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Ben's Friends. Assegnata a una giovane studentessa di Professione Chef la borsa di studio in ricordo di Beniamino Nespor

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Si chiama Federica Campa, ed è la studentessa del corso Professione Chef attivato nel 2017 dalla Città del gusto di Napoli che potrà usufruire della borsa di studio stanziata dall'associazione Ben's Friends per sostenere il talento in cucina dei giovani chef emergenti. In ricordo del talento di uno chef scomparso troppo presto: Beniamino Nespor. 

In ricordo di Beniamino

Qualche mese fa vi raccontavamo la bella collaborazione tra Gambero Rosso Academy e Ben's Friends, associazione nata per ricordare e raccogliere l'eredità di un giovane chef di talento, Beniamino Nespor, scomparso prematuramente alla fine del 2016, a seguito di un gesto estremo. Beniamino divideva con l'amico e collega Eugenio Roncoroni l'avventura del progetto Al Mercato, sin dai primi passi della fortunata attività di via Sant'Eufemia, poi cresciuta a comprendere pure un Burger e un Tacos Bar, segno di creatività e grande capacità di anticipare le tendenze, fermo restando la qualità di un'offerta gastronomica fresca, lucida, accattivante. Ecco spiegato il desiderio di dare seguito all'impegno di Beniamino, contribuendo con una borsa di studio alla formazione di giovani chef altrettanto talentuosi. E quindi il bando per assegnarla a uno dei frequentanti del corso Professione Chef di Gambero Rosso Academy tra le sedi delle Città del gusto che avevano in previsione di attivarlo nel 2017: Torino, Roma, Napoli.

 

La borsa di studio. Il vincitore

Allo studente più meritevole in possesso delle caratteristiche riportate nel bando (tra cui il possesso del diploma conseguito in un istituto professionale alberghiero) sarebbe spettata un'agevolazione economica a copertura totale del costo del corso.  Tra le candidature pervenute alla Fondazione Nespor entro lo scorso aprile, una Commissione composta da un rappresentante dell’Associazione Ben’s Friends e dal board di Gambero Rosso Academy ha stilato una graduatoria definitiva, fino all'assegnazione della borsa di studio in palio alla studentessa Federica Campa, che frequentera il corso Professione Chef presso la Città del gusto di Napoli.

Nel frattempo l'Associazione Ben's Friends, costituitasi nel febbraio 2017, pianifica le prossime attività in memoria di Beniamino Nespor, con lo scopo “di sostenere e diffondere la cultura creativa e gastronomica nel mondo giovanile e raccogliere fondi da destinare a progetti nel settore della cultura gastronomica compatibili con i valori dell’amicizia, del rispetto e dell’uguaglianza”, come si legge all'articolo 4 della Statuto. Amministrata da un Consiglio Direttivo composto da Stefano Nespor, Alice Winkler, Marina Nespor, Giuseppe De Franciscis, Paolo Cuccia, oggi conta 150 associati, tra cui pure i compagni d'avventura di Beniamino Al Mercato, Eugenio Roncoroni e Giacomo Gironi.


Morto Alain Senderens. Addio al pioniere della Nouvelle Cuisine, visionario dell'alta cucina francese

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Scompare all'età di 77 anni, nella sua casa di Correze, uno dei maestri più stimati della ristorazione francese del secondo Novecento. A riposo dal 2013, lo chef provenzale ha tenuto a battesimo molti grandi della cucina internazionale, Alain Passard è considerato il suo erede. Anche lui tra le firme della Nouvelle Cuisine nel 1973. 

Dalla Nouvelle Cuisine al bistrot. Storia di un rivoluzionario in cucina

Nel 2005 era nuovamente balzato agli onori della cronaca per aver rifiutato le Tre Stelle Michelin. Ma Alain Senderens, scomparso all'età di 77 anni lo scorso 25 giugno, è stato per la cucina francese molto più che uno chef blasonato qualunque. E ora la Francia dell'alta ristorazione si riunisce in lutto per ricordare uno dei padri della Nouvelle Cuisine. C'era anche la sua, nel 1973, tra le firme che sancivano la nascita del manifesto gastronomico che avrebbe impresso una svolta radicale alla classicità dell'approccio francese. E lui, negli anni a seguire, avrebbe tenuto a battesimo molti dei protagonisti della moderna ristorazione nazionale (e non solo), oggi vanto della gastronomia transalpina nel mondo. Tra loro anche Alain Passard, suo allievo ed erede, che a poche ore dalla scomparsa lo ricorda come “una delle più belle mani della cucina francese, per precisione, originalità e creatività” e in passato ha ricordato come la cucina al suo fianco fosse una continua scoperta: “Mi sentivo come rinato da un istante all'altro, sempre di fronte a nuovi sapori”. Con Senderens, alla fine degli anni Settanta, aveva condiviso la cucina dell'Archestrate di Parigi, dopo il trasloco in rue de Varenne (proprio dove oggi dirige l'Arpege), che al maestro originario di Hyeres (in Provenza) era valso il primo riconoscimento tristellato della sua carriera, nel 1978.

Poi, dal 1985, era tornato al Lucas Carton, di cui rilevava la gestione dopo averci militato all'inizio della sua carriera: ancora un successo a Tre Stelle, fino a quando, vent'anni dopo Senderens non aveva optato per un nuovo cambio di rotta. La rinuncia ai tre macaron, per l'appunto, e la scelta di intraprendere un percorso diverso, trasformando l'insegna blasonata in un bistrot immune agli schemi di una certa ristorazione compassata, ma comunque prestigioso, con influenze orientali e prezzi calmierati, ribattezzato semplicemente Senderens. Comunque, dopo tre anni, nel 2008 anche l'Alain Senderens della nuova era aveva riconquistato due delle tre stelle che si era lasciato alle spalle. Nel 2013 si era ritirato a vita privata (non prima di aver aperto, con il socio Cyril Aouizerate, un ristorante vegano a Brooklyn, il Maimonide), e nella sua casa di Correze, in Aquitania, ha trascorso gli ultimi giorni.

 

Un creatore visionario

E certo per ripercorrere la sua storia in cucina non basta un compendio di citazioni e imprese significative, tante sono state le trovate di un talento come pochi se ne rintracciano per decenni. Alla perizia tecnica, e alla grande esperienza, Senderens accompagnava un pensiero limpido, e spartiacque, cresciuto com'era in quella generazione di chef che fecero la “rivoluzione” della cucina francese, da Paul Bocuse ai fratelli Troisgros, ad Alain Chapel, prontamente intercettati da Henri Gault e Christian Millau quando i tempi furono maturi per redigere il manifesto di una nuova cucina, nel 1973. Leggera, stagionale, del territorio, moderna, orgogliosa di affrancarsi dalla sovrabbondanza di salse, grassi, impiattamenti magniloquenti che avevano trionfato fino a quel momento sulle più apprezzate tavole di Francia. Ora, per ricordarlo come merita, si rincorrono aggettivi eccezionali: “creatore visionario” per il critico Gilles Pudlowski, che per primo ha dato la notizia della sua scomparsa, e grande conoscitore della storia gastronomica tout court, di cui sperimentò e rielaborò molte ricette antiche, oltre che “maniaco dell'abbinamento perfetto tra cibo e vino”, come ricorda ancora Pudlowski, già dalla prima carta sperimentata al Lucas Carton, elaborata in collaborazione con l'enologo Jacques Puisais, che l'aveva aiutato a comprendere la complessità del vino, accompagnandolo sul territorio, da Bordeaux a Digione, per conoscere i produttori e i piccoli cru (“il vino mi parla” amava ripetere Senderens a questo proposito). Fautore pure, tra i pionieri del genere, dell'accostamento tra dolce e salato, come nella sua celebre aragosta alla vaniglia. Tutto questo, due anni fa, l'aveva raccontato ancora una volta sul palco di Mad4, a Copenaghen, ospite del congresso organizzato da Renè Redzepi. In platea tanti chef a rendergli omaggio: David Chang, Massimo Bottura, e tanti giovani emergenti, tutti ad ascoltare il maestro, concentrato su una semplice domanda: “What is cooking?”. Un'occasione per ripercorrere una carriera mai banale: lo “scandalo” dell'abbinamento di un formaggio di capra di Touraine con un vino bianco, alla metà degli anni Ottanta; la sua leggendaria anatra Apicius; gli inizi a La Tour d'Argent come commis garde-manger.

Lascia molti ricettari e libri di cucina, oltre a numerosi allievi illustri, che ne terranno vivo il ricordo (per l'Italia anche Carlo Cracco, che all'inizio degli anni Novanta era in brigata al Lucas Carton).  

 

a cura di Livia Montagnoli

A Milano più di 500 Botteghe Storiche. New entry del food Al Matarel, la Pasticceria Gattullo, i gelati del chiosco Sartori

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Ossobuchi e minestrone della tradizione per la trattoria storica di Brera, i panettoni di Gattullo dal 1961, le più longeve gelaterie della città. Anche molti indirizzi gastronomici tre le nuove Botteghe Storiche di Milano. Che fa rete, e impresa, sul valore commerciale e culturale delle insegne più antiche. 

Attività storiche. Un patrimonio da tutelare

All'inizio del 2017 il bilancio non era affatto incoraggiante: 238 le insegne ultracinquantenni di Milano chiuse nel corso del 2016, tra le oltre 6500 attività – molte a gestione familiare - che preservano il patrimonio commerciale e culturale della città. Allora Comune, Camera di Commercio e Confcommercio si muovevano di comune accordo per sostenere la sopravvivenza dei negozi storici, con l'idea di coinvolgere i giovani under 35, incentivandoli a rilevare attività in esercizio da un quarto di secolo almeno, ma prossime al capolinea. E battezzando la nascita di un Club Imprese Storiche che fissasse a ribasso il limite minimo di ingresso: 25 candeline anziché le 50 previste per ottenere il bollino di storicità dalla burocrazia comunale. Oggi il Club riunisce micro, piccole e medie imprese con almeno 25 anni di attività, legate alla storia imprenditoriale di Milano, Lodi e Monza Brianza. Ma ben più ristretto è il numero di insegne che possono fregiarsi dell'attestato di Bottega Storica, un riconoscimento assegnato alle imprese di commercio, artigianato e servizi e ai pubblici esercizi con almeno mezzo secolo di storia pregressa, senza interruzione di continuità, che conservino almeno in parte i caratteri costruttivi, decorativi e di interesse storico, urbano e architettonico. Proprio negli ultimi giorni, gli sforzi di questi due circuiti di tutela delle eccellenze commerciali del territorio urbano confluiscono nel perfezionamento di strumenti che questa rete di attività storiche vogliono promuoverla e farla scoprire ai milanesi e a chi è in visita alla città. Il cibo, e le insegne che ne tramandano la tradizione locale, ovviamente, sono tra i beneficiari più in vista delle iniziative promosse rispettivamente dall'una e dall'altra rete di impresa.

La mappa interattiva del Club Imprese Storiche

Dal Club di Confcommercio, per esempio, arriva la mappa interattiva e bilingue che aiuta a localizzare le insegne storiche (in questo caso, ripetiamolo, quelle con 25 anni di onorata carriera alle spalle), suddivise in otto categorie merceologiche, tra cui Bar, Ristoranti, Food shop. Per ogni vetrina lo strumento fornisce recapiti e informazioni di servizio, oltre a una breve descrizione dell'attività, in italiano e inglese. Ora la mappa dovrà popolarsi pian piano: al momento annovera oltre 130 indirizzi tra i 1500 già iscritti al Club Imprese Storiche. In concomitanza, un paio di giorni fa, a Palazzo Reale, il sindaco Giuseppe Sala ha tenuto a battesimo 31 nuove botteghe storiche, in un territorio che a livello comunale e regionale guida la classifica italiana per longevità delle attività commerciali: 11mila a Milano e provincia le imprese ultracinquantenni (20mila in tutta la Lombardia), contro le circa 3mila di Roma, Napoli, Torino, o le 2mila di Bologna e Firenze (il primato per densità di imprese storiche sul totale, invece, spetta a sorpresa a Caltanissetta). Di queste oltre 500 portano il vessillo di Bottega storica.

 

Le Botteghe Storiche di Milano. La tradizione gastronomica

Tanto che proprio la cerimonia di premiazione delle “nuove” botteghe meneghine è stata occasione per presentare il volume/vademecum inedito Le Botteghe Storiche, 100 indirizzi della tradizione a Milano, a cura di Alberto Oliva. Nonostante i settori prevalenti per antichità delle imprese siano industria, immobiliare e commercio – con quasi 800 referenze che affondano le radici prima del 1940 – anche il comparto enogastronomico ha tanto da dire sulla storia della città. Già in lista, per esempio, troviamo nomi celebri come la Pasticceria Moriondo fondata nel 1909 in via Marghera, Cova a via Monte Napoleone, in attività addirittura dal 1817, quand'era il Caffè Letterario all'angolo con piazza della Scala, ma pure la Pasticceria Marchesi in via Santa Maria della Porta dal 1824 (per le ultime due si segnalano però le acquisizioni di grandi gruppi imprenditoriali). E tra le insegne più note citiamo pure Peck e Savini in Galleria, dove, tra gli altri, resiste pure il caffè Zucca in Galleria, frequentato in passato da Verdi e Toscanini. Ultracinquantenni anche la Pescheria Spadari dal 1933 a due passi da piazza del Duomo, e la Gelateria Cardelli, dal 1964 in via Pergolesi. Mentre ha da poco tagliato il traguardo dei 50 anni la Pasticceria Martesana, fondata nel 1966 sui Navigli, ancora non insignita del riconoscimento, a differenza di un'attività ultracentenaria come la Macelleria Brigo, al suo posto in via Santa Croce dal 1892. E impossibile non citare Motta, impresa mitica della città, che dal 1928 conta un affascinante presidio in Galleria, il Bar Motta. Più travagliata la storia recente della Trattoria Bagutta, il ristoro/galleria d'arte chiuso per sfratto un anno fa e presumibilmente in vista della riapertura sotto l'insegna Bagutta 1927.

Elide Moretti, Al Matarel

Le novità

E invece, chi entra con l'ultima tornata? Al capitolo gelaterie segnaliamo due new entry di lungo corso: la Gelateria Toldo di via Sacchi, in attività dal 1934, e l'Antica Gelateria Sartori, aperta più di 70 anni fa, nel 1937, in Stazione Centrale (il chiosco di piazza Luigi di Savoia). Mentre tra le pasticcerie viene premiata Gattullo, in Porta Lodovica dal 1961; il titolare è ancora oggi Domenico Gattullo, origini pugliesi ma perfettamente a suo agio con la tradizione dolciaria della città, dove arrivò da bambino all'inizio degli anni Quaranta. Con lui, dietro al banco, c'è il figlio Giuseppe, erede di una tradizione familiare che non sembra destinata a tramontare. La specialità della casa resta il panettone. Dolci, caramelle, praline e chicchi di caffè sono protagonisti pure da Ronchetti, negozio di dolciumi che oggi conta tre punti vendita in città, ma la bottega storica di viale Coni Zugna l'ha fondata nel 1929. E per i bar entra in lista il Bar Bianco ai giardini Montanelli di Porta Venezia. Solo un ristorante (l'anno scorso il computo era più nutrito, dal ristorante Chatulle frequentato da Fausto Coppi al Rigolo di via Solferino, alla Premiata Trattoria Arlati in zona Bicocca) riesce a strappare il riconoscimento nel 2017: è la Trattoria al Matarel dal 1962, nume tutelare della tradizione meneghina in corso Garibaldi. Dopo la scomparsa di suo marito Marco Comini, storico oste della città, alla guida c'è Elide Moretti, 76 anni, che porta in tavola ossobuco e minestrone, stracotti, pasta fresca, e zuppa inglese, con l'aiuto della figlia e dei nipoti. Anche da queste parti la storia è ancora lunga.

 

Informazioni ed elenchi Botteghe Storiche di Milano

Il sito e la mappa del Club Imprese Storiche 

 

a cura di Livia Montagnoli

In viaggio. Mangiare a Palermo, tra vicoli e insegne gourmet

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Diffidate dai palermitani che vi dicono che in città non succede nulla di interessante: Palermo è spesso troppo scontata da parte di chi ci abita. Ma in questi ultimi tempi si sta dando da fare per mostrare il suo aspetto migliore, quello più ricco e vivace dal punto di vista culturale ed enogastronomico. Ed è la meta ideale per un viaggio di inizio estate.

Una bella scossa per la Palermo culturale è arrivata, senza dubbio, dall’Unesco e dall’inserimento dell’itinerario arabo-normanno tra i Patrimoni dell’Umanità. Quella gastronomica, invece, è iniziata un qualche anno fa con riconoscimenti che hanno segnato un passaggio fondamentale perché gli indirizzi locali diventassero noti anche fuori dall'isola.E così, ad affiancare lo storico Bye Bye Blues della chef Patrizia Di Benedetto a Mondello (79 e Una Forchetta – ma a un passo dalle due - sulla nostra guida e primo stellato palermitano) oggi c’è il ristorante I Pupi di Tony Lo Coco che si trova a Bagheria (che da una manciata d'anni ha conquistato le Due Forchette del Gambero Rosso e da poco è arrivata anche la Michelin), la cittadina delle ville e del museo Guttuso, a pochi chilometri da Palermo. E c’è Il Bavaglino firmato da Giuseppe Costa, esattamente dall’altro lato della costa, a Terrasini, territorio di mare e scogli, altro Due Forchette e altra Stella. “Palermo sta senza dubbio vivendo una rinascita”sorride lo chef Lo Coco “c’è ancora molto da fare, ma è evidente che la città sta cambiando, che risponde bene agli stimoli che arrivano da una cucina più attnta e raffinata e mi fa piacere anche che ci siano imprenditori che ci credono e sono disposti a investire”.

TOny Lo CocoTony Lo Coco

Come hanno fatto, ad esempio,Franco Virga e Stefania Milano, titolari del Gagini – la cui cucina è affidata al giovane Gioacchino Gaglio – ma anche di Buatta, formula più easy sul Cassaro (percorso turistico per eccellenza) e di Bocum, locale ideale per una buona bevuta in compagnia, tra arredi vintage, luci soffuse e buona musica. “Nella rinascita di questa città ci abbiamo creduto sin dal 2011”raccontano “quando tutti ci dicevano che eravamo pazzi perché aprivamo nel centro storico. Cerchiamo di fare ristorazione di qualità pensando al turismo come ad una risorsa”.

 

Agroalimentare: un tesoro da salvaguardare

Visitare Palermo è dunque un’esperienza che coinvolge tutti i sensi, spesso contemporaneamente: monumenti e osterie si intrecciano nei vicoli del centro storico, così come odori e sapori che raccontano di antiche dominazioni e ricche contaminazioni.

Il palermitano è la terra del vino perricone, oggi nuovamente in auge dopo anni di abbandono, di materie prime eccellenti come il mandarino tardivo di Ciaculli, coltivato dal Consorzio che sta cercando di salvare un pezzo della Conca d’oro; qui nascono anche le susine gialle di Monreale, dolci e succose. Nelle campagne della provincia si produce il miele di ape nera sicula, salvata dall’estinzione. Ad Aspra, borgata marinara vicino a Bagheria, si produce la colatura di alici locali (oltre alle acciughe sotto sale). Nella zona di Cinisi, si alleva la vacca cinisara, dal cui latte si ricava il caciocavallo palermitano. “Questo formaggio” raccontano Teresa e Gino Armetta, dell’omonima gastronomia a San Lorenzo “è prodotto nel rispetto della tradizione. Il gusto è unico perché ha tutte le caratteristiche dei luoghi di produzione e l’eleganza che ritrovi nel portamento delle cinisare”.

 

L'autoctono da riscoprire

Il perricone, uno dei vitigni autoctoni a bacca rossa, sta al palermitano come il nerello mascalese sta all’Etna. Solo che la sua storia è ancora da scrivere nonostante, a fine ottocento, fosse uno dei più coltivati nelle province di Palermo e Trapani.

Utilizzato in passato per la produzione del Marsala Ruby, è stato progressivamente abbandonato e deve la sua rinascita alla lungimiranza e all’attaccamento al territorio di alcuni produttori che lo hanno mantenuto in vita. “Quando ho iniziato a coltivare perricone nel 2009” racconta MarcoSferlazzo,titolare dell’azienda Porta del vento “c’erano altri cinque produttori a farlo. Oggi siamo circa diciotto”, segno di un rinnovato, crescente interesse nei confronti di questo vitigno dal carattere a volte un po’ spigoloso ma dalla versatilità straordinaria.

 

Cattedrale-_ph_Dario_Lo_VerdeLa Cattedrale. Foto Dario Lo Verde 

Passeggiare tra vicoli e ristoranti gourmet

Tante materie prime di qualità che non è difficile ritrovare nelle cucine di chef che hanno già tracciato la loro strada. Come Carmelo Trentacosti, del Cuvee du Jour, il ristorante gourmet di Villa Igiea, albergo a cinque stelle con vista sul porticciolo dell’Acquasanta, con le sue proposte raffinate di grande gusto. O come Gaetano Billeci, che gestisce il ristorante di Palazzo Branciforte, a pochi passi dalla centralissima via Roma, con una carta ispirata alla tradizione, rivitalizzata con gusto e qualche guizzo più ardito. Qui è anche la sede della Città del gusto di Palermo che organizza corsi e degustazioni legati all’enogastronomia locale.

Cuvee_Du_Jour.Cuvee Du Jour.

Sempre in centro, per gli appassionati della cucina locale, alleggerita ma non per questo meno saporita, c’è la Locanda del Gusto, il ristorante del Quinto Canto Hotel, nel quadrivio più suggestivo della città (i Quattro Canti) tra corso Vittorio Emanuele e via Maqueda a pochi passi dalla Cattedrale. Facendo strada in direzione del mare, tra vicoli, piccole botteghe, chiesette e altari votivi, si arriva a piazza Marina dove svetta un gigantesco ficusritenuto il più grande d’Europa.

 

Dopo una pausa ristoratrice alla Cioccolateria Lorenzo, con ottime torte e croissant, è il caso di spingersi in via Alloro per visitare il museo Abatellis, acquistare un po’ di calia e simenza (frutta secca) nella bottega di via Torremuzza e arrivare a Santa Maria dello Spasimo, nel cuore della Kalsa, uno dei più antichi quartieri della città, ad ammirare questa chiesa senza tetto incredibilmente suggestiva. Poco più avanti c’è Flam, accogliente osteria contemporanea gestita dai fratelli Flavio e Mirco Mannoia. Flavio, in cucina, propone rielaborazioni della tradizione con un occhio anche ad ingredienti meno classici nella cucina palermitana; Mirco, in sala, consiglia i clienti con garbo e competenza.

 

Vucciria_1_-_ph_Dario_Lo_VerdeVuccirìa. Foto Dario Lo Verde 

I mercati

La scoperta della città non può prescindere da una visita ai mercati storici: la Vuccirìa, reticolo di viuzze fra via Roma e il Cassaro, piazza Garraffello e piazzetta Caracciolo, negli anni sempre meno mercato e sempre più luogo di movida fatta di musica a tutto volume, panini conditi in strada, grandi griglie per la salsiccia alla brace e birra ghiacciata. Da Porta Carini ci si immette al mercato del Capo: pesce, carne, frutta e verdura, spezie e odori. Fra un assaggio di panelle, un pezzo di sfincione e un panino con la milza (meusain siciliano), protagonisti dello street food locale, ci si inoltra a Ballarò, il terzo mercato della città, dove venditori di frutta e verdura si alternano a stranieri naturalizzati che vendono prodotti dei paesi d’origine.

 

La Pasticceria locale

Un cenno, immancabile, va fatto alla ricca pasticceria palermitana che affonda – è proprio il caso di dirlo – molta della sua fama nella prelibatezza della crema di ricotta dei cannoli o della cassata, che sia quella classica o la versione al forno. Imperdibili quelle delle pasticcerie Oscare Cappello.In provincia da assaggiare gli ottimi dolci di Sciampagna a Marineo. E poi pasta di mandorle, biscotti reginella con semi di sesamo e, in estate, gelo di anguria e una brioche con gelato e panna a La Delizia di Sferracavallo, per chiudere in dolcezza. A Palermo il nome di riferimento è Spinnato, storica insegna cittadina nel salotto pedonale della città che da qualche stagione accosta alla proposta classica, anche quella firmata da Maurizio Santin

 

MIchelangelo_Balistreri_ museo dell'acciugaMIchelangelo Balistreri Museo dell'acciuga

Il museo delle acciuughe di Aspra nell’antica fabbrica

Aspra, piccola borgata marinara vicina a Bagheria a una ventina di chilometri da Palermo, custodisce un museo unico nel suo genere, interamente dedicato all’acciuga, la cui lavorazione ha dato per anni sostentamento alle famiglie del luogo. Realizzato dai fratelli Girolamo e Michelangelo Balistreri nella vecchia sede della loro azienda conserviera, il museo custodisce oggetti e storie legate alla pesca e alla lavorazione del pesce che sono uno spaccato dei luoghi. Dalle pietre litografiche agli arnesi per la pesca, dalle attrezzature per la salatura alla riparazione delle imbarcazioni, passando per documenti che attestano storie con alone di leggenda, come quella che voleva che i salatori di Aspra, insieme con quelli di Terrasini e Sciacca, fossero bravi, ma così bravi da essere chiamati in Spagna per insegnare alle popolazioni del posto l’arte della salatura. Il museo si può visitare gratuitamente su prenotazione.

Museo dell'Acciuga | via G. d'Annunzio 151 | Aspra (PA) | tel. 091 928192

 

 

GLI INDIRIZZI

 

Ristoranti

 

2 forchette | Osteria dei Vespri | Palermo | p.zza Croce dei Vespri, 6 | tel. 091 6171631 | www.osteriadeivespri.it

2 forchette | Gagini | Palermo | via dei Cassari, 35 | tel. 091 589918 | www.gaginirestaurant.com

1 forchetta | Bye Bye Blues | Palermo | via del Garofalo | loc. Valdesi, 23 | tel. 091 684 1415 | www.byebyeblues.it

1 forchetta | Cuvee du Jour | Palermo | salita Belmonte, 43 | tel. 091 6312111 | www. villa-igiea.com

I Pupi | Bagheria (PA) | via del Cavaliere, 59 | tel.091 902579 | www.ipupiristorante.it

Il Bavaglino | Terrasini (PA) | l.mare P. Impastato, 2 | tel. 091 8682285 | www.giuseppecosta.com

Ristorante Palazzo Branciforte | Palermo| via Bara all’Olivella, 2 | tel. 091 321748 |

La Locanda del Gusto | Palermo| c.so Vittorio Emanuele, 316 | tel. 091 326498 | www.quintocantohotel.com

Flam | Palermo | via della Vetriera, 1-3 (piazza Spasimo) | tel. 331 310 2349 |

 

Pasticcerie

 

2 torte | Accardi | Palermo | via G. Amoroso, 1 | tel. 091 485797 | www.accardipasticceria.com

2 torte | Alba | Palermo | p.zza Don Bosco, 7c | tel. 091 309016 | www.pasticceriaalba.it

2 torte | Pasticceria Cappello | Palermo | via Colonna Rotta, 68 | tel. 091 489601 | via Nicolò Garzilli, 19 | tel.091 611 3769 | www.pasticceriacappello.it

2 torte | Pasticceria Oscar | Palermo | via Mariano Migliaccio 39 | tel. 091 682 2381 |

2 torte | Sciampagna | Marineo (Pa) | via Agrigento, 17| tel. 091 872 7508 | www.pasticceriasciampagna.it

2 torte | Spinnato | Palermo | via Principe di Belmonte, 107/115 | tel. 091 329220 | www.spinnato.it

Cioccolateria Lorenzo | Palermo | via Quattro Aprile, 7| tel. 091 784 0864 |

Gelateria La Delizia | Palermo | fraz. Sferracavallo | via Dammuso, 57 | tel. 091 532186

 

Wine & spirits

 

Bocum | Palermo| via dei Cassari, 6 | tel. 091 332009| www.bocum.it

Vino Veritas | Palermo | via Boris Giuliano, 22 (già viale Piemonte) | tel. 091 342 117 | www.vinoveritasenoteche.it13 Bootleg | Palermo | via M. Stabile, 33 | tel. 091 778 9726 |

Premiata enoteca Butticè | Palermo | p.zza San Francesco di Paola, 12 | tel. 091 2515394 | www.enotecabuttice.it/

 

Foodshop

 

Gastronomia Armetta | Palermo | via dei Quartieri, 6 | tel. 091 6888986 | www.armettailsalumiere.it

I Peccatucci di Mamma Andrea | Palermo | via Principe di Scordia, 67 | tel. 091 6111654 | www.mammaandrea.it

Pizzo & Pizzo | Palermo | via XII Gennaio, 1 | tel. 091 6014544 | www.pizzoepizzo.it

Kiddikà | Palermo | via Principe di Scordia 63/65 | tel. 091 611 0349

 

Aziende agricole & co

 

Balistreri Girolamo & c. | Aspra (Pa)| via Cotogni, 64 | tel. 091 955612 | www.balistrerigirolamo.it

Tardivo di Ciaculli | Palermo | c.so dei Mille, 1788 | tel. 091 6304260 | www.tardivodiciaculli.net

Miele Meli di Claudio Meli | Trabia(Pa) | c.da S. Onofrio Speciale | tel. 327 867 9506 |

Azienda Agriturisica Bergi | Castelbuono (Pa) | s.s. 286 per Geraci Siculo, km.17,50 | tel.0921 672045 | www.agriturismobergi.com

 

Cantine

 

Castellucci Miano | Valledolmo (PA) | via Sicilia, 1 | tel. 0921 542385 | www.castelluccimiano.it

Porta del vento | Camporeale (PA) | c.da Valdibella | tel. 091 6116531 | www.portadelvento.it

Principi di Spadafora | Palermo | c.da Virzì | tel. 091 514952 | www.spadafora.com

Tasca D’Almerita | Sclafani Bagni (PA) | c.da Regaleali | tel. 0921 544011 | www.tascadalmerita.it

 

 

Hotel

 

Grand Hotel Villa Igiea | Palermo | sa lita Belmonte 43 | tel.091 6312111 | www.villa-igiea.com

Quintocanto Hotel&Spa | Palermo | via Vittorio Emanuele, 310  | tel. 091 584913 | www.quintocantohotel.com

Massimo Plaza Hotel | Palermo| via  Maqueda, 437 | tel. 091 325657 | www.massimoplazahotel.com

B&B del Massimo | Palermo | via Bara all’Olivella, 70 | tel. 091 326416 | www.bbdelmassimo.it

 

 

a cura di Clara Minissale

 

Dalla teahouse a Starbucks. A Kyoto la nuova caffetteria del gruppo in una storica machiya. E si beve sul tatami

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L'edificio risale al periodo Edo, costruito secondo i dettami dell'edilizia popolare in legno, nel distretto dei celeberrimi templi di Kyoto. E ora diventa l'ennesima sede della catena Starbucks in Giappone. Ma con caratteristiche molto particolari, che valorizzano la storia e il design del luogo. 

Un tuffo nel passato. Le machiya giapponesi

Dall'esterno l'aspetto è ancora quello di una storica townhouse, una di quelle caratteristiche case in legno giapponesi che all'immaginazione di noi occidentali evocano subito storie di geishe e samurai. Oltre il folclore un po' macchiettistico del genere, i costruttori giapponesi hanno una lunga consuetudine con la progettazione di abitazioni in legno, le cosiddette machiya tipiche dell'edilizia popolare originariamente destinate a mercanti e artigiani, e particolarmente diffuse in una delle città che meglio preserva le tradizioni nipponiche, Kyoto. Tanto che, proprio nella “città dei mille templi”, capitale del Giappone per oltre un millennio, queste townhouse che ancora caratterizzano il tessuto urbano del centro cittadino sono state ribattezzate kyomachiya. Introdotte da un angusto ingresso affacciato su strada, spesso le machiya nascondono piccoli giardini e corti interne, dietro ai locali un tempo destinati al commercio, e a collegare gli ambienti residenziali (generalmente una sequenza di stanze disseminate di tatami) dove si svolgevano le tradizionali attività casalinghe e il ricevimento degli ospiti. Ma anche a Kyoto l'urbanizzazione galoppante degli ultimi vent'anni ha portato alla distruzione di molte abitazioni tradizionali, su cui pesa anche l'elevato dispendio di soldi ed energie necessari per la manutezione. Così, per preservarle, sono sorte diverse associazioni di tutela, che oggi garantiscono la sopravvivenza di un nucleo significativo di case in legno.

Starbucks a Kyoto. Nella vecchia teahouse

Proprio in uno di questi edifici, tra pochi giorni, aprirà i battenti il primo Starbucks nella storia del gruppo statunitense ispirato a un locale tradizionale giapponese, con tatami, cuscini, arredi in stile e molti elementi peculiari di interior design. In tutto il Giappone la celebre catena di caffetterie conta più di 1100 punti vendita, ma tutti orientati al credo aziendale, che, pur sperimentando nuove formule architettoniche, ha sempre mantenuto saldo uno stile di stampo internazionale, da Chicago a Istanbul, passando per Tokyo, Londra e Parigi (scopriremo tra un anno cosa succederà in piazza Cordusio, a Milano). Il nuovo caffè di Kyoto, invece, nasce non molto distante dall'area dei templi – nella celebre Ninenzaka, tra le strade meglio conservate del distretto di Higashiyama, in vista del tempio Kiyomizu-dera – in un edificio risalente alla metà del Seicento, costruito durante il periodo Edo. E la ristrutturazione degli spazi - che fino al 2005 hanno ospitato una teahouse - ha tenuto conto degli elementi preesistenti, con l'idea di valorizzare la storia dell'edificio e le tradizioni della città, mantenendo intatta anche la facciata in legno in stile daibei.

Un caffè sul tatami

Quindi l'ingresso sarà segnalato dalla caratteristica cortina di stoffa (il noren) che scherma l'uscio di tante abitazioni e locali popolari giapponesi, bollata però dalla sirena distintiva di Starbucks. Una volta all'interno, i clienti saranno accolti dal bancone del bar, ispirato per forma, materiali e colori alle tipiche lanterne orientali, e chi preferisce potrà accomodarsi nelle corti all'aperto, tra giardini e fonti rituali (le cosiddette tsukubai). Al secondo piano, invece, ci si accomoda sui tatami, solo dopo aver tolto le scarpe, per godere di una pausa caffè (o, per restare in tema, matcha pudding e tè verde) che evoca atmosfere d'altri tempi. Una cinquantina i posti a disposizione. Inaugurazione prevista: 30 giugno. C'è un posto sulla terra dove Starbucks è incapace di arrivare?

 

a cura di Livia Montagnoli

 

 

Oli d'Italia 2017. Miglior performance territoriale: Accademia Olearia di Alghero

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Produce da sola oltre il 60% della Dop Sardegna e ha fatto della cultivar sarda per eccellenza, la bosana, e della tipicità territoriale il suo marchio di fabbrica. Accademia Olearia di Alghero, in provincia di Sassari, è una delle realtà olivicole più affascinanti della Penisola, cuore pulsante della produzione regionale.

Performance territoriale

Se si trattasse di vino, parleremmo di terroir, quell'insieme di prodotti, tipologia di terreno, tecniche di coltivazione, tradizioni agronomiche e lavori in campo svolti in una determinata area. Ma nella scena olivicola questo concetto non sussiste, o meglio, va ripensato e reinterpretato in maniera diversa. Sono due prodotti che hanno punti in comune e differenze: entrambi, se prodotti al meglio, ogni anno si rinnovano grazie all'impegno del produttore nell'interpretare l'annata in corso, ma mentre il vino può invecchiare e migliorare con gli anni, l'olio è un prodotto a breve termine. Inoltre con le sue radici, che si sviluppano orizzontalmente, la pianta di ulivo difficilmente riesce a superare i 100 centimetri di profondità e a pescare elementi organolettici dalla terra. Cosa significa, dunque, parlare di territorio per un olio? Cerchiamo di capirlo, non prima di aver ricordato che, come sempre, raccontare un prodotto agroalimentare implica una narrazione ben più ampia, che racchiude l'intera identità di un luogo. Di questa filosofia, l'azienda Accademia Olearia di Alghero, in provincia di Sassari, ne ha fatto il suo mantra, aggiudicandosi il premio come miglior performance territoriale nella guida Oli d’Italia 2017 del Gambero Rosso.

Le origini

I primi segni dell'attività agricola risalgono a fine Ottocento, ma l'anno di nascita ufficiale dell'azienda è il 1929: in quasi 90 anni di duro lavoro, 4 generazioni della famiglia Fois si sono susseguite alla guida dell'attività, rinnovando completamente tecniche, impianti e metodi di produzione. “Mio padre è subentrato nel '94 e ha cominciato a puntare sulla qualità. Nel 2000 abbiamo abbandonato la vendita all'ingrosso e ci siamo dedicati alla creazione di un nostro marchio”, racconta Antonello Fois, responsabile amministrativo e commerciale.Nasce così Accademia Olearia, un nome ambizioso “che rappresenta il nostro desiderio di promuovere il mondo dell'extravergine con la sua cultura, e non solo i nostri prodotti”. Oltre 220 ettari di uliveto oggi danno la possibilità alla famiglia di valorizzare le cultivar regionali: “Abbiamo intenzione di ampliare ancora di più i terreni, aggiungendo altri 40 ettari nel 2018”. Alla guida di tutto insieme ad Antonello, il fratello Alessandro, che si occupa del lavoro in campo, e papà Giuseppe, responsabile dell'intera realtà, “insieme a uno staff di 8 persone più 10 agricoltori, che arrivano a 50 nel periodo di raccolta, senza i quali tutto questo non esisterebbe”.

 

uliveto

La produzione

Oltre 25mila piante, soprattutto di bosana, cultivar principale della regione, ma anche di nocellara, tonda di Cagliari, semidana, carolea, biancolilla e altre varietà autoctone minori utilizzate per realizzare ben 6 etichette. “Abbiamo un fruttato medio base, un intenso Dop e poi altri prodotti che noi definiamo di contorno, tutti di qualità, ma più semplici”, mentre le bottiglie più complesse e intriganti sono tre: la Riserva del Produttore Dop Sardegna, blend di bosana, semidana e tonda di Cagliari, un altro blend delle stesse varietà in percentuali diverse, il Gran Riserva Fruttato Verde, infine un monocultivar di bosana. Una produzione ampia, che cresce di anno in anno: attualmente, l'azienda ricopre oltre il 60% della Dop dell'intera regione.

L'agricoltura e l'attenzione all'ambiente

La coltivazione è in parte biologica e in parte integrata, “ma in qualsiasi caso riduciamo al massimo l'utilizzo di elementi chimici, cercando di monitorare in tempo l'eventuale arrivo di mosca o altri parassiti”. Tanto tempo trascorso in campo, dunque, dove si lavora tutto l'anno, fra potature, “che gestiamo in maniera pluriennale alternando le varie zone dell'uliveto per garantire una produzione costante”, nel periodo immediatamente successivo alla raccolta, e controlli attenti per allontanare ogni tipo di malattia in agguato, “siamo sempre pronti a intervenire”. L'attenzione al territorio e l'ambiente è percepibile in ogni angolo dell'azienda, dal campo al frantoio: “Siamo una realtà eco-sostenibile, soddisfaciamo il fabbisogno energetico attraverso un pannello fotovoltaico e stiamo attenti a non sprecare nessun elemento”.

 

Lavoro in campo, Accademia Olearia

Il frantoio: la modifica dei macchinari e il riutilizzo degli scarti di produzione

Da Accademia Olearia, dunque, non esistono i cosiddetti 'scarti di produzione': “Riutilizziamo la parte rimanente della polpa, consegnandola a delle strutture specializzate nella produzione di bio-gas”, e non finisce qui, perché anche la parte più legnosa del nocciolo che rimane a fine lavorazione viene bruciata nella caldaia, “per produrre calore nel periodo invernale”. Il frantoio aziendale c'è fin dall'inizio, da quando la famiglia cominciava a produrre i primi oli per la vendita all'ingrosso, ma i macchinari sono cambiati nel corso del tempo, adeguandosi alle ultime tecnologie: attualmente l'impianto è firmato Pieralisi, lavora a due fasi, ma è già in procinto di cambiare, “aggiungeremo il protoreattore quest'estate”, un sistema unico nel mercato oleario che rivoluziona il processo della gramolatura (rimescolamento della pasta delle olive) garantendo maggiore controllo qualitativo del prodotto. Come? “Il protoreattore riesce ad accorciare il tempo di sviluppo della coalescenza (raggruppamento ndr) delle particelle di olio”. Così, il rapporto tra portata, tempo e temperatura viene gestito al meglio risparmiando anche da un punto di vista energetico con tempi di lavorazione minori e dispersioni termiche ridotte.

 

pasta olive, Accademia Olearia

Fino a oggi invece, i Fois hanno gramolato i prodotti a una temperatura di circa 25°C per un minimo di 20 fino a un massimo di 35 minuti. Come estrattore centrifugo, l'azienda si affida al Leopard di Pieralisi, macchinario basato sulla tecnologia DMF (Decanter Multi Fase) che lavora a due fasi producendo una sansa disidratata simile a quella del tre fasi, e recuperando la polpa della sansa, il cosiddetto paté, ideale per l’utilizzo agronomico e l’alimentazione zootecnica. “Inoltre, il Leopard ci consente di ottenere un prodotto già pronto che non deve necessariamente passare per il separatore finale”. La filtrazione, poi, è immediata; gli oli vengono confezionati solo al momento dell'ordine, nel frattempo rimangono stoccati sotto-azoto a una temperatura costante di 15°C.

La vendita

Quando abbiamo iniziato c'era un po' di diffidenza da parte del pubblico, oggi invece i clienti sono sempre più preparati e disposti a spendere di più per un olio buono”. Accademia Olearia non scende a compromessi: “Siamo sempre stati molto definitivi sulle nostre scelte. Andiamo spesso contro corrente, soprattutto contro la richiesta di mercato, ma rimaniamo fedeli alla nostra filosofia e, insieme a realtà di valore come il Gambero Rosso e altri, che si impegnano a scrivere di questo prodotto, stiamo riuscendo gradualmente a far passare il messaggio del ruolo fondamentale dell'extravergine nella nostra dieta”. Gli oli sono presenti in diverse oleoteche, negozi specializzati, ristoranti e anche all'estero, in particolare in Giappone, Francia, Inghilterra, Danimarca, Germania, Olanda, Taiwan, “e una piccola percentuale negli Stati Uniti”. I rappresentanti esteri sono partner a tutti gli effetti: “Per noi, chi promuove i nostri prodotti fa parte dell'intera filiera e viene coinvolto direttamente nelle scelte aziendali”. L'azienda non esclude poi la grande distribuzione, “fondamentale per arrivare al pubblico”.

Il territorio: l'identità degli oli sardi

C'è stato, dunque, un lavoro di ricerca intenso pervalorizzare e comunicare al meglio l'olivicoltura sarda portato avanti negli anni: ma cosa caratterizza gli oli di questa regione? “Sono prodotti dalla forte personalità, in passato erano spesso troppo spigolosi, eccessivamente amari o piccanti, oggi sono armoniosi e ben bilanciati. Carattere e classe, sono questi i punti di forza”. La cultivar per eccellenza è la bosana, una pianta resistente, “che speriamo continui a essere tale, perché purtroppo sta soffrendo molto il caldo e la siccità”, alla quale Antonello e la sua famiglia sono particolarmente legati, “ha il sapore dell'olio con cui sono cresciuto: per me la bosana è casa”. L'unico monocultivar dell'azienda, infatti, è dedicato a questa varietà, “ma abbiamo intenzione di impegnarci anche nella lavorazione singola delle altre cultivar al più presto”. Varietà come la tonda di Cagliari, “spesso impiegata come oliva da mensa, più morbida e delicata della bosana”, e la semidana, “leggera e con note floreali”.

 

Olive, Accademia Olearia

La protagonista rimane però sempre lei, amara e piccante, con note erbacee di carciofo, cardo, rucola e tocchi leggeri che ricordano la foglia di mirto: la bosana, “speciale perché riesce a mantenere alta la qualità nel tempo”. E che varia a seconda dell'esposizione e dell'altitudine, “ci sono delle differenze evidenti fra gli oli realizzati con drupe raccolte in pianura o in collina, perché i frutti maturano in maniera e tempistiche diverse e assorbono elementi differenti dal terreno”. La terra, dunque, conta e influenza (relativamente) il prodotto finale, ma a fare la differenza, come sempre, sono la cura in campo e in frantoio, i tempi di raccolta e l'annata.

Comunicare un territorio: il rispetto delle proprie origini

Con ben tre impianti di frantoio modificati nel tempo, nuovi investimenti da fare, altri già compiuti, la famiglia continua il suo lavoro senza sosta da ormai due decenni, sperimentando e provando tecniche originali. Cambiano i macchinari, i tempi di raccolta, le modalità di potatura e coltivazione, ma l'obiettivo resta sempre lo stesso: dare voce a un'isola rigogliosa, dalle tradizioni antiche e i frutti pregiati. “Da un territorio non si può solamente prendere: occorre arricchirlo, impreziosirlo, lasciarlo migliore di come lo si è trovato”. Niente coltivazioni intensive, nessuna varietà straniera o lontana dalla propria storia, “c'è tanto lavoro da fare, ma dobbiamo continuare a puntare sulle nostre piante”. Perché la Penisola sta vivendo un momento di rinascita in campo olivicolo, e la Sardegna non fa eccezione, “stiamo passando gradualmente da una produzione di quantità a una di qualità, e questa è una rivoluzione che col tempo coinvolgerà sempre più operatori del settore, ne sono certo”.

 

Accademia Olearia, uliveto

La famiglia Fois, infatti, continua a investire in nuovi uliveti, e nella formazione: “Vogliamo creare a breve una zona degustazione dove poter organizzare degli incontri, seminari e corsi di assaggio”. E non finisce qui: “Abbiamo iniziato lo scorso maggio un tour dei 16 migliori ristoranti sardi. Ogni locale crea un menu appositamente studiato per i nostri oli, che vengono assaggiati dai clienti in purezza e nei piatti e, a fine evento (7 luglio), pubblicheremo un libro con tutte le ricette elaborate durante questa esperienza”. Una bella iniziativa da ripetere anche in altre regioni, “ci stiamo lavorando”, e che fa luce sulla potenza di un territorio ancora tutto da scoprire, conoscere, esaminare, e assaggiare in tutte le sue sfumature. Olio in primis.

Accademia Olearia | Alghero (SS) | via dei Carbonai | www.accademiaolearia.com/

a cura di Michela Becchi

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Guida Oli d'Italia 2017. Ecco tutti i premi speciali

Oli d'Italia 2017. Azienda dell'anno: Agrestis di Buccheri

Oli d'Italia 2017. Frantoio dell'anno: Nicolangelo Marsicani di Morigerati

Oli d'Italia 2017. Miglior monocultivar: Doria di Cassano Allo Ionio

Oli d'Italia 2017. Olivicoltore dell'anno: Frantoio Franci di Castel del Piano

Oli d'Italia 2017. Miglior Dop: Trappeto di Caprafico di Casoli 

Oli d'Italia 2017. Miglior olio biologico: Marfuga di Campello sul Clitunno 

Oli d'Italia 2017. Miglior monocultivar: Sebastiana Fisicaro Oleificio Galioto di Ferla

Oli d'Italia 2017. Miglior blend: Fattoria Ambrosio di Salento 
Olio extravergine di oliva. Glossario essenziale per conoscere l'oro verde

Le Follie di Romualdo a Firenze. La nuova pizzeria napoletana di Romualdo Rizzuti

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Il pizzaiolo campano, d'adozione fiorentina, torna in pista con un nuovo progetto, dove un tempo c'era il Convivium. Pizzeria con cucina legata alla tradizione campana, ma attenta alla sperimentazione e alle più moderne tecniche di cucina. Si apre al pubblico il 9 luglio. 

Il ritorno di Romualdo

A lasciare la “sua” Firenze, Romualdo Rizzuti non ci ha pensato neanche per un secondo. E già all'indomani dell'addio al Mercato Centrale, che proprio con lui ha visto nascere il format dedicato alla pizza ora appannaggio di Stefano Callegari e Pier Daniele Seu (rispettivamente a Firenze e Roma, con il più giovane dei due pizzaioli romani impegnato da qualche giorno anche nel nuovo punto de I Gigli, a Campi Bisenzio), annunciava un ritorno in grande stile nella città che l'ha adottato in tempi non sospetti. Lui, che la prima formazione l'ha ricevuta nel ristorante pizzeria di Marina di Camerota – sul litorale salernitano – è arrivato a Firenze giovanissimo, valido ambasciatore della pizza napoletana in città, da subito molto apprezzato. Poi, nell'aprile 2014, l'esordio del Mercato Centrale a San Lorenzo, e insieme l'accensione dei forni di Sud, con una giovane squadra di pizzaioli guidata con sapienza da Romualdo, che gli valeva i Tre Spicchi sulla guida Pizzerie d'Italia del Gambero Rosso. Tre anni di successi, di critica e pubblico, prima di lasciare, all'inizio del 2017.

Dal Mercato Centrale alle Follie di Romualdo

Alla proprietà del Mercato Centrale Romualdo manifesta ancora la sua gratitudine, per il numero record di pizze sfornate, i riconoscimenti e la visibilità conquistata, in vista di una nuova maturità. “Vorrei realizzare un'idea mia”, ci raccontava a gennaio Romualdo. Ora, appunto, i tempi sono maturi. E dal 9 luglio (ma l'inaugurazione ufficiale è prevista per sabato 8) in viale Europa numero 4 inaugura Le Follie di Romualdo. Un nome che è tutto in programma, che non nasconde quella voglia un po' guascona di azzardare, ma è pure omaggio a una tappa che il pizzaiolo salernitano, classe 1984, ricorda con affetto, quando di ritorno da una folgorante esperienza a El Bulli con l'amico e compagno di avventure Daniele Pescatore si divertiva a sperimentare sulla tradizione napoletana in Lungarno del Tempio, alla pizzeria Le Follie. Già allora la ricerca si orientava sulla selezione di farine di qualità, impasti ad alta digeribilità, prodotti d'eccellenza ed accorgimenti “eretici”, come le acciughe portate in tavola su un piattino a parte, perché il commensale potesse apprezzarle al meglio sulla pizza, e non “tramortite” dalle alte temperature del forno, come vuole tradizione. “Voglio continuare a essere ambasciatore della pizza napoletana, ma questo non significa non poter ambire alle prerogative di una pizza gourmet. Nel mio caso però il termine indica unicamente la sperimentazione di tecniche all'avanguardia, che continuo a perfezionare da dieci anni. L'innovazione è questa, e mi permette di coniugare pizza e cucina, anche con il supporto di Daniele”. Daniele (Pescatore) al suo fianco c'è sempre, per un semplice consiglio o felici collaborazioni estemporanee, “come la cena a 4 mani che abbiamo approntato qualche giorno fa al carcere di Volterra per il progetto Cene Galeotte. Lì abbiamo proposto il polpo alla luciana accompagnato da un panuozzo: così è nata l'idea di una pizza Marinara con 'purpetielli', che sarà l'icona del mio nuovo menu”.

La pizzeria all'ex Convivium

E allora veniamo a Le Follie di Romualdo, che senza troppo mistero si prefigge l'ambizione di portare a Firenze le atmosfere de L'Oro di Napoli. La pizzeria con cucina nasce negli spazi dello storico Convivium, che nel 1997 dava seguito all'attività della celebre gastronomia fiorentina all'interno di un antico casale ristrutturato del Trecento, appena fuori dal centro abitato in direzione Bagno a Ripoli, diventando meta prediletta di buongustai e appassionati dell'enogastronomia di qualità. Alla fine del 2014 il locale si era rinnovato sotto la proprietà di Giacomo Corti (che ora sarà partner al 25% di Romualdo, che rileva il 75% in affitto d'azienda con possibilità di riscatto), restando comunque legato alla proposta di una gastronomia d'eccellenza. Tra qualche giorno, invece, chi varcherà la soglia del casale di viale Europa si troverà direttamente al cospetto dei forni a legna, due postazioni ricavate dove c'era il banco gastronomia, con laboratorio per gli impasti a vista subito alle spalle. Ma anche la grande cucina lì accanto affaccerà direttamente sulla sala. In tutto, con la bella terrazza al piano superiore, il locale potrà accogliere fino a 200 commensali; al lavoro uno staff di 14 persone, coordinate da Romualdo, tra brigata di cucina, pizzaioli e ragazzi in sala. “La zona, pur essendo residenziale, è trafficatissima, ricca di uffici e negozi. E tra l'altro prendiamo il posto di un indirizzo a cui i fiorentini sono molto affezionati. Ci aspettiamo di fare grandi numeri”.

Ma la proposta? Una decina di pizze stagionali legate alle tradizione campana: oltre alla Marinara “di mare”, quella con friarielli e salsiccia, il ragù della tradizione... E poi calzoni ripieni e panuozzi. Ma pure una linea di cucina, un menu snello e sempre in omaggio alla cucina partenopea, tra gnocchi alla sorrentina e frittura di pesce, genovese e pasta al ragù. Per tutta l'estate si apre solo a cena, poi, dalla fine di settembre, anche a pranzo.

E pure Firenze torna in lizza tra le città a più alta densità di pizzerie napoletane d'autore. A Romualdo in bocca al lupo per la nuova avventura.

 

Le Follie di Romualdo | Firenze | viale Europa, 4-6 | dal 9 luglio, solo a cena

 

a cura di Livia Montagnoli

We love tasting Umbria. 4 giorni a Orvieto alla scoperta del patrimonio gastronomico umbro

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Assaggiare le specialità della cucina umbra, scoprire i migliori abbinamenti fra vini e prodotti del territorio, sperimentare profumi e sapori nuovi: è We love tasting Umbria, iniziativa organizzata da Excellence e abbinata al Tango festival di Orvieto, dal 29 giugno al 2 luglio.

We love tasting Umbria e il Tango festival

I vini del Consorzio di Orvieto, i cooking show di alcuni fra i migliori chef italiani, laboratori sensoriali, blind taste e masterclass sui prodotti: tutto questo è We love tasting Umbria, evento che porterà appassionati e curiosi alla scoperta delle specialità enogastronomiche umbre, accompagnati dalla musica del Tango festival. Dal 29 giugno al 2 luglio le strade di Orvieto saranno invase dagli appassionati del ballo argentino e dai food lovers desiderosi di scoprire il patrimonio culinario e vitivinicolo di questa regione: non solo per assaggi e degustazioni, ma anche per il ricco programma didattico. Tre i luoghi deputati all’accoglienza dei visitatori: il Teatro Mancinelli, il Palazzo del Capitano del Popolo e la Chiesa di San Giacomo.

 

Il programma e i protagonisti

Ben 19 gli chef del panorama nazionale attesi a Orvieto per We love tasting Umbria e Tango festival: fra loro anche Gianluca Renzi, Iside De Cesare, Giuseppe Di Iorio, Paolo Gramaglia, Katia Maccari, Paolo Trippini, Nikita Sergeev, Alessandro Rossi, Davide Del Duca, e molti altri ancora.

Non solo musica e cooking show, ma anche diversi momenti dedicati alla formazione, in particolare durante le giornate dell’ 1 e del 2 luglio: masterclass su olio extravergine, vino e birra, laboratori sensoriali per i più piccoli, focus e convegni su marketing e territorio, comunicazione, ristorazione e accoglienza. Le lezioni aperte saranno moderate da importanti esperti del settore fra cui Nerina Di Nunzio (Direttore dello IED e fondatrice di Food Confidential), Antonio Paolini (curatore della Guida Vini Espresso), Mario Morcellini (Commissario delle autorità per le garanzie nelle comunicazioni), Renzo Cotarella (amministratore delegato di Marchesi Antinori), Giuseppe Cerasa (direttore Le Guide di Repubblica), lo scrittore Guido Barlozzetti.

We love tasting Umbria / Tango festival | Orvieto (TR) | varie location | dal 29 giugno al 2 luglio 2017 | www.facebook.com/welovetasting

 

a cura di Francesca Fiore

 

 

 


Gelaterie d'Italia 2017. Gelatiere Emergente: Ciocolat di Toscolano Maderno

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Ormai è assodato: il panorama delle gelaterie italiane sta crescendo, e lo dimostrano le tante insegne d'eccezione sparse lungo tutto lo Stivale. Fra le nuove leve più promettenti, sono Carmela Grotta e Andrea Florioli a distinguersi per tecnica e creatività. A loro va il premio come miglior gelatieri emergenti della guida del Gambero Rosso. 

Professione gelatiere

Conoscenza delle materie prime, ricerca degli ingredienti migliori, consapevolezza della stagionalità dei vari prodotti. E poi tecnica, manualità, creatività, gusto, voglia di innovare: sono queste le caratteristiche che un grande artigiano deve avere per stupire i consumatori e conquistare il palato del pubblico. Dalla pasticceria alla cucina, dalla pizzeria alla gelateria, ogni area del settore gastronomico richiede agli addetti ai lavori uno studio costante e continuo per creare sempre prodotti nuovi e dal sapore unico.

Come abbiamo già avuto modo di constatare, l'artigianato dell'arte fredda in Italia sta vivendo un momento di sviluppo esponenziale: aumenta il numero delle gelaterie di qualità e cresce di pari passo la quantità dei giovani che scelgono di scommettere su questo mestiere. Ed è proprio sui nuovi gelatieri che occorre puntare se si vuole promuovere e comunicare al meglio la cultura del gelato artigianale all'italiana. Fra i tanti nuovi volti del panorama nazionale, quelli di Carmela Grotta e Andrea Florioli della gelateria Ciocolat di Toscolano Maderno, in provincia di Brescia, si sono distinti per abbinamenti d'eccezione e attenzione a diverse intolleranze. Sono loro, infatti, ad aggiudicarsi il premio Gelatiere Emergente della guida Gelaterie d'Italia del Gambero Rosso.

L'attività

Tutto ha inizio a Gargnano, in provincia di Brescia. In questo piccolo comune affacciato sul Lago di Garda, nel 2007 nasce la gelateria Ciocolat, per volontà di Andrea e suo zio, che si occupano di rifornire i locali. L'attività ingrana bene e i due scelgono di aprire un'altra sede a Salò. Ma il giovane è un vero amante dell'arte dolciaria fredda, e sente la necessità di creare uno spazio tutto suo: “Mi ero stancato di occuparmi di forniture, così ho deciso di rilevare la gelateria di Gargnano e aprire, nel 2012, un laboratorio a Toscolano Maderno”. La sede di Gargnano resta e si occupa ancora di forniture, mentre l'altra di Salò è stata chiusa. “Ho iniziato insieme a mio papà e un'altra ragazza che ci aiuta in negozio, e poi nel 2013 è arrivata Carmela, mia attuale socia”.

La formazione

I due gelatieri si sono conosciuti alla scuola Cast Alimenti. Entrambi appassionati della buona tavola ma provenienti da percorsi molto diversi fra loro: Andrea comincia come autodidatta, facendo esperienza diretta sul campo con la sua prima gelateria. Ma non è soddisfatto: sceglie allora di iniziare, nel 2011, un corso base di gelateria insieme al maestro Francesco Palmieri, con cui prosegue arrivando fino al livello avanzato. È proprio Palmieri a far incontrare i due: nel frattempo, infatti, Carmela lavorava come sua assistente: “Volevo fare la pasticcera”, racconta, “mestiere che mio padre ha svolto per gran parte della sua vita. A 21 anni decido di lasciare l'Università e inseguire questo sogno, mi imbatto in Cast Alimenti, inizio a lavorare presso un laboratorio e poi presso Il Calandrino dei fratelli Alajmo. È lì che ho conosciuto Palmieri, che ha deviato completamente il mio percorso”. Carmela scopre il mondo complesso del gelato artigianale, “una disciplina di precisione, proprio come la pasticceria, ma meno impegnativa. Ad affascinarmi in particolare è stata la parte chimica e tecnologica della materia: occorre uno studio intenso e puntuale per bilanciare tutti gli alimenti e creare un gusto equilibrato”. Lavora così come sua assistente ma sente il bisogno di aprire un locale tutto suo: “Ho cercato uno spazio a Salerno, ho avviato la pratica, preso il finanziamento ma poi ho conosciuto Andrea, e ho scelto di lanciarmi in questa avventura con lui”. La gelateria a Salerno, in qualsiasi caso, è stata aperta: si chiama Gelosia ed è gestita dal fratello di Carmela, “che seguo a distanza consigliandogli fornitori e abbinamenti”.

I prodotti

Insieme, Andrea e Carmela realizzano gusti unici, da quelli classici a quelli più originali e contemporanei. C'è l'oro di Sicilia, a base di mandorle crude e stracciatella di pistacchio, la crema di latte con mascarpone e miele al sentore di zenzero, e ancora il fior di panna, la cassata siciliana oppure la pastiera napoletana. Il più richiesto? Nocciola, liquirizia, “realizzata a partire dalla materia prima di Amarelli”, e l'uovo sbattuto, “una sorta di crema al marsala fatta al momento”, una delle specialità della casa che cambiano a rotazione. Ventidue gusti in tutto, di cui circa una dozzina fissi; per tutti gli altri, gli artigiani assecondano il ritmo delle stagioni e la creatività del momento, variando sempre. Non manca, poi, la linea per intolleranti al lattosio e vegani, “dai gusti di frutta alle creme, a base di acqua oppure latte di riso”. Spazio anche ai sorbetti di frutta, vegani e non, e alle granite con i limoni di Gargnano, “prodotto che utilizziamo da sempre”. Per le materie prime, Andrea e Carmela ricercano gli agricoltori locali più sconosciuti, “le aziende di piccole e medie dimensioni che rappresentano al meglio il nostro territorio”.   

I trucchi del mestiere

Una strada ancora tutta da spianare, quella dei due soci, entrambi giovani ma con le idee chiare e che, per il momento, si ritengono soddisfatti: “Per ora vogliamo continuare a concentrarci sul laboratorio, nessun progetto per il futuro”. Carmela, intanto, ha preso il posto di Palmieri e insegna da Cast Alimenti. Qualche consiglio per un aspirante gelatiere? “Confrontarsi sempre. Non essere gelosi delle proprie ricette, non esistono segreti o trucchi dell'artigiano. Le ricette si evolvono, cambiano, così come le tecniche e le conoscenze. Se uno studente prende in prestito un abbinamento o una mia idea, non mi sta portando via il sapere”. E soprattutto non fermarsi mai: “Non basta imparare ad abbinare i vari ingredienti, bisogna uscire dal proprio laboratorio, dai banchi di scuola, e osservare con i propri occhi i grandi artigiani al lavoro”. Infine, comunicare al meglio il prodotto: “Inizialmente non è stato facile”, commenta Andrea, “perché i consumatori erano abituati a dei gusti più artificiali. Sta a noi educarli”.

Ciocolat | Toscolano Maderno (BS) | via Statale, 130 | tel. 03 65541699 | www.facebook.com/gelateriaciocolat/ 

a cura di Michela Becchi

Gelaterie d'Italia | Gambero Rosso, 2017 | pp. 208, 8,90 euro | disponibile anche on line

Per saperne di più: Gelaterie d'Italia 2017 del Gambero Rosso. La classifica e i premiati

Gelaterie d'Italia 2017. Miglior gelato gastronomico: Greed Avidi di Gelato di Frascati

Gelaterie d'Italia 2017. Gusto & Salute: Oasi American Bar di Fara Gera d'Adda

Gelaterie d'Italia 2017. Miglior gelato al cioccolato: Gelateria Cioccolateria Paolo Brunelli di Senigallia 

 

Torino. Apre Artemisia Bistrot di Federico Allegri e il Bistrot nella nuova Nuvola Lavazza

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Una proposta molto centrata sulle erbe, che arrivano fresche da una raccoglitrice del Roero; e poi tanti classici della storia in cucina dello chef torinese, che dopo una parentesi al San Quintino Resort torna nella sua città. E apre a San Salvario un locale originale, che è tavola d'autore per la cena e ritrovo per un dopocena all'insegna della miscelazione di qualità. 

La nuova tavola di San Salvario

Si è fatto conoscere e apprezzare nel suo ristorante di Rivoli, poi la parentesi al San Quintino Resort di Busca nel Cuneese e adesso – da qualche giorno – il ritorno nella sua città, Torino. Federico Allegri ha scelto San Salvario, il quartiere più vivace e multietnico, per riproporsi sulla piazza dove si è formato, prima al Vintage 1997 e poi da Marcello Trentini, in arte Magorabin.

L’Artemisia Bistrot, questo il nome scelto per il nuovo locale, si presenta come un cocktail-restaurant e nasce dove c’era il Welcome Cargo di cui eredita gli arredi, con pochi aggiustamenti, e la bella cucina. “Finalmente ho a disposizione le attrezzature che desideravo, adesso si tratta di mettere assieme una piccola brigata su cui fare pieno affidamento” spiega Allegri. La sala è nelle mani, impeccabili, di Elisa Vasettini, la sua compagna, mentre il bancone del bar e i cocktail (da provare) sono affidati alla barlady Carola Abrate. E qui sta l’originalità del locale, perché si può entrare per un aperitivo o per un finale di serata accomodandosi al bar o al tavolone per bere qualcosa e scegliere anche un solo piatto.

La proposta gastronomica

La carta (piatti da 12 a 22 €, con un menu degustazione di 5 portate a 38 €) propone alcuni classici di Allegri, mentre in cantiere ci sono nuovi piatti. “Sto facendo sperimentazioni sulle consistenze e sul contrasto di gusti. Mi piace tutta la cucina, non voglio fossilizzarmi, amo sia i classici, proposte forse più facili, sia cotture e combinazioni più complesse” aggiunge Allegri. I clienti affezionati troveranno in carta il vitello tonnato e il calamaro alla brace, le sfere di gnocchi al Wasabi con consommé di cipolla bionda e la triglia di scoglio con la sua essenza, ma lo chef sta inoltrandosi anche su altri percorsi. Ecco allora, servito quasi come appetizer il gelato allo zafferano greco con bottarga di muggine; poi la vongola nera d’Islanda abbinata all’animella di agnello fritta, il tortello affumicato con legno di faggio, il coniglio che incontra le lumache, l’agnello islandese (un pré salé di latitudini artiche) con melanzane e cipollotto. “L’agnello è già in carta, molti degli altri piatti è probabile che lo saranno fra settembre e ottobre” precisa Allegri. In tutti i piatti c’è un tocco vegetale, d’altra parte il bistrot si chiama Artemisia. “Non voglio seguire la moda, ma le erbe apportano sfumature di gusto e completano il piatto. Noi collaboriamo con una raccoglitrice che opera nella zona di Priocca, nel Roero: ordiniamo il martedì, e il venerdì abbiamo le erbe in cucina.” Il futuro della cucina di Allegri si prospetta molto green.

Una città in fermento. Il Bistrot della Nuvola Lavazza

Intanto, in una città in fermento che ha visto la recente inaugurazione della nuova Fondazione Agnelli a cura di Carlo Ratti (con la Gastronomia Torino di Alfredo Russo) e, probabilmente nel mese di ottobre, saluterà l'esordio di EDIT, all'ex Incet di Barriera di Milano (ma è prossimo all'apertura anche il Bistrot di Antonino Cannavacciuolo, alla Grande Madre), anche il cantiere della Nuvola Lavazza procede spedito. Nel 2018 si attende l'inaugurazione del ristorante firmato Ferran Adrià, Condividere, con la cucina di Federico Zanasi, ma intanto il quartier generale dell'azienda piemontese, in zona Aurora, prende forma sotto la direzione dell'architetto Cino Zucchi. Oltre 600 dipendenti si sono già trasferiti nei nuovi uffici, ipertecnologici e improntati al co-working; ed ecco allora il Bistrot per la pausa pranzo, uno spazio di ristorazione innovativo aperto anche alla città, operativo da qualche giorno e sviluppato in collaborazione con Slow Food (e con lo zampino di Gianluca Biscalchin per la grafica del logo). Un'idea nuova di mensa aziendale, progettata in collaborazione con RGA per gli interni, e nata all'interno dell'ex centrale Enel ristrutturata, con vista sul giardino e sulla città. Da mangiare cucine diverse e differenti culture alimentari che coesistono. In attesa del ristorante gourmet.

 

Artemisia Bistrot |Torino | via Principe Tommaso 18 a |tel 011 7607495 | aperto solo sera, ferie 15-31 agosto. Chiuso domenica e lunedì

a cura di Dario Bragaglia

Ceta: rischi e opportunità. Ecco cosa cambia per l'agroalimentare

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Da una parte il riconoscimento di 41 indicazioni geografiche italiane, dall'altra il via libera a carne e grano nordeuropeo. Rischi e opportunità dell'accordo Canada-Unione Europea che divide il mondo produttivo. Unanime e positivo il parere delle associazioni del vino

Spenti i riflettori sui negoziati del Ttip-Transatlantic Trade and Investment Partnership tra Ue e Usa - in quel caso l'interruttore era stato spento a scena aperta dal presidente statunitense Donald Trump - adesso l'attenzione commerciale e politica è tutta focalizzata sul Ceta-Comprehensive Economic and Trade Agreement tra Ue e Canada che, dopo trattative decennali, sembrerebbe in dirittura di arrivo. Per superare la fase transitoria, però, occorre l'approvazione di tutti gli Stati membri. In Italia, il prima via libera è arrivato pochi giorni fa - il 27 giugno - in Commissione del Senato e adesso il provvedimento passerà all’esame dell’Aula.

 

Cosa prevede il Ceta

Nel trattato, va da sé, non rientra solo l'agroalimentare, ma sono sette i principali ambiti di applicazione: beni agricoli, beni non agricoli; servizi e investimenti; appalti pubblici; proprietà intellettuale; risoluzione delle controversie; sviluppo sostenibile. Accanto all'abbattimento delle barriere tariffarie, è previsto anche quello delle frontiere per la partecipazione di cittadini e imprese alle gare d’appalto e l’eliminazione dei maggiori ostacoli al reciproco riconoscimento per alcune professioni, come architetti o commercialisti. A questo si aggiungono le disposizioni per garantire il trattamento non discriminatorio dei prodotti di uno e dell'altro mercato.

 

Ma vediamo da una parte e dall'altra quali sono gli ambiti che dall'accordo trarrebbero i maggiori benefici.

Per il Canada, sicuramente l'automotive, secondo maggiore bene di esportazione, ma con una limitata penetrazione nel mercato europeo. Secondo l'Ice, l'accordo porterebbe all'aumento della quota di autoveicoli made in Canada in Ue da 13 mila a 100 mila autoveicoli (+669%).

Ci sarebbe anche un'apertura significativa del mercato Ue alla carne fresca canadese, le cui esportazioni, si stima, aumenteranno di oltre il 300%, da 15 mila a 65 mila tonnellate l'anno. E qui si inserisce il tanto dibattuto tema di ormoni e derivati, con il problema di conciliare le norme canadesi con quelle, molto più restringenti, Ue.

 

Viceversa, l'Europa vedrebbe in prima fila l'ambito agroalimentare, formaggi in primis. A tal proposito, il Ceta prevede il riconoscimento di 150 indicazioni geografiche europee, di cui circa un quarto (41) sono italiane.

In questo modo, secondo le stime Ice, le quote di importazione in vigore per i formaggi europei dovrebbero passare da 13 mila a 30 mila tonnellate (+130%).

Inoltre, la lista delle denominazione risolverebbe l'annosa questione di prodotti come prosciutti Dop (Parma, San Daniele, toscano) e formaggi (asiago, fontina, gorgonzola) che fino ad ora non potevano essere commercializzati in Canada, se non con nomi generici e a rischio di salate sanzioni legali. Si tratta, infatti, di marchi commerciali precedentemente registrati nello Stato federale e per i quali era, quindi, paradossalmente impedita l'importazione. Con l'accordo, per questi prodotti si aprirebbero le porte del mercato nordamericano, sebbene in una situazione di coesistenza con gli omonimi canadesi: il riconoscimento delle denominazioni Ue, non è, infatti, retroattivo.

Diversa la situazione per le altre denominazioni. “Con l'entrata in vigore del Ceta” spiega l'Ice “la registrazione di nuovi marchi corrispondenti a una Igp europea sarà vietata e i nuovi prodotti canadesi non potranno usare simboli o immagini ingannevoli. I riferimenti in etichetta saranno possibili solo se preceduti da diciture come tipo, style e così via, che li differenzierà dal prodotto originale”. Capitolo, quest'ultimo, che apre a diverse interpretazioni e dissensi.

 

Cosa cambia per il vino?

Dal punto di vista del riconoscimento delle denominazioni, per il vino non cambia praticamente nulla, in quanto il Ceta riconosce e incorpora l'accordo Canada-Ue Wine and Spirtis, siglato nel 2003, che già tutelava la produzione vitivinicola europea.

Cambiano, invece, le condizioni fiscali, grazie all'abolizione dei dazi all'entrata. Si parla di imposte non elevatissime che cambiano da provincia a provincia, ma la cui abolizione non potrebbe che favorire la penetrazione dei prodotti europei.

Non solo. Come fa notare l'Unione Italiana Vini, tra le agevolazioni previste dal Ceta ci sono i Cosd (Cost of Service Differential), che rientrano nelle cosiddette pratiche discriminatorie fino a ora adottate dai Monopoli canadesi in cambio di vari servizi offerti. Discriminatorie perché le tariffe si differenziano da vino a vino, finendo per agevolare il prodotto interno. “Fino a ora” spiega l'Uiv “queste tariffe sono calcolate in base al valore del vino. Più costa, più si paga. Per inciso, a costare di più sono i vini europei e, quindi, italiani”. Cosa succederebbe con l'entrata in vigore del trattato? “Ci sarebbe un livellamento di questi costi, quindi verrebbe meno il fattore discriminatorio per i vini di importazione. In più, si otterrebbe una maggiore trasparenza nelle tariffe applicate”. Infine, tra gli altri punti dell'accordo che riguardano il vino, c'è il limite fissato del numero degli esercizi commerciali privati che vendono esclusivamente vini nazionali nelle due provincie dell'Ontario e della British Columbia: rispettivamente 292 e 60 .

 

I commenti delle associazioni di categoria

I pareri sull'accordo sono alquanto controversi. Chi si esprime a favore del Ceta sottolinea come – dopo il fallimento del Ttip con gli Usa – il riconoscimento delle denominazioni sia fondamentale in un mercato importante come il Canada, senza contare la riduzione dei dazi che agevolerebbe il made in Italy. Quasi unanime su questo il mondo del vino.

 

Abbiamo sempre ritenuto gli accordi di libero scambio uno strumento fondamentale per migliorare l'accesso ai mercati” è il commento del segretario generale di Unione Italiana Vini Paolo Castelletti “A preoccuparci è, invece, questo clima di scetticismo che si sta diffondendo in Europa, ma anche in Italia nei confronti delle intese commerciali. Clima che potrebbe avere impatti negativi indiretti anche su altri negoziati in corso, come quelli dell'Unione Europea con il Giappone, che seguiamo con molta attenzione per i benefici che potrebbero derivarne. Per quanto riguarda il Canada, parliamo di un mercato ormai maturo, dove il valore delle nostre bottiglie è già riconosciuto e dove la chiusura dell'accordo porterebbe solo ulteriori vantaggi. Prima tra tutte consentirebbe all'Europa di giocare d'anticipo sugli altri competitor”. Il Canada, infatti, al momento ha accordi bilaterali solo con gli Usa (Fta-Free Trade Agreement) ma non con i Paesi produttori del cosiddetto Nuovo Mondo.

 

Per Silvana Ballotta, ceo della società di internazionalizzazione del vino italiano, Business Strategies: “Le ricadute commerciali del Ceta sul nostro made in Italy enologico saranno senz’altro positive sia sul fronte della competitività che sulla riconoscibilità e tutela del nostro prodotto. Non vedo come la progressiva cancellazione dei dazi sul nostro vino e la semplificazione delle procedure possano danneggiare l’export verso uno dei principali Paesi obiettivo per l’Italia. Lo scorso anno il valore espresso dal made in Italy in Canada è stato di 330 mln di euro con una quota di mercato che si avvicina al 21%. Il Paese nordamericano è il quinto importatore mondiale di vino al mondo, con oltre 1,6 mld di euro di merce importata nel 2016 e una crescita complessiva della propria domanda dal 2010 a oggi del 25%”.

Per la Cia, l'accordo rappresenta un'opportunità per tutto l'agroalimentare, soprattutto “in un momento nel quale si registrano sempre più azioni volte a enfatizzare politiche commerciali di stampo protezionistico. In particolare, l’inclusione nel capitolo relativo alla proprietà intellettuale, del riconoscimento di una lista di indicazioni geografiche, ancorché limitata, rappresenta un principio innovativo, rispetto all’approccio tradizionale del mercato internazionale, che potrà garantire standard di tutela delle produzioni di qualità maggiori rispetto allo status attuale”.

 

Dall'altra parte, ad alimentare la schiera dei contrari ci sono soprattutto le paure legate al possibile incremento delle importazioni Ue di carni canadesi (ritorna l'incubo ormoni, sebbene sia previsto l'adattamento dei prodotti importati alle regole europee) e del grano duro trattato in preraccolta con il glifosato. Come ribadisce, ad esempio, Coldiretti: “L’impatto di circa 50 mila tonnellate di carne di manzo e 75 mila tonnellate di carni suine a dazio zero e l’azzeramento strutturale del dazio per il grano sarebbe devastante per l'Italia, con il rischio desertificazione di intere aree del Paese e una concorrenza sleale nei confronti degli allevatori”. Il vicepresidente dell'associazione di categoria, Ettore Prandini, pone l'accento anche sull'esiguo numero di denominazioni riconosciute e tutelate dal Ceta:“Delle 291 denominazioni Made in Italy registrate ne risultano protette appena 41, peraltro con il via libera all’uso di libere traduzioni dei nomi dei prodotti tricolori e alla possibilità di usare le espressioni “tipo; stile o imitazione”. Si ricordi che lo scorso 22 giugno, era stata proprio un'osservazione sulle Ig riconosciute, sollevata dalla vice presidente della commissione inchiesta sulla contraffazione Colomba Mongiello, a far slittare la discussione al Senato. In particolare, il riferimento era alle poche indicazioni geografiche del Sud Italia presenti: solo cinque, di cui tre siciliane e una a testa per Basilicata e Campania, con l'esclusione di prodotti come il pistacchio di Bronte o il pomodoro San Marzano.

 

Risponde su questo punto Mauro Rosati, direttore di Qualivita: “C'è molto localismo nella discussione politica. Di fatto, quando si fanno di questi accordi vengono analizzati i prodotti che si esportano di più in quel determinato Paese. D'altronde sarebbe impossibile tutelare 300 indicazioni geografiche. Senza contare che più si alza la posta in gioco, più diventa alta la richiesta dall'altra parte. È sempre questione di compromessi e credo che quello con il Canada sia da considerarsi un buon compromesso”.

 

L'iter legislativo

Il Ceta nasce dallo studio congiunto sulla valutazione dei costi/benefici di un accordo economico Canada-Ue del mese di ottobre 2008. Nel 2009 iniziano i negoziati ufficiali e solo quattro anni più tardi si arriva all'accordo di massima con la firma congiunta del primo ministro canadese Stephen Harper e del presidente della Commissione Europea Manuel Barroso. Tuttavia, il via libera europeo per l'entrata in vigore è solo del 30 ottobre del 2016. In quell'occasione, però, il no della Vallonia, allunga ancora i tempi fino a febbraio 2017, in occasione della Plenaria del Parlamento europeo. Adesso, prima dell'entrata in vigore definitiva, occorre la ratifica dai 27 Paesi dell'Unione. In Italia, la seduta del 27 giugno ha già incassato l'ok della Commissione del Senato ed è passato, quindi, in Aula.

 

Ig italiane riconosciute dal Ceta

1. Aceto balsamico Tradizionale di Modena (aceti)

2. Aceto balsamico di Modena (aceti)

3. Cotechino Modena (carni)

4. Zampone Modena (carni)

5. Bresaola della Valtellina (carni)

6. Mortadella Bologna (carni)

7. Prosciutto di Parma (carni)

8. Prosciutto di S. Daniele (carni)

9. Prosciutto Toscano (carni)

10. Prosciutto di Modena (carni)

11. Provolone Valpadana (formaggi)

12. Taleggio (formaggi)

13. Asiago* (formaggi)

14. Fontina* (formaggi)

15. Gorgonzola* (formaggi)

16. Grana Padano (formaggi)

17. Mozzarella di Bufala Campana (formaggi)

18. Parmigiano Reggiano (formaggi)

19. Pecorino Romano (formaggi)

20. Pecorino Sardo (formaggi)

21. Pecorino Toscano (formaggi)

22. Arancia Rossa di Sicilia (frutta)

23. Cappero di Pantelleria (frutta)

24. Kiwi Latina (frutta)

25. Lenticchia di Castelluccio di Norcia (prodotti orticoli)

26. Mela Alto Adige (frutta)

27. Südtiroler Apfel (frutta)

28. Pesca e nettarina di Romagna (frutta)

29. Pomodoro di Pachino (prodotti orticoli)

30. Radicchio Rosso di Treviso (prodotti orticoli)

31. Ricciarelli di Siena (prodotti da forno)

32. Riso Nano Vialone Veronese (cereali)

33. Speck Alto Adige (carni)

34. Südtiroler Markenspeck (carni)

35. Südtiroler Speck (carni)

36. Veneto Valpolicella (olio)

37. Veneto Euganei e Berici (olio)

38. Veneto del Grappa (olio)

39. Culatello di Zibello (carni)

40. Garda (carni)

41. Lardo di Colonnata (carni)

 

a cura di Loredana Sottile

 

 

Questo articolo è uscito sul nostro settimanale Tre Bicchieri del 29 giugno

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Bar.ista Bar & Shop. Storia di una caffetteria di ricerca a Faenza

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Ha compiuto da poco un anno ed è già uno degli indirizzi più interessanti della Penisola in fatto di oro nero: Bar.ista Bar & Shop a Faenza è un punto di ritrovo per tutti gli amanti della tazzina, con caffè di alta qualità declinati in diverse sfumature.

Le origini

È trascorso poco più di un anno da quando il giovane Matteo Belli ha inaugurato quella piccola caffetteria di appena 40 metri quadri a Faenza, in provincia di Ravenna, che in breve tempo è diventata un punto di riferimento per gli appassionati di caffè della città. Classe '80, Matteo è da sempre dietro il bancone del bar: “Avevo 19 anni quando ho iniziato a lavorare con il caffè, ma a quel tempo non ero consapevole del prodotto che stavo utilizzando”.La curiosità, la voglia di imparare, crescere e migliorarsi lo spingono a intraprendere un percorso di formazione che continua ancora oggi, con un aggiornamento continuo e uno studio costante. “Ho la fortuna di abitare non lontano da Rubens Gardelli”, torrefattore d'eccezione di Forlì, “dal quale ho imparato molto”. È il 2013, i primi vagiti del Rinascimento del caffè in Italia sono ancora lontani dal divenire, specialmente nelle province, ma Matteo è ormai deciso a modificare il suo approccio al lavoro. Comincia così a inserire nel suo vecchio bar i caffè specialty, ovvero chicchi di qualità superiore tostati a dovere, ma non è ancora soddisfatto. Col tempo, si appassiona sempre di più all'oro nero, segue tutti i corsi di formazione per diventare trainer SCA (Specialty Coffee Association of Europe) e poter insegnare, e capisce che è il momento di cambiare rotta.

Il caffè

Lo scorso maggio 2016 apre Bar.ista Bar & Shop, una caffetteria basata sull'utilizzo esclusivo di caffè specialty, monorigine e di piantagioni selezionate: “Non ho miscele e per l'espresso offro tre tipologie diverse di singole origini, che variano di volta in volta. Sto lavorando molto sulla bassa pressione, perché alcuni caffè, come un Nicaragua lavato attualmente in carta, esprimono al meglio le loro caratteristiche con questa modalità di estrazione”. Ma il caffè, lo sappiamo, non è solo espresso: esistono tanti diversi metodi di estrazione in grado di dare vita a bevande dal gusto unico e le sfumature aromatiche più disparate, e Matteo ha scelto di proporle tutte quante. V60, aeropress (il più richiesto), chemex, syphon, cold brew: l'offerta è ampia e in grado di rispondere alle diverse esigenze.Alla base di tutto, ci sono i chicchi (disponibili anche per la vendita) de Le Piantagioni del Caffè, torrefazione d'eccezione di Livorno in mano alla famiglia Meschini da oltre 120 anni: “Loro sono i nostri principali fornitori, ma alle volte inserisco anche caffè di Gardelli Specialty Coffees, Piansa e altre piccole torrefazioni artigianali italiane”.

Gli altri prodotti

Ad accompagnare espressi e cappuccini, brioches vegane, lieviti assortiti, e tanto cioccolato, altra specialità sulla quale Matteo punta molto, “al momento faccio affidamento sul cioccolato di Modica di Sabadì e quello di Maglio”, due fra i più grandi artigiani del cacao in Italia, “e mi piace accostarli anche ai diversi monorigine in degustazione”. Non manca, inoltre, una selezione curata di tè e tisane: “Sono un grande amante dei tè di Alveus, azienda di Amburgo che vende prodotti biologici e naturali di ottima qualità, che confezioniamo in proprio con delle bustine fatte in casa”. E si sperimenta anche in questo campo: “Sto provando a promuovere la doppia estrazione a freddo di tè e caffè. Nella parte superiore della macchina, al posto dell'acqua c'è un infuso a freddo di tè Darjeeling First Flush Bland, e nella parte sottostante il caffè , macinato leggermente più grossolano del normale. Il risultato è una fusione di due aromi di grande classe che in bocca esprimono un'ampia complessità aromatica”. Con il tè, Matteo prepara anche il latte matcha, ovvero una bevanda a base di latte caldo e tè verde, “una delle più apprezzate”. Spazio anche ai cocktail, ancora una volta a base di caffè, realizzati secondo i dettami della filosofia Coffee in Good Spirits, una disciplina che coniuga l'arte della mixology con l'oro nero. “Il cocktail più in voga è il gin tonic, a base di gin aromatizzato al timo, tonica di Cortese Pure Tonic e caffè estratto a freddo con il metodo cold drip”.

La comunicazione

Una sfida non indifferente, quella di Matteo, che giorno dopo giorno mostra ai clienti un nuovo approccio al concetto di bar, cercando di informare quanti più consumatori possibili. “Faenza non è una città semplice dal punto di vista della ristorazione, e i bar puntano tutto sull'aperitivo”. Ad apprezzare maggiormente l'offerta più innovativa del caffè filtro sono, come sempre, i turisti, “ma anche i giovani italiani stanno iniziando a sviluppare un gusto diverso; è su di loro che bisogna puntare”. Per promuovere una diversa interpretazione del caffè, il barista organizza corsi di formazione, degustazioni rivolte a tutti, assaggi, oltre a curare attentamente la comunicazione sui social, “fondamentale per un'attività”. Il prossimo passo? “Iniziare a tostare. Vorrei imparare dai torrefattori e avvicinarmi sempre di più al caffè”. E chissà, magari un giorno aprire un altro bar, “possibilmente al Nord Italia, o meglio ancora Nord Europa”. Per ora, si resta concentrati sulla piazza faentina, continuando a sviluppare nuove idee e contribuendo, passo dopo passo, ad accrescere la consapevolezza dei consumatori.

La ricetta: Gin Tonic Coffee

I cocktail al caffè hanno un gusto unico nel loro genere: perfetti per la stagione estiva, specialmente se preparati con un buon caffè freddo, possono diventare un'ottima alternativa ai soliti drink. Matteo ci ha regalato una gustosa ricetta per provare a riprodurre il Gin Tonic Coffee in casa.

Ingredienti

50 ml di Citadelle gin

50 ml di tonica Cortese Pure Tonic

30 ml di cold brew coffee (caffè estratto a freddo)

1 scorza d'arancia

Coffeetini (vodkatini aromatizzato al caffè) q.b.

50 ml di Zubrówka Bison Grass Flavoured Vodka

Aromatizzare il ghiaccio, versare 20 ml di cold brew in un bicchiere piccolo a parte come accompagnamento. Unire la vodka al ghiaccio, i 10 ml restanti di cold brew, e gli altri distillati.

Bar.ista Bar & Shop | Faenza | corso Garibaldi, 33 a | www.facebook.com/Bar.istafaenza/

a cura di Michela Becchi

L'app per il foraging di Vild Mad. L'ultima idea di Renè Redzepi

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Dopo il successo del pop up messicano, lo chef danese torna a concentrarsi sui progetti a lungo termine. E mentre lavora sul futuro della sua cucina, che alla fine dell'anno troverà casa a Christiania, annuncia un nuovo step del progetto Vild Mad. Con l'app gratuita per consultare una guida digitale del foraging. E diventare esperti di wild food. 

La cultura del foraging. Per tutti

Alla fine dell'estate 2015, quando ancora molti progetti sarebbero arrivati a scombinare le carte della “factory” Renè Redzepi, lo chef danese promotore della New Nordic Cuisine sanciva la nascita di un nuovo manifesto, Vild Mad (wild food, cibo selvatico), costola del progetto MAD. Un'iniziativa finalizzata principalmente a promuovere la disciplina del foraging, facendone uno strumento a disposizione di tutti, e non solo appannaggio delle ricerche di grandi chef, un po' com'è stato a più riprese nella storia dell'alimentazione, quando di fronte a guerre e carestie l'uomo era costretto a cibarsi di piante spontanee e prodotti rinvenuti attorno a sé (la disciplina, in gergo tecnico, si chiama alimurgia, ed è considerata l'antenata del foraging). Del resto, sulla riscoperta di muschi, licheni e prodotti insospettabilmente edibili, Redzepi ha sempre fatto affidamento per rilanciare l'immagine gastronomica di un territorio ingiustamente considerato avaro di risorse fino all'avvento della sua nuova cucina nordica. E proprio dalla voglia di condividere questa esperienza perché potesse diventare formativa per tutti, sin dai primi anni di vita, nasceva la piattaforma di Vild Mad, fondata su tre progetti paralleli di divulgazione e insegnamento, dall'educazione scolastica ai corsi guidati nel bosco (gratuiti), alla costituzione – perennemente in fieri – di un database di referenze e fotografie per orientarsi tra i prodotti spontanei offerti dal pianeta.

 

Record d'incassi per Noma Mexico

Nel frattempo è passata molta acqua sotto ai ponti, dalla chiusura dal Noma all'imminente apertura di Barr, all'ultima (ennesima) fortunata parentesi messicana. In questo caso, i dati parlano chiaro: Noma Mexico ha incassato oltre 4 milioni di dollari (in beneficenza a favore di Maya Mundo Foundation) in sette settimane – per 7mila pasti a più di 700 dollari l'uno, e tutto esaurito ben prima della data d'esordio - confermando il fascino del pop up d'autore declinato alle latitudini più disparate. Chiuso l'ultimo servizio, il 28 maggio scorso, ora si torna a lavorare in casa, per approntare l'attesissima inaugurazione dell'urban farm di Christiania, in programma per la fine dell'anno. Ma proprio da Vild Mad arrivano le ultime novità. Protagonista sul palco dei Worl'd 50 Best Talks (a Barcellona per festeggiare i 15 anni della World's 50 Best Restaurants in compagnia dei colleghi in vetta alla classifica, Daniel Humm, Massimo Bottura, Joan Roca), Redzepi ha battezzato l'esordio ufficiale del programma, che ha richiesto diversi mesi per la messa a punto.

La tua app per il foraging

E per ora l'attenzione di concentra sul rilascio di una guida digitale al foraging, disponibile gratuitamente via app per Apple Store e Google Play, in lingua danese e inglese. Uno strumento essenziale per coinvolgere adepti del wild food di tutto il mondo – mentre i danesi possono già consultare sul sito dedicato il calendario dei corsi e delle iniziative sul territorio nazionale, con il contributo di 50 park ranger in tutta la Danimarca – che ha impegnato il team di MAD negli ultimi quattro anni. La grande mole di dati raccolti nell'app, infatti, consente all'utente di orientarsi tra ecosistemi e stagioni, dalla foresta in primavera alla città durante l'estate (con la possibilità di sperimentare innumerevoli combinazioni), per rintracciare quanto di edibile e invitante si può annusare, assaggiare, raccogliere, cucinare. Quattro le sezioni destinate allo scopo: panorami, ingredienti, ricette ed esplora (“get outdoors”). Gli ingredienti, a loro volta, sono suddivisi per tipologia, ognuno con la scheda tecnica relativa, dalle bacche ai fiori, dalle foglie ai funghi, ai frutti di mare. Esplicita la missione dell'app, riassunta in poche semplici parole: “Questa è la tua app per il foraging. Il foraging è la tradizione, antica come la civiltà umana, che consiste nel raccogliere cibo selvatico come erbe, bacche e frutti in natura”. “Crediamo sia un incredibile strumento per scoprire nuovi sapori, e intraprendere nuove conversazioni sulla provenienza del cibo che mangiamo”, ribadisce il team di Vild Mad.

E allo scopo l'applicazione già suggerisce le prime ricette “selvatiche” per il mese di luglio, come un bel piatto di carne grigliata con muffin ai fiori di artemisia e mele, edera e fiori di cappero. Molti degli ingredienti, è bene sottolinearlo, sono frutto di esplorazioni sul territorio nordeuropeo e quindi particolarmente legati a quella cultura gastronomica. E infatti, per chi volesse sperimentare in loco, il prossimo 27 agosto è in programma il primo raduno Vild Mad a Copenaghen.

 

www.vildmad.dk/en

 

a cura di Livia Montagnoli

L'Imàgo. Il nuovo Tre Forchette sui tetti di Roma

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Una delle viste più straordinarie della città e una delle cucine più originali, un servizio impeccabile e una struttura in continua evoluzione. È l'Imàgo dell'hotel Hassler. Il nuovo Tre Forchette della guida di Roma del Gambero Rosso.

I 10 anni dell'Imàgo – Tre Forchette della guida Roma 2018 del Gambero Rosso - sono stati celebrati con una grande festa sui tetti di Roma. E quella che pare una frase fatta, quando si tratta dell'ultimo piano dell'Hassler a Trinità dei Monti, acquista tutt'altro significato. Non a caso, se chiedi a Francesco Apreda – alla guida dell'Imàgo dalla sua nascita – qual è la sua maggiore difficoltà, risponde: “Il mio più grande concorrente è Roma e la vera sfida è distogliere il cliente dal panorama: per i primi 10 minuti, chi è qui, non guarda neanche il menu ma solo fuori”. Oggi, però, chi va all'Imàgo lo fa per la vista, ma anche per quanto Apreda porta in tavola. Nei suoi piatti c'è un distillato delle esperienze che lo hanno reso il resident del 5 stelle lusso che vince la sfida di una piccola proprietà in un mondo dominato dalle grandi catene. Il presidente e direttore generale è un galantuomo d'altri tempi, quel Roberto Wirth che ha ereditato l'hotel dalla famiglia di albergatori e ha deciso che un luogo così dovesse avere un ristorante alla sua altezza.

 

Francesco Apreda e Roberto Wirth

Francesco Apreda e Roberto Wirth

 

Roberto Wirth

È sempre presente” dice Apreda per introdurre una figura non solo nominale “con lui c'è un rapporto d'intesa”. Che parte da quando, appena maggiorenne, Apreda arriva all'Hassler. Due anni e mezzo e poi via, a Londra, all'epoca già snodo della grande ristorazione. Wirth lo tiene d'occhio da lontano. Dopo qualche anno lo chiama e gli propone l'Imperial Hotel a Tokyo. Lì acquisisce conoscenze che poi torneranno nella sua cucina: tecniche, prodotti e una certa pulizia nei piatti, estetica e concettuale. Poco più di due anni e Wirth torna alla carica, stavolta per farlo tornare a Roma “pensavo fosse per il Palazzetto” sorta di depandance dell'albergo. Invece lo vuole come executive all'Hassler. Fino ad allora i cuochi non rimanevano a lungo, non si creava la giusta sinergia. Con Apreda è diverso e i risultati di oggi sono frutto di un percorso fatto insieme: “mi ha sempre messo in condizione di lavorare bene”. L'idea dell'Imàgo prende forma, a sostituire il preesistente rooftop restaurant. La ristrutturazione degli spazi apre a una nuova linea gastronomica: non più di stampo francese, ma globale, con richiami esotici pur rimanendo profondamente italiana. La cucina al piano sarebbe arrivata dopo, sacrificando dei tavoli per avere un'area di lavoro satellite rispetto alle enormi cucine centrali. “un piccolo gioiellino per la rifinitura finale”. Il progetto si definisce strada facendo e nelle riunioni quotidiane l'Imàgo prende forma in ogni dettaglio, a partire dalla cucina.

 

 

La cucina

Non abbiamo mai seguito le mode” racconta lo chef per spiegare quel suo stile contaminato ma distante da facili esotismi: “venivo dall'estero, perciò avevo una mia idea di fusion”. Che tutto nasca da un'esperienza personale lo si percepisce da quella forte sensazione di mediterraneità, anche quando i sapori spingono lontano. Qualsiasi sia la spezia o la tecnica usata, si ha sempre quel rimando a Napoli e Roma come poli del lavoro di Apreda e delle sue varie evoluzioni. “Prima c'era tanto Giappone” nello stile e nei gusti, lo mescola con i sapori nostrani e comincia a eliminare decorazioni e fronzoli: “erano superflui. Ho lavorato per concentrare il piatto in pochi ingredienti”. E così è andato avanti fino a che la sua strada l'ha portato in India. “È stato un cambio di prospettiva: l'India ha spostato la mia visione del piatto e anche il gusto”. Nei molti viaggi porta con sé il suo sous chef e il pastry chef Dario Nuti, “per far capire loro cosa si poteva creare a partire da quella cultura”. In India studia il tandoori, oggi proposto per l'anatra; la preparazione dà vita anche al pollo in due culture, che unisce il teriyaki giapponese all'idea romana del pollo con i peperoni, ma prende spunto dalla cottura uniforme, morbida e succosa del pollo tandoori.

Inizia nel 2009 il lavoro sulle spezie: non più una a dominare il piatto ma un mix da bilanciare e dosare ogni volta. Su questo snodo costruirà il menu Sapori di Viaggio che racconta le sue esperienze nelle cucine di mezzo mondo attraverso i suoi famosi blend aromatici. Un impegno millimetrico che unisce memoria, tecnica, creatività, ironia. Come nelle penne all'arrabbiata. Piatto più richiesto e più distorto nei ristoranti italiani in India. Introduce un piccante più deciso e modulato, quello dello Spicy Bomba-y: peperoncino, pomodoro, paprika dolce, nigella, cardamomo, lime a ancora semi di coriandolo, semi di finocchio e galgant. E una selva di ingredienti a bilanciare il piatto. È parte di un menu molto spinto, che doveva appoggiarsi su una buona presentazione in sala.

 

La sala

Un piatto raccontato è più buono di uno solo portato al tavolo” spiega “facciamo breafing tutti i giorni: io racconto come e perché nasce una ricetta, e lo stesso fanno maîtree sommelier per la loro parte”. Così nasce un servizio non rigido, attento e molto professionale (premio miglior servizio d'albergo della nostra guida Roma 2014). “Abbiamo formato un gruppo giovane con Marco” e si riferisce al sommelier Marco Amato, con Apreda sin dall'inizio. “Adottiamoi camerieri”, scherza per spiegare rapporti di lunga durata. Trovare personale non è semplice, anche perché 45 coperti e molti menu degustazione, equivalgono a circa 500 piatti ogni sera. “Ci vuole un gruppo affiatato”. In sala come in cucina, dove ci sono collaboratori da 8 anni e più. Persone come Francesco Focaccia – insieme sin dai tempi di Londra - oggi sous chef, il responsabile del Palm Court (lo spazio estivo) Marcello Romano, Simona Pica entrata per uno stage in pasticceria e oggi sous di Dario Nuti, ma dopo aver girato tutte le postazioni. Pilastri che permettono ad Apreda di guardare avanti, sempre nell'ambito dell'Hassler.

 

Lavorare in albergo

Quando parla di lui, Wirth ne loda la serietà, la perseveranza, la passione e la capacità di rimanere un passo indietro, ma sempre più presente e determinante. Mai stato una primadonna, Apreda. In un 5 stelle lusso così, è tutta la struttura a dover volare alto.“Rimango l'executive dell'Hassler come 14 anni fa, quando l'Imàgo non esisteva neanche” risponde così quando gli chiedi del suo ruolo. E lo si capisce quando parla del nuovo menu, inizialmente vegetariano e poi corretto in corso d'opera, tenendo presenti le esigenze di una clientela sia interna che esterna all'hotel. Oggi un 50% è italiano “un risultato importante”, a conferma che l'Imàgo ha conquistato una sua identità a prescindere dal contesto in cui è ospitato. Ma quel contesto Apreda non lo può ignorare: “siamo in un 5 stelle extralusso nel centro di Roma”. Niente pose da superstar, ma la piena comprensione di un ruolo. Che ha pro e contro: “questo non è uno di quei posti con budget infinito”: sgombera il campo da quell'immaginario del ristorante dove tutto è possibile a prescindere dal fine mese: “l'Imàgo deve quadrare”. Ci sono dei vantaggi, ma anche difficoltà “la vita dell'hotel può essere di intralcio ai ritmi del ristorante”. Mai pensato di essere più indipendente? “Forse avrei più tempo, ma mi piace così tanto quel che faccio che non mi vedo solo in un ristorante”. E aggiunge: “Ho sempre fantasticato su cosa avrei fatto all'Hassler se fossi stato io lo chef, e ora lo sono”.

 

 

L'ultimo restyling e le Tre Forchette

Il restyling per i 10 anni ha aggiustato dei dettagli: “abbiamo corretto l'illuminazione su ogni tavolo e l'insonorizzazione, e ridotto i coperti”. Oggi sui tavoli niente fiori ma delle tartarughine: “sono la passione di Wirth, ne ha una collezione enorme, qui ci sono le 5 più grandi”, un monito ad arrivare a destinazione senza bruciare le tappe. E poi c'è la nuova cantina a vista che incanta. Più di 1200 etichette, oltre 160 solo di bollicine, grandi verticali, come quella di Petrus, e una carta dei Borgogna. Frutto di un lavoro costante e investimenti importanti a contribuire alla maturità di tutta la struttura “la crescita la vedo negli occhi delle persone che lavorano con me. La loro soddisfazione anche dopo ore di lavoro, senza mai abbassare la guardia”. Quando ha saputo delle Tre Forchette, cosa ha fatto? “L'ho comunicato singolarmente ai nostri collaboratori, per non fare trapelare la notizia, e in ognuno ho visto tantissima gioia. Una soddisfazione così ti sprona ad andare avanti”.

Dolce mozzarella

 

Piatti storici e nuovi menu

Tra i piatti che hanno segnato momenti chiave dell'Imàgo, il fusillone carbonara con ragù di quaglia, la pasta e patate curry e granchio reale, la capasanta impanata con mozzarella bufala e tartufo nero, tra i piatti preferiti di Wirth, presente anche nel menu 10 classici in evoluzione  che celebra i 10 anni dell'Imàgo, insieme al capellino aglio olio e peperoncino anguilla affumicata e cacao, e al cappellotto doppio umami, “uno dei piatti cui sono più affezionato”.

Il 2017 è l'anno anche di un altro menu: Il Mediterraneo tra alghe, vegetali e spezie. Forte impronta vegetale e marina, senza sali aggiunti, sostituiti dalla salinità delle alghe e dagli aromi delle spezie. Nato privo di carne e pesce, poi sdoppiato in due versioni: una con Mediterraneo nel titolo e pesce tra gli ingredienti e l'altro senza. Non si tratta di piatti adattati ai vegetariani ma di portate nate senza carni animali e poi modificate: “le aggiunte sono state naturali, perché i piatti erano già compiuti e avevano in sé le note marine degli altri ingredienti, aggiungere o sostituire non ne ha cambiato l'essenza” così un tavolo può prendere entrambe le versioni, mangiando quasi le stesse cose. Ci sono poi un minestrone all'essenza di mare, con o senza plancton, ma sempre con note minerali; i ravioli al vapore con un brodo di pesci di scoglio e alghe che richiama i brodi orientali, anche senza il pesce. Non mancano parmigiano, mozzarella e altri ingredienti mediterranei.

 

 

Polpo, alghe e radici 
 

La via delle alghe

Nori, wakame lattuga di mare, salicornia: ogni alga ha sapore, struttura, caratteristiche e nutrimenti diversi, perciò se chiedi ad Apreda come trattarle non può che risponderti che dipende da casi. Lui ha iniziato a studiarle quando era in Giappone, e ha continuato a manipolarle con tecniche diverse. Non solo orientali. “La nori la frullo da secca e la uso così sul piatto per dare toni sapidi e umami, tagliata a listarelle va bene anche sopra uno spaghetto di mare o con il parmigiano”;la lattuga basta lavarla e sbianchirla, la wakame fresca la condisce con dressing di soia cipollotto cetriolo e sapori mediterranei, ma è la usa anche per avvolgere la spigola cotta in crosta di argilla con pomodori lemongrass e altri aromi. “L'alga kombu, che ho conosciuto bene a Tokyo, la usavo già come base dei brodi”. La hijiki la mette in osmosi per addolcirla un po', la dulse deve prima di tutto essere sciacquata perché fresca è cariche di sale. Lui le acquista da un fornitore giapponese con base in Germania, o direttamente in Giappone, ma molte si trovano in commercio anche in Italia, specialmente essiccate.

 

Imàgo dell'Hotel Hassler | Roma | p.zza Trinità dei Monti, 6 | tel. 06.69934726 | www.imagorestaurant.com

Guida Roma 2018 Gambero Rosso | Prezzo: 10€ | disponibile in edicola e libreria |clicca qui per acquistare la guida online

 

a cura di Antonella De Santis

 

 

Grani antichi, grani autoctoni, glutine, genetica. Smontare le leggende con la scienza e la ricerca

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Partendo dal progetto Contadini Resistenti Palestinesi, volto a introdurre nelle terre della Cisgiordania un nuovo metodo di coltivazione, siamo arrivati a interrogarci su grani antichi, grani autoctoni, glutine, genetica. Ecco cosa ne è emerso.  

Contadini Resistenti Palestinesi

Il progetto nasce da un viaggio dell'associazione veronese Aveprobi(Associazione Veneta dei Produttori Biologici e Biodinamici) nelle terre della Cisgiordania occupata tra le colline a sud di Hebron. Qui, da oltre quindici anni, dodici villaggi hanno scelto una forma di resistenza non violenta al tentativo di evacuazione operato dalle forze di occupazione israeliane, ricostruendo lì dove viene distrutto e riseminando lì dove le colture vengono danneggiate. “Questo tipo di resistenza”, spiega Tiziano Quaini, portavoce di Aveprobi, “ha sortito addirittura dei riconoscimenti (di facciata) da parte della corte suprema israeliana che ha previsto una scorta militare israeliana per quei bambini palestinesi che durante il tragitto casa-scuola vengono quotidianamente vessati dai coloni israeliani”. Sono terre, quelle della Cisgiordania,tormentate non solo dall’occupazione militare, ma anche dalle difficili condizioni climatiche che rendono l’attività agricola assolutamente precaria, e – sembrerebbe, come spiegato più avanti - dal tentativo più “subdolo” di indebolire gli agricoltori palestinesi attraverso l'introduzione e la spinta all'uso di sementi poco adatte, diminuendo di conseguenza il loro potere e la loro indipendenza. Nei fatti, il controllo sui terreni è in mano ai militari israeliani, che possono deciderne il destino e indirizzare, così, l'impiego di determinate sementi. “Il progetto Contadini Resistenti Palestinesi si propone di far fronte a questa situazione, introducendo un nuovo metodo di coltivazione che consiste nel seminare popolazioni evolutive, e non singole varietà”.In che senso? Ce lo siamo fatti spiegare dal genetista agrario di fama internazionale Salvatore Ceccarelli.

Mescolate contadini, mescolate

Una popolazione evolutiva non è altro che una mescolanza di tantissime varietà diverse della stessa specie”. L'idea di seminare più varietà (e i vantaggi che ne conseguono) non è nuova per la scienza. “C'è, per esempio, un lavoro scientifico pubblicato nel 1938 dall'Università della California. La spiegazione? È abbastanza ovvia e si lega alla teoria dell'evoluzione, secondo cui coltivando una popolazione evolutiva, ci si mette al riparo da malattie nuove, erbe infestante nuove o cambiamenti climatici, perché su un'intera popolazione ci sarà sempre una parte di individui che riuscirà a cavarsela”. Per dirla in termini economici, così facendo si ha un portafoglio finanziario a massima diversificazione del rischio, dove il rischio maggiore è il cambiamento climatico. “Siamo in presenza del grande ignoto, dato che nessuno oggi è in grado di dire quale sarà la temperatura tra vent'anni. Sappiamo solo che c'è un'enorme variabilità, da un anno all'altro, per quel che riguarda la piovosità. E questo rappresenta un danno enorme per l'intera agricoltura”.

Ma torniamo un attimo a parlare delle “popolazioni evolutive”, che significa esattamente evolutive? “La possibilità che hanno i miscugli di far fronte al cambiamento climatico o alle erbe infestanti è legata alla loro capacità di evolversi nel tempo. Quindi, proprio per questa loro capacità io preferisco chiamarle popolazioni evolutive,e non miscugli come si fa spesso. Vi faccio un esempio concreto, nel 1987 ho mescolato un migliaio di tipi di semi di orzo e li ho portati ad alcuni agricoltori in cinque paesi diversi: Algeria, Eritrea, Siria, Giordania e Iran. Il risultato è stato subito un raccolto abbondante, che poi è stato distribuito ad altri agricoltori, e le sementi così selezionate sono state diffuse. Con gli anni le popolazioni si sono moltiplicate e hanno viaggiato per tutto il Medio Oriente”. È il miglioramento genetico partecipativo-evolutivo, che può salvare anche le terre (e l'indipendenza) dei contadini palestinesi.

Il miglioramento genetico partecipativo-evolutivo

Vedendo alcuni video dei terreni in Cisgiordania, quello che mi ha colpito di quei campi è l'enorme riduzione dell'altezza delle piante, tipico effetto della siccità. Ma anche il fatto che queste siano molto distanziate tra loro, il che mi ha fatto sorgere il dubbio che siamo di fronte a semi trattati in modo da diminuire la germinabilità e/o a semi di varietà adatte a zone irrigue”. In entrambi i casi, è un danno enorme per i contadini palestinesi. “Le mie sono solo congetture, sia chiaro, ma sembra che in quella zona la strategia dei militari israeliani sia quella di scoraggiare gli agricoltori a stare lì. Non è difficile capire che il metodo migliore per farlo è di provocare raccolti scarsi, sia per quanto riguarda il frumento destinato all'alimentazione umana che per quel che riguarda l'orzo per alimentare le pecore, il cui latte, tra l'altro, è una delle poche fonti di vitamine per i bambini. E quale deterrente peggiore di far ammalare i figli?”. Ecco perché una soluzione pronta all'uso, per far fronte all'impoverimento dei raccolti, è proprio la coltivazione di intere popolazioni, ovvero mescolando differenti tipi di varietà con caratteristiche genetiche diverse che poi si adattano un po' alla volta al territorio, nonostante le condizioni estreme della Cisgiordania. “Mescolate contadini, mescolate”. Questo il diktat di Ceccarelli, che è anche il titolo del suo libro edito da Pentagora.

Salvatore Ceccarelli

Ha senso parlare di grani autoctoni?

Con lui decidiamo di affrontare anche l'annosa tematica dei grani autoctoni e antichi.“I grani autoctoni sono quello che a noi è arrivato dal lavoro dei primi agricoltori, quando - novemila anni fa - prima della raccolta, si andava nel campo e si sceglievano le piante più belle. Quelle erano le votate per la semina dell'anno successivo. Ovviamente - e qui risbuca fuori il tema del mescolare - i semi erano di piante diverse, che si mescolavano tra loro. Un grano autoctono è il discendente di questo lavoro di migliaia di anni. Non è uniforme, però ha una sua precisa connotazione legata a un determinato ambiente e a un determinato modo di fare agricoltura. Più che di grano autoctono, parlerei di grano locale”.

È dello stesso parere anche Claudio Pozzi, della Rete Semi Rurali, una realtà che sostiene e promuove i valori della biodiversità e dell'agricoltura contadina, opponendosi a un'agricoltura mineraria basata sulla monocoltura intensiva o sulle colture geneticamente modificate. “Innanzi tutto la domanda da porsi è: quando una varietà diventa autoctona? Già perché lo diventa, non lo è di nascita. Guardando il nostro orticello, il Mediterraneo, questo è un'ottima area di diversificazione ma quasi mai è area di origine di quel che mangiamo, soprattutto dopo la scoperta dell'America. Penso ai pomodori o ai legumi. Andando nello specifico, il luogo di origine del frumento è la Mesopotamia, è da lì che arriva buona parte delle specie vegetali commestibili conosciute”. Quindi cos'è l'autoctonia? “Sempre che abbia senso parlare di autoctonia, è il riconoscimento del fatto che un seme si è adattato a un luogo. Mettiamola sul narrativo: un tempo quando la figlia di una famiglia contadina andava in sposa, la sua dote era un fagotto di semi”. Questi si spostavano di due o tre vallate cambiando contesto, e nel giro di un paio di generazioni subivano delle trasformazioni, o di carattere ambientale o per via degli incroci; diventando qualcosa di diverso dai semi iniziali e il più delle volte acquisendo nomi altrettanto differenti.“Possiamo dire che una volta che questi semi acquisiscono caratteristiche legate alla località, diventano autoctoni, o meglio locali”.

Ha senso parlare di grani antichi?

Spostandoci dal piano geografico a quello temporale, affrontiamo con Salvatore Ceccarelli anche la tematica dei grani antichi. “Tenendo conto che sono nato nel 1941, dovrei essere considerato quasi antico! Già perché oggi chiamiamo “antichi” anche quei grani frutto del miglioramento genetico avvenuto nella prima metà del '900. Come per esempio il Senatore Cappelli, ottenuto dal genetista agrario Nazareno Strampelli, attraverso una serie di incroci successivi di semi diversi che avevano come obiettivo il miglioramento della varietà Rieti, che a quel tempo era la più diffusa”. Ovvio che all'interno della categoria “antico” ci sono anche quei grani che effettivamente sono coltivati da secoli, come per esempio il Gentil Rosso. Anche per questo, Ceccarelli preferisce parlare di grano tradizionale, le cui caratteristiche genetiche sono forgiate dall’ambiente e dal clima in cui vengono coltivati. Ecco dunque il discrimen tra grano antico e grano moderno, mentre il primo si adatta ai luoghi, il secondo “dal punto di vista evolutivo è una mummia: o attecchisce oppure no, non c'è evoluzione”.

Grani antichi vs grani moderni. L'aspetto nutrizionale

L'ultimo nodo da sciogliere, nel marasma delle leggende metropolitane, è il fatto che i grani antichi siano migliori da un punto di vista nutrizionale. Ne abbiamo parlato con Giovanni Dinelli, professore del Dipartimento di Scienze Agrarie all'Università di Bologna. “La superiorità nutrizionale dei grani cosiddetti antichi è legata alla loro inferiorità nella performance produttiva”. Sono tre le macro differenze tra grani antichi e grani moderni: “La granella delle piante dei grani antichi ha un contenuto di minerali maggiore, per il semplice fatto che la taglia delle piante è grande (arrivano anche a 1,20 metri di altezza) e l'apparato radicale, in proporzione, perlustra più terreno e assorbe più minerali.Ovviamente non parliamo di una differenza abissale: quelli antichi hanno un 5-10% in più di sostanze minerali. Stesso discorso vale per la quantità di antiossidanti, “nella cariosside dei grani antichi c'è una quantità maggiore di polifenoli e flavonoidi”. Altra grossa differenza risiede nel glutine, non per quel che riguarda la quantità,“non è assolutamente vero che quelli antichi ne hanno meno”, ma per la qualità. “Le varietà moderne sono state selezionate per essere a taglia piccola, e quindi molto più produttive, e per il tipo di glutine, che deve rispondere a esigenze industriali. Mi spiego: oggi l'industria della panificazione richiede un valore W (che indica la forza del glutine) maggiore di 250, mentre le vecchie varietà hanno una forza glutinica che non raggiunge neanche i 60/70 W”. Quindi con gli anni, e con la rivoluzione industriale, sono state privilegiate le prime, anche perché più adatte a una panificazione con lievito di birra:“La panificazione con pasta madre non richiede tutta questa forza nel glutine perché insieme ai lieviti, i coprotagonisti sono i lattobacilli, che a differenza dei primi producono meno gas e non necessitano di una maglia glutinica forte”.

Il demone del glutine

A questo punto c'è un'altra domanda che emerge: ma il glutine fa male? “Anche se ancora non abbiamo la certezza scientifica, riteniamo che tutta questa forza introdotta nel glutine abbia una correlazione con i fenomeni di intolleranza al frumento. Non parlo solo di celiachia, che è scatenata dall'esposizione al glutine da parte di soggetti con predisposizione genetica, ma anche di intolleranze che non sono a base autoimmune. Sembra infatti che un glutine forte scateni una maggiore reazione da parte del nostro sistema immunitario intestinale”. È altrettanto innegabile che a fronte di una diminuzione nel consumo di pane - “considerando ovviamente che il pane fatto con pasta madre pesa di più, nel 1930 si consumava mezzo kg di pane al giorno, mentre oggi se ne mangia meno di 80 g” - sono aumentati i problemi gastrointestinali legati al suo consumo. E non è solo questione di un maggior numero di diagnosi: “In un ospedale americano è stato analizzato con gli attuali metodi diagnostici il sangue, congelato, risalente a pazienti vissuti negli anni 50. Su oltre 9000 campioni è stato visto che l'incidenza della celiachia (0.2%) era molto più bassa, da 4 a 5 volte in meno rispetto a oggi. Non è un caso, a mio avviso, che i tre prodotti più modificati nel corso della storia, ovvero latte (le vacche di oggi producono tantissimo latte ma con una caseina meno digeribile), pane, pasta, siano quelli che creano i maggiori problemi di inotolleranza nella nostra dieta”.

Attenzione però: non siamo di fronte a un complotto. “Sia chiaro, nessuno l'ha fatto apposta! Si è solo seguito un paradigma industriale, che tende a privilegiare la quantità e i parametri tecnologici”. E dunque la soluzione qual è?“ Bisognerebbe cambiare paradigma, tenendo conto che quello che coltiviamo, lo dobbiamo mangiare”. Semplice.

 

Aveprobi organizza delle cene per raccogliere fondi per il progetto Contadini Resistenti Palestinesi. La prima tappa è all'Agriturismo Papaveri e Papere | Caltana (VE) | via caltana,1/b | tel. 041 5732462 | www.facebook.com/AGRITURISMO.PapaveriPapere

 

a cura di Annalisa Zordan


“I panini li fa Max” ad Ancona. Max Mariola protagonista da Wine Not? con Umani Ronchi

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Lo chef volto di Gambero Rosso Channel protagonista il 3 luglio ad Ancona, ospite del nuovo wine bar del Grand Hotel Palace, al porto antico. Una serata all'insegna del buon cibo e dei vini del territorio marchigiano, con la collaborazione dell'azienda vitivinicola di Osimo. 

Wine Not?

Un palazzo nobiliare del XVII secolo, nel centro di Ancona, tra il Golfo e la città vecchia. Oggi è un'insegna d'eccellenza dell'ospitalità cittadina, il Grand Hotel Palace, 39 camere e 4 suite per un'accoglienza a 4 stelle. E al pian terreno, con grandi vetrate affacciate sul porto antico della città, il Wine Bar è lo spazio dedicato alla proposta enogastronomica, dalla colazione al dopocena, con tante etichette della produzione vinicola regionale, dal Verdicchio al Rosso Conero, in testa i vini Umani Ronchi, partner dell'hotel all'insegna della territorialità. L'hotel ha riaperto i battenti alla fine di marzo, dopo un restyling attento che si è protratto per otto mesi, portando in dote, tra le novità, proprio lo spazio dedicato al wine&food, accanto all'ingresso principale, sul lungomare Vanvitelli. Wine Not? è l'insegna che identifica il locale, a disposizione degli ospiti dell'hotel come della città, con l'idea di offrire uno spazio accogliente e contemporaneo, aperto al pubblico dalle 19 alle 24. E l'azienda vitivinicola di Osimo sarà intermediaria per la promozione di un calendario di serate e degustazioni in compagnia di personalità riconosciute del panorama enogastronomico nazionale.

 

I panini li fa Max... Ad Ancona

Si comincia lunedì 3 luglio, quando Max Mariola arriverà ad Ancona per presentare il libro tratto dall'omonima trasmissione I panini li fa Max, che tanto successo ha riscosso tra gli spettatori di Gambero Rosso Channel, e in libreria. Durante l'incontro, a partire dalle 19 e aperto a tutti, si parlerà di cibo, vino e territorio con lo chef romano, il direttore editoriale di Gambero Rosso Laura Mantovano e Michele Bernetti in rappresentanza dell'hotel, che si impegna a promuovere il Made in Marche sin dalla scelta dei fornitori che collaborano ogni giorno con la struttura. Poi Max Mariola si cimenterà nella preparazione di alcune ricette, svelando le regole del panino perfetto, consigli e segreti per stupire gli ospiti dell'ultimo minuto. E dopo lo show cooking spazio per l'assaggio, in abbinamento alle etichette Umani Ronchi, dal Verdicchio bio Casal di Serra 2015 al Conero Riserva Cùmaro, al Metodo Classico Extra Brut. Peraltro, proprio Max Mariola è consulente del resident chef Leonardo Castaldi per l'elaborazione del menu proposto ogni giorno dalla cucina di Wine Not, tra cicchetti della tradizione locale (zuppetta di molluschi con crostini, polpetta parmigiana, olive e cremini all'ascolana), piatti stagionali che esaltano i prodotti del territorio marchigiano e, immancabili, i panini gourmet.

Seguiranno per tutta l'estate nuovi appuntamenti aperti alla città – per la serie Winenot Moment - a cominciare, il prossimo 12 luglio, dalla presentazione del libro Vigne tra mare e monte, di Antonio Attore e Valentina Conti, su storie e gusti del Conero.

 

I panini li fa Max da Wine Not? | Ancona | lungomare Luigi Vanvitelli, 24 | il 3 luglio, dalle 19 | ingresso libero | www.winenotancona.it

I festival gastronomici di luglio. Gli appuntamenti da non perdere questo mese

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Le temperature di luglio non spaventano né gli organizzatori né tantomeno i food lovers: sono diversi gli appuntamenti a tema food&wine questo mese, sparsi un po’ lungo tutta la Penisola. Ottimi vini rosati da scoprire, street food del Mediterraneo, cene italo giapponesi e l’immancabile pizza: ecco 6 festival da non perdere.

Cashinomoto: cene speciali a Cascina Guzzafame

Un ciclo di cene sotto le stelle organizzato a Cascina Guzzafame, agriturismo all'interno del Parco Agricolo Sud di Milano, partito il 14 giugno scorso. Il nome è una crasi tra “cascina” e "hoshi no moto”, che in giapponese vuol dire appunto “sotto le stelle”: protagonista degli incontri è la cucina di Takeshi Iwai, chef della cascina, nato a Tokyo ma in Italia da dieci anni. Per ogni cena, un menu di 5 portate a sorpresa, con piatti abbinati ai vini di una cantina partner e intrattenimento musicale. L’appuntamento di luglio è previsto per mercoledì 12: il costo è di 70 euro a persona vini inclusi, la prenotazione obbligatoria.

Cascina Guzzafame | Gaggiano (MI) | località Cascina Guzzafame | tel. 331 638 3207 - 389 4543109 | 12 luglio 2017 | www.cascinaguzzafame.it

 

vini rosè

 

Drink Pink 2017

Una festa dedicata ai migliori vini rosati d’Italia, selezionati dal Gambero Rosso: prodotti una volta considerati ingiustamente inferiori rispetto ai “colleghi” bianchi e rossi, ma sempre più apprezzati negli ultimi anni da appassionati e critici. Organizzata dalla Città del Gusto di Napoli, il 13 luglio Drink Pink vedrà diversi terroir vocati alla produzione di rosè incontrarsi nella dimora storica di Castello de Vita, per permettere a tutti i partecipanti di scoprire le caratteristiche delle migliori etichette in degustazione. Le eccellenze enoiche dello Stivale saranno abbinate ad altrettante prelibatezze culinarie, per celebrare l’estate con un vero e proprio inno al rosa.

Fra le aziende vinicole protagoniste Buccelletti Winery, Marisa Cuomo, Borgodangelo, Casebianche, Tenute Eméra di Claudio Quarta Vignaiolo, Di Giovanna, Cavalier Pepe, Antica Hirpinia, Ferghettina, Castelle, San Salvatore, Feudi Spada.

Ad allietare i palati il maestro pizzaiolo Michele Croccia, docente della Gambero Rosso Academy, con la sua proposta di pizze pensate ad hoc per declinare il colore tema della serata, oltre alle specialità della panetteria SoulCrumbs di Napoli e alla migliore selezione del Consorzio di tutela della Mozzarella di bufala campana Dop.

Drink Pink 2017 | Napoli | Castello de Vita | via Alessandro Manzoni, 254 | tel. 081 575 2165 | www.gamberorosso.it/it/citta-del-gusto/napoli/notizie/1045383-citta-del-gusto-napoli-presenta-i-drink-pink-2017

 

Lacrima Wine Days 2017

Un evento tutto dedicato al Lacrima di Morro d’Alba, che viene celebrato con degustazioni, assaggi, seminari di approfondimento, abbinamenti con prodotti tipici locali. È giunto alla seconda edizione il Lacrima Wine Days, quest’anno in programma per sabato 8 e domenica 9 luglio nel Comune dell’anconetano.

Banchi d’assaggio aperti dal pomeriggio di sabato, 4 tasting di approfondimento dedicati a coloro che vogliono approfondire la loro conoscenza sul Lacrima, spazio al mercato dei prodotti tipici con menu creati ad hoc per esaltare il vino, visite guidate nelle cantine locali.

Diverse le aziende vitivinicole e i produttori coinvolti dal festival, presenti a Morro d’Alba con i loro prodotti, fra cui Badiali e Candelaresi, Conti di Buscareto, Luciano Landi, Podere Santa Lucia, Stefano Mancinelli, Marotti Campi, Tenuta San Marcello, Vicari e molti altri ancora.

Lacrima Wine Days 2017 | Morro d’Alba (AN) | sabato 8 e domenica 9 luglio 2017 | www.facebook.com/events/1699381530338430

 

Navigusto, festival su nautica ed enogastronomia di ViareggioNavigusto, Viareggio

 

Navigusto

Celebrare il mondo della nautica e dell’enogastronomia locale: è l’obiettivo di questo particolare festival, che si svolge a Viareggio dall’ 8 al 10 luglio. Non molto lontano dalla celebre passeggiata a mare in stile Liberty, in piazza Palombari dell’Artiglio, ci sarà un singolare incontro tra il mondo della nautica - attuale e storica - e quello dell’enogastronomia: due settori non così distanti fra loro, in particolare per quelle località che fanno del turismo, declinato anche in ottica gastronomica, uno dei loro asset principali.

Tanto spazio alle eccellenze toscane dunque, con mostre mercato, esposizioni, degustazioni, cooking show e tanti appuntamenti tematici organizzati in collaborazione con le più importanti realtà del settore: fra i protagonisti ai fornelli Cristoforo Trapani del ristorante Magnolia di Forte dei Marmi (Hotel Byron), Giuliano Viaggi di Acquasalata (Viareggio), Alessandro Procopio, sous-chef di Davide Oldani al ristorante D'O, Luca Landi del Lunasia di Viareggio (Hotel Plaza). La partecipazione è gratuita, eccenzion fatta per le degustazioni che sono a pagamento.

Navigusto | Viareggio (LU) | piazza Palombari dell'Artiglio | dall’ 8 al 10 luglio 2017 | www.navigusto.com

 

Pizza Expo Caserta

Immancabile un festival sulla pizza, specialità celebrata in estate come in inverno. Questa volta la protagonista è Caserta, e in particolare il Parco Maria Carolina, dove dal 12 al 13 luglio si svolgerà la seconda edizione di Pizza Expo Caserta: un evento che nel 2016 ha registrato oltre 48 mila visitatori, anche grazie al cartellone di iniziative culturali e concerti, oltre che alle 17 pizzerie e ai 20 espositori accreditati. E la seconda edizione vuole proprio replicare il successo appena passato: oltre alle insegne presenti con il proprio stand, i migliori pizzaioli del territorio casertano si contenderanno il “Trofeo Reggia”. Fra i nomi protagonisti del festival Pizzeria da Luca, Arte Bianca, Zia Esterina, Il Monfortino, Tgusto, il Rugantino, Ciboso, Metropizza e molti altri. Ricco il calendario dei concerti, con artisti locali e non solo che intratterranno il pubblico di appassionati della pizza: da Enzo Avitabile Rocco Hunt, passando per Michele Zarrillo Jay Santos.

Pizza Expo Caserta | Caserta | Parco Maria Carolina | viale Giulio Douhet | tel. 391 3684573 | 12-13 luglio 2017 | www.pizzaexpocaserta.com

 

Stragusto, festival di TrapaniStragusto, Trapani

 

Stragusto Trapani

Un evento che celebra il cibo di strada delle sponde del Mediterraneo, riaccendendo l’atmosfera degli antichi mercati di Trapani. È Stragusto, una cinque giorni - dal 26 al 30 luglio - che nasce con l’obiettivo di mettere in mostra il patrimonio culinario dei paesi che danno vita al Mare Nostrum, in particolare quello dei venditori ambulanti, da sempre fondamentali per la vita di queste zone e che oggi si chiamano più modernamente food trucker. Sapori siciliani in prima fila (panelle, arancine, sfincioni, focacce, panini cà meusa) specialità dalla Toscana – come il lampredotto toscano di Luca Cai - dal Lazio, dalle Marche e dal Friuli, lo street food d'autore dello chef palermitano Marcello Valentino, il panino con il Cicotto di Grutti, pietanze palestinesi, ma anche tanti dolci come quelli preparati sul momento dalle sapienti mani delle signore di Caltafimi, il torrone delle madonie, la granita del Festival dell'antica granita siciliana "La Nivarata" da  Acireale. Ad accompagnare il meglio del cibo da strada, cooking show, laboratori di cucina, musica e intrattenimento per i più piccoli.

Le pietanze costano da un minimo di 1 euro a un massimo di 6 euro: per assaggiarle basta comprare uno o più carnet di ticket all’ingresso della manifestazione e poi scegliere il proprio percorso gastronomico.

Stragusto | Trapani | Mercato del Pesce, lungomare Dante Alighieri | tel. 0923 538789 | dal 26 al 30 luglio 2017 | www.stragusto.it

 

 

a cura di Francesca Fiore

 

Il Paese dei Sapori. Il nuovo format targato Sky sui consorzi di tutela

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I talent e i programmi che si occupano di cibo continuano a proliferare. E bene così, soprattutto quando si parla di tematiche poco battute, almeno in televisione. È il caso del nuovo format il Paese dei Sapori, in onda dal 16 giugno su Sky 512.  

Il ruolo dei consorzi in Italia

Il programma, condotto da Anna Olivero e Fabio Cigna, punta i riflettori sui consorzi di tutela, ovvero quelle associazioni volontarie regolamentate dall'articolo 2602 del Codice Civile, volte a tutelare e promuovere le produzioni agroalimentari Dop e Igp. Un vero patrimonio, che non rappresenta più (solo) un fenomeno di nicchia ad appannaggio dei cultori del buon cibo, ma si è trasformato in una realtà economico culturale che fa da volano per la promozione turistica della nostra Penisola nel mondo. Basti pensare che l'Italia è il paese europeo con il maggior numero di prodotti agroalimentari a denominazione di origine e a indicazione geografica riconosciuti dall'Unione Europea (siamo arrivati a 814 prodotti). Senza contare che vengono coinvolti 290mila operatori, i quali generano un fatturato complessivo che supera i 13 miliardi di euro, di cui circa la metà rappresentato dall’export. In questo quadro generale si inseriscono i consorzi di tutela, realtà che nascono dai produttori stessi per tutelare e promuovere i prodotti che rappresentano, ma anche per informare il consumatore attraverso iniziative di vario genere. Parte da quest'ottica Il Paese dei Sapori, viaggio alla scoperta di prodotti e artigiani del gusto, cominciato a Reggio Emilia con, neanche a dirlo, il consorzio di tutela del Parmigiano Reggiano. E con la ricetta di Michelangelo Mammoliti, chef del ristorante La Madernassa di Guarene.

Michelangelo Mammoliti

Classe 1985, ha alle spalle esperienze al fianco di Gualtiero Marchesi, prima a L'Albereta poi al Marchesino, e di Stefano Baiocco, a Villa Feltrinelli di Gargnano. Ma è la peregrinazione in terra francese che lascia il segno distintivo alla forma mentis di Mammoliti. Parliamo di cinque anni alla corte dei migliori chef d'Oltralpe, da Alain Ducasse a Pierre Gagnaire, da Yannick Alléno, chef del Pavillon Ledoyen di Parigi, a Marc Meneau del ristorante L'Esperance a Sain-Père. Un bagaglio culturale che si è ulteriormente arricchito grazie ai suoi ultimi viaggi in oriente. E le proposte del menu parlano chiaro, pensiamo al Cubix, ovvero ravioli di anguilla allo yakitori, emulsione al rafano, barbabietole acidule; al Niora (riso cotto in tè di foglie di limone, chorizo e calamaretti spillo) o al Tokyo-Guarene, un sottofiletto di Fassona marinato al miso d’orzo e profumato all’alga kombu. Ai lettori del Gambero Rosso, Mammoliti svela la ricetta completa degli Spaghetti al BBQ, il piatto andato in onda durante la prima puntata del Paese dei Sapori, nato per evocare le grigliate estive della domenica.

Spaghetti al BBQ

Ingredienti per 4 persone

320 g di spaghetti

100 g di burro

80 g di prosciutto crudo di Cuneo

Brodo di prosciutto crudo di Cuneo

Parmigiano Reggiano 60 mesi

Croccante di prosciutto crudo di Cuneo

Fiori di rosmarino

Sale e pepe di Sarawak

Polvere di carbone vegetale

Scottare gli spaghetti per 5 minuti, risottarli in padella con il brodo di prosciutto di Cuneo, continuando la cottura per altri 2 minuti. Aggiungere il burro (se possibile, precedentemente profumato al barbecue) e terminare con il croccante di prosciutto di Cuneo. Impiattare e decorare con i fiori di rosmarino e la polvere di carbone vegetale.

 

La Madernassa | Guarene (CN) | Località Lora, 2 | tel. 0173 611716 | www.lamadernassa.it

Il Paese dei Sapori | Reteconomy, Sky 512 (e in streaming su www.reteconomy.it) | tutti i venerdì, alle 22

 

a cura di Annalisa Zordan 

La focaccia e i suoi derivati. 8 specialità pugliesi e la ricetta della focaccia barese

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Sponsali, olive nere, pomodori, cipolle in grandi quantità, acciughe. Sono i tipici condimenti delle focacce pugliesi, prodotti semplici o farciti, diventati famosi anche oltre i confini regionali. Questa settimana andiamo in Puglia, alla scoperta di 8 preparazioni locali.

Alte o basse, condite in superficie o ripiene di farce golose, dalle forme classiche o arrotolate come fossero serpentelli. Sono le focacce pugliesi. È in questa regione che oggi che vi portiamo, alla scoperta di 8 prodotti locali, con la ricetta della focaccia barese del Panificio Adriatico.

 

Calzone con lo spunzale

Per questo viaggio nel mondo delle specialità pugliesi partiamo da una focaccia ripiena, il calzone con lo sponsale, tipica della città di Corato, in provincia di Bari. Protagonista è, appunto, lo sponsale (spunzale nel dialetto locale), chiamato anche cipolla porraia: una cipolla raccolta prima dell’ingrossamento, spesso confusa con il porro perché molto simile nell’aspetto. È un prodotto molto usato nella cucina pugliese - ma anche in quella lucana - e ha un sapore particolarmente dolce e delicato: si usa come farcia interna, dopo averla brasata, insieme alle olive nere. Questo tipo di focaccia ha molte varianti: la base è preparata con farina 00 mescolata a semola rimacinata di grano duro, acqua, olio extravergine d’oliva e vino bianco, ma c’è anche chi mette strutto o sugna nell’impasto, chi utilizza solo l’acqua al posto del vino, chi aggiunge delle patate lesse per ammorbidire maggiormente la pasta. Anche il ripieno varia di paese in paese: si possono aggiungere acciughe, sgombri sott’olio, uva passa, pomodorini, ricotta forte.

 

Focaccia barese

Una preparazione nata, con molta probabilità, come variante del pane di Altamura, diventata poi celebre in tutta Italia e anche oltre. La focaccia barese veniva preparata per sfruttare il calore iniziale del forno, non ancora a temperatura per cuocere il pane, e serviva a sfamare i panettieri durante le ore di lavoro. La ricetta originale di questo prodotto alto e morbido, vuole semola rimacinata, patate lesse, acqua, lievito e sale: l'impasto viene steso su una teglia unta d’olio dove continuerà a lievitare per qualche ora. Il condimento classico prevedere pomodorini freschi tagliati a metà e spesso anche olive nere baresane, ma ci sono diverse varianti “ufficiali”, oltre quelle ufficiose che ogni cuoco, soprattutto se amatoriale, sperimenta nel forno di casa. La prima è la focaccia alle patate, che viene ricoperta in superficie con fette spesse circa 5 centimetri, già lessate, mentre la seconda è la bianca, prevede un semplice condimento con sale grosso e rosmarino.

 

Focaccia barese del Panificio AdriaticoFocaccia barese del Panificio Adriatico

A Bari la focaccia si mangia in diversi momenti della giornata: come sostituto del pranzo, a merenda, ma anche a colazione. Noi abbiamo chiesto proprio questa ricetta al panificio Adriatico, locale selezionato dalla nostra guida Street Food: in fondo all’articolo tutti i dettagli su dosi e procedimento.

 

Focaccia a libro di Sammichele di Bari

A Sammichele di Bari non esiste gita di Pasquetta senza la focaccia a libro, insieme alle tradizionali orecchiette e al coniglio cotto al forno. Chiamata nel dialetto locale fecazze a livre, è una sorta di rotolo di pasta avvolta prima su se stessa e poi a spirale. La base è realizzata con farina, sale, olio evo, lievito, acqua e le immancabili patate lesse, ingrediente fondamentale per dare al prodotto la giusta consistenza, che deve essere morbida al centro, ma croccante (grazie soprattutto alle elevate temperature di cottura) in superficie. Quando si comincia ad avvolgerla, si usa mettere un pomodoro, cosa che fa somigliare la focaccia a un serpente a riposo: una simbologia dalle origini molto antiche, poi “assorbita” dalla cultura cristiana.

 

focaccia a libro di Sammichele di Bari - foto di La terra di Pugliafocaccia a libro di Sammichele di Bari - foto di La terra di Puglia

Per quanto riguarda i condimenti, da quello tradizionale con olio di oliva, sale e origano, si è passati ad altri più moderni, arricchiti con capperi, acciughe, pomodorini, olive o uvetta. Per coloro che volessero provarla, nel mese di settembre il comune di Sammichele organizza una frequentatissima sagra che mette in mostra non solo la versione classica, ma che varianti contemporanee realizzate dai panificatori locali.

 

Focaccia tarantina

Confondere la focaccia barese con quella prodotta a Taranto per i pugliesi è una vera eresia. Le due specialità sono in effetti molto simili fra loro, tranne che per qualche piccola variante: nell’impasto della tarantina scompare il vino bianco, mentre spesso entrano di diritto le patate lessate. Oltre alla diversa lievitazione (la tipologia tarantina è più bassa e compatta), è il ripieno l’elemento che le distingue nettamente: in questo caso è fatto con fettine sottili di cipolla bianca e olive nere “ad inchiostro”, ovvero le olive celline, chiamate così perché talmente scure e succose da “sporcare” tutto, come succede appunto quando si versa l’inchiostro. Questo mix dà al ripieno della focaccia un colore nero-violaceo inconfondibile, oltre che un sapore particolarmente intenso, con l’amaro delle olive bilanciato dalla dolcezza delle cipolle. Esistono diverse varianti, fra cui quella che prevede che la farcia sia arricchita anche con pomodori pelati - anche della tipologia gialla - capperi, acciughe e origano.

 

Paposcia del Gargano

A metà fra il pane e la focaccia, tipica di Vico del Gargano in provincia di Foggia, la paposcia ha origini molto antiche - si dice che fosse già in uso durante il XV secolo - ed è stata tramandata nella sua versione originale fino ai giorni nostri. La tradizione vuole che venga realizzata con i residui della pasta del pane che restano attaccati allamadia - il contenitore di legno a sponde alte che si usa per impastare - allungati con decisione e messi in forno mentre si attende che le pagnotte lievitino del tutto. Una volta sfornati, questi straccetti di pasta vengono conditi con olio extravergine e formaggi freschi locali. È proprio la sua forma a dare il nome alla focaccia: somiglia molto a una pantofola, o babbuccia, che è appunto la traduzione del termine paposcia.

 

Paposcia di Vico del Gargano - foto di Pizzica to bebPaposcia di Vico del Gargano - foto di Pizzica to beb

È un prodotto molto importante per Vico, tanto che dal 1996 esiste il “Club della paposcia”, un’associazione che mira non solo alla sua valorizzazione, ma anche a una riattualizzazione: ogni membro, infatti, è autorizzato a sperimentare una farcitura diversa, rigorosamente con ingredienti e materie prime locali.

 

Puccia salentina

Uno dei prodotti pugliesi più conosciuti, tipico delle province di Lecce e Taranto, è la puccia. Una sorta di pane più o meno alto, dalla forma tondeggiante, che viene cotto nel forno a legna, tagliato a metà e condito con diversi tipi di ripieni. Ogni zona ha la sua ricetta sia per la pasta che per la farcitura: in Salento viene prevalentemente realizzata con l’impasto del pane, mentre nel tarantino è più simile a quello della pizza.

Una variante tipica di Gallipoli, in provincia di Lecce, è la puccia caddhipulina, preparata per la vigilia della festa dell'Immacolata concezione, il 7 dicembre: è un pane molto morbido e alto, condito tradizionalmente con capperi e acciughe sotto sale, ma che oggi si trova anche ripieno di tonno, pomodori e olio extravergine. Altra tipologia tipica e molto diffusa in Salento è la puccia uliata, in cui l’impasto viene arricchito con olive nere in salamoia e le pezzature risultano più piccole e regolari.

 

Puccia uliata - foto di Friselle Salento

 

In provincia di Taranto c’è la puccia alla vampa (alla fiamma): un disco di farina di semola, che lievita direttamente nel forno a legna e aumenta di volume man mano che cuoce. Una volta pronto è quasi privo di mollica ma con una consistenza molto morbida: viene farcito con ricotta forte, olio extravergine d’oliva, pomodori (a volte solo i semi) e rape stufate.

Infine, segnaliamo la preparazione tipica di Lizzano e Pulsano, chiamatapuccia alla tajedda, o alla spasa: una focaccia cotta nella teglia e riempita con acciughe, cipolle, olive, capperi, peperoncino e pomodori.

 

Puddica brindisina

Un prodotto tipico di Brindisi e dintorni, il cui nome deriva dalla parola latina pollex, pollice: a indicare il segno che si lascia sulla pasta quando la si lavora con le mani chiuse a pugno.

La ricetta è molto semplice: farina tipo 0, olio evo, sale, lievito di birra e acqua. La sua particolarità sta nella doppia lavorazione dell’impasto, prima e dopo la lievitazione, cosa che la rende particolarmente soffice: viene cotta in forno e condita in superficie con i capperi. Nelle versioni più attuali, si trova spesso aperta a metà e riempita con pomodori (i pomodori ti pendula, cioè raccolti prima della maturazione e appesi ad asciugare), olive, cipolle a fettine e acciughe. Viene spesso confusa con la pizza chena di spunzali, cioè la pizza ripiena di sponsali, che è una variante meno spessa.

 

Puddica brindisina - foto di pizzeria Al MulinoPuddica brindisina - foto di pizzeria Al Mulino

Ne esiste anche una versione dolce, tipica del periodo pasquale, che somiglia molto alle cuddhuraci calabresi: si prepara con farina, olio d’oliva, zucchero, vino bianco, sale, lievito, mentre in cima viene messo un uovo sodo.

 

Ruccolo di Gravina

Chiudiamo con una specialità tipica di Gravina di Puglia, nel cuore del Parco nazionale dell’Alta Murgia, in provincia di Bari. È chiamata anche focaccia di San Giuseppe, ma conosciuta dai più come ruoccolo, rucl o rùcchele nel dialetto locale. Viene realizzata con la pasta del pane arricchita con dell’olio extravergine d’oliva e, nella ricetta originale, riempita con gli sponsali. In alcune famiglie gravinesi, però, si utilizza anche un altro tipo di impasto, dal sapore un po’ più dolce.

Come molti prodotti dalla storia antica, la ricetta è stata modificata nel tempo: oggi per riempire il ruoccolo si usano anche sgombro o merluzzo, uva passa, acciughe, cipolle olive e altri ingredienti. Per tradizione si prepara il 19 marzo, in occasione della festa di San Giuseppe, ma non è raro trovarla anche in altri periodi dell’anno, con ripieni che variano secondo le stagioni.

 

Ricetta della focaccia barese del Panificio Adriatico di Bari

 

ingredienti

500 g di semola rimacinata di grano duro

500 g di farina di grano tenero 0

20 g di sale marino

20 g di lievito di birra

1 cucchiaino di malto d’orzo

0,60 l di acqua temperatura ambiente

1 cucchiaino olio evo bio

pomodori, origano e olive per guarnire

 

procedimento

In una ciotola unire la farina di grano tenero e la semola rimacinata, poi aggiungere il lievito e il malto d’orzo. Impastare con l’acqua a temperatura ambiente e, solo alla fine, mettere anche il sale. L’impasto deve risultare molto idratato, in base alla tipologia delle farine utilizzate, si può aggiungere più o meno acqua. Lasciare riposare l'impasto per almeno 1 ora a temperatura ambiente. Suddividerlo in pezzi da circa 300 grammi e far riposare ancora 20 minuti circa. Stendere manualmente le porzioni nelle teglie già unte con olio extravergine d’oliva e guarnirle con i pomodori, olive, sale e olio evo. Far riposare ancora per 15 minuti circa e infornare a 250 gradi per 15-20 minuti. Aggiungere l'origano.

Panificio Adriatico | Bari | via Nicola de Giosa, 113 | tel. 080 524 7463 | www.panificioadriatico.it

 

a cura di Francesca Fiore

 

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Funky Tomato 2017. Al via la campagna di acquisto del pomodoro solidale

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Sostenibile perché proveniente da filiera controllata e trasparente, perché rispetta l'ambiente e promuove il territorio. Ma soprattutto perché si impegna a redistribuire il lavoro e combattere lo sfruttamento agricolo. Riparte la campagna di acquisti di Funky Tomato, la rete diffusa di produttori di pomodoro del Sud Italia.

Il progetto

Verdura a prezzi stracciati, frutta quasi regalata. Comprare cibo a costi troppo bassi vuol dire spesso alimentare il giro dello sfruttamento dei braccianti agricoli. Un fenomeno ancora irrisolto, quello del caporalato, che continua a imperversare nelle campagne del Sud Italia e non solo. È con l'obiettivo di combatterlo che, nel 2015, nasce Funky Tomato, un'iniziativa che coinvolge migliaia di agricoltori e un centinaio di stabilimenti di trasformazione sparsi fra Puglia, Basilicata e Campania, una decina di attivisti e circa 20 ragazzi impegnati in prima linea a difendere i diritti dei lavoratori. A ideare il progetto, un gruppo di agricoltori e artisti meridionali, insieme agli organizzatori della manifestazione Fuori dal Ghetto, evento a sostegno dei migranti che apre le porte alla solidarietà nel cuore di Venosa, in provincia di Potenza. “Eravamo vicino a uno dei centri di raccolta di pomodoro più estesi d'Italia, Boleano, borgo non lontano da Venosa, quando siamo stati contattati dalla rete di Fuori dal Ghetto”, racconta Paolo Russo, agricoltore di Cerignola e uno degli ideatori di Funky Tomato. “Gli attivisti hanno chiesto a me e ai miei colleghi di ragionare sul fenomeno del caporalato, e pensare a un tipo di lavoro che garantisse maggiore sicurezza a produttori e consumatori”. E così hanno fatto, dapprima in Basilicata e in Puglia, e ora anche in Campania, “sperando di arrivare in Sicilia il prima possibile”. Funky Tomato raduna coltivatori, raccoglitori e imbottigliatori di pomodori del Sud Italia, garantendo un contratto regolare a tutti i lavoratori.

L'acquisto

Come funziona esattamente? “Abbiamo provato a destrutturare la filiera agroalimentare e siamo giunti a tre tasselli fondamentali: il produttore, alla base di tutto, il trasformatore, che ha il compito di mantenere alta la qualità della materia prima, e il distributore, che si impegna a promuoverlo”. A queste figure però, se ne aggiunge un'altra, al di fuori della filiera ma altrettanto determinante: il consumatore, “che noi chiamiamo co-produttore”, che ha il dovere di sostenere i costi economici dell'intero lavoro. “Per noi il ruolo del consumatore è essenziale, perché in questo caso paga il prodotto in anticipo”. Per acquistare i pomodori di Funky Tomato, infatti, occorre visitare il sito e pagare online, e poi attendere il 15 agosto per ricevere il prodotto scelto. La campagna di acquisto 2017 è già iniziata, e rimarrà aperta fino a ferragosto, ma chi non volesse pagare online può recarsi in una delle botteghe che hanno aderito all'iniziativa e che si impegnano a vendere i pomodori, “come Proloco Dol a Roma oppure La Terra e il Cielo di Arcevia, in provincia di Ancona”.

Il prezzo varia a seconda del prodotto, ma non è mai elevato: “Abbiamo imposto ai commercianti un prezzo limite oltre il quale non possono spingersi. Uno dei nostri principi è quello di non speculare sull'agroalimentare”. C'è la salsa di pomodorino rosso (2,00 Euro per 580 ml), il pomodorino giallo a pacchetella ( 2,15 Euro per 580 ml), il pomodoro pelato in salsa (1,90 Euro per 580 ml) e molti altri ancora. Quest'anno, per ogni acquisto verranno devoluti 10 centesimi a sostegno del film documentario che Daniele De Michele (alias Don Pasta) sta girando nei campi del Meridione. Ma ci sono anche diverse reti che si occupano di rivendere i prodotti di Funky Tomato: è il caso di RiMaflow, gruppo di ex dipendenti della fabbrica Maflow di Trezzano, chiusa nel 2012 e recuperata poco dopo. Ora è una Cittadella dell'altra economia che ospita la cooperativa impegnata nel riciclo, la quale ha dato vita, nel tempo, al progetto Casa del Mutuo Soccorso, che integra tutte le attività sociali e solidali della zona.

Alimentare la cultura

Una filiera partecipata, trasparente e multietnica: questo è Funky Tomato, che in soli tre anni è riuscito a dare lavoro a oltre 40 persone. “Nel 2015 abbiamo assunto 6 agricoltori, a cui se ne sono aggiunti altri 11 nel 2016 e fra i 30 e i 40 quest'anno”. Sono persone con un vissuto difficile, un passato da dimenticare e un futuro ancora da scrivere: “Si tratta di lavoratori che venivano sfruttati dai sistemi agricoli del Sud; non facciamo distinzione fra italiani e stranieri, cerchiamo di aiutare tutti”. Coinvolti nel progetto, poi, tanti contadini delle varie zone, perlopiù storici proprietari terrieri che hanno scelto di dare una nuova luce al proprio lavoro: “La scena agroalimentare italiana deve assumere una profondità diversa. La cultura gastronomica è molto più ampia di quanto crediamo, e abbraccia diversi settori, dall'arte alla letteratura, perché è alla base della vita pulsante di una comunità. Ignorarla significa dimenticare le proprie radici”. È sulla cultura popolare che Funky Tomato vuole fare leva, “cerchiamo di promuovere sempre cantautori, pittori, artisti di vario genere che raccontano le terre del Sud”.

www.funkytomato.it/

a cura di Michela Becchi

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