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Gourmet Food Festival 2017. Il pesce: conoscerlo e saperlo cucinare

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La sostenibilità non è solo un obbligo dei pescatori, che devono sottostare alla legge 154/2016 che regolamenta la pesca in Italia, ma anche dei consumatori: sia privati che ristoratori o chef. Gianfranco Pascucci, ne ha fatto uno stile di cucina.

Saper individuare le diverse specie di pesce d'acqua salata, dolce o salmastra. Conoscerne le stagioni e le caratteristiche, per poi valorizzarne la carne con differenti tipi di preparazioni. Saranno queste le tematiche dell'appuntamento “La lista della spesa. Il pesce, ci vuole occhio”, durante Gourmet Food Festival (Torino Lingotto Fiere, il 18 novembre 2017), che vede come protagonista Gianfranco Pascucci, chef di una delle migliori tavole di pesce d'Italia ed entrato da poco a far parte della compagine dei volti di Gambero Rosso Channel con il programma Com'è profondo il mare. Prima di conoscere il pesce, bisogna però far chiarezza sulle dinamiche di pesca, e sulla legislazione che la regolamenta. Abbiamo approfondito il tema con la Professoressa Daniela Mainenti, docente di diritto processuale penale presso la Facoltà di Giurisprudenza della Università Link Campus di Palermo e Catania e Direttore del Centro di ricerca sulla Comparazione giuridica Research Unit One, che spesso dimostra come gli Stati Membri dell'Unione Europea marcino a velocità diverse per quanto riguarda le legislazione. Ne è emerso un quadro sconcertante.

La legge che regolamenta la pesca, in Europa e in Italia

La legge di riferimento è la numero 154/2016 (Art. 39), entrata in vigore lo scorso 25 agosto. Legge che ha suscitato l'ira dell'intero comparto in quanto recepisce il regolamento (CE) n.1224/2009 con delle sanzioni che ammontano anche a 150.000 € se si pescano specie ittiche di taglia inferiore alla taglia minima di riferimento per la conservazione. Avete letto bene: 150.000. Una legge che purtroppo, così com'è, penalizza i pescatori italiani rispetto ai colleghi europei, come ci spiega la Professoressa Daniela Mainenti. Ma andiamo con ordine.“Questa legge è un punto di arrivo di un percorso che dura da quasi vent'anni: il legislatore europeo ha compreso, sulla base di rapporti scientifici e segnalazioni da parte di associazioni ambientaliste, che c'era una flessione della risorsa ittica nei mari europei”. Lo sfruttamento derivante da pesca industriale e l'aumento della temperatura hanno infatti causato un progressivo impoverimento dell'ambiente marino, provocando in alcune specie il rischio estinzione, pensiamo al caso del tonno rosso del Mediterraneo, particolarmente richiesto nel mercato orientale.

Dato il quadro allarmante “si è cercato di ricorrere ai ripari attraverso una politica comune, che mirasse a regolamentare la pesca rendendola più sostenibile, da qui nascono il regolamento (CE) n. 1005/2008 e il n. 1224/2009 che ha istituito un regime di controllo comunitario per garantire il rispetto delle norme della politica comune della pesca. Ovviamente a ciascuno Stato membro è stato chiesto di recepire il regolamento, introducendo un sistema a punti applicabile alle violazioni gravi per le licenze relative a determinati pescherecci. Ma la risposta degli Stati non è stata univoca: “Le norme di questo regolamento rientrano nel campo del penale, dato che si parla di pesca illegale, e sul tema penale ciascuno stato mantiene la propria sovranità”. Come? “Declinando la normazione secondo la propria sensibilità e secondo il proprio codice penale”. Cosa che in Italia non è avvenuta, per una serie di concause.

La pesca delle alici di Menaica

I pescatori italiani sono penalizzati rispetto ai colleghi europei

Mentre era in discussione il passaggio parlamentare del D.Lgs 9 gennaio 2012, n. 4 (cd Collegato agricolo) che ha condotto all’entrata in vigore della Legge 154/2016 (ndr. con la quale il legislatore italiano ha recepito il regolamento 1224/2009), Federpesca ci ha commissionato uno studio comparato su come il regolamento europeo in questione fosse stato recepito dai diversi Stati membri, per verificare se i pescatori italiani fossero penalizzati rispetto ai colleghi europei”. I risultati parlano chiaro: i pescatori italiani risultano penalizzati perché le nostre norme sanzionatorie sono particolarmente severe e sproporzionate. “Da un’attenta analisi della normativa in esame, focalizzando l’attenzione sul peso delle singole sanzioni e contravvenzioni applicabili in caso di pesca illegale, risulta un'eccessiva sproporzione tra le finalità della normativa in esame, rispetto ai profili sanzionatori previsti. Sembrerebbe che il legislatore, nel tentativo di razionalizzare il sistema sanzionatorio, abbia dato più peso alla finalità punitiva tralasciando quasi, se non del tutto, la finalità rieducativa”. Centrato l’obiettivo della dissuasione, quindi, ma non altrettanto quello della proporzionalità, condizione essenziale per rispettare il principio di legalità nel nostro Paese.

Le sanzioni in Italia sono ingenti mentre in alcuni paesi risultano essere tanto esigue da rappresentare un rischio accettabile per molti pescatori. La conseguenza è che si creano fenomeni assimilabili a quelli della concorrenza sleale. Non a caso esiste attualmente una risoluzione adottata da alcuni parlamentari europei volta a rendere più omogenee le sanzioni.

Le motivazioni della penalizzazione

Perché siamo arrivati a questa legge? Perché in Italia le sanzioni, penali e amministrative, appaiono sproporzionate, soprattutto in considerazione del fatto che molto spesso i trasgressori sono piccoli o medi imprenditori? “Il caso italiano è emblematico e ha due concause: in primo luogo abbiamo rischiato una procedura di infrazione perché gli ispettori europei hanno verificato che, nonostante il regolamento 1224/2009, in Italia continuavano gli illeciti, soprattutto in Calabria con la pesca illegale di pesce spada. Poi, proprio per questo motivo, siamo stati soggetti ad embargo del prodotto ittico da parte degli Stati Uniti”. In pratica una legge fatta in fretta: di punto in bianco ci siamo trovati di fronte a una minaccia di procedura di infrazione e all'embargo americano, così il legislatore italiano è corso al riparo, senza essere sufficientemente preparato e senza condividere i lavori con le associazioni dei pescatori. “Ne è uscita una legge imperfetta e sproporzionata rispetto ai nostri canoni e non compatibile con il nostro codice penale”. Ovviamente con delle conseguenze drammatiche su tutto il comparto.

Le conseguenze su altri settori

A rimetterci, non solo i pescatori: “I controlli in mare sono quelli che sono (ora la Guardia Costiera è principalmente impegnata sul fronte immigrazioni), così le ispezioni si sono spostate in terra ferma, colpendo in maniera illogica la grande distribuzione e i ristoranti, che rischiano fino a quindici giorni di chiusura, nonostante il più delle volte il pescato arrivi già confezionato in blocchi di ghiaccio quindi è impossibile verificarne la taglia”. Chi vince la partita? Nessuno. Eppure sarebbe bastato che il legislatore italiano avesse tenuto maggiormente conto dei rilievi delle associazioni di categoria, nel giusto equilibrio con i dati scientifici e le osservazioni delle associazioni ambientaliste, prima di recepire il regolamento, e fosse stato maggiormente vigile nel renderne più coerente, con il sistema giuridico interno, il contenuto. Quanto meno per arrivare preparato sul tema prima di sedersi al tavolo europeo delle trattative (cosa che hanno fatto Spagna e Francia).

Gianfranco Pascucci, del ristorante Pascucci al Porticciolo di Fiumicino. Foto di Andrea Di LorenzoGianfranco Pascucci - foto di Andrea Di Lorenzo

La responsabilità del consumatore e degli chef

Il consumatore può fare qualcosa in merito? “In primo luogo deve chiedere e pretendere le informazioni circa la provenienza del pesce che compra o mangia al ristorante, penso per esempio a un locale che metta a disposizione un QR Code dove il cliente possa leggersi con calma tutta la storia del pescato in questione (in Norvegia esistono realtà che già lo fanno). Poi dovrebbe seguirne di più la stagionalità , per esempio il pesce spada andrebbe mangiato solo a maggio, che è il periodo in cui transita nel Mediterraneo. Infine non dovrebbe consumare sempre le stesse tipologie di pesce”.

Dello stesso parere è Gianfranco Pascucci, chef del ristorante Pascucci al Porticciolo a Fiumicino, in quella che è la periferia iodata di Roma, come la chiama lui. “Quando si va al mercato o in pescheria si dovrebbero abbandonare i retaggi quotidiani, quelli che ti portano ad acquistare un prodotto perché lo si vuole acquistare. Al mercato si compra quello che è stato pescato, punto”. Non si può stilare una lista della spesa, ma ci si deve far guidare dalla stagione, dalle condizioni climatiche, dagli umori del mare. Che consegnano un pesce buono in tutte le sue parti: “Fatevelo curare e sfilettare, ma non dimenticatevi di farvi dare anche gli scarti, con i quali potrete preparare un sugo eccezionale”.

Crudo di muggine, il piatto di Gianfranco Pascucci. Foto di Andrea Di LorenzoIl Crudo di muggine di Gianfranco Pascucci - foto di Andrea Di Lorenzo

La sostenibilità secondo Pascucci, non si limita all'utilizzo degli scarti, ma coinvolge anche specie generalmente poco apprezzate dai consumatori, come i muggini freschi (al di là della bottarga). Lui utilizza quelli dell'oasi del lago di Burano di Orbetello, realtà con la quale ha avviato un progetto di valorizzazione di questo prodotto unico. “Il muggine un tempo era trattato dai pescatori come il colera perché nessuno voleva comprarlo, così veniva venduto a pochi euro al chilo. Eppure è un pesce eccezionale, tipico dell'acqua salmastra, con una carne consistente che si presta a diverse preparazioni. Da quando ho iniziato questo progetto, il suo prezzo è aumentato. Ora è quello giusto”. A Gourmet Food Festival, lo presenterà “quasi crudo”, ma non vogliamo svelarvi troppo. “L'obiettivo è di sorprendere il palato con qualcosa che abbiamo vicino a noi, così torniamo tutti a guardare con occhi diversi un prodotto per troppo tempo sottovalutato”.

 

Pascucci al Porticciolo | Fiumicino (RM) | viale Traiano, 85 | tel. 06 65029204 | www.pascuccialporticciolo.com

Gourmet Food Festival | Torino | Lingotto Fiere, via Nizza, 294 | dal 17 al 19 novembre 2017, venerdì dalle 17 alle 23, sabato dalle 10 alle 23, domenica dalle 10 alle 20 | www.gourmetfoodfestival.it

 

a cura di Annalisa Zordan


Dove mangiare il gelato a Napoli. Le migliori 3 gelaterie della città

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Nella patria della pizza, della cucina robusta e della pasticceria più golosa, trova un suo spazio anche il gelato artigianale di qualità. A Napoli, gli indirizzi per gustare un buon cono non sono moltissimi, ma molto validi. Le tre insegne migliori.

Il gelato a Napoli

Napoli, per i golosi, significa soprattutto sfogliatelle e babà, pastiere e biscotti all'amarena. La pasticceria partenopea vanta una tradizione importante, che attraversa i confini regionali per divenire, in tutta la Penisola, riferimento tra i più importanti del settore. Non altrettanto si può dire per ora per la gelateria, che rimane un po' in secondo piano rispetto alla pasticceria: ancora pochi di indirizzi di grande qualità, quelli che nella guida Gelaterie d'Italia 2017 del Gambero Rosso hanno meritato il podio. Un panorama comunque in crescita che riserverà, siamo sicuri, molte belle sorprese nelle prossime edizioni. Perché se è vero che è sempre l'ora giusta per una buona sfogliatella, è altrettanto vero che il clima caldo dell'estate invoglia abitanti e turisti a cercare nel gelato la risposta perfetta per la calura e il languore estivi. Per noi gli indirizzi di riferimento, nel capoluogo campano, sono tre: quelli che fra tutti spiccano per qualità delle materie prime, ricerca e lavorazione, tanto da guadagnarsi i Due Coni della nostra guida.

Gourmeet – Due Coni

Un punto di smistamento di grandi prodotti, ben più che un semplice punto vendita (nato come costola del supermercato Sapori&Dintorni di Conad), ma un selezionatore di bontà che arrivano da diverse regioni: le creme sono realizzate dal celebre gelatiere Emilio Panzardi di Maratea, mentre le granite sono quelle di Campidoglio di Sant'Agata di Militello, i sorbetti, invece, vengono da Arneo Dessert Artigianali di Lecce, laboratorio di nicchia impegnato nella preparazione di dolci per la ristorazione. I gelati, quelli di Panzardi, sono cremosi, lisci, dolci al punto giusto, golosi e leggeri. Alle creme si aggiungono tutti i gusti alla frutta, realizzati con prodotti freschi e di stagione, quasi esclusivamente locali; i gusti cambiano di continuo, andando dalla fragola San Andreas al cioccolato Sur de Lago, dalla crema gialla al cognac Navan del Madagascar al pistacchio di San Biagio al sorbetto Moon Sherry.

Gran Caffè La Caffettiera Gelateria – Due Coni

Un'insegna nota in città anche perché ha scelto di produrre gelato, oltre che con il metodo tradizionale, anche mediante l'utilizzo dell'azoto liquido. Una lavorazione scenografica grazie alle nuvole di fumo denso derivate dalle temperature molto basse (200 gradi sottozero). Oltre al gelato “on demand” azotato, l'offerta del Gran Caffè La Caffettiera Gelateria si divide fra gusti classici e contemporanei, gourmet e vegani, tutti conservati nelle apposite carapine. Fra le specialità della casa, la vaniglia, l'accoppiata arancia e zafferano, l'abbinamento insolito gelsomino e mango, il classico caffè, e il gelato al gazpacho. Non mancano, poi, i sorbetti, le coppe e i dolci da accompagnamento, dalle brioche alle cialde, dai sandwich ai taco farciti di gelato.

Remy Gelo – Due Coni

Un indirizzo storico, inaugurato da Vittorio Corradini nel 1919: Remy Gelo nasce dall'idea del giovane marchigiano che, tornato dagli Stati Uniti, si innamorò della città partenopea e scelse di aprire una sua attività, dapprima una latteria e poi una gelateria. A rendere il prodotto noto in città, però, è stato il figlio Remo, che ha recentemente trasferito il locale in uno spazio più piccolo ma accogliente. Fra i vari gusti è il più semplice di tutti a stupire per gusto e consistenza: il fiordilatte, preparato con Latte Nobile, delicato e mai banale. Ma ci sono anche la Nocciolatona, il pistacchio e tutte le altre creme ricche e golose, oltre a una linea di gusti alla frutta.

Gourmeet | Napoli | via Alabardieri, 8 | tel. 0817 94413 | www.gourmeet.it/

Gran Caffè La Caffettiera Gelateria | Napoli | piazza dei Martiri, 28 | tel. 334 135447 | www.grancaffelacaffettiera.com/

Remy Gelo | Napoli | via F. Galiani, 29 a | tel. 0816 65752 | www.facebook.com/remygelateria/

a cura di Michela Becchi

I 33 ristoranti più cari al mondo. Il primo a Ibiza, per l'Italia? Beck e Bottura

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Il più costoso di tutti si trova a Ibiza, mentre in fondo alla classifica troviamo l'Osteria Francescana di Massimo Bottura. Sono i menu degustazione d'alta cucina più cari al mondo, raccolti da Insider.   

La classifica

Quando si giudica un ristorante, fra i parametri principali vi è senza dubbio il rapporto qualità/prezzo. Ma cosa si intende con questa definizione? Mangiare bene, scegliendo ingredienti sani, piatti d'autore ricercati e realizzati con cura e tecnica richiede un investimento economico inevitabile. In alcuni ristoranti, il conto finale può diventare molto caro, a seconda della posizione, della location, delle spese del locale, e naturalmente dell'offerta proposta. Il sito britannico Insider ha stilato una classifica dei 33 ristoranti più costosi del mondo, da Modena a New York, prendendo in considerazione i menu degustazione a disposizione. Il calcolo è stato fatto pensando al prezzo (in dollari) di un pasto per due persone, includendo anche un abbinamento con il vino laddove possibile, ed escludendo eventuali tasse.

I risultati

È il Sublimotion dell'Hard Rock Hotel di Ibiza a guadagnarsi il primo posto per il conto più salato del mondo: gestito dallo chef Paco Roncero, il locale apre solamente per 12 persone alla volta. I fortunati clienti possono godere di un'esperienza sensoriale unica grazie a immagini, proiezioni, musica e giochi di luce, immersi in un ambiente diverso per ogni portata servita, con un'atmosfera che cambia di volta in volta attraverso gli schermi che ricoprono sala e tavola. Dai cocktail ai dessert, il percorso di 13 assaggi a testa per due persone costa ben 3.266 dollari. Segue l'Ultraviolet dello chef Paul Pairet, a Shangai, con un menu da 20 portate al prezzo di 1.742 dollari per due. Terzo posto per il New York restaurant guidato dallo chef Masa Takayama, esperto di sushi che propone la migliore cucina giapponese di tutta l'America al prezzo di 1.190 dollari per due, per un totale di 20-25 piatti.

L'Italia in classifica. Beck e Bottura

Si posiziona ultimo, invece, in 33esima posizione il nostro Massimo Bottura (ma non è l'unico italiano), che all'Osteria Francescana– secondo miglior ristorante al mondo per la World's 50 Best Restaurants e primo ristorante italiano secondo il Gambero Rosso – propone un menu di nove portate a “soli” 478 dollari per due, circa 412 euro. Un costo piuttosto sobrio rispetto ai colleghi extra-europei. Con 490 dollari, al penultimo posto fra i meno cari c'è lo chef australiano Peter Gilmore del Quay, che divide la sua posizione ex aequo con Tim Cushman di OYa, celebre ristorante giapponese di New York. L'altro locale italiano a entrare in classifica è La Pergola di Roma, la creatura di Heinz Beck dove è possibile assaggiare 10 diversi piatti al prezzo di 526 dollari per due persone, costo che garantisce allo chef tedesco oramai italianizzato di guadagnare il 27esimo posto dell'elenco. Per il Regno Unito, invece, in 22esima posizione c'è il Dinner di Heston Blumenthal, con un menu di 8 portate a 576 dollari. Segue in corsa, al numero 21, quello che è stato votato come miglior ristorante al mondo, l'Eleven Madison Park di New York, dove si può provare la ricercata cucina di Daniel Humm al prezzo di 590 dollari per 11 piatti a testa. A Parigi, invece, è il GuySavoy il ristorante più costoso della città, sesto al mondo con il suo menu da 11 portate a 860 dollari per due. Un gradino più in basso, in settima posizione, Alain Ducasse au Plaza Athenee (848 dollari per 5 portate), e ancora a Parigi, all'ottavo posto, L'Arpège di Alain Passard con un menu da 848 dollari per 12 portate. Chiude il giro dei locali parigini Restaurant Le Meurice Alain Ducasse, in nona posizione con una degustazione di cinque assaggi al prezzo di 828 dollari per due. 

La classifica completa

 

a cura di Michela Becchi

Adotta un alberello nel Salento. L'iniziativa delle Cantine Paololeo

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La cantina pugliese di Paolo Leo preserva il patrimonio dei vigneti ad alberello con un’iniziativa che coinvolge direttamente i consumatori: adotta un alberello è la proposta della Masseria Carritelli. Già 150 i “genitori” adottivi. Ecco perché è importante aderire all’iniziativa. 

Le vigne ad alberello. Un patrimonio da difendere

Adottare un alberello. Non uno qualunque, però. In questo caso si tratta di vecchi vigneti con l'impianto tipico del Salento e oggi quasi in estinzione. Il progetto è delle Cantine Paololeo che intendono in questo modo salvaguardare tutta una tradizione antichissima che rischia di andare persa: l'alberello produce poca uva, attorno ai 30/35 quintali per ettaro, e questa è una delle ragioni che ha portato molti viticoltori a estirpare i vecchi vigneti per sostituirli con impianti a spalliera che garantiscono una produzione elevata, mai meno di 60 quintali per ettaro. Tuttavia, oltre alla perdita di una tradizione, c'è in gioco anche il futuro. Solo in questi vecchi vigneti si trovano, infatti, i biotipi di Primitivo e Negroamaro che non sono in vendita nei vivai, unici per le caratteristiche del grappolo e dell’acino ma anche per la qualità del gusto e del colore che riescono a trasmettere ai vini.

L’adozione di Cantine Paololeo

Salvare l’alberello dall’estinzione è la condizione necessaria per fare qualità” afferma Paolo Leoquando nel 2012 ho acquistato l’antica Masseria Carritelli avevo chiaramente impresso nella mia mente l’intero progetto: il recupero di quell’antico sito da destinare all’accoglienza enoturistica, ma soprattutto la tutela di quelle piante così vecchie ma preziose, dove ancora in alcuni tratti era presente e vivo l’impegno e il lavoro dei nostri antenati”. A questo nobile scopo, si aggiunge anche il coinvolgimento diretto dei consumatori: ogni “genitore adottivo” potrà vivere per 365 giorni la magia dell’arte vinicola, con appositi percorsi online e iniziative direttamente nella cantina pugliese. Nei pacchetti sono compresi l'attestato ufficiale di “vignaiolo onorario”, un sacchetto di terra Dorso Rosso, vini e degustazioni. A pochi mesi dal lancio, le adozioni sono circa 150, e hanno coinvolto anche nomi molto noti del settore, come l'enoteca Bernabei di Roma che ha adottato un intero filare.
 

Per maggiori informazioni www.dorsorosso.it

 

a cura di Loredana Sottile

Yamamay si butta sulla ristorazione. YamaCaffè apre a Milano

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Anche il gruppo campano specializzato nell'intimo femminile sceglie di investire nel mondo della ristorazione, e ci prova con un format già testato nella sede strategica di Gallarate. YamaCaffè esordirà a Milano, entro la fine dell'anno, in un grande spazio a piazza Cordusio, proprio dove sorgerà il primo Starbucks d'Italia. 

Alla fine del 2016, in Corso Buenos Aires 42, Yamamay inaugurava il più grande dei suoi store, 500 metri quadri in una delle direttrici più trafficate dello shopping milanese. Il brand napoletano dell'intimo, nel pacchetto della Holding Pianoforte di proprietà delle famiglie Cimmino e Carlino, è cresciuto in modo esponenziale (esordio nel 2001, insieme al brand gemello Carpisa, oggi fattura 300 milioni di euro, ed è la seconda azienda italiana per intimo), e conta punti vendita in tutta Italia, oltre agli store aperti recentemente all'estero, in Spagna, Francia, Russia, Medio Oriente, prossimamente in Sud America con un partner locale. Cosa c'entra questo con gli ultimi movimenti della scena gastronomica meneghina? La risposta è quella che Luigi Cimmino - presidente del gruppo, 73 anni e idee ben chiare sugli obiettivi da centrare in futuro – fornisce al Corriere della Sera riflettendo sui prossimi step di un'espansione che mira non solo a moltiplicare i presidi in ambito internazionale, ma soprattutto a interpretare le nuove esigenze del consumatore. Nello specifico la soluzione sembra arrivare dalla diversificazione delle attività, alla ricerca di nuovi prodotti, servizi e competenze da sviluppare. E allora perché non provarci con il cibo? Di casi analoghi se ne rintracciano qui e là nel mondo della moda dei grandi marchi (si veda il caso Diesel, sempre a Milano), oltre agli investimenti profusi dalle storiche maison in un settore che assicura una vetrina di sicura presa su un pubblico eterogeneo (e qui pensiamo alla Pasticceria Marchesi del gruppo Prada, o a Cova di Lvmh).

 

YamaCaffè davanti a Starbucks

Per Yamamay, invece, si tratta di un esordio (quasi) assoluto nel settore food&beverage, e il battesimo di fuoco dovrebbe arrivare entro la fine del 2017 proprio in quella piazza Cordusio che la prossima primavera saluterà l'apertura del primo Starbucks. Un dettaglio da non trascurare, visto che l'intenzione di Barbara Cimmino, figlia di Luigi alla guida della sede strategica della holding a Gallarate, è quella di sviluppare il format ribattezzato YamaCaffè, già testato proprio nella sede operativa di Gallarate, come mensa e spazio di incontro per i dipendenti. A Milano, invece, il Caffè di Yamamay prenderebbe una direzione nuova, configurandosi come lounge food dedicata principalmente ad aperitivo e cena, con ingresso indipendente rispetto al grande store – stavolta si parla di 1000 metri quadri, nello stesso blocco che il gruppo americano Hines sta ristrutturando, dove sorgerà il primo store italiano di Uniqlo – dedicato a biancheria e arredo per la casa, YamaHome (e anche questo è un esordio). Il locale, sviluppato su 500 metri quadri tra caffetteria e ristorante, prenderà il posto di una piadineria, e l'offerta gastronomica sarà sviluppata in partnership con nomi del settore: diverse le proposte sul piatto, ma l'intenzione di Yamamay è quella di fare riferimento a partner campani, e mantenere comunque il controllo di un format sviluppato interamente all'interno del gruppo, da replicare in seguito in altre città. Se tutto andrà come previsto, dunque, tra meno di un anno, milanesi e turisti a passeggio a pochi metri dal Duomo si troveranno davanti all'alternativa di due grandi caffetterie, l'uno di fronte all'altra. Certo, la sfida di Yamamay è davvero azzardata, considerando che il dirimpettaio si chiama Starbucks.  

 

a cura di Livia Montagnoli

Il Villaggio del Food di Amatrice. Riaprono le insegne storiche del paese

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Inaugurazione ufficiale sabato 29 luglio, alle 18. Poi il Villaggio del Food di Amate Amatrice si prepara ad accogliere affezionati clienti e turisti che sentivano la mancanza di un buon piatto di amatriciana. Lo spazio, progettato da Stefano Boeri, è la prima ricostruzione portata a termine nella zona del sisma. C'è ancora molto da fare, ma il traguardo raggiunto fa morale.  

Amate Amatrice. Missione compiuta

A pochi giorni da Pasqua, il primo pranzo ufficiale alla presenza di istituzioni, autorità e abitanti della cittadina laziale duramente colpita dal terremoto dell'estate 2016, aveva celebrato la nascita di Amate Amatrice, uno spazio nato sulle ceneri dell'Amatrice che fu, con l'idea di recuperare il morale e lo spirito dell'Amatrice che tutti auspicano possa ritrovarsi quanto prima. Certo, in quel fazzoletto di territorio tristemente noto dell'Italia Centrale - dove l'Appenino segna il confine tra Lazio, Marche, Umbria e Abruzzo – il ritorno alla normalità è duro a venire, e la scossa di qualche giorno fa (per fortuna solo tanta paura, ma nessun danno di rilievo) non fa che confermare quanto sia difficile lasciarsi alle spalle l'incubo cominciato la notte del 24 agosto dell'anno scorso. Però le attività a sostegno della popolazione non si sono mai fermate, e il villaggio del cibo finanziato con i fondi raccolti grazie all'iniziativa Un aiuto subito, promossa da Corriere della Sera e Tg La 7 attraverso Banca Prossima e Tim, è il primo dei progetti di speranza che può dirsi compiuto. Secondo i piani, ambiziosi, e nel rispetto dei tempi previsti. Le prime tracce del lavoro congiunto di progettazione dello studio di Stefano Boeri e di realizzazione delle strutture antisismiche in legno di Innova Fvg, Legno Fvg e Domus Gaia si erano rivelate già lo scorso dicembre, in occasione della presentazione alla stampa dell'area. Poi, dal 1 maggio, entrava in funzione la mensa progettata come centro di aggregazione e ricovero per gli studenti delle scuole locali. In attesa che il resto del villaggio si animasse con la ristorazione delle insegne storiche di Amatrice, costrette a chiudere battenti dopo il sisma.

work in progress al villaggio del cibo di Amatrice

I ristoranti del Villaggio

Tra loro anche il celebre Hotel Ristorante Roma, tavola ben nota agli amanti dell'amatriciana, e nell'ultimo anno simbolo della devastazione che ha colpito il centro del paese: l'edificio ha condiviso la sorte di gran parte delle strutture circostanti, sbriciolandosi in un cumulo di macerie. Tra pochi giorni, però, la famiglia Bucci, titolare dell'attività, si prepara a riaccendere i fuochi, nello spazio che gli è stato assegnato intorno alla grande piazza all'aperto di Amate Amatrice. Sabato 29 luglio, a partire dalle 18, il Villaggio del Food al completo spalanca le porte al pubblico, che tutti auspicano sarà numeroso nelle prossime settimane estive. All'inaugurazione dello spazio, ancora una volta, prenderanno parte il sindaco Pirozzi, e poi Luciano Fontana ed Enrico Mentana, oltre a Vasco Errani e Fabrizio Curcio, e all'architetto Stefano Boeri. Nelle otto strutture in legno, con pareti vetrate affacciate sui Monti della Laga, hanno trovato spazio un bar e sette ristoranti, che per la prima volta dopo il sisma si ritrovano riuniti per celebrare l'eccellenza gastronomica del territorio. L'auspicio è quello di tenere alto il morale di una comunità che ha continuato a lottare con forza, restituendo un lavoro a tante famiglie che l'hanno perso. I fondi raccolti, nel frattempo, hanno superato gli otto milioni di euro, ma il villaggio realizzato con materiali e tecniche innovative è una dimostrazione tangibile di come si possa lavorare in tempi rapidi, contenendo i costi, ma con qualità, e nel rispetto degli standard di sicurezza. Molto del merito va a quella filiera del legno che il Friuli Venezia Giulia ha perfezionato in decenni di ricerca che sono seguiti al sisma del 1976.

Ora la palla passa ai ristoratori, impegnati con gli ultimi preparativi prima di rimettersi in gioco: al villaggio le attività resteranno aperte fino a tarda notte, per accogliere turisti e clienti che, numerosi, chiamano da tempo per sapere della riapertura, prenotare un tavolo, assicurarsi un ottimo piatto di pasta all'amatriciana. All'appello ci sarà anche Daniele Bonanni, chef e titolare di Ma-Tru, che negli ultimi mesi è stato il più battagliero tra i ristoratori a cui il sisma ha portato via tutto, e la sua celeberrima amatriciana l'ha portata in giro in lungo e in largo per l'Italia, a bordo del food truck acquistato dopo il terremoto. Ora è pronto a convergere al villaggio del food, ma non smette di sensibilizzare l'opinione pubblica sui ritardi di una ricostruzione che solo adesso comincia a lavorare sullo smaltimento delle macerie private. La strada è ancora lunga, e Amatrice ha bisogno del sostegno di tutti.  

 

a cura di Livia Montagnoli

Appunti di viaggio. Laura Ravaioli in Israele. Injera, il pane dell’Etiopia

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Laura Ravaioli ci porta alla scoperta della tradizione gastronomica israeliana. E lo fa attraverso un programma televisivo su Gambero Rosso Channel: Appunti di viaggio. Laura Ravaioli in Israele. Durante la seconda puntata si fa tappa a Gedera, città del Distretto Centrale.

Un diario di viaggio in sei puntate, in cui Laura Ravaioli, uno dei volti più noti di Gambero Rosso Channel, racconta Israele attraverso i suoi territori, le sue tradizioni e i popoli incontrati durante il cammino da Gerusalemme verso Tel Aviv. Un format, in onda tutti i martedì su Gambero Rosso Channel alle ore 21:30, che non poteva esimersi dal mostrare la cultura gastronomica israeliana attraverso ricette realizzate a quattro mani da Laura Ravaioli con chef e cuochi di casa, simbolo di una cucina domestica e profondamente radicata nella storia delle persone. Come racconta la stessa chef nei suoi appunti di viaggio. Durante questa puntata siamo a Gedera, dove vive una comunità di “ebrei neri” o meglio falasciàche, secondo alcuni storici, deriverebbero dalla fusione tra le popolazioni autoctone africane e gli ebrei fuggiti dal proprio paese in Egitto, ai tempi della distruzione di Gerusalemme nel 587 a.C. o in successive ondate della diaspora ebraica.

Laura Ravaioli sul cammello

Laura Ravaioli alla scoperta dei falascià, gli ebrei neri d’Etiopia

Durante le riprese, in attesa di entrare in cucina per conoscere il cibo etiope, ho fatto una passeggiata per il quartiere dove vive una comunità di ebrei che potrei definire speciale. Mi accompagna un giovane ragazzo, Shahar,che mi spiega chi sono, da dove vengono e come sono giunti, dopo drammatiche vicende, qui in Israele. La loro origine si confonde tra storia e leggenda:forse sono i discendenti del figlio nato dalla regina di Saba e re Salomone, oppureebrei yemeniti catturati durante varie spedizioni da parte del potente Regno etiopico di Aksum. Potrebbero essere ciò che rimane di una delle tribù perdute di Israele, la tribù di Dan, o ancora la discendenza di un’antica comunità ebraica egiziana che sarebbe poi migrata nella regione nord orientale etiopica (il Gondar) e quella del Tigré,altopiani a nord del Lago Tana. Ed è qui, in questi luoghi, che gli ebrei neri si stabiliscono e prendono l’appellativo difalasciào falasha,con accezione negativa di “esiliato”, “straniero”.Proprio per questo motivo molti di loro preferiscono essere chiamati con il termine di Beta Israel, cioè “appartenenti alla Casa Israele”. La prima testimonianza storica sulla loro esistenza è quella di un italiano, il ferrarese Rabbì Eliahu che, trasferitosi in Palestina nel 1425, racconta di un ebreo nero giunto a Gerusalemme dall'Etiopia. Ma è soltanto tra l’800 e il primo ‘900 che vari studiosi si interessano a questa comunità. Comunque, a prescindere dalla loro origine,la vita della comunità degli ebrei d’Etiopia si è svolta per secolie secoli in un sostanziale isolamento, separati dal resto del mondo ebraico e praticando un giudaismo originario basato esclusivamente sulla Torah.

La storia e il salvataggio dei falascià

Tutto questo fino alla metà degli anni '70, quando la situazione politica della regione cambia: l'imperatore Hailè Selassiè viene deposto e il colonnello Menghgistù va al potere, iniziando una violenta persecuzione contro chiunque considerasse suoi avversari, compresi gli ebrei neri. Ai conflitti interni si vanno ad aggiungere quelli esterni, con Somalia ed Eritrea, e due gravissime carestie, una sul finire degli anni ’70 e l'altra tra il 1983 e il 1985. Le vittime furono decine di migliaia. È in questo periodo che molti ebrei falasciàdecidono di abbandonare l'Etiopia mettendosi in cammino verso il Sudan. Una lunga marcia a piedi durante la quale migliaia di loro falcidiati dalla fatica, dalla fame e dalle malattie, muoiono. Un cammino senza lieto fine: una volta giunti in Sudan, gli ebrei etiopi si sono trovati di fronte a un governo musulmano ostile. Talmente ostile, che le loro condizioni di vita disumane portarono alla decisione dello Stato Ebraico di salvarli organizzando il loro trasporto in Israele. Nacquero così le Operazioni Mosè e Giosuè, cui seguì, qualche anno dopo l’Operazione Salomone. Complessivamente si stima che vennero trasferiti in Israele circa 90.000 ebrei, ovviamente non senza difficoltà e ostacoli. Ma finalmente l'odissea dei falasciàfinì. A loro dedico questo mio appunto di viaggio. E grazie a loro vi racconto la ricetta delle injera, il pane piatto etiope preparato con il teff, che ancora oggi si prepara come migliaia di anni fa.
 

Injera,il pane dell’Etiopia

Più che un pane, assomiglia a una larga crespella morbida umida e porosa, che si serve con tutta una serie di spezzatini, intingoli di verdure o salse molto piccanti. Solitamente, vari strati di injeravengono posti sul fondo di una vassoio o piatto di portata o come si fa tradizionalmente sopra i mesob, cioè speciali supporti di paglia colorati, decorati finemente e intrecciati. La tradizione vuole che i pezzi di injeraservano a raccogliere il cibo, ovviamente con le mani.

Ingredienti

500 kg di farina di teff (cereale privo di glutine originario dell’Etiopia e dell’Eritrea)

oppure

Una miscela di farine composta da:

250 g di farina 00 o mista integrale

250 g di farina di mais macinata fine o farro o grano saraceno

125 g di semola di grano duro

 

450 g di acqua di acqua appena tiepida

12 g di lievito di birra

225 g di acqua bollente

2 cucchiaini di bicarbonato

In una ciotola piuttosto capiente sciogliere il lievito con l'acqua appena tiepida, e a poco a poco aggiungere la farina a pioggia mescolando bene con una frusta fino a ottenere una pastella, cremosa e senza grumi. Coprire il contenitore con una pellicola e lasciarlo riposare a temperatura ambiente almeno 2 giorni, l’ideale è 3: l’impasto deve lievitare e al tempo stesso “inacidire”. Una volta pronto mescolare con la frusta, aggiungere il bicarbonato e circa 225 ml di acqua bollente, continuare a mescolare molto bene il tutto fino a ottenere una pastella piuttosto fluida. Coprire la pastella con la pellicola e lasciare riposare per circa un’ora.

Passata l'ora, scaldare bene una padella da crepes antiaderente dal fondo piuttosto spesso o la tradizionale piastra mitad, e intanto per comodità versare parte del composto in un misuratore per liquidi con il beccuccio. Versare a filo uno strato sottile di pastella sulla padella bollente iniziando dall’esterno verso l’interno. Lasciare cuocere senza mai girare. Mano a mano che cuoce tenderà a cambiare divenendo più scura e la superficie si riempirà di bollicine che conferiranno a questo pane una consistenza morbida e porosa. A questo punto rimuovere dalla piastra la injera, ormai pronta, facendola scivolare su di un vassoio rotondo fatto con fibre intrecciate: questo impedisce che si attacchi sul fondo del supporto. Disporre leinjerauna sopra all’altra per evitare che si asciughino.

 

a cura di Laura Ravaioli

 

Questi e altri piatti della tradizione ebraica, Laura Ravaioli ce li racconta in Appunti di viaggio. Laura Ravaioli in Israele. In onda tutti i martedì su Gambero Rosso Channel alle ore 21:30, a partire dal 18 luglio 2017

Appunti di degustazione. Verticale di Tuvaoes. Il Vermentino che sfida il tempo

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Il Vermentino di Sardegna Tuvaoes compie trent’anni. Era il 1986 e quel vino dimostrò la grande potenzialità della Sardegna enoica. Nella Verticale di Tuvaoes i millesimi più interessanti, dal 1986 al 2016, raccontano la storia e l’impegno della famiglia Cherchi che per prima scommise sulla viticoltura di qualità nel territorio di Usini.

Siamo nel nord ovest dell’Isola, Usini è un paesino di 5.000 anime poco distante da Sassari. Le prime testimonianze della sua vocazione agricola sono di epoca prenuragica e legate a terreni fertili adatti alle coltivazioni e alla presenza di acque surgive e fluviali. In epoca recente è sempre stato considerato un territorio adatto alla coltivazione delle vite, tanto che Usini si fregia del titolo di Paese del Vino: le vigne sono dislocate a partire dai 200 metri di altitudine, alternate a oliveti, macchie e campi. Le viti godono delle correnti che vengono dal mare e di forti escursioni termiche, i terreni sono perlopiù calcarei e argillosi.

La famiglia CherchiLa famiglia Cherchi

L'azienda

Giovanni Maria Cherchi, Billìa per tutti, fonda l’azienda nel lontano 1970 grazie a due ettari di vigna ricevuti in eredità. Capisce subito le potenzialità del territorio e punta tutto su due varietà: il cagnulari, vitigno a bacca rossa che troviamo solo in questo areale (e che grazie a lui diventerà un riferimento tra gli autoctoni isolani) e il vermentino, diffuso in tutta l’Isola, ma capace di offrire sensazioni molto diverse a seconda del terroir. Un progetto ambizioso, ma realizzabile; un sogno che diventa realtà: “Produrre vini di qualità che sappiano raccontare la forza e l’anima di un territorio autentico”. Oggi è Salvatore Cherchi che gestisce l’azienda insieme alla sorella Grazia: gli ettari sono 30 e oltre al vermentino (60%) e al cagnulari (35%), ci sono vigneti impiantati a cannonau. “Nel 2000 nasce la nuova cantina, per sostenere una produzione quantitativamente più importante” dice Salvatore “Abbiamo tutte le uve dislocate sui due tronconi in cui si divide il vigneto usinese: nella parte nord ovest il suolo è argilloso, mentre a nord e sud est abbiamo calcare”.

Ingresso della cantina Cherchi

Le linee di vini

I vini sono divisi in tre linee, a seconda dell’età delle vigne. La linea Billìa è frutto delle vigne più giovani, poi c’è la linea classica (ne fanno parte il Tuvaoes, il Cagnulari, il Cannonau e il Luzzana, blend delle due uve rosse presenti in azienda). Le etichette Speciali sono figlie della sperimentazione continuamente attuata in cantina: ci sono il Filighe, un metodo classico da uve vermentino affinato per almeno 24 mesi sui lieviti; e il Tokaterra, un passito di vermentino. “In questa sperimentazione” spiega Cherchi “rientra in pieno l’idea di produrre un Vermentino potenzialmente capace di invecchiare. La cosa è già chiara con l’etichetta 30 Vendemmie, cuvée frutto di tre annate nata per celebrare i trent’anni del Tuvaoes. Ma stiamo pensando a un Vermentino (potrebbe essere lo stesso Tuvaoes) millesimato che esca in commercio più tardi e non, come in genere accade, a pochi mesi dalla vendemmia. Vogliamo metterci la faccia e far capire che anche noi investiamo e scommettiamo sulla longevità della varietà nel territorio di Usini”.

Il Tuvaoes

Il Tuvaoes nasce nel 1987, col nome preceduto dalla dicitura Vigna. Dal 1988 il nome è solo Tuvaoes: è quest’annata ad aggiudicarsi i primi Tre Bicchieri della storia vinicola sarda. Oggi il nome del vino è Vermentino di Sardegna Tuvaoes: fa riflettere e dispiace che nel 2017 manchi la possibilità di usare sia il riferimento a Usini che la parola Vigna. Anche se sembra esserci la volontà da parte delle istituzioni (a partire dal Comune) e dei singoli produttori di arrivare a una Doc Usini: sarebbe una grande vittoria per questa meravigliosa zona di viti e renderebbe omaggio alla visione di Billìa Cherchi che già dagli anni ’70 pensava a Usini come vera espressione di una secolare cultura del vino.

30 vendemmie, la prova del 9

Una Cuvée senza annata, ma frutto di tre millesimi (2011, 2012, 2013) nata per celebrare i trent’anni del Tuvaoes. Un progetto che potrebbe essere replicato attraverso un Vermentino ideale a far capire che, specie nelle migliori vendemmie, può invecchiare molto bene. I profumi sono particolari e variegati, si va dal tocco floreale e agrumato a delle note speziate e cerealicole che virano in sensazioni fumé. In bocca è ampio e austero, dal particolare tocco astringente, intervallato da sapidità e buona freschezza. Vino che sarà interessante provare fra qualche anno.

I vini in degustazione

La verticale: il Vermentino di Sardegna Tuvaoes

2016

Giallo paglierino brillante. Naso complesso ed espressivo giocato su note di agrume, anice e toni floreali. La bocca è sapida, si avverte una lieve dolcezza e il finale è saporito e lungo. Frutto di un’annata molto regolare, ottima per qualità delle uve, si distingue per pulizia e freschezza di beva.

Valutazione: 88

2015

L’annata calda si percepisce fin dal colore, un giallo paglierino molto carico. Il naso inizialmente lievitoso si schiarisce su toni floreali, di polline e non manca una leggera sensazione di miele. In bocca il calore alcolico si fa sentire, ma poi è ben equilibrato da una bella sapidità. Finale profondo, ma leggermente asciugato dal calore alcolico.

Valutazione: 84

2014

Ottima annata, fresca, costante, in netto contrasto col millesimo di tante altre zone d’Italia. Il colore paglierino anticipa un naso tutto giocato su note di mandorla amara, anice ed erbe aromatiche. La bocca è molto bella e avvolgente, saporita, dinamica e offre ottima freschezza e una sapidità e una lunghezza esemplari.

Valutazione: 90

2013

A quattro anni di distanza, già ci troviamo di fronte a un vino di sorprendente complessità che sembra inizi a invecchiare molto bene. Il naso è incredibile per ricchezza e variegatura dei profumi, si inizia con note di fiori di campo per passare a sensazioni di idrocarburo. La bocca è vibrante, snella, tonica, lunga, sapida e piacevolmente fresca nel finale.

Valutazione: 89

2010

Una bottiglia non perfetta, dal naso molto evoluto, dai toni aromatici decadenti. La bocca riacquista sapidità, ma rimane l’aroma evolutivo a dominare. Il vino è affascinante anche per questo, alcune bottiglie sono meno fortunate.

Valutazione: Non valutata

2009

Frutto di un’annata particolarmente calda (che si percepisce molto bene) la 2009 offre un naso con evidenti note evolute, ma molto affascinante nelle sensazioni di frutta secca, albicocca matura e arancia candita. La bocca è sapida, ancora di buona freschezza e nel finale riemergono le note percepite al naso.

Valutazione: 82

2008

Una delle migliori bottiglie assaggiate. Dal colore dorato con pochi riflessi paglierini di gioventù, regala un naso incredibile per complessità e pulizia, con note terziarie di muschio, resine nobili ed erbe secche che lasciano spazio a un frutto ancora cangiante. Sul finale le note di idrocarburo precedono una bocca schietta e sincera, ancora slanciata e ritmica.

Valutazione: 91

2004

Un’altra grande bottiglia che regala sensazioni di gran fascino specie al naso, dove il vino regala profumi affumicati, di zafferano, erbe di montagna, e non mancano tratti marini e iodati. La bocca è fresca, slanciata, di grande sapidità, lunga e pulita. Finale tutto giocato sul ritorno delle note affumicate.

Valutazione: 90

2003

Annata molto calda, afosa che però regala un vino al di sopra delle aspettative. Il naso offre un particolarissimo spettro di cera, resina, polline e miele. Poi vengono fuori la nocciola e delle particolari note ossidative che ricordano la buccia d’arancio candita. La bocca è calda, avvolgente, dotata di ritmo, grazie a una sapidità quasi piccante e a un finale leggermente tannico.

Valutazione: 87

2002

È un’annata tutta giocata su un naso evoluto, ma molto affascinante: dalle note di frutta secca, mandorla tostata e nocciola. L’evoluzione non tradisce la beva che piace per la bocca sapida, quasi piccante, leggermente tannica, e l’astringenza finale che la rende austera, dura e serrata. Bella profondità all’insegna delle note di idrocarburo e dell’affumicato.

Valutazione: 85

1996

Tornare indietro di vent’anni già ha il suo fascino, rimarcato ancor di più se il naso offre note ferrose, quasi di ruggine, che poi danno spazio a nuance di canfora, erbe secche, sandalo, pot-pourri. Bocca salina e ritmica, anche qui leggera astringenza e piccantezza che spingono il vino in un finale profondo e saporito.

Valutazione: 88

1993

Un’altra delle annate più convincenti della serie. Il colore giallo dorato carico, ma brillante, anticipa un naso tutto giocato su note di cera, polline, erbette e resine nobili. La bocca sorprende per freschezza e sapidità, dimostra gioventù ed è aiutata dalla profondità, scandita da un sorso vibrante ritmico.

Valutazione: 92

1988

Non possiamo non ricordare i Tre Bicchieri attribuiti al Tuvaoes ’88, primo riconoscimento della guida Vini d’Italia a un vino sardo. A distanza di quasi trent’anni il vino offre un naso molto bello, per certi aspetti ancora varietale e giocato su note verdi di sedano, resine, erbe di campo, elicriso e margherite ad anticipare un sorso che sembra quasi avere una dolcezza di fondo, ben intervallata da sensazioni sapide e iodate. Il finale, molto piacevole e pulito, è scandito da un’aromaticità da frutto candito. Un vero fuoriclasse.

Valutazione: 95

1987

Un altro inaspettato vino che affronta gli anni che passano con molta tranquillità. Al naso la complessità è da manuale ed è giocata su note di polline, cera, resina e miele. La bocca è bella, vibrante, sapida, lunga e ancora dotata di una buona spalla acida che alleggerisce la beva e dona freschezza e ritmo.

Valutazione: 90

1986

La prima annata. Difficile parlar male del Vermentino di Usini, Selezione Billìa, frutto di un’unica vigna e fortemente voluto da Giovanni Maria Cherchi, fondatore dell’azienda. La bocca è molto affascinante, si parte da sensazioni tostate e torrefatte, fino ad arrivare a note sapide, fresche e leggermente tanniche. Il naso conquista per complessità e variegatura, con delle percezioni che si alternano tra profumi terziari e nuance ancora di gioventù. Quello che emerge è tutto il profumo della Sardegna autentica, dalle note di elicriso a quelle di macchia fino ad arrivare alle sensazioni iodate.

Valutazione: 93

 

Vinicola Cherchi | loc. Sa Pala ‘e Sa Chessa | Usini (SS) | tel. +39 079 380273 | www.vinicolacherchi.com

 

a cura di Giuseppe Carrus

foto di Mauro Prevete

 

Oli d'Italia 2017. Miglior rapporto qualità/prezzo: Doganieri Miyazaki di Castiglione in Teverina

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Un amore sbocciato fra gli ulivi, che ha portato alla nascita di un olio d'eccezione che gode di un ottimo rapporto qualità/prezzo, il migliore secondo la guida Oli d'Italia del Gambero Rosso. La storia dell'azienda Doganieri Miyazaki.

Il prezzo dell'olio

Quando si tratta di extravergine di qualità, non si può scendere a compromessi: un prodotto di nicchia deve avere un prezzo adeguato, corrispondente a tutti gli investimenti e sacrifici fatti dagli olivicoltori in campo e in frantoio, fino ad arrivare all'imbottigliamento. Un'etichetta realizzata secondo i dettami dell'olivicoltura di ricerca, da frutti sani e lavorati con cura, deve dunque avere un costo in grado di compensare la fatica e lo studio necessari per realizzare un gran prodotto. Ma giungere a un buon rapporto qualità/prezzo non è impossibile, e lo dimostra questa azienda di Castiglione in Teverina, in provincia di Viterbo, che vende il suo (ottimo) olio a 9 euro per mezzo litro. Una caratteristica da non sottovalutare, tanto da aver fatto guadagnare alla realtà olivicola Doganieri Miyazaki il premio come miglior rapporto qualità/prezzo della guida Oli d’Italia 2017 del Gambero Rosso.

 

Le origini

Si sono conosciuti nel 2005 proprio grazie all'olio, Maurizio Doganieri e Madoka Miyazaki, e da allora l'oro verde è stato il filo conduttore del loro amore. Decidono di sposarsi appena due anni dopo, e di lavorare fianco a fianco fra gli ulivi, nell'azienda che esisteva già dal 2002: “Sono da sempre nel campo dell'agricoltura, e quindici anni fa ho deciso di acquistare questi terreni per dedicarmi interamente alla produzione di vino e olio, che sono le mie grandi passioni”, racconta Maurizio. Conosce Madoka durante un'esperienza lavorativa in Toscana, “lei era venuta dal Giappone per fare uno stage presso un'azienda olivicola per cui lavoravo come direttore”. Da quel momento, scelgono di produrre insieme un extravergine di qualità, una bottiglia in grado di rispecchiare la loro filosofia comune di rispetto per la terra, “che è l'origine di tutto”.

 

La produzione

Duecento piante fra leccino, leccio del corno, moraiolo e frantoio, “la più presente”, per un totale di circa un ettaro e mezzo dedicato all'olivicoltura, mentre la restante parte delle tenute (circa due ettari) è destinata alla vite. “La produzione olivicola è molto limitata, realizziamo 700 litri l'anno L'extravergine è una passione e un divertimento, mentre il vino è l'attività primaria”. Una sola etichetta, Podere San Giulio, blend di tutte le varietà con una prevalenza di frantoio, un fruttato medio caratterizzato da note di erba tagliata, mandorla amara, timo e valeriana, elegante e armonico. Particolare la presenza del leccio del corno, cultivar originaria della Toscana e diffusa prettamente nel Centro Italia, molto apprezzata dal produttore per la sua resistenza e l'alto contenuto di polifenoli: “In purezza, se lavorata bene, restituisce sensazioni di mela verde e presenta un amaro e un piccante in perfetto equilibrio, persistenti e vivaci. E poi matura molto tardi, quindi va bene per il nostro blend, che richiede circa 15 giorni per essere realizzato”. La raccolta comincia il 20 ottobre con il leccino, prima varietà a maturare, e prosegue poi fino al 5-10 novembre, “è interamente manuale, per cui occorre tempo e pazienza”.

 

Malattie e parassiti dell'ulivo: la prevenzione è la migliore cura

Nessuna certificazione biologica, ma un profondo e sincero rispetto della terra e dell'ambiente che porta la coppia a limitare al massimo qualsiasi trattamento. “L'obiettivo è produrre un olio di qualità senza alterare l'equilibrio del terreno e il ciclo produttivo delle piante. Bisogna riuscire a catturare il meglio da ogni ulivo, cercando di evitare elementi esterni, ma occorre distinguere fra le varie annate, perché alcune sono talmente difficili da richiedere un minimo trattamento”. La qualità del prodotto è ciò a cui ogni olivicoltore che si rispetti deve puntare, e per questo è necessaria una capacità di osservazione notevole, oltre a una buona dose di flessibilità che consenta di riconoscere quali sono i momenti critici in cui occorre intervenire. “Quest'anno, per esempio, l'annata promette bene e le piante non hanno avuto bisogno di trattamenti, mentre la scorsa campagna olearia è stata più difficoltosa, e ha richiesto un lavoro maggiore”. Fondamentale, poi, è la prevenzione, “che è la miglior cura, perché permette di anticipare un eventuale attacco parassitario e bloccarlo in tempo senza ricorrere a elementi chimici”. Per contrastare la mosca olearia – uno dei maggiori problemi dello scorso anno – Maurizio utilizza dei sistemi ideati da lui, “delle bottiglie contenenti delle esche proteiche in grado di attrarre la mosca”.

 

L'estrazione e la vendita

L'azienda non dispone di un suo frantoio, e per molire le proprie olive i produttori si recano da Frantoio Ranchino, azienda storica e consolidata di Orvieto, in provincia di Trevi, guidata da Eugenio Ranchino, “che segue tutte le fasi di lavorazione con cura e attenzione”. L'impianto è una macchina Pieralisi a ciclo continuo, “a cui Eugenio ha aggiunto negli anni gramola e decanter della Toscana Enologica Mori, personalizzando così l'intero frantoio”. Il filtraggio avviene dopo un paio di giorni, “e se possibile imbottigliamo immediatamente”.

 

Tanti degli oli firmati Doganieri Miyazaki sono destinati alla vendita in Giappone, terra d'origine di Madoka, che ha scelto di affidarsi a degli importatori per distribuire il suo prodotto nel Paese. “Stiamo attualmente cercando dei ristoranti in Italia a cui proporre il nostro extravergine. In più, siamo presenti in un paio di enoteche, ma avendo una produzione molto limitata i numeri sono, naturalmente, contenuti”. Podere San Giulio gode di un così vantaggioso rapporto qualità/prezzo, 9 euro per una bottiglia da mezzo litro: “Facciamo tutto noi due, dalla cura delle piante all'imbottigliamento, e in questo modo riusciamo a contenere i costi. E poi, il nostro lavoro primario è sul vino, l'olio è solo una piccola produzione che ci consente di tenere i prezzi più bassi”. O meglio, equilibrati: non troppo alti da allontanare i consumatori più scettici, ma abbastanza importanti da restituire il giusto valore al duro lavoro che si cela dietro la bottiglia.

 

Progetti per il futuro

Una vita trascorsa in campagna, un'attività condotta insieme, condividendo responsabilità e ostacoli, prendendo decisioni significative e scegliendo di adottare una linea basata sulla qualità del prodotto: nel futuro dell'azienda, attualmente, rimane un solo progetto, “continuare a produrre vino e olio di ricerca, possibilmente aumentando un pochino i numeri dell'extravergine”. Su consiglio di colleghi ed esperti del settore, infatti, la coppia ha in cantiere l'idea di piantare nuovi alberi, “per ampliare le tenute e poter così, un giorno, diversificare – oltre che aumentare – la produzione”. E non solo: “Madoka è molto brava a cucinare, sarebbe bello creare una tavola basata sull'extravergine, con tanto di degustazioni guidate, inserendo anche la possibilità di alloggiare in azienda”. Una sorta di agriturismo, dunque, tutto dedicato all'oro verde, “per ora è solo un'idea, ma ci stiamo riflettendo seriamente”.

 

Doganieri Miyazaki | Castiglione in Teverina (VT) | fraz. Vaiano, 3 | tel. 333 2807985 | www.facebook.com/doganierimiyazaki/

 

a cura di Michela Becchi

 

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Guida Oli d'Italia 2017. Ecco tutti i premi speciali

Oli d'Italia 2017. Azienda dell'anno: Agrestis di Buccheri

Oli d'Italia 2017. Frantoio dell'anno: Nicolangelo Marsicani di Morigerati

Oli d'Italia 2017. Miglior monocultivar: Doria di Cassano Allo Ionio

Oli d'Italia 2017. Olivicoltore dell'anno: Frantoio Franci di Castel del Piano

Oli d'Italia 2017. Miglior Dop: Trappeto di Caprafico di Casoli

Oli d'Italia 2017. Miglior olio biologico: Marfuga di Campello sul Clitunno

Oli d'Italia 2017. Miglior monocultivar: Sebastiana Fisicaro Oleificio Galioto di Ferla

Oli d'Italia 2017. Miglior blend: Fattoria Ambrosio di Salento

Oli d'Italia 2017. Miglior performance territoriale: Accademia Olearia di Alghero

Oli d'Italia 2017. Miglior olio biologico: Viola di Foligno

Oli d'Italia 2017. Olivicoltore dell'anno: Fonte di Foiano di Castagneto Carducci 

Olio extravergine di oliva. Glossario essenziale per conoscere l'oro verde

 

 

Bar e Cucina apre a Firenze con chef Matteo Boglione dal mitico Cirque di New York

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Un'altra buona notizia per la ristorazione fiorentina, che acquista un fiorentino di rientro, forte dell'esperienza decennale a New York e nel mondo per la famiglia Maccioni. Lui è Matteo Boglione, già alla guida di Le Cirque, e a Firenze apre Bar e Cucina, in via de' Neri. 

Matteo Boglione. Il ritorno a Firenze

Un incontro non  mai casuale nella vita, c’è sempre un filo sottile che lega i personaggi. Sono due, si chiamano entrambi Matteo e tutti e due sono fiorentini. Ma per scelta hanno lasciato una città sonnacchiosa, a volte chiusa in se stessa, questo almeno 15 anni fa, per trasferirsi a New York, la metropoli che permette di realizzare i sogni. Lavorano entrambi a Manhattan, Matteo Boglione a New York apre un proprio ristorante a Tribeca, che ha un successo quasi immediato grazie ad ottime recensioni del New York Times; poi si mette a girare l’India e gestire, per conto della famiglia Maccioni, i vari locali con l’insegna Osteria del Circo. Erano stati loro a fargli muovere i primi passi nella ristorazione della metropoli e lui li ripaga, con lungo percorso, in Oriente, affascinante e avvincente. Il finale lo rivede nella Grande Mela (da ottobre 2015) diventare lo chef de Le Cirque, primo italiano nella storia del locale fondato da Sirio Maccioni.

Matteo Mechelli, invece, a New York si occupa di operazioni immobiliari e i ristoranti li frequenta spesso, per motivi di lavoro ma anche per passione. Entrambi devono tornare a Firenze, entrambi per motivi familiari, e decidono di unire le forze. La scelta cade su un locale storico della città, il Bar Silvana di via de’Neri, ultima gestione con cucina vegetariana: si tratta di metterci le mani e trasformarlo e su questo si muove bene il Matteo immobiliarista.

Bar e Cucina. Il cibo, i cocktail

Invece il Matteo cuoco comincia a pensare a cosa vorrebbe fare ed ecco quindi l’idea del bancone dove mangiare (ma c'è anche qualche tavolo), da soli che poi diventa facile fare amicizia, una cucina che sia creativa e divertente, dove per ogni piatto si mette in evidenza un singolo ingrediente. E poi, un servizio informale ma professionale, affidato a una vecchia conoscenza della ristorazione cittadina come Alessandro Frassinelli (ex Da Pescatore e Murate, qui socio anche lui del progetto), l’idea di far diventare protagonisti i cocktail anche a tavola. Partono quasi in silenzio, molto in sordina, alla fine di giugno. Un giusto rodaggio per essere pronti a settembre: un menu più facile e veloce a pranzo, ma non certo banale, una scelta maggiore e articolata alla sera. Curiosando in carta, l’influenza americana si trova nelle uova Benedicte, nel Club Sandwich, nella classica Nicoise ma anche nella Caesar Salad o nel Cheeseburger.

La sera, insalata di nervetti con cannellini, baccalà mantecato e cipolle rosse, lo spaghetto al “mio” pomodoro, il vitello tonnato con maionese di capperi, pomodoro arrosto e limone, ma anche la tartare di gamberi rossi con stracciatella, melone, ravanelli e bisque di gusci. Tutti piatti appaganti e intriganti. Si viene anche per un solo piatto (dai 12 ai 18 euro a cena, sui 10 euro in media a pranzo), in un angolo di Firenze invaso dallo street food di tutti i tipi, ma che in questo caso strappa invece un’ora di tranquillità. 

 

Bar e Cucina | Firenze, via dei Neri, 12r | tel. 055 282634 | dalle 11.30 alle 23 | www.barcucina.com

 

a cura di Leonardo Romanelli 

Ricetta per l'estate. Il cetriolo in 3 varianti

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Della stessa famiglia delle angurie, il cetriolo viene spesso associato alle diete depurative. Noi stravolgiamo questo punto di vista e vi regaliamo tre ricette golose da preparare con i cetrioli, ottime per affrontare l'estate.

Appartenente alla famiglia delle Cucurbitaceae (come l'anguria), ricco d'acqua e pressoché privo di calorie, il cetriolo è il classico snack estivo da portarsi al mare così, come madre natura l'ha fatto, o da aggiungere alle insalate, altro must di questa stagione. Eppure questo frutto di origine indiana, ben si presta ad altre preparazioni. Pensiamo per esempio allo tzatziki, al gazpacho, alle acque aromatizzate o ai cocktail, dal Moscow Mule al Gin Tonic. Ecco altre tre ricette che lo vedono protagonista, spiegate passo passo da Camilla, Hiro e Rita Loccisano.

Marmellata di cetrioli

Camilla ci insegna a preparare la confettura di cetrioli, con ginepro e foglioline di menta, perfetta da abbinare ai caprini o per arricchire un fresco gazpacho.

 

Seppia marinata con salsa di cetriolo e germogli

Cetriolo, seppie, acciughe, zucchine, lime, nocciole, paprika, aneto e germogli. Un abbinamento inusuale? No, se a prepararlo è Chef Hiro, che spiega anche come pulire una seppia.

 

Cestini di cetriolo

Se non avete mai sentito parlare di VisualFood, Rita Loccisano vi porta nel mondo dell'intaglio delle verdure per scoprire come ci si possa divertire in cucina realizzando piatti belli e gustosi, come per esempio i cestini di cetriolo farciti con ricotta e caprino.

 

Ricetta per l'estate. I peperoni ripieni in 3 varianti

Ricetta per l'estate. La parmigiana di melanzane in 3 varianti

Ricetta per l'estate. Il cous cous in 3 varianti

 

 

 

Vendemmia al via in Italia. Le prime foto della raccolta

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Sardegna e Sicilia, in contemporanea, danno il via alle danze. Viticoltori in campo con un netto anticipo per le alte temperature di primavera ed estate. L'annata si prospetta di buona qualità e l'Italia dovrebbe conservare la leadership a volumi su Francia e Spagna. 

Prende il via la vendemmia in Italia. A staccare i primi grappoli di questa annata 2017 sono state, in contemporanea, le due isole maggiori, Sardegna e Sicilia: due aree dove una primavera calda e le alte temperature dei mesi di giugno e luglio, accompagnate da precipitazioni scarse, hanno favorito una rapida maturazione delle uve.

la vendemmia 2017 a Dolianova

Sardegna. A dare il via alle danze sono stati, in una suggestiva raccolta notturna a partire dall'una e mezza del mattino, i viticoltori di Cantine di Dolianova, in provincia di Cagliari, una delle più importanti cooperative sarde, che riunisce 350 viticoltori su 1.200 ettari. Nei filari delle campagne del Parteolla, sono stati portati in cantina, con ampio anticipo rispetto agli anni precedenti, i grappoli delle varietà Chardonnay che andranno a costituire le basi spumanti del vino Caralis. Nonostante un lieve calo dei volumi, le uve sono in ottima salute e si prospetta una buona annata, fanno sapere dalla cantina.

la vendemmia 2017 a menfi

Sicilia. Poche ore dopo, nelle campagne di Menfi, in provincia di Agrigento, un'altra grande cooperativa è scesa in campo: Cantine Settesoli, che conta 1.700 soci produttori e 5.500 ettari vitati. In un vigneto di collina in contrada Feudotto, a due chilometri dal mare e ben esposto a sud, sono stati staccati i primi grappoli di Pinot grigio, che serviranno per produrre i vini del brand Settesoli distribuito all'estero e, in particolare, per la linea Inycon. È la prima volta che si raccoglie il 26 luglio, segno che anche in Sicilia l'andamento climatico ha determinato un sensibile anticipo delle fasi fenologiche. Anche in questo caso: uve sane e buone prospettive sul fronte della qualità dei vini.

 

La situazione italiana. Per quella che in Italia viene definita la vendemmia dei cento giorni, visto che si protrae fino a novembre, l'annata 2017 inizia con buoni auspici. Gli effetti delle gelate di aprile in diversi territori settentrionali e la perdurante siccità che ha colpito in particolare le campagne del Centro-Sud non consentiranno di raggiungere i livelli produttivi del 2016, intorno ai 50 milioni di ettolitri di vino. Nonostante il probabile segno meno sui quantitativi, l'Italia, complice un raccolto che si preannuncia tra i più scarsi in Francia e un lieve calo previsto per la Spagna, dovrebbe conservare la leadership mondiale a volumi. I dettagli della situazione nei vari territori italiani saranno illustrati domani sul numero del Tre Bicchieri settimanale, che ha effettuato il suo sondaggio a campione coinvolgendo alcuni dei più grandi consorzi dei vini a Dop.

 

www.cantinedidolianova.it

www.cantinesettesoli.it

 

a cura di Gianluca Atzeni

foto Cantine Dolianova di Gianluigi Deidda, Fabio Angius e Franca Loru

foto Cantine Settesoli di Salvatore Li Petri

 

5 aperture per l'estate romana. Dal Trapizzino Cafè alla cucina d'autore di Greg

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Si è fatto attendere un po', ma alla fine il Trapizzino di Stefano Callegari è arrivato anche a piazza Trilussa, nel cuore di Trastevere. Ma vi segnaliamo anche la cucina mediorientale di Za'atar, i crudi di pesce di Eataly e i cocktail di Sottobanco. Mentre a Tivoli ora c'è Greg, e vale il viaggio.

Il Trapizzino Cafè di piazza Trilussa

Qualche giorno ancora, anzi non è detto che a sorpresa la saracinesca non si alzi già stasera, che Stefano Callegari, quando si tratta di mettersi in gioco, è sempre impaziente di scendere in campo. E allora, per gli amanti del Trapizzino (e chi può resistergli?), ecco in arrivo l'ennesima novità, proprio nel cuore della movida trasteverina. Un anno fa, le prime indiscrezioni davano per assodato l'acquisto di un locale affacciato su piazza Trilussa, l'ex ristorante trattoria Il Fontanone. Poi, a lungo, del progetto non si è più parlato, con Stefano impegnato su più fronti: l'esordio del Trapizzino a New York, la pizzeria Sud del Mercato Centrale di Firenze, la pizzeria sulla spiaggia dei Coqui. Ora invece, mentre gli altri vanno in vacanza, anche il Trapizzino Cafè di Trastevere è pronto ad aprire battenti. L'insegna tradisce la novità, anche se la proposta resterà quella di sempre, con le tasche di pizza ripiene delle farciture prese in prestito dalla tradizione romana (e non solo): il picchiapò, il pollo alla cacciatora, la parmigiana di melanzane, la lingua con salsa verde, il golosissimo panna e alici. E chi più ne ha, più ne metta.  

trapizzino con pollo alla cacciatoraFoto di Nitzan Rubin

A piazza Trilussa, però, si mangia comodamente seduti al tavolo (come nella saletta inaugurata qualche mese fa accanto al primo, storico Trapizzino di Testaccio), anche con servizio: “Al locale si accede anche da via Benedetta, un corridoio separa l'ingresso principale dalla saletta che abbiamo riservato al servizio al tavolo. Per ora si apre 18-2, il mese di agosto sarà di rodaggio. Ma da settembre arriviamo anche con la colazione”. Sì, perché lo spazio che Stefano ha ereditato, ristrutturandolo in stile Trapizzino, sarà anche caffetteria, e proporrà la colazione semplice di una volta: “Niente cornetti, ma fette biscottate in arrivo dal Ghetto, con la marmellata”. Per accompagnare i trapizzini, invece, una selezione di vini laziali (“l'anima resta quella di una vineria popolare”), e un cocktail ideato per l'occasione, il Trasteverino. Appuntamento (da stasera?) in piazza Trilussa 46.

Za'atar. La cucina mediorientale a Testaccio

L'estate romana, però, non è avara di altri nuovi indirizzi da provare. Ancora un po' bisognerà attendere per l'apertura della nuova sede della Gelateria dei Gracchi – oltre al laboratorio di Prati, la trovate in via di Ripetta e viale Regina Margherita - in via di San Pantaleo; a pochi metri, dove un tempo c'era la libreria Gangemi (sigh), un banner annuncia l'arrivo di Pantaleo: food, wine, mixology, anticipa l'insegna. Inaugurazione prevista a settembre 2017. E invece si confronta da un paio di mesi con i gusti della piazza capitolina la cucina mediorientale di Za'atar, in piazza Orazio Giustiniani al Monte dei Cocci di Testaccio. Dietro al progetto, in realtà, c'è la squadra tutta italiana di Luca Piperno e Marco Domenicucci, che nei sapori del Medio Oriente ha intuito una nuova chiave di lettura di un quartiere altrimenti parecchio legato alla tradizione gastronomica romana. In cucina si spazia dall'hummus libanese (ma c'è pure quello con avocado, israeliano) ai gamberi in pasta kataifi, ai sigari di pasta fillo ripieni di agnello, al babaganoush di melanzane, alla tajine marocchina, in un compendio di culture culinarie del bacino mediterraneo e del Nordafrica sahariano, che per secoli si sono intrecciate, contaminate, scambiate segreti e ricette sulla rotta delle spezie (za'atar è il nome di una miscela diffusa in tutto l'ex impero ottomano) e al seguito delle carovane nel deserto. L'allestimento – una cinquantina di coperti tra interno e dehors – l'ha curato la spagnola Elena Piulats, ricercando uno stile coerente con l'obiettivo gastronomico, colonnine che scandiscono lo spazio e accensioni di blu e turchese. A pochi passi, dentro al Mercato di Testaccio, il mitico Sergio Esposito ha raddoppiato il suo Mordi&Vai, la gastronomia take away di cucina romanesca più famosa della città, prendendo il box dirimpetto e così offrendo ai suoi clienti uno spazio dove sedersi per consumare i celebri panini con l’allesso e le altre specialità.

Crudo di polpo da Eataly Roma

Il Crudo di Eataly, i cocktail di Sottobanco

Non molto distante, oltrepassata Piramide in direzione della stazione Ostiense, anche da Eataly è arrivata una piacevole novità per l'estate. Si chiama Il crudo secondo Eataly, il format sul pesce crudo che ha esordito una settimana fa al secondo piano dello store, nell'area pescheria. L'idea è quella di educare alla stagionalità del mare, sostenendo la pesca sostenibile attraverso un Manifesto del crudo, che tutti potranno condividere. Dietro c'è l'executive chef Enrico Panero, che ha curato pure le proposte in carta nel nuovo corner: solo pescato del Mediterraneo (pesci a ciclo vitale breve), nel rispetto delle taglie minime e della filiera corta (dell'argomento abbiamo parlato di recente con Gianfranco Pascucci). Al banco si potrà scegliere il pescato crudo (abbattuto a -20° per 24 ore) servito in piccoli piatti da aperitivo o in versione plateaux, condito con olio extravergine e sale integrale, o nelle marinature proposte, tra salicornia e finocchietto, aceto di lamponi e zenzero.

un cocktail da Sottobanco Roma

Ci spostiamo in zona Cinecittà per l'ultima delle segnalazioni in città. Da qualche giorno, in viale Tito Labieno, ha aperto Sottobanco, ristorante e cocktail bar che concilia le esperienze di una squadra composita. In società, infatti, spunta il nome del Bootleg Cocktail Bar di viale Gottardo, che nel nuovo locale al Tuscolano firma la carta dei miscelati in abbinamento alla proposta gastronomica (ma dietro al banco c'è Francesco de Nicola, del Niji Roma, che porta il suo signature El Solista, twist del Daiquiri). In cucina, invece, si muove il giovane Antonio Emilio Sorrentino, già nella brigata di Quique Dacosta a Denia e Paolo Trippini, a Civitella del Lago, e le proposte spaziano dalla Carbonara sfumata con scotch torbato e menta al polpo in olio cottura su salsa di insalata di mare e riduzione di Campari. Si beve e si mangia anche al banco, e nel dehors su strada. Solo a cena (dalle 19).

Foto di Alberto Blasetti. Piatto di Greg Ristorante: agnello con melanzane, mandorle e aliciAgnello con melanzane, mandorle e alici. Foto di Alberto Blasetti

Greg a Tivoli

Completata la rassegna cittadina (per ora, ma presto ne sapremo di più visto che il settembre si preannuncia pieno di novità), ci spostiamo di qualche decina di chilometri, direzione Tivoli, la superba, come la definì Virgilio. Qui ha da poco inaugurato Greg Ristorante (dallo scenografico ponte Gregoriano che si attraversa per arrivarci), frutto della scommessa dei soci Mauro Mattucci, patron del locale Ape50, sempre a Tivoli, e i fratelli Piccone, imprenditori nel settore delle costruzioni. Una scommessa che, si può dire, è già vinta. Le premesse, per trasformare Greg in una meta gourmet ci sono tutte: dall'affaccio sulle cascate di Villa Gregoriana e sul tempio della Sibilla al design curato da Antonella Argenti, tra originali lampade e una carta da parati su misura che riproduce foto scattate nei giardini circostanti, alla proposta gastronomica curata in tutto e per tutto dal giovane chef abruzzese Pierluigi Gallo, alle spalle una gavetta da fare invidia ai veterani. Cresciuto nel ristorante di famiglia, vicino Vasto, Pierluigi apre ben presto un ristorante tutto suo, l’Osteria del Gallo, con 25 coperti, un camino per la brace e un bancone per il taglio della carne. Non contento, però, decide di crescere ulteriormente sotto la guida attenta di Niko Romito, prima tra i “banchi” della scuola di formazione, poi nella brigata del Reale e infine nella squadra di Spazio, a Rivisondoli. Romito, non è l'unico maestro: lungo il percorso del giovane chef, si avvicendano Riccardo di Giacinto Anthony Genovese. Oggi, Gallo è maturo e convince con una cucina legata al territorio e creativa al punto giusto. Nel menu, trota affumicata, salsa alla cacciatora di pollo e fagiolini; animella al curry, crema di riso e cipolla rossa all'agro; quaglia, cicoria, fichi e camomilla. Tra i primi, consigliamo assolutamente le tagliatelle con ricci di mare e cannolicchi e la pasta fredda Gentile con ceci, anguilla e gamberi di fiume. Tecnica e creatività anche per i secondi: dal baccalà con spuma di ventricina, bufala e lattuga, all'agnello con melanzane, mandorle e alici. Da gustare anche nel dehors. Se invece cercate una cosa meno impegnativa provate la carne alla griglia (lo chef si diletta con carni dalla lunga frollatura) o accomodatevi nel Greg Cocktail Bar, l'altra anima “miscelata” della struttura, dove è possibile gustare sushi e cocktail.

 

Trapizzino Cafè | Roma | piazza Trilussa, 46 | www.trapizzino.it

Gelateria dei Gracchi | Roma | via di San Pantaleo, 61 | prossima apertura

Za'atar | Roma | piazza Orazio Giustiniani, 2 | tel. 06 5741382 | www.zaatar-roma.it

Il Crudo secondo Eataly | Roma | Eataly, piazza XXI Aprile | www.eatalyroma.it

Sottobanco | Roma | viale Tito Labieno, 108-110 | tel. 06 91939831

Greg | Tivoli (RM) | piazza Rivarola, 21 | tel. 0774 016882 | www.gregristorante.it

 

a cura di Livia Montagnoli e Annalisa Zordan

foto di apertura: Alberto Blasetti

Nasce la Tiramisù World Cup a Treviso. Quale sarà il migliore del mondo?

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L’idea della competizione riservata ai non professionisti nasce a Treviso, che rivendica la paternità di uno dei dolci più celebri della pasticceria italiana nel mondo. Nella cittadina veneta il dolce al cucchiaio sarebbe stato inventato negli anni Settanta, al ristorante Le Beccherie. Il 4 e 5 novembre 60 sfidanti sono chiamati a confrontarsi con la ricetta, originale o creativa. Per eleggere il campione del tiramisù. 

La “vera” storia del tiramisù

Fai “davvero” il tiramisù più buono del mondo? La domanda non lascia adito a dubbi, e solletica quell'orgoglio nazional popolare che tutti condividiamo quando si tratta di rivendicare la paternità della miglior ricetta di questo o quel piatto tipico della tradizione gastronomica italiana. Sul tiramisù, non a caso, le interpretazioni si sprecano, come del resto sulla presunzione di territorialità dell'invenzione originale. Per indagare in merito, al confine tra leggenda e realtà, un anno fa Clara e Gigi Padovani hanno scritto un libro, Tiramisù (2016, edito da Giunti), cercando di ricostruire la vera storia del dolce conteso tra Friuli Venezia Giulia e Veneto. E da qualche tempo a questa parte, la passione trasversale per uno dei dolci al cucchiaio più amati di sempre - copiatissimo anche all'estero - ha finito per incentivare l'apertura di locali tematici nelle grandi città (a Roma segnaliamo l'esperienza di Zum, a pochi metri da Campo de' Fiori). La notizia della prima edizione della Coppa del mondo di Tiramisù, invece, arriva proprio da Treviso, che del dolce a base di uova, mascarpone, savoiardi e caffè è considerata da molti la città elettiva. Nell'intenzione dei suoi organizzatori (la knowledge company Twissen), la Tiramisù World Cup vuole essere un omaggio alla città che negli anni Settanta ha tenuto a battesimo il dessert, nelle cucine del ristorante Le Beccherie di Treviso.

 

La sfida a Treviso

Ecco allora l'idea di una sfida aperta esclusivamente agli amatori, chiamati a confrontarsi su due fronti: la giuria mista costituita da esperti del settore e pubblico intervenuto alla manifestazione (in parti uguali: un giudice nominato dall'Accademia, un foodblogger e due selezionati dal pubblico) premierà chi meglio interpreta la ricetta originale (stabilita dall'Accademia della Cucina Italiana: uova, mascarpone, savoiardi, zucchero, caffè e cacao), ma anche l'ideatore della variante più creativa, in grado di non snaturare la natura del tiramisù. Nel secondo caso gli ingredienti aggiuntivi possono essere tre al massimo (ma non alcol), e i savoiardi possono essere sostituiti con altri biscotti. La competizione si articolerà in due fasi: le iscrizioni sono già aperte sul sito dell'iniziativa, ma solo nel weekend del 4 e 5 novembre si terranno gli scontri diretti in cinque diversi luoghi della cultura della provincia trevigiana, da Villa Emo al Castello Giustinian, con il patrocinio del Comune di Treviso. I concorrenti saranno divisi in batterie da 15, in 4 gare articolate nel corso della giornata, per un massimo di 60 partecipanti; chi vince, uno per categoria, avrà accesso alle semifinali.

Quindi tutti possono partecipare aderendo tramite il modulo online (ma i posti sono limitati: 20 euro per l'acquisto del cosiddetto coupon, che dà diritto a un pettorale, un grembiule, agli ingredienti della ricetta originale. Il kit si ritira tra il 30 ottobre e il 3 novembre nelle sedi indicate), e poi registrandosi il giorno della vigilia, venerdì 3 novembre, presso la Loggia dei Cavalieri di Treviso, che domenica 5 ospiterà anche la sfida tra i finalisti, prima della proclamazione dei vincitori della coppa. Il progetto è in nuce, e muove i primi passi con l'edizione trevigiana. Ma per il 2018 già si scommette su tre selezioni internazionali, che coinvolgano Usa, Giappone e Russia. La risonanza del brand fa ben sperare che la competizione sarà un successo.

 

www.tiramisuworldcup.com

 

a cura di Livia Montagnoli

La liquirizia Amarelli apre uno store multimediale. Orgoglio della Calabria che va

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Amarelli vuol dire liquirizia, valori di famiglia, capacità di fare impresa, made in Italy che sa farsi valere nel mondo. Sapienza artigianale e tecnologie all'avanguardia al servizio di una produzione che celebra il territorio calabrese. Tutto questo sarà raccontato nel nuovo Factory Store di Rossano. Se Willy Wonka avesse preferito la liquirizia al cioccolato, forse l'avrebbe immaginata così. 

Amarelli. Una storia di famiglia, da 11 generazioni

Se Rossano Calabro oggi è conosciuta in tutto il mondo non è solo per la bellezza della costa affacciata sullo Ionio, o per la sua suggestiva posizione di cesura tra mare e monti (quelli della Sila). Patrimonio storico e paesaggistico di quella Calabria recentemente eletta dal New York Times meta imprescindibile del viaggiatore che sa curiosare fuori dalle solite rotte, Rossano è pure la città della liquirizia. E di Amarelli. Qui, nel 1731, nasceva la prima proto-impresa dedicata alla commercializzazione su vasta scala delle pastiglie nere e brillanti ottenute dall'estrazione del succo dalla radice di liquirizia; e dall'antico “concio” settecentesco la storia della famiglia Amarelli, oggi ancora saldamente alla guida dell'azienda, evolveva verso il successo planetario del brand. Nel 1919 le prime scatolette in metallo porta-liquirizie, diventate oggetto di culto (e recentemente reinventate nella grafica da Controlzeta Lab): oggi se ne vendono 3 milioni di pezzi ogni anno. Poi lo sviluppo degli impianti produttivi, verso una modernizzazione rispettosa della sapienza artigianale, che al perfezionamento continuo di tecnologie all'avanguardia fa corrispondere il controllo rigoroso del mastro liquiriziaio. Le conquiste degli ultimi tre secoli di attività sono raccontate al Museo della Liquirizia Giorgio Amarelli – 60mila visite ogni anno - che dal 2001 affianca la sede storica della famiglia, nel palazzo quattrocentesco di Contrada Amarelli. L'allestimento, uno dei più riusciti percorsi museali per originalità della proposta e capacità di raccontarla (insignito pure del Premio Guggenheim Impresa e Cultura), coniuga Galleria del Passato e Galleria della modernità, con l'idea di condurre il visitatore attraverso oggetti e testimonianze di un passato lontano (già nel XVI secolo la famiglia commercializzava radici di liquirizia, che crescevano in abbondanza nei suoi latifondi) ed espedienti multimediali di supporto alla narrazione.

il Factory store Amarelli, l'entrata

Il nuovo Factory Store. Impresa e territorio

Tra qualche giorno però, l'esperienza di chi arriva in Contrada Amarelli potrà godere di un nuovo spazio, l'ultimo tassello di un progetto destinato a celebrare il territorio calabrese, la sua operosità e l'attitudine a fare impresa sostenibile della famiglia Amarelli, attenta ad aprirsi al mondo (oggi le sue liquirizie sono presenti in tutte le filiali di Eataly, e all'interno di Fico Eataly World l'azienda avrà la sua “fabbrica”) senza perdere il contatto con le proprie “radici”. Appena presentato in conferenza stampa, da domenica 30 luglio il nuovo Factory Store Amarelli sarà regolarmente aperto al pubblico: “Si tratta di una vera rivoluzione 4.0, un grande open space improntato alla modernità e all'esperienza multisensoriale, di collegamento tra il Museo e l'azienda”, racconta orgogliosa Pina Amarelli, che è la memoria storica del gruppo, oggi guidato da Fortunato (11 le generazioni che si sono avvicendate nei secoli). Lo spazio è stato progettato dall'architetto Geo Lanza, che è docente di retail design allo IED di Milano, con cui Amarelli ha avviato da tempo una proficua collaborazione, che stimola gli studenti a partecipare al processo di rinnovamento del brand, in vista della realizzazione di un flagship store da esportare in altre città d'Italia, e nel mondo. L'esordio del Factory Store di Rossano segna proprio il primo passo verso l'internazionalizzazione di Amarelli, e lo fa partendo da casa, “per dare un segnale forte della nostra presenza sul territorio. Siamo consapevoli del ruolo sociale dell'impresa: l'impresa è il territorio, deve saper mantenere viva la tradizione, sapersi rinnovare, interagire con gli stakeholder locali”.

amarelli, il logo

Retail, didattica, punto ristoro. La liquirizia protagonista

E infatti il cantiere dello store, realizzato con materiali all'avanguardia, ha beneficiato della competenza delle maestranze calabresi e delle imprese artigiane locali, che hanno lavorato al progetto “nel rispetto della nostra filosofia aziendale”. Dunque l'ambiente sarà spazio espositivo per i prodotti Amarelli, negozio e area didattica, con totem multimediali e allestimenti che arricchiscono l'esperienza museale. Suggestivo anche l'interior design, omaggio ai colori della liquirizia nelle sue molteplici fasi di lavorazione, dal beige chiaro del gelato alla liquirizia al nero brillante delle pastiglie per il soffitto, al marrone tonaca di monaco della liquirizia in cottura per il pavimento in resina. “Io lo definisco un modo post industriale di valorizzare la nostra storia e promuovere i prodotti Amarelli, dove il reale e il virtuale si incontrano, partendo dalla produzione per arrivare all'e-commerce” ribadisce Pina. Altro elemento di suggestione, il profumo di liquirizia che accompagna chi si muove nello store, ricreato attraverso tecnologie all'avanguardia. E pure il bel cortile esterno, un piccolo giardino nel chiostro dov'è stato ricavato un punto ristoro, per la vendita di gelati e altri prodotti freschi. “Questo è un inizio, partiamo dal Sud con l'idea di arrivare lontano. Forse a Milano, per cominciare, e poi chissà, la nostra crescita è costante, vogliamo investire sul valore della Calabria”. Le sfide non hanno mai spaventato la famiglia Amarelli.

 

Factory Store Amarelli | Rossano (CS) | Contrada Amarelli, S.S. 106 | dal 30 luglio 2017 | www.amarelli.it

 

a cura di Livia Montagnoli


I migliori ristoranti del litorale romano. Dove mangiare fra Ostia e Civitavecchia

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Sul tratto di costa che da Ostia si estende fino a Civitavecchia, a nord di Roma, la ristorazione vive un momento di grande fermento. Si rinnovano le formule, aumentano le insegne e le proposte si fanno sempre più golose. Ecco i migliori 25 indirizzi per mangiare bene in riva al mare.

Un pranzo vista mare o una cena romantica a un passo dalla spiaggia? Durante l'estate le tavole nelle località balneari sono meta di tanti appassionati che arrivano anche dalle città vicine. Nel caso di Roma, per esempio, mangiare al mare è un appuntamento irrinunciabile per molti. Complice anche la varietà di proposte: c'è la cucina tipica della costa - semplice, a base di pesce povero e ricette antiche - ma non mancano tavole d'autore, insegne di street food, pizzerie e locali innovativi. La ristorazione balneare infatti, sta crescendo: ecco come si presenta, nell'estate 2017, il tratto che da Ostia arriva fino a Civitavecchia.

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Ostia: la periferia da scoprire

Partendo da Ostia, fra i ristoranti più interessanti della zona spicca Red Fish, la scommessa di Emiliano Moretti che ha scelto una formula varia e di qualità, affidandosi alle mani dello chef Antonio Gentile, che si è fatto le ossa nella squadra di Heinz Beck. L'insegna si distingue facilmente, per la cura di ogni piatto e la selezione attenta delle materie prime, in un panorama che ancora fatica a emergere per l'offerta gastronomica, nonostante vi si annidi un buon potenziale, ancora in parte inespresso. Tra i locali più recenti c'è quello che occupa lo spazio che era, fino a un anno fa, del Tino (oggi a Fiumicino), tra le insegne trainanti della scena gastronomica locale nelle ultime stagioni: Molo Diciassette di Simone Curti (in cucina) e Fabrizio Moscara (in sala) è una tavola basata sui prodotti ittici ma che non rinuncia a qualche piatto di terra, da scegliere alla carta o provare nel menu degustazione. Da un'insegna recente a una storica: dagli anni '30, La Vecchia Pineta mantiene il suo stile classico, fra sauté di vongole e cozze e spaghetti con le telline, grigliata mista e frittura in una cucina aperta tutto l'anno.

Dinamica e fresca invece, l'offerta del giovane Emanuele Landi, ideatore dell'enoteca con cucina Landi Degustazione e Mescita, in pieno centro di Ostia. A pranzo, si può scegliere fra una serie di piatti golosi, mentre la sera è la formula aperitivo quella vincente, con taglieri di salumi e formaggi di prima qualità e vini selezionati attentamente dal proprietario. Per gli amanti dell'arte bianca, indirizzo imperdibile (solo per l'estate) è Seu al Plinius, ultima avventura gastronomica del pizzaiolo romano Pier Daniele Seu, che ha scelto di portare nel suo quartiere il gusto delle pizze a degustazione, in uno degli stabilimenti più frequentati del litorale, il Plinius. Insolita nell'offerta l'insegna di piazza Quarto dei Mille, La Gnoccheria, che lascia da parte il pesce fresco locale per proporre la vera cucina emiliana.

Fiumicino, fra alta cucina e street food

Pochi chilometri più a Nord, a Fiumicino, gli indirizzi aumentano: la ristorazione in questa zona, infatti, si è sviluppata molti anni prima rispetto a Ostia, richiamando i romani più golosi anche nella stagione invernale. Punta di diamante qui è Pascucci al Porticciolo, la creatura dello chef Gianfranco Pascucci, che dal 2000 ha puntato tutto sulla migliore materia prima ittica, anche povera, mai d'allevamento, lavorata con tecnica e creatività, e con un servizio all'altezza della grande tavola, meritando le Tre Fochette.

Intanto, a un anno dal trasloco, il Tino di Lele Usai prosegue a gonfie vele, fra piano terra adibito a bistrot, dove sostare per un pranzo di tradizione con tocchi d'autore, e la sala superiore, per menu degustazione più ampi, accompagnati da una carta dei vini di spessore. Nella centrale via della Torre Clementina c'è L'Osteria dell'Orologio, il locale di Marco Claroni che continua a proporre una cucina godibile, essenziale ma mai banale. Spostandosi, invece, verso Maccarese, vale la pena una sosta al San Giorgio, a ridosso del Castello, che mette a segno una cucina di carne e pesce con classici rivisitati in chiave moderna e una giusta spinta creativa.

A condividere con Claroni la strada e la stessa passione per i prodotti di qualità, la Pizzeria Sancho, storica insegna di pizza a taglio a gestione familiare. Sono i fratelli Andrea ed Emiliano, insieme a papà Franco, a mandare avanti l'attività, fra classici intramontabili come la margherita, e creazioni originali come la Lasagna con ragù di carne. Per gli amanti della birra, di fronte all'ingresso del cinema di Parco Leonardo, Beerland offre panini di buona fattura e una selezione di etichette artigianali provenienti da tutto il mondo. Non manca, infine, un punto di riferimento per i golosi: è la pasticceria Patrizi, nata alla fine degli anni '50 e gestita da Arcangelo, che si destreggia fra torte, crostante, mignon e lieviti, specialità della casa.

Fregene: la cucina d'autore negli stabilimenti

Mai come nel caso di Fregene, la ristorazione degli stabilimenti balneari ha dimostrato di poter essere gourmet. Si parte dal celebre Albos Club da Rosario, dove la bella tavola di Rosario Malapena, separata dalla gastronomia destinata ai bagnanti, è tutta basata sul pescato del giorno e materie prime di qualità. Sempre all'interno dell'Albos Club, si trova il temporary restaurant Rosmarino, format già collaudato la scorsa estate che comprende caffetteria (con prodotti del forno Roscioli) e cucina coordinata dallo chef Pasquale Torrente. Altra spiaggia da non perdere è La Baia, dove l'omonimo ristorante attrae appassionati in qualsiasi stagione, con piatti nuovi, proposte intriganti e sapori in grado di accontentare il palato di tutti. Fra Champagne e vini d'autore, lo stabilimento gestito da Benny Gili può contare ormai su una clientela fedele e consolidata. Nelle ultime stagioni, inoltre, c'è una doppia offerta, con il chiosco in mezzo alla spiaggia gestito dal team di Remigio – Champagne e vino.

Si sono fatti trascinare dal fermento della ristorazione di Fregene anche Stefano Callegari e Flavio al Velavevodetto, che hanno inaugurato I Coqui, che coniuga pizza di qualità alla cucina romana più tradizionale all'interno dell'ex stabilimento il Gabbiano, sotto la gestione di Rosario dell'Albos. C'è poi anche chi sceglie di rimanere lontano dalla battigia, e di rischiare in una via nascosta, come Hand Made, ristorante dove tutto è fatto in casa e con una carta dei vini quasi tutta incentrata sulle aziende biologiche.

Ladispoli: la ristorazione d'albergo

Proseguendo verso Nord, a Ladispoli sono gli hotel a ospitare alcuni dei locali migliori della zona. In particolare, è il The Cesar dell'Hotel La Posta Vecchia, all'interno di un'esclusiva villa seicentesca, a tenere alta la bandiera della ristorazione locale. In cucina lo chef Antonio Magliulo propone piatti di tecnica precisa e impronta mediterranea, realizzati a partire da materie prime fresche e di stagione. Nello stesso comune, a Marina di Palo, l'hotel Alle Tamerici offre una tavola di mare creativa e gustosa con l'Officina Gastronomica alle Tamerici, uno spazio che unisce i sapori di una volta al gusto più contemporaneo attraverso menu articolati e studiati ad hoc.

Santa Severa e Santa Marinella

Continuando a seguire la costa verso Santa Marinella, fra i principali centri balneari romani, è d'obbligo una tappa al Castello di Santa Severa, uno dei luoghi più suggestivi del territorio laziale. Dopo una visita al Castello, per rifocillarsi dalla gita c'è la cucina golosa e senza fronzoli de L'Isola del Pescatore, che conta su una posizione favorevole, proprio sul mare.

A Santa Marinella invece è la pizza a taglio a far parlare di sé, in particolare quella de I Peperoncini, locale gestito dalla coppia Pierluigi Settimi e Stefania Di Milla. Pizza alla pala, a lunga lievitazione, con condimenti che cambiano a seconda della stagionalità e disponibilità degli ingredienti, che offre anche l'opzione a portar via.

Civitavecchia, fra cucina classica e gelato naturale

Si conclude a Civitavecchia l'itinerario gastronomico sulla costa capitolina, ultima sosta prima di sfociare nella provincia di Viterbo. In questa zona di passaggio che può contare sul flusso continuo di passeggeri, in partenza o in arrivo dal porto, l'indirizzo più interessante è quello de La Bomboniera, tavola a gestione familiare che da anni mantiene uno standard di livello con i suoi piatti tradizionali, semplici e di buona fattura. Più recente invece è La Luna sul cucchiaio, inaugurata la scorsa primavera, un format fresco e nuovo ancora da scoprire completamente ma che promette bene, con piatti creativi e moderni, un menu dinamico e una carta dei vini adeguata. Per un boccone prima della partenza, proprio fronte porto, c'è Il Pesce in bottiglia, tavola che valorizza il pescato del giorno con piatti classici ben realizzati e crudi d'eccezione. Per concludere con una nota dolce, da non perdere il gelato di Armonia e Poesia, bottega dell'artigiano Ermanno Di Pomponio, che propone gusti 100% naturali preparati con materie prime ricercate, biologiche e biodinamiche.

GLI INDIRIZZI

Albos Club da Rosario | Fregene | lungomare di Levante, 52 | tel. 06 66560539 | www.albosclub.it/

Armonia e Poesia | Civitavecchia | via Bramante, 48 | tel. 389 4655883 | www.facebook.com/NumaPomponio/

Beerland | Fiumicino | via Gian Lorenzo Bernini | tel. 06 65004463 | www.beerlanditalia.it/store-locator/punti-vendita/fiumicino-cc-parco-leonardo

I Coqui | Fregene | lungomare di Levante, 7 | tel. 06 6680975 | www.facebook.com/Coqui-Beach-Fregene-191859217516728/

Il Pesce in bottiglia | Civitavecchia | lungo Porto Gramsci, 137 | tel. 07 66220699 | www.ilpesceinbottiglia.com/

Il Tino | Fiumicino | via Monte Cadria, 127 | tel. 06 5622778 | www.ristoranteiltino.com/

I Peperoncini | Santa Marinella | via della Libertà, 5 | tel. 07 66511035 | www.facebook.com/pages/Pizzeria-I-Peperoncini/530450613780847

La Baia | Fregene | via Silvi Marina, 1 | tel. 06 66561647 | www.labaiadifregene.it/

La Bomboniera | Civitavecchia | corso Guglielmo Marconi, 50 | tel. 07 6625744 | www.labomboniera.info/home-977.html

La Gnoccheria | Ostia | piazza Quarto dei Mille, 9/D | tel. 393 2845300 | www.facebook.com/la.gnoccheria/

La Luna sul cucchiaio | Civitavecchia | piazza Aurelio Saffi, 26 | tel. 07 6633421 | www.lalunasulcucchiaio.it/

Landi Degustazione e Mescita | Ostia | via Claudio, 28 | tel. 06 56305565 | www.facebook.com/LANDI-Degustazione-e-Mescita-619539118125773/

La Vecchia Pineta | Ostia | piazzale dell' Aquilone, 4 | tel. 06 56470282 | www.facebook.com/pages/Ristorante-La-Vecchia-Pineta/205314536174079

L'Isola del Pescatore | Santa Severa | via Cartagine, 1 | tel. 07 66570145 | www.facebook.com/Lisola-del-pescatore-530030927156069/?rf=182747058429163

L'Osteria dell'Orologio | Fiumicino | via della Torre Clementina, 114 | tel. 06 6505251 | osteriadellorologio.net/

Molo Diciassette | Ostia | via dei Lucilii, 17 | tel. 06 5624278 | molodiciassette.it/

Officina Gastronomica alle Tamerici | Ladispoli | via dei Delfini, 13 | tel. 06 99220675 | www.alletamerici.it/it/ristorazione/

Pascucci al Porticciolo | Fiumicino | viale Traiano, 85 | tel. 06 65029204 | www.pascuccialporticciolo.com/

Pasticceria Patrizi | Fiumicino | via Giovanni Battista Grassi, 6 | tel. 06 6505200 | www.pasticceriapatrizi.it/

Red Fish | Ostia | corso Duca di Genova, 22 | tel. 06 45470650 | www.ristorantered.com/

Rosmarino | Fregene | lungomare di Levante, 42 | tel. 366 9020495 | www.facebook.com/rosmarinofregene/

Sancho | Fiumicino | via della Torre Clementina, 142 | 338 8931807 | www.facebook.com/PizzeriaSancho1969/

San Giorgio | Fiumicino | loc. Maccarese - piazza dalla Pace, 9 | tel. 06 66579054 | www.sangiorgiomaccarese.it/

Seu al Plinius | Ostia | lungomare Carlo Duilio, 6 | tel. 327 4137031 | www.facebook.com/pages/SEU-Al-Plinius/416592825393380?hc_ref=ARQeRAckKTL-vrN2_oUzrCBZhDtlgYWPW2Dwe_exz4Yi1Ys890pqmcGNp61eechOsUY

The Cesar dell'Hotel La Posta Vecchia | Ladispoli | strada ciclabile Palo Laziale | tel. 06 9949501 | www.facebook.com/pages/Ristorante-The-Cesar/374197025980214

a cura di Michela Becchi

Lo chef degli Oscar apre un ristorante a Los Angeles. Ecco The Rogue di Wolfgang Puck

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Un concetto innovativo di ristorazione, un laboratorio creativo, che non prevede né un menu né una sala. Vi presentiamo il nuovo progetto dello chef Wolfgang Puck: The Rogue, a Los Angeles.

Uno dei suoi sogni nel cassetto è sempre stato quello di un luogo che regalasse un bagaglio di esperienze e nuovi stimoli, sia agli chef che ai clienti in sala. Wolfgang Puck, lo star chef di Hollywood che celebra quest'anno il 35 esimo anniversario del suo iconico due stelle Michelin Spago di Beverly Hills, ha realizzato questo sogno e l'ha chiamato The Rogue, “la bozza”.

Wolfgang Puck, lo chef austriaco che dal 1994 è il cuoco ufficiale della cena di gala dei premi Oscar

La storia di Wolfgang Puck

Di origine austriaca, impara a cucinare da Raymond Thuilier a L'Oustau de Baumanière in Provenza, all'Hotel de Paris di Monaco e al Maxim's Paris. Una volta trasferitosi negli Stati Uniti, rimane due anni a La Tour di Indianapolis, per poi diventare chef e co-proprietario del Ma Maison a Los Angeles. Ma è nel 1982 che apre finalmente il suo primo ristorante, Spago, insieme alla futura moglie Barbara Lazaroff. In poco tempo, grazie alla sua cucina e allo spirito imprenditoriale, Puck diventa un punto di riferimento a Beverly Hills, decidendo così di dar vita alla Wolfgang Puck Companies: un impero con oltre venti ristoranti, servizi di catering e merchandising collegato al nome Puck, compresi i libri di cucina. La sua fama cresce quando, nel 1994, viene nominato cuoco ufficiale durante la cena di gala dei premi Oscar. La partecipazione a diverse serie tv, come Frasier, Hell's Kitchen e Masterchef, fanno il resto. Eppure, nonostante una carriera da numero uno, Wolfgang Puck non si è fermato e si è rimesso in gioco con The Rogue, un concetto innovativo di ristorazione, un laboratorio creativo più che un ristorante.

Chef che cucinano al Rogue di Los Angeles

The Rogue, il nuovo locale di Wolfgang Puck a Los Angeles

Un locale che lo chef austriaco descrive come “un luogo sperimentale dove io, i miei chef e i colleghi che vengono a trovarmi da tutto il mondo, possiamo sviluppare nuove idee, esplorare nuove tecniche e stili di servizio, lontano dalla routine quotidiana di un ristorante”. E di “routine da ristorante” Puck ne sa qualcosa, visti gli oltre 20 locali sparsi negli Usa, nei quali lo chef trascorre il 90 per cento del suo tempo. Dunque, qual è la novità di The Rogue? Non c'è un menu, né una carta dei vini, e non c'è nemmeno una sala di servizio. È più simile ad un appartamento di lusso, all’interno del Pacific Design Center Blue Building su Merlose Avenue, a Los Angeles, con un salotto, una cucina con bancone a vista e un terrazzo con tramonto californiano incluso. Solo 8 coperti per sera, solo 4 sere a settimana, da mercoledì a sabato. Inutile dire che, a pochi mesi dall’apertura (il primo servizio, ad aprile), è già tutto sold out fino al prossimo autunno.

Chef che prepara il gambero avvolto nel lardo caramellato

Il format di The Rogue

Gli ospiti prenotano il loro posto, ma non conosco il menu fino al momento della cena: devono essere disposti ad assaggiare le portate degli chef alla cieca, dato che i piatti vengono presentati durante le fasi, live, di completamento e impiattamento. Tuttavia, nessuna descrizione a parole rende giustizia all’intera esperienza. Esperienza che comincia nella hall del Pacific Design Centre, dove il manager David Evers recupera gli ospiti, per accompagnarli direttamente in quel che appare come un appartamento. L’ingresso è modesto, si attraversa un corridoio e si arriva in un salottino, arredato in modo curato e intimo. Divani in pelle, tavolini, lampade di design, luci soffuse, un piccolo bar dove viene servito il cocktail e un paio di amuse bouche. L'atmosfera è informale e ti dà modo di conoscere gli altri ospiti, come fosse un primo appuntamento. Una volta rotto il ghiaccio, ci si accomoda tutti nella Test Kitchen di Wolfgang Puck, dove predomina un bancone d’acciaio nel quale ci si accomoda. Lo chef executive è Alan Latourelle, è lui che supervisiona il laboratorio creativo e lavora a stretto contatto con il team e gli chef ospiti.

{gallery}Menu Rogue{/gallery}

Il menu di dieci portate che cambia ogni sera

Durante la nostra cena, sono quattro gli chef protagonisti, che di volta in volta raccontano le loro creazioni, rispondendo a qualsivoglia domanda. Per un totale di dieci portate che cambiano quotidianamente. Noi cominciamo con il gambero avvolto nel lardo caramellato con il cannello, e aromatizzato con scorza e succo di calamansi, un agrume di origine filippina. E il chawanmushi, un budino giapponese a base di latte e uova, accompagnato dal Silver Ear (Tremella fuciformis) fungo di origine cinese, di colore chiaro, molto simile a un'alga per sapore e consistenza, e da scaglie di Tête de Moine. Si continua con le sei portate principali: un trancio di black sea bass (Perchia striata), un pesce oceanico servito con crescione e salsa a base di tuorlo; aliotide (mollusco comunemente detto orecchia di mare del Pacifico) con papaia, chili thailandese e nuoc cham, ovvero una salsa vietnamita a base di lime e zenzero; capesante con rafano e tomatillo, il pomodoro verde messicano dalla polpa solida e lievemente piccante; granchio reale con fondo di asparagi bianchi, yuzu e sfilacci di jamon iberico; crusca di avena risottata con bacon dashi (un brodo di bacon affumicato tipico della cucina vietnamita), funghi enoki e uovo di quaglia all’occhio di bue; chicken oysters (ostriche di pollo, ovvero i filamenti di carne sovra coscia) servite con cinnamon cap mushrooms, un fungo simile al chiodino. Come pre-dessert, una crema di tofu con pitaya e ciliegie e infine il dessert a base di Dragon’s beard, caramelle cinesi fatte con zucchero filato e ripiene di pasta di mandorle, accompagnate con spuma di cocco e gelsi. Ogni portata viene raccontata e realizzata davanti agli ospiti. E rappresenta un momento di crescita anche per gli stessi chef, che qui hanno la possibilità di ricevere un feedback immediato da parte dei commensali. Come conferma Wolfgang: “La mia speranza è che ogni chef che partecipa a The Rogue se ne vada con nuove idee e nuovi stimoli, dati magari dagli stessi ospiti. L'ambiente intimo aiuta un sacco, così come l'approccio diverso allacucina che accomuna molti giovani chef, i quali hanno basi classiche (per me indispensabili), senza però disdegnare la complessità e la diversità. Oggi più che mai, uno chef deve essere avventuroso e aperto a esplorare nuove frontiere”.

 

The Rogue | West Hollywood | Melrose Avenue, Blue Building Suite B315 | rogue-exp.com

 

a cura di Laura Donadoni

 

E Gualtiero Marchesi si inventa la casa di riposo per chef anziani (ma non per lui!)

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Sorgerà a Varese, nel parco della Fondazione Molina, e concretizza un sogno nel cassetto dello chef, che a 87 anni compiuti continua a profondere impegno nella valorizzazione della cucina italiana. E del mestiere che gli ha cambiato la vita. Casa di riposo per gli chef e scuola di formazione per giovani volenterosi saranno pronte tra un anno. 

Il sogno nel cassetto di Gualtiero Marchesi

Formazione e ispirazione artistica sono da sempre due pilastri nell'approccio alla cucina di Gualtiero Marchesi; il Maestro della cucina italiana, non a caso, che con l'arte e le sue molteplici espressioni ha avuto a che fare per tutta la vita, in ambito professionale e negli aspetti più privati del suo percorso di crescita, al fianco sua moglie Antonietta Cassisa (recentemente scomparsa), pianista. E alla musica Marchesi è molto legato, lui stesso affascinato dal pianoforte, con un sogno nel cassetto che ora, a 87 anni, ha tutta l'intenzione di trasformare in realtà, ispirato da un esempio che gli è caro, la Casa di Riposo Giuseppe Verdi di Milano, ultimo ritrovo per gli ex musicisti che vogliono trascorrere la vecchiaia insieme a chi ha condiviso con loro passioni e carriera. L'idea, è quella di realizzare uno spazio altrettanto confortevole riservandolo ai “cuochi veri”, quelli che per tutta la vita hanno lavorato in cucina, e ora custodiscono un bagaglio di esperienze che sarebbe ingiusto sprecare: casa di riposo per ex chef, da un lato, scuola di formazione per giovani di belle speranze dall'altro, perché il ruolo pedagogico del cuoco e il valore dell'insegnamento possano rappresentare uno snodo centrale nella trasmissione del sapere gastronomico. Un sogno ambizioso, dicevamo, ma prossimo a concretizzarsi, grazie all'accordo raggiunto con la Fondazione Molina, onlus di Varese che opera nel settore dell'assistenza agli anziani.

 

La casa di riposo per chef alla Fondazione Molina

La Fondazione in questione dispone, poco fuori dalla città, di alcuni edifici nel verde – uno già destinato all'ospitalità per la terza età – che potrebbe rispondere alle esigenze della Fondazione Marchesi, con cui negli ultimi giorni è stata ratificata una lettera di intenti. Proprio nella città che da tempo è sede di un “contenzioso” circa l'affidamento a Marchesi di Villa Mylius, edificio storico che nei piani della Fondazione avrebbe potuto ospitare una scuola di perfezionamento gastronomico. Se le trattative con il Comune fossero andate a buon fine: l'accordo slitta da anni, e nella migliore delle ipotesi il progetto dovrebbe concretizzarsi entro il 2020.

Ben diverso l'iter preventivato per la realizzazione della casa di riposo, che non contempla nessuna mediazione con l'amministrazione pubblica. La Fondazione Molina, infatti, si è dimostrata ben felice di appoggiare il maestro, e il presidente dell'onlus Carmine Pallino già parla di un'opportunità importante per la città e per la crescita dell'Istituto: “Un onore avviare una collaborazione con Gualtiero Marchesi”. Gli spazi, del resto, ci sono, e aspettano di trovare una destinazione coerente con le finalità sociali della Fondazione.

 

E gli chef in pensione insegnano ai giovani cuochi

Così, grazie all'investimento della proprietà, Villa Tosti, una delle palazzine inutilizzate all'interno del parco, dovrebbe trasformarsi entro l'autunno 2018 nella residenza per cuochi anziani desiderata da Marchesi: 12 o 14 stanze riservate ai veterani del mestiere, con precedenza per chi non ha grandi possibilità economiche. E nella vicina ex centrale termica il progetto più ambizioso: una scuola di cucina per giovani chef - che non è una novità per la Fondazione Marchesi - ma con una marcia in più. Uno spazio attrezzato di tutto punto, con pareti vetrate e verde tutt'intorno, dove cuochi anziani e nuova generazione di chef si incontrano. E il mestiere viene valorizzato per quello che è: un lavoro bellissimo, ma complesso, che richiede studio, dedizione, fatica, attitudine al bello, rispetto delle gerarchie. Capacità di fare tesoro degli insegnamenti di chi può permettersi di salire in cattedra. La filosofia che ha guidato, e continua a guidare, Gualtiero Marchesi. Lui, a ritirarsi, non ci pensa nemmeno.  

 

a cura di Livia Montagnoli

Niko Romito si allea con Bulgari e porta nel mondo la cucina italiana

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Niko Romito e Bulgari. Un nuovo accordo sigla la collaborazione tra lo chef abruzzese per la ristorazione nei Bulgari Hotel di mezzo mondo.

Esiste un metodo Romito. Quello per cui una consulenza, da sola non basta, e neanche la firma di un menu in qualche albergo. È un approccio che parte dall'analisi e dallo studio, dalla conoscenza profonda e dalla messa a sistema di procedure, prodotti, tecniche, ricette. Lo abbiamo visto già qualche anno fa, quando avere degli allievi, nella sua cucina già blasonata, non era sufficiente, e allora ha creato una scuola di formazione professionale. Un'accademia, quella che porta il suo nome, che unisce alla pratica ai fornelli, anche un percorso teorico, che passa da materie quali chimica e botanica, a studi sui prodotti e lavorazioni.

Lo stesso metodo che ha portato alla creazione del circuito Spazio oggi attivo a Milano e presto a Roma con una nuovissima apertura a Piazza Verdi. Sono i locali di easy dining che si avvalgono proprio dei suoi allievi migliori: il network però non si ferma a un paio di bistrot, ma prefigura un piano di sviluppo internazionale (anche grazie all'accordo con la società Italia Cibum spa, sostenuta da Banca Profilo, con un aumento di capitale di 2 milioni di euro che porterà a numerose aperture all'estero) con una proposta gastronomica originale rispetto a quella del suo primo ristorante, il Reale (Tre Forchette del Gambero Rosso e 3 Stelle Michelin), ma che a questa è strettamente legata. Per via di uno stesso approccio pulitissimo, tutto sottrazione e sapore, una proposta moderna, leggera, senza fronzoli, fatta di contrappunti, che entra nel profondo delle materie per poi riemergerne in modo stratificato, intenso, ma con un'apparente semplicità, per parafrasare il titolo di un suo libro. Una cucina frutto di una ricerca instancabile. La stessa che ha messo in campo non solo un menu per le mense ospedaliere, ma una procedura che cambia, completamente, le dinamiche della ristorazione collettiva tirandone fuori un protocollo replicabile all'infinito e modellabile per diverse esigenze.

È come un'applicazione industriale dell'artigianalità presente al Reale. Andata e ritorno, perché le idee entrano in circolo e aprono continuamente nuove prospettive. Non deve allora stupire se oggi Niko Romito fa il salto oltre i confini nazionali. In fondo era uno dei pochi, tra i suoi colleghi di pari livello e notorietà, a non aver ancora timbrato il passaporto della sua cucina. E nel farlo ha tenuto fede al suo stile. Perché ora che gli accordi con il gruppo Bulgari sono firmati ed è ufficiale la notizia di una linea Romito nella ristorazione degli hotel del brand, viene da chiedersi in che modo abbia approcciato a questa che, a un primo sguardo, potrebbe apparire come una semplice consulenza.

FETTUCCELLE AL RAGU' DI CARNE E POMODORO credit Bulgari

Fettuccelle al ragu' di carne e pomodoro. Credit Bulgari

La cucina di Bulgari pensata da Niko Romito

Quale è stato il primo pensiero? “Ho riflettuto su cosa è il gusto italiano, e su come far sì che fosse replicabile ed esportabile in tutto il mondo”. Perché, ci dice: “il gusto vero è un valore assoluto, e come tale può parlare a tutti: la sfida è distillarlo, esportarlo e far sì che tutto il mondo impari a riconoscerlo” spiega. Non solo: “mi sono chiesto quale fosse la cucina che volevo portare all'estero”. Non la sua, quella del Reale, ma la sua, quella che parte dalla sua filosofia, tutta sapore e concentrazione. “La cucina italiana” con i suoi piatti più noti, classici e più moderni, i sapori, gli ingredienti (umili e pregiati sullo stesso livello), ma anche con i gesti familiari, degli “standard” li chiama lui, quelli dei ricettari. Che interpreta nel suo stile asciutto, e li codifica, così che possano arrivare in tutto il mondo con la stessa precisione e intensità. Una cucina autenticamente italiana, ma aggiornata e attuale: brodi, antipasto all'italiana da condividere (provola arrosto, sauté di frutti di mare, vitello tonnato, salumi, frittatina di pasta con besciamella senza burro ma con amido di mais, bagna cauda e via così), arrosti, cotoletta, paste secche (con condimenti classici) o fresche, ragù, zuppe, persino tonno fagioli e cipolle, un buon pane caldo, un contorno a parte, un filo di olio a crudo, un po' di formaggio grattugiato. Ma anche cocktail di scampi, antipasto oggi quasi bistrattato, rivisto con salsa preparata senza grassi e con un'estrazione di teste di scampi a legare la maionese al posto delle uova. Pochi soffritti e grassi aggiunti, tante cotture che preservano sapori e umori dei prodotti, tanti passaggi volti a migliorare il risultato finale. E poi ci sono gli intingoli, quei sughetti tipicamente nostrani: cacciatora, carpione, pizzaiola, e via discorrendo, un'antologia di sapori che aggiungono sapore a sapore. Così anche nei dolci. Con il carrello a fare il gran ritorno in sala e una carta che include anche la sua bomba fritta (cui ha dedicato un format di street food). E poi il pane, la pagnotta portata intera al tavolo, insieme a focaccia e grissini.

Parola d'ordine? Replicabilità

Definire i menu è stato il primo passo, ma poi serviva trovare il modo di assicurare la loro replicabilità, in modo da garantire risultati sempre uguali in ogni continente. E allora torna in mente il lavoro fatto con Unforketable, l'enciclopedia video della cucina italiana (proprio in questi giorni tradotta in giapponese) in cui ha analizzato e rielaborato le basi della cucina italiana per adattarle al gusto e alle esigenze di oggi, codificandole per permettere a chiunque di riprodurle a casa. Tornano il lavoro di misurazione e ripensamento di prodotti e ricette per andare a fondo sui sapori italiani secondo la sua filosofia, che limita al massimo i grassi, concentra i sapori, punta a una cucina pura, fatta di ingrediente, strutture, armonia. E modellando tutto sul nuovo obiettivo di ristoranti italiani nel mondo. Così Romito ha iniziato, secondo il suo stile, a lavorare sull'idea di ottimizzare ricette e sapori alla luce delle conoscenze di oggi, creando un laboratorio apposta per questo progetto. Ma tornano in mente anche i protocolli alla base di IN-Intelligenza Nutrizionale in cui ha definito, al millimetro, ingredienti, pesi, temperature, tempi e metodi, da applicare con precisione giorno dopo giorno. Da quanto tempo ci lavora? “Quasi due anni”. Menu uguali per tutti i Bulgari, salvo alcune eccezioni come quelle legate ai vincoli religiosi, nessun compromesso sulle ricette ma l'apertura ad altre conoscenze “per esempio le tecniche cinesi dei brodi”. Come garantire i sapori italiani così lontano dalla Penisola? “Avremo prodotti italiani laddove necessario e possibile. Ma anche prodotti locali, si tratti di ortaggi o carni”.

E il Reale?

Il Reale fuori dal Reale non è mai stato un suo progetto. Il suo primo ristorante è lì, nell'ex convento del '500 circondato da silenzio e montagne. Un posto dove l'ambiente è tutt'uno con la cucina. Dove trovare calma ascetica e concentrazione, un buen ritiro per molti gourmet, ma anche, e soprattutto, un centro di ricerca e idee per lo chef abruzzese. Perché tutto nasce e passa da Casadonna, centro propulsivo di quell'organismo legato a Romito e al suo staff che acquista sempre più forma e coerenza.

Al Reale prendono vita le tecniche e le basi di una cucina che poi, a cascata, si riverseranno su altri progetti in giro per il mondo. Si studiano ingredienti e mettono a sistema le procedure. Si lavora come in un vero laboratorio scientifico. E poco importa se viene meno la poesia di un lavoro che l'immaginario comune vuole sempre più artistico. La poesia deve essere nel piatto, in cucina devono sostare conoscenza e rigore. Quello stesso rigore che consente la replicabilità dei piatti, identica pasto dopo pasto. E quello stesso rigore che permette di studiare delle formule per la ristorazione collettiva che danno la possibilità a ogni operatore di assicurare pasti nutrienti e gustosi ai pazienti. È una cucina in cui il lavoro dello chef scompare, in favore del sapore, eppure così identitaria e riconoscibile, in ognuna delle sue molte derive

Antipasto all'italiana. Credit BulgariAntipasto all'italiana. Credit Bulgari

Ristorante Niko Romito

Nei ristoranti, firmati dallo studio di architettura Antonio Citterio Patricia Viel andrà in scena la cucina italiana. Alla carta o nei menu degustazione, di tradizione o di ricerca (ma sempre nei limiti di una proposta nostrana). A definire una ristorazione destinata tanto agli ospiti stranieri, quanto agli italiani che vogliono trovare ristoro alla nostalgia dei sapori di casa. La scelta delle pietanze sarà accompagnata dal lavoro del personale di sala, presente ma non invadente, pronto a illustrare o a stare da parte per lasciare il palcoscenico ai sapori e alla piacevolezza dello stare a tavola senza forzature, con un codice del lusso è che quello – ancora una volta – della sottrazione. Si parte da Pechino a fine settembre (con Diego Ottaviani), si passa a Dubai dopo un mese (con Giacomo Amicucci) e Shangai da dicembre dove a seguire la cucina ci sarà Claudio Catino, poi si continua con le altre aperture dei Bulgari Hotel nel mondo, Mosca nel 2018. Rimangono fuori i locali già avviati, quello di Tokyo con la bella prova di Luca Fantin, Bali e Londra dove la firma è di Alain Ducasse. Ma ci sarà anche Milano. Con la sfida di una cucina italiana nel capoluogo meneghino.

L'obiettivo? Riscrivere la cucina italiana e creare un codice, proprio per questa nostra cultura gastronomica che la codifica non l'ha mai avuta, a differenza di quella dei cugini francesi. Con l'idea di restituire la vera esperienza della tavola italiana più autentica, nei sapori, nello spirito, nei gesti. Facendo dunque un passo indietro rispetto all'alta ristorazione e concentrandosi sul l'idea di italianità, intesa come cultura da condividere e diffondere.

E come dice sulle pagine del Corriere Silvio Ursini, vicepresidente di Bulgari, se 10 anni fa - quando risale il primo contatto con  Romito - i tempi non erano maturi, oggi quel contatto si è trasformato in un progetto di ampio respiro che dall'ingrediente al servizio in sala al personale (molto sarà quello della Niko Romito Formazione) porterà l'impronta dello chef abruzzese. Perché nel metodo Romito, una consulenza non basta mica.

a cura di Antonella De Santis

foto di apertura: Bulgari

 

I 9 Paesi dove si fa caffè sostenibile secondo illy

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La seconda edizione del premio Ernesto Illy International Coffee Award ideato da Andrea Illy come evoluzione del riconoscimento istituito nel 1991 in Brasile da suo padre Ernesto entra nelle fasi finali. Ecco i finalisti individuati dal laboratorio di qualità illy. A ottobre il nome del vincitore del premio per la qualità sostenibile. 

 

Il premio alla qualità sostenibile. Come nasce

L'anno scorso, era novembre 2016, davanti a un pubblico delle grandi occasioni (una serata di gala presso la Delegates' Dining Room delle Nazioni Unite), la famiglia Illy presentava ufficialmente l'Ernesto Illy International Coffee Award. Un premio esordiente, diretta conseguenza dell'impegno del gruppo triestino sul versante della qualità e del lavoro sostenibile. La competizione, infatti, ha l'intento di riconoscere i migliori produttori di caffè tra quelli che forniscono i propri chicchi per la realizzazione dei blend illy, leader globale nel segmento del caffè di alta qualità. Migliori perché impegnati a valorizzare un territorio, e i coltivatori di caffè che lo rappresentano. Archiviata con successo la prima edizione del Premio, ora il gruppo annuncia i Paesi finalisti della seconda, ribadendo la volontà di “affermare l’importanza di lavorare mano nella mano con i produttori per continuare a perseguire il sogno di offrire il miglior caffè al mondo”. I finalisti sono stati selezionati dal laboratorio qualità illy, sulla base dei raccolti della stagione 2016/2017, e sono Brasile, Colombia, Costa Rica, Etiopia, Guatemala, Honduras, India, Nicaragua Ruanda. Accedono alla finale i tre lotti più rappresentativi di ogni origine, tra i quali verranno scelti i 9 caffè finalisti, uno per origine.

 

La cultura del caffè. Come promuoverla

Nella seconda fase del concorso i caffè selezionati saranno degustati e valutati da una giuria internazionale indipendente di esperti, che decreterà il Best of the Best, tra i migliori raccolti della stagione. Ma bisognerà attendere il 16 ottobre, quando la giuria esterna si ritroverà a New York per annunciare i caffè finalisti e il vincitore. Il Premio, seppur giovane nel suo nuovo assetto, recupera in realtà l'eredità di papà Ernesto (a cui, non a caso, è intitolato), che nel 1991 battezzava in Brasile il Premio por la qualidade do Cafè para Espresso, contribuendo allo sviluppo del Paese come produttore di caffè di alta qualità. Mentre la decisione di estendere la partecipazione ai produttori di tutto il mondo si deve ad Andrea, attuale Presidente di illycaffè.

Del resto la filosofia aziendale ha sempre imposto di privilegiare il prodotto, incentivandone la conoscenza approfondita attraverso una formazione specifica per coltivatori, baristi e semplici estimatori del caffè. A questo scopo, diversi anni fa (nel 2017 ha compiuto 18 anni), illy si è fatta promotrice di un'Università del Caffè, che ne diffonde la cultura a tutti i livelli: nata a Napoli nel 1999 e poi trasferita presso il quartier generale di Trieste, oggi conta 25 filiali nel mondo. La sua storia, e le attività che garantisce ai suoi iscritti, ve l'abbiamo raccontata qualche mese fa. Nel frattempo l'azienda triestina continua a promuovere la cultura del caffè con diverse iniziative: la più recente coinvolge le cucine professionali, con una miscela realizzata su misura per gli chef. Mentre bisogna tornare indietro di qualche mese, all'inizio della primavera scorsa, per rintracciare l'ultimo importante investimento del gruppo a vantaggio del consumatore, con l'inaugurazione del nuovo flagship store milanese, in via Montenapoleone. Ma tutto parte dalla qualità del prodotto. E il Premio Ernesto Illy non fa che confermarlo.  

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