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A la recherce des femmes chefs. Il film documentario sulle donne che lavorano in cucina

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È la regista francese Verane Frediani ad accendere i riflettori sul ruolo e la considerazione delle donne che guidano e lavorano nelle più grandi cucine professionali del mondo. Un documentario appena uscito nelle sale francesi che affida il racconto alle parole di tante chef. Per l'Italia? Santini, Bowerman, Klugmann, Goulubi.   

Le donne in cucina... Basta cercarle

Con le “ricerche” di una certa velleità introspettiva i francesi sono piuttosti ferrati. La più celebre – l'intramontabile Recherche con la erre maiuscola di Marcel Proust – è quella che si muove tra i ricordi e le suggestioni del tempo perduto. L'ultima in ordine di apparizione, invece, affonda le mani in un terreno decisamente più prosaico, indirizzando l'occhio della macchina da presa su pignatte e grembiuli, massacranti turni di lavoro in cucina, voglia di riscatto e ambizione. A la recherche des femmes chefs è il documentario di Verane Frediani al debutto nelle sale francesi. Una produzione che il mondo della cucina – sovraesposto e iper raccontato in tutte le salse, con il filone biografico particolarmente apprezzato dopo il boom di Chef's Table – vuole raccontarlo attraverso l'esperienza delle donne che la professione dello chef l'hanno scelta in barba agli ostacoli di un mondo a dominanza maschile, che spesso ancora non le premia al pari dei colleghi. Lungi dal volerne fare una battaglia di genere, però, la pellicola si concentra piuttosto sulla complementarità uomo-donna (prendendo in prestito le parole di una delle protagoniste del film), eleggendola a valore aggiunto per l'organizzazione di uno spazio di lavoro più sereno e appagante da un lato, dinamico e votato alla scambio dall'altro (a tal proposito leggete cosa ci ha raccontato lo chef patron del Miramonti L'Altro Philippe Leveille qualche tempo fa). Poi c'è il discorso sull'autorevolezza e la capacità di gestione della brigata, che una chef donna certo non deve invidiare ai colleghi. Lo dimostrano i casi esemplari di chi ce l'ha fatta, anche in tempi non sospetti, come Alice Waters Anne-Sophie Pic, Dominique Crenn ed Elena Arzak, Clare Smyth Paz Levinson, le più giovani Jacotte Brazier e Kamille Seidler.

Anne Sophie Pic in cucina

Il film. Il racconto e le protagoniste

Tutte davanti alla telecamera, tutte chiamate a raccontare la propria esperienza, molte alle prese con pesanti e pressanti eredità familiari, tutte (oggi) ammesse nel gotha dell'alta ristorazione mondiale. I set privilegiati sono appunto le cucine movimentate di grandi tavole d'autore, le scuole di formazione, le strade e le aziende dove l'attività di queste imprenditrici si concretizza (dalla Cina alla Bolivia, passando per gli Stati Uniti, l'Italia e la Francia) a testimoniare il contributo delle donne del cibo allo sviluppo culturale e sociale di una comunità, e di un sistema territoriale. E più in generale per tracciare il profilo di una (tante) donne che sul lavoro sono dinamiche e combattive, curiose e creative, persino incoscienti e un filo ribelli, ma sempre ben salde con i piedi per terra, e custodi di un punto di vista che resta unico, proprio perché femminile. Un'ora a mezza di pellicola, per ora riservata al mercato francese (ma speriamo presto disponibile in più lingue), prodotta nel corso del 2016, che riapre l'annoso dibattito sulla (scarsa?) considerazione delle donne della ristorazione.

 

Chef e donna. Ostacolo o virtù?

A cominciare, per esempio, dalla mancata celebrazione del talento femminile nella prestigiosa classifica dei World's 50 Best Restaurants 2017, che infila le 50 “migliori” tavole del mondo trovando spazio solo per Elena Arzak e Daniela Soto-Innes (Cosme), mentre la Best Female Chef 2017, Ana Ros, è relegata in 69esima posizione. Mentre in Francia, da quando il premio è stato creato nel 1924, la medaglia per Miglior artigiano di Francia in cucina – assegnato ogni 4 anni – ha premiato solo due volte una donna, e su 616 tavole stellate solo il 3% sono declinate al femminile (in Italia il dato sale al 14%): “Di donne nelle cucine professionali se ne contano molte, il problema è che non non sappiamo cercarle” sostiene convinta la Frediani, che così riassume il senso del film.

 

La situazione in Italia

E infatti, se spostiamo l'attenzione sulle cucine di casa nostra – anche se nel documentario mancano all'appello molte nostre connazionali, alcune valide voci sono state interpellate: Cristina Bowerman, Nadia Santini, Antonia Klugmann, Victoire Goulubi, origini congolesi ma adottata dall'Italia, dove guida il Mirtillo Rosso alle pendici del Monte Rosa – l'Italia detiene un primato importante: è il Paese con il maggior numero di donne stellate nel mondo, con 45 chef premiate dalla Michelin, su un dato complessivo di (sole) 134 presenze tra tutti i Paesi recensiti dalla Rossa. Di nomi potremmo farne molti, ognuna ha la sua storia da raccontare, dalla più schiva Antonia Klugmann (che tra qualche mese si cimenterà con i riflettori di MasterChef) all'iperattiva Cristina Bowerman, alla nuova leva Caterina Ceraudo. E ancora Nadia Santini, Aurora MazzucchelliIside De Cesare, Valeria Piccini, Marianna Vitale, Rosanna Marziale, Martina Caruso. Accanto a loro ci sono le sommelier e le produttrici, le artigiane e le imprenditrici del cibo. Nella realtà di tutti i giorni, e così durante la narrazione del film. Per sfatare il mito che la cucina con i suoi addentellati “sia un mondo di uomini, fatto per gli uomini”.  

 

a cura di Livia Montagnoli


Lacrima di Morro d’Alba: un nuovo logo e progetti per il futuro

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Tre giorni immersi nei paesaggi delle Marche per conoscere e riflettere sul futuro del Lacrima di Morro d'Alba, un vino dalle molte potenzialità che ha presentato, in questa occasione, un nuovo marchio.

 

Si torna sempre volentieri in una regione ricca di bellezze naturali, di storia e cultura come le Marche. Tanto più se l’occasione è un week end organizzato dall’Istituto Marchigiano Tutela Vini per far conoscere il Lacrima di Morro d’Alba e il suo territorio.

Dal 30 giugno a 2 luglio, l’Istituto Marchigiano di Enogastronomia ha ospitato una serie di degustazioni e di momenti d’incontro tra la stampa specializzata e 14 aziende di Morro d’Alba. L'evento è nato dall'iniziativa di un gruppo di produttori, che hanno unito le loro forze per cercare di dare valore al Lacrima e al territorio della denominazione. 

 

La zona di produzione

La zona di produzione del Lacrima è una splendida area collinare a pochi chilometri dal mare. Un vero e proprio mosaico di colori, in cui si alternano, in perfetta armonia cromatica, il verde delle vigne, il giallo dei campi di girasole e le distese dorate di grano. Una terra capace di offrire una vacanza dalle mille sfaccettature, che unisce il mare, la natura incontaminata, il patrimonio storico-culturale di Jesi, Morro d’Alba e degli altri caratteristici piccoli borghi e una grande tradizione enogastronomica.

 

 

il nuovo logo del vino Lacrima di Morro d'Alba

Una nuova immagine per il Lacrima di Morro d'Alba

L’evento ha offerto anche l’occasione per presentare ufficialmente il nuovo logo del Lacrima di Morro d’Alba. Una sintesi grafica dei tratti salienti del vino: il suo profilo aromatico, la sua eleganza delicata, la caratteristica nota di rosa. Il nuovo logo verrà utilizzato sulle etichette delle bottiglie di Lacrima di Morro d’Alba per renderle visivamente più riconoscibili e per rafforzare il rilancio della denominazione. Un marchio semplice ed elegante, che dovrà diventare il simbolo del Lacrima e segnarne il futuro successo.

 

Quale Lacrima per il futuro?

I dati di mercato parlano di un trend positivo e di un crescente apprezzamento del Lacrima di Morro d’Alba, soprattutto presso il pubblico femminile. È un vino che si fa amare per la sua delicata aromaticità, che lo rende molto piacevole e accattivante. Tuttavia c’è ancora molto da fare per far conoscere questo prezioso frutto dell’enologia marchigiana. Bisogna continuare a lavorare per creare un’identità espressiva sempre più riconoscibile e coerente. 

Proprio di questo si è discusso nelle due giornate dell’evento. Dagli incontri e dalle degustazioni è emersa la necessità di definire meglio i tratti distintivi e il carattere del Lacrima, sia nella versione più fresca e classica, che in quella Superiore. 

 

 

 

 

una bottiglia di lacrima di morro d'alba con il novo logo

 

Il vitigno e il vino  

Il lacrima è un vitigno autoctono semi-aromatico con un bouquet caratterizzato da esuberanti profumi floreali, in particolare di rosa. Dà vita a un vino dal sorso fruttato, con buona freschezza e tannini fini. Gli assaggi hanno messo in luce interpretazioni piuttosto eterogenee e qualitativamente altalenanti. Si passa da “vini roseto”, in cui la nota floreale tende quasi a sovrastare il sorso, a versioni in cui i profumi floreali sono parte di un bouquet più articolato, con aromi di piccoli frutti rossi e delicate spezie. Senza sacrificare la naturale vocazione aromatica del vitigno, la seconda interpretazione ci è parsa più equilibrata e capace di esprimere maggior coerenza tra parte olfattiva e gustativa. Inoltre, avendo assaggiato sia vini del 2015 che del 2016, è parso chiaro che un anno in più di bottiglia fa solo bene all’equilibrio e all’armonia complessiva del Lacrima.

 

Lacrima di Morro d’Alba Superiore

La versione Superiore si caratterizza per maggior struttura, concentrazione e per affinamenti più lunghi, a volte anche con l’utilizzo del legno. È un vino più complesso, con le note floreali che scivolano in sottofondo, lasciando spazio a sentori di sottobosco, sensazioni balsamiche e speziate. Il sorso si fa più intenso e profondo, con bella persistenza finale. Sicuramente un vino diverso, più gastronomico, ma che può coesistere senza problemi con la versione più giovane, immediata e aromatica. Le visite nelle Cantine del territorio sono state l’occasione per valutare la longevità del Lacrima di Morro d’Alba. Bottiglie di oltre dieci anni hanno dimostrato di poter reggere bene la sfida del tempo, sfatando il luogo comune del Lacrima da bere solo giovane. 

 

alcun bottiglie di lacrima di morro d'alba in degustazione

I migliori assaggi

Durante i momenti dedicati alle degustazioni, sono state molte le etichette interessanti. Segnaliamo di seguito le bottiglie che ci hanno maggiormente convinto:

 

Lacrima di Morro d’Alba Bastaro ’15 - Tenuta San Marcello

Lacrima di Morro d’Alba ’15 - Stefano Mancinelli

Lacrima di Morro d’Alba ’16 - Lucchetti

Lacrima di Morro d’Alba Rubico ’16 - Marotti Campi

Lacrima di Morro d’Alba Dasempre del Pozzo Buono ’16  - Vicari

Lacrima di Morro d’Alba Superiore Guardendo ’15 - Lucchetti

Lacrima di Morro d’Alba Superiore Compagnia ’14 - Conti di Buscareto

Lacrima di Morro d’Alba Superiore Melano ’13 - Tenuta San Marcello

 

a cura di Alessio Turazza

 

 

Tutti mangiano al fast food. La ricerca americana che smonta il binomio povertà-junk food. E il caso Locol

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Sono gli americani più benestanti i più assidui frequentatori di fast food. Ma patatine, cheese burger e pollo fritto piacciono proprio a tutti negli States, senza distinzioni di classe sociale e disponibilità economica. E allora come si contrasta la piaga dell'obesità? Il caso Locol, tra luci e ombre. 

L'America e il mito del fast food

Su politiche alimentari e promozione di stili di vita sani, a cominciare dalla tavola, l'America di Obama si è spesa moltissimo. L'ultima apparizione sul tema, l'ex inquilino della Casa Bianca l'ha spesa proprio in Italia, a Milano, in occasione del summit Seeds&Chips. Nel frattempo, negli States del presidente Trump, molto è cambiato. E mister Donald non ha tardato a far sapere al mondo che lui, con il junk food demonizzato dalla precedente amministrazione, ci va a nozze. Del resto il modello del fast food che oggi imperversa nel mondo ha preso le mosse proprio sotto l'egida della bandiera a stelle e strisce: all'inizio di quest'anno il film The Founder (splendido Michael Keaton nei panni di Ray Kroc, per la regia di John Lee Hancock) risaliva alle origini di Mc Donald's, dai primi successi alla metà degli anni Cinquanta al perfezionamento di un metodo, che ha portato in dote gli attuali 35mila punti vendita aperti ai quattro angoli del pianeta. Oltre 50 anni dopo, la consapevolezza dei nostri giorni ci porta a puntare il dito contro un modello pericolosamente responsabile di abusi ed eccessi alimentari, che nell'America delle forti diseguaglianze sociali si accende come una miccia dove incontra sacche di povertà e disagio sociale.

 

Il fast food come centro di aggregazione sociale

In poche parole, e l'assioma è inconfutabile, prezzi contenuti (e il food cost stavolta conta al contrario, con il mirino della qualità puntato a ribasso), facilità di fruizione, ampia diffusione e potere del marketing fanno del fast food l'oasi “felice” di molte periferie e quartieri dormitorio americani. E che il fast food sia diventato uno dei principali centri di aggregazione urbana, tra i giovani in testa, è un dato altrettanto scontato. L'America in costante lotta con la piaga dell'obesità ha dovuto (cercato di) correre ai ripari, e con particolare accanimento in alcuni Stati confederati ha in passato posto limiti severi all'apertura di nuovi fast food, soprattutto nelle aree più povere delle grandi metropoli (è emblematico il caso di Los Angeles, qualche anno fa). Ora però una ricerca pubblicata sulla rivista Economics & Human Biology prova a smentire il binomio povertà-fast food.

 

Gli americani amano i cheese burger. Ma chi ne consuma di più?

Uno studio di consumo sul territorio statunitense, infatti, ha dimostrato che i frequentatori più assidui delle grandi catene di junk food appartengono alla middle class, e che la fascia più povera della popolazione è solo leggermente più interessata a patatine e cheese burger rispetto ai cosiddetti ricchi. Il dato allarmante, chiaramente, è che tutti, senza distinzione di classe sociale e disponibilità economica, si confermano assidui clienti dei fast food, con una frequenza che nel migliore dei casi si attesta su un passaggio alla settimana, e tocca picchi di oltre 4 volte nel giro di 3 settimane tra gli appartenenti alla middle class di cui sopra. La ricerca è stata condotta per un periodo di 4 anni, interpellando 8mila americani tra i 40 e i 50 anni, e per qualcuno dimostra una volta di più che la lotta all'obesità si conduce su altri binari, e non semplicemente vietando l'apertura di nuovi fast food. E, d’altro canto, proprio in seno all’America che premia le grandi catene spazzatura, in tempi non sospetti cominciava quel movimento di rilettura del modello fast food che pur tenendo ferma l’importanza di privilegiare un approccio veloce e casual alla ristorazione generalista (perché di fatto si sta parlando di stili di vita, ancor prima che di gusti alimentari), cominciava a proporre modelli alimentari alternativi.

i piatti di Made Nice

L’altro fast food. L’evoluzione di un genere

Il pensiero corre immediatamente a Shake Shack, che all’inizio degli anni 2000 prendeva le mosse da Madison Square Park, e oggi fa proseliti a New York, in molte città americane e nel mondo (dal Giappone a Seoul, a Londra) con i suoi burger da ingredienti di qualità. Ma il chiosco nel parco è stato solo la prima conferma che sulla necessità del fast food si potesse impostare un discorso diverso, fatto di qualità a prezzi contenuti, al motto di “fast good”. Oggi nelle grandi metropoli USA ci si cimentano in molti, grandi chef compresi: c’è il pollo fritto di David Chang, la pasta di Mark Ladner, l’ultimo esperimento targato Eleven Madison Park, Made Nice. E in Europa l’evoluzione del fast food (che quasi potremmo considerare uno dei fenomeni più interessanti della ristorazione del XXI secolo) ha avuto uguale successo, nelle interpretazioni più disparate. Si pensi anche in questo caso all’approccio di nuove piccole catene di qualità e di tanti chef di fama consolidata alle categorie date del genere: ecco quindi il burger gourmet, le chips fritte sul momento, il kebab sostenibile. Fino alle invenzioni d’autore più raffinate, dal lavoro di Christian Puglisi a Copenhagen alla proposta di Aduriz nei Paesi Baschi, alle Mercerie di Igles Corelli, che presto proverà a conquistare la piazza di Roma. Chiaro che in questa accezione il “gioco” del fast food si svincola da considerazioni prettamente socio-economiche, anche se dietro un’operazione di carattere culturale si nasconde comunque la voglia di conquistare un pubblico potenziale sempre più ampio. Per altro verso, tra l’altro, anche il fast food tradizionale è stato costretto a introdurre quei correttivi (spesso solo di facciata) che hanno portato a formule ibride in seno agli stessi colossi del junk food (dal Mc Donald’s del futuro di Hong Kong al McCafè di Parigi che non serve hamburger).

Il caso Locol. Patterson e Choi per un fast food alternativo

Tornando alle considerazioni della ricerca, però, in America, il legame stringente del cibo spazzatura con l’incremento dell’obesità nazionale, non fa che evidenziare l’urgenza di proporre soluzioni nuove, alla portata di tutti. Per esempio favorendo l'accesso a prodotti buoni e sani a una fascia più ampia di popolazione, compreso il gran numero di americani che vive sotto la soglia di povertà.

In California la sfida è stata raccolta all'inizio del 2016 da due testimonial d'eccezione, Daniel Patterson e Roy Choi, chef stimati e apprezzati dalla critica che hanno ideato il progetto Locol: un fast food alternativo, e sano, che fosse centro di aggregazione e riscatto per la poverissima comunità di Watts, Los Angeles, “fatto con la filosofia, il cuore e la competenza di uno chef”. Dietro c'è stata una raccolta fondi, lo sviluppo di ricette che risultassero accattivanti nonostante la riduzione di zuccheri, salse e grassi, la definizione di un brand e di un'identità, che alla catena potesse fornire le basi per moltiplicarsi in tante aree disagiate del Paese. Insomma, un posto pensato per integrarsi con il quartiere, senza trasformarsi nel fenomeno di moda che tanti fast food d'autore finiscono per diventare. Il quadro è cambiato già a maggio 2016, quando la seconda sede di Locol ha trovato casa in uno dei quartieri bene di Oakland (Uptown, nei locali che un tempo ospitavano Plum), venendo meno alla sua missione originale (e ricevendo pure una dura recensione di Pete Wells, temuto critico del New York Times). Almeno in apparenza, perché, hanno spiegato i soci, gli incassi di Oakland dovevano servire a finanziare un'attività rivelatasi altrimenti non sostenibile.

 

Locol. Luci e ombre

La storia degli ultimi mesi, infatti, racconta di incassi in perdita costante, e di una strategia obbligata per correre ai ripari: un nuovo menu per contenere il food cost, un'attività di catering per raccogliere fondi, la chiusura del punto vendita di Oakland (ma sulla sua pagina Instagram Patterson ha ridefinito i termini della questione), che è confluito nella zona Ovest della città, dove all'inizio del 2017 Patterson e Choi hanno aperto una bakery targata Locol, nel tentativo di diversificare l'offerta e incrementare il business. Solo il tempo sarà in grado di stabilire se il pur meritevole progetto Locol ha davvero un futuro. Intanto, ironia della sorte, Patterson e Choi sono tra i finalisti annunciati al Basque Culinary World Prize 2017, per cui è in lizza anche Niko Romito. Il vincitore sarà svelato il 18 luglio, noi auguriamo una storia lunga e ricca di soddisfazione a Locol.

 

www.welocol.com

 

a cura di Livia Montagnoli

Mangiare all'aperto a Napoli estate 2017. 11 consigli da provare

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Bello e soleggiato, il capoluogo campano è il luogo ideale dove mangiare all'aperto, per via della luce meravigliosa e la vista sul mare. Quest'anno, poi, ci sono diversi nuovi indirizzi in città. Ecco le novità dell'estate 2017 da provare a Napoli.   

Sono le novità dell'estate 2017, i locali che abbiamo selezionato in base a due caratteristiche ben precise: la presenza di dehors, terrazze o cortili e la ventata di novità. Quindi, tolti i nomi già notissimi (pensiamo a Lievito Madre al Mare di Gino Sorbillo, a George's del Grand Hotel Parker's o alla Stanza del Gusto), stiliamo una carrellata di indirizzi di Napoli in cui mangiare all'aperto, si tratti di una colazione al sole o una cena sotto le stelle.

I panini di 50 Panino, il locale di Ciro Salvo

50 Panino di Ciro Salvo

È l'ultima arrivata in casa Salvo, l'hamburgeria a due passi dal mare in cui ogni ingrediente è scelto da Ciro Salvo, pizzaiolo patron di 50 Kalò. Da 50 Panino andate sul sicuro: la carne è selezionata insieme al macellaio Roberto D’Andrea, mentre l'impasto del pane è frutto di mesi di sperimentazioni sulle farine svolti da uno dei più grandi pizzaioli della città, proveniente da una famiglia storica del mondo pizza. Oltre all'hamburger di chianina, potete optare per quello di maiale nero casertano, dove nell'impasto Ciro unisce lonza, prosciutto, pancia e spalla, seguendo una preparazione minuziosa. Oppure per l'hamburger di pollo allevato in libertà dall'azienda agricola San Bartolomeo. In ogni caso, la filosofia rimane sempre la stessa: sperimentazione, prodotti certificati, eccellenze del territorio, valorizzazione del buono. Da bere birre artigianali (ci sono 50 etichette) e vini alla mescita. Il tutto da gustare nel dehors che dà su viale Gramsci.

50 Panino | Napoli | viale Antonio Gramsci, 15c | tel. 081 7618144 | www.50panino.it

Il panorama che si vede dalla terrazza di Palazzo Petrucci

Palazzo Petrucci

Dal centro storico al litorale: Palazzo Petrucci da poco più di un anno si trova a Posillipo, in un palazzo seicentesco affacciato sul mare. Con una vista, inutile dirlo, spettacolare. E la cucina di Lino Scarallo non è da meno, con una carta studiata in funzione del luogo, tutta dedicata al mare, che se prendete posto nel terrazzino dolcemente adagiato sulla sabbia, è a pochissimi metri. La proposta è mediterranea: pensiamo alla lasagnetta di mozzarella di bufala e crudo di gamberi su salsa di fiori di zucca o alla triglia alla puttanesca con pomodoro giallo, stracciata di bufala e sedano croccante. Non mancano però accostamenti arditi, ma riusciti: dal calamaro con crema di patate, limone, camomilla e polvere di pollo alle linguine con anguilla affumicata, salsa di finocchi, liquirizia e arancia salata, passando per il risotto con latte cotto affumicato, genovese al nero di seppia e passion fruit o ancora l'agnello con albicocche passite, pecorino e menta. Sul fronte dolce, si va più sul classico e la scelta ricade, per esempio, su una stratificazione di pastiera napoletana o su un brownies al cioccolato accompagnato da un sorbetto alla pera, clementine candite, croccante al sesamo e vellutata all’anice. La cantina climatizzata, a vista, è ampiamente assortita e ben seguita da Sergio, il sommelier.

Palazzo Petrucci | Napoli | via Posillipo, 16 | tel. 081 5757538 | www.palazzopetrucci.it

Pizza mortanella e granella di pistacchi di Pizza Gourmet Lungomare, pizzeria di Giuseppe Vesi

Pizza Gourmet Lungomare

Quando si parla di Napoli è d'obbligo parlare di pizza napoletana, quella dal diametro più ampio di quello del piatto, che si deve piegare in quattro senza spezzarsi. Eppure c'è chi ha sfidato lo stereotipo, recuperando la memoria storica degli impasti. Ci sono voluti quasi tre anni di studi a Giuseppe Vesi, cresciuto nelle pizzerie di famiglia del centro storico, per sviluppare la sua idea di pizza, realizzata con impasti naturali a base di farina tipo 1 e integrale di grano tenero macinato a pietra, e con diciotto ore di pre-fermento e poi lievitazione a temperatura controllata per altre 48. Ne è nato un format che il pizzaiolo ha replicato un anno fa sul lungomare, accanto nomi celebri come Gino SorbilloAlfredo ForgioneGiuseppe Vuolo. Parliamo di Pizza Gourmet, la pizzeria fondata sulla ricerca meticolosa delle materie prime, molte locali o da filiera corta, come il fior di latte di Agerola, i pomodorini gialli del Piennolo, le papacelle napoletane o alici di Menaica. Ma non mancano anche prodotti di altre regioni che vanno a comporre pizze dalle proposte più creative come la Jambon de Bosses oppure la Nduja, la Speck Tirolese, la Maremma o la Pesto Genovese. Completano l'offerta i fritti napoletani, i taglieri di salumi e formaggi e i panini gourmet. Il caffè è la chicca: un Haiti Komet.

Pizza Gourmet Lungomare | Napoli | via Partenope, 12H | dal 31 marzo | www.pizza-gourmet.it

Il dehors di Sancta Sanctorum

Sancta Sanctorum

Un palazzetto liberty che da neanche un anno è diventato una casa del gusto sotto le cure di Francesco Sposito, lo chef di Taverna Estia che proprio lo scorso anno ha raggiunto le Tre Forchette nella guida Ristoranti d'Italia del Gambero Rosso. Il Sancta Sanctorum è un ambizioso complesso extralusso di tre piani, nel cuore più elegante della città, voluto da Stefano Parisio e Anteo Letticinio con l'obiettivo di proporre tre esperienze gastronomiche differenti: il cocktail bar, la champagneria e il bistrot gourmet, con una proposta fusion che scommette sul pescato del Mediterraneo, la tradizione campana e l'influenza dell'Oriente. Si comincia con l'Omaggio a Corelli, ovvero tempura di gamberi viola e ortaggi, purea di carote all’agro e ketchup di soia, per continuare con carpaccio di seppia, chips del suo nero, granita di riccio, piselli e limone confit. Tra i primi, da provare i maltagliati di pasta preparati con farina di pane cafone, patate, vongole veraci, crostacei e lattuga di mare o gli spaghetti cacio uovo e zafferano con tartare di pesce. I secondi lasciano spazio anche alle proposte di carne, come la parmigiana di coniglio o il maialino iberico con purea di carciofi, patate, vinagrette al sesamo nero tostato, soia e aceto balsamico. Per chi vuole godersi un aperitivo in terrazza, su uno dei tetti più belli della Napoli liberty, c'è il Sancta Happy Hour ogni mercoledì di luglio. Il prezzo? Dieci euro per un drink e un finger food.

Sancta Sanctorum | Napoli | via Filangieri, 16c | tel. 081 1957 8000 | www.sanctasanctorum.it

Il dehors di SoulCrumbs

SoulCrumbs

È il neonato progetto di Raffaele Rega e Carlo Di Cristo, basato su pane, specialty coffee, vini naturali e buon cibo, il tutto senza troppi fronzoli. È SoulCrumbs, una panetteria-bistrot che rompe con la tradizione, ma valorizza i prodotti locali e promuove la ricerca su panificazione e fermentazioni, anche grazie all'apporto scientifico di Carlo Di Cristo, biologo e ricercatore di Zoologia all'Università degli studi del Sannio. Si comincia alle 8.30, con formula caffetteria: le miscele sono quelle di Gardelli e gli sfogliati sono in stile francese, quindi croissant, pain au chocolat, brioche di segale. Si continua con il pranzo con la marenna farcita con provolone dei Monti Lattari, pomodorini del Vesuvio e scorza di limone, la selezione di smorrebrod, le insalate, la zuppa fredda o la panzanella multicereali. Per la cena, via libera a proposte un po' più articolate, come la cipolla con arancia arrostita, yogurt di melograno e capperi; la passatina di ceci con torzelle e sashimi di coroniello (lo stoccafisso) o la fava con tonnetto stagionato e pecorino. In abbinamento tutti vini naturali. Da gustare nel grazioso dehors, anch'esso in stile nordico.

SoulCrumbs | Napoli | via del Chiostro, 11 | tel.392 0649045 | www.soulcrumbs.it

Il dehors di Tripparia

Tripparia

Vincenzo Russo un paio d'anni fa ha dato vita a un progetto sulla valorizzazione del baccalà con un ristorantino affacciato sulla piazzetta del Porto di Napoli, Baccalaria. Quest'anno ha inaugurato l'estate con una nuova osteria tutta dedicata al quinto quarto. O quasi. Nel menu trippa in cinque varianti: la classica bianca alla napoletana, quella fritta, alla romana, in umido con le patate e la 'O père e 'o musso (letteralmente piede e muso) con sale, limone, finocchi, lupini, olive e pomodori di Sorrento. Non solo: in carta anche tanti piatti della tradizione di varie regioni d'Italia, come i risi e bisi con le seppie o la pajata romana, gli spaghetti con telline o i bucatini con coniglio all'ischitana. Il locale, ispirato alle osterie degli anni '40 e dominato da un antico bancone di una drogheria calabrese, conta di un dehors con una trentina di posti a sedere circondato dalle ville in stile liberty.

Tripparia | Napoli | via Fracanzano, 9b | tel. 392 453 6212 | www.tripparia.it

Ventimetriquadri Specialty Coffee

A Napoli il caffè è cosa seria, eppure troppo spesso non è trattato con la dovuta attenzione. Fortunatamente il primo bar specialty di Napoli, nel quartiere del Vomero, ha intenzioni serie perché vuole formare e informare i clienti su quel che significa selezione della miscela, attenzione alle tostature, cura nell'estrazione. Insomma, quel che si intende con specialty coffee. I virtuosi (e coraggiosi?) ideatori sono Vincenzo Fioretto, Matteo Strano e Marco Travaglione, che al Ventimetriquadri Specialty Coffee propongono il caffè di Ditta Artigianale, sotto forma di espressi e cappuccini, ma anche di caffè filtro estratto con diversi metodi, dal v60 all'aeropress. Siamo sicuri che questo locale, con pochi ma buoni tavolini all'aperto, rivoluzionerà lo storico scenario della caffetteria partenopea.

Ventimetriquadri Specialty Coffee | Napoli | via Bernini, 64 a | tel. 345 5328421 | www.facebook.com/Ventimetriquadri-Specialty-Coffee

Lasagna di zucchine con pesto di basilico e ragù crudista di Vitto Pitagorico

Vitto Pitagorico

Proprio di fronte al Museo Archeologico ha inaugurato un anno fa questo ristorante vegano, la cui proposta accontenta anche i crudisti. Il nome fa riferimento allo stile di vita sano e all'alimentazione vegetariana sostenuta da Pitagora. Nel menu di Vitto Pitagorico, per l'appunto, piatti sani e adatti a ogni tipo di regime alimentare, che sia per scelta o per necessità. Si comincia con la lasagna di zucchine con pesto di basilico e ragù crudista e si continua con gli spaghetti con ricotta di anacardi, preparata in casa, olive di Gaeta e pesto di capperi. Meritano una menzione speciale i dolci, come per esempio quello alla lavanda con crumble di mandorle e cacao oppure il dolce con cacao amaro, avocado, cocco e salsa di arachidi. In carta anche ottime pizze, con farina integrale o di canapa, cotte in un forno tradizionale a legna ma con bruciatori a gas, scelta dettata da motivi ecologici.

Vitto Pitagorico | Napoli| Museo Archeologico Nazionale | piazza Museo, 19 | tel. 333 4726933

Panino di Zzambù, il nuovo locale di Salvatore Di Matteo

Zzambù

Siamo sul lungomare di Napoli, dove a quanto pare pizza, panini e hamburger vanno alla grande. Sarà per questo che Salvatore Di Matteo, noto pizzaiolo napoletano (nonché uno dei maestri dei Pizza Pilgrims), ha deciso di aprire circa un mese fa un locale con una proposta duplice, capace di soddisfare gli appassionati di entrambi i cibi: Zzambù, crasi (non proprio immediata) di pizza e hamburger. Per quanto riguarda la pizza, ovviamente, si cade in piedi dato che il primogenito locale di Di Matteo, in via dei Tribunali, è una garanzia: dal 1936 serve a getto continuo pizza napoletana cotta al forno a legna e servita nella variante a portafoglio. Ma scommettiamo che anche gli hamburger non deluderanno, anche perché se la devono battere con quelli di Ciro Salvo. Pare che i pizzaioli napoletani si siano dati agli hamburger...

Zzambù | Napoli | via Partenope, 9 | tel. 081 7646484

Consigli a latere: Gourmeet e Terrazza del Museo Nitsch

Gourmeet è il concept store partenopeo inaugurato all'inizio del 2015 per promuovere le eccellenze locali; unisce in un unico luogo vendita a scaffale, proposte ristorative gourmet e lo spazio dedicato ai docenti di Gambero Rosso. Lo spazio esterno ospita, per questa estate 2017, delle serate all'insegna del buon bere, un'occasione per coniugare la spesa serale con il momento dell'aperitivo. Alla Terrazza del Museo Nitsch, invece, c'è un ricco calendario di aperitivi e concerti al tramonto per godere, al meglio, delle serate estive.

Gourmeet | Napoli | via Alabardieri, 8-11 | www.gourmeet.it

Museo Nitsch | Napoli | Vico Lungo Pontecorvo, 29/d | tel. 081 5641655 | www.museonitsch.org

 

a cura di Annalisa Zordan

 

 

 

 

DaGorini a Bagno di Romagna. Il ritorno di Gianluca Gorini, un ristorante in movimento

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All'inizio del 2017 l'addio a Le Giare di Montiano, ora un ritorno da chef imprenditore che guarda al futuro. Gianluca Gorini torna in campo, e ricomincia negli spazi della storica Locanda al Gambero Rosso di Bagno di Romagna. Ecco come sarà il suo ristorante. 

Gianluca Gorini. Una vita in cucina

È quasi difficile interromperlo, tanto è l'entusiasmo, mentre racconta il progetto che sta per concretizzarsi. Un progetto di vita, ancor prima che una sfida lavorativa, pur importante, visto che per la prima volta si tratta di mettersi all'opera con un approccio imprenditoriale. Quella che manca a Bagno di Romagna, però, è l'ansia da prestazione. Soprattutto perché ora è il momento di godersi ogni giorno con la felicità di chi è consapevole di trovarsi esattamente dove sognava di essere. E non per caso, a cogliere bene l'aspetto più volitivo del carattere di Gianluca Gorini, 34 anni di cui 20 passati in cucina, figlio di ristoratori e un sogno nel cassetto che si può dire sempre più realizzato: “Io a 8 anni già sapevo che avrei fatto il cuoco. Sono giovane sì, e i miei anni neanche li dimostro tutti, ma in cucina ci sto da una vita. È la mia vita”. A settembre, dunque, si ricomincia con DaGorini, un nome che ricorda le rassicuranti insegne di paese, e che proprio dal legame viscerale con il territorio romagnolo vuole ripartire. Ma attenzione: le parole per spingersi oltre lo stereotipo che troppo spesso fa da paravento alla mancanza di originalità, a Gianluca non mancano. E il contesto sicuramente aiuta.

l'ex locanda al gambero rosso

La Locanda al Gambero Rosso, com'era

DaGorini all'ex Locanda al Gambero Rosso

Fino a tre anni fa, e per oltre mezzo secolo di storia della cucina italiana, la porta di via Giuseppe Verdi numero 5, località San Piero, a Bagno di Romagna, si è aperta sull'universo della Locanda al Gambero Rosso, la cui memoria rivive dal 2015, in chiave rivista e corretta, nelle cucine della Trattoria di Giuliana (Saragoni) da Eataly Forlì. E proprio Giuliana, tra i tanti che hanno contattato Gianluca negli ultimi mesi, dopo l'addio a Le Giare di Montiano (all'inizio del 2017), ha saputo accendere la scintilla giusta: “Non ho mai pensato di spostarmi in città, lavorare in grandi alberghi o ristoranti blasonati. Giuliana mi ha chiamato, mi ha proposto di prendere in gestione il locale, “se ti va, pensaci”, mi ha detto. Si è aperto un mondo, in un crescendo di emozioni. Molti non hanno capito la scelta, troppo fuori dalle rotte giuste, sostiene qualcuno. Ma per me la sfida è ancora più grande, e non mi piace vivere di rimpianti. Una cosa già la so: quando mi sveglio al mattino, e mi guardo intorno, tutto mi sembra al posto giusto”. Quello che più lo affascina è l'opportunità di trovare un posto suo in un contesto fatto di mani che lavorano, “dove tutto ha un'anima, gesti, prodotti, oggetti, arredi raccontano la storia degli artigiani”. E di contribuire a dare nuovo slancio alla cultura del territorio, e del prodotto: “La materia prima è il nostro punto di partenza, tutto dev'essere naturale, ed esaltato dalle nostre capacità. Insomma, non voglio guardare al passato con nostalgia, l'approccio alla memoria storica dobbiamo essere capaci di proiettarlo nel presente, e nel futuro, con spirito critico, come dice Massimo (Bottura). E senza perdere la voglia di emozionarci: perché in Cina, o in India, possono entusiasmarsi per un cappelletto della tradizione italiana e noi abbiamo smesso di guardarlo come una cosa straordinaria?”.

 

Materia prima, territorio, identità

Le parole ricorrenti sono quelle che sempre più spesso animano i giovani progetti gastronomici consapevoli (al netto dei bluff, è una fortuna): attaccamento all'identità, gestualità, competenza, cura della materia prima, che si tratti di un formaggio da latte munto a mano o di un coniglio nutrito con il fieno dei campi, delle erbe selvatiche che crescono in abbondanza in campagna o della lepre portata in dote da un cacciatore senza preavviso. In concreto, per il momento si lavora al restyling degli spazi (“ma il telefono squilla di continuo, ben oltre le aspettative: tutti vogliono già prenotare!”), con l'idea di non intaccare la suggestione del luogo: “A livello strutturale resterà tutto identico, non voglio perdere la sensazione di familiarità e confidenza che si respira... Il pavimento in cotto che fa casolare di Romagna, il bel camino all'ingresso. Ma lavoreremo sugli arredi, in ferro e legno, espressione della nostra personalità”. Due gli spazi per gli ospiti: una prima sala da 30 coperti, aperta a pranzo e cena, e una seconda saletta, quella che Gianluca ha pensato come un salotto familiare: “Una sala conviviale, per una trentina di persone, da vendere come pacchetto. Per il pranzo della domenica, o un venerdì sera tra amici, un battesimo, un compleanno. Uno spazio dove ritrovarsi in famiglia, stare bene con i bambini, liberarsi dai pensieri, mangiare bene senza spendere troppo”. Tavolo unico, e menu studiato ad hoc, con impronta più tradizionale, da proporre a un costo sui 30-35 euro tutto compreso.

 

La cucina di Gianluca

L'altra anima, invece, è quella d'autore, che cambierà durante il giorno: “Non voglio un ristorante statico, non dobbiamo essere solo gourmet. Chi arriva qui deve vivere un'esperienza, non mi interessa si dica che Gianluca è bravo”. Molti dei prodotti arriveranno dall'azienda agricola dei suoceri, i genitori di Sara, che con Gianluca dividerà il progetto di vita (“ci siamo conosciuti ai tempi di Paolo Teverini, ora ci sosteniamo a vicenda, siamo felici”): le verdure dell'orto, gli animali da cortile, i funghi appena raccolti. Il diktat della cucina è quello di non seguire le mode gastronomiche, “faremo il nostro percorso, nel bene e nel male”. Quindi un menu del giorno per il pranzo, sempre diverso, “per un pranzo veloce, con l'idea di mangiare un piatto e poi ripartire”, prodotti sempre diversi, prezzi accessibili, piatti curati, grande attenzione alla digeribilità.

La sera una proposta alla carta che allinea alcuni dei signature di Gianluca, “i piatti a cui sono legato”, e due proposte a degustazione, “un piccolo percorso da 4 portate a 45 euro, e una degustazione a mano libera a 70, dove esprimere tutto me stesso, senza mai essere troppo formale”. I prezzi, dunque, resteranno accessibili, “è il vantaggio della filiera corta, devo saperlo sfruttare nella gestione del ristorante”. Al lavoro 6 persone (Gianluca e Sara compresi), 4 in cucina, 2 in sala: “La mia commercialista dice che sono matto (ride, ndr), ma io voglio poter contare sul giusto numero di forze; l'aspettativa è alta, e dobbiamo partire col piede giusto”. Capitolo vini altrettanto dinamico, “30-40 referenze di qualità, del territorio e non, che ruotino spesso, senza toccare cifre folli”. L'entusiasmo non manca, ora è il momento di darsi da fare, “l'interesse si è risvegliato, sono molte le persone che mi vogliono bene, questo mi dà grande carica”.

Cosa dobbiamo aspettarci? La definizione più calzante, aspettando i primi giorni di settembre, ce la suggerisce Gianluca: “Saremo un ristorante in movimento”. Promette bene.

 

DaGorini | Bagno di Romagna (FC) | via Giuseppe Verdi, 5 | dalla prima metà di settembre 2017

 

a cura di Livia Montagnoli

Foto di copertina dalla pagina Fb di Gianluca Gorini

Dove mangiare il gelato a Firenze. Le migliori 3 gelaterie della città

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In quella che viene considerata spesso la patria del gelato, non possono mancare degli indirizzi d'eccellenza. Ecco dove mangiare il miglior gelato di Firenze secondo la Guida Gelaterie del Gambero Rosso.

Il gelato a Firenze

Le origini del gelato sono incerte e si perdono nella notte dei tempi. Già nella Bibbia, Isacco offre ad Abramo “latte di capra misto a neve”, anche se alcuni studiosi fanno risalire l’origine del prodotto a circa 3000 anni prima di Cristo, presso le popolazioni dell’estremo Oriente identificabili con gli attuali cinesi; mediante le invasioni mongoliche, il gelato sarebbe, in seguito, approdato in Grecia e in Turchia, espandendosi agli altri paesi del bacino del Mediterraneo. Con i romani si parla di nivataepotiones, una sorta di primordiale sorbetto, sviluppato poi meglio durante il Medioevo in Oriente. Continua così la storia del gelato, fra miti e racconti popolari, passando da una parte all'altra del globo.

Un fatto è però certo: Firenze gioca un ruolo fondamentale per la diffusione di questo prodotto, la cui nascita viene spesso attribuita proprio al capoluogo toscano. Nel Cinquecento, presso la corte medicea di Firenze, i sorbetti hanno un posto d’onore all’interno delle feste e dei banchetti. Sostituiti, in seguito, da un vero e proprio gelato montato, ottenuto roteando il liquido da congelare in primitive sorbettiere immerse in mastelli di legno pieni di ghiaccio frantumato e sale. Ancora oggi, il gelato a Firenze è un'arte molto popolare e sono tante le insegne che si contano lungo le vie del centro. La guida Gelaterie d'Italia 2017 del Gambero Rosso, ne ha segnalate due eccellenti (Tre Coni), e due ottime (Due Coni).

Carapina– Tre Coni

Nel mondo del gelato italiano, Simone Bonini non ha bisogno di tante presentazioni: nel 2008 ha avviato a Firenze una rivoluzione del gelato a tutti gli effetti con il suo laboratorio a vista, locale di design, e prodotti d'eccezione. Fra gli ideatori del gelato moderno, l'artigiano ricerca costantemente le materie prime migliori e gli abbinamenti più originali per i suoi gusti. Prodotti locali e ingredienti di stagione, uniti al latte del Mugello danno vita a una selezione di gusti ampia e articolata. Ci sono i grandi classici, come la Crema dell'Artusi, dedicata al grande gastronomo italiano, il caffè, e poi una selezione ispirata ai migliori formaggi italiani, come il gorgonzola. Ma anche sapori che riprendono quelli della tradizione toscana, dalla castagna del Mugello, che poi ha avuto la giusta evoluzione nel castagnaccio, all'accoppiata cantucci e crema al vin santo. E ancora il Fresco Carapina, a base di menta e latte, e tutti i gusti alla frutta fresca e secca, in particolare la nocciola e il pistacchio di Bronte. Tanti i progetti del gelatiere, uno in particolare che riguarda questa sede.

Gelateria della Passera– Tre Coni

Ha cominciato gestendo il Caffè degli Artigiani, ha studiato presso l'Università del Gelato di Bologna, seguendo i consigli del maestro Giampaolo Valli, e nel 2010 ha finalmente aperto il suo locale, la Gelateria della Passera, una delle insegne migliori della città. Cinzia Otri basa la sua proposta su pochi gusti (mai più di 20) curati nei minimi dettagli, conservati nelle carapine a una temperatura costante. Fra le specialità della casa, la mandorla, la crema pasticcera, le varianti al caffè, e alcune creazioni originali della gelatiera, come il mojito e il gusto al tè. Non mancano, naturalmente, i sapori freschi della frutta, dalla susina al fico, dalla pera ai marroni del Mugello, ingredienti presenti per il 70% dell'intero prodotto. Imperdibili anche i sorbetti, nella versione classica oppure preparati con tisane e decotti.

Vivoli– Due Coni

Un'insegna che da anni fa parlare di sé (e della tradizione del gelato italiano) anche all'estero: Vivoli è segnalato su tutte le guide straniere del mondo, ed è da anni una meta fissa, soprattutto per i turisti anglosassoni. I gusti sono più di 30 e vanno dal caffè, la crema e lo zabaione, al malaga e i marroni di Mugello. In collaborazione con i macellai Falorni di Greve in Chianti, poi, è stato studiato un gelato alla finocchiona, ed è stato inoltre approntato un gusto pecorino e miele ben bilanciato e deciso al punto giusto. La frutta è sempre di stagione, e a condire il tutto, un'ottima panna di qualità, cremosa e non eccessivamente dolce. Di recente, alla gelaterie si è aggiunto anche lo spazio caffetteria, per completare la pausa merenda.

Carapina | Firenze | Piazza Guglielmo Oberdan, 2 r | tel. 05 5291128 | www.facebook.com/carapina.it/?hc_ref=SEARCH

Gelateria della Passera | Firenze | vi Toscanella 15 r | tel. 05 5291882 | www.facebook.com/Gelateria-della-Passera-442537459160710/

Vivoli | Firenze | via Isole delle Stinche, 7r | tel. 05 5292334 | www.facebook.com/Vivoli-Gelateria-273433832668142/

a cura di Michela Becchi

>Dove mangiare il gelato a Bologna. Le migliori 6 gelaterie della città

>Dove mangiare il gelato a Torino. Le migliori 11 gelaterie della città

>Dove mangiare il gelato a Roma. Le migliori 9 gelaterie della città

Under the bridge. Il nuovo pop up restaurant del Noma a Copenaghen

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Il Noma apre un altro pop up restaurant. E lo fa sotto il ponte di Knippelsbro, nel porto interno di Copenaghen.   

Sul sito del Noma si legge: “Ecco un aggiornamento di quello che sta succedendo. Noma 2.0 è ancora in pista per aprire a dicembre. Stiamo lavorando sodo per rispettare le scadenze e il team creativo sta attualmente attraversando la Danimarca per incontrare gli amici e i collaboratori di sempre e per fare scouting. Il resto della squadra aprirà il proprio ristorante pop up a Copenhagen”. Il nome del nuovo progetto è Under the bridge.

Under the bridge

Il team di Renè Redzepi è inarrestabile. E dopo Barr, che ha preso il posto del vecchio Noma, e l'esperienza in Messico, la brigata danese annuncia l'apertura di un pop up restaurant sotto il ponte di Knippelsbro, negli spazi di Rosforth & Rosforth, un'azienda vinicola fondata nel 1993 che fornisce privati e molti ristoranti, compreso il Noma.“I sous chef e i manager del ristorante hanno unito le forze per creare un ristorante all'aperto, dall'atmosfera familiare e casual. Il nostro team, proveniente da tutte le parti del mondo, unirà le idee e le tradizioni per creare il menu”. Menu semplice, ci anticipa Riccardo Canella che lavorerà al pop up insieme a una dozzina di chef e otto camerieri, di sole 4 portate sostanziose in via di definizione proprio in questi giorni.

 

Il menu e il format di Under the bridge

Quel che è certo è che la proposta non seguirà la linea Noma: “Serviremo cibo fresco cucinato come vogliamo noi. L'essenza di questo progetto, in attesa dell'apertura del nuovo Noma, sta nel proporre piatti che tutti mangerebbero volentieri in una notte d'estate. Stiamo pensando a un menu con ingredienti locali, ma anche con materie prime portate dal Messico, come il chili o un olio di zenzero grigliato che lì usavamo spesso. Ovviamente dobbiamo tener conto del food cost e dei limiti logistici: la cucina è un food truck!”. A garantire il successo di Under the bridge saranno i fornitori dell'ex Noma , compreso Rosforth & Rosforth con i suoi vini. E il format: un tavolo unico con una cinquantina di posti, per un classico family meal dove condividere le diverse portate. A centro tavola, poi, un tocco di italianità con le focacce al posto del classico pane danese. Durante i giorni d'apertura, dal 19 luglio al 3 settembre, verranno inoltre organizzate serate a tema, come quella dedicata al pollo fritto che vedrà come ospite Morgan McGlone, chef di Belles Hot Chicken di Melbourne. Il prezzo? 135 € (1.000 DKK) a persona incluse le bevande.

Lo staff fa però fa un paio di raccomandazioni: “Non aspettatevi la disposizione dei posti a sedere di un ristorante stellato e ricordatevi che il tempo a Copenaghen è inaffidabile. Detto questo, non preoccupatevi: il posto è coperto e abbiamo preso le misure necessarie per garantire che almeno stiate asciutti e al caldo. Non vediamo l'ora di unirci a voi sotto un ponte!”. Appuntamento dunque al 19 luglio, col servizio inaugurale. Le prenotazioni sono già aperte.

 

Under the bridge | Copenaghen | Knippelsbrogade, 10 | Dal 19 luglio al 3 settembre 2017, da mercoledì a domenica | Per prenotare: https://underthebridge.dinesuperb.com/reserve/experience

 

a cura di Annalisa Zordan

Wine Travel Food. Il magazine internazionale di Gambero Rosso: digitale e gratuito

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In lingua inglese, per raccontare l'universo dell'enogastronomia italiana e del mondo ai lettori internazionali, con la competenza del Gambero Rosso e delle sue firme. E solo in versione digitale, scaricabile gratuitamente ogni mese. Racconti, curiosità, tendenze, prodotti e storie d'eccellenza. Ecco Wine Travel Food. 

Wine Travel Food. Tre parole, tre universi complementari, per riassumere le molteplici sfere di interesse di Gambero Rosso. E soprattutto tre prospettive che procedono insieme, e si intrecciano, per raccontare il mondo dell'enogastronomia, con competenza e freschezza. Intercettando le storie dei grandi protagonisti del settore, ma pure scovando punti di vista nuovi, curiosità, aneddoti che il racconto del cibo, del vino, di artigiani del gusto e territori vocati lo rendono così incredibilmente suggestivo per chi legge, divertente e mai banale per chi scrive. È questo quello che troverete sfogliando le pagine di Wine Travel Food, magazine internazionale del Gambero Rosso – in lingua inglese, e solo in versione digitale – che ogni mese fa il punto sullo stato dell'arte dell'enogastronomia. E per di più gratuitamente: per riceverlo è sufficiente iscriversi tramite email a international@gamberorosso.it.

Pensata per valorizzare il made in Italy e fornire una valida chiave di lettura dell'universo enogastronomico al pubblico internazionale, la rivista – coordinato da Lorenzo Ruggeri – ha tanti spunti da offrire ogni mese, secondo la filosofia che informa tutti i progetti editoriali del Gambero Rosso. È ora disponibile il numero di giugno 2017, in copertina la cucina di Giovanni Passerini e il suo progetto di ristorazione parigino.

 

Wine Travel Food. Giugno 2017

Qualche highlight? Oltre all'italiano che ha stregato Parigi con l'idea di una trattoria contemporanea che è emanazione diretta di grande competenza tecnica e talento da vendere, un bel racconto di viaggio dalla Sicilia, tra le architetture moresche, il cibo di strada e la cucina d'autore di Palermo. E ancora arte, design e cultura gastronomica da Zurigo, che a settembre 2017 ospiterà la seconda edizione di Food Zurich, confermandosi una meta da non perdere per gli appassionati dell'arte contemporanea, ma pure per chi è sempre in cerca di inaspettati indirizzi gastronomici. Chi invece non sa resistere al fascino della campagna toscana troverà una piacevole sorpresa nel racconto di Borgo San Felice, nel Chianti senese, con le ricette e la cucina di Fabrizio Borraccino. Poi tanti suggerimenti di viaggio e degustazione per gli enoappassionati, con il tour della Mosella vinicola, il vino del mese, i consigli degli esperti per l'abbinamento perfetto cibo/vino, che questo mese si concentra sulla Sardegna e le sue specialità tradizionali. 66 pagine da “sfogliare”, tra news, attualità, approfondimenti, ricette, food design, fenomeni di consumo, tendenze, storie dall'Italia e dal mondo. E non vedrete l'ora di scoprire il prossimo numero. Che aspettate a iscrivervi?


Il Refettorio di Massimo Bottura cerca volontari a Milano. Al via le candidature

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Non si ferma lo chef Massimo Bottura, che per quest'estate ha in serbo un nuovo progetto di solidarietà al Refettorio Ambrosiano di Milano. È dedicato agli anziani, che potranno degustare un pasto caldo in compagnia, ma per realizzarlo occorre il lavoro dei volontari.

L'iniziativa

Si chiama Il Pranzo è Servito ed è l'ultima iniziativa di solidarietà voluta dallo chef Massimo Bottura, che questa volta si rivolge alle persone seguite dai centri di ascolto parrocchiali di Zara e Turro a Milano, che dal lunedì al venerdì potranno pranzare insieme al Refettorio Ambrosiano del Teatro Greco. Un progetto pensato per gli anziani, a cui verrà offerto un pranzo ricco e in compagnia, che prevede il servizio ai tavoli da parte di particolari commis de rang che si occuperanno di ascoltare l’ospite, chiacchierare con lui, perfino accompagnarlo a casa. In cucina, sempre i cuochi del Refettorio, progetto nato sotto la stella di Expo 2015 in collaborazione con la Caritas, e volto a garantire un pasto ai bisognosi e combattere lo spreco alimentare. Con l'accordo con Sogemi, per esempio, società che gestisce ogni settimana circa due tonnellate di ortaggi in eccedenza in arrivo dall'Ortomercato di Milano, con cui lo chef ha scelto di lavorare per creare un nuovo modello di riciclo. Si tratta del surgelamento dei prodotti recuperati tra i banchi grazie a un costoso macchinario donato alla causa del Refettorio, un processo a cura della cooperativa Grigio di Lecco, che si occupa di surgelare e distribuire gli avanzi in parrocchia, agli Empori della Solidarietà di Cesano Boscone, Varese e Garbagnate.

I volontari

Per mettere a punto il progetto de Il Pranzo è Servito però, occorre una squadra solida e compatta, in grado di lavorare fianco a fianco con gli chef. Per questo lo chef ha scelto di fare appello alla sensibilità comune invitando le persone a candidarsi come commis de rang e prendersi cura degli ospiti. Gli assistenti di sala si occuperanno di portare i piatti e tenere in ordine la tavola, e soprattutto di intrattenere gli anziani. Per i più in difficoltà, è previsto anche un servizio di trasporto, con un pullman della Caritas Ambrosiana guidato dagli operatori. In questo caso, per esempio, ai volontari potrà essere richiesto di salire a bordo insieme al conducente e fare compagnia all'ospite lungo il tragitto. Si comincia il 31 luglio, dal lunedì al venerdì, per l'ora di pranzo: l'iniziativa, infatti, non andrà a interferire con le attività quotidiane del Refettorio, che rimarrà aperto come sempre dalle 18,30 in poi per la cena. “Quest'anno i volontari porteranno gli anziani a pranzare insieme in un luogo speciale. Sono certo che apprezzeranno la bellezza che il Refettorio esprime non solo attraverso le opere d'arte che contiene, ma soprattutto attraverso quell'opera d'arte che si rinnova ogni giorno e che è fatta dei gesti di gratuità che qui si compiono, gesti che aiutano le persone ad aprirsi e a sperimentare la gioia dell'incontro”, ha commentato Luciano Gualzetti, direttore di Caritas Ambrosiana. L'impegno per tutti i volontari sarà indicativamente dalle 11 della mattina alle 14, dalla fine del mese fino al prossimo 1 settembre 2017.

Per candidarsi come commis de rangal Refettorio: www.caritasambrosiana.it

a cura di Michela Becchi

Libri per l'estate. Bee Happy. Storie di alveari, mieli e apiculture

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In vacanza, al mare, durante una gita fuori porta, non c'è niente di meglio di una lettura coinvolgente. Per gli amanti del cibo, in particolare per i più golosi, il libro “Bee Happy. Storie di alveari, mieli e apiculture” fa luce sul mondo dell'apicoltura.

L'autrice

È entusiasmo, energia, endorfine pure (…) È passione, tensione, scarica di adrenalina. È usanza, innovazione, trasmissione. È rispetto, curiosità, meraviglia. È un privilegio, il tempo che si ferma, un'avventura in un mondo parallelo”. Comincia così a raccontare il suo mestiere Barbara Bonomi Romagnoli, giornalista e scrittrice ma soprattutto proprietaria dell'azienda Apicoltura Biologica Romagnoli di Oriolo Romano, in provincia di Viterbo. Un territorio caratterizzato da lecci, querce, olmi, peri selvatici e una faggeta che si estende per oltre 150 ettari a soli 450 metri di altitudine. È qui, in mezzo alla natura incontaminata di questa zona a protezione speciale con vincolo idrogeologico, che Barbara, classe '74, prende ispirazione per il suo lavoro, pur abitando a Roma.

 

Il libro

Un amore sconfinato, quello per le api, tradotto, nell'ottobre 2016, in un volume dedicato alla sua attività, Bee Happy. Storie di alveari, mieli e apiculture, edito da DeriveApprodi. Un libro che racconta la bellezza del mestiere dell'apicoltore, anzi, dell'apicoltrice, le fatiche, i sacrifici, il fascino dell'universo delle api, che l'autrice chiama affettuosamente “insette”, al femminile. Della loro laboriosità, precisione, della minuzia nella costruzione degli alveari. Ma soprattutto un racconto di “impegno, tenacia, divertimento”, e ancora “sentimento, vibrazioni, colpo di fulmine”. Di un'attività che “è silenzio, concentrazione, movimento lento. Al tempo stesso danza, canto e ronzio. È il nostro passato, presente e futuro: il nostro battito del cuore”.

 

La storia

Riflessioni nate dopo anni di esperienza diretta sul campo e tanti corsi di aggiornamento, che Barbara condivide con i lettori pagina dopo pagina, intersecando storie di vita personale ad aneddoti significativi raccolti durante la sua carriera, fornendo consigli, indicazioni preziose, suggerimenti e suggestioni. Stimolando i lettori a essere più curiosi verso l'universo delle insette, e verso quel prodotto così largamente consumato ma al contempo sconosciuto. Un intreccio di racconti che partono dall'infanzia, quando tutto è cominciato, dalla visione di quelle arnie di Zio Prete che per prima l'hanno ispirata, e finiscono con la descrizione della sua azienda, quella nata a seguito di uno studio intenso e costante, e una ricerca continua.

 

Come nasce una passione

Ma come nasce una passione? Il secondo capitolo del volume è dedicato proprio all'imprinting dell'apicoltrice, a distanza di anni ancora così nitido e vivo nella sua memoria. “L'immagine del ricordo è limpida, spesso si posa in fondo alla mente. Poi all'improvviso torna per qualche assonanza, per un'associazione libera camminando sull'erba (...) È la casa immersa nel bosco sopra la piana di Norcia”. È lì, dietro l'ultima curva in cima alla Valnerina che si trova Savelli Di Norcia, casa della famiglia di Barbara fino al terremoto del '79. Nei primi anni Ottanta, si trasferisce nella casa del bosco di zia Amelia: qui iniziano i primi ricordi sensoriali, quelli legati ai profumi, gli odori del camino e della cenere, i rumori delle stoviglie appese in cucina e i colori delle farfalle variopinte della campagna. La piccola Barbara osserva lo zio alle prese con le api, ne resta incantata, cresce, e dopo qualche esperienza lavorativa da precaria, decide di passare al piano B: “E se facessi l'apicoltrice?”. A 34 anni fa un corso di apicoltura e inizia a studiare, e soprattutto a sperimentare. Ed è amore a prima vista. “Ho la netta sensazione di compiere un rito in cui alcune procedure sono essenziali, eppure non siamo noi a dettare le regole ma la comunità che abbiamo dinanzi e con la quale tentiamo di interagire”.

 

Lo studio

Continua, si iscrive al corso di analisi sensoriale, e le torna in mente la battuta di nonno Cesare, quando attorno ai vent'anni di età provò a convincerla che doveva mettere su un negozio di pasta all'uovo: “ché potrai pure passa' le giornate a filosofare, ma prima o poi un piatto di pasta lo dovrai mangiare”. L'apicoltrice conosce colleghi, maestri assaggiatori, professori, crea nuovi legami e amicizie solide, si confronta e scambia idee e opinioni. “Dopo diversi anni di incontri, convegni, workshop in giro per l'Italia la sensazione che si ha è quella di un mondo in fermento (...) Sia per motivi anagrafici che per il 'ritorno alla Terra' si assiste a un ricambio generazionale e di genere che ancora emerge poco, si parla molto in termini di eccellenze e poco in termini di diffusione”. Invece Barbara ci tiene a rivendicare il ruolo delle donne in agricoltura, così come le preme sottolineare che l'universo delle api è tutto al femminile. Un mondo organizzato, dove a tutto c'è rimedio, a ogni ostacolo una soluzione, perché “a tutto ha pensato la Natura, proprio a tutto”. Fondamentale nella formazione dell'apicoltrice è proprio una donna, Lucia Piana, una delle maggiori esperte dell'analisi sensoriale del miele e fra le prime persone, insieme ad Andrea Paternoster di Mieli Thun, “a fare di un vaso di miele un calice da degustare”.

 

Di numeri, architetture e burocrazie

Un mondo che funziona in maniera pressoché perfetta, dicevamo, e soprattutto una sfera fatta di numeri, di processi da conoscere, una catena di montaggio: la vita nell'alveare è una piccola fabbrica in continuo movimento, e l'autrice ne descrive con cura ed entusiasmo ogni singolo passaggio, specialmente nel settimo capitolo. “È una catena di lavoro ed energia quella che mettono in moto: per 8000 cellette servono 100 gr di cera, circa 125.000 scaglie, e per ogni kg di cera le api consumano in termini di energia fra i 7 e i 10 kg di miele, per ogni kg di miele servono all'incirca 60.000 voli andata e ritorno dall'alveare, circa 150 km, alla velocità media di 25/30 km all'ora, ossia quasi quattro volte il giro della Terra”, spiega. E aggiunge: “Ogni volta che mi soffermo a pensarci mi gira la testa”. E così, Barbara continua a regalare ai lettori informazioni uniche ricavate dalle tante lezioni seguite negli anni, come quella su Matematica e Api a cura di Gemma Gallino, che spiega che “in realtà le api tendono a costruire dei cilindri con la loro cera, ma accostando dei cilindri di materiale elastico e facilmente malleabile ecco che si creano degli esagoni”. La scrittrice va avanti, donando senza riserve tutte le conoscenze acquisite nel tempo, condividendole con generosità e passione.

 

Non finisce qui

Non finisce qui, il titolo dell'ultimo capitolo che chiude il cerchio di questo racconto articolato, denso ma descritto con semplicità e brio, con precisione e puntualità nell'informazione, ma senza mai scadere nella didattica troppo fredda. Non finisce qui perché la storia tracciata da Barbara è circolare, parte dalla campagna e alla campagna ritorna, con quelle ultime parole, “Ed è così che capisco davvero il senso della fatica di chi lavora la terra; dello stare in balìa di quella stessa terra che in un attimo può toglierti tutto quello che hai seminato”, che riprendono le prime righe, “Il corpo, a lavorare con le api, si rigenera, accusa nella schiena ma nel frattempo la mente riflette, ripensa, rielabora”. Ritorna il ruolo iniziale della famiglia, questa volta quello del papà, e del suo motto, “il bel tempo si aspetta in campagna”, quella frase ripetuta ogni giorno “quando dalle nuvole si passa al solleone”. E poi conclude, nel suo stile autentico, originale, schietto: “Dio, se esiste, è femmina. E vive nell'alveare”.

 

Bee Happy. Storie di alveari, mieli e apiculture - Barbara Bonomi Romagnoli | ed. DeriveApprodi | Euro 12,00

 

a cura di Michela Becchi

 

 

Le isole itineranti del gusto portano lo street food a Milano. Le licenze per 50 food truck

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Dalle arancine alla focaccia genovese, passando per i sapori israeliani e messicani: Milano apre le porte allo street food, con l’assegnazione di 50 licenze a furgoncini e apette, che per 5 anni potranno popolare il centro della città meneghina.

Lo street food nel cuore di Milano

50 isole dei sapori, per riscoprire le ricette regionali italiane, ma anche le pietanze internazionali: a Milano lo street food diventa una tappa fissa. Dopo il bando pubblicato nel marzo scorso, Palazzo Marino ha assegnato 50 licenze ad altrettanti food truck, che per 5 anni potranno vendere specialità di strada nel centro storico, nel rispetto di regole precise. Furgoncini e apette eco friendly, per innescare un circuito positivo che leghi il buon cibo alla sostenibilità ambientale: tutti i mezzi sono a pedali, trazione assistita o elettrici, oltre ad avere dimensioni contenute, un’estetica compatibile con il contesto urbano del capoluogo meneghino e apposite cappe per il filtraggio.

Dalle attività, inoltre, sono esclusi alcune vie e incroci importanti per valore architettonico o per la viabilità, in particolare l’asse viario compreso tra piazza San Babila e il Castello Sforzesco (via Beltrami, largo Cairoli, via Dante Alighieri, piazza Cordusio, via Mercanti, piazza del Duomo, corso Vittorio Emanuele II e piazza San Carlo).

 

I food truck assegnatari

Tante e varie le specialità che milanesi e turisti potranno assaggiare nel centro storico della città: gli 11 operatori che hanno partecipato alla fase di sperimentazione iniziale e i 39 nuovi assegnatari lavorano con materie prime di qualità e sono impegnati nella valorizzazione dei prodotti tutelati da Dop, Igp, Stg e Pat. Fra le pietanze di casa nostra quelle di Mozzarella e Dintorni, che porta a Milano i sapori salentini, gli gnocchi e le tigelle di Apemilia, le lasagne di Sorry Mama, la carne lucana di Braciamoci. Ma anche i dolci partenopei di Mignon eccellenze napoletane i gelati della Gelateria Gorini e i tiramisù diZibo cuochi itineranti. E ancora Pestofino, che propone i sapori e profumi del Tigullio, Da Nord a Sud che permette di fare un “giro d’Italia” attraverso il cibo di strada, cucinando dalle focacce genovesi agli arancini siciliani.

Tra i progetti più interessanti sul fronte delle specialità internazionali Tira il piatto contro il muro: un progetto di street food nato dalla collaborazione tra la Comunità di Sant’Egidio, la Federazione delle chiese evangeliche in Italia e le chiese valdesi e metodiste, che conquisterà i palati con le ricette della tradizione mediorientale realizzate da una coppia di rifugiati politici siriani. E da bere? Niente paura, c’è PicoBrew, un pub itinerante ideale per chi ama le birre artigianali realizzate con materie prime del territorio meneghino.

www.comune.milano.it/wps/portal/ist/it/news/primopiano/Tutte_notizie/lavoro_sviluppo_ricerca/street_food_cinquanta_isole

 

a cura di Francesca Fiore

La focaccia e i suoi derivati: 5 specialità umbre e la ricetta della torta al testo

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Bocconcello, cresciole, pizza di Pasqua: sono le focacce umbre, prodotti in cui spicca il sapore intenso del pecorino, ma anche delle cipolle e delle spezie. Ve ne raccontiamo 5, con la ricetta della torta al testo di Cukuc di Perugia.

Il nostro viaggio nel mondo delle focacce regionali fa tappa in Umbria, dove su tutto domina un ingrediente: il formaggio. Quasi sempre pecorino prodotto nel territorio, ma non solo, è questo il sapore che più caratterizza le specialità locali. Oggi ve ne raccontiamo 5, con la ricetta della torta al testo di Cukuc, locale di Perugia selezionato dalla nostra guida Street food 2017.

 

Bocconcello

Partiamo da un preparazione che l'Umbria condivide con diverse regioni del centro Italia, in particolare Abruzzo e Molise, ma che si trova anche in Basilicata: il bocconcello. Una focaccia biscottata di diverse forme - rettangolare, quadrata o a ciambella - arricchita dal formaggio, ingrediente frequente nelle preparazioni da forno umbre. Si tratta di una pietanza tipica di Todi e Gualdo Cattaneo, in provincia di Perugia, ma è diffusa anche ad Acquasparta, in provincia di Terni; è un prodotto di origine contadina, il cui nome fa riferimento all’usanza delle donne di cuocerlo e ridurlo a pezzettini, in modo che durasse per tutto il periodo della trebbiatura. La ricetta prevede farina, uova, guanciale o prosciutto a pezzetti, pecorino e Parmigiano grattugiati, lievito, olio extravergine e sale. Per tradizione veniva mangiato insieme alle uova sode, ma oggi si può trovare anche tagliato a fettine e accompagnato formaggi freschi, olive e verdure a foglia.

 

Cresciole di ciccioli

Le cresciole con i ciccioli sono focaccine simili alle tigelleemiliane, realizzate con farina, uova, lievito, Parmigiano o pecorino, olio extravergine e sale. All’interno l’impasto viene arricchito dai ciccioli di maiale, che regalano a questa preparazione una particolare nota salata. Spesso si trovano anche a forma di treccine e vengono consumate come merenda, accompagnate da formaggi freschi, oppure durante il pasto, in sostituzione del pane.

Derivano da un’antica torta salata, la torta ‘n ch’i ciccioli o crescia ch’i ciccioli, realizzata con gli stessi ingredienti e con un’abbondante dose di lievito madre (dimezzata nelle versioni moderne). Era una portata tipica della dieta quotidiana dei contadini: nata, come spesso accade, dalla necessità di non sprecare gli scarti di altre lavorazioni e di garantire ai braccianti un pasto sostanzioso che permettesse loro di affrontare le fatiche pomeridiane.

Esiste anche una variante dolce, diffusa soprattutto nel perugino e prodotta con farina di grano tenero, latte, olio di oliva, acqua, uova, zucchero, pinoli, buccia d’arancia a dadini o candita, uva passa e una mix di spezie: cannella, noce moscata e chiodi di garofano. Anche questa versione prevede i ciccioli all’interno della pasta, caratteristica che dona al prodotto un sapore molto particolare, risultato del contrasto tra dolce e salato e dall’aromatizzazione ottenuta dalle spezie.

 

Pizza di Pasqua

Una focaccia alta e morbida, diffusa in tutto il centro Italia, in particolare in Umbria, Marche (da cui si dice abbia avuto origine) e Abruzzo, regioni dov’è tradizione fare una colazione pasquale abbondante e saporita. Di questo pasto la protagonista è la pizza di Pasqua, con le dovute varianti locali: entro i confini umbri è prevalentemente salata e viene chiamata anche pizza al formaggio.

Le sue origini sono medievali e si dice che a mettere a punto la ricetta siano state le monache del monastero di Santa Maria Maddalena di Serra de' Conti, in provincia di Ancona. Veniva preparata il giovedì o il venerdì della settimana Santa per poi essere consumata una volta rotto il digiuno della Quaresima, dopo essere stata benedetta.

 

La pizza di Pasqua UmbraLa pizza di Pasqua Umbra - foto di Nonna Paperina

 

La ricetta originale prevede farina, uova, sale, pepe, latte, olio extravergine di oliva, lievito naturale e un mix di formaggi, in cui spicca solitamente il pecorino, ma che può includere anche il Parmigiano reggiano. In alcune zone della regione, l’olio è spesso sostituito dallo strutto, mentre in altre si aggiungono ingredienti come lo zafferano. Una cosa sola rimane la stessa: la sua “altezza”, cosa che la fa somigliare a un panettone. Oltre alla tipica colazione di Pasqua, oggi la pizza si mangia anche durante le scampagnate del Lunedì dell’Angelo, accompagnata dal ciauscolo.

La versione dolce, meno diffusa di quella salata, viene spesso chiamata anche cresciuta - antico nome della torta di Pasqua - ed è arricchita all’interno da canditi e zuccherini, mentre sulla superficie è cosparsa una glassa fatta con albumi d’uovo e zucchero, qui chiamata fiocca.

 

Schiacciata

Nelle zone dell’Alto Chiascio, in particolare intorno a Gubbio, è diffusa una focaccia bassa e fragrante, preparata con la pasta del pane e cotta nel forno a legna, simile alla schiacciata toscana. Può essere ovale o rettangolare e spesso viene pizzicata in superficie e condita con olio, sale e rosmarino. Talvolta si trova anche con la farina di mais al posto del grano duro, come nel caso della pizza gialla di Orvieto, mentre l’impasto viene arricchito con strutto o con i grasselli, i ciccioli di maiale. Preparare questa specialità, a Gubbio, era il rito del sabato pomeriggio: le donne di due o tre famiglie si riunivano in casa e cuocevano le schiacciate insieme, per poi suddividerle e mangiarle il giorno successivo durante il pranzo.

 

Schiacciata umbra con le cipolleSchiacciata umbra con le cipolle - foto di Umbria Touring

 

Oggi la schiacciata si consuma da sola, accompagnata da salumi e formaggi locali, ma può essere anche farcita all’interno: una versione particolare, diffusa soprattutto nel perugino, è quella ripiena con salvia e cipolle di Cannara precedentemente tagliate a fettine e cotte in padella con acqua o vino.

 

Torta al testo

Ha in tutto e per tutto l’aspetto di una focaccia, ma nessun umbro la chiamerebbe così. È la torta dal testo, una delle specialità più celebri della tradizione gastronomica locale. È diffusa in tutta la regione, ma chiamata con nomi diversi secondo la zona specifica:torta nel perugino, crescia nell'eugubino-gualdese, ciaccia a Città di Castello e nella Valtiberina, pizza nelle zone più a sud. Esistono anche diverse varianti come la pizza sotto il fuoco di Terni, che cuoce grazie alla copertura fatta con la cenere, e la torta o crescia di Gubbio, con l’aggiunta del pecorino grattugiato nell’impasto.

Di origini antichissime, era una preparazione alternativa al pane, un tempo priva di lievito e preparata con ingredienti diversi secondo i casi: quella realizzata con grano era destinata alle fasce meno abbienti della popolazione, mentre quella a base di mais era riservata ai pranzi delle famiglie benestanti. Entrambe le versioni derivano, probabilmente, dalla mefa, realizzata con farina di farro o d’orzo, acqua, sale, farcita con grasso di maiale e poi cotta su una lastra di pietra listra chiamata panaro.

 

cottura della torta al testo umbra Torta al testo umbra  - foto di Osterie delle Taverne

 

Oggi la torta al testo è uno street food molto diffuso da consumare a ogni ora del giorno, ripiena di salsiccia e verdura - solitamente cicoria - ripassata in padella con aglio ed olio di oliva, ma la si può trovare anche farcita con stracchino e rucola, o con la porchetta.

Tradizionalmente veniva cotta in caratteristiche piastre di terracotta dette testi, nome che deriva dal latino testum, la tegola in laterizio sulla quale nella Roma antica venivano cotte le pietanze. Il testo di terracotta, che un tempo si metteva sulle braci, è stato sostituto da quelli in lega di ghisa e alluminio usati anche per preparare le focacce emilianee marchigiane, che permettono di preparare la torta anche nei forni casalinghi,

È proprio questa la ricetta che ci siamo fatti regalare da Cukuc, locale di Perugia selezionato dalla guida Street food 2017.

 

La ricetta della torta al testo di Cukuc, Perugia

 

ingredienti

1 kg di farina

30 g di sale

30 g di olio oliva

500 ml di acqua

5 g di lievito di birra

 

Procedimento

Mescolare la farina con il lievito, poi aggiungere metà della dose di acqua. Dopo qualche minuto incorporare anche il sale e l’acqua rimanente. Quando la massa inizia a legare inserire anche l’olio, continuando a impastare fino ad ottenere un composto omogeneo.

Coprirla con un panno umido e farla lievitare dalle 4 alle 5 ore, secondo la temperatura dell’ambiente. Una volta terminata questa fase la pasta dovrebbe avere il doppio delle dimensioni iniziali. A questo punto stenderla a mano, con l’aiuto di un mattarello. Bucherellare con una forchetta lungo il diametro della torta e metterla sul testo già riscaldato, tagliando le parti di impasto che fuoriescono dai bordi.

Cuocerla per 10-15 minuti, girandola un paio di volte per lato. Una volta cotta, lasciarla raffreddare leggermente e farcirla con salsiccia di Norcia, Mozzarella di bufala e tartufo nero scorzone. Tagliarla a spicchi e servire.

Cukuc | Perugia | via Barteri, 2 | tel. 075 5002437 | www.cukuc.com

 

a cura di Francesca Fiore

 

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La crisi modifica la dieta degli italiani. Frutta e pesce in aumento, più attenzione alla salute

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Continuano a cambiare le abitudini di consumo degli italiani, sempre più interessati a un'alimentazione sana ed equilibrata, con una diminuzione dell'acquisto di carne e un aumento di prodotti ittici e frutta. Tutti i dati Istat.

La ricerca Istat: cali e aumenti

Si torna ai livelli pre-crisi, con cene e soggiorni in albergo, vacanze e pause pranzo fuori casa. Aumentano le spese, i carrelli si riempiono soprattutto di pesce e frutta fresca, la carne resta una componente alimentare importante, ma diminuiscono gli acquisti. Sono i dati diffusi dall'Istat che, partendo dalla spesa media delle famiglie (2.524 euro mensili a famiglia nel 2016), ha rilevato “una crescente attenzione a una più corretta alimentazione”. Del totale mensile speso da ogni nucleo familiare, infatti, la quota destinata a prodotti ortofrutticoli evidenzia un aumento del 3,1% per un totale di 41,71 euro al mese per la frutta, e 60,62 euro per la verdura. Il consumo di carne, invece, cala del 4,8% rispetto al 2015, pur rimanendo fortemente presente nelle abitudini alimentari. Cresce, dunque, il consumo di alimenti freschi e di stagione, ma sono i prodotti ittici a fare la parte del leone, con un aumento del 9,5%, per un totale di spesa che arriva fino a 39,83 euro mensili.

I consumi generali

Dati positivi, che registrano un interesse crescente verso uno stile di vita sano, e non solo: dalla ricerca, emerge anche “una ripresa a ritmo moderato”, con un aumento generale dei consumi, anche se il livello rimane ancora “al di sotto di quello registrato nel 2011”. Si evidenzia però una differenza notevole fra i livelli di consumo registrati nelle grandi città e i valori rilevati sul resto del territorio, una disparità che, secondo l'Istituto, si spiega con la “marcata crescita della spesa media mensile per beni e servizi non alimentari delle famiglie residenti nelle città metropolitane”. Resta anche la discrepanza fra Italia Settentrionale e Meridionale, nonostante “il gap tra i più elevati valori del Nord-ovest (2.839 euro) e quelli più bassi delle isole (1.942 euro) si riduca passando da quasi 945 euro a circa 897 euro nel 2017”. Divergenze significative anche fra famiglie composte da soli stranieri e famiglie italiane: le prime, infatti, spendono fino a 1000 euro al mese in meno. Ruolo fondamentale nelle scelte alimentari lo ricopre, poi, anche il livello culturale dei componenti del nucleo familiare; quelli con titoli di studio superiori hanno una spesa maggiore, circa 3.550 euro al mese per i laureati, mentre si fermano a meno della metà (1.725 euro) gli acquisti delle famiglie con licenza elementare o nessun titolo di studio.

Fumo, alcol, sovrappeso: le cattive abitudini degli italiani

Insieme ai dati relativi ai consumi, l'Istat ha diffuso anche una serie di informazioni sulle cattive abitudini degli italiani, ovvero quelle legate al fumo, alla cattiva alimentazione che sfocia nell'obesità, a consumo di alcol e sedentarietà. Un campione per circa 19mila famiglie, per un totale di 45mila individui: questi i parametri della ricerca, che ha dimostrato che il 19,8% della popolazione maggiore di 13 anni dichiara di essere fumatore, per un totale di 10 milioni e 400mila persone, con il 22,6% che afferma di aver fumato in passato e il 56,1% di non aver mai toccato una sigaretta. Nonostante le spese vertano sempre di più verso un consumo alimentare consapevole, il 35,5% della popolazione a partire dai 18 anni è in sovrappeso, mentre il 10,4% dichiara di essere obeso. Il consumo di almeno una bevanda alcolica l'anno, invece, è pari al 64,7% della popolazione. E l'attività fisica? 23 milioni e 85mila persone dichiarano di non praticare mai sport nel tempo libero.

a cura di Michela Becchi

Notte dei Maestri del Lievito Madre, 30 fra i migliori pasticceri italiani a Parma

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Una notte tutta dedicata all’arte bianca e alla lievitazione, con 30 fra i migliori pasticceri italiani. È la Notte dei Maestri del Lievito Madre, festival giunto ormai alla terza edizione e in programma per il 24 luglio a Parma.

I migliori pasticceri a Parma per una notte che celebra il dolce

Una notte dedicata ai lievitati artigianali, in cui 30 fra i migliori pasticceri italiani dimostreranno, ancora una volta, che il Panettone è un dolce per tutte le stagioni. È la Notte dei Maestri del Lievito Madre, festival che mette in scena il meglio della pasticceria nostrana in un territorio che, non a caso, è conosciuto come Food Valley italiana. Sotto i Portici del Grano di piazza Garibaldi si racconterà l’arte della lievitazione in ogni sfaccettatura, non solo attraverso le parole dei protagonisti chiamati dal maestro Claudio Gatti della Pasticceria artigianale Tabiano, ma anche grazie alle degustazioni guidate. E poi ancora l’importanza della selezione di materie prime di qualità, l’uso di un lievito vivo che rende il prodotto sempre diverso, la destagionalizzazione di panettoni e lievitati: questi e altri saranno i temi degli incontri del 24 luglio a Parma, nominata città creativa per la gastronomia Unesco nel dicembre dello scorso anno. “Una notte per festeggiare il lievito che ci appassiona, tradizione antica di secoli, una materia prima viva che sentiamo e governiamo, per questo usiamo la parola maestri” ci conferma il maestro Gatti. “Abbiamo deciso di realizzarla a luglio come forte segno per incentivare il consumo del panettone anche d'estate. Davide Paolini ci ha sempre appoggiato con il suo brand ‘Panettone tutto l'anno’ sostenendo la battaglia sulla destagionalizzazione dei lievitati”.

 

I protagonisti della Notte dei Maestri del Lievito Madre

Ospite d’eccezione di questa edizione del festival Paco Torreblanca: il pasticcere che ha rivoluzionato la scena spagnola con la sua attività Pasteleria Totel a Elda, Alicante, riceverà il premio alla carriera “Miglior Panettone fuori dall'Italia”. Ma le luci sono puntate anche sulla degustazione libera dove si potranno provare oltre 60 tipologie di lievitati rigorosamente artigianali, realizzati con lievito madre dai 30 Maestri: da Luigi Biasetto a Mauro Morandin, da Gino Fabbri ad Alfonso Pepe, passando per Sal De Riso,Paolo Sacchetti eVincenzo Tiri. Come sempre, il festival è un tributo al Maestro Achille Zoia.“Ho pensato la manifestazione come una grande festa e l’ho voluta dedicare a uno dei padri della pasticceria moderna, Achille Zoia” ha precisato Gatti“mio maestro e insegnante di tanti altri pasticceri che partecipano al festival”.

 

L’elenco completo dei 30 pasticceri presenti al festival:

 

Marco Avidano- Pasticceria Avidano a Chieri (TO)

Mario Bacilieri- Pasticceria Bacilieri a Marchirolo (VA)

Luigi Biasetto – Pasticceria Biasetto a Selvazzano Dentro (PD)

Maurizio Bonanomi- Pasticceria Merlo a Pioltello (MI)

Renato Bosco- Saporè di San Martino Buon Albergo (VR)

Lucca Cantarin- Pasticceria Marisa di Arsego di San Giorgo delle Pertiche (PD)

Roberto Cantolacqua Ripani- Pasticceria Mimosa di Tolentino (MC)

Emanuele e Giancarlo Comi- Pasticceria Comi a Missaglia (LC)

Diego Crosara- specialista nell'arte del gelato

Salvatore De Riso- Sal De Riso a Tramonti (SA)

Denis Dianin- D&G Patisserie di Selvazzano Dentro (PD) e Clusone (BG)

Gino Fabbri- Gino Fabbri Pasticcere a Bologna

Francesco Favorito- specialista del Gluten free

Salvatore Gabbiano- Pasticceria Gabbiano di Pompei (NA)

Claudio Gatti- Pasticceria Tabiano a Tabiano Terme (PR)

Stefano Gatti- Il Fornaio a Viareggio (LU)

Emanuele Lenti- Pregiata Forneria Lenti a Grottaglie (TA)

Daniele Lorenzetti- Pasticceria Lorenzetti a San Giovanni Lupatoto (VR)

Grazia Mazzali- Pasticceria Mazzali a Governolo (MN)

Mauro Morandin- Pasticceria Mauro Morandin a Saint-Vincent (AO)

Alfonso Pepe- Pasticceria Pepe a Sant'Egidio del Monte Albino (SA)

Paolo Sacchetti- Il Nuovo Mondo a Prato

Vincenzo Santoro- Pasticceria Martesana di Milano

Anna Sartori- Pasticceria Sartori a Erba (CO)

Attilio Servi- Pasticceria Attilio a Pomezia (RM)

Valter Tagliazucchi- Il Giamberlano a Pavullo Nel Frignano (MO)

Vincenzo Tiri- Tiri 1957 di Acerenza (PZ)

Andrea Tortora- AT/ Patissier San Cassiano in Badia (BZ)

Carmen Vecchione- DolciArte di Avellino

Achille Zoia- La boutique del Dolce a Cologno Monzese (MI)

 

Notte dei Maestri del Lievito Madre | Parma | piazza Garibaldi | 24 luglio 2017 | www.nottemaestrilievitomadre.it

 

 

a cura di Francesca Fiore

Botteghe del formaggio. 7 indirizzi per gli acquisti gastronomici a Firenze

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Caprini, tome, erborinati e tanti tipi di pecorino, dai più freschi ai più stagionati, da quelli al naturale a quelli affinati sotto paglia o fieno, ma anche formaggi francesi, inglesi e olandesi: sono i prodotti delle migliori botteghe del formaggio di Firenze, specialità tutte da scoprire.

Toscana terra di pecorini, ma non solo. Nelle botteghe gastronomiche fiorentine si possono trovare specialità da tutta Italia - ricotte, caprini, tome, erborinati di vario tipo, fontina - ma anche vere e proprie chicche dall’estero. Per la terza puntata sulle migliori botteghe del formaggio vi portiamo a Firenze, con 7 indirizzi di fiducia per i vostri acquisti gastronomici.

 

Alimentari Uffizi

Partiamo da una bottega storica, di proprietà della famiglia Camlpomi dal 1924, vicinissima alla Galleria degli Uffizi. “Tutti i nostri prodotti provengono dalle zone della Maremma, del Mugello e dal Chianti” racconta Alessandro Campolmi, che gestisce il negozio dal 1984 “selezioniamo specialità di piccole aziende locali secondo la stagione e la disponibilità”. E qui la filiera è davvero corta: i salumi presenti in bottega sono della stessa famiglia Campolmi, proprietaria dell’azienda agricola Le Colline. “Ci preme soprattutto proporre preparati e prodotti di qualità, facendo attenzione alla varietà, ma garantendo al cliente il miglior prezzo possibile”.

Qui si possono assaggiare pecorini in diversi gradi di stagionatura, al naturale o affinati sotto paglia e fieno, ma anche tome e robiole piemontesi, erborinati di vario tipo, Castelmagno e Fontina d’alpeggio. Dal reparto carni finocchiona, lardo, pancetta, salsicce, salami più o meno stagionati, mortadella e soppressa, ma è ampia la scelta anche su pasta, pane, conserve, sott’oli e sott’aceti, marmellate, chutney e creme spalmabili.

Qualche piatto di gastronomia come ribollita, lampredotto, patè di vario tipo per i crostini e naturalmente taglieri di salumi e formaggi per l’assaggio. Inoltre, dai Campolmi potrete comprare le specialità selezionate o decidere di trascorrere una pausa in relax, grazie ai tavolini presenti in bottega - una decina i posti a sedere - e ai golosi panini o alla schiacciata ripiena preparati sul momento.

Alimentari Uffizi | Firenze | via Lambertesca, 10 | tel. 055 281089 | www.facebook.com/pg/alimentari.uffizi

 

Baroni Alimentari

Un’attività da sempre presente all’interno del Mercato Centrale di Firenze, in mano alla famiglia Baroni dal 1974. Dal 1985 lo gestiscono Alessandro Baroni e Paola Prini che, con passione e dedizione, si dedicano alla selezione di prodotti di alta qualità, non solo formaggi e salumi, ma anche olio extravergine proveniente da zone come Bolgheri, Chianti e Montalcino, aceti di vino sempre dal Chianti, dal Piemonte e dall’area di Jerez de la Frontera, Andalucia, il balsamico da Modena, sia in versione giovane che invecchiato, fino alle riserve speciali. E poi ancora pasta, preparazioni in barattolo come i filetti di cefalo, l’anguilla sfumata, la bottarga di Orbetello, cioccolato artigianale, foie gras e il tartufo di San Miniato.

 

I coniugi Baroni, proprietari della bottega Baroni di FirenzeI coniugi Baroni

E la sezione formaggi? L’assortimento dei coniugi Baroni-Primi si focalizza prevalentemente sulla filiera corta: ricotte, raviggiolo, i pecorini dell’agriturismo Corzano e Paterno, provenienti da Val d’Orcia, da Volterra, dal Mugello. “La nostra” racconta Alessandro “è una sistematica ricerca delle produzioni di nicchia, volta a scovare l’eccellenza, per garantire il meglio in ogni stagione”. Per coloro che non si trovano a Firenze e vogliono comunque assaggiare le specialità selezionate da Baroni Alimentari, Alessandro e Paola forniscono diversi paesi in Europa, ma anche Giappone, Australia, Singapore, Taiwan, Stati Uniti: saranno loro a consigliarvi quali sono i prodotti più adatti ad essere spediti.

Baroni Alimentari | Firenze | Mercato Centrale | via Galluzzo | tel. 055 289576 | www.baronialimentari.com

 

L'aperitivo della bottega Baroni, FirenzeL'aperitivo della bottega Baroni

 

Divine golosità toscane

Un’enoteca più che fornita, ma anche una formaggeria e una gastronomia di alta qualità. Da oltre 10 anni Alfrediano Prato e la sua famiglia selezionano specialità da diverse zone d’Italia, ma anche dall’estero, con la cura e la passione che li contraddistinguono: “Per avere un assortimento vario e di qualità è necessario visitare cantine, laboratori e botteghe” racconta Alfrediano“durante i primi anni di attività abbiamo frequentato biblioteche, consultato testi e riviste specializzate. Siamo andati per fiere e mercati e dovunque fosse possibile trovare prodotti caratteristici e genuini”. Partiamo dal vino, anima del negozio: sono oltre 2500 le etichette presenti in bottega, suddivise in maniera equa fra produzione nazionale ed estera, con particolare riguardo per Champagne e vini francesi, ma anche per etichette biologiche e naturali.

Il reparto formaggi non è da meno: dalle Fontine valdostane d’alpeggio al bettelmatt - un vaccino a latte crudo prodotto esclusivamente in alcuni alpeggi estivi siti nell'Ossola superiore - dal Brie de Meaux dalla Francia a vari tipi di erborinati (muffati, ai fiori d’arancio e nero fumè), passando per il Fiore sardo dei pastori, prodotto in regime biologico, la Mozzarella di bufala del Caseificio Salati di Capaccio (Salerno) e il burro aromatizzato al tartufo bianco dalla zona di Acqualagna (Pesaro-Urbino). Ampia la sezione pecorini: il Pecorino bianco e quello rosso del Caseificio Maremma, il semi stagionato del Caseificio Seggiano, nell’omonimo comune sul Monte Amiata, quello stagionato con paglia e fieno, fino al Pecorino romano.

E ancora: olio evo, aceti con vari gradi di invecchiamento, conserve, sott'oli, marmellate, funghi secchi, biscotti e dolci tradizionali toscani. Il tutto si può assaggiare recandosi in bottega e ascoltando i consigli dei proprietari sui migliori abbinamenti, oppure si può ordinare on line.

Divine Golosità toscane | Firenze | via Reginaldo Giuliani, 160 | tel. 055 454417 | www.divinegolositatoscane.it

 

I formaggi di Franco Parola

Non solo un selezionatore, ma anche un affinatore: Franco Parola tratta i formaggi nella sua azienda di Saluzzo, in provincia di Cuneo, ma ha un punto vendita anche al Mercato Centrale. Piemontese di razza, Parola preferisce i caseifici a ciclo chiuso, quelle che “partono dal latte e arrivano al formaggio, seguendo il naturale corso delle stagioni”, in particolare privilegiando le produzioni d’alpeggio delle valli cuneesi, ma lavora anche specialità toscane.

 

Franco Parola, proprietario della bottega I formaggi di Franco Parola al Mercato centrale di FirenzeFranco Parola

La bottega è un vero paradiso per chi ama i formaggi rari e ricercati: qui si possono trovare il seirass del fen della Val Pellice - una ricotta stagionata dal gusto delicato ma saporito - il cevrin di Coazze, letteralmente “caprino” anche se spesso fatto con latte misto (capra e vacca) e stagionato 3 mesi nelle grotte naturali, oppure il plaisentif, formaggio di vacca a latte crudo molto raro, tipico dell'alta Val Chisone e dell'alta Val Susa, chiamato anche “formaggio delle viole” e prodotto sin dalla fine del '500. E poi ancora i caprini della Valle Elvo, Val Maira e Val Sangone, i tomini e la robiola di Roccaverano, un’ampia selezione di erborinati, le Mozzarelle di bufala campana del caseificio Antico Demanio di Pignataro Maggiore (Caserta) e tanti, tantissimi pecorini. “In questo periodo vanno molto i caprini freschi e le Mozzarelle di bufala, ma i pecorini sono sempre molto richiesti, soprattutto quello a latte crudo della montagna pistoiese. I nostri clienti tendono a scegliere sempre il prodotto locale: poi spesso faccio assaggiare prodotti affinati da me come il bettelmatt e il Castelmagno d’alpeggio”. Non mancano i formaggi esteri come Stilton, Gouda o Comtè stagionato 36 mesi.

Ampia la proposta d’assaggio in bottega, con taglieri a tema che coprono gusti e tasche di differente portata, come il tagliere Giro d’Italia (6 tipologie di formaggi dal nord al sud), il Savoia (tutti piemontesi), il Giro d’Europa, il Misto toscano, lo Stuzzico, il Caprino.

I formaggi di Franco Parola | Firenze | Mercato Centrale | piazza del Mercato Centrale | tel. 348 7155037 | www.facebook.com/pg/formaggidifrancoparola

 

Il bancone di Franco Parola, bottega del Mercato centrale di FirenzeIl bancone di Franco Parola

 

La bottega del produttore

Un’azienda agricola con una lunga storia alle spalle, situata nei pressi di Arezzo, ma con un punto vendita all’interno del Mercato Centrale di Firenze. “La nostra famiglia ha sempre avuto l’idea di sviluppare una filiera di produttori locali con cui fare rete” racconta Giovanni Bonaccini, “noi produciamo soprattutto olio e vino, ma anche i fagioli zolfini, tipici della nostra zona. Inoltre alleviamo animali ruspanti alimentati nel modo più naturale possibile e nel rispetto dei loro ritmi di vita. Per i formaggi ci appoggiamo soprattutto aziende che distano pochi chilometri da noi, tutte dislocate sulla strada dell’Ascione”. Il focus del reparto caseario sono i pecorini toscani, proposti in diversi gradi di stagionatura e sempre molto richiesti dalla clientela: “Il pecorino viene chiesto dai clienti abituali ma soprattuttod ai turisti, che cercano sempre il prodotto locale da scoprire”. Ma qui si possono assaggiare anche gli yogurt di pecora e gli erborinati (sempre di pecora) dell’azienda Panzano, le ricotte del caseificio Ascione, i pecorini della Cooperativa agricola Pratomagno di Talla. Naturalmente presenti in bottega i prodotti della famiglia Bonaccini, ma anche conserve, miele, marmellate, salumi locali, la pasta del pastificio Carmignani e molto altro. Gastronomia d’asporto su richiesta, con piatti della tradizione toscana come il preparato di fegatini per i crostini, i ragù di lepre o di cinghiale, la ribollita. Per chi volesse fare una gita in provincia di Arezzo, all’interno dell’azienda agricola dei fratelli Bonaccini è presente anche un ristorante, Il Piano, che propone specialità della cucina aretina.

La bottega del produttore | Firenze | Mercato Centrale | via dell’Ariento | tel. 389 022 1155 | www.bonaccini.com

 

L’olandese volante

Un angolo d’Olanda nel cuore di Firenze. Il negozio di Janse Renzo Alexander è un vero paradiso della gastronomia dei Paesi Bassi: dai celebri bonbons, i cioccolatini ripieni presentati in 40 gusti differenti, ai biscotti alle spezie, fino alle cialde mou, alle caramelle artigianali e ai dolci delle feste.

Fornito – ovviamente - anche il reparto formaggi, con Gouda e Edammer in prima fila, proposti in vari gradi di stagionatura, ma anche il formaggio al cumino, quello ai semi di senape, alle erbe aromatiche e al peperoncino. Per coloro che amano le preparazioni salate, Janse propone anche la tradizionale salsiccia olandese affumicata chiamata Rookworst, le aringhe affumicate, il patè di fegato di merluzzo da mangiare con i crostini, liquori e acquaviti di ogni sorta. Infine, qualche chicca “dall’estero”, cioè da paesi diversi dall’Olanda, come tartufi, patè e foie gras francesi, qualche etichetta dalla Borgogna e da Bordeaux. E se avete poca dimestichezza con la gastronomia dei Paesi Bassi non c’è problema: ogni prodotto è provvisto di etichetta in italiano con spiegazioni su ingredienti e sul modo di usarlo.

L’olandese volante | Firenze | via San Gallo, 44r | tel. 055 473240 | www.freewebs.com/lolandesevolante

 

Pegna

Concludiamo questa piccola rassegna con un’altra bottega storica, questa volta adiacente al Duomo: aperta nel 1860, è da sempre un punto di riferimento per gli acquisti di qualità in città. Oggi la proprietà è di Giorgio Benelli, ma di fatto l'insegna è gestita dal nipote Niccolò Querci, che prosegue la storica attività familiare con dedizione e impegno. “Ci piace avere un vasto assortimento di salumi e formaggi, soprattutto prodotti in zone limitrofe alla nostra, ma non disdegniamo qualche chicca estera da far scoprire ad appassionati e neofiti”, racconta Niccolò.

 

Pegna, storica bottega di FirenzePegna

I clienti “del Pegna” - come lo chiamano i fiorentini - possono assaggiare caprini e tome in varie stagionature, il roccolo della Val Taleggio, diversi tipi di erborinati e croste fiorite, caciocavalli, provoloni e naturalmente un vasto assortimento di pecorini: da quello fresco della Maremma al Pecorino sardo semi stagionato, passando per il pecorino di Pienza e quello di fossa “Uno dei prodotti che va più a ruba è il pecorino Riserva del fondatore del caseificio Fiorino (Roccalbegna, GR)che anni fa vinse la medaglia d’oro al campionato mondiale di Tours. Quando arriva in negozio dura pochissimo e siamo costretti a farne sempre nuove scorte. In generale i formaggi locali sono quelli più richiesti, sia dai clienti abituali che dai turisti”. Spazio anche alle specialità estere, come gli inglesi Cheddar e Stilton, lo scozzese Shropshire Blue Cheese o i formaggi di capra francesi.

Ma in negozio si trovano anche prodotti come bottarga sarda di muggine e tonno, salmone selvaggio Red King, tartufo bianco e caviale freschi (solo nel periodo invernale), 'nduja originale di Spilinga, prosciutto di Cinta Senese e quello spagnolo Patanegra Joselito. E, per gli appassionati di vino, oltre 300 etichette con grandi nomi come Sassicaia, Ornellaia e molti altri, oltre a prosecchi, champagne, passiti e liquori per tutti i gusti e per tutte le tasche.

Per chi non ha voglia di cucinare, infine, dalla cucina arrivano ogni giorno lasagne, trippa alla fiorentina, pomodori ripieni, antipasti di mare, diversi tipi di primi, focacce e torte salate.

Pegna | Firenze | via dello Studio, 8 | tel. 055 282701 | www.pegnafirenze.com

 

a cura di Francesca Fiore

 

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Godo Sostanza Italiana. Il food delivery italiano nel cuore di Londra, con la cucina d'autore di Tommaso Arrigoni

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Non sono pochi gli chef che si cimentano con il cibo a domicilio, a supporto di nuove startup che si muovono alla conquista di un mercato sempre più florido. Tommaso Arrigoni, chef di Innocenti Evasioni, ci prova a Londra: le sue ricette italiane in barattolo alla conquista della City. 

Chef italiani nel mondo

Di viaggiare in giro per il mondo, in cerca di nuovi spunti e motivi di crescita professionale, ma pure per diffondere il verbo della cucina italiana d'autore, Tommaso Arrigoni non si è mai stancato. Nonostante l'impegno assiduo al ristorante Innocenti Evasioni, tavola milanese particolarmente apprezzata, che lo chef conduce insieme a Eros Picco, interpretando la cultura gastronomica meneghina con piglio moderno e ottimi ingredienti del territorio. L'atmosfera rilassata della sala, con vista sul giardino zen, la personalità degli chef e la capacità di proporre formule per tutte le tasche, hanno fatto dell'insegna di viale Certosa (Una Forchetta e 78 punti sulla guida Gambero Rosso) una meta dov'è sempre piacevole fermarsi a Milano. Ma i progetti di Arrigoni – alle spalle esperienze con Claudio Sadler, e poi in Francia, America, Giappone, prima di tornare a Milano nel 1998 – dall'inizio del 2016 lo portano a fare la spola tra l'Italia e Londra, dove proprio alla sua supervisione è stato demandato il successo di una food startup che porta un po' d'Italia nel cuore della capitale inglese. Godo Sostanza Italiana è il food delivery ideato alla fine del 2015 da una coppia di giovani imprenditori milanesi, Amin Bouafsoun e Simone Sajeva, alle prese con la pausa pranzo nella City: una piccola realtà per la consegna a domicilio di buon cibo italiano nella giungla di servizi di delivery ben più agguerriti da cui l'intera città è servita in modo capillare.

Tommaso Arrigoni per Godo

Food delivery made in Italy a Londra

Come fare la differenza? Per esempio “assoldando” uno chef d'esperienza, che con la cucina made in Italy ci sapesse fare sul serio, e perfezionando un sistema di produzione, confezionamento e trasporto adeguato alla qualità della proposta. E poi selezionando gli ingredienti, molti quelli in arrivo da fornitori della Penisola, scelti con l'aiuto di Tommaso: la pasta del Pastificio Gentile e del Pastificio dei Campi, il Parmigiano del Caseificio Gennari di Collecchio (oltre 60 anni di storia alle spalle), i capperi di Pantelleria dell'azienda La Nicchia, che il simbolo della gastronomia pantesca lo coltiva sull'isola dal 1949. Dalla Sicilia arriva anche l'extravergine, l'olio di Bongiordano, e il pesce di Franco Anello, pescatore di Palermo che a Londra invia tonno e gamberoni per i menu dello chef. Ma ci sono pure il basilico di Paolo Calcagno, da Celle Ligure, e i pomodori del Piennolo, San Marzano e Cuore di bue che crescono sotto il sole di Torre del Greco. Al resto c'hanno pensato l'ideazione di un packaging coerente con l'esperienza proposta – quindi confezioni particolarmente curate per funzionalità e design – e l'immancabile allure di un brand che sull'italian style ha voluto puntare fin negli aspetti più “folcloristici”: gli ambassadors di Godo, giovani e tutti italiani, evadono le consegne rigorosamente in Vespa o Fiat500. Un'accortezza che evidentemente piace ancora agli inglesi col pallino per il made in Italy.

i menu di Godo, food delivery di Londra

Cottura, confezionamento e consegna in 15 minuti

Ben più interessante è il metodo di cottura e confezionamento messo a punto per preservare il gusto delle pietanze: barattoli in vetro sottovuoto e facilmente riscaldabili, che una volta svuotati possono essere riconsegnati al mittente. Al decimo barattolo riconsegnato scatta lo sconto di 8 sterline, da utilizzare per un nuovo acquisto. A disposizione dello chef – e del suo braccio destro Michele Carretta, anche lui alle spalle tante esperienze, dal Joia di Pietro Leemann a Cracco, prima di approdare a Londra – la cucina di supporto del quartier generale, dove periodicamente si elaborano nuove ricette da introdurre in menu. Qualche esempio? Le polpette di pesce alla Eoliana, la tartare di manzo (la carne è quella dell'azienda biologica inglese The Rhug Estate, nel nord del Galles), o una classica parmigiana di melanzane; e poi i primi della tradizione, trofie con il pesto, pasta al ragù, con gamberoni e pistacchio o salsiccia e tartufo. E ancora polpette al sugo, insalata di gorgonzola, pere e mandorle, fagioli all'uccelletto. Capitolo dolci affidato al cannolo siciliano (ma rivisitato in barattolo) e al biancomangiare. Da bere una ridotta selezione di etichette italiane e le bevande analcoliche di Lurisia.

Si ordina dalle 11 alle 23, tramite app (che informa su valori nutrizionali delle pietanze, consente il pagamento in app e il tracking della consegna) o piattaforma online, per ricevere nella City, a Chelsea, Southbank, Canary Wharf e Westend. A più di un anno dall'inizio, il business sembra rivelarsi sostenibile, e piace soprattutto a chi lavora in ufficio: tempi di attesa previsti, nell'ora di punta, 15 minuti. Il fascino dell'Italia, anche in questo caso, fa il resto.

 

www.mygodo.com

 

a cura di Livia Montagnoli

 

Alle Isole Eolie c'è il Malvasia Day. Riflessioni sul vino delle Lipari

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A Salina, durante il Malvasia Day, si parlerà del nuovo corso della Malvasia delle Lipari. A un anno dalla ricostituzione del Consorzio si cerca la strategia migliore per rilanciare la Doc. Il presidente Carlo Hauner: "Adesso esportare il modello Eolie”

Malvasia: una viticoltura eroica

Tra le tante facce della viticoltura eroica, quella delle Eolie spicca in modo particolare. Sino a qualche decennio fa sembrava destinata all'estinzione, tanto da sopravvivere solo sull'isola di Salina. Ora la vite è stata ripiantata anche dove era scomparsa, ritornando a Lipari, Panarea, Vulcano e presto anche a Stromboli. Il vino qui è una realtà piccola ma vivace, che vive con passione questa nuova fase della sua vicenda produttiva. Infatti, la produzione dell’uva e del vino negli anni ha subìto delle forti oscillazioni.

Se nel 1800 si producevano circa 10.000 ettolitri, negli anni Sessanta dello scorso secolo è stato raggiunto il minimo storico con circa 200 ettolitri. Nel luglio 2016 è stato ricostituitoil "Consorzio per la Tutela della Doc Malvasia delle Lipari e della Igt Salina", a cui partecipano 9 aziende isolane (Carlo Hauner, Tasca d'Almerita, Barone di Villagrande, Caravaglio, Virgona, Fenech, Colosi, Salvatore D'Amico e Punta Aria di Vulcano), che si è dotato di un nuovo statuto e di un nuovo cda, e recentemente ha ottenuto dal Ministero dell'Agricoltura l'incarico per esercitare "erga omnes". In passato, negli anni Ottanta e Novanta, grazie a Carlo Hauner sr., e ai pochi altri vini dolci presenti sul mercato (per lo più Vinsanto toscano, Picolit, Recioto di Soave e Moscato di Pantelleria), la Malvasia delle Lipari si era conquistata un buono spazio di mercato a cui è seguito il declino. Per una piccola ma prestigiosa Doc, farsi spazio in un mercato affollato e competitivo, eccessivamente inflazionato da Passiti provenienti da ogni parte d'Italia, non è affatto scontato.

 

Malvasia delle Lipari e Salina Igt

Una realtà di mercato chePiero Colosi, uno dei più importanti produttori di Salina (10 ettari di vigneto), conosce assai bene: "I vini dolci attualmente sono molto difficili da vendere e ancor di più all'estero dove il nostro vino è quasi sconosciuto". Sulla spinta di questa difficoltà, da qualche anno i grappoli delle uve Malvasia, che solitamente vengono messi ad appassire al sole e al vento oppure si lasciano sulla pianta per prolungare la maturazione, non vengono utilizzati per ottenere solo la classica Malvasia delle Lipari Doc, bensì, subito dopo la vendemmia, vengono avviati alla vinificazione per ottenere un vino secco e aromatico, molto piacevole e apprezzato, classificato come Salina bianco Igt. Un vino che ormai producono tutte le aziende perché rappresenta un'innovativa boccata di ossigeno per l'economia aziendale. "Se il prezzo di una bottiglia di Malvasia dolce si aggira attorno ai 15-16 euro, incassati da 2 a 4 anni dopo l'anno di vendemmia, il tipo Secco, raccolto prima e senza i costi dell'appassimento" spiega Colosi "viene venduto tra 6-8 euro e in pochi mesi, il denaro rientra".

 

Non tutti, però, condividono lo stesso entusiasmo per la novità. Il consigliere Marco Nicolosi dell'azienda Barone di Villagrande, osserva che "La risposta delle Eolie alle difficoltà di mercato della Malvasia, è stato il Salina bianco Igt, che però non gode delle stesse suggestioni e della stessa magia della nostra denominazione principale. È bene che ci sia, visto che permette di dare una classificazione non solo alle uve catarratto e inzolia presenti sull'isola, ma anche alla stessa malvasia vinificata secca. Però, la quota dedicata a quest'ultima dovrebbe rimanere marginale, perché la resa produttiva della malvasia è bassa (circa 50/55 q.li) e il grappolo molto spargolo, risulta più adatto all'appassimento che non alla vinificazione di un vino secco". Nicolosi mette anche l'accento sulla necessità "di recuperare il rapporto con i ristoratori locali ma in generale di coinvolgere l'isola molto di più di quanto non si è fatto in passato valorizzando la storia straordinaria del nostro vino più importante, la Malvasia delle Lipari Passita".

 

La versione secca della Malvasia Doc e la spinta del Malvasia Day

Francesco Fenechè un piccolo ma agguerritissimo vignaiolo di Malfa, che si è voluto cimentare con la Malvasia Secca, un vino che ritiene "molto valido di cui però si devono ancora scoprire tutte le potenzialità. Siamo solo agli inizi: si tratta di trovare un metodo di vinificazione più adatto a esaltare la sua aromaticità. Comunque si tratta anche di valorizzarlo adeguatamente, magari facendo diventare la Malvasia Passita Docg e la Secca una Doc a se stante. Per quanto mi riguarda, sto notando che la mia Malvasia Secca Maddalena, oggi Salina Igt, sta diventando un traino anche per la Passita che negli ultimi anni avevo perso un po' di smalto". Fenech da sempre conosciuto per la sua Malvasia delle Lipari Passita, ha molto aumentato la produzione della Secca: " La richiesta è stata talmente grande che sono stato costretto ad aumentare sensibilmente il prezzo (15,00 euro a bottiglia), perché altrimenti avrei finito in poche settimane l'intera produzione annuale di Maddalena (18 mila bottiglie)".

 

Mauro Pollastri dell'azienda Punta Aria dell'isola di Vulcano, produce una piccola quantità di Malvasia Secca che vende entro il mese di settembre: "Il margine per l'azienda è più ridotto rispetto al Passito" dice Pollastri"ma d'altra parte consente di incassare in breve tempo. Secondo me bisognerebbe dedicargli una Doc a parte, magari da denominare Isole Eolie: in questo modo non si intaccherebbe l'identità della Malvasia delle Lipari". A proposito delle difficoltà dei vini dolci sul mercato, fa riferimento a un suo recente viaggio di studio a Sauternes, in Francia. "La tendenza che ho verificato è di fare vini anche con soli 50-60 grammi di zucchero o in qualche caso, di vinificare secco senza mettere in discussione la denominazione principale. Insomma, si tratta di esplorare nuove strade, trovando nuovi abbinamenti con il salato dei prodotti locali (capperi, acciughe, ecc.) e anche una nuova sinergia con i ristoranti più attenti. Ma, soprattutto, abbiamo bisogno di fare pubblicità e promozione per farci conoscere meglio. In questo senso la possibilità di attivare una sorta di gemellaggio con zone tradizionalmente produttrici di vini dolci - quindi con problemi simili ai nostri - potrebbe essere una strada per assicurarci una maggiore visibilità e un percorso comune. Per questo il ruolo del Consorzio è fondamentale".

 

Le strategie per rilanciare il modello Eolie

Nino Caravaglioè un altro degli storici produttori di Salina. Secondo lui "La Malvasia delle Lipari passita deve rimanere il nostro vino più importante e noi dobbiamo difendere la sua identità. Oggi l'offerta di vini dolci è inflazionata, l'unica risposta è innalzare i livelli qualitativi magari producendo un tipo più fresco e più acido. Ma qui a Salina la nostra prima priorità è il Passito e la seconda sono i vini bianchi tranquilli tra cui la Malvasia Secca. A mio giudizio la terza potrebbe essere il recupero delle uve rosse locali - quali nocera, perricone, nerello mascalese - che nei terreni vulcanici danno ottimi risultati. Si tratterebbe di riprendere la tradizione di coltivarle".

Interviene sul tema anche Alberto Tasca d'Almerita, che in questi anni ha messo la sua azienda – Capofaro -a disposizione per l'organizzazione e la celebrazione del Malvasia Day: "Oggi" dice"il traino delle aziende è il Salina Bianco Igt, sicuramente più della Malvasia Passita Doc. Il primo sin da subito ha creato una nuova opportunità economica alle aziende, permettendogli di avere respiro, rispetto ai tempi lunghi del Passito. Ora per recuperare il terreno perduto dobbiamo svecchiare l'approccio dei produttori anche favorendo il ricambio generazionale, ma soprattutto abbiamo bisogno di portare il Malvasia Day fuori Salina. Con la creazione del nuovo Consorzio è bene che tali compiti vengano svolti dalla struttura collettiva adeguatamente organizzata".

Carlo Hauner jr., presidente del Consorzio di tutela, tiene il punto: "La Malvasia dolce è il simbolo della nostra storia e del nostro territorio e va adeguatamente sostenuta e promossa. Anch'io sono d'accordo nel portare Malvasia Day, fuori dall'Italia, ma allo stesso tempo dovremmo lanciare il nostro 'modello Eolie', cioè di una viticoltura a basso impatto ambientale che abbraccia non solo Salina ma anche le altre isole. Oggi i vini siciliani sono soprattutto conosciuti per l'Etna, ma anche noi siamo vulcanici: abbiamo ancora molto da dire e da raccontare". Nelle Eolie terre di miti, di vulcani attivi, di arie terse e di venti salsi, la vite e il vino rappresentano un mondo che si confronta. Insomma, tutto fuorché un solo, semplice, bicchiere di vino.

 

Il Malvasia Day 2017

Il 15 luglio sarà la giornata dedicata alla Malvasia, presso la Tenuta Capofaro. La giornata comincia alle ore 18, con l'inizio della manifestazione con il seminario del prof. Luigi Moio Le basi scientifiche del profumo della Malvasia e la metamorfosi olfattiva della dolcezza. Prosegue poi, alle ore 19, con la degustazione dei vini. Parteciperanno da Vulcano, le aziende Lantieri e Punta Aria; da Lipari, Tenuta di Castellaro; da Panarea, La vigna di Casa Pedrani; da Salina Barone di Villagrande, Carlo Hauner, Caravaglio, Colosi, D'Amico, Fenech, Florio, Marchetta, Tasca d'Almerita – Capofaro, Virgona.

 

Malvasia Day | Tenuta Capofaro | Isole Eolie | Salina | Via Faro, 3 |15 luglio 

 

a cura di Andrea Gabbrielli

 

 

Questo articolo è uscito sul nostro settimanale Tre Bicchieri del 6 luglio

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La Mozzarella di bufala può essere Dop se è congelata. La modifica del disciplinare

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Approvate dal CdA del Consorzio di Tutela della mozzarella di bufala campana Dop una serie di modifiche al disciplinare che già fanno discutere. Una su tutte: il marchio Dop resta anche se la mozzarella è congelata. Ecco perché e cosa cambia. 

Il Consorzio di Tutela. Continuità ed evoluzione

Le novità che intendiamo introdurre hanno come obiettivo l’ammodernamento della filiera, lasciando intatta la tradizione che ha reso famoso nel mondo il nostro prodotto”. Così parlava Domenico Raimondo qualche giorno fa, all'indomani della sua riconferma alla guida del Consorzio di Tutela della Mozzarella di Bufala Campana Dop, al terzo mandato da presidente, e in carica per il prossimo triennio. Una scelta all'insegna della continuità per premiare le scelte di un CdA particolarmente attivo nell'ultimo periodo, sotto l'egida di una triade rimasta invariata, i vicepresidenti Letizia Gallipoli Vito Rubino a coadiuvare Raimondo, mastro casaro di quarta generazione dalla provincia di Salerno. Tra le conquiste dell'ultimo anno, infatti, si segnalano la costituzione di un Comitato Scientifico in seno all'Università Federico II di Napoli, ma soprattutto il trasloco nella prestigiosa sede della Reggia di Caserta, dove in accordo con Mauro Felicori le attività del Consorzio hanno trovato casa nei locali rinnovati delle ex stalle di corte. E ancora, proprio di recente, la nascita della prima scuola di formazione lattiero-casearia del Centro-Sud, inaugurata lo scorso 21 giugno a Caserta, a supporto di una filiera sempre più orientata all'imprenditorialità, e per questo bisognosa di aggiornamenti a approfondimenti tecnici all'avanguardia. In questa direzione, e per fare rete sul territorio, il Consorzio rivendicava allora lo slogan Mozzarella Dop 4.0, a sottolineare la volontà di varare una nuova era – più determinante nell'ambito degli equilibri nazionali e comunitari, sul piano politico, economico e strutturale - per il prodotto a marchio Dop più importante della Regione Campania e particolarmente redditizio per l'intero agroalimentare del Mezzogiorno.

Il disciplinare di produzione. Dop e congelata si può

E quindi, in sede di rinnovo, il “neo” presidente non nascondeva l'intenzione di affrontare nuove sfide, con particolare premura per l'approvazione delle modifiche al disciplinare che regola la produzione di mozzarella di bufala campana Dop. Eccoci dunque a oggi, 10 luglio 2017: nell'intervista rilasciata a Luciano Pignataro sul Mattino, Raimondo conferma la richiesta formale di modifica sulla base del lavoro svolto dal Comitato Scientifico di cui sopra (che si avvale anche del contributo dell'europarlamentare Paolo De Castro e del professor Mucchetti). Le polemiche non mancano. L'oggetto del contendere riguarda specificamente una delle più evidenti novità introdotte dal nuovo regolamento, che ammette sotto l'etichetta della Dop il prodotto congelato, ma con espressa dicitura Frozen a informare il consumatore. Tutte le modifiche approvate, ha ribadito Raimondo, sono infatti orientate a fornire regole univoche al consumatore finale, attraverso una trasparente compilazione dell'etichetta. E allora, dove sta il problema? Il dubbio è stato già sollevato da Confagricoltura Caserta, che paventa il rischio di una industrializzazione nociva ai processi produttivi di un prodotto d'eccellenza artigiana. Per contro, il Consorzio ci tiene a precisare che sarà ammissibile congelare esclusivamente il prodotto finito, la mozzarella (sfruttando a proprio vantaggio la tecnologia del freddo per esportare a costi più bassi oltreoceano), e non il latte (che continuerà a dover essere trasformato entro la 60esima ora dalla prima mungitura). Solo chi detiene know how e strutture per realizzare una mozzarella di bufala a marchio dop, dunque, potrà trarre vantaggio dalla modifica, preclusa invece a chiunque voglia aggirare il disciplinare di produzione. Resta da chiarire se e quanto il prodotto risentirà del congelamento (cercheremo di approfondire nei prossimi giorni).

una treccia di mozzarella di bufala dop

Mozzarella di bufala. Le modifiche a vantaggio del comparto

Il pacchetto di aggiornamenti prevede inoltre maggiori libertà per i singoli produttori, che potranno presentare sul mercato forme diverse da quella tipica tradizionale, e utilizzare anche il vapore (e non solo acqua bollente com'è stato finora) per la lavorazione della pasta filata. Inoltre la mozzarella di bufala a marchio potrà essere venduta anche senz'acqua di governo – prerogativa inderogabile secondo il disciplinare vigente - e utilizzata come ingrediente all'interno di prodotti lavorati, senza perdere la tutela della Dop. Di fatto, quindi, oltre alle tipologie “lavorata a mano”, senza lattosio e affumicata, il consumatore potrà acquistare anche una mozzarella congelata, con la garanzia di qualità del Consorzio di tutela. E cade anche il limite di peso per la singola mozzarella, finora fissato a 3 kg per la treccia: norma modificata a vantaggio dei cosiddetti “pani” di mozzarella da pizza, che così potrebbero arrivare sul mercato Horeca con il sigillo Dop. Ben salde, invece, le altre prerogative di un formaggio unico al mondo, non solo per gusto e qualità organolettiche, ma anche per impatto visivo: “colore bianco porcellanato, crosta sottilissima di circa un millimetro con superficie liscia, mai viscida né scagliata, al taglio presenza di scolatura in forma di lieve sierosità biancastra, grassa, dal profumo di fermenti lattici”. Una poesia per gli occhi, ancor prima di assaggiarla.

 

I numeri del comparto. La spinta sull'export

Per considerare dati più prosaici, nel 2016 il comparto contava 104 caseifici certificati (e 1371 allevamenti certificati con 345mila capi di bufali e bufale), per una produzione complessiva di quasi 45mila tonnellate di mozzarella di bufala campana Dop, commercializzate al 75% sul territorio nazionale, ed esportate per la quota restante, con un valore di fatturato alla produzione di 350 milioni di euro (+12,90% rispetto al 2014). Ecco spiegato perché intorno al comparto, di particolare importanza strategica regionale e nazionale, si raccolgono tanti interessi. E così alla lettera di protesta rivolta al ministro Martina da Confagricoltura Caserta – che tira in ballo il dissenso degli allevatori – fa eco la prudenza dell'organo competente del Mipaaf, nella figura di Luigi Polizzi, che, sottolinea, “il metro della valutazione sarà quello dell'invarianza delle qualità organolettiche del prodotto tutelato”. Nel rispetto di un punto che dovrebbe mettere d'accordo tutti: nessuna alterazione al sapore della mozzarella di bufala Dop.

 

a cura di Livia Montagnoli 

Lotta allo spreco alimentare. 500mila euro per progetti innovativi: il bando del Ministero

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Fino a 50mila euro per singolo progetto, per un ammontare complessivo di 500mila euro che il Mipaaf destinerà alla lotta allo spreco, premiando progetti concreti, coerenti e innovativi. Con focus su riduzione delle eccedenze, ridistribuzione delle risorse, allungamento della shelf life del prodotto, imballaggi all'avanguardia. Ecco come partecipare. 

Spreco alimentare. Dalla legge agli incentivi

Un aiuto contro lo spreco alimentare, purché concreto e fondato sui principi di coerenza, innovatività, effettiva applicabilità. Quindi niente idee che ancora necessitino di atterrare con i piedi per terra, né progetti rivolti esclusivamente alla sensibilizzazione sul tema o alla divulgazione di concetti che, sinceramente, dovrebbero essere ben chiari per tutti. L'emergenza dello spreco di cibo, e la necessità di contrastarlo per vie amministrative e con il supporto integrato pubblico/privato, sono punti all'ordine del giorno in molti Paesi d'Europa e del mondo, soprattutto dove le istituzioni hanno già recepito l'urgenza di correre ai ripari per arginare una piaga dilagante, che viola in un colpo solo i criteri di sostenibilità ambientale, le istanze di solidarietà sociale, la necessità di regalare un futuro migliore alla causa dell'alimentazione globale. In Italia la legge Gadda – una normativa particolarmente all'avanguardia, basata su un sistema premiale, anziché su semplici sanzioni – entrava in vigore il 14 settembre 2016, a testimoniare la volontà di cambiare passo, semplificando, per una volta, l'iter burocratico che imbriglia tanti aspetti della vita di un italiano medio. E proprio per dare seguito a quel sistema premiale sancito nero su bianco nel testo del decreto, il Mipaaf pubblica il bando “per la selezione pubblica nazionale per l'erogazione di contributi per il finanziamento di progetti innovativi, relativi alla ricerca e allo sviluppo tecnologico finalizzati alla limitazione degli sprechi e all'impiego delle eccedenze alimentari”.

 

Il bando contro lo spreco. Chi può partecipare

Una gara pubblica per la ricerca di progetti all'avanguardia in grado di contrastare lo spreco, che potrà avvalersi di un tesoretto da 500mila euro, per finanziare le idee più convincenti: 50mila euro il tetto massimo per i contributi assegnabili a ciascun candidato. Chi può partecipare? Enti pubblici e università, fondazioni, consorzi e società, anche in forma di cooperativa e imprese individuali; e soggetti iscritti al Servizio Civile. Purché le attività possano dirsi concluse entro l'anno di approvazione del finanziamento e il progetto risponda a richieste specifiche, fissate, a titolo non esaustivo, dall'articolo 3 del bando. Spazio dunque alle iniziative in grado di limitare la produzione di eccedenze o aiutare allo smaltimento delle stesse, migliorando i processi di raccolta agricola o i sistemi distributivi; di grande interesse anche i progetti di sviluppo tecnologico per aumentare la shelf life di un prodotto, che si tratti di intervenire in fase di produzione (con migliorie a prassi e macchinari impiegati) o implementando l'efficienza degli imballaggi, con lo sviluppo di packaging innovativi. E ben accetti anche i software di gestione intelligente di magazzini industriali, o quelli di supporto al recupero delle eccedenze nella ristorazione o a livello domestico. Ma un ampio capitolo è dedicato pure ai progetti di solidarietà sociale: recupero di prodotti di scarto o seconda scelta da destinare ai più bisognosi, redistribuzione dell'invenduto alle fasce meno abbienti, reti di solidarietà che uniscono le forze di produttori, ristoratori, soggetti privati. No alle attività di ricerca e analisi del fenomeno meramente speculative, no alle iniziative di marketing e comunicazione.

Qualità premianti: coinvolgere un'ampia fascia di popolazione, essere applicabili a più prodotti, prevedere una forma di cofinanziamento a carico del vincitore. Le proposte dovranno pervenire presso la sede del Mipaaf entro il 27 luglio 2017, comprensive di articolazione delle spese da sostenere e relazione descrittiva dettagliata del progetto. Una commissione ministeriale si preoccuperà di vagliarle: sono finanziabili solo i candidati che otterranno un punteggio minimo di 60/100.

 

Il bando consultabile sul sito del Mipaaf

 

a cura di Livia Montagnoli

A Berlino il primo contest sullo street food europeo. Per l'Italia Porcobrado

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Una competizione che dura da mesi e che vedrà sul podio il miglior street food europeo. Sono gli European Street Food Awards (ESFA), la prima gara fra trucker in Europa, con finale prevista per settembre a Berlino. Ecco chi è il campione italiano selezionato e come si svolgeranno le votazioni.

Il primo contest sul cibo di strada europeo

Cambiano le tendenze, cambia il modo di mangiare e quello di scegliere sapori e pietanze. Così lo street food si fa strada e conquista i consensi anche dei palati più tradizionalisti, proponendo spesso ricette antiche riportate a nuova luce e scardinando la gerarchia dei pasti. E come ogni settore che si rispetti, anche in questo caso arriva un contest a certificare le migliori creazioni: sono gli European Street Food Awards (ESFA), il primo contest che mette in mostra il meglio del cibo di strada europeo. Una gara che si svolgerà nei Paesi d’origine per le prime fasi e si concluderà con la finale di Berlino, in programma dal 30 settembre al 1 ottobre: a partecipare saranno cuochi e cuoche da Danimarca, Germania, Paesi Bassi, Spagna, Italia, Svezia, Francia e Regno Unito. Per eleggere il migliore di tutti: il cibo di strada più goloso d'Europa.

Lo street food è diventato così popolare perché è un modo di cenare intrigante e a basso impegno” ha raccontato Richard Johnson, fondatore degli European Street Food Awards. “Questa nuova frontiera del pasto gira tutta intorno al trovarsi insieme e condividere del cibo. In un mondo come è ora il nostro, non può che passare un messaggio positivo”.

 

Gli European Street Food Awards e il candidato italiano

Durante i mesi estivi ogni Paese in gara lancerà i propri eventi per la conquista dei titoli nazionali: in alcuni casi, come l’Italia, la competizione ha già dato i suoi risultati. Per la Penisola, infatti, è stato selezionato Porcobrado, dopo una sfida tenutasi a giugno a Milano, a cura di Streeat - European food truck festival: a incantare il pubblico la saporita carne di cinta senese allevata dalla famiglia Polezzi a Cortona, e affumicata con legno di ciliegio sul truck, per finire all'interno di un panino a lievitazione naturale. In aggiunta salse homemade, per un prodotto che ha sbaragliato i concorrenti del Carroponte alla fine di maggio, e ora dovrà conquistare la platea internazionale.

Una volta superate le rispettive selezioni nazionali, i cuochi in gara si sottoporranno al giudizio di critica e pubblico nella finale berlinese: il pubblico può votare già dalla conclusione delle gare nazionali, tramite l’app rilasciata a maggio e disponibile gratuitamente, che contiene - oltre alle descrizioni di piatti e prodotti usati - anche le ultime notizie pubblicate da team di giornalisti esperti di street food e, naturalmente, dettagli su come votare.

Oltre ai finalisti, al Bite Club di Berlino - dove sono previsti anche un party finale con dj e bar galleggianti - ci sarà anche qualche “jolly”: un piatto speciale, una pietanza che ha in qualche modo colpito l’immaginario e il palato della giuria.

 

www.europeanstreetfood.com

a cura di Francesca Fiore

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