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Estate in montagna. Enogastronomia in quota sulle Alpi, tra Bettelmatt, chef sostenibili e malghe friulane

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Agli amanti della montagna e del buon cibo i prossimi weekend sulle Alpi proporranno un ricco calendario di appuntamenti. Dalla corsa tra gli alpeggi del Bettelmatt agli chef di Cook the Mountain in Alta Badia, ai pranzi in malga in Carnia. E la curiosa Cena dei 3 Paesi. 

Estate in montagna

Un anno dopo l'altro, il grande esodo estivo che svuotava le città si conferma un ricordo legato a ben altre congiunture economiche. E sempre più italiani ripiegano sul weekend mordi e fuggi per ricaricare le energie lontano dalla routine quotidiana. Anche in piena estate, quando il rimedio migliore alle impennate del termometro, per chi può concedersi qualche giorno di stacco, è rifugiarsi al mare, o in montagna, scegliendo tra le molteplici località turistiche che l'Italia può offrire. E la variabile enogastronomica, per una fetta crescente di viaggiatori (italiani e non), influenza la scelta più di quanto si possa immaginare, specie quando non ci si accontenta di ritrovarsi con le gambe sotto al tavolo di un ristorante, e l'itinerario sul territorio da scoprire diventa pretesto per approfondire la conoscenza di tradizioni rurali e tipicità locali, ecosistemi e usanze gastronomiche che hanno definito nel tempo l'identità dei luoghi e delle comunità che li abitano. Ecco allora qualche valido suggerimento per trascorrere all'insegna delle attività all'aria aperta e del buon cibo – dalla tradizione alla cucina d'autore – i prossimi fine settimana lungo tutto l'arco alpino, dal Piemonte alla Carnia, passando per l'Alto Adige.

 

Cook The Mountain Taste on Tour

Cominciando proprio dalle Dolomiti altoatesine per segnalare l'iniziativa nata sotto l'egida di Cook The Mountain, movimento per la riscoperta dei prodotti di montagna fondato da Norbert Niederkofler sette anni fa, e cresciuto col tempo a comprendere un numero crescente di ambasciatori della cucina autentica e sostenibile da tutto il mondo. Per l'estate 2017 in Alta Badia – località turistica e prestigiosa meta gastronomica di cui Niederkofler si è fatto portavoce negli ultimi due decenni – Cook The Mountain propone Taste on Tour, in collaborazione con Mo-Food e IDM. Tre appuntamenti (il primo è già andato in scena lo scorso 12 luglio) con le creazioni di sei chef del territorio – Paolo Donei, Stefano Ghetta, Armin e Martin Mairhofer, Reimund Brunner, Mario Porcelli -  che salgono in rifugio, in concomitanza con la chiusura al traffico del Passo Sella. Sei i rifugi dolomitici coinvolti, tutti dislocati in prossimità del passo, tra la Val Gardena e la Val di Fassa. Semplice partecipare all'iniziativa, che prevede itinerari a piedi o in bicicletta a partire dall'Info Point Passo Sella, dove i partecipanti potranno ritirare il carnet (prenotato entro il giorno precedente) per prendere parte alla degustazione.

Due i circuiti alternativi, in entrambe le date (26 luglio e 30 agosto, dalle 12 alle 15): il Gardena tra il rifugio Comici, il Passo Sella Mountain Resort e il rifugio Salei, il Fassa tra il rifugio Valentini, il Friedrich August e il Des Alpes. Ogni ospite gusterà un menu di tre portate, una per tappa, in abbinamento ai vini del territorio: costo del carnet 30 euro. Per spaziare tra tataki di salmerino con rafano, mela verde e croccante di polenta e maialino alla brace di faggio con olio di betulla e fiori di achillea, Ravioli, pecora di Funes, finferli, olio di pino mugo e Yogurt con fragoline di bosco, sambuco, menta, cialda al cacao. Si può consumare anche una singola portata con calice al costo di 15 euro, fino a esaurimento.

Bettelmatt Ultra Trail. Alla scoperta del formaggio d'alpeggio

Già questo weekend, invece, gli appassionati di sport all'aria aperta e formaggi si ritrovano nella “regione” del Bettelmatt, tra Val Formazza e Valle Antigorio, all'estremità nord orientale del Piemonte, in provincia di Verbania. Proprio dal caratteristico formaggio prodotto solo ad alta quota (tra 1800 e 2400 metri) durante la stagione estiva delle malghe prende il nome la Bettelmatt Ultra Trail, che quest'anno si corre il 15 e 16 luglio. La But è una manifestazione sportiva agonistica che sfida la resistenza degli atleti su uno spettacolare circuito d'alta montagna di 83 km (la partenza è alle 2 di notte), e di fatto rappresenta una bella vetrina per un territorio ancora particolarmente selvaggio abitato dalla comunità Walser. La corsa, infatti, tocca i sette alpeggi che producono tra la fine di giugno e l'inizio di settembre il Bettelmatt, specialità (molto antica) a latte crudo con stagionatura minima di 60 giorni. E ogni anno richiama moltissimi curiosi e turisti che popolano le strutture ricettive della zona. Anche questo è un bel modo di valorizzare il territorio, e le sue eccellenze.

Carnia, eccellenze in malga

Dal prossimo weekend invece, l'attenzione si sposta tra le montagne dell'Alto Friuli per Carnia, eccellenze in malga. La manifestazione enogastronomica avrà luogo il 22 e 23 luglio, e il fine settimana successivo, il 29 e 30 del mese. Anche in questo caso il contesto non cambia: a valorizzare le performance di 11 chef coinvolti per l'occasione saranno panorami e prodotti delle malghe di Carnia e Val Canale, quattro rifugi alpini (in avvicendamento) tra Sauris, Chiusaforte, Paluzza e Monte Zoncolan. A partire dalle 11 gli show cooking condotti da Fabrizio Nonis, in compagnia di tre personalità del mondo gastronomica italiano. A seguire degustazione dei piatti e dei prodotti della malga in abbinamento con i vini delle cantine locali. Costo del pacchetto 40 euro, solo su prenotazione. I nomi dei partecipanti? Nicola Portinari, Luca Veritti, Hiro, Max Mariola, Giuliano Baldessari, Terry Giacomello, Stefano Buttazzoni, Giacomo della Pietra, Fabrizia Meroi, Roberta Clapiz Sonia Peronaci.

 

La Cena dei 3 Paesi

E chiudiamo con un'iniziativa curiosa, che in poco più di 4 ore promette di visitare tre diverse regioni di confine: primo piatto in Italia, secondo in Austria, dolce in Slovenia per la Cena dei 3 Paesi che si snoda intorno a Kranjska Gora ogni mercoledì sera, per tutta l'estate. L'idea, anche in questo caso, è quella di valorizzare le cucine locali con un tour tra specialità del Friuli, della Carinzia e dell'Alta Carniola. È un bus a facilitare gli spostamenti tra baite, tavole rinomate e osterie, una portata e via verso la tappa successiva. Costo del tour 39 euro a persona.

 

Cook the Mountain Taste on Tour | Alta Badia, Passo Selva | il 26 luglio e il 30 agosto, dalle 12 alle 15 | 30 euro | per info e prenotazioni info@dolomitesvives.com| www.n-n.it/it/cook-the-mountains.htm

Bettelmatt Ultra Trail | Val Formazza e Val Antigorio (VB) | il 15 e 16 luglio | http://bettelmattultratrail.it/home/

Carnia, eccellenze in malga | Carnia (Friuli) | 22-23 e 29-30 luglio, dalle 11 | 40 euro | www.cuciniamocon.it/

Cena dei 3 Paesi | Kranjska Gora (Slovenia) | ogni mercoledì, dalle 18 | 39 euro | https://www.hit-alpinea.si/it/cena-dei-3-paesi

 

a cura di Livia Montagnoli

In copertina il piatto dello chef Martin Mairhofer per Cook the Mountain Taste on Tour


La famiglia dei Bullinianos online. Il sito di Adrià con i volti di chi ha fatto la storia di elBulli

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È online il lavoro di anni di ricerca per rintracciare e “schedare” tutti coloro che hanno contribuito al successo di elBulli e dei molteplici progetti collaterali che oggi, a quasi 6 anni dalla chiusura del ristorante, tramandano il mito e raccolgono l'eredità di Cala Montjoi. Non solo chef, tra i bullinianos spiccano tanti italiani.  

Chi sono i bullinianos

Un archivio digitale fatto di storie, volti, persone. E tante fotografie “d'epoca”. Tutti coloro che in passato hanno avuto a che fare, tutt'oggi partecipano attivamente o in futuro sposeranno la causa di elBulli, quando la creatura di Ferran Adrià era “semplicemente” un ristorante (fino alla chiusura definitiva, il 30 luglio di 6 anni fa), e negli anni a venire, con i lavori di elBullifoundation. I cosiddetti “bullinianos”, come li etichetta il sito appena lanciato online a loro dedicato: una grande famiglia che vanta ambasciatori e sostenitori in tutto il mondo dell'alta cucina internazionale, a testimoniare quanto l'impatto di Adrià abbia segnato un prima e un dopo nell'universo gastronomico. Non solo chef, dunque, ma anche una nutrita schiera di professionisti, ricercatori, addetti ai lavori che negli ultimi anni hanno reso possibile la sopravvivenza e l'evoluzione del germe di elBulli, che non è morto con la serrata di Cala Montjoi, e anzi si è moltiplicato in nuove forme, forse meno spettacolari, ma non per questo meno efficaci (presto la filosofia dello chef catalano sbarcherà anche a Torino, all'interno della Nuvola Lavazza). Fino a oggi mancava una definizione che li “premiasse” per l'attaccamento alla causa, un bollino di qualità che ora spetta a celebri chef e volti emergenti, localizzati su una mappa “in scala elBulli” che ha richiesto anni di ricerca ed elaborazione prima di approdare sulla piattaforma che da qualche ora tutti possono consultare.

 

La storia di elBulli. L'unione fa la forza

Nel frattempo, molti dei ragazzi passati da elBulli hanno fatto carriera, tanti sono ancora in giro per il mondo, altri sono tornati a casa forti di un'esperienza professionale unica e irripetibile. E l'iniziativa presta anche il fianco al racconto di una storia di cui Ferran Adrià ha saputo e voluto preservare memoria, con l'idea di alimentare il mito di elBulli. Il sito, quindi, presenta una lista di tutti i bullinianos rintracciati finora, compresi celebri innovatori dell'alta ristorazione: Massimo Bottura, Andoni Luis Aduriz, Renè Redzepi, Grant Achatz. E, a titolo di curiosità, lo schieramento italiano è piuttosto nutrito: tra loro Terry Giacomello, Vito Mollica, Riccardo Di Giacinto, Mauro Buffo, Loretta Fanella, Enrico Crippa, Andrea De Bellis, Luca Lacalamita e tanti altri. Ogni volto (la ricerca si può perfezionare per nazionalità, progetto, anno di permanenza, ruolo) è riconducibile a una casella che descrive i molteplici progetti promossi negli ultimi anni, da elBullilab a elBarri, a laBulliografia o elBullicatering, ma l'elenco non può che essere parziale – avverte il sito – perché tra i bullinianos bisognerebbe comprendere chiunque si sia fatto a vario titolo ambasciatore dei valori di elBulli, e rintracciarli tutti è un'impresa impossibile. Ecco perché l'adesione al gruppo, d'ora in avanti, potrà avvenire per autocandidatura: chi si riconosce nella definizione può inviare i suoi dati e attendere un responso. Su Twitter, Ferran Adrià ha battezzato l'iniziativa definendola “una piattaforma sentimentale che è omaggio a tutti coloro che sono stati parte della nostra storia, e crescerà con il tempo”. Bullinianos: uno “stile di vita”, come recita il a grandi lettere il sito, perché “la magia di ElBulli risiede nella forza della squadra”. E di chi ha saputo motivarla, aggiungiamo noi.

 

www.bullinianos.com

 

a cura di Livia Montagnoli

Libri sul cibo per l'estate. Lima, Cucina dal Perù

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Culture peruviane native che incontrano quelle dei popoli immigrati: Lima è un crocevia di influssi e contaminazioni, che si riflettono anche nella tavola. A raccontarle, è uno dei maggiori esponenti della gastronomia Latino Americana, lo chef Virgilio Martinez, nel suo nuovo libro di ricette scritto a quattro mani con l'autrice Luciana Bianchi.

Gli autori

Poche presentazioni per Virgilio Martinezun passato da skater e studi in legge abbandonati a metà per inseguire la passione che lo avrebbe accompagnato fino a oggi, quella per la cucina. Fra gli chef più celebri dell'America Latina, Martinez gestisce dal 2010 il suo ristorante Central a Lima, numero uno in Perù secondo la guida Summon, di recente al primo posto nella lista di Latin America's 50 Best Restaurants, e quarto nella classifica della World's 50 Best Restaurants. Trentasei anni, due locali a Londra – LIMA Fitzrovia e LIMA Floral - un amore profondo per la sua terra che ha dato vita a diversi progetti di ricerca, non solo gastronomica. Luciana Bianchi è invece un'autrice gastronomica italobrasiliana e chef con un background in scienze molecolari, alle spalle diverse esperienze in ristoranti di alta cucina, pubblicazioni di settore e interviste a grandi chef in ben 14 Paesi. Membro del Guild of Food Writers UK, l'autrice collabora attualmente con il sito The World's 50 Best Restaurants, oltre a scrivere per la guida gastronomica Identità Golose. 

Con la Bianchi, Martinez firma il libro Lima, Cucina dal Perù.

 

Il libro

Attraverso la ricerca e l’eleganza della tecnica, Virgilio Martinez ha saputo cogliere l’essenza di questa terra e del suo cibo mostrandone al mondo intero la straordinaria diversità, ricchezza, creatività”. Così lo scrittore e politico peruviano Mario Vargas Llosa ha commentato il volume dedicato a Lima, una raccolta di oltre 100 ricette che, pagina dopo pagina, descrive i tanti frutti di una terra rigogliosa, prodotti sconosciuti ai più e dal sapore unico, materie prime che vanno a comporre il complesso panorama gastronomico della città. “Un luogo affascinante e intrigante, allo stesso tempo antico e moderno, cosmopolita e provinciale, lussuoso e umile”, come lo definisce lo chef nell'introduzione. 

Punto nevralgico della cucina peruviana, Lima offre un panorama ristorativo variegato, ricco di proposte interessanti, dai ristoranti gourmet ai mercati tradizionali, dai locali storici a gestione familiare alle cevicherías, finoai tanti chioschi di street food sparsi per la città. Un luogo eclettico, dalle tante anime, “caratterizzato da contrasti e paradossi e da un invito aperto a tutti gli amanti del cibo”. Perché “nonostante le molte imperfezioni, Lima è casa mia e mi ha reso quello che sono”, ed è con questa dedica sentita che il cuoco ha scelto di trascrivere le ricette che riprendono sapori e gusti locali, raccontando la sua esperienza personale e il rapporto con il suo Paese.

 

I sapori del passato

Custodirò sempre con affetto i ricordi dei piatti che preparava mia nonna. Cucinava in modo semplice, usando sempre ingredienti freschi, e i suoi piatti rispecchiavano il gusto della tradizione, a cui lei aggiungeva quel pizzico in più di calore”. La memoria sensoriale del giovane chef parte dai sapori dell'infanzia, dai pranzi in famiglia, da quella tavola di casa dove Martinez inizia a gustare le ricette tipiche della sua terra: “La storia della mia famiglia è costellata di preziosi momenti legati al cibo che mi rendono felice tutte le volte che mangio quei piatti, proprio perché fanno riaffiorare in me emozioni profonde”. È, infatti, la cucina dei nonni e dei bisnonni, secondo l'autore, a influenzare maggiormente la gastronomia peruviana contemporanea: “L'importanza nel mio vissuto dell'ingrediente emozionale legato ai semplici piatti di mia nonna, mi ha aiutato a capire quanto questo aspetto del cibo sia centrale per trasformare un buon piatto in un'esperienza universalmente memorabile”. Perché il senso di condivisione è ciò che “unisce intorno alla tavola” ed èper questo che, inevitabilmente, “molti aspetti della propria identità si riflettono nel modo in cui cuciniamo”.  

 

L'importanza della biodiversità

Fondamentale per la ristorazione di Lima è poi la ricca biodiversità della terra, “non paragonabile a quella di nessun altro luogo al mondo”. Ci sono gli altopiani, con il mais la manioca e l'oca, le Ande con la loro “dispensa naturale”, e la foresta amazzonica, “che costituisce il 60% del Paese e ci rifornisce con una miriade di prodotti tropicali unici”, alcuni disponibili presso i tanti mercati locali, “altri che rimangono un mistero anche per la maggior parte dei peruviani”. E ancora la costa Nord, “famosa per i suoi ottimi prodotti di mare”, e quella pacifica meridionale, “ideale per coltivare l'uva per la nostra bevanda nazionale, il pisco”, e la cucina regionale di Arequipa, nota per le sue  picanterías, ristoranti tradizionali riconosciuti come parte del patrimonio culturale del Perù. Tutto questo patrimonio naturale è oggetto dello studio di Martinez che ha, all'attivo, un progetto di ricerca, Mater Iniciativa, che opera proprio su questioni legate alla biodiversità e alla catalogazione, la tutela e la valorizzazione del patrimonio agroalimentare. Questo lavoro confluisce poi nel Central in cui Martinez ha studiato dei menu organizzati in base alle altitudini e alla varietà dei paesaggi peruviani.

 

Le ricette

Queste materie prime uniche danno vita a una cucina articolata, complessa e sfaccettata, dalle mille declinazioni che racconta di una storia di incontri e contaminazioni, “siamo figli di nativi ma anche di europei, asiatici (soprattutto giapponesi e cinesi), africani e arabi”. Ed è su questa forza che si basa il racconto gastronomico di Martinez: “Questo non è un libro di cucina peruviana tradizionale, ma un libro sui sapori e l'eredità della tradizione peruviana rivisitati in una prospettiva contemporanea”. Così, le ricette offrono una versione moderna dei prodotti e dei piatti classici del Paese, pur conservando “gli elementi essenziali di calore e sicurezza che ci rendono felici a tavola”.

 

I prodotti

A ogni ricetta, il suo ingrediente. Una formula semplice e immediata, che coinvolge fin da subito il lettore, che si ritrova a confrontarsi non solo con piatti nuovi, ma anche con materie prime insolite. Prima dell'elenco degli ingredienti e del procedimento, infatti, lo chef sottolinea l'importanza del prodotto protagonista della ricetta, spiegandone caratteristiche e provenienza, e conducendo per mano il lettore a conoscere almeno un po' di quell'incredibile territorio in cui nasce. Così, i lettori più curiosi vengono a conoscenza del platano, che “ha l'aspetto di una banana ma è più grande, con la buccia più spessa, ed è più ricco di amido”, dei semi di chia, “considerati un 'super-alimento', ricco di omega-3”, dell'annatto, “conosciuto in Perù come achiote, un alberello che arriva a 5-10 metri di altezza”, del queso fresco peruviano, “formaggio bianco e friabile dal gusto leggermente acidulo”, e tanti altri prodotti d'eccezione made in Perù. Le ricette spaziano dall'antipasto al dolce, e comprendono anche una serie di cocktail d'eccezione, salse, smoothies, piatti vegetariani, finger food, prodotti da forno e dolci. 

 

La ricetta: Yuca Frita 

 

“Conosciuta in Perù come yuca, la manioca è uno dei tuberi più amati in molti paesi del Sudamerica. Nell’area amazzonica peruviana si usa soprattutto negli stufati oppure come semplice accompagnamento, preparata allo stesso modo delle patate bollite. In Perù la manioca fritta è molto popolare come snack”. 

 

Ingredienti

 

Per 4 persone (16 bastoncini)

1 kg. di manioca lavata, sbucciata e tagliata a pezzetti di 10 cm 

1 cucchiaino di sale marino fino 

1 litro di olio di semi di girasole biologico, per friggere 

sale marino di fiocchi (facoltativo)

 

Mettete la manioca in una pentola con il sale fino e ricopritela d’acqua. Portate a ebollizione e cuocete a calore moderato per circa 10 minuti o fino a quando i pezzi di manioca possono essere infilzati facilmente con un coltello. Scolate i bastoncini di manioca e trasferiteli su un vassoio ricoperto di carta da cucina per asciugarli. Scaldate l’olio in una friggitrice o in una pentola capiente con il fondo spesso fino a che l’olio avrà raggiunto la temperatura di 170 °C (misuratelo con un termometro da cucina), e friggete la manioca, poca alla volta, per 5-6 minuti o fino a che sarà dorata e croccante. Trasferite la manioca fritta in un piatto rivestito di carta da cucina per assorbire l’olio in eccesso. Lasciate scolare per 4-5 minuti poi, prima di servire, cospargete a piacere con il sale in fiocchi, se lo usate.

 

Lima, Cucina dal Perù – Virgilio Martinez e Luciana Bianchi | ed. Giunti Editore | Euro 26,50

Central | Perù | Lima | Santa Isabel, 376, Miraflores | www.centralrestaurante.com.pe

www.materiniciativa.com

 

 

a cura di Michela Becchi

 

Libri sul cibo per l'estate. Bee Happy. Storie di alveari, mieli e apiculture 

 

 

 

La focaccia e i suoi derivati: 7 specialità dalla Sardegna e la ricetta della fainè

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Nomi dai suoni singolari, ingredienti dai sapori decisi, impasti dalle origini antiche: sono le focacce sarde, riprodotte in mille varianti locali. Ve ne raccontiamo 7, con la ricetta della fainè ai funghi antunna di Fainè Sassu, locale di Sassari.

Sono tantissime le preparazioni che rientrano sotto il genere di focacce in Sardegna: spesse o sottili, ripiene con carne o pesci locali, talvolta derivate da influenze extra regionali, soprattutto toscane e liguri. Anche i nomi cambiano da paese a paese e, a pochi chilometri di distanza, troviamo farce e condimenti alternativi e tecniche diverse. Noi vi raccontiamo 7 specialità di questa regione, con la ricetta della fainè ai funghi antunna di Fainè Sassu, locale selezionato dall’edizione 2017 della guida Street Food.

 

Cocone cun foza

Iniziamo da un prodotto a metà fra focaccia e pane, diffuso in alcuni paesi della Barbagia fra cui Gavoi. La sua preparazione è un rito che inizia alle prime luci dell’alba, con la cottura delle patate, lessate e poi ridotte a pezzettini e aggiunte all'impasto realizzato con semola, lievito, acqua, sale. Il tutto viene lasciato lievitare, coperto da un panno, finché non raddoppia di volume. Solo dopo si procede alla cottura, che è la fase più delicata. L’impasto viene suddiviso in più parti poi adagiate su foglie di cavolo, solitamente cappuccio o verza. Le focaccine si mettono in forno insieme alle foglie, cosa che conferisce loro una leggera aromatizzazione e la tipica texture data dalle venature del cavolo. A metà cottura circa, o quando la superficie risulta dorata, si tolgono le foglie rimettendo in forno le focaccine. Di questa operazione è incaricata una donna: sa ifurradora, l’addetta alla cottura.

Una volta pronte, si ripongono in cesti realizzati con le foglie dell’asfodelo (Asphodelus L.), conosciuto anche come porraccio, contenitori che i sardi chiamanosas canisteddas. Si mangiano una volta raffreddate completamente, accompagnate da formaggi non molto stagionati e salumi locali. In alcune zone della Sardegna centrale, il cocone cun foza viene chiamato cozzula e pomo: la ricetta è identica, ma manca il passaggio della cottura sulle foglie di cavolo.

 

Covazzedda e gerda

Così come in Emilia Romagna, anche la Sardegna ha la sua focaccia con i ciccioli (chiamati gerde, gherda, jeldao anche gigiole). Fa parte dell'ampia famiglia delle ricette povere, preparate con gli scarti del maiale: i ciccioli derivano dalle parti grasse dell’animale, ridotte in pezzi e messe a cuocere a fuoco lento. In questo modo il grasso si scioglie e restano solo le parti più magre, da cuocere finché non assumono una colorazione più scura. Una volta pronti, i ciccioli possono essere aromatizzati da spezie come pepe, chiodi di garofano, noce moscata.

 

Covazzedda e gerda, focaccia sarda con i ciccioliCovazzedda e gerda

In Sardegna con le gerda si realizzano due prodotti: il pane (pani e gerda), che si trova anche in pezzature piccole simili alle rosette romane, e lacovazzedda, una focaccia non troppo alta preparata con semola di grano duro, lievito, strutto, sale, acqua tiepida e gli immancabili ciccioli (in questo caso non troppo cotti, più morbidi). Ma sono diverse le varianti di questa specialità: c’è chi nell’impasto aggiunge anche patate lesse, chi mette spezie come chiodi di garofano, pepe e noce moscata, chi arricchisce con formaggio pecorino grattugiato o cipolle tagliate a fettine sottili precedentemente soffritte nello strutto.

 

Fainè

Le relazioni fra sardi, liguri e toscani sono antiche: risalgono al periodo giudicale e si intensificano intorno all’anno mille, con le repubbliche marinare di Pisa e Genova. Durante questo periodo, le famiglie toscane si concentrarono nella parte sud, in particolare dopo la caduta del giudicato di Cagliari, 1258 circa, mentre i genovesi si inserirono nei commerci e negli affari delle zone più a nord: da qui le influenze sulla lingua, la cucina e la cultura in generale.

La fainè deriva proprio da questi rapporti: una specialità realizzata sia in Toscana, dove viene chiamata cecina o torta di ceci, che in Liguria, dov’è conosciuta con il nome di farinata. Oltre a Sassari e dintorni, la fainè si prepara anche a Carloforte, il comune dell’isola di San Pietro, a sud est della regione: un borgo dalla storia particolare, che ha forti legami con la comunità genovese. Nel 1738, infatti, fu colonizzata dagli abitanti di Peglie, quartiere del ponente genovese, provenienti dall’antica Tabarka (o Thabraka), isola a largo delle coste tunisine.

È la ricetta che ci siamo fatti dare da Fainè Sassu, locale di Sassari selezionato dall’edizione 2017 della guida Street Food. Questa, in particolare, è la versione con i funghi pleurotus, che i sardi chiamano funghi antunnao cardolinu de petza.

 

Fainè Sassu, locale di Sassari selezionato dalla guida Street Food del Gambero RossoL'insegna di Fainè Sassu

 

Focaccia portoscusese

Un prodotto diffuso nel Sulcis-Iglesiente, zona sud occidentale della regione e, in particolare, a Portoscuso, un comune di poco più di 5 mila abitanti. La base è composta da farina, patate lesse, (poco) lievito, latte e sale, mentre la superficie viene condita con pomodori a pezzi o pelati, pecorino fresco, cipolle tagliate a fettine sottili e soffritte, olio extravergine d’oliva. Malgrado il condimento abbia un sapore deciso, la focaccia portoscusese si mangia a qualsiasi ora del giorno: a colazione a metà mattina, nel pomeriggio come merenda e anche per l’aperitivo, solitamente accompagnata da formaggi freschi. Sono pochi però i locali e i forni che propongono ancora questa specialità, ormai preparata soprattutto in casa.

 

Fogazza cun tammatica

Ancora una specialità originaria del Sulcis, sa fogazza cun tammatica, la focaccia con i pomodori, chiamata anche mustazzeddu. Per raccontare questo prodotto è necessario parlare anche del civraxiu, un tipico pane sardo originario di Sanluri, nel Medio Campidano, ma diffuso anche nel Sulcis. Si tratta di una preparazione alta e soffice, dalla crosta di colore bruno, che era la base - leggermente modificata con il passare degli anni - della fogazza: il pane veniva aperto al centro e riempito con i pomodorini e l’olio extravergine d’oliva, a mo’ di tasca. Oggi la focaccia si prepara con semola e semola rimacinata di grano duro (mentre per il pane si usa solo la semola), lievito, sale, acqua e, in alcuni casi, anche latte. Anche la farcitura nel tempo è cambiata: oltre ai pomodori ben maturi, oggi si mette spesso aglio, pepe e origano o basilico.

Fogazza cun tammatica, focaccia al pomodoro sardaFogazza cun tammatica

Una variante della focaccia con il pomodoro è la pratzida, diffusa in particolare nella zona di Muravera e San Vito - Costa Rei, a est di Cagliari: in questo caso, oltre al condimento classico, in cima alla focaccia vengono messe melanzane, patate e/o funghi.

 

Panadas

Un’altra cultura che ha inciso profondamente sulle tradizioni, la lingua e la cucina sarda è quella spagnola: la storia della Sardegna spagnola si fa risalire al 1479 quando Ferdinando II, figlio di Giovanni II di Aragona, sposò Isabella di Castiglia facendo nascere il Regno di Spagna, che includeva anche il Regno di Sardegna. Ma le relazioni tra i due paesi sono precedenti dato che già nel '300 i catalani conquistarono l'isola.

Oltre alla lingua (il dialetto di Alghero è un miscuglio fra catalano orientale e lingua locale) gli spagnoli hanno lasciato il segno nella cucina: le panadasne sono un esempio lampante. Sono tortine salate derivate dalle empanadas spagnole e composte da pasta violata(chiamata anchecroxunel campidanese), ripiena di patate, carne d’agnello, pomodori secchi e a volte aglio.

 

Panadas di Oschiri, focaccine sarde - foto di ImprentasPanadas di Oschiri

 

Ci sono tantissime varianti, la più particolare è quella di Assemini, vicino Cagliari, dove si usa una farcitura di anguille, prezzemolo e pomodori secchi, da cuocere direttamente dentro la pasta. Nel Campidano, in genere, sono grandi torte da dividere con i commensali e da consumare durante il pasto, come seconda portata; nel Logudoro (una zona che va dal centro della Sardegna fino ai confini nord orientali) sono invece più piccole e rappresentano un pasto unico per scampagnate e gite fuori porta. Le panadas dalle dimensioni più contenute sono diffuse anche nel comune di Oschiri e dintorni (provincia di Sassari), e sono farcite con carne di maiale, lardo, prezzemolo, sale e pepe.

 

Pane 'e cariga

Si chiama pane ma è molto più simile a una focaccia: è ilpane ‘e carriga, conosciuto anche come pane ‘e mendula, diffuso soprattutto in Anglona, una regione storica nel nord della Sardegna che si affaccia sul golfo dell'Asinara. Ha forma rotonda e colore giallo dorato, e una farcitura di fichi secchi, mandorle, noci e uva sultanina. La ricetta base è abbastanza semplice (farina di grano duro, lievito madre, sale e acqua), ma la preparazione dei prodotti che servono per arricchirlo è piuttosto lunga: i fichi devono essere seccati e tagliati in pezzetti molto piccoli, la frutta secca tritata grossolanamente, l’uva sultanina rinvenuta in acqua e a sua volta sminuzzata. Anche in questo caso ci sono diverse varianti, da quella farcita esclusivamente con frutta secca tipica della festa di Ongissanti, a quella preparata solo con i fichi, che prevede anche una piccola parte di mosto nell’impasto. È un prodotto molto difficile da trovare, oggi preparato quasi esclusivamente in casa o in alcuni forni storici dell’Anglona.

 

Ricetta della fainè ai funghi antunna di Fainè Sassu (Sassari)

ingredienti

500 g di farina di ceci

2 l di acqua

200 g di funghi pleurotus

prezzemolo

aglio

peperoncino

sale

olio extravergine d’oliva

 

procedimento

Mettere l’acqua dentro un recipiente capiente e versare la farina a pioggia, mescolando con una frusta, facendo attenzione a non formare grumi. Aggiungere un pizzico di sale e mescolare per un paio di minuti ancora. Coprire la ciotola con un canovaccio e lasciar riposare per almeno 1 ora: il composto deve risultare piuttosto liquido.

Nel frattempo preparare la farcitura: tagliare i funghi a pezzetti e condirli con olio extravergine d’oliva, aglio tritato finemente, prezzemolo e un po’ di peperoncino. Trascorso il periodo di riposo dell’impasto, ungere una teglia con olio evo e versarvi il composto. In cima riversare anche la farcitura, che dovrà leggermente “affondare”. Cuocere in forno a 250 per 20-25 minuti o finché la superficie non risulta dorata.

Fainè Sassu | Sassari | via Usai, 10a | tel. 079 236402 | www.facebook.com/Fainè-SASSU-Via-Usai-952857908062696

 

a cura di Francesca Fiore

 

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A Venezia chiude la storica Fiaschetteria Toscana. Al suo posto un fast food

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L'insegna era nata nel 1956, come osteria ereditata da vecchi proprietari toscani. Poi, dal 1983, il ristorante, con i piatti più tipici della cucina lagunare, il pesce di Rialto, le verdure dell'estuario. Ora la Fiaschetteria Toscana chiude, al suo posto arriverà Burger King. 

Fast food e take away all'assalto

Era il 1956, a Venezia la famiglia Busato inaugurava la Fiaschetteria Toscana, rilevando una vecchia attività di fine Ottocento, per riadattarla a osteria. Poi, nel 1983, la trasformazione in ristorante, e una storia che per i decenni a seguire l'avrebbe resa uno dei locali più blasonati della città. Sessant'anni dopo, i battenti si chiudono per l'ultima volta: la Fiaschetteria chiude per cedere il passo a un fast food. In quella Venezia che qualche mese fa alzava la testa contro il proliferare indiscriminato di take away e pizzerie a taglio di scarsa qualità, a uso a consumo dell'orda di turisti che ogni giorno si muove su e giù per calli e canali. E ora, invece, solo considerando la direttrice di San Giovanni Grisostomo - lungo la rotta del turismo più deleterio per la città lagunare, quello che resta 24 ore in città, tra un selfie in piazza San Marco e un pomeriggio speso tra vetrine alla moda e negozi di souvenir made in China – ecco spuntare 3, 4 fast food, compreso il Burger King del civico 5719, che prenderà il posto dell'insegna storica. Sulla difficoltà di arginare una ristorazione dopata da licenze alle stelle e aperture indiscriminate che giocano al ribasso della qualità abbiamo fatto il punto proprio di recente. E restare in corsa diventa sempre più difficile per chi i suoi standard d'accoglienza li ha costruiti con pazienza, in decenni di esperienza. Così Albino e Mariuccia Busato, con il figlio Stefano, hanno concordato di vendere il locale, dopo un paio d'anni di tribolazioni per convenire sull'extrema ratio.

 

La Fiaschetteria Toscana. Una storia lunga 60 anni

Tutti a casa i dipendenti che lavoravano al ristorante, cuochi, camerieri, sommelier, una decina in tutto. E cala il sipario su una tavola conviviale che custodiva tante ricette della Laguna, i piatti a base di pescato del giorno dal vicino mercato di Rialto, le verdure dell'estuario, i dolci prodotti nel laboratorio di calle del Remer da Mariuccia (celebre la rovesciata di mele al caramello), in abbinamento a un centinaio di vini alla mescita da tutte le regioni italiane (pure nella formula per l'aperitivo con selezione di cicchetti e ombra di vino) prima della trasformazione dell'83, quando il rinnovamento dei locali ha regalato un nuovo assetto più “formale” al ristorante, rimasto inalterato fino a qualche giorno fa. Nell'insegna di sempre, invece, il ricordo dei primi gestori arrivati da Montecatini, alla fine del XIX secolo, che in città portarono la cucina del Centro Italia per tutta la prima metà del Novecento. Anche l'età dei titolari storici, 77 anni entrambi, ha giocato un ruolo determinante nel gettera la spugna, ma certo la decisione è stata molto sofferta: già l'autunno scorso diverse offerte avevano fatto vacillare Albino Busato, alle prese con la voglia di investire in città di acquirenti cinesi.

 

Ristorazione di qualità. Chi desiste, chi spera nel rilancio

Fino all'ultima proposta, quella decisiva, che probabilmente vedrà sorgere nello spazio su due piani della Fiaschetteria una steak house a marchio Burger King (che in città, dalla fine del 2013, vanta una grande filiale agli Scalzi, in Palazzo Foscari), che dovrebbe sfruttare anche l'area antistante, all'esterno, nel campiello tipico dove troneggia un pozzo cinquecentesco. Anche se è ancora possibile un ultimo colpo di coda: la trattativa verrà chiusa la prossima settimana, il signor Albino non fa mistero di aver ricevuto altre proposte. Quel che è certo è che non si torna indietro rispetto alla strada intrapresa: dopo 60 anni, di cambiare mentalità per adattarsi a un mercato che non gli piace neanche un po' Albino non ci pensa nemmeno.

Per contro, ci piace ricordare la recente riapertura di uno storico locale cittadino, la Trattoria dalla Zanze, che aveva chiuso battenti nel 2015, dopo 500 anni di onorato servizio. Allo chef Nicola Dinato, e al suo team, si deve la volontà di trasformarla in Zanze XVI, restituendola alla città. Una storia che conferma il detto: la speranza è l'ultima a morire.  

 

a cura di Livia Montagnoli

Frigoriferi solidali. A Bari la lotta contro lo spreco alimentare a sostegno dei più bisognosi

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Spreco e povertà alimentare sono due delle maggiori problematiche che da (troppo) tempo affliggono la Penisola. Per combatterle, a Bari nasce il progetto dei frigoriferi solidali, spazi dove poter donare il cibo in eccesso alle famiglie in difficoltà.

Il progetto

Ridurre lo spreco di cibo sta diventando sempre più un obiettivo diffuso in tutta Italia, dove continuano a nascere iniziative e progetti dedicati all'argomento (e anche il Mipaaf arriva in soccorso, con il bando appena pubblicato a riguardo). L'ultima novità arriva da Bari, dove l'associazione Kenda Onlus, in collaborazione con il Comune, e sostenuta dalla fondazione Con il Sud, ha messo in funzione i frigoriferi solidali per conservare gli alimenti in eccesso destinati ai più bisognosi. “Aprire solo in caso di solidarietà” è il messaggio stampato accanto alla maniglia, e si rivolge a tutte le famiglie che hanno fame ma non possono acquistare cibo. Uno strumento utile per far fronte non solo allo spreco, ma anche e soprattutto alla povertà alimentare, stimolando il foodsharing e la creazione di comunità che scelgono di condividere le eccedenze all'interno di spazi appositi.

"Il 43% dello spreco alimentare proviene dalle case”, osserva Antonio Scotti di Avanzi popolo, “ci piacerebbe le persone mettessero a disposizione quei prodotti che altrimenti finirebbero nella spazzatura". Saranno 7 in tutto i frigoriferi messi a disposizione, con altrettante dispense, e distribuiti in diversi quartieri della città, la parrocchia di San Sabino, Zona Franka, la Casa delle Culture, il Caf Cap Orizzonti, la scuola Open source, Impact Hub, e l'aula rossa al secondo piano dell'Ateneo.

L'obiettivo: creare comunità solidali

A seconda del luogo in cui sarà installato, associazioni locali, volontari, studenti universitari, liberi professionisti e migranti si prenderanno cura del frigo, occupandosi anche della pulizia e del controllo del cibo che viene introdotto, oltre che di creare momenti di socialità e di animazione territoriale. “Il frigorifero solidale” ha dichiarato l’assessore Bottalico, “sarà quindi presidio che rafforza le nostre politiche di contrasto alla povertà, ma anche luogo di ritrovo e di animazione su temi quali lo spreco di cibo e il food sharing. Per noi è importante sia creare dei presidi, sia parlare di cibo in questi termini, sia proporre stili di vita alternativi soprattutto in un periodo in cui la povertà alimentare è un tema particolarmente sentito”.

Ogni frigo, inoltre, diventerà occasione per promuovere diverse azioni legate alla corretta alimentazione, al contrasto allo spreco di cibo e alla diffusione della cultura del cibo dei prodotti di qualità, con il coinvolgimento degli esercizi commerciali di quartiere, gare di cucina, seminari e conferenze con nutrizionisti e dietologi. I primi due punti saranno allestiti entro la fine di luglio, mentre gli altri cinque verranno realizzati da settembre in poi.

a cura di Michela Becchi

Orciolo d'Oro: gli oli premiati dell'altro (sud) mondo

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Con la premiazione degli oli dell'emisfero sud si è chiusa l'edizione 2017 dell'Orciolo d'Oro. Cile, Sudafrica e Argentina i primi classificati per le tre categorie fruttato leggero, medio e intenso. 

Il premio agli extravergine migliori del mondo

Chiusa l'edizione 2017 dell'Orciolo d'Oro. Tutti al mare, ci rivediamo il prossimo anno. Dopo la premiazione degli oli italiani e dell'emisfero nord, avvenuta il 10 giugno in una cena di gala presso l'Hotel Excelsior, sul lungomare di Pesaro, pochi giorni fa sono stati assegnati i premi degli oli prodotti a sud dell'Equatore. Se la selezione nazionale del più antico concorso che premia l'oro giallo di qualità è la sezione primordiale che ha avviato, 26 anni fa, la competizione creata e tuttora organizzata da Marta Cartoceti, nel corso del tempo l'iniziativa si è voluta aprire al resto del mondo istituendo l'International Competition of extravirgin olive oils, oggi alla 19ª edizione.

 

Gli oli primi classificati

Dalle finali dei prodotti dell'emisfero meridionale, che si sono tenute il 3 luglio a Gradara, nel castello malatestiano che la leggenda lega all'amore di Paolo e Francesca, sulla prima collina alle spalle di Rimini, è scaturita una classifica con la rosa dei vincitori. I primi classificati per le singole categorie di fruttato sono i seguenti:

- fruttato leggero: Canepa Extra Virgin Olive Oil, Empresa Terramater S.A., Santiago (Cile);

- fruttato medio: Estate blend, Willow Creeck Olive Estate, Worcester - Western Cape (Sud Africa);

- fruttato intenso: Bravo Finca Maipù, Familia Zuccardi, Beltran - Maipu, Mendoza (Argentina).

 

La produzione di extravergine a sud dell'Equatore

Così come esiste la BRICS, acronomico che indica le 5 maggiori economie emergenti, Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica,allo stesso modo riguardo all'olio si potrebbe parlare di BAGAS, Brasile, Argentina, Cile, Australia e Sudafrica, i Paesi in ascesa nella produzione dell'oro giallo – spiega Giulio Scatolini, capo panel Unaprol e di tutte le sezioni di assaggio dell'Orciolo d'Oro –. Nel 19° International Competition of extravirgin olive oils southern hemisphere traspare un'equa distribuzione dei primi premi: un cileno per il fruttato leggero, un sudafricano per il medio, un argentino per l'intenso”.

A differenza delle selezioni degli oli dell'emisfero nord, avvenute nel marzo scorso dopo almeno 3 mesi dalla produzione (in alcuni casi anche 6 mesi per le aziende che hanno cominciato la campagna olearia a fine settembre-inizio ottobre), quelle dell'emisfero sud sono state effettuate nel giugno scorso ad appena un paio di mesi dalla produzione degli extravergine. Condizione che avrebbe consentito, potenzialmente, di assaggiare oli più freschi, vivaci e aromatici. Ma i risultati sono stati lontani dalle aspettative. “Tranne il prodotto argentino, vincitore della categoria fruttato intenso, che esprimeva tutte le caratteristiche del buon olio giovane, freschezza e complessità, amaro e piccante, profumi e ricchezza di polifenoli – continua Giulio Scatolini – quest'anno la qualità degli extravergine a sud dell'Equatoreha lasciato a desiderare. Anche i primi classificati tra i fruttati leggeri e medi non erano eccellenti, comunque non all'altezza dei buoni oli italiani”. Va detto che le condizioni climatiche del 2016-2017 non sono state favorevoli, ma non è solo questo. “Mentre nell'emisfero nord, soprattutto in Italia e Spagna, la qualità della produzione dell'olio sta crescendo grazie alle nuove tecnologie, in quello australe le cose vanno a rilento: solo da poco tempo le aziende stanno investendo nell'innovazione del processo produttivo, dalla raccolta alla molitura delle olive, all'estrazione dell'olio. Non è semplice cambiare il frantoio, è un'operazione che ha un costo elevato. Due le riflessioni sul risultato ottenuto dall'olio primo classificato tra i fruttati intensi, l'argentino Bravo Finca Maipù, ilmiglior extravergine dell'emisfero sudin lizza: il produttore è laFamilia Zuccardi, nome che fa supporre le origini italiane, l'Argentina fra i Paesi BACAS, con i suoi 100mila ettari di oliveti, rappresenta da sola la somma degli altri 4: Brasile, Cile, Australia e Sudafrica”.

 

a cura di Mara Nocilla

È morto Domenico Clerico. Addio a uno dei più grandi produttori di Barolo

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Classe 1950, Domenico Clerico è stato uno dei più grandi innovatori del mondo vinicolo italiano, sin dal 1976, quando aveva preso le redini dell'azienda di famiglia, a Monforte d'Alba, decidendo di scommettere tutto sul Barolo. Oggi la sua azienda conta 21 ettari, ed esporta vini d'eccellenza in oltre 40 Paesi del mondo. 

In ricordo di Domenico Clerico

Aveva iniziato nel 1976 e aveva dimostrato subito di avere le idee chiare: scuotere il microcosmo del Barolo e farlo diventare grande, dimostrando ai giovani che si affacciavano al mondo del vino che anche nelle Langhe si poteva vivere con orgoglio il mestiere di vignaiolo. E Domenico era riuscito pienamente nel suo scopo, lavorando tanto ma trovando anche il tempo per stare assieme agli amici, aprendo la propria cantina ad appassionati di tutto il mondo e stappando non solo le proprie bottiglie ma il meglio dell’enologia italiana e francese”. Così la Redazione Vino del Gambero Rosso. Che continua.

Il successo arrivò veloce e meritato, con il suo Barolo Ciabot Mentin Ginestra prima e con il Pajana poi, sino al suo doloroso Percristina e allo stravagante Aeroplanservaj, assieme ad altre etichette sempre valide e genuina espressione delle sue vigne, ampliatesi a poco a poco negli anni sempre in cru di sicuro valore. Lo ricordiamo sorridente e generoso, appassionato e innovatore, capace e caparbio tanto in campagna quanto in cantina, una forza della natura che ha dato al mondo grandissimi vini”.

 

Domenico Clerico. Chi era

Classe 1950, Domenico Clerico è scomparso a soli 67 anni, dopo una lunga lotta contro il tumore che l'aveva colpito un paio d'anni fa. Intensa e preziosa la sua attività vitivinicola, erede dell'azienda di famiglia a Monforte d'Alba, che nei decenni ha portato alla conquista dei mercati internazionali. Operando con convinzione una scelta netta, sin dall'inizio: tralasciare le colture ortofrutticole, per dedicarsi esclusivamente al vino, e “dimostrare a tutti che posso fare grandi vini che la gente apprezzerà, perchè la terra in cui viviamo ha un qualcosa di prezioso che ancora non comprendiamo”, si legge oggi sul suo sito, in ricordo di quel passaggio generazionale che l'avrebbe portato alla guida dell'azienda paterna. Era il 1976. Dopo il primo anno di lavoro tra i filari (5 ettari di vigneto di dolcetto, uve fino ad allora conferite alla Cantina Sociale Terre del Barolo), “convinto che per ottenere vini buoni si debba allevare la vigna con amore e dedizione”, Clerico aveva acquistato un piccolo terreno in Bussia, per avviare la prima produzione di Barolo, il Bricotto Bussia. E negli anni a seguire sarebbero arrivate anche la prima e la seconda vigna nel cru Ginestra, il Ciabot Mentin e il Pajana. Nel 1995, ancora, un nuovo appezzamento nel cru Mosconi, e il Barolo Precristina. Fino alla metà degli anni Duemila, con la nascita dell'Aeroplanservaj, sul terreno di Serralunga d'Alba.

Un lavoro lungo e costante, tutto concentrato sul valorizzare le qualità del Barolo: “Il mio obiettivo come vignaiolo deve essere solo quello di mettere in luce le potenzialità della nostra terra. Qui ogni vigna ha un suo carattere particolare voglio esprimerlo al meglio nei miei vini”, questa la filosofia che l'ha sempre guidato. Oggi l'azienda - che gestiva con la moglie Giuliana che è sempre stata al suo fianco, la sorella Laura e i due nipoti - conta 21 ettari, e produce oltre 100mila bottiglie ogni anno, esportando in più di 40 Paesi nel mondo, dagli Stati Uniti al Giappone, a Hong Kong. “Chi non ama il lavoro che fa, ha sprecato la propria vita. Finché ci sarò, continuerò a lavorarvi, poi lascerò tutto ai miei nipoti e alla gente delle Langhe”: così diceva Domenico qualche anno fa. Ora chi è cresciuto spronato dalla sua passione è pronto a raccoglierne il testimone. 


Pastifici a Salerno: 6 indirizzi dove comprare la pasta fresca in città

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La settima puntata della rubrica sulla pasta fresca in città fa tappa in Campania, per raccontarvi i migliori pastifici di Salerno. 6 indirizzi affidabili, che lavorano con ricette antiche e prodotti di alta qualità e che sapranno soddisfare ogni tipo di cliente.

Ricotta, che sia di bufala o di vacca, prima di tutto: ma anche tanto pesce, melanzane, limone, pomodori: sono i ripieni proposti dai pastifici salernitani, specialità mediterranee dal sapore fresco e intenso basate su materie prime locali. Vi raccontiamo 6 laboratori in città dove poter fare ottimi acquisti gastronomici.

 

Arechi

Partiamo da un pastificio situato nel quartiere Carmine che è anche un ristorante e una gastronomia d’asporto. Arechi nasce nel 2002 grazie al lavoro di Mario La Mura, che dalla madre Rosaria ha preso tutta la passione per la cucina e per gli impasti.“Abbiamo iniziato con la produzione di pasta fresca, per offrire un prodotto che fosse di qualità e allo stesso tempo sano, studiando molto e perfezionato tecniche e strumenti” racconta Mario.“Negli anni successivi abbiamo affiancato la preparazione di piatti caldi, prevalentemente preparati con la nostra pasta, per offrire un ulteriore servizio ai clienti: così tutti coloro che non hanno tempo di prepararsi il pranzo possono passare a gustare le nostre creazioni”.

Le proposte - sia del pastificio che del ristorante - sono incentrate sui sapori campani: gnocchi, paccheri, fusilli molisani e pappardelle, ma anche ravioli ricotta e spinaci, quelli al pomodoro fresco, parmigiano e basilico o, ancora, quelli con melanzane e limone.

 

La pasta fresca del pastificio Arechi di SalernoLa pasta fresca del pastificio Arechi

Tra le specialità del ristorante, ci sono gli gnocchetti sardi con pesce spada, pomodorini e melanzane, il risotto con asparagi e gamberetti, gli gnocchi alla sorrentina, il “baccalà all’insalata” o alla napoletana, calamari ripieni con patate e pecorino di fossa, tubarini di dentice con zucchine e gamberetti, tanti piatti a base di verdure come la parmigiana di melanzane, la scarola saltata in padella, le melanzane a funghetto le zucchine alla scapece. I prezzi si aggirano intorno ai 5-6 euro per le paste semplici, fino ai 12-15 euro dei formati ripieni, mentre le portate del menu vanno dai 3 ai 15 euro.

Arechi | Salerno | via Paolo de Granita, 28 | tel. 089 971 3087 | www.pastificioarechi.it

 

Di Gusto

Il pastificio di Nicola Abate e Patrizia Pascale, aperto da oltre 20 anni, ha cambiato sede 5 anni fa trasferendosi nella zona Torrione a sud della città, e ha affiancato il reparto gastronomia al laboratorio. “Il cambio di sede ci ha permesso di ampliare le attività e offrire ai clienti i piatti che Patrizia prepara ogni giorno” racconta Nicola. “La pasta, tutta preparata interamente a mano, è realizzata con la semola di grano duro dei Molini Minniti, ma in determinati periodi ci piace sperimentare anche con farine di castagne o di mais”. Una quindicina le paste fresche, da tagliatelle, gnocchi, fusilli al ferretto e pappardelle, ai formati ripieni con farce di ogni tipo: ricotta e spinaci, spezzatino di manzo, ricotta e limone, zucca e provola, pesce spada e melanzane, gamberetti.“Il prodotto più richiesto è sempre il raviolo con la ricotta, ma in estate va molto il pesce”.

 

Fusilli al ferretto del pastificio Di Gusto di SalernoFusilli al ferretto del pastificio Di Gusto di Salerno

Ampio il menu della gastronomia, incentrato sulle specialità campane e scritto sulla lavagna all’esterno del punto vendita: pizza di maccheroni, pasta patate e provola, totani ripieni, insalate di polpo o merluzzo, verdure alla scapece, mozzarella in carrozza.

 

I prezzi delle paste vanno dai 5 euro al chilo dei formati semplici agli 8-10 euro per i ravioli ripieni di pesce.

Di gusto | Salerno | Loc. Torrione | via R.Santa Maria, 2-4 | tel. 089 753811 | www.facebook.com/pg/Di-Gusto-gastronomia-e-pasta-fresca-421361707899170

 

Mini pastificio

Il pastificio è nato nel 1992, “con l’obiettivo di custodire le ricette della tradizione campana” racconta Carmen Turturiello che lo gestisce. “Soprattutto la pasta che le nostre nonne facevano in casa, rendendo più moderne le preparazioni ma senza traviarle e offrendo sempre un prodotto di alta qualità”. Studio, formazione e partecipazione a eventi ad hoc hanno permesso a Carmen di specializzarsi sempre di più, offrendo un vasto assortimento. Il laboratorio lavora con semola rimacinata di grano duro ma anche con farina integrale e farine gluten free, su richiesta e solo in giornate specifiche. “Cerchiamo di offrire ai clienti sempre molta scelta, naturalmente in base alla stagionalità delle materie prime, ma avvalendoci anche di ingredienti che vengono da più lontano e che ci piacciono particolarmente, come ad esempio le melanzane ragusane”. Si va dai prodotti classici come scialatielli, tonnarelli, pappardelle e gnocchi, ma anche fusilli rugosi trafilati in bronzo, alle tipologie ripiene come ravioli, caramelle, tortelli e tortelloni: da gustare con farcie di spinaci, melanzane, funghi, prosciutto. “Il prodotto più richiesto è sempre il raviolo grande ripieno di ricotta, ma in estate vanno molto anche quelli ripieni di baccalà e peperoni cruschi”.

 

Ravioli del Mini pastificio di SalernoRavioli del Mini pastificio di Salerno

 

Da Carmen potrete assaggiare anche piatti di gastronomia come la parmigiana di melanzane in diverse versioni, le polpette al sugo, la scarola stufata con olive e capperi, gli gnocchi alla sorrentina, la pasta al forno.“Le vere regine della gastronomia sono le lasagne, da quelle napoletane a quelle bolognesi, passando per le vegetariane, sono richieste in ogni periodo dell’anno e finiscono in pochi minuti: provare per credere”.

Mini pastificio | Salerno | c.so G.Garibaldi, 31/1 | tel. 089253018 - 3663120202 | www.facebook.com/pg/Mini-Pastificio-215059271882941/about/?ref=page_internal

 

Pastificio Tanola Dori

Lavoriamo prevalentemente con farina di grano duro del Molino Mininni e con farina di grano tenero Le tre grazie di Progeo Molini. Tutta la pasta è fatta a mano, rispettando le antiche tradizioni campane” racconta Antonio Pipolo, che ha aperto il suo laboratorio nel 1983 nei pressi della stazione centrale di Salerno. “Cerchiamo sempre di offrire un mix tra i sapori classici e quelli più creativi, in modo da soddisfare ogni tipologia di clientela”. Fusilli, cavatelli, cortecce, scialatelli, trofie e tagliatelle per quanto riguarda le tipologie più semplici, mentre per la ripiena si va dagli agnolotti ai medaglioni, passando per ravioli e tortellini. E i ripieni? D’inverno impazzano quelli alla zucca, alle castagne, ai porcini, al brasato di manzo, mentre d’estate via libera alla ricotta di bufala, abbinata al limone, gli spinaci, le melanzane, ma ci sono anche i ravioli con provola e fiori di zucca, o quelli al baccalà, all’orata o, ancora, ricotta di pecora e maggiorana.“Abbiamo clienti che preferiscono le pietanze più classiche e non si fanno mai mancare i ravioli ricotta di bufala e spinaci, ma anche altri che sperimentano e apprezzano le novità. In questo periodo, naturalmente, il pesce è il re della tavola: baccalà, cernia, orata e qualche volta anche pesce spada”.

 

Fagottini del pastificio Tanola Dori di SalernoFagottini del pastificio Tanola Dori di Salerno

 

Fornito anche il bancone gastronomia, con un listino aggiornato settimanalmente secondo le disponibilità del mercato: crespelle, cannelloni, lasagne in vari gusti, torta di tagliolini, gateau di patate, parmigiana di melanzane.

I prezzi si aggirano intorno ai 5-6 euro per le paste fresche, 12-13 euro per le ripiene e 18-20 euro per i formati speciali farciti con il pesce.

Pastificio Tanola Dori | Salerno | via Gelsi Rossi,77 | tel.089 711071 - 089 793813 | www.facebook.com/pg/PastificioTanolaDori

 

Piperita

Tre punti vendita per la famiglia Alfinito, due pastifici tradizionali e uno che produce solo pasta secca gluten free. “La nostra storia inizia da lontano” racconta Alessandro, che si occupa della produzione gluten free ma insieme al fratello dà una mano anche al padre, Antonio, che invece gestisce i punti vendita tradizionali. “Il negozio storico, quello di via Trento, è aperto dal 1996: mio padre da dipendente rilevò il pastificio, facendo praticamente un salto nel buio”. Dopo tanti anni di lavoro, la solida reputazione di Antonio gli permette di aprire un secondo negozio, mentre i figli, più avanti, si dedicheranno alla produzione di pasta per gli intolleranti al glutine. “Nel pastificio tradizionale lavoriamo con semola di grano duro del Molino Mininni di Altamura, ma anche con farina di grani tenero del Molino Dalla Giovanna di Gragnano”. L’offerta va da formati come tagliatelle, fusilli, orecchiette, cavatelli, gnocchi napoletani a ravioli e ravioloni, medaglioni, crespelle, cannelloni, tutti lavorati rigorosamente a mano. Tra le farcie domina la ricotta: in abbinamento agli spinaci, al prosciutto, al limone, ai funghi, al baccalà, alla sogliola.

Nel punto vendita gluten free invece lavoriamo con farina di mais bianco e mais giallo, oppure con la farina di teff, un cereale privo di glutine originario dell'Etiopia e dell'Eritrea, che ha delle caratteristiche di elasticità uniche”.

Dalla gastronomia arrivano ogni giorno piatti di pasta conditi con vari tipi di sughi, di carne o di pesce come le lasagne napoletane, i cavatelli allo scarpariello, gli gnocchi alla sorrentina, gli spaghetti con le vongole.

I prezzi? Dai 5 euro al chilo delle tipologie classiche ai 15-18 euro al chilo delle paste ripiene secondo le farciture.

Piperita | Salerno | via Trento, 86 | tel. 089 338708 | www.pastapiperita.it

Piperita | Salerno | via Lanzara Raffaele, 4 | tel. 089 252289 | www.pastapiperita.it

Piperita Gluten Free | Salerno | via Francesco Crispi, 64 | tel. 089 797774 | www.facebook.com/Piperita-gluten-free-1440122386263635

 

Solo Semola

Un pastificio nato come laboratorio e poi ampliatosi con la vendita al dettaglio. Monica Coppola è nel settore da 20 anni, ma da due anni ha allargato l’attività con il negozio di Salerno. “Rifornivamo già diversi ristoranti in Campania e nel Lazio, poi ci siamo chiesti: perché non aprire un punto vendita a Salerno per accontentare chi ha assaggiato le nostre creazioni e vuole gustarle anche a casa?”. Il team è formato da 5 persone che lavorano ogni giorno esclusivamente con semola di grano duro del Molino Mininni e producono pasta prevalentemente ripiena con ricotta di bufala.

 

L'offerta del pastificio Solo Semola di SalernoL'offerta del pastificio Solo Semola di Salerno

 

“La ricotta, così come gli altri prodotti caseari, vengono tutti dal nostro caseificio Casa natura di Fratte e viene proposta in diversi modi, abbinata con il limone, ma anche con il pecorino romano per i ravioli cacio e pepe, con gli spinaci o con il baccalà”. Ampio spazio è riservato anche ai formati semplici: scialatielli, paccheri, fusilli, cavatelli, gnocchi, tagliatelle, “ma i più richiesti sono la cacio e pepe, mentre il baccalà va molto sia d’estate che durante le feste natalizie”. Dalla gastronomia d’asporto piatti come parmigiana, gateau, arancini, crocchette, ma anche insalate di polpo, baccalà in umido e tanti dolci della tradizione napoletana.

I prezzi partono dai 5 euro al chilo di scialatielli e paccheri e arrivano ai 12 euro dei ravioli ripieni di pesce.

Solo semola | Salerno | via Luigi Guercio,114 | tel.0899951189 | www.facebook.com/Solo-Semola-1603941013199174

 

 

a cura di Francesca Fiore

 

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Eataly perde 11 milioni di euro. 2016 in negativo, fiducia per il futuro, tra Fico e nuove aperture

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Arresto e controtendenza per l'ultimo bilancio del gruppo fondato da Oscar Farinetti, che nel 2016 perde 11 milioni di euro. Ma è “colpa” di Expo, sostengono i vertici di Eataly, che ha aumentato il giro di affari del 2015. E intanto si perfeziona l'ingranaggio di Fico. 

Un 2016 in perdita per Eataly

Un risultato “in controtendenza rispetto alle performance degli anni precedenti”. È il Sole 24 Ore a registrare il dato diffuso dalla relazione di bilancio di Eataly, che fotografa l'andamento tutt'altro che positivo dei ricavi dell'ultimo anno: poco meno di 179 milioni di euro nel 2016, contro gli oltre 211 milioni incassati l'anno precedente (una contrazione di fatturato superiore al 15%), complice - sostengono i vertici aziendali - il volano di Expo 2015. Ma pure, si legge ancora nella relazione, “l'incremento della pressione competitiva di nuovi player con una proposta commerciale di qualità”. Un calo fisiologico, paventano da Eataly, che però, al di là del mancato incasso del valore di 32 milioni di euro - considerando principalmente le attività italiane che fanno capo a Francesco Farinetti e alcune partecipate estere, dal momento che Eataly Mondo fa capo a un'altra gestione – fa riflettere soprattutto per la perdita di ricavi utili, stimata in 11 milioni di euro. In casa Eataly, per dir la verità, la preoccupazione è contenuta, o almeno non trapela. Anche perché, sostengono, i correttivi già messi in atto negli ultimi mesi dovrebbero garantire di rientrare già nel 2017 “ai consueti livelli di redditività”.

 

Eataly. Continua l'espansione nel mondo. Obiettivo: 500 milioni di fatturato

Come? Innanzitutto non arrestando un piano di espansione aggressivo, che in parallelo con la moltiplicazione delle filiali nel mondo (da Mosca alla presenza sempre più solida negli Stati Uniti, alla Danimarca e al Medio Oriente), ha visto e vedrà aprire nuovi punti vendita nelle principali città d'Italia. L'ultima arrivata entro i confini nazionali, a gennaio scorso, è stata Eataly Trieste: un investimento di 2 milioni di euro per rinnovare l'edificio dell'Antico Magazzino Vini. Ma contribuirà anche la maggiore efficienza dei processi: la logistica, i sistemi informativi, l'organizzazione dei punti vendita. Senza dimenticare l'investimento sulla digitalizzazione e la vendita online, su cui Andrea Guerra ha puntato sin dall'assunzione della carica di Presidente del gruppo Proprio Guerra guarda con positività al prossimo snodo, che sulla base degli sforzi “straordinari” compiuti da Eataly nel 2016 dovrebbe segnare il raggiungimento di un traguardo importante: i 500 milioni di euro di fatturato. Considerando anche le prossime inaugurazioni programmate nel mondo, Los Angeles e Stoccolma le più imminenti, poi una crescita al ritmo di 3-5 aperture ogni anno. E intanto si lavora alacremente per arrivare in ottima forma alla quotazione in Borsa, prevista per il 2018. Detto così, ma sono punti di vista, il debito accumulato per sostenere lo sprint, “è modesto”, ribadisce Guerra, che apre all'ingresso di nuovi azionisti desiderosi di scommettere sul brand. Particolarmente solido negli Stati Uniti, dove il fatturato si prepara a raggiungere quello italiano, e pronto a uscire ancor più forte dalla nuova avventura di Fico Eataly World.

il cantiere di Fico Eataly World

Verso Fico. Le guide di Eataly World

La Disneyland del cibo voluta da Oscar Farinetti si appresta a inaugurare il prossimo 4 ottobre (anche se la data ora non è più così certa), e le manovre di avvicinamento si fanno sempre più incalzanti. L'ultima novità riguarda la guide turistiche che accompagneranno i visitatori nel tour del parco, in qualità di “ambasciatori della biodiversità”. Praticamente, all'ingresso gratuito al parco, i visitatori potranno associare diversi pacchetti per muoversi con consapevolezza tra mozzarelle, prosciutti e mulini. Esperienze tematiche che spaziano dal Fico gran tour alla visita dal campo alla forchetta, al percorso Fico e la Natura, per scoprire da vicino le 200 razze animali e le 2000 cultivar vegetali che convivranno nel parco. Ma si potrà usufruire anche di un percorso guidato tra le fabbriche contadine. Ognuno durerà all'incirca un'ora e mezza, avvalendosi delle conoscenze di personale formato per raccontare storia, aneddoti, approfondimenti sul tema a un pubblico eterogeneo. Ad accompagnarlo, infatti, 40 guide selezionate e formate dall'Ascom (e in questa direzione si muove anche l'accordo siglato con l'Associazione Beni italiani patrimonio Unesco, un'alleanza all'insegna della promozione della bellezza italiana, in tutte le sue forme, enogastronomia compresa). Tra i requisiti essenziali la conoscenza delle lingue: inglese, cinese, russo e arabo. Tanto per avere un'idea del pubblico che tutti si aspettano di vedere, numeroso, alle porte di Bologna.  

 

a cura di Livia Montagnoli

Accordo di libero scambio Giappone-Ue. Cosa cambia per il vino?

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All'indomani dell'accordo tra Unione Europea e il Paese del Sol Levante, facciamo il punto per capire cosa potrebbe cambiare per l'export italiano. Intanto si abbassano i prezzi, cambiano i luoghi di consumo e si moltiplicano i canali di vendita

Cosa dice l'accordo di libero scambio Giappone-Ue?

“Cars for cheese”, così molti hanno definito l'accordo commerciale tra Ue e Giappone annunciato, dopo quattro anni di trattative, la scorsa settimana. Da una parte la liberalizzazione del mercato automobilistico dal Giappone verso l'Europa e dall'altra quello dei prodotti agroalimentari Ue verso il paese del Sol Levante. Non si parla, ovviamente, solo di formaggi, ma anche del vino, che godrebbe di dazi pari a zero, immediatamente all'entrata in vigore dell'accordo. Una condizione importantissima, visto che al momento i dazi incidono per il 31% sugli sparkling, del 15% sull’imbottigliato e del 19,3% sullo sfuso (>2 litri).

Al di là delle cifre, a pesare in questo momento è soprattutto la concorrenza del Nuovo Mondo, con il Cile che, grazie all'accordo già in vigore con il Giappone e alla graduale abolizione dei dazi sui vini (che dovrebbero arrivare a zero nel 2019) ha superato l'Italia in volume, assicurandosi il secondo posto a valore come Paese fornitore di vini fermi, e il primo a volume. Una dimostrazione del peso che gli accordi commerciali possono avere in materia di esportazioni. Non solo. Tra le condizioni che entrerebbero subito in vigore con il Trattato, c'è il riconoscimento di pratiche europee relative alla vinificazione, fino a ora proibite da Tokyo. Oggi, in Giappone, i vini sono soggetti alle norme della legge sulla sanità alimentare “Food sanitation law”, per cui quelli importati devono essere accompagnati da un modulo con allegata descrizione del processo produttivo e un certificato di analisi rilasciato dai laboratori registrati presso il Ministero della Sanità giapponese. In particolare, per il vino le quantità di acido sorbico e di anidride solforosa devono essere rispettivamente inferiori a 200 ppm (parti per milioni) e 350 ppm. Sui certificati, però, non basta questa dizione, ma deve essere indicato il valore esatto riportato. Con l'accordo questo passaggio cesserebbe, sfoltendo notevolmente le pratiche burocratiche. A questo si aggiunge il riconoscimento di 205 denominazioni di origine europee, tra cui 130 vini (la lista non è ancora stata resa nota da Bruxelles)

L'entrata in vigore del Free Trade Agreement (Fta) non sarà immediata: la firma ufficiale non dovrebbe arrivare prima del prossimo anno e da allora sarà necessaria la ratifica dei parlamenti (o solo dell'Ue o di tutti i 28 Paesi aderenti) per essere operativo, probabilmente solo nel 2019. E c'è chi vi vede già una risposta alla politica di Trump, come a dire “l'isolazionismo statunitense non bloccherà i commerci mondiali”. Anzi, forse, ne sta accelerando i meccanismi.

 

Import 2016: i maggiori Paesi fornitori

Considerato ormai un mercato maturo, il Giappone è l'ottavo Paese di riferimento in valore per l’export di vino italiano: 165 milioni di euro lo scorso anno. “Si tratta della quarta economia al mondo” commenta Giorgio Mercuri, coordinatore di Agrinsieme si presenta come un mercato ricco con consumatori molto esigenti, continuamente alla ricerca di prodotti di nicchia e di assoluta qualità e che hanno finora mostrato grande interesse all’eccellenza del made in Italy agroalimentare”.

Parliamo, tra l'altro, di un Paese con una produzione vitivinicola interna molto bassa, intrapresa praticamente soltanto nel Dopoguerra. Oggi la concentrazione maggiore di aziende vinicole si trova nella provincia di Yamanashi (non troppo distante da Tokyo), dove la realtà cooperativa locale conta 82 soci. Il rapporto tra produzione e importazioni è, quindi, nettamente a favore di queste ultime, la cui quota è stata del 70,2% nel 2015.

Tuttavia, il 2016 non è stato un anno particolarmente positivo per l'import di vino: i vini fermi in bottiglia acquistati dall'estero sono diminuiti del 13% in valore e del 7% in volume, colpa – secondo l'analisi Ice di Tokyo - della recessione economica e del perdurante andamento deflazionario che ha penalizzato soprattutto i vini pregiati, favorendo quelli più economici. La Francia, con una quota del 42,8% in valore, è il primo Paese fornitore di vini fermi, seguita da Cile (che nel 2015 ha superato l'Italia ed è anche il primo esportatore per quantità) con il 15,9%. Terza l'Italia con una quota di mercato del 15,7%. Flessione anche per quanto riguarda gli spumanti, le cui importazioni nel 2016 sono scese dello 0,2%. I primi Paesi fornitori di bollicine sono Francia (quota del 78,6%), Spagna (8%) e Italia (7,2%).

 

I commenti sul raggiunto accordo

I nostri competitor” fa notare la ceo di Business Strategies Silvana Ballotta“escono meglio dell'Italia: la Francia perché riesce a impiegare meglio di noi le risorse Ue per la promozione, il Cile perché comincia a monetizzare al massimo gli accordi di libero scambio con il Giappone”. Per Antonio Rallo, presidente di Unione Italiana Vini: “L'accordo è un ulteriore passo in avanti in materia di semplificazione e flessibilità del commercio. In modo particolare è un risultato importante per l’eliminazione completa dei dazi sui vini imbottigliati, spumanti e sfusi che, in questi ultimi anni, hanno creato un significativo gap tra l’Italia e alcuni Paesi come il Cile e l’Australia, agevolati da accordi tariffari preferenziali. Grazie a questo accordo, possiamo confrontarci sullo stesso piano dei principali competitor”.

Positivo anche il commento del Ceev (che riunisce 24 associazioni di industriali ed esportatori di vino in 24 Paesi europei): “I vini europei non hanno ancora raggiunto il loro massimo potenziale all'interno del mercato giapponese, a causa di alcune barriere legate agli standard di vinificazione. L'accordo Fta migliorerà questa situazione riconoscendo un numero di pratiche enologiche utilizzate per produrre i vini europei e riconosciute a livello internazionale dall'Oiv".

Non appare, invece, soddisfatta la Coldiretti, già impegnata in queste settimane nella campagna anti-Ceta, che sottolinea come “su un totale di 3154 denominazioni dell’Unione Europea quelle tutelate sarebbero appena il 6%”, e vede proprio nell'accordo con il Canada il maggiore responsabile delle concessioni fatte oggi al Giappone:“Il Ceta” ribadisce il presidente Roberto Moncalvo“si conferma il cavallo di Troia delle politiche commerciali dell’Unione per portare alla volgarizzazione delle produzioni agroalimentari nazionali custodite da generazioni di agricoltori”.

 

Tendenze e strategie

Tra i trend in corso nei consumi giapponesi, uno di quelli che emerge dall'analisi delle importazioni, è l'innegabile avanzamento dei vini più economici, a discapito dei cosiddetti vini di lusso. Secondo la classificazione elaborata da Ice Tokyo, la fascia sotto i 500 yen (3,84 euro) è quella storicamente dominata dai vini nazionali, ricavati dai mosti concentrati importati. Nella fascia tra i 500 e i 1000 yen (7,65 euro) si trova il 43% dei vini importati provenienti soprattutto da Cile, Spagna, Stati Uniti e Australia. Sopra i 1000 yen si collocano sopratutto i vini fregiati di premi e medaglie vinte nelle competizioni internazionali. Tuttavia, se in passato era la fascia che accoglieva il maggior volume di vini importati, oggi questi ultimi si son spostati verso il basso.

È poi aumentata la richiesta di vini venduti in grandi recipienti, quali bag in box, e i bottiglioni di pet, nella maggior parte proposti dalle stesse catene dei supermercati con marchi privati (pb, private brand). Per i vini il pioniere pb è stato il gruppo di supermercati 7&i, seguito da Wal Mart e da Aeon Group.

Dall'altra parte, anche la ristorazione ha dato una ulteriore e importante input a una domanda sempre più vivace, grazie alla proposta al bicchiere, ma soprattutto alla formula nomihodai, letteralmente bevi a volontà, che premette al cliente di bere quanto desidera per un'ora e mezza, dietro il pagamento di un importo prestabilito non eccessivamente alto: in molte catene anche sotto i 1.500 yen (11,5 euro).

Vanno molto bene sul mercato nipponico anche i vini con il tappo al vite, chiusura che rende più facile l'approccio dei consumatori poco avvezzi al vino, con prezzi attorno ai 500 yen (3,84 euro). Tra gli italiani, si trova in questa categoria il Tavernello importato dalla Sunotory.

Alla luce di questi trend, quali sono, quindi, le migliori strategie commerciali da mettere in atto? “Oltre a concentrarsi sulla concorrenza del prezzo” spiegano dall'Ice di Tokyo “è fondamentale conquistare nuovi bevitori, attraverso l'educazione al vino. Come? Applicando etichette esplicative agli scaffali; collocando il vino vicino a formaggi e altri cibi con cui si accosta bene; ampliando l'assortimento di mezze bottiglie; organizzando degustazioni guidate”.

Infine, parlando di Giappone e tendenze, non si può trascurare la grande attenzione salutistica – fortissima leva di marketing - che ha portato negli anni al successo dei vini biologici. Occhio, però, alle regole in etichetta. Per quanto riguarda i vini italiani, è possibile commercializzarli con la scritta vino biologico, ma non con la scritta in lingua inglese organic per non generare confusione tra i consumatori.

 

La categoria spumanti

Categoria a sé è quella degli spumante. A partire dai dazi più alti: 31%. Tuttavia, anche in questo settore la concorrenza si è fatta sempre più agguerrita con corse al ribasso. “Nonostante i dazi doganali” fa notare l'Ice “dopo l'arrivo dell'etichetta messicana Sala Vivè super economica – per il Messico i dazi sono pari a zero - sono apparsi pure spumanti cileni a meno di mille yen a bottiglia, seguiti da Cava, come il Jaume Serra venduto a 680 yen”.

Molte bollicine sono offerte anche nei menu di alcune osterie giapponesi: una recente tendenza è di fare i brindisi iniziali degli enkai (banchetti celebrativi) con lo spumante, al posto dell'amata birra per dare un tocco di maggiore eleganza. A beneficiarne sono sopratutto le bollicine cilene – grazie all'accordo commerciale con il Giappone - il cui basso costo favorisce il consumo tra i giovani.

Ma gli incrementi sono importanti anche per le nostre bollicine più esportate all'estero: il Prosecco Doc nel 2016 è cresciuto sul mercato nipponico del 29% a volume.

La fascia alta è occupata soprattutto dagli Champagne, che però hanno subìto un notevole ridimensionamento dei prezzi, tanto da essere presenti anche nei supermercati e nei convenience store. Si sta diffondendo, inoltre, la vendita al bicchiere anche negli hotel a capitali esteri, con prezzi compresi tra i 2500 e i 4500 yen (19-35 euro).

 

La case history. Umani Ronchi, 30 anni e 3 wine bar nel mercato giapponese

Sono tante le aziende italiane che frequentano il mercato giapponese. Tra queste, la marchigiana Umani Ronchi vanta una presenza trentennale nel Paese nipponico - secondo Paese estero di riferimento con il 10% della quota export - intensificata nell'ultimo anno e mezzo dall'apertura di ben tre wine bar (praticamente dei monomarca), che portano il nome di uno dei vini della cantina: Villa Bianchi Umani Ronchi. Se l'azienda marchigiana è fornitore speciale e privilegiato, la proprietà è del colosso nipponico della ristorazione Dynac, che raggruppa oltre 200 ristoranti ed è quotata alla Borsa di Tokyo. “A fare da trait d'union” racconta il proprietario di Umani Ronchi Michele Bernetti è stato il nostro importatoreMontebussan. L'idea era di scommettere sulla formula wine bar, una novità per il mercato nipponico, che negli ultimi anni sta andando molto bene, anche perché ben si presta al modo giapponese di mangiare: piccoli assaggi di varie pietanze.In questo caso, assaggi di piatti italiani e marchigiani, la cui preparazione è stata appresa dagli chef giapponesi direttamente in Italia. La formula è andata così bene che a breve è prevista una quarta apertura a Osaka”.

Forte di questa esperienza, ma anche di una costante presenza su questo mercato, Bernetti ci spiega come sono cambiati i gusti dei consumatori del Sol Levante in questo decennio: “Sicuramente il Giappone è il mercato più maturo dell'Asia, la conoscenza del vino – e perfino delle nostre denominazioni - è arrivata a un buon livello, soprattutto tra i più giovani, con una netta preferenza per i vini rossi. Nel tempo la concorrenza è diventata molto agguerrita e il prezzo ha cominciato a giocare un ruolo di primo piano. Fino a ora Paesi come il Cile sono stati favoriti dagli accordi di libero scambio, per questo per noi il trattato Giappone-Ue non può che essere una buona notizia: la partita giocata sul terreno dei dazi è fondamentale”.

Non dimentica, però, Bernetti, che a volte intervengono altri fattori anche inaspettati. Nel caso specifico un manga – Kami no Shizuku(Le gocce di Dio) – con protagonista il vino: “A nostra insaputa qualche anno fa all'interno di questo manga venne inserito il nostro Montepulciano d'Abruzzo Jorio, come vino con un ottimo rapporto qualità prezzo. Il successo fu tale che per far fronte a tutta la richiesta nel più breve tempo possibile, dovemmo prevedere delle spedizioni aeree”. Il Giappone è anche questo.

 

a cura di Loredana Sottile

 

Questo articolo è uscito sul nostro settimanale Tre Bicchieri del 13 luglio

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Leo Espinosa vince il Basque Culinary World Prize 2017, che finisce in Colombia. A un soffio Niko Romito

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L’Intelligenza Nutrizionale di Niko Romito non ce l’ha fatta, ma lo chef abruzzese ha degnamente rappresentato l’Italia tra i 10 finalisti, con un progetto di grande caratura scientifica e sociale. La vittoria va a Leonor Espinosa, colombiana fondatrice di Funleo, proclamata a Città del Messico. 

A Niko Romito manca solo la vittoria

Città del Messico, 17 luglio 2017. La Giuria del Basque Culinary World Prize si ritrova presso El Claustro de Sor Juana per decretare il vincitore della seconda edizione del premio che valorizza l’operato degli chef in grado di migliorare la società attraverso la gastronomia. Anche quest’anno (nel 2016 la bandiera tricolore la sventolava Massimiliano Alajmo) l’Italia sperava di farcela: 10 i finalisti a contendersi la vittoria, chef di fama internazionale selezionati in tutto il mondo per l’impegno e la dedizione alla causa sociale, culturale, scientifica. Solidale. Tutti meritevoli di farcela, certo. Ma qui, dall’altra parte dell’oceano, in molti auspicavano di veder trionfare Niko Romito, e il suo progetto Intelligenza Nutrizionale. E invece la giuria presieduta da Juan Roca, e composta da Gastón Acurio (Perù), Michel Bras (Francia), Dominique Crenn (USA), Yoshihiro Narisawa (Giappone) ed Enrique Olvera (Messico), con il contributo degli esperti internazionali in altre discipline tra cui Laura Esquivel, Kirmen Uribe, Cristina Franchini, Matthew Goldfarb María Fernanda di Giacobbe (vincitrice del Basque Culinary World Prize 2016) ha decretato la vittoria di Leonor Espinosa, chef colombiana impegnata da anni nella rinascita gastronomica di un Paese che ancora fa i conti con la disparità sociale, economica, di genere.

Leonor Espinosa. Chi è

Così, per il secondo anno consecutivo, il premio finisce in Sudamerica, e stavolta illumina le molteplici attività promosse da Leo (come tutti la conoscono) Espinosa: la fondazione Funleo (ne parlavamo qualche anno fa proprio con Leonor), che ha riportato in auge le conoscenze e le capacità ancestrali delle popolazioni indigene e afro-colombiane, il sostegno al Centro Integrale di Gastronomia nel Golfo di Tribugá come alternativa al narcotraffico, e più in generale la valorizzazione di uno sviluppo rurale fondato sulla biodiversità e sulla costituzione di una rete di piccoli produttori in grado di emanciparsi, e contribuire alla rinascita economica, imprenditoriale, turistica e gastronomica della Colombia. A lei va il premio del valore di 100mila euro, da destinare a un progetto o a un’organizzazione a sua scelta che dimostri il ruolo della gastronomia nel miglioramento della società. La chef – classe 1963, originaria di Cartago e titolare del ristorante Leo Cocina y Cava a Bogotà – batte in finale un parterre di concorrenti di cui è riconosciuto il valore etico e l’impegno concreto per contribuire al sostegno delle comunità locali, dai californiani Daniel Patterson e Roy Choi al brasiliano David Hertz, allo spagnolo-americano Josè Andres.

La soddisfazione della chef colombiana

"Il premio mette in luce quelle comunità che per anni hanno lottato per essere riconosciute per il loro valore ancestrale e contributo all'identità culturale nazionale.  È un modo per attenuare il silenzio generato da conflitti armati, ingiustizia ed esclusione” ha dichiarato a caldo Leonor Espinosa. “In questo processo di riconciliazione, il Paese sta cominciando a capire l'importanza di porre fiducia nella gastronomia come strumento significativo per lo sviluppo economico di quelle popolazioni che custodiscono la vera ricchezza ". Il premio, organizzato e promosso dal Governo basco per promuovere valori quali la cultura della costanza, dell’impegno, della capacità di miglioramento e delle pari opportunità per uomini e donne, culminerà con la cerimonia di premiazione in programma nel mese di ottobre nei Paesi Baschi. I complimenti spettano al coraggio e alla tenacia di Leo Espinosa. Un plauso – e non per mero campanilismo - va anche a Niko Romito, capace di proporsi su un importante palcoscenico internazionale con un progetto di grande caratura scientifica, nutrizionale e sociale. 

 

www.basqueculinaryworldprize.com

 

a cura di Livia Montagnoli

 

Cavalli chiude lo storico Caffè Giacosa di Firenze. Quale futuro per il bar del Conte Negroni?

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Fondato nel 1815, il Caffè Giacosa condivide la fama con il mito di fondazione di uno dei cocktail più celebri della miscelazione all’italiana: il Negroni. Nel locale di Via Tornabuoni, il Conte Negroni lo “inventò” nel 1920. Dal 2001 lo spazio era di Roberto Cavalli, che ora ha deciso di chiudere il bar e vendere marchio e locale. A chi? 

Caffè Giacosa. Un bar storico a Firenze

L'insegna ha conservato l'allure dei caffè dell'Ottocento, tra le attività storiche che in molte città d'Italia hanno resistito all'avvicendarsi delle mode, attraversando indenni quasi due secoli, a preservare la memoria di una società borghese che davanti al bancone si ritrovava per guardare e farsi vedere. Col locale fondato in via Tornabuoni nel 1815, in realtà, il Caffè Giacosa come fiorentini e turisti lo conoscono oggi condivide storia e marchio, ma non gli spazi, nel frattempo rinnovati per far posto alla boutique di Roberto Cavalli, aperta nel 2001. Proprio allo stilista, infatti, si deve la riapertura della storica attività all'inizio degli anni Duemila, quando Cavalli aveva rilevato il locale per farne il suo showroom in una delle vie dello shopping più blasonate di Firenze (a pochi metri da Palazzo Strozzi e piazza della Repubblica), senza però sacrificare la storia del luogo. Così, contestualmente ai lavori di ristrutturazione, il caffè aveva trovato spazio sul retro, con affaccio su via della Spada. E gli estimatori del bar che negli anni Venti aveva battezzato l'invenzione del cocktail Negroni avevano tirato un sospiro di sollievo.

Dall’invenzione del Negroni a Roberto Cavalli

Via Tornabuoni, all'epoca, era ritrovo abituale del Conte Camillo Negroni (l'insegna, all'inizio degli anni Venti ancora recitava Caffè Casoni, ma poco importa, perché poco dopo, proprio negli stessi spazi, sarebbe stata trasferita l'attività del Caffè Giacosa), che al barman di allora, un giorno, diede indicazioni precise per realizzare un drink mai sperimentato: non il solito Americano col seltz, ma un goccio di gin per modificare la ricetta che presto sarebbe diventata un “Americano alla moda del Conte Negroni”. Facendo rapidamente proseliti, e diventando uno dei cocktail da aperitivo più caratteristici e richiesti d'Italia, e del mondo (la storia la racconta con dovizia di particolari Luca Picchi, nel libro Sulle tracce del conte. La vera storia del cocktail Negroni, edito da Plan nel 2002). Dal 2001, dunque, era cominciata la nuova vita del Caffè Giacosa by Roberto Cavalli (voto di Due chicchi e Due Tazzine Gulla guida Bar d'Italia 2017 del Gambero Rosso): un buon Negroni d'ordinanza, caffè 100% Arabica, una buona scelta di lieviti e dolci della tradizione per la colazione, tramezzini e qualche sfizio salato. Accoglienza cortese che non tradiva la storia del luogo, e un piccolo dehors, per godere dello struscio del centro città. Fino all'annuncio di Gian Giacomo Ferraris, Ceo del gruppo Cavalli, qualche giorno fa: a settembre la boutique chiude i battenti, e contestualmente abbassa le saracinesche anche il Caffè, che anzi si prepara alla serrata già tra un paio di settimane, alla fine di luglio.

 

Il Caffè Giacosa chiude

Un fulmine a ciel sereno, che in casa Cavalli giustificano però con una strategia pianificata da tempo, come “epilogo del progetto di riorganizzazione, ristrutturazione e rilancio” per risalire la china di un trend negativo (fatturato e vendite in calo nel 2016) riprogrammando gli sforzi, principalmente a favore dell'estero e dell'espansione in Asia. E quindi dapprima tagliando 200 dipendenti, e poi spegnendo le vetrine di alcune boutique, Madrid, Vienna, Venezia. Fino a Firenze, l'unico spazio della maison toscana in città, che sarà operativo ancora per un paio di mesi, prima di chiudere definitivamente. Il bar, da parte sua, è un'attività che “non rientra nel core business” di Cavalli, e quindi dal 29 luglio i 14 dipendenti del Caffè Giacosa resteranno a casa.

 

Arriva Armani?

E del marchio storico, che ne sarà? Ferraris ha anticipato l'intenzione di cedere il marchio indipendentemente dal passaggio di consegne dei locali, che voci insistenti danno per acquistati da Armani (già presente in via Tornabuoni, nel nuovo spazio, 250 metri quadri in tutto, dovrebbe mantenere l'assetto boutique con somministrazione, ancora difficile intuire il format). Ma a tutela dell'insegna si è già mosso il Comune, sebbene la vicenda sia particolarmente intricata. L'assessore Bettarini, infatti, riferisce di un caso piuttosto peculiare: il Comune non dispone degli strumenti normativi per garantire la prosecuzione dell'attività proprio in virtù dei lavori di rinnovamento del 2001, che hanno spostato, anche se solo di pochi metri, il Caffè Giacosa dalla sua sede originale. Cade così ogni possibilità di vincolare lo spazio alla sua destinazione d'uso, e con essa la garanzia di mantenere in attività l'esercizio commerciale storico. Per il regolamento urbanistico, cioè, il Caffè Giacosa oggi è un'attività commerciale come tante, a differenza per esempio dei caffè storici di piazza della Repubblica. L'auspicio, ora, è che chi arriverà possa farsi custode del marchio (e magari anche riassumere il personale messo alla porta). Il nome di Armani circola con insistenza nelle ultime ore, ma la conferma ancora non c'è. Certo, dopo la recente apertura in Galleria a Bologna, l'occasione offerta da Cavalli potrebbe garantire una valida opportunità per aprire alla ristorazione gestita dalla maison anche sulla piazza fiorentina. Per esempio importando in città il brand Nobu? Chissà. Storia e fenomeni di tendenza a confronto: chi avrà la meglio?

 

Caffè Giacosa | Firenze | via della Spada, 10r

 

a cura di Livia Montagnoli

La Collina dei Piaceri a Torriana, edizione 2017. E in cucina c'è anche Pier Giorgio Parini

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Dal 25 al 28 luglio, Torriana torna a popolarsi di artigiani, cuochi, pizzaioli, appassionati di cibo che si ritrovano per le vie del borgo, ogni sera, per onorare la festa promossa da Fausto Fratti e dal Povero Diavolo. Ecco i protagonisti della 17esima edizione, con il “ritorno” di Parini. 

La festa del cibo. A Torriana

17 anni fa cominciava la storia della Collina dei Piaceri, a Torriana: un percorso tra le eccellenze e i prodotti di nicchia dell'enogastronomia italiana, promosso in tempi non sospetti da Fausto Fratti, patron della Locanda del Povero Diavolo. Oggi che la manifestazione si avvicina alla maggiore età, lo spirito è ancora quello rilassato di un tempo, l'atmosfera di festa che coinvolge tutto il borgo del riminese per quattro giorni, e accoglie ogni anno che passa un numero crescente di visitatori. Fedelissimi della prima ora e curiosi che per la prima volta raggiungono il quartier generale di Fausto (di sua moglie Stefania) e della sua “famiglia” di produttori e chef, mossi dalla spinta dei tempi che cambiano, oggi che cibo e affini affollano ogni spazio utile della vita culturale e d'intrattenimento della Penisola. Motivo in più per distinguere chi la qualità, la storia dei territori e delle produzioni tipiche, le battaglie dei piccoli agricoltori e degli artigiani del gusto ha sempre voluto e saputo sostenerle. Scorticata, com'è conosciuta affettuosamente la rassegna (dal nome della rocca che domina il borgo), torna dal 25 al 28 luglio, con un gran numero di banchi allestiti lungo le vie del paese, tavoli per condividere assaggi di pizza e specialità di pasticceria, pane e formaggi, salumi, conserve sott'olio, vino, birra, distillati e vermouth. E un nutrito parterre di chef e artigiani di fama, che partecipano attivamente alla festa.

 

Scorticata 2017. I protagonisti

Dalle 19 fino al termine della notte. Tra loro anche Pier Giorgio Parini, che della cucina del Povero Diavolo è stato l'anima per molti anni, prima dell'addio un anno fa, per intraprendere la strada solista. Per La Collina dei Piaceri, Parini tornerà a rappresentare l'insegna più celebre di Torriana, alla guida dei Cuochi da marciapiede. L'universo della pizza d'autore, invece, sarà valorizzato da tre maestri pizzaioli ben noti: Simone Padoan in arrivo da I Tigli, Corrado Scaglione di Enosteria Lipen, Marco Farabegoli della pizzeria Da Neo. Ben rappresentato anche il comparto della cucina tradizionale, con l'Osteria dei Frati di Roncofreddo, l'Osteria di Ca' Murani da Faenza, l'Aciugheta di Venezia.

Ma già martedì 25 luglio si comincia con un fuori programma che anima la serata inaugurale, sul tema Personaggi, pesce e allestimenti, in compagnia di Stefano Bartolini Gregorio Grippo. L'appuntamento è in piazza Allende, dalle 20.30, per una racconto di parole e piatti, curiosità e classici di mare con due grandi protagonisti della cucina di pesce romagnola: i due si sono incontrati tanti anni fa, e condividono la storia di un'impresa di famiglia, l'Osteria Bartolini, di cui il primo è fondatore, l'altro il cuoco cresciuto nelle cucine di Cesenatico e Milano Marittima, fino all'arrivo a Bologna, un anno fa, per portare in città l'idea di territorialità e le tradizioni marinare che hanno reso celebre l'insegna. Quindi soprattutto un'opportunità per scoprire una storia di rispetto e stima reciproca, di lunga data, e assaggiare la cucina di mare della Riviera.

 

Artigiani e chef in piazza

Poi, per tre giorni, ogni sera l'offerta si moltiplica all'infinito, con la proposta di cuochi, pizzaioli e osterie e gli assaggi di moltissimi artigiani. Impossibile citarli tutti. Tra loro un abituée come Corrado Assenza, dal Caffè Sicilia di Noto, Molino Petra, il forno di Massimo Vitali da Borghi, la torrefazione Lelli di Bologna, le birre di Baladin. Il 28 luglio, dalle 18, una passeggiata guidata nel borgo promuoverà la scoperta di Torriana a ritmo lento: 3 chilometri con partenza dall'Albero dell'acqua di Tonino Guerra, prima di ricominciare la festa, tra un bicchiere di vino e una notte intera per scoprire i migliori prodotti della Romagna e d'Italia.

 

La Collina dei Piaceri | Torriana (RN) | dal 25 al 28 luglio | www.facebook.com/scorticata/?ref=bookmarks

 

a cura di Livia Montagnoli

Appunti di degustazione. Celebrare le 40 vendemmie di Maculan con 8 annate (+1) di Fratta

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Grazie all'azienda Maculan, Breganze è diventata un'aree viticola d'eccellenza. È una storia che spiega bene i cambiamenti avvenuti nel mondo del vino e che ora continua con un obiettivo ambizioso, produrre il miglior rosso da viti resistenti.

Fausto Maculan fa parte di quella generazione di produttori che negli anni '70-'80 ha profondamente contribuito a cambiare non solo il volto del vino veneto ma anche di quello nazionale. Figlio d'arte - al pari di Roberto Anselmi, Leonildo Pieropan o Primo Franco e di tanti altri nomi del vino italiano-ha fatto la gavetta nell'azienda di famiglia a Breganze dove si produceva vino sfuso e damigiane per bar e osterie. Già dal 1969 l'area vinicola di Breganze, ai piedi delle colline che conducono all'Altipiano d'Asiago, era diventata la prima Doc della provincia di Vicenza, un'area famosa per i vini rossi – qui cabernet e merlot sono di casa – e per il Torcolato, un vino bianco dolce ottenuto dalle uve vespaiola, tipiche della zona.

Fausto MaculanFausto Maculan

La formazione

La svoltaper la crescita professionale di Fausto Maculan, è stato il corso di studi alla Scuola enologica di Conegliano – si diplomerà nel 1970 – che gli permetterà di immaginare nuovi scenari e nuovi obiettivi per l'azienda di famiglia. La prima considerazione è che era necessario cambiare passo perché il futuro del vino non era più nelle damigiane ma "nelle bottiglie da 0,75 con tappo sughero" racconterà anni dopo. Infatti per il vino anonimo, senza connotazione di origine, il conto alla rovescia era già iniziato: ora era arrivato il momento di esaltare le caratteristiche di ogni singolo territorio. Renato Ratti – enologo, produttore langarolo ma anche intellettuale di grande levatura – nel suo libro Manuale del bevitore saggio (1974 – Scialpi Editore) osservava il cambiamento in atto nel mondo del vino italiano con queste parole. “Siamo, ripeto, in un periodo di transizione; stiamo passando dal vino bianco o rosso al vino di 'quel' vigneto. Siamo alla vigilia di dare finalmente un’impronta di grande rilevo alla produzione vinicola italiana, attesa ormai da tutto il mondo”.

Fausto guarda con attenzione e curiosità a ciò che stava succedendo nei ristoranti e nelle enoteche delle grandi città "Da Solci a Milano i vini francesi venivano venduti ad almeno 20.000 lire mentre il mio vino non lo riscivo a piazzare nemmeno a 500". E così iniziano i viaggi di approfondimento in Borgogna e a Bordeaux, non solo per le visite agli chateau ma anche per frequentare i corsi della facoltà di enologia ed entrare in contatto con il grande Émile Peynaud. Viaggi che furono preziose occasioni di conoscenza e anche di approfondimenti su tanti aspetti: dalle scelte vendemmiali alle tecniche enologiche, dalla scelta delle attrezzature (per esempio table de triage o barriques) alle pratiche innovative. Con queste premesse, il passaggio generazionale in azienda con papà Giovanni, non fu privo di qualche asperità, ma ormai la strada era imboccata.

 

Gli anni '70

Nel 1973 entra definitivamente in azienda e nel 1974 Fausto realizza in completa autonomia la sua prima vendemmia: Vespaiolo, Pinot Bianco, Pinot Nero, Cabernet, Merlot e Sauvignon, tutti targati Breganze. Nel frattempo amplia le sue conoscenze e frequenta Gianni Brera, Luigi Veronelli, Gualtiero Marchesi. Nel 1976/1977, insieme ad Angelo Gaja, Maurizio Zanella e Piero Antinori fa parte del gruppo di aziende che lancia il Vino Novello italiano, sulla falsariga del Beaujolais Nouveau che nel mondo viveva un incredibile successo. Nel 1983 il suo primo viaggio in USA per conoscere vini e produttori di quel paese tra cui Robert Mondavi e l'enologo californiano André Tchelistcheff.

La ditta Maculan cambia pellee con la collaborazione per la parte commerciale della sorella Franca – tra le fondatrici delle Donne del Vino, prematuramente scomparsa - contribuirà alla rinascita del vino italiano e farà conoscere e apprezzare i vini di Breganze, sino ad alloro quasi sconosciuti.

 

Angela MaculanAngela Maculan

Maculan oggi. La vendemmia numero 40

Oggi è la nuova generazione Maculan – le sorelle Angelae MariaVittoria– ha affiancato il genitore nella gestione aziendale e nella conduzione dei 40 ettari vitati. L'azienda produce circa 650.000 bottiglie vendute in oltre 40 paesi ed è presente già dalla prima edizione della guida Vini d'Italia del Gambero Rosso, la1988.

Per festeggiare la quarantesima vendemmia del padre, Angela e Maria Vittoria Maculan hanno voluto realizzare il vino XL Vendemmia, un Breganze Cabernet Sauvignon 2013, prodotto solo in 300 magnum.

 

Fratta: verticale di vecchie annatee la sfida per il futuro

L'anniversario è stato festeggiatom con una degustazione di vecchie annate di Fratta, il vino più rappresentativo dell'azienda. Tutti i vini, anche le annate più vecchie, hanno dimostrato di avere una eccellente tenuta rivelando un sensazioni gustative molto ricche ed eleganti: il Fratta è un vino ancora in ottima forma.

Ora la sfida per il futuro è di far nascere a Breganze “il vino rosso da varietà resistenti, più buono d'Italia”. “Il primo impianto sarà complessivamente di sole 4000 viti”spiega Maria Vittoria Maculan, responsabile della produzione “ma la nostra intenzione è di rinnovare via via i vigneti più vecchi con varietà resistenti alla malattie. Le viti resistenti non sono Ogm, perché ottenute da incroci con altre viti con il cambiamento del solo 5% del patrimonio genetico ovvero di quelli responsabili degli effetti delle malattie sull’uva. Con queste varietà possiamo applicare solo uno o due trattamenti all'anno rispetto ai 10-11 che si praticano generalmente nel nostro territorio”. La prima vinificazione dei nuovi vigneti è attesa per il 2020.

 

Bottiglie di Fratta in dgustazioneLe bottiglie in degustazione

Le degustazione delle vecchie annate di Fratta

Il Fratta nasce sulle colline vulcaniche e tufacee da uve cabernet sauvignon (da un vigneto della zona Ferrata) e dal 1997 anche merlot (Villa Elettra) vendemmiate a mano. Dopo una selezione dei grappoli, fermenta in tini di acciaio con frequenti follature durante la macerazione (8 giorni). Passaggio in barriques di rovere francese per 1 anno. Tutti i vini, anche le annate più vecchie, hanno una tenuta del colore eccellente così come le sensazioni gustative. Sono vivi, e in qualche caso nervosi, magari con qualche capello grigio, ma tutti in ottima forma. Le bottiglie di Fratta, qualche giorno prima dell'assaggio, sono state stappate, degustate e controllate una per una. Quindi nuovamente richiuse con un tappo tecnico. La degustazione si è svolta a Roma, Mercoledì 14 Giugno, presso l'Enoteca Achilli.

 

1979

Ottima tenuta del colore rubino, appena scarico; naso in cui si avvertono i fiori secchi, molto delicati, insieme a sentori di corteccia di china e inchiostro; in bocca struttura integra, morbido, vellutato, di gran carattere, con finale di liquirizia. Lunga persistenza. Un vino così, dopo 38 anni in bottiglia, non è affatto scontato.

 

1982

Colore rubino e naso mediamente intenso con lievi sentori balsamici e speziati, ma anche un ricordo di confettura di mirtillo; in bocca buona intensità e morbidezza, struttura piena, sensazione di sapidità, assai piacevole e finale persistente con un tocco di fruttato al retrogusto. Bel vino anche questo.

 

1985

Colore rubino netto e naso un po' chiuso, senza note particolari; in bocca bella ampiezza, tannicità ancora avvertibile ma equilibrata. Piacevole con una leggera sensazione fruttata sul finale. Persistente. Equilibrato. Pieno. Decisamente più interessante in bocca ma con le vecchie bottiglie può capitare.

 

1993

Rubino con naso leggermente speziato/fruttato; in bocca grande piacevolezza, la struttura è elegante, piacevole, intensa. Persistenza lunga con un finale ancora fruttato/speziato. Complessivamente dimostra una inaspettata freschezza per un vino della sua età. Una sorpresa.

 

1998

Rubino classico e naso con una leggera speziatura e lievi note erbacee (piraziniche); in bocca struttura equilibrata, piacevole, morbido, tannicità ancora avvertibile ma ben amalgamata con la struttura. Finale con ancora un leggero erbaceo molto gradevole.

 

2003

Colore rubino netto e limpido; naso ricco di frutti rossi sotto spirito, speziato con punte di smalto; bocca piacevole con una struttura che nonostante l'età presenta un tannino ancora avvertibile.

È un vino in evoluzione, abbastanza pronto, frutto di un'annata molto calda e per questo anche difficile. Il consiglio è di berlo.

 

2005

Bel rubino brillante e naso in evoluzione che sta perdendo le note più fruttate a favore delle spezie (note di pepe) ma anche di liquirizia e sensazioni di cuoio; bella struttura, ricca, ben equilibrata, con lunga persistenza e r­itorno di frutta rossa. Bel vino pieno ed elegante.

 

2015 (uscirà a novembre 2017)

Colore rubino intenso e al naso forti sensazioni di piccoli frutti rossi seguiti da note speziate e quasi di caffè; in bocca tanini dolci, ancora con qualche asperità e bella struttura, di grande eleganza e complessità. Si sta facendo e si farà. Insomma è un giovanotto che promette molto bene.

 

XL Vendemmia 2013

Rubino classico e profumo di frutti rossi, lamponi e mirtilli, di leggero erbaceo (peperone) ma anche cacao sullo sfondo. In bocca bel frutto, pieno, maturo, con una struttura elegante, in via di armonizzazione. Bella persistenza con retrogusto di frutta rossa. È un vino in cammino.

 

 

Maculan |Breganze (VI)| via Castelletto, 3 | tel. 0445 873733 | http://www.maculan.net/

 

a cura di Andrea Gabbrielli


Mangialonga Picena 2017. Una passeggiata a tutto gusto per i vigneti dell'Offida Docg

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Una cena itinerante tra i vigneti dell’Offida Docg per scoprire le bellezze del Piceno. Cantine, chef e produttori uniti nel progetto della Mangialonga Picena il prossimo 23 luglio.

L'evento

Sei chilometri e mezzo, dieci tappe, un territorio da scoprire: Il Piceno. Questo il sunto della Mangialonga Picena, una passeggiata enogastronomica per i vigneti dell'Offida Docg organizzata dall’Associazione Culturale Picenum Tour, e giunta alla sua quarta edizione. L'obiettivo? Raccontare le potenzialità di una terra attraverso il cibo, il vino e altri prodotti di eccellenza marchigiani, dall'antipasto al dolce. La prossima domenica 23 luglio, dalla piazza del Popolo di Offida, si parte per una camminata nel verde della natura picena con calice al collo. 6,5 km di buona cucina, prodotti tipici e buon vino nella campagna marchigiana: questo lo slogan dell'evento che, in caso di maltempo, sarà rimandato al 30 luglio.

Il programma

Golosi abbinamenti con i vini del territorio e un’immersione nei paesaggi collinari incontaminati: la manifestazione quest'anno presenta un programma più fitto che mai, fra assaggi e degustazioni. La prima tappa è all’Enoteca Spazio Vino (Chiostro San Francesco) per un aperitivo con la Margherita Morrison’s (mozzarella, pomodoro a pezzettoni, basilico e ricotta salata) del Morrison’s Pub e le birre artigianali del Birrificio Carnivai. Si prosegue con la Tenuta Cocci Grifoni, con Simone e Sara Marconi del ristorante Attico sul Mare e il polpo cotto nella sua acqua, fagioli e gelato di cipolla rossa e lo chef Nikita Sergeev (L’Arcade). Terzo appuntamento lungo i calanchi di Ripatransone, con lo chef Alcide Andrea Romani de La Croisette, e il Fritto Misto Lab, abbinati ai vini biologici di San Giovanni. E poi ancora l'azienda agricola Aurora, con gli chef Daniele Citeroni di Osteria Ophis e Andrea Mosca di Marili, che presenteranno rispettivamente un cannellone al cucchiaio e gli gnocchi in salsa brodettata. Non manca, naturalmente, il dolce: a servire il dessert è Fabio Bracciotti della Sorbetteria Crème Glacéè, prima di passare alla sesta tappa presso la terrazza della cantina Paolini e Stanford, con il Ristorante Caffè Meletti e la chef Maria Elena Cicchi di Villa Cicchi. Il settimo appuntamento è con i formaggi dell'azienda agricola Fontegranne, abbinati ai vini della cantina San Filippo, nei giardini dell'omonima chiesa. Si ritorna poi all'interno del borgo di Offida, all'enoteca Ví/Stró, con le Pesche della Valdaso con ricotta mantecata e cioccolato bianco dello chef Luca De Cesaris del Piccolo Teatro. È poi la volta del Ciù Ciù, dove sarà servita la zuppetta di frutta fresca con spuma al basilico e meringa al pomodoro della chef Sabrina Tuzi della Degusteria del Gigante. Ad accompagnare le portate, vini autoctoni prodotti dalle cantine Tenuta Cocci Grifoni, San Giovanni, Aurora, Paolini e Stanford, San Filippo, Tenuta La Riserva e Ciù Ciù, oltre alle bibite analcoliche Paoletti. A concludere la manifestazione, il vin cotto di Colline Offidane, il funghetto offidano di Fior di Farina, le miscele di Caffè Orlandi Passion e i liquori dell'Anisetta Rosati in piazza del Popolo.

www.mangialongapicena.it

a cura di Michela Becchi

Appunti di viaggio. Laura Ravaioli in Israele. Il pane dello Shabbat

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Da Tel Aviv a Gerusalemme alla scoperta della tradizione gastronomica ebraica. A fare da Cicerone, una Laura Ravaioli più in forma che mai. Inizia oggi un nuovo programma televisivo: Appunti di viaggio. Laura Ravaioli in Israele.

La tradizione gastronomica ebraica è un incontro di storie diverse: frutto della contaminazione che, nei secoli, il popolo ebraico ha tessuto nei luoghi in cui si è stabilito. Da questo mosaico di culture è nato un originale profilo che unisce e armonizza lingue, cucina, usi e costumi eterogenei. Di questa comunità multiculturale il cibo è un grimaldello fondamentale. E proprio di questo incontro di pietanze, prodotti, paesaggi e tradizioni è quello che Laura Ravaioli ci parlerà nel suo nuovo programma Appunti di viaggio. Laura Ravaioli in Israele, in onda tutti i martedì su Gambero Rosso Channel alle ore 21:30, a partire dal 18 luglio 2017

 

Il programma

Un diario di viaggio in cui Laura Ravaioli, uno dei volti più noti di Gambero Rosso Channel, ci racconta Israele attraverso i suoi territori, le molte tradizioni, i popoli incontrati nel suo cammino da Gerusalemme verso Tel Aviv. Sei puntate e moltissime suggestioni per avvicinare la cultura dei luoghi, mediante ricette e prodotti tipici. A fare da sfondo, i molti paesaggi di Israele, attraversato passando per città e villaggi grandi e piccoli. In ognuno di essi, incontri e ricette realizzate a quattro mani da Laura Ravaioli con chef e cuochi di casa per scoprire una cucina domestica e profondamente radicata nella storia delle persone. “Sono appunti di viaggio, con impressioni, incontri e cucina a tracciare i contorni di una diversità culturale che contribuisce a formare Israele” racconta la Ravaioli. Ci sono percorsi turistici, come quelli che a Gerusalemme portano al Giardino dei Giusti, al Sepolcro e al memoriale della Shoah, ma anche nel negozio del signor Bilal, che conserva, sotto al pavimento in vetro, vestigia di un complesso templare, e che ospita tessuti preziosissimi, destinati – tra gli altri – alle autorità religiose delle maggiori confessioni monoteiste.

Il viaggio è una sintesi di panorami: c'è il deserto, i paesaggi che si incontrano seguendo la via dell'acqua dal lago di Tiberiade lungo il Giordano e fino al Mar Morto con le sue coltivazioni di acqua salina; ci si sposta verso nord, passando nell'antica città dei Crociati, dove visitare il reticolo di gallerie e sale dell'epoca recentemente rinvenuti, per poi spingersi fin quasi al Libano. Nel suo peregrinare, Laura Ravaioli, ci porta anche alla scoperta delle aree agricole e della tradizione del grano - che mescola storia recente, studi agronomici e vicende personali - e quella del vino, visitando la winery Carmel. Il viaggio termina a Tel Aviv, la città che non dorme mai, con le sue spiagge di surfisti, il concerti live all'aperto e il fermento con cui sta recuperando il suo passato e rinnovando le sue architetture. In questo percorso si visitano mercati, si scoprono prodotti, si incontrano popolazioni diverse: i drusi, gli etiopi del deserto, i circassi; si provano grandi ristoranti e si entra nelle cucine di casa, si scoprono prodotti e tradizioni. Tutto questo Laura Ravaioli ce lo racconta in Appunti di viaggio. Laura Ravaioli in Israele, in onda tutti i martedì su Gambero Rosso Channel alle ore 21:30, a partire dal 18 luglio 2017.

Laura Ravaili con la cuoca Atalya

Atalya e il pane dello Shabbat

Il pane che gli ebrei mangiano per il Sabato o per le Feste, la challah,non rappresenta una qualcosa che si fa semplicemente per tradizione ma ha un significato molto più esteso e profondo fatto di fede, cultura, memoria. Il pane per gli ebrei, da un punto di vista religioso, è un argomento serio, ricco e complesso.

Invece dal punto di vista della cucina la ricetta non presenta particolari difficoltà e ogni venerdì, in qualunque parte del mondo, in tante cucine troverete delle donne che preparano il pane, perché è un compito, mitzvah, affidato alle donne. La ricetta potrà essere più o meno la stessa, perché anche qui ci sono regole ben precise, ma quello che rende il pane di ogni casa diverso sono le forme. La treccia è la forma base dalla quale poi si evolvono geometrie più complesse ed elaborate come ci fa vedere Atalya nella sua casa di Ein Karem sulle colline appena fuori Gerusalemme.

La ricetta di Atalya si discosta da quella regolare, cioè parve senza latte o derivati, poiché qui troviamo il burro invece che l’olio.

 

 

La ricetta

gli ingredienti del pane di Atalya

Ingredienti per 2 trecce di pane (challot)

1 kg di farina “00”

25 g di lievito di birra

475 cl di acqua

1 uovo

110 g di zucchero

70 g di burro (olio)

10 g di sale

 

1 uovo per pennellare

Semi di sesamo o semi di papavero, a piacere

 

 

In una ciotola sciogliete il lievito con l’acqua appena tiepida, aggiungete un uovo e mescolate bene quindi iniziate l’impasto aggiungendo poco alla volta la farina e da ultimo lo zucchero. Lavorate bene l’impasto, almeno 5/6 minuti, fino a che non risulterà sodo e compatto a questo punto aggiungete poco alla volta il burro molto morbido. Lavorate ancora per 5-6 minuti, aggiungete quindi il sale e impastate ancora un po’. Ora richiudete l’impasto formando una palla, copritelo e lasciatelo lievitare fino a che non avrà raddoppiato il suo volume.

Dividete l’impasto in tanti pezzetti uguali, il numero dipende dal tipo di intreccio che si vuole realizzare, formate delle palline e lasciatele riposare coperte con un tovagliolo per una decina di minuti quindi schiacciatele, una alla volta, e formate delle cordicelle e qui ha inizio la magia, Atalya intreccia per noi il pane per formare la challah.

La forma più semplice è quella della treccia classica a tre capi, leggermente più complessa è la treccia a quattro ciò significa che l’impasto fa diviso in 8 parti per intrecciare due pani.

Una volta preparate le trecce trasferitele su di una placca ricoperta con carta da forno e pennellatele con dell’uovo sbattuto. Lasciate lievitare le challot fino a che non abbiano raddoppiato il loro volume quindi pennellatele di nuovo con l’uovo e se vi piace rifinitele con semi di sesamo o di papavero a vostro gusto. Fate cuocere il pane in forno già caldo a 170°C. per 20-25 minuti, fino a che non risulterà asciutto, leggero e ben dorato in superficie.

 

Un pane profondamente simbolico per gli ebrei ma che può trovare posto sulle tavole di tutti e tutti i giorni per la sua consistenza ricca e soffice, dal gusto leggermente dolce, a metà strada tra il pane bianco e la brioche.

 

 

a cura di Laura Ravaioli

 

Questi ed altri piatti della tradizione ebraica Laura Ravaioli ce li racconta in Appunti di viaggio. Laura Ravaioli in Israele, in onda tutti i martedì su Gambero Rosso Channel alle ore 21:30, a partire dal 18 luglio 2017

Live Music Festival ad Aramengo. Il festival che riunisce i prodotti tipici del Monferrato

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Torna la decima edizione del Live Music Festival, appuntamento estivo annuale di Aramengo, in provincia di Asti, per celebrare prodotti tipici e buona musica. Con la speciale partecipazione del Gambero Rosso Channel.

L'evento

Un appuntamento che abbiamo creato e poi curato come un prodotto del nostro territorio, perché potesse crescere e farsi conoscere il più possibile grazie a un impegno costante per garantire la qualità del nostro prodotto”. Così il sindaco Massaia descrive il Live Music Festival di Aramengo, piccolo comune nell'Astigiano che da anni ospita un evento che coniuga buon cibo e buona musica. Protagonisti principali della manifestazione, le specialità enogastronomiche del territorio e tanti ospiti, a partire da Federico Poggipollini. Giunta alla sua decima edizione, la manifestazione – in scena dal 21 al 31 luglio prossimi – quest'anno può contare anche sulla presenza del Gambero Rosso, con lo chef Max Mariola, che sarà in onda sul canale Sky 412 del Gambero Rosso Channel direttamente da Aramengo, dove sarà intento a preparare i suoi celebri panini. In particolare, per l'occasione lo chef realizzerà un panino dedicato al Comune con varie eccellenze della zona, dalla carne di razza bovina piemontese alla robiola di Cocconato. Ad accompagnare i prodotti, i vini del Monferrato promossi dal Consorzio della Barbera, marchio che ha fatto conoscere i vini piemontesi in tutto il mondo, quest'anno più attivo che mai in occasione dei 1050 anni della nascita del Monferrato.

I prodotti tipici

Fra musica dal vivo e spettacoli, cuore pulsante del festival restano materie prime e paesaggi del territorio, incantevoli e unici nel loro genere: parte delle Langhe, del Roero e del Monferrato è diventato infatti Patrimonio dell'Umanità dell'Unesco grazie alle geometrie dei filari che solcano le colline dei vigneti della zona. Ma non è solo il vino a rappresentare le ricchezze gastronomiche delle campagne astigiane. Fra le tante specialità della zona, tre su tutte spiccano per il loro gusto autentico, le stesse che chef Mariola utilizzerà nel suo panino d'autore. A cominciare dal peperone di Capriglio, una cultivar selezionata particolarmente adatta alla conservazione, facilmente digeribile e piuttosto dolce, considerato in passato il principe degli ortaggi, e utilizzato in piatti tradizionali come la bagna cauda, la peperonata e molti sughi di vario genere. Dal 2001, il peperone ha ottenuto il riconoscimento PAT (Prodotto Agricolo Tradizionale e Tipico), e in seguito il presidio Slow Food. Molto sviluppata anche la tradizione casearia, in particolare con la robiola di Cocconato, morbida e profumata, cremosa e liscia, tutta derivata da latte vaccino di pura razza piemontese. Di razza piemontese è nota poi anche la carne, una specie bovina selezionata con cura da tempo immemore, attraverso le più sofisticate tecniche naturali e agronomiche.

a cura di Michela Becchi

Oli d'Italia 2017. Olivicoltore dell'anno: Fonte di Foiano di Castagneto Carducci

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Due fratelli con la passione per la campagna, ma soprattutto per l'extravergine: a Castagneto Carducci, in provincia di Livorno, Paolo e Simone Di Gaetano rappresentano un esempio per tutti gli aspiranti olivicoltori. La loro storia.

Olivicoltura: la qualità dell'olio comincia in campo

È impossibile raccontare la storia di un prodotto, delle persone che vi sono dietro, senza soffermarsi prima sulle difficoltà del lavoro in campagna e l'imprevedibilità della natura con cui queste persone si trovano ad avere a che fare. Scegliere di lavorare in campo agricolo comporta infatti una serie di responsabilità e doveri quotidiani, ma soprattutto sottintende la necessità di studiare giorno dopo giorno, rimanendo aggiornati sulle nuove tecnologie e le ultime novità del settore. L'olivicoltura non fa eccezione, perché il percorso per raggiungere la qualità dell'extravergine comincia in campo, e continua tutto l'anno.

È per questo che la guida Oli d’Italia 2017 del Gambero Rosso ha dedicato un premio speciale a due aziende che si sono distinte per il lavoro nell'uliveto, Frantoio Franci di Castel del Piano (Grosseto), e Fonte di Foiano di Castagneto Carducci, Livorno. Quest'ultima è in mano ai fratelli Paolo e Simone Di Gaetano, che da anni proseguono nell'attività di famiglia con lo stesso impegno dei genitori.

Le origini

È il 1979 quando papà Michele, decide di lasciare Milano insieme alla moglie Marina, e di trasferirsi nella provincia di Livorno per realizzare il suo sogno: creare un'azienda agricola. Nasce così Fonte di Foiano, con il recupero delle prime piante secolari abbandonate, e l'impianto di nuovi alberi. Nel '90, viene inserito il primo frantoio con sala stoccaggio e imbottigliamento, “per avere il controllo totale sull'intera filiera produttiva”. A raccontare la storia dell'azienda è Paolo Di Gaetano che, insieme al fratello Simone, continua a seguire la stessa filosofia del padre, quella del “rispetto della pianta e dei cicli naturali, fondamentale per ottenere il massimo dall'ulivo”.

La produzione

Circa 30 ettari a gestione diretta costituiscono le tenute dell'azienda, che ogni anno acquista anche altre olive “da realtà limitrofe che collaborano con noi, e che seguiamo personalmente tutto l'anno”, per una produzione annuale di extravergine di circa 30mila litri, “che puntiamo ad aumentare nel tempo”. Perché se è vero che nel complesso mondo dell'extravergine quello che conta è la qualità, è altrettanto giusto pensare anche ai numeri: “Raggiungere una fascia sempre più ampia di consumatori è fondamentale per poter diffondere la cultura dell'olio di qualità. Solo arrivando a un pubblico vasto si può pensare di creare maggiore consapevolezza”. Oltre al fatto che ampliare il bacino di utenza è fondamentale per avere più stabilità imprenditoriale.

L'azienda esce sul mercato con sei etichette: due linee base, il Grand Cru (blend di picholine, frantoio, maurino e moraiolo), Riflessi (blend di maurino e pendolino), il monocultivar di frantoio, e il Mille Novecento Settantanove, blend di frantoio e moraiolo.

La cura delle piante

Per ottenere oli d'eccezione, i fratelli lavorano duramente in campagna ogni giorno. “L'ulivo, a differenza di ciò che si pensa, richiede una cura costante durante l'anno”, a cominciare dai terreni, “che vanno tenuti sempre puliti e ben lavorati”, per finire con la potatura, “ogni 2 anni a rotazione per la maggior parte delle piante, fatta eccezione per alcune che potiamo annualmente”. Fondamentali sono la spollonatura SPIEGA COSA E' e aggiungi nel glossario, ma anche la concimazione e la trinciatura dei residui di potatura, per finire con i trattamenti antiparassitari. La raccolta inizia i primi di ottobre, con la maurino e il leccino, “prime cultivar a maturare, seguiteda pendolino, frantoio, moraiolo e infine la picholine”. L'unico monocultivar dell'azienda è dedicato al frantoio; ma perché proprio questa varietà? “È l'oliva toscana per eccellenza e, se lavorata a dovere, dà origine a oli intensi dai profumi erbacei, note di carciofo e cardo, e soprattutto alti livelli di polifenoli. Per i nostri blend, partiamo sempre dal frantoio”.

Il mestiere dell'olivicoltore

Ma cosa significa oggi, in Italia, essere un olivicoltore? “Il nostro è un settore difficile, un po' per le basse rese, e un po' per il mercato, che non è ancora molto recettivo”. Ma i fratelli sono fiduciosi, “ci sono ampi margini di miglioramento; crediamo fortemente in questo prodotto”,ingrediente basilare della nostra dieta. Come approcciare a questo mestiere? Il lavoro di ogni singolo contadino è fondamentale, ma per ottenere dei risultati occorre fare gioco di squadra: “Il mio consiglio per tutti i nuovi olivicoltori è quello di andare a conoscere personalmente le aziende che si sono distinte negli anni, parlare con i produttori e i pionieri di questo settore. Bisogna guardare i maestri all'opera, osservarli nei movimenti e ascoltare le loro esperienze”. Facendo tesoro di ogni parola, ogni gesto, e soprattutto assaggiando: “Il segreto per fare un buon olio? Assaggiare, assaggiare e assaggiare ancora. Senza sosta e senza riserve, assaggiare in continuazione confrontandosi e cercando di capire cosa fare per ottenere certi risultati”. Ponendosi così degli obiettivi da raggiungere nel tempo, “senza fretta”, perché la pazienza paga “e le soddisfazioni arrivano negli anni”. Un altro consiglio? “Rispettare sempre i colleghi: la stima reciproca è imprescindibile per inserirsi al meglio nel mercato”.

Il lavoro in frantoio

Dopo le attenzioni in campo, si passa in frantoio. L'impianto aziendale è un due fasi della Toscana Enologica Mori, “un macchinario eccellente che ci permette di estrarre il massimo dai frutti, grazie anche all'assistenza dell'ideatore e progettista Giorgio Mori”. I parametri di lavorazione cambiano a seconda dell'annata: “velocità di frangitura, griglia, tempi e temperature di gramolazione, tutte queste misure variano di continuo, la produzione di un buon olio va pensata anno per anno, cultivar per cultivar”, anche durante la fase di estrazione. Un ruolo fondamentale lo gioca l'assaggio: “Occorre monitorare costantemente il prodotto, che va sempre assaggiato insieme ad altre persone”. Una volta estratto, l'olio viene immediatamente filtrato, “fase fondamentale non solo per stabilizzare il prodotto e allungare la sua shelf-life, ma anche per una questione di rispetto nei confronti del consumatore”. Perché un olio non filtrato, se non consumato in breve tempo, deteriora in fretta, e inizia a formare la cosiddetta 'posa'; in questo modo “il cliente paga il prezzo di una bottiglia intera, ma ciò che ha è un 90% di extravergine e un 10% di fondo”.

La vendita

L'olio di Fonte di Foiano si trova in diverse enoteche e oleoteche nazionali, oltre che nella grande distribuzione, “dove siamo presenti con il nostro Igp Toscano, proprio per raggiungere un bacino d'utenza più ampio, quello a cui dobbiamo puntare: la famiglia italiana”. Tra i punti vendita c'è anche l'originale Oil Bar Cafè del Mercato Centrale di Livorno di Alessandro Camici che ha deciso di coniugare il mondo della caffetteria con quello dell'extravergine, creando un locale insolito, dove gustare espressi e cappuccini accanto alle bruschette realizzate con oli extravergine d'oliva di alta qualità. L'azienda esporta poi anche all'estero, in circa 30 paesi, “Canada in primis, dove vendiamo fin dal 1985”.

Comunicare il prodotto

I fratelli guardano con ottimismo la situazione dell'extravergine in Italia: “Il nostro Paese è cresciuto molto negli ultimi tempi, grazie anche al grande lavoro di comunicazione che le guide specializzate come quella del Gambero Rosso stanno operando”. E non solo: “Dobbiamo ringraziare tutte le oleoteche che stanno nascendo nelle varie città italiane, e che si occupano di informare i consumatori”. I produttori, dalla loro, organizzano visite guidate per singoli o gruppi di persone, eventi e degustazioni, “la nostra azienda è sempre aperta per chi vuole conoscere più a fondo il prodotto”. Per il futuro, tante nuove idee in cantiere, come l'impianto di nuovi uliveti, ma un punto fermo rimane “cercare di diffondere al massimo la cultura dell'olio buono fra i consumatori”. Perché la formazione dei clienti è un passaggio fondamentale per sviluppare il settore: un extravergine di qualità lo si impara a riconoscere in fretta, con i suoi profumi e aromi, le sue sensazioni piacevoli di amaro e piccante, il suo gusto unico. E soprattutto è immediata la netta differenza fra un olio buono e uno di bassa qualità: “una volta provato un extravergine di livello, è impossibile tornare indietro”.

Fonte di Foiano | Castagneto Carducci (LI)| loc. Fonte di Foiano, 148 | tel. 0565 766043 | www.fontedifoiano.it/

a cura di Michela Becchi

Per acquistare la guida clicca qui

Guida Oli d'Italia 2017. Ecco tutti i premi speciali

Oli d'Italia 2017. Azienda dell'anno: Agrestis di Buccheri

Oli d'Italia 2017. Frantoio dell'anno: Nicolangelo Marsicani di Morigerati

Oli d'Italia 2017. Miglior monocultivar: Doria di Cassano Allo Ionio

Oli d'Italia 2017. Olivicoltore dell'anno: Frantoio Franci di Castel del Piano

Oli d'Italia 2017. Miglior Dop: Trappeto di Caprafico di Casoli

Oli d'Italia 2017. Miglior olio biologico: Marfuga di Campello sul Clitunno

Oli d'Italia 2017. Miglior monocultivar: Sebastiana Fisicaro Oleificio Galioto di Ferla

Oli d'Italia 2017. Miglior blend: Fattoria Ambrosio di Salento

Oli d'Italia 2017. Miglior performance territoriale: Accademia Olearia di Alghero

Oli d'Italia 2017. Miglior olio biologico: Viola di Foligno 

Olio extravergine di oliva. Glossario essenziale per conoscere l'oro verde

 

Ricetta per l'estate. Il cous cous in 3 varianti

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Praticamente è una non ricetta, ma una preparazione di base che deve poi essere completata e arricchita in vari modi. Il cous cous, però, è un ingrediente che si presta particolarmente bene per i giorni più caldi. Per questo vi regaliamo 3 ricette tutte da provare.

Versatile, trasformista, internazionale. Il cous cous è un ingrediente che sa di luoghi lontani e insieme vicinissimi, parla del sole della Trinacria e delle molte comunità che si affacciano sul bacino del Mediterraneo. Si presta a ricette classiche come a interpretazioni creative, va bene con il pesce o con la carne, con stufati di verdure e spezie o in insalata, con erbe aromatiche, magari anche con qualche nota dolce, come uva passa e mandorle. L'importante è armonizzare i sapori e le consistenze. Oggi vi proponiamo tre ricette, una di tradizione e le altre creative, convinti che saranno solo lo spunto per quanti non rinunciano ai piaceri della buona tavola anche con le alte temperature. Il cous cous però ha un vantaggio; consente preparazioni veloci, anche in più passaggi. La semola può infatti era preparata e poi condita in un secondo momento. Partite da queste tre ricette, e poi fateci sapere le vostre. 

 

Cous Cous con zucchine marinate alla menta

Metti insieme un classico dell'estate, come le zucchine marinate, e uniscilo a un passepartout, come il cous cous. Il risultato è quello proposto da Adelaide Michelini, che arriccchisce il piatto con la menta, pomodori confit e robiola.

 

Cous cous con verdurine e prosciutto di Parma 

Prosciutto, verdure e frutti rossi, perché no? Questa la proposta firmata da Igles Corelli, per un cous cous golosissimo, un piatto perfetto per l'estate.

 

Cous cous alla trapanese 

Tra i piatti dellla tradizione siciliana, uno dei più gustosi è il cous cous alla trapanese, questa la ricetta che ci propone oggi Max Mariola.

 

a cura di Antonella De Santis

 

 

 

Cucinare d'estate. Ricetta della parmigiana di melanzane in 3 varianti

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