575 | da lunedì 28 agosto

 

a cura di Livia Montagnoli

CaselloTypico, la nuova app segnala prodotti&ristoranti a chi viaggia in autostrada

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Una guida gastronomica interattiva e insolita, pensata per i viaggiatori buongustai che si ritrovano a percorrere le autostrade d’Italia. CaselloTypico è un’app dedicata ai migliori ristoranti e prodotti tipici delle zone attorno ai vari caselli, che offre ai turisti l’opportunità di programmare le proprie soste all’insegna del gusto.

L’app


Si chiama CaselloTypico e, come si intuisce dal nome, si tratta di un’invenzione originale ideata su misura per i viaggiatori gourmet che, anche in autostrada, non vogliono rinunciare a un pranzo di livello. Una guida gastronomica a tutti gli effetti che segnala prodotti tipici, locali, enoteche, botteghe e piatti tradizionali delle zone attorno ai diversi caselli autostradali, consentendo così agli automobilisti di scoprire nuovi ristoranti di qualità sparsi per lo Stivale. Attualmente consultabile su A24 (Roma-L’Aquila-Teramo), A25 (Roma-Pescara) A14 (Bologna-Taranto), A12 (Genova-Roma), A-22 (Modena-Brennero), la app sarà presto disponibile per l’intera rete autostradale, scaricabile per tutti i tipi di device, attraverso Apple Store o Google Play, al prezzo di 3,49 Euro.


Come funziona


Una deviazione di pochi chilometri dal percorso automobilistico, pensata per chi “vuole concedersi una sosta in cui coniugare curiosità turistica e gusto per il prodotto tipico italiano”, con tutte le indicazioni testuali e vocali di CaselloTypico, che riunisce i migliori indirizzi nel raggio massimo di dieci km da un qualsiasi casello. A idearla, Typimedia, società editoriale che vanta da tempo una piattaforma del prodotto tipico certificato che raduna le tante eccellenze enogastronomiche del nostro Paese. “Pensiamo di aver realizzato uno strumento utile e anche divertente, che può contribuire a valorizzare il territorio italiano e le sue specialità”, ha dichiarato l’amministratore delegato Edoardo Fedele. Ma come funziona la app? CaselloTypico sfrutta il database della piattaforma del prodotto tipico, e lo sovrappone ai dati “di una ricerca minuziosa che i nostri esperti hanno condotto sul territorio per mappare il meglio del cibo italiano di qualità”. Il risultato è una selezione di circa 1000 strutture fra aziende e ristoranti distribuite attorno a 158 caselli, un numero notevole che è destinato a crescere in maniera esponenziale. Nell’app è attiva la funzione di geolocalizzazione, ma i viaggiatori possono consultare la guida anche da casa, organizzando così in anticipo delle tappe golose in grado di rendere più piacevole il percorso.


a cura di Michela Becchi

Il peggior cuoco italiano al mondo. Intervista e fenomenologia di Chef Ruffi

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Ragù con ketchup e glutammato pronto "fresco" in 3 minuti. Pasta mai cotta al momento ma sempre "tenuta in caldo" in acqua tiepida per poi essere saltata in padella con l'immancabile aggiunta di panna. E ovviamente l'arancino di riso, senza riso. Però le sue ricette della "tradizione" italiana sbancano su Facebook. 

Per certi versi è la domanda che ci facciamo anche noi, editori di cibo: come fare a ricavarsi il proprio spazio nel mondo delle videoricette visto che questo mondo è a dir poco affollato e pieno di contendenti che hanno molti più mezzi di te, molti più soldi di te, set migliori dei tuoi e attrezzature costosissime che non ti puoi permettere? E come riuscire a ottenere visibilità sui motori di ricerca o sui social media proponendo l'ennesima ricetta della carbonara in mezzo a mille altre ricette di carbonara tutte impeccabili, firmate, accattivanti? Come essere migliori degli altri? Come essere più belli? La persona o il gruppo di persone che sta dietro all'operazione Chef Ruffi deve essersi posto la stessa domanda e la risposta è stata spiazzante: facciamo ricette brutte, sgradevoli, sgraziate, odiose e sbagliate. E il "successo" sarà assicurato. La storia dice che è andata proprio così...

 

Chef Ruffi

Chef Ruffi è il caso gastronomico italiano (se così vogliamo dire) dell'estate. Non sappiamo da dove viene, non sappiamo quanto durerà, sappiamo solo che oggi Ruffi è l'unico "chef" sui social media a generare più coinvolgimento e interazioni di Massimo Bottura o di René Redzepi. Gli ingredienti sono semplici (e tutti di pessima qualità) e il risultato è univoco in ognuna delle videoricette fino ad oggi pubblicate sul profilo Facebook: schifezze irraccontabili, probabilmente velenose e tossiche.

Il set

Il set è sempre lo stesso: siamo in una cucina di un ristorante. Questo è abbastanza incontrovertibile. Siamo probabilmente nel Regno Unito o in Irlanda. Gli attori fissi di questa commedia aiutano a generare riconoscibilità e family feeling: i guanti azzurri di lattice, il dialetto (probabilmente campano) da emigrante anni Cinquanta di un uomo che parrebbe in realtà molto giovane ma che non si vede mai in volto, attrezzatura sciatta o improbabile, ingredienti imbarazzanti, uno stile di ripresa volutamente raffazzonato, con lo smart phone tenuto dritto, niente montaggio, niente cura delle luci. Questo è quanto. E poi giù a bestemmiare i capisaldi della grande cucina tradizionale del dopoguerra, che dopo la macchina e la mamma per gli italiani non c'è nulla di più sacro e intoccabile: carbonara, arancino, ragù, cacio e pepe.

Le ricette

Ruffi prende le ricette e le rifà a modo suo. Una volta in una maniera, una volta in un'altra, ma sempre atrocemente, da mettersi le mani nei capelli. Da indignarsi. Ecco, appunto: indignarsi. Gli autori di questo format dimostrano di conoscere molto bene le leve che muovono le grandi ondate di folla sui social, la prima è senza dubbio l'indignazione e Ruffi ne genera a pacchi. La seconda sfida, lo dicevamo prima, è quella della riconoscibilità. Beh ci si può credere o no (leggendo le centinaia di commenti ai video se ne avrà conferma), ma Ruffi è riuscito a creare degli autentici tormentoni (la panna, aggiunta a tutte le preparazioni, è sempre "versatile"; il cibo è importante che a un certo punto venga "malgamato\" e i clienti "non si sono mai lamentati").

 

Un fenomeno da grandi numeri

E così Chef Ruffi, piaccia o no, ha creato nel giro di pochissimi giorni un personaggio. I numeri parlano chiarissimo: di gente disposta a mettere Mi Piace sulla sua pagina per ora ne ha trovata relativamente poca (comunque 12mila persone), ma i suoi video, di nascosto, li guardano tutti: indignati, divertiti, schifati, in cerca di un attimo di pausa tra tante ricette irreprensibili. 200mila persone hanno guardato la videoricetta sul risotto ai funghi (Facebook non rilascia il dato su quanti tra questi abbiano vomitato di fronte allo schermo), cacio e pepe e tiramisù stanno attorno alle 300mila mentre le cose si fanno assai più serie con la tremenda ricetta della carbonara che per il momento ha totalizzato non solo un milione e 300mila visite, ma qualcosa come 11mila commenti i più affettuosi dei quali vorrebbero vedere lo "chef" marcire in galera per il resto dei suoi giorni, convinti che neppure lì nessun ergastolano apprezzerebbe un rancio così riprovevole. Una sorta di Master Chef al contrario che però ha uno svolgimento narrativo coinvolgente, a tratti empatico e volto a generare curiosità (della serie: vediamo come ha storpiato quest’altra ricetta) e sottilmente anche immedesimazione. Si immedesima il "pubblico da casa" che magari anche una sola volta nella vita una schifezza "alla Ruffi" l'ha fatta eccome, si immedesima certa ristorazione "italiana" all'estero (e non solo, ahinoi) che ancora si barcamena tra panna, glutammato, pasta precotta e ragù al ketchup. Insomma, forzando un po’, siamo alla Fenomelogia di Mike Bongiorno (Umberto Eco, 1961) applicata alla bulimia pervasiva del cibo in tv e sui media. E poi le sgangherate ricette di Ruffi pongono involontariamente sul tappeto tutta una serie di questioni che sono tutt'altro che risolte, che aleggiano insomma nel dibattito gastronomico: gli eccessi della ristorazione gourmet, le fisime da gastro-fissati su materie prime e prodotti, la scarsa attenzione che le ricette e le videoricette propinate su web pongono sulla disponibilità di tempo ("basta fare ricette come 200 anni fa" spiega Ruffi insistendo che per fare un buon ragù non devono essere necessari più di tre minuti, mica tre ore), lo stupro cui è quotidianamente sottoposta la cucina italiana in migliaia di esercizi commerciali all'estero ma anche in patria. 

Certo che per tenere botta video dopo video al personaggio che si è proposto di rappresentare, Ruffi deve essere proprio un attore navigato. Guardi e riguardi i filmati e pensi che la recita non può essere agevolissima, lo stile narrativo è di una autenticità spiccata. Allora ti fai venire il dubbio. E se invece di un progetto si trattasse solo di ragazzi che - in una cucina di un ristorante all'estero - si divertono nelle ore di stacco, abbozzando ricette che nessuno mai assaggerà (anche perché si rischiano le penne)? O se addirittura si trattasse di un cuoco che crede davvero a quello che fa? O se Chef Ruffi fosse un progetto per svelarci davvero come si lavora nella schiacciante maggioranza dei ristoranti, esclusi quelli più attenzionati da guide e appassionati?

Senza nutrire troppe speranze abbiamo azzardato un'intervista a Ruffi, ma tutti i dubbi sono rimasti e il mistero di Chef Ruffi non siamo riusciti a scioglierlo.

 

Maestro Ruffi iniziamo dagli inizi, che formazione hai avuto, da quale chef ti sei formato? Oppure sei autodidatta?

Diciamo che ho avuto la fortuna di cascare bene fin da giovanissimo, ho potuto incontrare maestri che erano innanzitutto appassionati dei sapori più che delle tradizioni o delle ricette popolari, loro hanno trasformato quell'iniziale curiosità per la cucina in vere e proprie "lezioni", seppur non frequentavo una vera e propria scuola di cucina. A prescindere, reputo la possibilità di studiare una cosa nobilissima e da rispettare, ma lo stesso vale per chi sceglie di andare prettamente per i fatti suoi.

 

Quindi tu sei andato per i fatti tuoi...

L'importante è che questo porti impegno sacrificio e amore per quello che si fa...

 

Quindi?

Quindi sì, direi che sono un autodidatta...

 

In che zona d'Italia sei cresciuto?

Questa è una domanda alla quale, ogni volta che mi viene posta, trovo difficile rispondere, nonostante la sua semplice formulazione.

 

Non sembrava una domanda così difficile...

Viviamo in un'epoca in cui se alla domanda "dove sei nato/cresciuto" uno ci risponde "sui social" è assolutamente normale...

 

Vabè... Allora spiegami la tua filosofia di cucina.

La mia filosofia di cucina è come quella del grande Cannavacciuolo, rispecchia quella di un uomo, un ragazzo, dal temperamento forte e determinato. Chi dice una cosa con una canzone, con una poesia o con un film è un artista che coinvolge gli spettatori stuzzicandone i palati.

 

Uhm… Maestro, è proprio vero che nessuno si è lamentato?

Beh, verissimo!

 

Ma dici che non hai un ristorante. Ma allora chi è che non si è lamentato visto che non hai clienti?

Non ho un ristorante mio ancora, ma ho lavorato in molti anche se quasi sempre i proprietari si ingelosivano di me proprio per questo motivo: ero troppo bravo. La gente non si lamentava e loro forse avevano paura che gli rubassi i clienti...

 

Quanti anni fa hai iniziato la tua fulgida carriera Ruffi?

Ero giovanissimo: 17 anni fa.

 

Al momento in che città lavori?

Non vorrei rivelarlo per vari motivi, anche se presto ho idea di farmi vedere pubblicamente.

 

Ma perché tutti questi segreti?

Giudicando l'interesse che c'è su di me al momento non mi sento un semplice cuoco...

 

Ah giustamente. E cosa ti senti?

Mi viene da citare una grande frase che dice: "Mi sento come un libro aperto circondato da analfabeti”. Non mi riferisco a tutti ovviamente.

 

A proposito, pensi di fare a breve il tuo libro di ricette?

Proprio qualche giorno fa me l'hanno proposto.

 

Hai accettato immagino...

Per il momento vorrei prima farmi amare dalla gente, far capire la mia cucina e la mia tecnica e sono sicuro di riuscirci; e poi magari, in futuro, perché non pubblicare un mio libro?

 

Quale umiltà... Senti, oltre a Cannavacciuolo ovviamente, quali sono gli chef che consideri tuoi miti?

Massimo Bottura ed Heston Blumenthal, perché anche loro come me all'inizio sono stati molto criticati dagli analfabeti...

 

Ma nessuno di questi chef utilizzerebbe mai scadenti prodotti industriali come fai tu, Ruffi. E nessuno impiegherebbe tecniche che neppure alla mensa dell'ospedale. Come rispondi?

Si ma loro fanno una cucina diversa; io al momento sto cercando di insegnare come cucinare i veri piatti tradizionali velocemente ed economicamente, ma con un sapore unico. Poi più in là farò anche dei piatti che io penso possano meritare qualche stelletta...

 

Quindi il tuo obbiettivo, come sembra dai tuoi video, è quello di fare ricette che richiedano pochissimi minuti di tempo, giusto?

Si, ma con sapori incredibili...

 

Che rapporto hai col denaro?

Mi piacerebbe guadagnarne per fare beneficenza.

 

E invece ne guadagni poco?

Il giusto.

 

Torniamo al concetto di tempo. Ruffi è molto attento al tempo, ma non è meglio investire qualche minuto di più e non preparare pietanze con pasta o riso precotti ad esempio?

Io penso che la cosa importante è il gusto, e quando la gente non si lamenta si vede che c'è!

 

Forse non si lamentano perché appena mangiano le tue pietanze muoiono e non hanno neppure il tempo di lagnarsi; oppure non sono italiani e non conoscono il vero gusto, ad esempio, di un tiramisù e non sanno che senza mascarpone e con al suo posto la panna spray è tutta un'altra cosa. No?

Può essere; ma bisogna assaggiare, magari senza sapere, per giudicare. Senza sapere intendo alla cieca. Magari un giorno farò una degustazione così e tu sarai l'assaggiatore.

 

Più rischioso di una roulette russa. Parliamo di fornitori, di prodotti. Dove ti rifornisci?

Dipende dove mi trovo, ma non è importante: uso ingredienti semplici che si trovano dappertutto.

 

Qualcuno dice che il tuo è solo un progetto commerciale per sponsorizzare una marca di panna da cucina. In effetti fai sempre vedere il logo della famosa crema versatile...

Magari fosse vero! Comunque sto pensando di fare dei miei prodotti così con il ricavato potrò fare della beneficenza. Cosa ne pensi?

 

Prodotti a marchio Ruffi eh? Tipo quali?

Il mio marchio sulla panna e una fabbrica di frustini per amalgamare.

 

Perfetto. Quindi si dice "amalgamare", non "malgamare", giusto?

Eh no, si dice "malgamare"...

 

Nella tua pagina sei sommerso di critiche. Decine di migliaia di commenti indignati. Ti dispiace?

Ci saranno sempre degli Eschimesi pronti a dettar norme su come devono comportarsi gli abitanti del Congo durante la calura. Insomma mi criticano perché sono gelosi. Gelosi di come cucino.

 

Gelosi di come cucini? Ma se hai appena pubblicato la videoricetta dell’arancino di riso senza metterci il riso…

Eh, hai visto. Però la cosa ha creato dibattito. E per me la cucina è questo.

 

“Cucina” è un parolone Maestro… La prossima ricetta con cui ci farai star male?

Sono in preparazione una pasta e fagioli e qualche dolce tipico.

 

https://www.facebook.com/chefruffi/

a cura di Massimiliano Tonelli

 

Il peggior cuoco italiano al mondo. Intervista e fenomenologia di Chef Ruffi

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Ragù con ketchup e glutammato pronto "fresco" in 3 minuti. Pasta mai cotta al momento ma sempre "tenuta in caldo" in acqua tiepida per poi essere saltata in padella con l'immancabile aggiunta di panna. E ovviamente l'arancino di riso, senza riso. Però le sue ricette della "tradizione" italiana sbancano su Facebook. 

Per certi versi è la domanda che ci facciamo anche noi, editori di cibo: come fare a ricavarsi il proprio spazio nel mondo delle videoricette visto che questo mondo è a dir poco affollato e pieno di contendenti che hanno molti più mezzi di te, molti più soldi di te, set migliori dei tuoi e attrezzature costosissime che non ti puoi permettere? E come riuscire a ottenere visibilità sui motori di ricerca o sui social media proponendo l'ennesima ricetta della carbonara in mezzo a mille altre ricette di carbonara tutte impeccabili, firmate, accattivanti? Come essere migliori degli altri? Come essere più belli? La persona o il gruppo di persone che sta dietro all'operazione Chef Ruffi deve essersi posto la stessa domanda e la risposta è stata spiazzante: facciamo ricette brutte, sgradevoli, sgraziate, odiose e sbagliate. E il "successo" sarà assicurato. La storia dice che è andata proprio così...

 

Chef Ruffi

Chef Ruffi è il caso gastronomico italiano (se così vogliamo dire) dell'estate. Non sappiamo da dove viene, non sappiamo quanto durerà, sappiamo solo che oggi Ruffi è l'unico "chef" sui social media a generare più coinvolgimento e interazioni di Massimo Bottura o di René Redzepi. Gli ingredienti sono semplici (e tutti di pessima qualità) e il risultato è univoco in ognuna delle videoricette fino ad oggi pubblicate sul profilo Facebook: schifezze irraccontabili, probabilmente velenose e tossiche.

Il set

Il set è sempre lo stesso: siamo in una cucina di un ristorante. Questo è abbastanza incontrovertibile. Siamo probabilmente nel Regno Unito o in Irlanda. Gli attori immancabili di questa tragicommedia aiutano a generare riconoscibilità e family feeling: i guanti azzurri di lattice da lavapiatti (a simboleggiare il like di Facebook nel linguaggio in codice ruffiano), il dialetto (probabilmente campano) da emigrante anni Cinquanta di un uomo che parrebbe in realtà molto giovane ma che non si vede mai in volto, attrezzatura sciatta o improbabile, ingredienti imbarazzanti, uno stile di ripresa volutamente raffazzonato, con lo smart phone tenuto dritto, niente montaggio, niente cura delle luci. Questo è quanto. E poi giù a bestemmiare i capisaldi della grande cucina tradizionale del dopoguerra, che dopo la macchina e la mamma per gli italiani non c'è nulla di più sacro e intoccabile: carbonara, arancino, ragù, cacio e pepe.

Le ricette

Ruffi prende le ricette e le rifà a modo suo. Una volta in una maniera, una volta in un'altra, ma sempre atrocemente, da mettersi le mani nei capelli. Da indignarsi. Ecco, appunto: indignarsi. Gli autori di questo format dimostrano di conoscere molto bene le leve che muovono le grandi ondate di folla sui social, la prima è senza dubbio l'indignazione e Ruffi ne genera a pacchi. La seconda sfida, lo dicevamo prima, è quella della riconoscibilità. Beh ci si può credere o no (leggendo le centinaia di commenti ai video se ne avrà conferma), ma Ruffi è riuscito a creare degli autentici tormentoni (la panna, aggiunta a tutte le preparazioni, è sempre "versatile"; il cibo è importante che a un certo punto venga "malgamato" e i clienti "non si sono mai lamentati") ripetuti da ipnotizzati fan adoranti e da migliaia di detrattori vomitanti.

 

Un fenomeno da grandi numeri

E così Chef Ruffi, piaccia o no, ha creato nel giro di pochissimi giorni un personaggio con tanto di fan club ufficiale. I numeri parlano chiarissimo: di gente disposta a mettere Mi Piace sulla sua pagina per ora ne ha trovata relativamente poca (comunque 12mila persone), ma i suoi video, di nascosto, li guardano tutti: indignati, divertiti, schifati, in cerca di un attimo di pausa tra tante ricette irreprensibili. 200mila persone hanno guardato la videoricetta sul risotto ai funghi (Facebook non rilascia il dato su quanti tra questi abbiano vomitato di fronte allo schermo), cacio e pepe e tiramisù stanno attorno alle 300mila mentre le cose si fanno assai più serie con la tremenda ricetta della carbonara che per il momento ha totalizzato non solo un milione e 300mila visite, ma qualcosa come 14mila commenti i più affettuosi dei quali vorrebbero vedere lo "chef" marcire in galera per il resto dei suoi giorni, convinti che neppure lì nessun ergastolano apprezzerebbe un rancio così riprovevole. Una sorta di Master Chef al contrario che però ha uno svolgimento narrativo coinvolgente, a tratti empatico e volto a generare curiosità (della serie: vediamo come ha storpiato quest’altra ricetta) e sottilmente anche immedesimazione. Si immedesima il "pubblico da casa" che magari anche una sola volta nella vita una schifezza "alla Ruffi" l'ha fatta eccome, si immedesima certa ristorazione "italiana" all'estero (e non solo, ahinoi) che ancora si barcamena tra panna, glutammato, pasta precotta e ragù al ketchup. Insomma, forzando un po’, siamo alla Fenomelogia di Mike Bongiorno (Umberto Eco, 1961) applicata alla bulimia pervasiva del cibo in tv e sui media dove tutti si atteggiano a grandi chef e grandi esperti con la puzza sotto al naso. Mentre tutti alzano l'asticella, Ruffi l'abbassa posizionadola direttamente soto terra. E poi le sgangherate ricette di Ruffi pongono involontariamente sul tappeto tutta una serie di questioni che sono tutt'altro che risolte, che aleggiano insomma nel dibattito gastronomico: gli eccessi della ristorazione gourmet, le fisime da gastro-fissati su materie prime e prodotti, la scarsa attenzione che le ricette e le videoricette propinate su web pongono sulla disponibilità di tempo ("basta fare preparazioni come 200 anni fa" spiega Ruffi insistendo che per fare un buon ragù non devono essere necessari più di tre minuti, mica tre ore), lo stupro cui è quotidianamente sottoposta la cucina italiana in migliaia di esercizi commerciali all'estero ma anche in patria. 

Certo che per tenere botta video dopo video al personaggio che si è proposto di rappresentare, Ruffi deve essere proprio un attore navigato. Guardi e riguardi i filmati e pensi che la recita non può essere agevolissima, lo stile narrativo è di una autenticità spiccata. Allora ti fai venire il dubbio. E se invece di un progetto si trattasse solo di ragazzi che - in una cucina di un ristorante all'estero - si divertono nelle ore di stacco, abbozzando ricette che nessuno mai assaggerà (anche perché si rischiano le penne)? O se addirittura si trattasse di un cuoco che crede davvero a quello che fa? O se Chef Ruffi fosse un progetto per svelarci davvero come si lavora nella schiacciante maggioranza dei ristoranti, esclusi quelli più attenzionati da guide e appassionati?

Senza nutrire troppe speranze abbiamo azzardato un'intervista a Ruffi, ma tutti i dubbi sono rimasti e il mistero di Chef Ruffi non siamo riusciti a scioglierlo granché.

 

Maestro Ruffi iniziamo dagli inizi, che formazione hai avuto, da quale chef ti sei formato? Oppure sei autodidatta?

Diciamo che ho avuto la fortuna di cascare bene fin da giovanissimo, ho potuto incontrare maestri che erano innanzitutto appassionati dei sapori più che delle tradizioni o delle ricette popolari, loro hanno trasformato quell'iniziale curiosità per la cucina in vere e proprie "lezioni", seppur non frequentavo una vera e propria scuola di cucina. A prescindere, reputo la possibilità di studiare una cosa nobilissima e da rispettare, ma lo stesso vale per chi sceglie di andare prettamente per i fatti suoi.

 

Quindi tu sei andato per i fatti tuoi...

L'importante è che questo porti impegno sacrificio e amore per quello che si fa...

 

Quindi?

Quindi sì, direi che sono un autodidatta...

 

In che zona d'Italia sei cresciuto?

Questa è una domanda alla quale, ogni volta che mi viene posta, trovo difficile rispondere, nonostante la sua semplice formulazione.

 

Non sembrava una domanda così difficile...

Viviamo in un'epoca in cui se alla domanda "dove sei nato/cresciuto" uno ci risponde "sui social" è assolutamente normale...

 

Vabè... Allora spiegami la tua filosofia di cucina.

La mia filosofia di cucina è come quella del grande Cannavacciuolo, rispecchia quella di un uomo, un ragazzo, dal temperamento forte e determinato. Chi dice una cosa con una canzone, con una poesia o con un film è un artista che coinvolge gli spettatori stuzzicandone i palati.

 

Uhm… Maestro, è proprio vero che nessuno si è lamentato?

Beh, verissimo!

 

Ma dici che non hai un ristorante. Ma allora chi è che non si è lamentato visto che non hai clienti?

Non ho un ristorante mio ancora, ma ho lavorato in molti anche se quasi sempre i proprietari si ingelosivano di me proprio per questo motivo: ero troppo bravo. La gente non si lamentava e loro forse avevano paura che gli rubassi i clienti...

 

Quanti anni fa hai iniziato la tua fulgida carriera Ruffi?

Ero giovanissimo: 17 anni fa.

 

Al momento in che città lavori?

Non vorrei rivelarlo per vari motivi, anche se presto ho idea di farmi vedere pubblicamente.

 

Ma perché tutti questi segreti?

Giudicando l'interesse che c'è su di me al momento non mi sento un semplice cuoco...

 

Ah giustamente. E cosa ti senti?

Mi viene da citare una grande frase che dice: "Mi sento come un libro aperto circondato da analfabeti”. Non mi riferisco a tutti ovviamente.

 

A proposito, pensi di fare a breve il tuo libro di ricette?

Proprio qualche giorno fa me l'hanno proposto.

 

Hai accettato immagino...

Per il momento vorrei prima farmi amare dalla gente, far capire la mia cucina e la mia tecnica e sono sicuro di riuscirci; e poi magari, in futuro, perché non pubblicare un mio libro?

 

Quale umiltà... Senti, oltre a Cannavacciuolo ovviamente, quali sono gli chef che consideri tuoi miti?

Massimo Bottura ed Heston Blumenthal, perché anche loro come me all'inizio sono stati molto criticati dagli analfabeti...

 

Ma nessuno di questi chef utilizzerebbe mai scadenti prodotti industriali come fai tu, Ruffi. E nessuno impiegherebbe tecniche che neppure alla mensa dell'ospedale. Come rispondi?

Si ma loro fanno una cucina diversa; io al momento sto cercando di insegnare come cucinare i veri piatti tradizionali velocemente ed economicamente, ma con un sapore unico. Poi più in là farò anche dei piatti che io penso possano meritare qualche stelletta...

 

Quindi il tuo obbiettivo, come sembra dai tuoi video, è quello di fare ricette che richiedano pochissimi minuti di tempo, giusto?

Si, ma con sapori incredibili...

 

Che rapporto hai col denaro?

Mi piacerebbe guadagnarne per fare beneficenza.

 

E invece ne guadagni poco?

Il giusto.

 

Torniamo al concetto di tempo. Ruffi è molto attento al tempo, ma non è meglio investire qualche minuto di più e non preparare pietanze con pasta o riso precotti ad esempio?

Io penso che la cosa importante è il gusto, e quando la gente non si lamenta si vede che c'è!

 

Forse non si lamentano perché appena mangiano le tue pietanze muoiono e non hanno neppure il tempo di lagnarsi; oppure non sono italiani e non conoscono il vero gusto, ad esempio, di un tiramisù e non sanno che senza mascarpone e con al suo posto la panna spray è tutta un'altra cosa. No?

Può essere; ma bisogna assaggiare, magari senza sapere, per giudicare. Senza sapere intendo alla cieca. Magari un giorno farò una degustazione così e tu sarai l'assaggiatore.

 

Più rischioso di una roulette russa. Parliamo di fornitori, di prodotti. Dove ti rifornisci?

Dipende dove mi trovo, ma non è importante: uso ingredienti semplici che si trovano dappertutto.

 

Qualcuno dice che il tuo è solo un progetto commerciale per sponsorizzare una marca di panna da cucina. In effetti fai sempre vedere il logo della famosa crema versatile...

Magari fosse vero! Comunque sto pensando di fare dei miei prodotti così con il ricavato potrò fare della beneficenza. Cosa ne pensi?

 

Prodotti a marchio Ruffi eh? Tipo quali?

Il mio marchio sulla panna e una fabbrica di frustini per amalgamare.

 

Perfetto. Quindi si dice "amalgamare", non "malgamare", giusto?

Eh no, si dice "malgamare"...

 

Nella tua pagina sei sommerso di critiche. Decine di migliaia di commenti indignati. Ti dispiace?

Ci saranno sempre degli Eschimesi pronti a dettar norme su come devono comportarsi gli abitanti del Congo durante la calura. Insomma mi criticano perché sono gelosi. Gelosi di come cucino.

 

Gelosi di come cucini? Ma se hai appena pubblicato la videoricetta dell’arancino di riso senza metterci il riso pur avendolo preparato di tutto punto prima con tanto di curcuma (tanto secondo te è "uguale" allo zafferano)…

Eh, hai visto. Però la cosa ha creato dibattito. E per me la cucina è questo.

 

“Cucina” è un parolone Maestro… Qui siamo al surrealismo situazionista della miglior (peggior) specie. La prossima ricetta con cui ci farai star male?

Sono in preparazione una pasta e fagioli e qualche dolce tipico.

 

https://www.facebook.com/chefruffi/

a cura di Massimiliano Tonelli

 


La vendemmia 2017 è una delle più scarse da 60 anni. Colpa della siccità

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I primi dati raccolti tra le vigne della Penisola dall’associazioneAssoenologi guidata da Riccardo Cotarella parlano chiaro: la produzione di vino e mosto del 2017 sarà in netto calo rispetto al 2016, con una flessione del 24% e 41,1 milioni di ettolitri stimati. Resiste solo la Campania. Ma la siccità potrebbe aver favorito la qualità delle uve. 

Gelate e siccità. Un 2017 difficile

Quest’anno il nemico più temuto non è la grandine, o il maltempo tout court di cui tra le vigne bisogna sempre avere timore. Sulle previsioni della vendemmia 2017 – che alla fine di luglio ha preso il via in Sardegna e Sicilia, come abbiamo documentato – pesa lo spauracchio di una siccità con pochi precedenti, che sta mettendo in ginocchio l’intero comparto agricolo. E infatti Assoenologi preannuncia una delle annate più scarse di sempre – tra le sei vendemmie più scarse degli ultimi 60 anni – con 41,1 milioni di ettolitri di vino e mosto, rispetto agli oltre 54 milioni di ettolitri prodotti nel 2016 (una flessione del 24%). Quel che rincuora gli amanti del vino di qualità, sempre a detta dell’associazione guidata da Riccardo Cotarella, è però la netta sensazione che l’annata siccitosa possa aver scongiurato la formazione di muffe e marciumi in vigna, regalando uve ottimali per chi lavora bene in cantina, così che il prodotto finale si assesti su un buon livello qualitativo. Certo, non si può proprio parlare di annata favorevole, come ben sottolinea Assoenologi in riferimento alle gelate di aprile che hanno compromesso i germogli già formati e alla grande siccità, che persiste in buona parte del Centro Sud della Penisola. E pure al Nord, che dalla fine di luglio e durante il mese di agosto ha beneficiato di piogge provvidenziali, molte cantine hanno dovuto fare i conti con le improvvise grandinate, che hanno compromesso il risultato della vendemmia. Le stime quantitative sono riferite alla situazione riscontrata dall’associazione nelle sue 17 sedi periferiche, tra la seconda e la terza settimana di agosto, quando gran parte dell’uva era ancora sulle piante; ecco perché il quadro potrebbe aggravarsi, in relazione al perdurare della siccità che per tutto l’ultimo mese non ha lasciato scampo alle campagne italiane.

La vendemmia 2017 regione per regione

Le buone notizie, invece, arrivano da quelle regioni vinicole che sono riuscite a contrastare il fenomeno, con l’aiuto di qualche pioggia estiva, e soprattutto di un ottimo lavoro in vigna, o per la resistenza alla siccità di alcune cultivar autoctone. Passando al dato regionale, infatti, la Campania fa registrare un aumento produttivo del 5%, al contrario della quasi totalità delle regioni italiane, in netta flessione, con punte negative in Sicilia e Umbria, dove il decremento tocca percentuali del 35-40%. In difficoltà anche l’Abruzzo, la Puglia e la Toscana (-30%), mentre cercano di contenere i danni Lombardia e Marche (-25%), Emilia Romagna e Sardegna (-20%). Più fortunate Piemonte, Veneto e Friuli Venezia Giulia, che comunque registrano una flessione del 15%, e Trentino Alto Adige, con un 10% in meno rispetto al 2016. Ora bisognerà aspettare le prossime settimane: quando le uve saranno in cantina sapremo se l’integrità del prodotto – favorito come dicevamo dall’annata calda – potrà davvero fare la differenza in termini di qualità (un punto parziale della situazione l’abbiamo fatto tra la fine di luglio e l’inizio di agosto). 

Agricoltura, ristorazione, allevamento. Come siamo messi ad Amatrice un anno dopo?

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A un anno dal sisma l'attività che ruota intorno al cibo sta lentamente riprendendo vigore. Ecco come sta andando dopo 12 mesi dai terribili fatti del 2016

365 giorni fa, il sisma che ha distrutto il centro Italia. Amatrice, Accumuli, Arquata del Tronto e altri comuni dell’Italia Centrale che, nella notte del 24 agosto 2016, sono rimasti sotto le macerie. Un dramma umano pesantissimo, con oltre 200 vittime, e un danno inestimabile di edifici storici e attività commerciali. L'intera area in ginocchio, il tessuto sociale disintegrato, ma con la voglia di rialzarsi. Sono state moltissime le iniziative di sostegno e raccolta fondi messe in piedi per aiutare, non solo materialmente, le popolazioni della zona. #AMAtriciana, raccolta fondi nata da un'idea estemporanea di Paolo Campana è stata tra le prime e più visibili. Ma mese dopo mese, già all'indomani del sisma, in molti, tra volti noti e gente comune, hanno contribuito alla ricostruzione, o meglio alla ripresa, perché la città come la conoscevamo non c'è e forse non ci sarà mai più. Ci sarà altro, con i tempi che la burocrazia italiana dolorosamente esprime anche in casi come questi, ma quel che è partito subito è stato un costante slancio di solidarietà per le genti e la vita di Amatrice. E in questo molta parte l'ha fatta il settore ristorativo, con il coinvolgimento di nomi più o meno famosi, forse per via del simbolo che Amatrice rappresenta. Con l'immediato legame con il famoso primo piatto  diventato, immediatamente, emblema della tragedia e del suo superamento e che ora si vuole come patrimonio dell'Umanità. E insieme anche tutti gli ingredienti che lo rendono unico: pasta, pomodoro, e soprattutto guanciale e pecorino, tra i prodotti più noti e tipici di questa parte d'Italia. E che da subito sono stati individuati come possibile traino per l'economia, nonostante le difficoltà.

amatricicna

I danni per i produttori

I produttori furono duramente colpiti, come avevamo visto subito dopo il sisma: con moltissime strutture inagibili, dai caseifici alle stalle per il ricovero degli animali, per non parlare dello spopolamento di questa zona che aveva reso difficile reperire manodopera. Chi non contava i propri morti, doveva fare i conti con abitazioni distrutte o fortemente danneggiate e le difficoltà nei collegamenti stradali. Per molti la prima esigenza fu quella di trovare un tetto per sé o i propri dipendenti. Qualcuno, come racconta Alessia Nibi, ha preso una casa mobile e sistemata nel proprio stabilimento. L'avevamo sentita immediatamente dopo il terremoto, e raccontava di una situazione non estrema, seppur molto dura, ma le cose nel corso dei mesi e dei sismi che si sono succeduti, sono peggiorate e il caseificio il 18 gennaio di quest'anno è stato dichiarato inagibile. “Solo a fine luglio abbiamo ripreso l'attività, in un nuovo laboratorio pagato a nostre spese”. Una scelta dettata dall'urgenza di riprendere il lavoro, dopo 8 mesi di fermo, inconciliabile con i tempi della burocrazia regionale. Perché l'esigenza più immediata è tornare in attività, soprattutto dopo un anno come questo in cui al sisma sono seguiti gelo e siccità, a rendere complicate le cose per chi, come Casale Nibbi, produce anche frutta. “Il raccolto è andato perso” dice “al poco che è rimasto ci hanno pensato i cinghiali”. Mancano solo le cavallette, andrebbe da dire. Ma non è così. Perché le attività sono riprese, in un modo o nell'altro. E la situazione non può che migliorare anche se tra poco tornerà il freddo e il fondamentale apporto dato dalla folla di turisti che, comunque, anche quest'anno hanno ripopolato Amatrice, verrà a mancare.

 

Villaggio del food di amatrice

I ristoranti dell'area food

Una sferzata di energia positiva l'ha data il Villaggio del FoodAmate Amatrice, il progetto firmato dall'architetto Stefano Boeri, e realizzato grazie ai fondi raccolti dalla campagna Un aiuto subito, del Corriere della Sera e il Tg de La 7 riunisce un supermercato, caffè, pasticcerie e alcune insegne storiche di Amatrice che hanno trovato qui una nuova casa. Prime tra tutte quel ristorante Roma, un tempo anche hotel, divenuto simbolo suo malgrado della tragedia, poi ancora Da Giovannino e Da Patrizia. Come sta andando? Lo abbiamo chiesto ai ristoratori. Tra i primi a essere rientrati in attività, già dal 30 maggio con la gestione della mensa, Da Patrizia dal 29 luglio nel Villaggio del Food: “come inizio sta andando bene, ci sono tantissime persone, l'affluenza è alta. Bisogna vedere cosa accadrà dopo il periodo di ferie estive”. Rimarrete aperti sempre o solo durante il fine settimana?“Abbiamo aspettato un anno per riprendere l'attività, ora saremo aperti sempre, come facevamo prima”. Più recente invece la ripresa per Castagnetoe LaConca mentre ancora deve riaprire Daniele Bonanni di Ma-Trù, che porta in giro la sua amatriciana con un food truck. “Abbiamo riaperto da una settimana” dice Alfredo Perilli il figlio di Giuditta Rubei, la titolare del ristorante La Conca “per ora sta andando molto bene, sono tantissimi i clienti che ci hanno aspettato e ora sono tornati a trovarci. Siano pieni sia a pranzo che a cena fino a tutta la prossima settimana”. Certo, agosto è un mese particolare, e non è possibile tararsi sull'affluenza di questi giorni. “Speriamo che continui così, o che si riesca a lavorare bene almeno il fine settimana”. Anche perché i problemi da risolvere sono moltissimi, grandi e piccoli. Un esempio? Nella concitazione dei mesi passati non è stato rinnovato il dominio per il sito, già preso da altri, e oggi, chi vuole contattare il ristorante la Conca si trova in difficoltà: il nuovo sito è in costruzione e la linea fissa irraggiungibile: “abbiamo continuato a pagare la Telecom per non perdere il numero e appena collegano la linea saremo rintracciabili al vecchio numero” ma per ora no. Si lavora con i cellulari. Ma ancora molto c'è da fare: per tanti che lavorano bene e riescono a fare rete in modo da sostenersi a vicenda, c'è chi non trova riscontri, lo segnala Alessia Nibi, quando le chiediamo se c'è un circolo virtuoso tra produttori e ristoratori locali “no” risposte laconica. O almeno non ancora, speriamo noi.

 

 

Casale Nibbi | Amatrice (RI) | Loc. Casale Nibbi, 1 | tel. 328 4287300 | https://www.facebook.com/Azienda-Agricola-Bio-Casale-Nibbi-306282616066794/info?tab=overview

Ristorante Roma | Amatrice (RI) | Villa San Cipriano | Villaggio del Food | tel. 349 3119709

Da Patrizia | Amatrice (RI) | Villa San Cipriano | Villaggio del Food | tel. 346 3051912

Da Giovannino | Amatrice (RI) | Villa San Cipriano | Villaggio del Food | tel. 380 1926289

La conca | Amatrice (RI) | Villa San Cipriano | Villaggio del Food | tel. 334 7467615

Castagneto | Amatrice (RI) | Villa San Cipriano | Villaggio del Food | tel. 337 927811
 

a cura di Antonella De Santis

 

 

Cibo e ricette pronte che si conservano fuori frigo. Amazon ne inventa un'altra

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È inarrestabile il colosso di Jeff Bezos, fra nuovi progetti e idee innovative che confermano sempre di più il dominio indiscusso di Amazon nel settore dell’e-commerce. Forte della recente acquisizione di Whole Foods, il gigante stelle e strisce si prepara ora a lanciare una serie di prodotti pronti in grado di conservarsi a lungo senza l’utilizzo del frigorifero.

2017 all’insegna del food tech per Amazon



Di innovazione, food tech e imprenditorialità in campo alimentare per Amazon, ormai, è anche superfluo parlarne. Tanti i progetti del colosso statunitense previsti per il 2017 che, uno dopo l'altro, stanno finalmente prendendo vita. Come l'arrivo in Italia del Negozio di Alimentari, un supermercato virtuale già collaudato negli Stati Uniti, oppure il nuovo format di e-commerce che si propone come compromesso fra lo shopping online e quello tradizionale, AmazonFresh Pickup, ovvero dei chioschi dove i consumatori possono ritirare di persona i prodotti scelti sull'app dopo soli 15 minuti dall'ordine. E per ultimo, uno dei passi più grandi, destinato a riconfigurare gli equilibri aziendali, l’acquisizione della catena di supermercati Whole Foods. Scelte imprenditoriali marcate, intelligenti, alle volte azzardate, che delineano il profilo di un’azienda sui generis, che porta con sé un nuovo modo di concepire e interpretare il settore della ristorazione e del cibo.
 

I prodotti freschi
 

Un gigante in continuo fermento, in grado di sviluppare idee nuove e intraprendenti a distanza di pochi mesi. Sembra, infatti, che il colosso di Jeff Bezos abbia intenzione di percorrere la strada dei prodotti freschi, iniziando a consegnare una nuova linea di specialità in grado di conservarsi più a lungo (fino a un anno) senza l’utilizzo del frigorifero. Come? Attraverso la MATS (Microwave Assisted Thermal Sterilization), una tecnologia nuova in grado di preservare gli alimenti mediante l’impiego di acqua pressurizzata in fase di confezionamento. In questo modo, una volta scaldato al nel forno a microonde per alcuni minuti, il prodotto non presenta più batteri, e mantiene intatto il gusto di tutti gli ingredienti. Una tecnica sviluppata in principio per i militari statunitensi in missione, che hanno accolto con entusiasmo l’idea, e che ha creato un modello senza precedenti nel settore alimentare.


Gli obiettivi


A diffondere la notizia è stata Reuters, agenzia di stampa britannica con sede a Londra, che ha spiegato che Amazon sta valutando da tempo la possibilità di ampliare la propria gamma di prodotti, inserendo piatti pronti come lo stufato di manzo e la frittata di verdure, realizzati sfruttando la tecnologia MATS. Ricette semplici, pratiche, facili da stoccare e soprattutto da consegnare: i piatti, infatti, possono essere trasportati in aereo, treno, scooter o attraverso qualsiasi altro mezzo grazie al loro singolare metodo di conservazione. Niente più celle frigorifere, pullman refrigerati o simili: il servizio di delivery potrà presto assumere una forma diversa, implementando e migliorando sempre di più l’offerta già complessa di Amazon. Un’alternativa alla consegna a domicilio contemporanea, che consente non solo di ampliare le proposte, ma anche di allungare le distanze, senza doversi più preoccupare di possibili danneggiamenti al cibo durante il trasporto. Nessuna dichiarazione, per il momento, da Bezos o altri membri del team, ma siamo certi che un gigante come Amazon non perderà occasione per alzare ancora di più il livello della sua offerta.

Roma: Arcangelo Dandini riapre lo storico Passetto (oggi Caravaggio). Torna il gran ristorante borghese?

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Il famoso ristorante Passetto a Roma riapre con un nuovo nome (Caravaggio), una nuova proprietà e con un nuovo ambizioso progetto firmato dallo chef-simbolo della romanità. Riuscirà questo gruppo nell'intento di far rinascere le atmosfere del grande ristorante italiano borghese degli anni Cinquanta?

Parli di cucina romana e il primo nome che ti viene in mente è immancabilmente quello di Arcangelo Dandini. Chef, oste, cuoco, sommelier, ma anche studioso, intellettuale, influencer. Si tratta di uno dei pochi tra i cucinieri della Capitale a riuscire a mettere insieme tradizione e ricerca, approfondimento storico e innovazione, essenza complessa della città e stimoli pulviscolari provenienti della campagna circostante. 

 

Arcangelo Dandini

Dopo un'esperienza seminale a Milano negli Anni Ottanta (da Aimo e Nadia), Arcangelo - che era partito dalla natìa Rocca Priora dove la sua famiglia fa ristorazione schietta dal diciannovesimo secolo - torna a Roma a gestire dal 1997 l'Enoteca Costantini (in cucina un diciannovenne Gabriele Bonci) e poi apre l'Arcangelo con una formula di bistrot gourmand più che pionieristica nel remoto 2003, che sarà d'ispirazione a tutta una felicissima nidiata di insegne che nell'ultimo decennio hanno cambiato decisamente in meglio il volto gastronomico capitolino.

 

Dopo L'Arcangelo

Consolidato questo progetto, Dandini ha pensato di scalare ulteriormente ed edificare il suo piccolo impero gastronomico in città. Nel 2014 ha aperto Supplizio, scrigno di golosità formato street food a partire dagli indimenticabili supplì, subito diventata destinazione cult a pochi passi da Campo de' Fiori. Con sempre in mente l'idea di espandersi all'estero (Londra nella fattispecie), Arcangelo ha poi passato gli anni successivi a mettere a punto iniziative più sul lato della consulenza tradizionale, suo lo zampino nelle aperture di insegne come Caffè Propaganda (oggi rinato e subito premiato con le Tre Cocotte nella guida di Roma del Gambero Rosso), Centro e il meraviglioso e poco fortunato Colbert dentro Villa Medici.

 

"Ora però avevo voglia di cambiare ancora e di immaginare qualcosa di più stabile, più profondo e più duraturo". E allora ecco il nuovo grande progetto al quale lo chef, assieme alla fida spalla Maria Ferrini, sta lavorando silenziosamente da qualche mese. L'obbiettivo è semplice: proporre di nuovo, nel cuore di Roma, un ristorante borghese italiano classico, flashback agli anni Cinquanta e Sessanta, ravioli, fettuccine e carrello dei bolliti. Dove i romani, la politica, gli imprenditori e le famiglie bene (comunque si mangerà con 40 euro o anche meno) vadano a farsi servire e riverire, magari alla domenica a pranzo: altro che brunch... Il tutto supportato da un ambiente coerente disegnato dall'architetto Francesca Ferri all'interno di uno dei luoghi mitici della ristorazione romana: lo storico ristorante Il Passetto, subito fuori Piazza Navona. Ebbene sì, tavola storica nata addirittura nell'Ottocento, trasformatasi poi in desco turistico per eccellenza (con tutti i pregi ma soprattutto i difetti) fino ad andare a sbattere contro una storiaccia di conti gonfiati e di clienti giapponesi raggirati (http://centro.romatoday.it/centro/ristorante-il-passetto-truffa-turisti-giapponesi.html). Dopodiché, il nulla. E di fatto la fine di una storia centenaria.

caravaggio esternoL'esterno

Caravaggio e la “ristorazione borghese”

Qualche mese fa, però, i fratelli Marilena e Salvatore Barberi, da anni nel mondo della ristorazione e titolari di una scuola di cucina poco distante, rilevano il ristorante, smontano le vecchie imbarazzanti insegne del Passetto, issano quelle col nuovo nome, Caravaggio (di cui non mancano grandi opere nelle chiese circostanti) e ricominciano offrendo semplicità, serietà e rispetto ai turisti che ricominciano a sedersi.

 

Caravaggio internoLa sala

 

L'ambizione però è un'altra: portare di nuovo in questo locale i romani, la clientela italiana, non quella di passaggio. E appunto le famiglie. Proprio per questo viene contattato Arcangelo Dandini che si mette a lavoro e inizia a disegnare la nuova linea che sarà declinata su due output (la vineria\champagneria e il ristorante tradizionale) almeno fino a quando non si troverà il partner giusto per valorizzare il sottosuolo e aprire un cocktail bar notturno in stile speakeasy. E poi magari, sfruttando una apertura laterale proprio di fronte al museo di Palazzo Altemps, un bar per buoni caffè, cappuccini come si deve e lieviti, ché trovare un cornetto non decongelato attorno a Piazza Navona non è cosa agevolissima.

 

caravaggio il sottoIl sottosuolo

 

Tutto il resto Arcangelo Dandini, Salvatore Barberi e Maria Ferrini ce lo dettagliano nella video intervista direttamente dai tavolini all'aperto di Caravaggio. Per i primi test del nuovo progetto, però, appuntamento non prima di fine settembre.

 

 

Arcangelo Dandini da vent'anni a Roma ha fatto le tendenze e non ha mai seguito le mode, vediamo se ci riuscirà un'altra volta nel quadro di una sfida tutt'altro che facile: tra mille format Roma oggi si trova proprio sguarnita nella fascia del grande (qui parliamo di 300mq!) ristorantone borghese di una volta. Paludato, classico, rassicurante con un twist e solo un twist di contemporaneità.

 

Caravaggio | Roma | via Giuseppe Zanardelli, 14 | tel. 06 62286019 / 335282615 | www.ristorantecaravaggio.it

 

a cura di Massimiliano Tonelli

La pizza di Briscola sfida Pizza Hut. E ci investe Francesco Trapani, ex capo di Bulgari

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Nata sotto la stella di Foodation, startup italiana specializzata nella creazione di format gastronomici fast&casual, Briscola è la pizzeria milanese che ha “brevettato” la formula del pizza sharing. Ora l'ex Ceo di Bulgari è pronto a investire per esportare il marchio in Europa. Prima destinazione Londra. 

Foodation e il casual dining

Alla fine del 2015, quando Riccardo Cortese ci raccontava come nasce un format gastronomico di successo e perché la scommessa sul fast&casual dining potesse rivelarsi vincente anche in Italia, Foodation aveva già all'attivo diversi esperimenti (ben) riusciti: la pizzeria Briscola, in una Milano che presto si sarebbe candidata a diventare meta allettante pure per gli amanti della buona pizza, il kebab gastronomico di Mariù, una serie di variazioni sul tema burger gourmet, da Trita Tailor Made Burgers a Burbee (oggi anche a Roma), a Polpa Burger. Con Federico Pinna, come lui arrivato a Milano per perfezionare gli studi, entrambi con il pallino per marketing e comunicazione, Riccardo fondava la startup specializzata nella creazione di format gastronomici informali e orientati alla replicabilità tre anni prima, appena trentenne. Il segreto? Riprendere una formula nata in America e molto diffusa sul mercato anglosassone per adattarla al concetto di mangiare all'italiana, offrendo al cliente prodotti buoni, un ambiente gradevole e servizio efficiente seppur semplificato. Con l'idea di assestare l'attività su un livello di sostenibilità economica che ne consentisse la scalabilità. Magari con l'aiuto di partner importanti, invogliati a investire sull'originalità del format e sulla qualità del prodotto.

 

Briscola. La pizza buona e veloce che piace a Francesco Trapani

E la pizza di Briscola, che nel frattempo ha raddoppiato in città ed è arrivata anche a Firenze, potrebbe presto spiccare il volo proprio grazie all'interessamento di un nome che conta, anche lui italiano, e molto determinato a contrastare lo strapotere dei colossi Usa della pizza – Pizza Hut e Domino's, per citare i big del settore – con una catena made in Italy capace di tenere alta la bandiera di una tradizione tricolore sin troppo bistrattata all'estero. Francesco Trapani, nel mondo dell'alta finanza (e non solo), lo conoscono tutti: napoletano, laureato in economia e commercio, ex Ceo di Bulgari (figlio di Lia Bulgari), poi Ad per Lvmh della divisione orologi e gioielli, attualmente azionista di Tiffany e Tages Holding, da qualche settimana possiede anche il capitale di maggioranza (53%) di tutta Foodation, che ha acquistato tramite Argenta Holding per sancire il proprio ingresso nel mondo del casual dining. E della pizza in particolare. Se è vero che il progetto di consolidamento di Foodation passerà anche dalla razionalizzazione di tutti i brand in portafoglio, è proprio la crescita di Briscola – Pizza Society la scommessa che Trapani rivela di avere più a cuore. L'idea è quella di creare un marchio di riferimento per il mercato europeo, cominciando dall'Italia e da Milano con una serie di nuove aperture, prima di approdare a Londra nel 2018. E al contempo stimolando un upgrade del format, selezionando cioè spazi e locali più grandi, in posizione privilegiata, e incrementando l'offerta in menu.

Il pizza sharing alla conquista dell'Europa

Il progetto di sviluppo resta comunque affidato a Cortese e Pinna, e questo fa ben sperare che il percorso intrapreso sin qui non sarà sottoposto a eccessivi stravolgimenti, funzionali alla crescita del brand. E pure la napoletanità di Trapani, che ambisce a lanciare “il brand di riferimento della pizza napoletana in Europa”, dovrebbe scongiurare brutte sorprese. Finora, infatti, nonostante gli avvicendamenti al forno, la pizza di Briscola ha mantenuto una buona qualità, da farine di tipo 0 e integrale, lunghe lievitazioni, forno a gas e ingredienti selezionati, con quel guizzo in più del pizza sharing: dischi di 18 centimetri da ordinare in successione (o a coppia, per gli indecisi che non vogliono rinunciare ad assaggiare quanto più possibile) e condividere con il tavolo, per sperimentare più gusti e farciture, passando una serata spensierata in pizzeria. Da qui l'appellativo di “confraternita della pizza”, e una peculiarità che potrebbe rivelarsi la carta vincente per conquistare il pubblico europeo. Insieme alla fruibilità del servizio: ordini e paghi alla cassa prima di mangiare, il servizio è veloce, la pizza presentata in pratici vassoi d'alluminio. Insomma, il format è pronto per essere esportato. Piacerà? La piazza londinese - dove l'esperimento italiano di fratelli Aloe, con Radio Alice, sembra procedere per il meglio, visto il raddoppio nel giro di pochi mesi -  non è facile, saprà dire se c'è margine per continuare.

 

a cura di Livia Montagnoli

The Wanderer: a Londra il furgoncino che fa gin tonic on the road

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Non ci sono dubbi: il gin è il distillato del momento, amato da consumatori di ogni età e cultura e valorizzato ormai anche nelle produzioni locali (vogliamo parlare di quanti gin italiani stanno spuntando?). A Londra, nasce il furgoncino a noleggio dedicato interamente a uno dei cocktail più celebri di sempre, il gin and tonic.

Il successo del gin



Apprezzato dai regnanti d’Inghilterra fino all’Agente 007, il gin continua a raccogliere l’entusiasmo di intenditori e amanti del genere, e non solo: la passione per il bere miscelato e la moda global hanno fatto del gin uno spirit di assoluta tendenza in tutto il mondo. Non si ferma, infatti, il crescente successo del distillato che sta facendo sempre più parlare di sé in Italia e nel resto d’Europa, apprezzato nei cocktail ma anche in purezza. Degustazioni, locali a tema, eventi dedicati, produzione artigianale: nel panorama della mixology internazionale, il gin è ormai protagonista assoluto di tutte le novità, dalle nuove aperture ai festival. E ora, nel Regno Unito, arriva anche su ruote, in veste di furgoncino adibito a cocktail bar.



L’idea



Un bar ambulante da noleggiare per una festa fra amici o una cerimonia, un anniversario o semplicemente per trascorrere un sabato sera diverso dal solito. Accade a Londra, dove la New World Trading Company, impresa di ristorazione che conta diversi locali e gastropub noti nella capitale britannica, ha creato il primo furgoncino pensato per gli amanti del gin, dove uno staff di bartender si impegna a miscelare uno dei cocktail più apprezzati di sempre, il gin and tonic. The Wanderer (letteralmente, Il Vagabondo) dispone infatti di tutti gli strumenti necessari per realizzare dei drink d’autore: ghiaccio, shaker, bicchieri, e naturalmente le bevande. Un furgoncino/bar provvisto di barman che porta il gusto dei gin and tonic d’autore direttamente in casa propria, al prezzo minimo di 1500 sterline, più 500 sterline extra per il personale e gli strumenti necessari.



L’offerta



Siamo sommersi da richieste di cocktail per feste private, e il Wanderer è la soluzione perfetta per queste occasioni”, ha commentato Nick Whitby della New World Trading Company. “Il veicolo è stato adattato e rielaborato per ospitare un bar elegante e ricercato, in grado di offrire drink di livello in tutto il Paese”. Il furgoncino, infatti, nasce a Londra, ma può essere noleggiato in qualsiasi città del Regno Unito. Alla base del cocktail bar su ruote, ci sono il motore e la struttura della Citroen, mentre all’interno, una selezione ampia e variegata di gin di prima scelta ovviamente britannici, dal Plymouth al London Dry, oltre a una lista di vini dal respiro internazionale e birre artigianali.

a cura di Michela Becchi

I fornai campani s'inventano il pane a base d'acqua di mare. Ecco perché fa bene

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Farina, lievito madre e acqua di mare. Sono gli ingredienti alla base del nuovo pane del Vesuvio, un prodotto pensato per ridurre il consumo di sale e lo spreco di acqua. Tutti i dettagli e i benefici dell’acqua di mare in cucina.

Il prodotto


Una nuova ricetta che consente di risparmiare acqua potabile, offrendo un alimento valido anche per chi è obbligato a seguire una dieta povera di sodio: il pane prodotto con l’acqua di mare è l’ultimo, innovativo progetto nato dalla collaborazione dei panificatori associati all’Unipan con Termomar e il Consiglio Nazionale delle Ricerche, presentato la scorsa settimana nella sede regionale Unipan a San Sebastiano al Vesuvio, in provincia di Napoli. “L’idea è far sì che il pane diventi un prodotto campano da esportare nel resto d’Italia, una sorta di nuovo pane vesuviano che potrebbe diventare un brand nazionale”, ha spiegato il consigliere regionale dei Verdi della Campania Francesco Emilio Borrelli durante la presentazione. “Vogliamo ripartire da questo prodotto per rilanciare l’immagine del Vesuvio dopo gli incendi delle scorse settimane”.


L’acqua di mare per uso alimentare


Pensata come sostituto del sale comune, l’acqua di mare viene depurata microbiologicamente e resa pura per il consumo alimentare. A brevettare questo insolito ingrediente, l’azienda Steralmar di Bisceglie, da tempo impegnata in un intenso lavoro di ricerca per consentire l’impiego dell’acqua di mare in cucina. Decantazione, filtrazione, depurazione e sterilizzazione con raggi Uv: sono questi i processi a cui l’acqua di mare viene sottoposta ogni volta al fine di eliminare microrganismi ed elementi dannosi, e mantenere intatti sali minerali come magnesio, calcio, potassio, fluoro e iodio.


I benefici

 

Un progetto innovativo che giova alla salute e all’ambiente: “L’idea di preparare l’impasto del pane con l’acqua di mare va sostenuta perché, in questo modo, si riesce a ridurre l’uso dell’acqua potabile”, ha aggiunto Borrelli. Ma non finisce qui: “L’organizzazione mondiale della sanità ha più volte ricordato l’importanza di mangiare prodotti a basso contenuto di sodio”, e per questo l’acqua di mare trattata si propone come un valido sostituto del sale nelle diverse preparazioni. “È un prodotto che dovrebbe essere venduto nelle farmacie per le sue doti salutari, per gli ipertesi per esempio”, ha aggiunto Domenico Filosa, presidente campano dell’Unipan. “Inoltre, questa acqua garantisce l’utilizzo di solo 1,3% di sale per chilo di farina, come previsto dal Ministero, rispetto al 2,5% di cui si fa uso generalmente”. Il costo? 2 euro al chilo, pochi centesimi in più rispetto al prezzo medio di un qualsiasi altro pane. Attualmente, il prodotto è acquistabile solo nei panifici di San Sebastiano, ma sono già previste sinergie tra Regione e Ministero della salute per diffonderlo anche nelle altre città italiane.


a cura di Michela Becchi


Grandi chef celebrano l’annata record per il Sale di Cervia. Si festeggia dal 7 al 10 settembre

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Il 2016 si era chiuso in positivo, dopo due annate difficili. Ma quest’anno, complice l’estate caldissima e assolata, la produzione della salina più a nord d’Italia triplica, e fa registrare un record. C’è ancora qualche giorno per assistere alla cavadura dei salinari, poi, dal 7 al 10 settembre, festa grande con Sapore di Sale per le strade di Cervia. Con Uliassi e Parini. 

Il Parco della Salina di Cervia

Tra le vasche del Parco della Salina di Cervia il colore dell’oro è di quel bianco che brilla sotto il sole di agosto, quando nella salina più a nord d’Italia, estesa per 827 ettari, si ripete ogni anno il rito della cavadura. 50 bacini alimentati dalle acque del mare Adriatico, che entra dal canale di Milano Marittima e poi defluisce lentamente, grazie all’azione del vento e del sole, fino al punto di evaporazione ideale perché la raccolta del sale abbia inizio. Quando viene raccolto, bagnato e molto pesante, il Sale Dolce (perché privo di cloruri amari) di Cervia è rosa. La produzione è certo contenuta se confrontata con le grandi saline pugliesi e siciliane, e si concentra solo nel mese più caldo dell’anno, per le peculiari condizioni climatiche dell’area; eppure, nonostante il rischio concreto che l’attività cessasse perché antieconomica, la comunità di Cervia ha lottato perché la salina restasse in uso, preservando così quel sistema di valori paesaggistici e culturali che fa del parco del sale di Cervia un patrimonio da tutelare. Dal 1959 la raccolta, che resta artigianale, si avvale dell’ausilio di macchine, fatto salvo per la Salina Camillone, punta di diamante del circuito museale, raggiunto ogni anno da molti visitatori curiosi di assistere al rito della cavadura.

La cavadura 2017. Annata record

Sul versante economico, che conta non solo sull’indotto turistico, ma pure sulle vendite di un prodotto riconosciuto di alta qualità, le ultime due annate hanno riservato grandi sorprese, a confermare come il Sale di Cervia costituisca una grande risorsa per il territorio romagnolo. Se già nel 2016 il presidente del Parco parlava soddisfatto di una raccolta abbondante e di grande qualità (dopo il difficile biennio 2014-2015), la cavadura del 2017, che si avvia a conclusione in questi giorni, fa registrare cumuli di sale record, per una produzione tre volte maggiore rispetto all’anno scorso. A favorire la raccolta – che coinvolge circa 20 dipendenti, la metà stagionali – le alte temperature dell’estate 2017, che hanno consentito di aprire in anticipo i giochi: dal 7 agosto scorso, infatti, nei bacini del sale ferve l’attività, che si protrarrà fino ai primi giorni di settembre, in 12 delle 50 vasche del parco. Il prodotto sarà poi esportato per il 10% del totale, commercializzato in 74 Paesi, in confezioni da 300 grammi o un chilo, e tre varianti: grosso, medio fino e la “denominazione” Salina Camillone. Prima però sarà il momento di festeggiare (l’ottima) chiusura dell’annata, con la festa di piazza che si ripete da vent’anni.

Sapore di Sale. Con Uliassi e Parini

Dal 7 al 10 settembre Cervia si animerà per la 21esima edizione di Sapore di Sale, inaugurata dal tradizionale arrivo dal sale sulla “burchiella” trainata a spalla dai salinari, al suono della sirena. Il sale sarà protagonista indiscusso della manifestazione, distribuito al pubblico presente e poi al centro del dibattito e delle attività del festival. A cominciare dalle passeggiate patrimoniali alla scoperta della città, dedicate alla tradizione salinara e marinara di Cervia; nutrito anche il calendario dei convegni, con interventi dedicati alla rigenerazione urbana e al recupero architettonico di strutture storiche (si pensi al bel lavoro di ripristino delle Officine del Sale), alla salvaguardia del mare e del suo ecosistema, alla tutela del patrimonio culturale. Chiude domenica 10 il dibattito sulla Salina di Cervia, con proiezione del documentario diretto da Thomas Cicognani. E sempre domenica, alle 18, è atteso Mauro Uliassi, che ai magazzini del sale terrà la sua lezione di cucina sul tema. Tante pure le degustazioni guidate e gli assaggi: tra i prodotti di punta la mortadella Palmieri al sale di Cervia e il lampredotto di Luca Cai. E molte le occasioni di sperimentare a tavola menu dedicati, durante la serata conviviale sulla Terrazza Bartolini con Gregorio Grippo, e partecipando alle serate delle Officine del Sale: venerdì 8, ad affiancare lo chef Luca Brambilla arriva Pier Giorgio Parini. Ai visitatori scoprire il resto passeggiando per la città… I laboratori di piadina, gli aperitivi sul canale, lo street food di Mauro Uliassi, lo stand gastronomico del Circolo dei Pescatori.

 

Per prenotare una visita al parco www.atlantide.net/amaparco/centro-visite-salina-cervia/

Sapore di Sale | Cervia (RA) | dal 7 a 10 settembre | www.cerviasaporedisale.it

 

a cura di Livia Montagnoli

 

GPizza a Padova per scoprire la pizzeria fai da te: cliente e pizzaiolo collaborano

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Pochi minuti di attesa, niente menu e ingredienti scelti a piacere, tra dispenser, monitor e tapis roulant. E la pizzeria fai da te ideata dalla famiglia Gallon, alla periferia di Padova. Il pizzaiolo cura l’impasto, il cliente fa tutto il resto. E paga a peso. Ecco come funziona GPizza. 

In pizzeria come in catena di montaggio

Si potrebbe senza remore parlare di catena di montaggio, lodandone l’efficienza e la praticità, se non fosse che gli ingranaggi perfetti del sistema brevettato a Padova nascondono una pizzeria di ultima generazione. E allora qualche spiegazione in più è d’obbligo. GPizzasi chiama l’insegna inaugurata all’inizio di agosto al terzo piano con terrazza di un’ex concessionaria nella zona industriale di Padova. E l’esperimento è frutto dell’ingegno di una famiglia di imprenditori locali, i Gallon, che nell’ultimo anno hanno perfezionato il sistema con l’ausilio di un’azienda di Camposampiero, la Food Tech, specializzata in tecnologie per la pasta fresca. Nel caso specifico, però, la richiesta che Federico Gallon ha affidato agli ingegneri dello stabilimento padovano non aveva precedenti: realizzare il prototipo di un macchinario, brevettato già due anni fa per prevenire le imitazioni, che guida il cliente nella realizzazione di una pizza fai da te. In pochi minuti. Lo schizzo l’ha ideato Gallon in persona, stimolato dal racconto di un gelato fai da te provato da suo figlio in città; e di fatto non elimina né la figura del pizzaiolo, che dietro le quinte continua a occuparsi degli impasti, né i camerieri, che anzi sono indispensabili per spiegare il procedimento, e sparecchiare la tavola con solerzia quando il pasto è terminato, così che il ricambio sia rapido, e le attese contenute.

GPizza, l’idea

Lo spazio, in realtà, è piuttosto ampio, al pari di una tradizionale pizzeria pensata per macinare numeri: 110 coperti all’interno, e altrettanti sulla terrazza con vista su Padova (la GSky). Ambiente informale, arredato con semplicità, e occhi puntati sul meccanismo che mette alla prova il commensale, garantendogli di farcire la pizza a proprio piacimento. Ma come funziona, quindi, una serata da GPizza? Gli indizi fanno tutti pensare al più classico degli scenari da catena di montaggio: tapis roulant, getti automatici di pomodoro, monitor e dispenser. Ma, assicurano i Gallon, all’impasto lavora un vero pizzaiolo, che in laboratorio si avvantaggia con il lavoro per il giorno successivo: al cliente arriva così un disco precotto, pronto per il secondo passaggio in forno (elettrico), a farcitura ultimata. Un insieme di software e meccanica messo a punto in 7 mesi di lavoro, frutto di un ingente investimento, e poi passato per mesi tra le maglie della burocrazia. Dal 4 agosto però, il sogno (quanto meno bizzarro) di Federico Gallon è diventato realtà: il cliente si registra sul display, scegliendo il tipo di pizza che preferisce, con o senza pomodoro.

Pizza fai da te. Come funziona

Dopo qualche secondo la ritira poco più in là, pronto per arricchirla con gli ingredienti, 26 in tutto: indossati i guanti in lattice li distribuisce sul disco a piacere, poi un nastro trasportatore la porta in forno. Dopo tre minuti la pizza è pronta per la bilancia: il peso determina il prezzo, che quindi non tiene conto di qualità e tipologia degli ingredienti scelti. Si mangia direttamente nel cartone. In abbinamento birra artigianale padovana, e cocktail da sorseggiare in terrazza. E la pizzeria automatica è fatta. Con l’idea di scommettere sull’automatizzazione per favorire la replicabilità del progetto, e lanciare un franchising. Fuor di romanticismo – sebbene ci piaccia continuare a pensare alla pizza come a un prodotto che non può fare a meno dell’esperienza e della passione del pizzaiolo che la crea, intrinsecamente legata alla manualità dell'artigiano – sotto il profilo imprenditoriale l’idea potrebbe prendere piede, a patto di risolvere alcuni intoppi. Tra i primi clienti, infatti, qualcuno lamenta una cottura non sempre adeguata, che può penalizzare gli ingredienti e il risultato finale; altri, invece, apprezzano la digeribilità dell’impasto, ancora in fase di perfezionamento. L’originalità della proposta riuscirà ad avere la meglio?

 

GPizza | Padova | via Nona strada, 19 | tel. 049 7811343 | dalle 19 | www.gpizza.it

Niko Romito: 10 piatti per raccontare la mia cucina

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10 piatti mitici di Niko Romito raccontati da Niko Romito. Come e perché sono nati. In che modo si sono evoluti e quale è stato il percorso dalla prima idea alla realizzazione definitiva. Una biografia gastronomica per conoscere lo chef del Reale Casadonna, attraverso le sue parole e i suoi piatti.

Abbiamo chiesto a Niko Romito di presentarsi attraverso i suoi piatti. Gli abbiamo detto di sceglierne 10 e spiegarci quale è stata l'ispirazione iniziale e come, dalla prima idea, è giunto alla realizzazione definitiva, quali sono stati i passaggi necessari per giungere al risultato finale e in che modo si sono evoluti nel tempo. Si scopre una cucina molto elaborata, dall'altissimo coefficiente di complessità necessario per dare vita a piatti dall'apparente semplicità. Quasi austeri, completamente concentrati sulla materia prima e il sapore. Disarmanti per pulizia e rigore. E per quell'esplosione lunghissima di sapore. Gli abbiamo chiesto di raccontarci il percorso che lo porta a questi piatti. Ne è nato un diario per immagini e parole (e ovviamente gusto) dello chef del Reale di Castel d Sangro.

Misticanza alcolica e mandorla di Niko Romito. Foto by_BRAMBILLA_SERRANI_PHOTOGRAPHERS.jpg

Foto: Brambilla Serrani Photographers

1) Misticanza alcolica e mandorle

Ecco un piatto che rappresenta in tutto Casadonna: le erbe di campo selvatiche sono quelle che nascono e prolificano tutt’intorno, possono nascere qui e solo qui. È una portata vegetale d’apertura, e cambia durante tutto l’anno a seconda delle erbe diverse che crescono e compongono la misticanza: aprile, maggio e giugno sono i mesi di massima espressione della ricetta. Inoltre, questo piatto ha un suo percorso e una logica tutta legata a questo luogo: è realizzato e progettato con la collaborazione di Andrea Pieroni, professore di etno-botanica che insegna ai ragazzi nella nostra scuola di formazione e che porta gli allievi in giro per i boschi e i prati alla scoperta delle erbe spontanee. Lui ci ha fatto conoscere le incredibili varietà di misticanze che esistono e che si possono mangiare. Poi, come con la pancetta anche qui abbiamo usato il gin: il Monkey, molto vegetale, non copre affatto le erbe, ma ne esalta i sapori e i profumi.

Il lavoro sulle mandorle finisce il piatto: le utilizzo secche e vengono poi reidratate per 24 ore in acqua, quindi congelate e frullate al pacojet: ne risulta una pasta di mandorla densa che servo a una temperatura 6° circa. Ne modifico la struttura – che è molto densa – aggiungendo un filo di acqua: sotto la misticanza è perfetta, crea un equilibrio incredibile con i continui rimandi tra vegetale, amaro e dolce. In apertura di menu attiva la salivazione, ma non è una semplice insalata, è un piatto più completo e complesso.

 

Infuso speziato di funghi di Niko Romito. Foto _by_BRAMBILLA_SERRANI_PHOTOGRAPHERS.jpg

Foto: Brambilla Serrani Photographers

2) Infuso speziato di funghi

Fa parte di un lavoro sui funghi e sulla loro struttura. Di solito, i funghi – in qualsiasi modo siano cucinati – sono sempre abbastanza morbidi a meno che non li si mangi crudi. Così ho puntato a ottenere una consistenza decisa. Ho pensato di cuocere i funghi con molti aromi: timo, dragoncello, maggiorana, aglio, prezzemolo, rosmarino. Sono cotti a 65° sottovuoto per 20 minuti. Una volta cotti riposano per 15 giorni a 4°, sempre sottovuoto. In questo periodo tutti gli aromi vanno ad arricchire i funghi. Questa maturazione rende il fungo profumatissimo, la struttura rimane molto croccante e non si ossida, quindi mantiene il suo colore naturale: quando tagli a metà il cardoncello è bianchissimo, sembra appena colto. Poiché protagonista era il fungo, non volevo usare altre cose che ne distogliessero l’attenzione. Ho pensato così a un brodo, sempre ai cardoncelli: brodo vegetale classico, con i funghi in infusione, e andando molto in riduzione: su 2 litri ottengo 400-500 grammi di liquido finale. Poi lo condisco con gli odori che ho usato per i funghi in cottura, più zenzero, liquirizia e anice stellato: ecco perché risulta speziato e ricco di freschezza, molto italiano, ma anche molto esotico. Il dragoncello è una spezia molto usata nel Sud Italia. Sembra di mangiare una carne. Poi, con un pizzico di amido di riso do al brodo una consistenza leggermente più spessa e semilucida: questo aumenta la persistenza del brodo in bocca e si riduce il contrasto di strutture con il fungo. E senza un grammo di grasso.

 

Tortelli con pollo di Niko Romito. Foto by BRAMBILLA_SERRANI_PHOTOGRAPHERS.jpg

Foto: Brambilla Serrani Photographers

3) Tortelli con pollo

È un risultato del lavoro sulla pasta ripiena. Ed è un piatto che non ha salse: presentandosi in modoquasi straniante. I protagonisti, qui, sono due e devono avere la stessa dignità: la pasta e il ripieno. Premessa: io amo il pollo. E anche qui ho cominciato a lavorare su tanti fronti. È stato il pollo alla cacciatora che mi ha ispirato: con i capperi, le alici, l’aceto, il rosmarino... Una volta cotto, mi sono reso conto che avevo davanti due cose entrambe pazzesche: l’intingolo e la carne. Con la carne ho pensato di realizzare il ripieno. L’intingolo – filtrato e completamente pulito e sgrassato – poteva essere un elemento per rinforzare il gusto del ripieno. Io amo molto anche il sedano, che ritengo viaggi molto bene con il pollo: ho liofilizzato le coste e le ho ridotte in polvere, quasi uno zucchero a velo di sedano. Così mi sono concentrato sulla pasta: deve essere molto porosa e tenace e allo stesso tempo sottile, deve essere tesa in bocca, deve farsi sentire e non sciogliersi, deve avere una sua consistenza. Per portare i tortellini alla loro forma perfetta, li lasciati ad asciugare per almeno un’ora sotto le ventole. E sono pronti per la cottura, che non dura più di 30 secondi. Quindi, sono ripassati in padella con l’intingolo del pollo che viene assorbito completamente dalla pasta rinforzandone il sapore. Mi mancava un elemento fresco, di eleganza, ed ecco il sedano: spolverizzato sulla pasta appena ripassata, si scioglie e va a laccarne la superficie senza che risulti visibile. È un piatto molto forte, deciso, dove si uniscono dolcezza ed eleganza e dove sono i contrasti a comporre una armonia per palati addestrati: questo è un piatto duro, nonostante le apparenze. Ed è una portata senza quasi nessun grasso aggiunto: e non per motivi salutistici, ma perché il gusto si concentra e si fa più netto. Il che mi ha portato di conseguenza ad avere anche un piatto molto “semplice” e salutare.

 

Tortelli di mandorla in brodo di bosco di Niko Romito. Foto -By_BRAMBILLA_SERRANI_PHOTOGRAPHERS

Foto: Brambilla Serrani Photographers

4) Tortelli di mandorla in brodo di bosco

È un lavoro che nasce dagli esperimenti sulla mandorla e sulla frutta secca, a cavallo tra cucina e pasticceria. Qui parto dalla base mandorla che utilizzo anche per altre preparazioni come abbiamo visto per la misticanza. La base è una cosa tipica nella mia cucina: una preparazione in cui modifico la struttura dell’ingrediente senza però modificarne il gusto. Poiché la pasta di mandorle mi entusiasmava, volevo provare a inserirla in una pasta ripiena per darle un ruolo da protagonista: è molto grassa (ma si tratta di un grasso salutare e naturale), molto pastosa e leggermente dolce – ma con refrain amaricanti – e avvolgente. Insomma, è un prodotto di base molto complesso e di spessore.

La passione per i brodi ce l’ho da tanto, così ho cominciato a lavorare su un brodo che rispondesse e giocasse con le caratteristiche della base mandorla: dolcezza, riflessi amari, pienezza, terrosità (del resto la frutta secca è ottima con i funghi)… Nel brodo ho messo timo, maggiorana e cipolle, ma volevo renderlo ancora più complesso e così l’ho passato nel tè nero affumicato: un passaggio veloce, appena per far prendere al liquido il sapore dell’affumicato e basta, poi lo passo all’etamine. Il brodo cambia del tutto colore e acquista grande complessità con la nota fumée. Quindi, aggiungo in infusione i porcini secchi che aumentano il gusto del bosco, è perfetto con le mandorle: è piatto senza un grammo di grasso, ma ricchissimo, complesso e potente. Un piatto che può essere invernale, primaverile o autunnale.

 

Spigola, capperi, prezzemolo di Niko Romito. -By_BRAMBILLA_SERRANI_PHOTOGRAPHERS

Foto: Brambilla Serrani Photographers

5) Spigola, capperi, prezzemolo

Piatto italianissimo e decisamente mediterraneo. Io non ho mai usato, se non in pochissimi casi, il prezzemolo nella mia cucina. Mi sono chiesto il perché. E alla fine ho decisodi lavorare sulla foglia del prezzemolo fino ad arrivare a una salsa potentissima fatta semplicemente con prezzemolo, acqua, aglio e colatura di alici. Mi piaceva davvero molto, ma dove e come usarla? Così l’ho archiviata, in attesa di avere l’occasione giusta per tirarla fuori.

Da un annetto ho inserito più pesce in carta. E ovviamente volevo confrontarmi anche con la spigola. L’inverno scorso l’avevo già provata col tartufo bianco, ma volevo puntare a un piatto di cui la spigola fosse la protagonista assoluta. E come sempre inizio a lavorare su cotture e consistenze. Sono arrivato a cuocerla in due modi dopo averla condita con finocchietto selvatico e aglio: la prima cottura è di 3 minuti, il filetto intero va in forno a temperatura molto alta (220°) e subisce uno shock termico che la tosta all’esterno e ne fa comprimere le fibre portandola a sollevarsi, a gonfiarsi verso l’alto. La fibra del pesce si indurisce, anche se non si asciuga: si comprime e la consistenza della carne si fa più compatta. Ma non posso andare oltre i 3 minuti, altrimenti si asciugherebbe troppo. Così la tolgo dal forno, abbasso la temperatura a 55° (sempre in modalità statica) e reinserisco la spigola per altri 20 minuti: il pesce termina di cuocersi e rimane umido il giusto. Il pesce era buonissimo già assaggiato appena cotto. Ma volevo un piatto più complesso. Allora mi è tornata in mente la salsa al prezzemolo: la vedevo perfetta per la spigola. E ancora mi mancava una sapidità, che fosse originale e non solo sale. Ho pensato subito ai capperi: li ho disidratati e polverizzati e spolverizzati sulla spigola.

Pancetta e sedano rapa di Niko Romito. Foto by_BRAMBILLA_SERRANI_PHOTOGRAPHERS

Foto: Brambilla Serrani Photographers

6) Pancetta e sedano rapa

Tutto qui gira intorno alla pancetta. E anche dalla foto si capisce che è una carne che non ha tostatura, al contrario di come siamo abituati a vederla di solito: qui viene cotta in forno vapore a pressione. Innanzitutto, parto da una carne eccezionale: trattandola senza reazioni di Maillard e senza forzature, o la materia è perfetta e grande o è meglio rinunciare. Come per il “fondente di piccione”, non volevo crosticine, né tostature esterne. La grande fatica, anche mentale, è stata affrontare il grasso: la cottura a pressione controllata si è rivelata perfetta, il grasso (pulitissimo) mantiene una consistenza importante e non sporca il palato. La pancetta, prima di essere servita, passa poi attraverso un intingolo di gin, miele e limone: in bocca non si sente, ma serve a spostare in alto il sapore della carne. Sono gli ingredienti invisibili: non si sentono, non si vedono, ma trasportano al massimo il gusto. A me piaceva molto quel piatto, ma dovevo finirlo con un elemento altro. E volevo lavorare su un’altra forma a cubo.

Stavo già lavorando anche sul prezzemolo e sui vegetali, così il pensiero è andato subito al sedano rapa: ha quasi la stessa consistenza della pancetta e la forma nel piatto è simile, ma non si uniscono, marciano insieme ed esprimono bene – armonicamente – le loro differenze e particolarità. La rapa è cotta in pentola a pressione con vino, aceto bianco e acqua, riposa due-tre giorni e poi viene sezionata. Per quanto riguarda forma e consistenza, è un altro approdo del mio lavoro precedente sulla melanzana e sulla lingua.

 

Verza e patate di Niko Romito Foto by_BRAMBILLA_SERRANI_PHOTOGRAPHERS.jpg

Foto: Brambilla Serrani Photographers

7) Verza e patate

È l’ultimo nato nel reparto dei vegetali, è uno degli approdi del lavoro fatto sugli altri piatti storici, dal carciofo alla melanzana. Mi piace trattare ingredienti comuni e riconoscibili: patata e verza sono materie identitarie, molto territoriali e molto abruzzesi. Ho voluto pensare alla verza come a una protagonista, con una forma e una dignità del tutto diverse da come siamo abituati a conoscerla. Lavorando su questa brassicacea – scomponendola, cuocendola e ri-cuocendola – sono arrivato a dei risultati: passandola al vapore iniziavo ad avere una struttura e un morso croccante che però non era crudo. L’idea era di non sfogliarla, ma tagliarla a fette come fosse una torta. In quel periodo ero a Seoul e lì il kimchi è una sorta di piatto nazionale, è un cavolo fermentato che mi ha incuriosito molto per il suo gusto, più complesso e profondo di quanto siamo abituati noi rispetto al cavolo: così do inizio a una serie di prove di fermentazione. Mi sono accorto che più maturava la verza e più acquistava in complessità: acidità, dolcezza e freschezza… più avanzava la fermentazione e più diventava interessante. Poi, con le parti esterne della pianta ho fatto una crema: crema di verza su verza al vapore, sempre per stratificazioni. Mi serviva eleganza: ho provato con varie spezie, ma mi sono fermato sull’anice che giocava molto bene con l’ortaggio. Quindi ho realizzato un distillato di anice stellato in alcool e l’ho usato per fare un’emulsione di verza. Ancora, cercavo cremosità, così ho fatto una salsa con un leggerissimo purè di patate, acqua e olio.

Quando porto questo piatto in tavola, sembra quasi un arrosto di vitello. È una forma nuova per un vegetale che è sempre stato cucinato troppo e affogato in minestre stracotte. Del resto, è un piatto fortemente di territorio e si lega coerentemente al mio lavoro, e per di più esce fuori dai canoni del già visto su questo ingrediente. Oggi, la maturazione della verza cotta a vapore va avanti per oltre 40 giorni di fermentazione. E sempre più spesso la propongo come secondo piatto.

 

Lenticchie nocciole aglio e tartufo di Niko Romito

8) Lenticchie, nocciole, aglio e tartufo bianco

Volevo fare un piatto con le lenticchie, legume classico e sempre meno utilizzato che io adoro e che rappresentano le basi della nostra produzione territoriale. Qui ce ne sono oggi di poca rilevanza quantitativa, ma di grandissima qualità, come quelle di Santo Stefano di Sessanio. Le lenticchie vengono cotte a vapore per 40 minuti a 95°: la struttura esterna rimane inalterata, ma all’interno la polpa si fa cremosa, i semi rimangono integri e tutti uguali. Ma come potevo utilizzarle?

Ho iniziato le prove con le cose più strane. In quei giorni stavamo studiando le nocciole in pasticceria e le ho volute provare con le lenticchie: giocavano benissimo insieme. Così ho cominciato a lavorare sulle strutture: prima con una mousse di nocciole alla base e sopra lenticchie, però mancava umidità. Così ho pensato a una gelatina fatta con l’acqua recuperata dalla cottura a vapore del lenticchie, ma era troppo scarica. Ci ho aggiunto polvere di funghi di bosco – che con le nocciole stanno benissimo – e timo, rosmarino, aglio, maggiorana e peperoncino: e la gelatina era molto forte. Come montare il piatto? Ho deciso di preparare tutto direttamente nella fondina: prima la gelatina, poi ci monto la mousse di nocciole e quindi le lenticchie (asciutte) bagnate nell’acqua di cottura delle lenticchie stesse che ridà umidità. Il risultato è straniante. Gelatina sotto, sopra mousse di nocciole e acqua, sopra lenticchie e sopra non poteva mancare il tartufo. La finitura è con olio all’aglio rosso di Sulmona, che dà una verve di carattere al tutto.

 

Liquirizia, aceto e cioccolato bianco di Niko Romito Foto by_Roberto_Sammartini_per_Grandecucina.jpgFoto Roberto Sammartini per Grandecucina

9) Liquirizia aceto e cioccolato bianco

È un dolce che, dopo Essenza del 2009, prosegue nell’approfondimento della mia idea di dessert da ristorante. Come punto di partenza, non volevo creare una frattura netta tra salato e dolce, tra il pranzo (il menu degustazione o la serie di portate salate) e il dessert. L’uso dell’aceto bianco, molto aggressivo e in qualche modo anestetizzante per il palato, fa in modo che poi tutti gli altri assaggi si rivelinno in modo graduale, poco a poco; l’unico dolce che c’è nel piatto – il cioccolato bianco – dà a quel punto una sensazione dolce esasperata: sembra di mangiare un vero dessert di pasticceria, mentre c’è pochissimo zucchero. Dopo un menu degustazione importante e complesso, un dolce così stimola la mente, fa sorridere e sorprende nella sua progressione, diverte, ma continua allo stesso tempo il percorso del salato e va verso il dolce senza appesantire ulteriormente.

Questo è un dolce espresso, costruito direttamente al momento sul piatto. La granita di aceto e liquirizia – che è più cremosa rispetto a una granita classica – viene lavorata con amido di riso che permette una maggiore cremosità e una maggiore persistenza in bocca rispetto alla preparazione classica solo a base di acqua. Il congelato viene poi grattato a mo’ di grattachecca, ma mantiene una struttura più persistente. È un piatto millimetrico, giocato sull’equilibrio dei sapori, delle acidità e delle strutture affinché tutti gli aromi e le texturegiochino bene. Temperature e dosaggi sono studiati ad hoc per dare quelle sensazioni.

 

piccola pasticceria d Niko Romito Foto BRAMBILLA_SERRANI_PHOTOGRAPHERS.jpgFoto: Brambilla Serrani Photographers

10) Piccola pasticceria

Infuso di limone, pesca, cialda integrale di frolla con nocciole, cialda di caffè e cioccolato bianco, pane e fichi

Prosegue la linea di approfondimento del dolce secondo me: una chiusura fresca e divertente del pranzo, ma anche molto leggera. Quello sul limone è stato un bel lavoro: l’infuso è ottenuto lavorando tutto a freddo. Utilizziamo limoni interi che buchiamo e mettiamo sottovuoto in acqua fredda (1 kg di limoni e 1 litro e ½ di acqua). Facciamo contaminare l’acqua dal limone: teniamo il tutto sottovuoto per 30 giorni a 4°. L’acqua acquista tutti gli elementi aromatici del limone. Si potrebbe pensare a un succo acido, mentre è un infuso molto molto complesso. Si percepisce sì l’acidità, ma soprattutto l’amaro della buccia e l’amaro del bianco del limone, tono su tono… Anche qui una sorta di stratificazione. Avevo provato a lavorare a caldo il limone, ma i risultati del freddo ci hanno stupito. Credo che sia una nuova frontiera: lo stesso lavoro si può fare su altri ingredienti, per esempio le cime di rapa. Non si ossida nulla, non si perdono sostanze nutritive, non si modificano i nutrienti. E così il limone, a fine pasto, così, può davvero svolgere tutte le sue funzioni positive: contrasta l’acidità e agevola la digestione.

La pesca: frutta in chiusura. Viene messa intera e sbucciata per 24 ore in acqua e sale (1 litro acqua e 50 g di sale). Poi viene tagliata a fette e prima di essere servita la singola porzione viene “schiacciata” sottovuoto. Lavorando con la bassa pressione, la struttura diventa molto vitrea, croccante e traslucida. E il gusto di dolcezza e freschezza si unisce allo spunto sapido del sale che rende la portata divertente, interessante e del tutto sana e naturale.

Cialda integrale di frolla con pasta di nocciola: si parte dalla base nocciola (la stessa usata per le lenticchie) con una consistenza cremosa che si modula aggiungendo o togliendo acqua. Anche qui non c’è nessun grasso aggiunto, se non un filo di olio extravergine per la frolla.

Cialde di caffè con cioccolato bianco tostato: il cioccolato viene passato in forno a 180° per 30 minuti, a pezzi, ed esce tostato con delle belle note di caramello. Si frulla con acqua e gelatina naturale fino ad avere una consistenza un po’ più densa della crema pasticcera. E con questa si farcisce un piccolo millefoglie di cialda di caffè: il tutto si condisce con pochissimo pepe di Sarawak al mulinello, molto aromatico e balsamico: dà belle sensazioni in bocca, è un bottone di meno di un centimetro di diametro che ti riempie la bocca con un’esplosione di sapori.

Pane e fichi: una preparazione semplicissima. Si sgretolano i fichi freschi con le mani e si uniscono a un po’ di Sambuca, quindi si lasciano maturare per un giorno. Si servono su un crostino di pan brioche e si condisce con polvere di cannella e anice stellato.

Sono tutti elementi che si usano normalmente alla fine del pasto. Anche il galateo prevede che la frutta segua il dolce, per la sua funzione di chiudere e rinfrescare senza appesantire e aiutare nella digestione.

 

Reale | loc. Casadonna | piana Santa Liberata snc | Castel di Sangro (AQ) | tel. 0864 69382 | www.ristorantereale.it

 

a cura di Stefano Polacchi

foto di copertina: Alberto Zanetti

 

Articolo uscito sul mensile di Marzo 2017 del Gambero Rosso. Per abbonarti clicca qui

 

Tutto quello che è necessario sapere sulla farina e sul grano spiegato bene

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Frolle, pane, dolci lievitati, pizza, pasta fresca: esiste davvero la farina perfetta per ogni preparazione? Rispondono gli esperti durante Gourmet Food Festival, a Torino Lingotto Fiere dal 17 al 19 novembre 2017. Nel frattempo ecco le diverse classificazioni, dalla farina 00 all'integrale, dalla farina forte alla debole.

Le farine in cucina sono tra gli ingredienti più utilizzati in cucina, eppure il livello di conoscenza delle stesse è decisamente basso. Durante Gourmet Food Festival (Torino Lingotto Fiere, il 18 novembre 2017), cercheremo di fare chiarezza insieme agli esperti e addetti del settore. Ecco qualche anticipazione dell'incontro Le farine, è questione di grani.

Le farine: grano tenero e grano duro (o semola)

La farina è il prodotto della macinazione dei cereali o di altri vegetali. Il termine deriva dal latino far, farro, un cereale affine al frumento molto diffuso nell’Italia dell’epoca preromana e romana. Oggi il cereale più coltivato in Italia e uno dei più diffusi nel mondo è il frumento o grano. Le due varietà principali sono il Triticum vulgare o aestivum (grano tenero coltivata in Italia settentrionale) e il Triticum turgidum durum (grano duro o semola coltivato nelle regioni centromeridionali). Il grano tenero è caratterizzato da un granello a frattura farinosa che, dopo la macinazione, restituisce farine dai granuli sottili e tondeggianti, più adatti per la panificazione, dalla pasticceria alla pizza, al pane. Il grano duro ha un tipo di frattura vitrea che si ritrova nella consistenza spigolosa dei grossi granuli delle semole, perfette per la produzione della pasta secca o, se impiegate in percentuali minori (mescolate con quella di grano tenero), negli impasti da pane. Noi parleremo principalmente del primo, affrontando in primis la composizione del chicco.

Il chicco di grano: guscio, endosperma e germe

Il chicco di grano o cariosside è formato da tre zone distinte: guscio, endosperma e germe. La parte periferica, il guscio, rappresenta circa il 12-18% ed è ricca di fibre, sali minerali e vitamine; la zona centrale, l'endosperma, ricca di amido, costituisce l'80-85% del chicco; infine, nella parte apicale c’è il prezioso germe che è l'organo riproduttivo del grano oltre che la parte più ricca di proteine. Le proporzioni in cui sono presenti amidi, proteine solubili, proteine insolubili, grassi e sali minerali determinano la qualità della farina, mentre i numeri accanto al nome (0, 00, 1, 2, integrale) corrispondono al suo grado di raffinazione. Ma vediamo con ordine tutti i processi che portano al prodotto finale.

La trebbiatura

I processi di trasformazione e molitura

Il processo di trasformazione del grano in farina inizia con la mietitura (taglio della pianta) quando a giugno il chicco è pronto per essere raccolto. Contestualmente si effettua la trebbiatura per separare i chicchi dalla paglia e dalla pula. Operazioni svolte in genere contemporaneamente con la mietitrebbia. Il processo di macinazione vero e proprio inizia con una bagnatura (condizionamento) che aumenta l’umidità del chicco; per un minimo di 24 fino a un massimo di 48 ore, in relazione alla forza del grano raccolto. Successivamente i cereali vengono convogliati verso il mulino, che inizia a spogliare il chicco della parte esterna. O tramite un sistema di coppie di cilindri metallici che ruotano in senso opposto l'uno all'altro (mulino a cilindri). Oppure tramite la molitura a pietra, in cui il chicco viene sfarinato con il passaggio attraverso una coppia di pietre naturali che girano lentamente così da non surriscaldare il prodotto e ottenere farine di notevole pregio, non impoverite di vitamine e proteine.

Il processo di raffinazione (abburattamento) e le diverse tipologie di farine

Successivamente alla macinazione si procede con la raffinazione, cioè l’allontanamento della crusca dalla farina: l’operazione si chiama abburattamento. In relazione al grado di abburattamento, cioè alla percentuale di residuo di minerali e crusca presenti nel chicco macinato, le farine di grano tenero sono classificate per legge (decreto n.187 del 9 febbraio 2001) in 5 tipologie in base. C'è la farina 00, il fior di farina, bianchissima e priva di crusca con un abburattamento del 50%, la farina 0 che ha un abburattamento del 72%, la semintegrale di tipo 1 dell’80%, la semintegrale di tipo 2 dell’85%. Infine la farina integrale che è sottoposta soltanto a una prima fase di macinazione e ha un tasso di abburattamento del 100%, quindi contiene integralmente la cariosside macinata. È la farina più ricca di fibre in assoluto, ma anche la più pericolosa in quanto sulla parte esterna della cariosside possono trovarsi residui di trattamenti antiparassitari che passerebbero integralmente nella farina. Per questo, soprattutto quando si sceglie una farina integrale, è importante che sia un prodotto biologico o coltivato con metodi naturali. Tra l'altro la legge non fa distinzione tra farina realmente integrale e quella raffinata con aggiunta di crusca (quindi senza germe di grano, la parte più preziosa del chicco), ma si può benissimo sopperire al problema privilegiando le farine integrali ottenute con mulino a pietra, ovvero farine che non vengono bruciate e in cui gli oligoelementi del germe sono assorbiti, mantenendo le proprietà nutritive, il gusto e il patrimonio aromatico.

La forza della farina (W), la tenacità (P) e l'estendibilità (L)

Le farine si distinguono anche per la loro forza. La forza della farina (indicata con la lettera W) è la sua capacità di assorbire i liquidi durante l’impasto e trattenere l’anidride carbonica durante la lievitazione. Il valore della forza si definisce in laboratorio tramite uno strumento chiamato “alveografo di Chopin”, ed è definito come la resistenza alla pressione della farina impastata. Con lo stesso strumento si determinano altri due indici importanti: P, che misura la tenacità, cioè la resistenza della farina impastata allo stiramento; e L che misura l’estensibilità dell’impasto prima della rottura. Molto spesso però sono tre valori indicati quasi esclusivamente sui sacchi destinati ai professionisti del settore.

Il glutine

Tornando alla forza, il suo valore dipende dal contenuto di proteine, in particolar modo da quello delle gliadina e glutenina che, insieme, compongono il glutine. Spieghiamo meglio: nella fase dell’impasto il glutine forma una sorta di reticolo (maglia glutinica), il cui compito è mantenere all’interno della massa gli amidi e i gas: da qui le bolle di lievitazione e la struttura spugnosa di un pane ben lievitato. Una maglia glutinica tenace, tipica di una farina classificata come forte (con un indice W tra i 250 e i 350), assicura agli impasti una maggiore resistenza alla lavorazione e alla lievitazione. La farina manitoba è una campionessa del culturismo cerealicolo perché ricca di proteine e glutine, con W che arriva a sfiorare 480. Al contrario, una struttura glutinica meno serrata, tipica di una farina debole (con un indice W tra i 90 a i180), permette all’amido di liberarsi più facilmente. Dal glutine dipende dunque la struttura di pani e pizze.

Patrick Ricci. Ph Luca AppiottiFoto di Luca Appiotti

Le farine adatte per la pizza

L'universo farine è variegato, ma basta sapere le differenze per avere dei risultati soddisfacenti in termini di pane, focacce, torte, biscotti. Venendo alla pizza, il dibattito potrebbe protrarsi all'infinito. La farina più impiegata è sicuramente la 00 di grano tenero, anche se sempre più spesso ci imbattiamo in pizzaioli che sperimentano con prodotti diversi, dalle farine integrali macinate a pietra a quelle speciali, come farro o kamut. Uno di questi è Patrick Ricci, della pizzeria Pomodoro & Basilico a San Mauro Torinese. “Oggi impiego farine che acquisto direttamente dai contadini e che faccio molire appositamente per la mia pizzeria. Tutto nasce dalla ricerca dei grani autoctoni, dai siciliani Valbona e Maiorca al grano Saraggolla, dal campano Romanella al grano Bologna, dal Soisson al grano Del Miracolo. Perché un pizzaiolo che non conosce le varie tipologie è come uno scrittore che ignora l'alfabeto”. Una volta selezionati, li studia, li mixa e li lavora come si deve, “affinché mi diano l'impasto che mi sono prefissato. Quindi, se il grano è debole, come per esempio il Bologna, lo mescolo a un grano più forte e gli do un'ulteriore spinta con la lavorazione, attraverso delle pieghe di rinforzo, e con la cottura”. Ovviamente per far ciò bisogna conoscere le materie prime di partenza e le regole della panificazione, senza lasciare nulla al caso o senza sopperire alle mode. “Se invece dovessi fare la pizza a casa, sicuramente userei una farina integrale e debole”. Perché? Vi aspettiamo a Gourmet Food Festival.

 

Pomodoro & Basilico | San Mauro Torinese (TO) | via Martiri della Libertà, 103 | tel. 011 8973883 | www.pomodoroebasilico.org

 

Gourmet Food Festival | Torino | Lingotto Fiere, via Nizza, 294 | dal 17 al 19 novembre 2017, venerdì dalle 17 alle 23, sabato dalle 10 alle 23, domenica dalle 10 alle 20 | www.gourmetfoodfestival.it

 

Questo articolo è tratto dal volume Pane & pizza della collana Le Guide Pratiche del Gambero Rosso.

 

a cura di Annalisa Zordan

 

Gourmet Food Festival 2017

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Anthony Bourdain contro lo spreco alimentare. Il trailer di Wasted! con Bottura

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Dal 13 ottobre, disponibile su iTunes e nelle sale, il docufilm prodotto da Anthony Bourdain racconta la storia dello spreco alimentare, con il contributo degli chef più impegnati sul fronte della cucina sostenibile: Dan Barber, Danny Bowien, Mario Batali, Massimo Bottura. 

Bourdain contro lo spreco

Usare tutto, sprecare niente. È il mantra del documentario che alla metà di ottobre uscirà in contemporanea in molti Paesi del mondo. Ed è pure il monito che Anthony Bourdain ripete guardando dritto in camera, memore “della prima vera regola della cucina classica francese”. Da questo assunto prende le mosse Wasted!, docufilm che il food writer, cuoco e viaggatore gourmet americano - capostipite di una generazione di divulgatori enogastronomici, che oggi impazzano sul piccolo schermo – ha prodotto insieme alle fidate Anna Chai Nari Kye, entrambe premiate in passato per The Mind of a chef, la seconda già all’opera con Bourdain per la serie cult Parts Unknown. “Non sono un attivista” raccontava tempo fa a Hollywood Reporter Anthony Bourdain “ma il problema dello spreco alimentare mi ha accompagnato sin dai miei inizi in cucina”. E l’urgenza di prendere posizione contro un’abitudine diffusa che solo negli Stati Uniti destina il 40% del cibo prodotto e commercializzato alla spazzatura, ha preso corpo in oltre 15 anni passati a girare il mondo, davanti all’evidenza che tante persone, comunità, Paesi difficilmente riescono a fronteggiare la fame.

La lotta allo spreco. L’emergenza alimentare

I numeri dell’emergenza sono quelli che oggi molti canali di informazione e onlus impegnati contro lo spreco alimentare diffondono con l’auspicio di sensibilizzare l’opinione pubblica e le istituzioni: ogni anno l’80% dell’acqua disponibile sul Pianeta, il 40% delle terre abitate e il 10% dell’energia prodotta a livello globale sono impiegate per alimentare la produzione di cibo. Il cibo che sprechiamo, invece, ammonta a 1,3 miliardi di tonnellate: circa un terzo della produzione totale (con picchi evidenti negli USA, che si aggiudicano una medaglia poco lusinghiera). Tra le associazioni attivamente impegnate nella lotta allo spreco, la Rockefeller Foundation è un’istituzione: nel 2016 la fondazione americana ha stanziato 130 milioni di dollari per incoraggiare il dimezzamento dello spreco sul suolo statunitense entro il 2030 (parte dell’investimento servirà a finanziare la diffusione negli States del refettorio di Massimo Bottura; per chi ancora non si fosse fatto un’idea della portata del progetto, semplice quanto rivoluzionario, c’è il docufilm The Theater of life, ora disponibile anche su Netflix). E per il documentario voluto da Bourdain non si è tirata indietro, supportando economicamente la Zero Point Zero nella produzione.

Wasted! Temi e protagonisti

The Story of Food Waste, presentato in anteprima mondiale al Tribeca Film Festival all’inizio del 2017, è una pellicola girata tra associazioni impegnate nella sensibilizzazione, supermercati votati al consumismo, scuole, orti urbani, ristoranti e cucine degli chef hanno sposato la causa consapevoli di poter portare un contributo importante. In termini di visibilità, facendosi testimonial della campagna antispreco e promotori di progetti solidali, e materialmente puntando sulla sostenibilità della propria attività. Alcuni di loro, Bourdain ha voluto coinvolgerli nel film. E così, in 85 minuti di narrazione, il film dà voce a Dan Barber Mario Batali, Danny Bowien Massimo Bottura, che nel trailer diffuso solo qualche giorno fa ricorda: “Non abbiamo bisogno di produrre di più, ma di agire in modo differente”. A proposito dello chef modenese, Bourdain ha le idee chiare: “L’esempio di Massimo Bottura è particolarmente efficace. Non solo riutilizza gli scarti per sfamare chi ne ha bisogno, ma si impegna per restituirgli rispetto e dignità, presentando il cibo nel migliore dei modi possibili, in uno spazio votato alla bellezza e all’umanità”. C’è anche questo in Wasted!, e l’auspicio di Bourdain non può che essere condiviso: “Se dopo averlo visto anche solo qualche persona comincerà a ripensare cosa porta in tavola per cena o ci penserà due volte prima di gettare il cibo nella spazzatura, allora sarà un buon giorno”. Dal 13 ottobre il film sarà disponibile su iTunes, in contemporanea all’uscita in sala. 

 

a cura di Livia Montagnoli

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