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Oli d'Italia 2017. Miglior olio biologico: Marfuga di Campello sul Clitunno

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Si è distinta come miglior azienda a regime biologico Marfuga, realtà storica della provincia di Perugia che da anni presenta oli d'eccezionale qualità. L'attività risale agli inizi dell'Ottocento, ma è dagli anni '90 che l'extravergine ha assunto per la famiglia Marfuga un altro significato.

Il biologico

Biologico. Tanti si improvvisano con questo marchio, sfruttano l’etichetta, ma non lui. Francesco Marfuga, olivicoltore umbro, da anni si impegna a rispettare il territorio, l'ambiente circostante, quella terra che dà vita a uno degli extravergini più buoni della Penisola, e lo fa lavorando con cura e passione, eliminando ogni forma di elemento dannoso e catturando così nei suoi prodotti tutto il gusto delle colline che circondano Perugia. Va infatti a lui (e all'azienda Viola di Foligno, ancora una volta in provincia di Perugia), il premio come miglior olio biologico dell'anno, per un'etichetta che si è distinta per la sua trama aromatica complessa, la sua profondità ed eleganza, che non nascondono un carattere esuberante e vivace.

 

Le origini

Francesco rappresenta la quinta generazione della famiglia Marfuga, olivicoltori fin dal 1817, e fa il suo ingresso in azienda nei primi anni '90, periodo in cui gli oli iniziano ad acquistare una luce nuova: “In passato si guardava solo alla resa, l'olio serviva per sfamare tutti ma per fortuna siamo riusciti a capire in tempo che la strada da percorrere era un'altra”. Quella della qualità, costellata di impegno e sacrifici, e tanta forza d'animo, ma soprattutto il coraggio di innovare: “Abbiamo trasferito il frantoio aziendale, che prima si trovava all'interno della casa padronale, e abbiamo creato una nuova struttura in legno”, che Francesco chiama affettuosamente “loft”. “A quei tempi era una scommessa significativa, siamo stati fra i primi a concepire il frantoio come un luogo da vivere tutto l'anno e non solo durante la raccolta. Un po' come la cantina, da visitare anche negli altri mesi”. Infatti da Marfuga ci si può andare per una visita guidata, e si ha anche la possibilità di assistere all'intero processo di lavorazione attraverso una vetrata insonorizzata.

 

La produzione

Impossibile, poi, non fare una passeggiata fra gli ulivi distribuiti su ben 40 ettari di terreno, di cui circa 28 sono quelli effettivamente produttivi, mentre la restante parte contribuisce a impreziosire il paesaggio, “ anche se, nelle annate migliori, se ci sono buoni frutti raccogliamo da tutte le piante”. Moraiolo, frantoio e leccino: sono queste le tre cultivar dell'azienda, le più rappresentative del territorio, moraiolo in primis. È infatti su quest'ultima che l'olivicoltore ha lavorato di più, ricercando e studiando tutte le caratteristiche della varietà attraverso esperimenti e confronti. “Stiamo facendo diverse ricerche sulle ultime tecniche, sia in fase di estrazione che prima, per tutto il lavoro in campo, cercando di ottenere il meglio da ogni cultivar”. Tre etichette in tutto, L'Affiorante, monocultivar di moraiolo, Trace Bio, blend di moraiolo, frantoio e leccino, e un altro blend, il Dop Umbria Colli Assisi-Spoleto. A questi tre prodotti, se ne è aggiunto quest'anno anche un quarto, La Riserva, “una produzione limitata composta per il 70% da moraiolo e per il resto da una selezione di frantoio, un olio complesso con sentori unici”.

 

Il biologico

Una coltivazione tutta a regime biologico in cui Francesco crede fortemente. “Specialmente negli ultimi anni, con tutti i cambiamenti climatici che stanno avvenendo, bisogna fare molta attenzione alla cura delle piante e monitorare ancora di più l'intero uliveto. Il biologico è una scelta che non ho intenzione di abbandonare, perché se si ha il controllo della situazione ogni malattia o parassita può essere evitata”. Per la mosca, il monitoraggio inizia da giugno, e laddove la potenzialità di attacco è superiore al 7/8% i trattamenti vengono intensificati. Come prevenzione, il produttore utilizza rame e zolfo subito dopo la potatura (manuale), “in modo da curare le ferite fatte dal taglio”. I trattamenti vengono poi ripetuti nel corso dell'anno a seconda della quantità di pioggia, “perché sono tutti idrosolubili, per questo nel caso di annate particolarmente piovose utilizziamo anche le trappole con ferormoni per evitare l'attacco di mosca”. La potatura avviene dal 20 gennaio fino alla prima settimana di aprile, mentre la raccolta comincia solitamente attorno al 10/12 ottobre. Adesso è il momento di fioritura, un po' tardiva rispetto alle altre zone d'Italia per via del clima rigido e soprattutto della forte escursione termica, “siamo attorno ai 32°C di giorno ma di notte le temperature scendono a 18”. Un momento cruciale, quello primaverile, che però sembra promettere bene: “Abbiamo tanti fiori e, se tutto va bene con il clima, si prospetta una buona annata”.

 

Il lavoro in frantoio

Dopo la raccolta le olive, contenute in celle frigorifere, passano immediatamente in frantoio, un impianto studiato su misura dall'azienda per far esprimere al meglio ogni varietà e avere una linea di etichette diversificate fra di loro per intensità, aromi e profumi. “Il frangitore è stato modificato più volte, abbiamo la possibilità di cambiare i giri e la velocità di rottura delle olive”, e poi c'è la gramola e il decanter “a due motori, un Alfa Laval X4”. Marfuga lavora a due fasi e mezzo di norma, ma sperimenta di continuo: “Abbiamo affiancato al nostro impianto anche una macchina Mori a due fasi, provando a eliminare del tutto la fase di gramolazione”, ovvero di rimescolamento della pasta delle olive, “staremo a vedere se è fattibile”. Esiste una regola? “Non esistono tempi pre-stabiliti per quanto riguarda la gramola, perché dipende da ciò che si vuole ottenere ma soprattutto dall'annata. Il mio consiglio? Non fermarsi mai al primo risultato e continuare sempre a cambiare giri, tempi, temperature, fasi di lavorazione. Altrimenti, come si può pensare di arrivare a un'innovazione?”.

Un altro elemento chiave in fase di lavorazione è la mono-pompa posta all'ingresso del decanter, “che consente di inserire una quantità più o meno ampia di pasta di olive in fase di decantazione, un parametro che va poi a modificare il prodotto finale”. Per esempio, “spesso lavoriamo con 18 quintali di pasta all'ora, ma abbiamo provato anche con 15, 12...Bisogna testare il potenziale di ogni macchinario: è come avere una Ferrari e guidare sempre a 250 all'ora, dà soddisfazione e garantisce una costanza ma non consentirà mai all'autista di scoprire il nuovo, il diverso, e di crescere”. E da bravo guidatore, Francesco si allea con colleghi, tecnici di frantoio, assaggiatori, esperti del settore ma soprattutto con gli altri membri della sua squadra per “guardare sempre avanti”.

 

Il moraiolo: la sfida del monocultivar

Fiore all'occhiello dell'azienda è l'Affiorante, monocultivar di moraiolo insignito con il premio speciale per Miglior Olio Biologico, nella guida Oli d'Italia del Gambero Rosso. Ma se oggi, nel 2017, avere un olio solamente a base di questa cultivar – che solitamente dà origine a oli intensi, amari, piccanti e con note prettamente vegetali – rientra nella norma, venti anni fa la scena olivicola nazionale era ben diversa. Francesco, infatti, è stato fra i primi produttori a vedere il potenziale della cultivar umbra per antonomasia (condivisa anche con la confinante zona della Toscana): “Quando ho cominciato a interessarmi di olio, negli anni '90, avevo solo 16 anni ma avevo già iniziato a seguire i corsi di assaggio e ad approfondire la parte chimica dell'extravergine. Il moraiolo mi era piaciuto fin dall'inizio, ma era destinato più che altro ai blend, e io non capivo il perché”. Sono tante, infatti, le qualità di questa oliva, e non solo da un punto di vista sensoriale: “Ha un livello di acidità molto bassa, dovuta al terreno roccioso e calcareo, e soprattutto è ricco di polifenoli, dopo la coratina (cultivar tipica della parte settentrionale della Puglia ndr) è la varietà con il più elevato contenuto fenolico”.

 

Ma il monocultivar di moraiolo in passato non era apprezzato, “anche perché i macchinari di una volta non davano la possibilità al frantoiano di controllare intensità, amarezza e piccantezza, per cui si ottenevano oli eccessivamente spigolosi”. Francesco ricerca da sempre l'equilibrio, anche con una varietà dall'animo così estroverso e vivace. Una sfida che col tempo “e qualche tentativo non riuscito”, il produttore riesce a vincere: “I sentori di carciofo, di erba di campo, e l'amaro e il piccante possono risultare molto eleganti. Le sensazioni di amaro e piccante sono entrambe pronunciate ma così bilanciate fra di loro che quasi si annullano”. Perché il moraiolo, quello lavorato bene, è così: esuberante, potente, marcato, talvolta eccessivo ma mai fuori posto, diretto e puntuale; indimenticabile. Come pianta, è molto resistente, “si adatta a climi freddi e richiede una tipologia di terreno piuttosto grassa, con tanta acqua”, spesso produce poco, “i nostri alberi non sono molto alti e al massimo abbiamo una decina di chilogrammi di olive a pianta. Nella zona del Sagrantino invece si arriva fino a 70/80 kg”.

 

L'assaggio e lo studio

Tanto studio e un percorso formativo che continua ancora oggi sono le chiavi vincenti di Francesco: “Sono molto legato all'Università degli Studi di Perugia e all'Aprol, in particolare al professor Maurizio Servili, che in questi anni mi ha dato una gran mano”, ma anche al nostro Giulio Scatolini, capo panel della guida Oli d'Italia del Gambero Rosso e insegnante al corso di idoneità fisiologica all'Aprol di Perugia, nonché uno dei primi assaggiatori in Italia ad aver contribuito alla diffusione della cultura dell'extravergine di qualità. “Ormai abbiamo un team ben consolidato in azienda, per cui lavoriamo in maniera autonoma, ma poi coinvolgo sempre altri esperti per un confronto, che nel nostro lavoro è essenziale”. Fondamentale è poi l'assaggio, “noi assaggiamo sempre la mattina dopo l'estrazione, prima di fare colazione, ma una volta finito degustiamo con curiosità anche le etichette di altri colleghi: un produttore non può basarsi solo sul proprio olio”.

 

La comunicazione, la vendita, la ristorazione

Tante visite guidate, incentrate sull'azienda ma pensate anche per promuovere il territorio: questo il modo in cui Francesco si impegna a comunicare il suo lavoro, “che non può prescindere dalla terra da cui tutto prende vita”. Tour rivolti a consumatori, addetti ai lavori sia italiani che stranieri, iniziative fra cui “Liscio come l'olio”, “una manifestazione itinerante organizzata insieme a gastronomie di qualità umbre, e non solo, che ha percorso diverse tappe per raccontare storia e tradizione di un luogo e delle sue specialità alimentari”. Sono sempre le gastronomie specializzate e le oleoteche a vendere gli oli di Marfuga, presenti oggi in 400 punti in tutta Italia. Ma il 50% della produzione è destinato all'estero, 24 paesi in tutto, fra cui America, Giappone, Belgio, Olanda, Danimarca, Svezia e, da poco, anche la Cina, “con cui stiamo stringendo degli accordi importanti per la Dop e l'Affiorante: i consumatori cinesi, paradossalmente, sono spesso più preparati di quelli italiani e soprattutto più pronti ad accogliere un prodotto simile”. Che è molto più di un grasso: “un ingrediente, parte integrante di un piatto: questo è l'extravergine”, ed è proprio questo il messaggio che Francesco vuole far passare ai ristoratori. “Rifornisco diversi ristoranti, alcuni anche all'estero, ma gli chef devono capire che se per la cottura può andare bene anche un solo olio, a patto che sia buono, a crudo la selezione deve essere più ampia per esaltare e valorizzare al meglio i sapori della ricetta”. Un esempio? Particolarmente azzardato “ma ben riuscito”, l'accostamento di un cuoco danese fra cioccolato fondente, fragole e moraiolo, “un mix unico di aromi e contrasti ben costruito”.

La ristorazione è un settore che deve porre maggiore attenzione all'oro verde, ma che auspichiamo possa muovere al più presto i passi corretti verso una crescita professionale inevitabile: “con tutte le eccellenze che abbiamo, sarebbe davvero un peccato”.

 

Marfuga | Campello Sul Clitunno (PG) | viale Firenze | tel. 0743 521338 | www.marfuga.it

 

a cura di Michela Becchi

 

 

 

 


Miramonti l'Altro. Il nuovo Tre Forchette in provincia di Brescia

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Un francese naturalizzato italiano che ama il risotto e non rinuncia al burro, una signora di sala, un team tutto al femminile. Questi gli ingredienti di un ristorante che ha saputo sovvertire ogni regola non scritta della ristorazione contemporanea. Sono alla guida del Miramonti l'Altro, il nuovo ristorante premiato con le Tre Forchette del Gambero Rosso.

In Italia la ristorazione pare viaggiare su un binario parallelo rispetto al resto dello Stivale, è su un vagone che supera i confini nazionali per confrontarsi con un paese immaginario, quello dell'alta cucina. Dove non ci sono concorsi e ricorsi, ma si ragiona in termini di competenze e capacità. Così, nei ristoranti, è il merito a definire il ruolo, e non il passaporto. Non è raro trovare come portabandiera della nostra migliore cucina cuochi nati oltreconfine, né italiani alle tolde di comando di grandi ristoranti internazionali (ma la fuga dei nostri talenti è comune in ogni settore). Il successo della globalizzazione (e anche della glocalizzazione) si misura a tavola, e in cucina.

Così, a tenere alta la bandiera tricolore, in Lombardia, c'è il Miramonti l'Altro - fresco Tre Forchette nella guida Milano 2018 del Gambero Rosso - la cui cucina è solidamente in mano a Philippe Léveillé. Bretone di Nantes, classe 1963, esperienze in Francia, Brasile, Montecarlo, Stati Uniti, Martinica, da 30 anni o giù di lì in Italia. E nelle cucine del Miramonti.

 

Gli anni '80

Tutto comincia sul finire degli anni '70, quando la famiglia Piscini decide di affiancare al Miramonti, aperto negli anni '50 a Caino nel bresciano, un secondo ristorante più piccolo, a Concesio. La chiamano, semplicemente, Miramonti l'Altro. È il 15 dicembre 1981, e la famiglia al completo si dedica al nuovo progetto, con mamma Mary in cucina e il figlio Mauro in sala. È lui che si appassiona alla cucina contemporanea, accumulando visite su visite nei migliori ristoranti d'Oltralpe. C'è ancora l'onda lunga della nouvelle cuisine a dettare legge e, anche in Italia, ci si prepara a un radicale cambiamento. Nel 1985 l'Altro comincia una lenta trasformazione, allontanantosi – ma mai del tutto – dalla cucina di casa Piscini, quella tradizionale bresciana ereditata da Caino, per avvicinarsi a una concezione più moderna della ristorazione. E dà una sferzata al sonnacchioso panorama locale dell'epoca.

 

L'arrivo di Léveillé 

Dopo qualche tempo – è il 1992 – dal Miramonti e da precedenti esperienze in giro per il mondo, arriva un cuoco bretone, Philippe Léveillé. “Inizia a reimpostare la cucina secondo la sua idea” spiega Daniela Piscini, oggi patronne, figlia di Mary e moglie di Philippe, sua spalla e complice (come lui stesso spiega: “è Daniela che ha la spinta giusta, se ho un piccolo successo è merito suo; è importante sentirsi protetto dalle persone che vivono con te”). Racconta:“Philippe introduce piatti di mare, lavora per qualche anno fianco a fianco con mamma” si appropria dei segreti di quella cucina e poi se ne prende carico. “Coniuga gli insegnamenti di mia madre, la cucina di tradizione, con la sua esperienza francese e internazionale”. E comincia a definirsi quella cucina così personale, fuori dalle mode, modernamente classica.

Miramoonti l'altr La vecchia salaLa sala come era prima del restyling

La sala

Ormai c'è anche Daniela, arrivata a coordinare il lavoro di sala, mentre Mauro si concentra sulla cantina (circa 900-1000 etichette che girano senza ristagno). Insieme mettono a punto quello stile così riconoscibile. Hanno classe da vendere, e anche quel calore che una grande famiglia della ristorazione sa comunicare. “Servo come preferisco essere servita: con sorriso, gentilezza, precisione” spiega“voglio che le persone passino tre ore a proprio agio come e meglio che a casa”. La cosa più importante? “Bisogna sapere interpretare il cliente, capire chi vuole chiacchierare e chi stare per fatti suoi. E muoversi di conseguenza”. A questo punto c'è tutto.

Comincia così quel percorso che porta al Miramonti l'Altro di oggi, dove la sala gestita con sicurezza da Daniela è l'altra faccia di quella cucina così perfettamente fuori dalle mode e dai circuiti. Una cucina a tutto burro, coraggiosa nella sua impostazione classica, ma ugualmente contemporanea; capace di glorificare le radici francesi in uno dei suoi prodotti più significativi.

 

Risotto con funghi e formaggi dolci

 

La cucina

Mi piace mangiare dei piatti saporiti” spiega lo chef. E se l'orientamento in questi anni è stato bandire grassi, soprattutto animali, lui - da buon bretone – il burro non l'ha mai voluto abbandonare, “sono stato tenace, perché questa è la mia cucina e la mia identità”. Alla fine ha avuto ragione lui, anche perché, spiega “il burro è lo sempre stesso, è cambiato il modo in cui si usa”. Suggellando in quel suo modo di cucinare che è anche un po' un modo di essere. In quella che chiama La mia vita al burro, suo primo - e ultimo - libro: “ho capito perché faccio il cuoco e non lo scrittore: è stata una soddisfazione e una sorpresa. Ma che fatica!”. La scrittura non è stato l'unico impegno fuori Concesio: ci sono stati anche la Tv (e chissà che non ci sia ancora?) e ben 5 anni a Hong Kong a gestire un Miramonti asiatico.

Miramoti l'altro capesante cotte al carbonePaint it black 

L'Asia

L'esperienza in Oriente si è appena conclusa, “un bellissimo periodo, una bella scuola”, ma alla scadenza del contratto ha deciso di non continuare, nonostante le richieste. Come mai? “Volevo rimanere concentrato sul Miramonti l'Altro” spiega “era giusto chiudere quel bel capitolo, ora se ne aprono degli altri, non sono uno che si ferma: mi diverte la sfida, ma quando comincia a essere facile non mi piace più tanto”. Cosa rimane di quel periodo? “Anche l'Asia fa parte del cambiamento, ho incontrato tanta gente, prodotti, tecniche, mi sono molto aperto, sono stato piacevolmente contaminato”. Spiega lo chef che lì il modo di ragionare sulla cucina è diverso. “E la mia cucina è veramente cambiata, pur mantenendo la sua identità”. Meno succulento, in termini di grassezza, a sentire Daniela. Ma un ruolo determinante l'hanno avuto le differenze tra i due paesi, non solo in cucina, ma nella gestione del ristorante, con le nuove problematiche che si incontrano e si devono affrontare. E tutto questo si riversa nella cucina.

 

I piatti

Dal 1951 al 2017, e oltre. Uno dei piatti simbolo del ristorante è quello nato nei primi anni del Miramonti, e trasportato tale quale all'Altro: il Risotto con funghi e formaggi dolci di montagna. Un marchio di famiglia che ancora oggi viene proposto, invariato. Tanto che Philippe è uno degli ambasciatori all'estero del risotto (recente la lezione all'istituto Paul Bocuse di Lione). Ma poi ci sono il Crescendo di agnello, nato intorno al 2000, le Farfalle con le frattaglie di agnello e tartufo nero

 

miramonti l'altro gelato di cremaGelato di crema

Un altro assaggio imperdibile per chi fa tappa a Concesio, oltre all'immponente carrello dei formagg, è il famosissimo gelato di crema. Ma cosa ha di tanto speciale? “Nessun segreto” spiega Daniela “non contiene conservanti e stabilizzanti, viene mantecato al momento e servito”. Preparato con una Carpigiani verticale e portato subito al tavolo. Senza passare per il freezer. Poi c'è uno degli ultimi: #volevoessereunpomodoro. Sorta di gazpacho con una tartare di gambero – un piatto senza burro - nato come boccone da aperitivo circa 2 anni fa e trasformato in piatto su suggerimento di Daniela, all'inizio del 2017. “Non ho mai capito perché ha tutto questo successo” ammette Philippe. Ma tanto basta: “i piatti che sono arrivati dopo sono stati la conseguenza di questa evoluzione”.

 

 

La brigata di cucina

La brigata di lavoro

Siamo un bellissimo team” continua Philippe“il più forte che ho avuto negli ultimi 25 anni”. E non parla solo di Arianna Gatti, 26 anni, da 3 al suo fianco: “Se non hai un team valido rimani un bravo cuoco e basta, il Miramonti l'Altro è la più bella cucina dal punto di vista umano che ho avuto. Trovare un gruppo così, con delle persone tanto professionali che amano le cose che fanno, non è da tutti i giorni”. E non è da tutti i giorni neanche un team al 90% al femminile: 9 su 11 in cucina (contando lo chef) e una proporzione simile in sala. Cosa rara nell'alta ristorazione: “sono circondato da belle donne: sono l'uomo più felice del mondo” scherza. Ma poi aggiunge serio: “Qualche volta i colleghi mi chiedono come faccia, ma non faccio nulla di più o di meno. Non capisco chi dice che questo mestiere difficilmente può essere fatto da donne. Finora non ho trovato una cosa che gli uomini possono fare e le donne no, piuttosto è il contrario. Le donne in cucina devono essere premiate”. Un organico molto giovane e molto preparato che ha una marcia in più, “sono dei caterpillar, delle piccole indemoniate”. Alla loro energia si devono idee e suggestioni, incluso quell'hashtag nel nome del piatto di gambero crudo. “È giusto che i ragazzi si sentano parte di questo progetto, anche mettendo loro il nome al piatto, ed è giusto premiarli”. AggiungeDaniela“credo sia uno dei pochi lavori in cui vige la meritocrazia”.

 

Miramonti l'altro, la nuova salaLa sala dopo il restyling

Cambiamenti, restyling ed evoluzione

In 30 anni al massimo siamo passati dal bianco all'avorio” racconta Daniela “invece lo scorso anno abbiamo cambiato tutto. Ora il Miramonti è più fresco, moderno e internazionale, credo, con tanta cura dell'illuminazione e di tutto il resto”. Rimangono le vetrate panoramiche della vitta settecentesca, ma il resto è molto diverso: “le persone hanno moto apprezzato” aggiunge lo chef. “Lavoriamo in un ambiente nuovo, è motivante”. Ma se chiedi allo chef se a questo rinnovamento degli ambienti ha corrisposto un'evoluzione della cucina, la risposta è no: “ho sempre fatto la mia cucina, senza cercare di cambiarla o seguire le mode. Se c'è stato un cambiamento è stato lento e fisiologico”. Forse conseguenza di una crescita: “Ho più di 50 anni e sono più tranquillo. Mi è sempre piaciuto cucinare e fare il mio mestiere, ma in questi ultimi anni ancora di più: ho una pace dentro, posso divertirmi e cucinare allegramente. Sono molto tranquillo”. Anche se lui, Philippe, ha sempre guardato con una certa distanza il mondo dell'alta cucina: “non mi sono mai preso troppo sul serio, faccio solo da mangiare, non sono artista o poeta, ma un artigiano del cibo. Non ho pretese di fare arte, sono solo un cuoco che cucina. Il poeta fa poesia, l'artista fa l'arte, io cucino. Non salviamo delle vite, diamo un po' di bene 2 volte al giorno, una volta che è finita si prendono i complimenti se ci sono, altrimenti si abbassa la testa”. Ma oggi a tutto questo si aggiunge un tono più ludico. E questo è significativo, come lo è l'influenza del giovane team “questo lato femminile nella mia cucina mi ha aiutato molto”. Come vede Daniela la cucina di Philippe del 2017? “Alleggerita, più colorata e fantasiosa, con piatti della sua tradizione e della sua infanzia più giocosa”.

 

 

Le Tre Forchette

Avere un riconoscimento a 20-25 anni è una cosa, a 54 lo vivi diversamente, ora so a uno stadio diverso” dice, proprio lui che con queste Tre Forchette ha una relazione altalenante, già conquistate nel 2002 e nel 2011 e poi subito sfuggite. Si è mai dato una spiegazione del perché? “No, quando arriva un premio pensi 'abbiamo lavorato duro, e abbiamo lavorato bene.' Ma non sono mai riuscito a capire perché l'abbiamo perse, forse serviva un cambiamento. In ogni caso ci sarà sempre chi è contento e chi non lo è. Però con le guide bisogna stare al gioco, sia se perdi che se vinci, troppo facile accettare solo i premi”. Ma quest'anno la cosa più bella è stata vedere tutto il gruppo emozionato e felice per questo riconoscimento. “Arianna si è commossa, ed è stato bellissimo. Ho pensato che non ho sbagliato: ho scelto la persona giusta. È un cavallo di razza” e aggiunge: “diventerà qualcuno di importante nella cucina italiana”. E lui, invece? “Il 2018 sarà pieno di sorprese, mi avrete ancora per un bel po' in Italia” e aggiunge, riflettendo“arrivano sempre nuovi lupetti, i giovani chef, e io sono felice dei capelli grigi, sono un leone, hogrinta da vendere”. Mai pensato di aprire un Miramonti in Francia? “Non se ne parla! Sono felice qui”.

 

Miramonti l'altro | Concesio (BS) | via Crosette, 34 | tel. 030 2751063 | www.miramontilaltro.it

Guida Milano 2018 Gambero Rosso | Prezzo: 10€ | pagg. 288 |disponibile in edicola e libreria | clicca qui per acquistare la guida online

a cura di Antonella De Santis

 

Com Saigon, il ristorante vietnamita con sala da tè di Firenze

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Un locale tutto al femminile nella centrale via dell’Agnolo a Firenze. È Com Saigon, il primo ristorante vietnamita dotato di sala da tè nel capoluogo toscano, un progetto nato grazie alla collaborazione con l'Associazione degli chef di Ho Chi Minh city.

Un angolo di Vietnam a Firenze

“Com” vuol dire riso. Ma vuol dire anche pasto. In effetti, nella cucina vietnamita, non c’è una vera e propria distinzione fra il prodotto e l’atto del mangiare, dati gli antichi trascorsi dei vietnamiti con questo prezioso alimento. E il riso, insieme ad altri ingredienti portanti della cultura gastronomica del Vietnam, sarà il protagonista di Com Saigon, locale da poco inaugurato nella culla del Rinascimento.

In cucina 3 cuoche vietnamite da tempo residenti in Italia, in sala una professionista italiana: è questa la formula di Com Saigon, aperto anche grazie alla collaborazione con l’Associazione degli chef di Ho Chi Minh city, che ha inviato a Firenze una delle tre cuoche (Madame Suong, nome di spicco della scena gastronomica in Vietnam) per una formazione approfondita allo staff. “Quella vietnamita non è solo una gastronomia esotica ancora abbastanza sconosciuta a Firenze” ha raccontatodurante l’inaugurazione Nguyen Thi Thuy Lan, amministratrice unica di Com Saigon e una delle tre cuoche in cucina, “ma si tratta di una cucina con principi specifici, che seguono gli antichi criteri sapienziali dello Yin e dello Yang. In pratica, una cucina dell'equilibrio che impone di ricercare in ogni piatto il contraltare ‘freddo’ di ogni ingrediente ‘caldo’ e viceversa”.

Lo spazio richiama il minimalismo raffinato dei ristoranti vietnamiti: all’interno sono due le cucine, una delle quali a vista all’ingresso, per consentire a chiunque di ammirare la preparazione di alcuni piatti tradizionali e la maestria delle cuoche.

 

Il menu di Com Saigon e il rito del tè

Ma cosa mangeranno gli avventori di Com Saigon a Firenze? Il menu è una sorta di vetrina della tradizione vietnamita, con ricette che arrivano da diverse zone del paese asiatico. Dalla cucina interna arriverà il phõ, una zuppa originaria del nord del Vietnam, con oltre 20 ingredienti necessari solo per il brodo di manzo, che viene poi arricchito da spaghetti di riso, carpaccio di manzo a pezzettini e verdure. Altro piatto simbolo presente in carta è il banh cuon: sottili sfoglie di pasta di riso cotta al vapore, con un ripieno di funghi e carne. Non mancheranno i celebri involtini, sempre con la sfoglia di riso ripiena di pesce, verdure o carne. Dal sud del Paese arriva invece il banh xeo: una crêpe a base di farina di riso, latte di cocco e curcuma, con dentro pesce, carne e germogli di soia.

La cucina a vista all’ingresso sarà invece dedicata alla preparazione di finger food, in modo da consentire a coloro che hanno poco tempo a disposizione di fare comunque una veloce pausa golosa a prezzi più accessibili. E anche per cenare in modo tradizionale la spesa media si aggira intorno ai 30 euro.

Ma non finisce qui: per familiarizzare con la cucina e con i riti della gastronomia vietnamita, sul retro del ristorante è stata allestita una sala da tè. Qui ogni giovedì, venerdì e sabato pomeriggio si potranno assaggiare le diverse miscele proposte - dal tè al ginger al tè al riso rosso tostato - abbinati ai dolci della pasticceria tradizionale.

 

Com Saigon | Firenze | via dell'Agnolo, 93r | tel. 055 263 8648

 

a cura di Francesca Fiore

 

 

 

 

GrowNyc e i Greenmarket di New York. Che cosa sono e come funzionano

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Un bell'esempio di democratizzazione del cibo sano. Sono i 52 Greenmarket, distribuiti nei 5 distretti di New York, che quotidianamente garantiscono frutta e verdura locale a tutti i newyorkesi. Ci racconta il progetto il Direttore Michael Hurwitz.

L'accesso al cibo sano è il problema di questo emisfero, dove sono rare, rispetto al sud del mondo, le problematiche legate alla sicurezza e all'insufficienza alimentare (così come le analizza la FAO). La continua tensione tra il modello McDonald's e la riscoperta del cibo genuino, territoriale ed etico rappresenta senza troppi giri di parole il gap tra la fascia sociale più benestante e quella meno abbiente. Un assunto che non riguarda solo la nostra contemporaneità: da sempre le differenze sociali si evidenziano anche attraverso il cibo, che rappresenta un elemento di distinzione prioritario. Prima era la quantità, poi il discrimen si è spostato nell'ambito della qualità: il mangiare vivande più raffinate (e di maggiore qualità) è diventato col tempo caratteristica dei potenti.

I Greenmarket a New York

In un contesto in cui c'è una palese e palesata relazione tra cibo e status sociale è importante raccontare progetti e iniziative volte a garantire a tutti l'accesso al cibo sano. A maggior ragione se queste arrivano dagli Stati Uniti, il paese che ha fatto da apripista nel ballo a coppie obesità/povertà. Il progetto dell'organizzazione no profit GrowNYC, che coinvolge per ora solo New York, si chiama Greenmarket e ha una duplice funzione: “Fin dalla sua nascita, nel 1976, il Greenmarket vuole promuovere l'agricoltura regionale fornendo alle piccole aziende familiari l'opportunità di vendere i propri prodotti direttamente ai consumatori”, spiega Michael Hurwitz, Direttore di Greenmarket, “il secondo obiettivo è assicurare a tutti i newyorkesi l'accesso a cibi freschi e locali”. Ciò che era iniziato con una manciata di aziende agricole familiari, oggi conta 230 realtà dislocate in più di cinquanta mercati a Manhattan, Brooklyn, Queens, Bronx e Staten Island. “Grazie a questi mercati i cittadini possono comprare prodotti agricoli freschi a prezzi contenuti e gli agricoltori hanno la possibilità di vendere in sedi non tradizionali, penso ai parcheggi o ai marciapiedi che abbiamo adibito a Greenmarket, con investimenti relativamente bassi. Questo ha fatto sì che riuscissimo a portare cibo di qualità anche in quartieri come il Bronx”.

Il contesto storico

La nascita dei Greenmarket è avvenuta in un periodo storico ben determinato: gli anni '70, anni in cui vennero avviati molti programmi di assistenza, per esempio i cosiddetti "Food Stamps", emessi dal governo federale per aiutare le famiglie povere. Quegli stessi anni caratterizzati da alcuni tentativi di andare oltre la cultura dominante, come ci racconta Fabio Parasecoli, professore associato e coordinatore di Food Studies presso The New School a New York: “questo progetto si può inserire tranquillamente nell'ambito della controcultura, volta a creare delle situazioni alternative alla grossa distribuzione”. Obiettivo raggiunto: “Oggi i Greenmarket non risentono assolutamente delle catene di organic food, e non solo per una questione di risparmio, ma anche perché i newyorkesi amano il contatto diretto con il contadino che ha dato vita al cibo che stanno comprando. Anche se spesso i front man dei banchetti non sono coloro che hanno sudato concimando o arando i campi, ma rappresentano più semplicemente i proprietari delle aziende agricole. Questo però non diciamolo!”.

Il Farmers Market Nutrition Program

GrowNYC, tra le altre cose, organizza anche dei corsi di formazione su come riciclare in maniera corretta e si occupa della valorizzazione dei giardini pubblici. Lo fa grazie all'impegno dei volontari e al finanziamento federale. Il quale sostiene anche il programma Farmers Market Nutrition Program che “da una parte incentiva i meno abbienti a comprare frutta e verdura locali, dall'altra” sottolinea Michael Hurwitz “aumenta i ricavi degli agricoltori locali e fa sì che si sviluppino i mercati anche in quartieri difficili, trasformando gli spazi e portando una ventata di aria fresca”. In che consiste? “C'è un accordo con il governo per cui i punti all'interno delle SNAP (carte di credito destinate ai meno abbienti dove, ogni mese. il comune eroga dei punti che rappresentano soldi virtuali) nei nostri mercati valgono il doppio, proprio per incentivare l'acquisto di prodotti sani”. Ecco perché gli avventori dei Greenmarket non si possono catalogare. “Non esiste un tipico acquirente, da noi vengono dagli chef dei migliori ristoranti alle famiglie”. Un bell'esempio di frutta e verdura democratiche.

 

www.grownyc.org/greenmarket

 

a cura di Annalisa Zordan

 

 

 

Il boom della frutta tropicale. Non solo avocado, agli italiani piacciono ananas e papaye. E le mele che fine fanno?

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Mentre nel 2017 i consumi di frutta e verdura raggiungono livelli incoraggianti, il mercato italiano sembra sempre più ben disposto nei confronti di prodotti in arrivo da lontano, ammantati dal fascino esotico: la frutta tropicale è vantaggiosa per chi importa, ma come reagisce l’ortofrutta nazionale? Si ingegna. 

Più frutta e verdura in tavola

Partiamo da un dato confortante, emerso appena un mese fa in occasione della fiera milanese TuttoFood: in Italia – lo dice Coldiretti – aumenta il consumo di frutta e verdura procapite. Il periodo di riferimento è il primo bimestre del 2017, quando buona parte del paniere ortofrutticolo ha fatto registrare un’impennata nelle vendite. I più amati? Il radicchio, e poi kiwi, patate, pomodori e carciofi. Nel complesso il trend di settore incassa un +4% rispetto al 2016: per eguagliare il record bisogna tornare indietro nel tempo al 2000. E a beneficiarne, secondo la ricerca in questione, sono anche le esportazioni made in Italy, con un andamento positivo per tutto il mercato ortofrutticolo, soprattutto alla volta di nuove piazze internazionali, come la Cina, che da noi acquista mele e pere, e il Giappone, ghiotto di kiwi (di cui l’Italia è uno dei principali produttori nel mondo). Di contro, come evidenzia un’inchiesta recentemente pubblicata da Repubblica Economia, c’è da parlare del gusto per l’esotico che si fa largo sulle tavole di casa nostra, e a quanto pare non solo in merito all’avocadomania esplosa negli ultimi mesi (tra l’altro ricordiamo che anche l’Italia, la Sicilia soprattutto, produce avocado, e di qualità).

 

Tutti pazzi per la frutta tropicale

Insomma, i dati di consumo degli ultimi 3 o 4 anni raccontano di preferenze sempre più sbilanciate a favore di ananas, banane, manghi – e avocado, certo, con un +37% nelle vendite ad aprile 2017 rispetto all’analogo periodo nel 2016 – rispetto alla frutta di casa nostra, arance, mele, pere. Così mentre il valore dell’export ortofrutticolo cresce (oggi vale 4,8 miliardi), il mercato delle importazioni esotiche arriva a valere 650 milioni di euro all’anno. Perché? Le ragioni sono svariate, a partire dalla moda della frutta tropicale – già ampiamente diffusa in Europa, e ora conclamata anche nel nostro Paese - per arrivare all’efficacia della comunicazione, e soprattutto al miglioramento delle condizioni logistiche, con costi di trasporto molto più vantaggiosi che in passato, anche quando si tratta di far arrivare la frutta dall’altra parte del mondo. Che ora, sempre più spesso, viaggia in aereo, e in 3-4 giorni finisce sui banchi dei supermercati, con vantaggi evidenti in termini di gusto e qualità. Chiaro che i costi restano alti, e infatti il settore garantisce margini di profitto importanti per chi decide di commerciare in frutta tropicale.

 

Il valore di manghi e papaye

Un altro fattore che sicuramente determina l’andamento di mercato: se c’è un vantaggio economico così netto, perché dovrei preferire commerciare in albicocche o pere rispetto ad ananas e cocchi? Ecco perché il registro di cassa parla chiaro: negli ultimi 12 mesi gli italiani hanno consumato 75 milioni di euro di ananas, 23 milioni di avocado e 22 di mango (nonostante costino 7 euro al chilo!), quasi 10 milioni di euro di papaye, che schizzano nelle preferenze al +83%.

 

La risposta del mercato nazionale

E l’Italia ortofrutticola che fa? Ferme restando le colture tradizionali, esplora nuovi segmenti di mercati in grado di ingolosire il consumatore, per esempio i frutti di bosco, che piacciono e assicurano un buon margine di guadagno. Se non può essere esotico, almeno che sia insolito. E poi c’è la scudo della qualità, quella che si riconosce e molte produzioni tipiche italiane e continua a mantenere vivo l’interesse dei mercati europei e internazionali. Così, mentre noi mangiamo papaye, dall’altra parte del mondo non vedono l’ora di ricevere una cassa di arance siciliane. 

 

a cura di Livia Montagnoli

Food Film Fest. Cinema e cibo a Bergamo con 34 finalisti per il titolo di miglio pellicola gastronomica

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Quarta edizione per la rassegna cinematografica aperta alle produzioni di tutto il mondo, purché dedicate al cibo e alla cultura alimentare, tra reportage di viaggio, documentari impegnati e film d'animazione. Appuntamento dal 13 al 18 giugno, ecco chi c'è. 

Cinema e cibo

Una nuova edizione, la quarta, per il festival del cinema gastronomico che ha trovato casa a Bergamo (e quest'anno entra di diritto nel calendario di Ea(s)t Lombardy) grazie all'impegno dell'Associazione Montagna Italia, con il patrocinio della Camera di Commercio della città. Una rassegna che ha preso coraggio un anno dopo l'altro, forte di una partecipazione sempre più numerosa, di pubblico, ma soprattutto di candidati: 550 sono le pellicole inviate nei mesi scorsi agli organizzatori  del Food Film Fest, 34 i finalisti selezionati per contendersi le palme del 2017. Le tematiche sono le stesse – cibo, cultura e sostenibilità alimentare – come gli spazi della città che ospiteranno proiezioni e appuntamenti collaterali in calendario, dal Quadriportico del Sentierone alla Domus di piazza Dante, alla Città Alta, per una sei giorni – dal 13 al 18 giugno – che coinvolge Bergamo nei suoi luoghi più significativi. E le pellicole (corti, lungometraggi e documentari) arrivano da tutto il mondo: domenica 18 giugno, alle 20.45, saranno consegnati i premi per le categorie Documentari, Animazione e Fiction. La giuria di qualità è diretta da Luca Cavadini, e riunisce Enrico Radicchi di Slow Food, Ivan Bonomi di Coldiretti Bergamo, Alberto Lupini di Italia a Tavola e Alberto Contri di Pubblicità Progresso, ma le proiezioni, pomeridiane e serali, saranno aperte al pubblico, soprattutto perché la sensibilizzazione sulle tematiche trattate è sin dall'inizio uno degli obiettivi dichiarati del festival. E allora più se ne parla, meglio è.

Temi e protagonisti

Cominciando dagli argomenti protagonisti sul grando schermo:arte culinaria, corretta nutrizione e produzione di cibo, biodiversità e memoria gastronomica come patrimonio collettivo da preservare.Nel 2017, alle tre categorie degli anni passati si aggiunge la sezione East Lombardy, per pellicole dedicate a produzioni, aziende, culture, filiere e paesaggi della Lombardia Orientale, purché prodotti, come gli altri film in concorso, dopo il 1 gennaio 2012. Tra i candidati alla vittoria si segnalano diverse produzioni italiane, tra racconti su produzioni e culture tradizionali (Il pane della Sardegna di Davide Mocci, Così Mangiavano di Giancarlo Rolandi per ripercorrere la storia d'Italia dal Dopoguerra alla televisione del cibo, Vitigliano di Pier Paolo Battocchio) e reportage di viaggio (Lo street food in Lang Prabang, di Lucia Ferrario), ma anche documentari impegnati come Ecosea Documentary – il mare è quello Adriatico -di Pierdomenico Mongelli, e Report: falsi miti a tavola di Stefania Rimini.

 

Ma le nazionalità in concorso sono tra le più disparate, dall'Iran (uno dei Paesi più rappresentati) di Blessing, The Gentle Giant- la storia di anziano agricoltore che distrugge i formicai che minacciano la sua produzione di grano: se ne pentirà? - e Watermelon alla Turchia di Life is Beautiful, alla Spagna ammiccante di Croissant (“due sconosciuti nello stesso letto: il modo migliore per iniziare una nuova relazione comincia dalla colazione” recita la sinossi);mentre arrivano da oltreoceano la storia di un gangster alle prese con la sua intolleranza al glutine (The Curse of Don Scarducci) il documentario statunitense Food City e il canadese Kitchen – la storia di una famiglia siriana immigrata, nella cucina del suo ristorante di Montreal -oltre alla produzione USA di Caviar Dreams, tutto sul caviale dalle corti più prestigiose del mondo alla moda che l'ha reso uno status symbol. E poi ancora Coffee Time dalla Slovenia (la storia del caffè attraverso la varietà degli stili), Hummus da Israele e un curioso Garcon! dalla Francia, che onora anche la categoria animazione con la piccola ape di Blue Honey, allergica al polline per ironia della sorte. Dall'India invece arriva Shank's, la storia vera di un cuoco indiano che fuori dal suo Paese cerca di valorizzare le sue tradizioni gastronomiche: ci riuscirà con l'aiuto della moglie francese. Tra gli appuntamenti collaterali si segnala il menu servito in piazza Dante dai ragazzi dell'Istituto Alberghiero di Bergamo: quattro portate ispirate ad altrettante pellicole finaliste. E poi degustazioni, assaggi, laboratori per grandi e bambini.  

Food Film Fest | Bergamo | dal 13 al 18 giugno | www.foodfilmfestbergamo.com

 

a cura di Livia Montagnoli

Food Film Fest. Cinema e cibo a Bergamo con 34 finalisti per il titolo di miglior pellicola gastronomica

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Quarta edizione per la rassegna cinematografica aperta alle produzioni di tutto il mondo, purché dedicate al cibo e alla cultura alimentare, tra reportage di viaggio, documentari impegnati e film d'animazione. Appuntamento dal 13 al 18 giugno, ecco chi c'è. 

Cinema e cibo

Una nuova edizione, la quarta, per il festival del cinema gastronomico che ha trovato casa a Bergamo (e quest'anno entra di diritto nel calendario di Ea(s)t Lombardy) grazie all'impegno dell'Associazione Montagna Italia, con il patrocinio della Camera di Commercio della città. Una rassegna che ha preso coraggio un anno dopo l'altro, forte di una partecipazione sempre più numerosa, di pubblico, ma soprattutto di candidati: 550 sono le pellicole inviate nei mesi scorsi agli organizzatori  del Food Film Fest, 34 i finalisti selezionati per contendersi le palme del 2017. Le tematiche sono le stesse – cibo, cultura e sostenibilità alimentare – come gli spazi della città che ospiteranno proiezioni e appuntamenti collaterali in calendario, dal Quadriportico del Sentierone alla Domus di piazza Dante, alla Città Alta, per una sei giorni – dal 13 al 18 giugno – che coinvolge Bergamo nei suoi luoghi più significativi. E le pellicole (corti, lungometraggi e documentari) arrivano da tutto il mondo: domenica 18 giugno, alle 20.45, saranno consegnati i premi per le categorie Documentari, Animazione e Fiction. La giuria di qualità è diretta da Luca Cavadini, e riunisce Enrico Radicchi di Slow Food, Ivan Bonomi di Coldiretti Bergamo, Alberto Lupini di Italia a Tavola e Alberto Contri di Pubblicità Progresso, ma le proiezioni, pomeridiane e serali, saranno aperte al pubblico, soprattutto perché la sensibilizzazione sulle tematiche trattate è sin dall'inizio uno degli obiettivi dichiarati del festival. E allora più se ne parla, meglio è.

Temi e protagonisti

Cominciando dagli argomenti protagonisti sul grando schermo:arte culinaria, corretta nutrizione e produzione di cibo, biodiversità e memoria gastronomica come patrimonio collettivo da preservare.Nel 2017, alle tre categorie degli anni passati si aggiunge la sezione East Lombardy, per pellicole dedicate a produzioni, aziende, culture, filiere e paesaggi della Lombardia Orientale, purché prodotti, come gli altri film in concorso, dopo il 1 gennaio 2012. Tra i candidati alla vittoria si segnalano diverse produzioni italiane, tra racconti su produzioni e culture tradizionali (Il pane della Sardegna di Davide Mocci, Così Mangiavano di Giancarlo Rolandi per ripercorrere la storia d'Italia dal Dopoguerra alla televisione del cibo, Vitigliano di Pier Paolo Battocchio) e reportage di viaggio (Lo street food in Lang Prabang, di Lucia Ferrario), ma anche documentari impegnati come Ecosea Documentary – il mare è quello Adriatico -di Pierdomenico Mongelli, e Report: falsi miti a tavola di Stefania Rimini.

 

Ma le nazionalità in concorso sono tra le più disparate, dall'Iran (uno dei Paesi più rappresentati) di Blessing, The Gentle Giant- la storia di anziano agricoltore che distrugge i formicai che minacciano la sua produzione di grano: se ne pentirà? - e Watermelon alla Turchia di Life is Beautiful, alla Spagna ammiccante di Croissant (“due sconosciuti nello stesso letto: il modo migliore per iniziare una nuova relazione comincia dalla colazione” recita la sinossi);mentre arrivano da oltreoceano la storia di un gangster alle prese con la sua intolleranza al glutine (The Curse of Don Scarducci) il documentario statunitense Food City e il canadese Kitchen – la storia di una famiglia siriana immigrata, nella cucina del suo ristorante di Montreal -oltre alla produzione USA di Caviar Dreams, tutto sul caviale dalle corti più prestigiose del mondo alla moda che l'ha reso uno status symbol. E poi ancora Coffee Time dalla Slovenia (la storia del caffè attraverso la varietà degli stili), Hummus da Israele e un curioso Garcon! dalla Francia, che onora anche la categoria animazione con la piccola ape di Blue Honey, allergica al polline per ironia della sorte. Dall'India invece arriva Shank's, la storia vera di un cuoco indiano che fuori dal suo Paese cerca di valorizzare le sue tradizioni gastronomiche: ci riuscirà con l'aiuto della moglie francese. Tra gli appuntamenti collaterali si segnala il menu servito in piazza Dante dai ragazzi dell'Istituto Alberghiero di Bergamo: quattro portate ispirate ad altrettante pellicole finaliste. E poi degustazioni, assaggi, laboratori per grandi e bambini.  

Food Film Fest | Bergamo | dal 13 al 18 giugno | www.foodfilmfestbergamo.com

 

a cura di Livia Montagnoli

Rosati. Luci e ombre di un fenomeno in crescita

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Mentre a Lecce è di scena Rosèxpo, facciamo il punto sullo stato dell'arte del comparto vini rosati: cresce il mercato mondiale con l'Italia secondo esportatore, ma il Belpaese si porta dietro ritardi e criticità. Adesso, però, i produttori ci credono: ecco le strategie messe in atto dai consorzi.

I consumi mondiali

È una lenta ma inesorabile progressione quella di consumi, produzione e scambi di vini rosati a livello mondiale. Tendenza che si sta consolidando e assume le sembianze di un treno da non perdere, un territorio in parte inesplorato che offre spazi di manovra per quelle imprese che vogliono intercettare i consumatori del futuro, attenti alle nuove proposte.

Nel mondo, oggi, è rosé più di una bottiglia su dieci tra quelle consumate, per un totale di 23,4 milioni di ettolitri, in aumento del 30% rispetto a quindici anni fa e del 4% in un anno, tra 2014 e 2015. Francia, Stati Uniti, Germania, Regno Unito, Italia e Spagna ne consumano oltre il 70%; e nuovi mercati stanno registrando progressioni importanti, come Svezia, Repubblica Ceca, Slovacchia, Hong Kong. Il segmento dei rosati cresce a fronte di uno stallo del consumo dei vini fermi nel loro complesso ed è sempre più a vocazione internazionale: la quota dei rosati che prima di venire consumati hanno attraversato una frontiera è salita al 38% rispetto al 25% del 2004.

 

Produzione ed export

L'Europa resta il continente con il più alto consumo e anche la più alta produzione, pari a 23,6 milioni di ettolitri nel 2015 (+3% sul 2014 e +18% sul 2002). Quattro Paesi sfornano il 75% di tutto il vino rosato, che da questo punto di vista resta un affare prevalentemente europeo. La Francia, secondo le cifre dell'Osservatorio economico mondiale dei rosati (Civp, France Agrimer e Abso Conseil), detiene il 31% della produzione con 7,3 mln/hl, la Spagna il 20%, gli Stati Uniti il 15%, l'Italia il 9% (2,1 mln di hl), mentre si stanno affermando su questo comparto il Sud Africa (4%), l'Argentina (2%) e il Cile (2%). L'Italia, in particolare, è l'unico paese in cui i volumi prodotti sono in netto calo dal 2010, anno in cui si superarono i 5 milioni di ettolitri. L'uscita progressiva dal mercato dei vini di gamma più bassa ha determinato la perdita di quote nel ranking mondiale. Da quest'anno l'Italia è stata, infatti, superata dalla Francia, anche se di poco, come secondo esportatore in volume di rosati, in una classifica che vede la Spagna in testa (40%). Se, invece, si considerano i valori, l'Italia fa bene, conquistando la seconda posizione e passando dal 15% al 22% delle quote. Supera, così, una Spagna che è scesa dal 20% al 15%, a sua volta dietro agli Stati Uniti che passano dal 14% al 17%. La Francia, col 32% delle quote (in calo di un punto), resta leader incontrastata.

I rosati in Italia

L'Italia attraversa un momento delicato. I produttori, consapevoli che non si può vincere la battaglia sui volumi contro la Spagna, stanno investendo sul miglioramento qualitativo dei prodotti e sulla valorizzazione delle varietà locali. Il nostro Paese esporta mediamente metà del rosato prodotto, il resto (un milione di ettolitri) lo consuma all'interno dei suoi confini (il 4% del totale mondiale). Una buona parte passa per la grande distribuzione organizzata, che veicola quasi due terzi del vino, anche se la gamma di etichette è limitata prevalentemente ad alcune grandi referenze. Ad aprile 2017, su base annua, secondo i dati Iri per Tre Bicchieri, le vendite di rosato (nel formato in bottiglia da 0,75) risultano in crescita dell'1,3% a volumi, per un corrispettivo di spesa che aumenta del 3% (51,2 milioni di euro). Se si guarda alla tipologia spumante i dati, come è lecito attendersi, sono lusinghieri: +10,3% in volume e +7,4% in valore (a 11,5 milioni di euro).

Virgilio Romano, client solutions director di IRI, legge così il momento della categoria: “L'impressione è che in Gdo il vino rosato viaggi un po' per forza di inerzia, trascinato in qualche modo dall'intera categoria del vino in bottiglia, che fa registrare una positiva crescita del 3,2% a volume e del 5,2% a valore in un anno.È un segmento da cui ci si potrebbe aspettare di meglio, dal momento che stiamo parlando di una vino capace di interpretare bene le mode e suscitare curiosità nei consumatori. Tuttavia, non si intravede alcuna forza che gli permetta di ottenere una spinta in più”. La forza di cui parla Romano è quella che deriva dal marketing, dall'informazione al consumatore, da una strategia di promozione dedicata. La mancanza di una volontà politica e di un disegno più ampio, a livello nazionale, si fa sentire anche nell'assenza di dati statistici puntuali che sui rosati consentano di tracciare la produzione, le esportazioni e il consumo nel settore Horeca. Fino a Expo 2015, l'Italia poteva vantare anche un concorso nazionale dedicato, che però non si tiene da due anni.

 

Il sistema italiano in fermento

Malgrado questi punti deboli da un punto di vista strutturale, attorno alla categoria si nota un certo fermento. Il mercato sta lanciando dei segnali da cogliere. Ad esempio, al recente Pink rosé festival di Cannes, un sondaggio interno ha rilevato che i vini italiani sono stati i più richiesti assieme a quelli francesi. I buyer presenti hanno anche chiesto che all'edizione del febbraio 2018 ci sia un maggior numero di cantine italiane.

Sul fronte interno, le tre macro aree di produzione dei rosati italiani (Garda, Abruzzo e Puglia) si stanno muovendo per provare a fare il salto. Dopo il buon esito del primo Festival Sorrento rosé di metà maggio (organizzato dalle Donne del vino), il decennale di Italia in rosa, manifestazione del Consorzio Valtènesi sulla sponda bresciana del Garda, si è chiuso il 2 giugno con 8 mila presenze (4 mila biglietti staccati): numeri oltre le aspettative. Il Consorzio, che con la vendemmia 2017 inaugura la nuova denominazione Riviera del Garda classico, ha scelto di valorizzare l'appellazione Valtènesi, anche per il Chiaretto. Oggi, questo rosato a base Groppello conta 2,3 milioni di bottiglie e il dato è in crescita costante tra 5% e 10%. Il presidente del Consorzio Valtènesi, Alessandro Luzzago, guarda avanti: “Dal Garda deve partire una chiamata a raccolta delle zone italiane che hanno storicità, tradizione, vitigni autoctoni con peculiarità da spendere. L'Italia ha bisogno di creare un grande gruppo che traini la crescita dei rosati. Un'idea potrebbe essere la creazione di un'associazione di secondo livello che metta assieme i territori”. Intanto, Valtènesi e Bardolino hanno iniziato a dialogare e i primi risultati sono arrivati: “Nella primavera 2018 è molto probabile che uniremo le forze” dice Luzzago “per far conoscere i chiaretti del Garda in un grande evento congiunto”. Il presidente del Consorzio del Bardolino, Franco Cristoforetti, conferma la volontà di unire le forze e annuncia importanti modifiche alla Doc Bardolino, che potrebbe chiudere il 2017 sopra quota 10 milioni di bottiglie: “Se in generale l'Italia non sembra avere fiducia nei suoi rosati, i nostri produttori credono nella loro importanza. Al punto che rivedremo i disciplinari ed entro l'autunno chiederemo al Mipaaf la creazione della nuova Doc Chiaretto di Bardolino, che speriamo di poter utilizzare nella vendemmia 2018”. Passaggio importante che porterà con sé l'assegnazione di vigneti dedicati a queste produzioni.

 

Roséxpo e la produzione pugliese

Lo fanno da tempo molte aziende riunite nell'associazione deGusto Salento, che organizza per il quarto anno la kermesse Roséxpo appena iniziata a Lecce. Una tre giorni (dall'8 al 10 giugno) ricca di degustazioni, convegni, mostre e seminari al Castello Carlo V.

La presidente Ilaria Donateo punta il dito sulla quasi totale assenza dei rosati nelle carte dei ristoranti, tema al centro del convegno di apertura di Roséxpo (“Rosati italiani: come migliorare l’offerta in sala e in enoteca”): “La tipologia è un po' bistrattata. I primi a non crederci sono enotecari e ristoratori. Ecco perchéoccorre agire sul fronte della comunicazione: il rosato è un vino che può essere usato sulla gastronomia di tutta Italia, ma va destagionalizzato, non possiamo consumarlo solo da maggio a settembre. Basti pensare che in Francia, secondo uno studio sui consumi, si acquista di più nel periodo di Natale. In realtà, l'Italia con i suoi autoctoni e la grande varietà espressa potrebbe essere portabandiera dei rosati nel mondo”.

La Puglia su questo tema sta lavorando in maniera precisa, investendo in mercati come gli Usa molto ben disposti alle novità di prodotti. Lo sa bene Lucia Nettis, direttrice dell'associazione Puglia in Rosé, che proprio a New York, da giugno, ha una sede operativa: “Nonostante gli Usa siano un mercato importante per i rosé italiani, ci sono aree di consumo come la Florida dove ad esempio quelli pugliesi non sono presenti. Pensiamo che la Total wine & more, importante catena di distributori, non possiede i nostri rosati. Questo per dire che c'è molto da fare sulla promozione. Noi lavoriamo con Ice e Camera di commercio Italo-Americana. E tra gli obiettivi abbiamo l'inserimento dei vini nelle carte dei ristoranti dei club privati newyorchesi. Inoltre, partecipiamo ai grandi eventi, fondamentali negli Usa per avere la giusta visibilità”.

 

Roséxpo | Lecce | Castello Carlo V | dall'8 al 10 giugno2017 | http://rosexpo.it/

 

a cura di Gianluca Atzeni

 

Questo articolo è uscito sul nostro settimanale Tre Bicchieri dell'8 giugno

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Barr prende il posto del Noma. La nuova cucina conviviale di Redzepi e Schmidt a Copenhagen

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Una tavola classica, che valorizzi le ricette familiari dei Paesi del Nord in uno spazio piacevole da condividere con la famiglia e gli amici. Cambia tutto al civico 93 di Strangade, che fino allo scorso febbraio ospitava il Noma. E l'idea arriva proprio da Redzepi, in società con Thorsten Schmidt. 

Chiuso il Noma, arriva Barr

Cari amici, per anni abbiamo parlato con Renè di creare un nuovo format di ristorazione a Copenhagen. Cercavamo lo spazio perfetto, e finalmente l'abbiamo trovato, in casa del Noma, sul lungomare simbolo della città”. Chi scrive è Thorsten Schmidt, nuovo socio in affari di Renè Redzepi. E, proprio dove qualche mese fa si celebrava l'ultimo atto del Noma come l'abbiamo sempre conosciuto, nascerà Barr. Per scoprire di cosa si tratta, e accomodarsi alla tavola di quello che “non sarà l'ennesimo Nordic restaurant”, sarà sufficiente aspettare ancora qualche settimana: l'inaugurazione è prevista per il 5 luglio. E pensare che uno spazio iconico come quello di Strangade 93, che per anni si è nutrito del vissuto di tante persone, custodendo l'energia di un'esperienza gastronomica che resterà indimenticata (al pari di poche altre nella storia dell'alta cucina), possa tornare ancora una volta a vivere, seppur in veste completamente nuova, ci sembra il destino più giusto. D'altronde, se con slancio romantico volessimo ammettere che le mura di un edificio sono in grado di conservare la storia del luogo, e di chi gli ha dato un significato, l'idea di restituire lo spazio del Noma alla città non potrebbe che essere vincente.

Come il collega e amico Renè, Thorsten Schimdt è uno dei più celebrati rappresentanti della cucina d'autore danese, chef di Malling & Schmidt ad Aarhus, ma con Barr (i due pianificano il progetto da oltre un anno) l'intenzione è quella di lasciar parlare le tradizioni gastronomiche del Mare del Nord - dalla Scandinavia al Benelux, alla Gran Bretagna – con l'approccio informale di una tavola che celebrerà la condivisione e la convivialità.

Ricette di famiglia, birra e acquavite. È la cucina del Nord

Il nome, del resto, si ispira tanto a un antico vocabolo irlandese che identifica il raccolto, come a un termine dimenticato della lingua scandinava utilizzato per l'orzo, ingrediente principe della produzione brassicola. Cucina tradizionale dei Paesi freddi e birra saranno dunque il focus di Barr, dalle polpette danesi alla cotoletta, cucinate con cura per valorizzare le ricette familiari. Quindi “accogliente, confortevole e deliziosa” sono gli aggettivi che vanno a braccetto per raccontare come sarà la tavola che “avrai voglia di visitare spesso con amici e famiglia”; ma il background di Redzepi e Schmidt non potrà far a meno di influenzare l'approccio sperimentale e curioso alle pietanze più tipiche e antiche del territorio, presentate in abbinamento con una selezione di qualità di birre e acquavite dell'area di riferimento. Aperto a cena e anche a pranzo nel weekend, Barr potrà accogliere 60 commensali in sala, e una trentina al bancone del bar.

 

La trattoria del Nord

Si sceglie dalla carta, che cambierà secondo stagione: una quindicina di piatti in tutto. E soprattutto il Sunday Lunch menu proposto nel giorno di festa sembrerebbe la conferma che anche Copenhagen, e i suoi chef più rappresentativi, sono pronti per riconsiderare l'idea di tavola d'autore conviviale. Quella trattoria moderna (o nuova trattoria classica) che accantona gli esercizi di stile e il modello cosiddetto bistronomico per privilegiare il comfort, il cibo semplice e di facile comprensione, la tavola delle reunion familiari o della chiacchiera rilassata con gli amici (ne parlavamo un anno fa a proposito del nuovo Passerini). Ecco, in questo senso potremmo interpretare quell'esplicito e sentito riferimento a ciò che Barr non vuole essere: un altro alfiere della New Nordic Cuisine come proprio Redzepi l'ha disegnata. Con quel sano gusto di sparigliare le carte. Il talento e la curiosità possono questo e altro. E chissà che belle sorprese arriveranno dal nuovo Noma: se ne riparlerà nel 2018, intanto le prenotazioni da Barr sono già aperte.

 

Barr | Copenhagen | Strangade, 93 | per prenotare http://restaurantbarr.com/

 

a cura di Livia Montagnoli

I consigli dell'oste. Gennaro D’Ignazio della Vecchia Marina e l'olio di Valentini e del Frantoio Montecchia

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Una rubrica in cui chiediamo ai migliori osti d'Italia di svelarci i loro fornitori di fiducia, che il più delle volte sono il contadino del paese affianco, il casaro conosciuto tramite passaparola o il norcino che fa le cose come le si faceva una volta. Crediamo che il loro sia un patrimonio inestimabile di conoscenze e conoscenza. E vogliamo condividerlo con voi.  

Un viaggio per le trattorie migliori d'Italia, quelle premiate con i Tre Gamberi dalla guida Ristoranti d'Italia 2017, per farci consigliare i loro produttori di fiducia. Facciamo tappa in una piccola località sulla riviera abruzzese, Roseto degli Abruzzi, che ospita una delle tavole più affidabili e fedeli alla tradizione marinara del litorale: la Vecchia Marina.

La Vecchia Marina

Ci sono posti il cui valore intrinseco, al di là di ogni considerazione su cucina, cantina e quant'altro, sta nella capacità di evolversi pur rimanendo popolari e con i piedi per terra. Posti, e persone soprattutto, che conquistano per il loro spirito semplice, schietto e diretto, con un legame a doppio filo alle radici della terra d'appartenenza e all'emancipazione. A Roseto c'è uno dei migliori esemplari di questa razza, una delle più oneste tavole tradizionali di cucina di mare, che offre una proposta adriatica vera e verace, ma ripulita della rusticità casalinga del passato. Giovanni Parnanzone Gennaro D’Ignazio, cognati, ne sono gli artefici, e dirigono una squadra che contempla un'intera famiglia. Il primo è in sala ad accogliere gli ospiti e a farli sentire come a casa propria. Gennaro, dietro le quinte, sovrintende una cucina semplice che esalta la migliore materia prima. A cominciare dal pesce, soltanto quello di questo spicchio di costa. A loro abbiamo chiesto di consigliarci un fornitore di fiducia: “Vorremmo parlarvi del pesce del nostro mercato ittico, ma siamo consapevoli che non sia molto utile per i lettori. Quindi suggeriamo due oli: quello di Valentini, un'azienda di Loreto Aprutino, in provincia di Pescara, con una filosofia stupenda, artigianale, in armonia ed equilibrio con la natura. E quello del Frantoio Montecchia, attivo nel panorama olivicolo da circa trent'anni, che rappresenta sicuramente una delle realtà più significative della provincia teramana”.

L'olio Valentini e Montecchia

La prima è un'azienda che non segue le mode e che in molti conoscono per i suoi vini, espressione del territorio, quello abruzzese, e dell’annata da cui nascono, comunque essa sia. Secondo antichi documenti il legame della famiglia con la vigna risalirebbe alla metà del XVII secolo, mentre la continuità qualitativa dell'azienda è certa, dato che già nel lontano 1868 Camillo Valentini riceveva un riconoscimento ufficiale proprio per la qualità dei suoi vini. Oggi, dopo la morte del padre-maestro Edoardo, è rimasto il figlio Francesco Paolo alla testa dei 200 ettari di proprietà, e dei 50 a oliveto. È proprio da quest'ultimi che nasce l'olio extravergine di oliva della tipologia dritta. Raggiungerlo al telefono è praticamente impossibile, lui – tenendo fede allo stile di famiglia - non ama l'esposizione mediatica e noi ne prendiamo atto.

Da Loreto Aprutino, ci spostiamo poco più a nord, direzione Morro d'Oro, dove Gennaro Montecchia e sua moglie Amina gestiscono il frantoio di paese dal 1996, ma ci lavorano da una vita intera: “Il frantoio esiste dal 1915, prima era gestito da Alessandro Di Pasquale, al quale siamo subentrati in maniera del tutto naturale, d'altra parte lui voleva chiudere i battenti e mia moglie ed io c'eravamo appassionati: non potevamo far altro che continuare la vita da frantoiani!”. Dopo poco più di 20 anni di gestione, l'azienda è diventata un punto di riferimento oleario per tutto l'Abruzzo. “Oggi abbiamo un frantoio a due fasi (ovvero senza l'aggiunta di acqua di diluizione) che utilizziamo anche per conto di terzi, gestendo pure lo stoccaggio e il confezionamento”. Venendo alla loro produzione, sono 25 mila le piante per 80 ettari di terreno allevate a vaso policonico e ben 32mila su 20 ettari in allevamento intensivo, ma biologico. Dalle prime nasce il Classico 22, ottenuto con un blend di leccino, dritta, frantoio e tortiglione. Nella guida Oli d'Italia 2017, che lo ha premiato con le 2 Foglie, si legge: “Al naso esordisce fine e aromatico: note di fiori e frutta intrigano e rievocano sensazioni primaverili. In bocca è pulito e davvero armonico, tornano le percezioni erbacee lievemente amaricanti concluse con un piccante piacevole e persistente”. E neanche a dirlo, ben si abbina al pesce azzurro e ai carpacci di mare. Un cerchio che si chiude rimanendo in Abruzzo.

 

Vecchia Marina | Roseto degli Abruzzi (TE) | Lungomare Trento, 37 | tel. 085 8931170

Valentini | Loreto Aprutino PE | via Baio, 2 | tel. 085 8291138

Frantoio Montecchia | Morro D'Oro (TE) | Contrada Case di Pasquale, 29 | tel. 085 895141 | www.frantoiomontecchia.it

 

a cura di Annalisa Zordan

 

I consigli dell'oste

Michele Vallotti e i salumi di Vanni Forchini

Gherra e Vergano del Consorzio di Torino e la carne della Macelleria Brarda

Giovanni Milana di Sora Maria e Arcangelo e i formaggi di Marzia Molinari

Luca Casablanca di Tischi Toschi a Taormina e le conserve ittiche di Adelfio

Daniele Minarelli dell'Osteria Bottega e la mortadella di Ennio Pasquini

Sergio Circella della Brinca e i prodotti dell'Azienda Agricola Rue de Zerli 

Le nuove Officine del Sale di Cervia: cibo, cultura, libri nell'ex magazzino del sale. Un modello da imitare

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Rigenerazione urbana, la chiamano, e recupera in modo intelligente spazi che identificano un territorio e la sua attitudine culturale ed economica. A Cervia il primo risultato è l'apertura delle Officine del Sale, ottimo esempio di incontro tra pubblico e privato. Ma ci sono anche Treviso, e Mestre. 

Cervia. La città del sale

Alla fine del 2016 un bando pubblicato dal Comune di Cervia, nota località balneare del ravennate, ci offriva lo spunto per affrontare il tema di una valorizzazione del patrimonio culturale italiano coerente con il sostegno di circuiti turistici integrati, che del territorio nazionale celebrassero luoghi, tradizioni, prodotti, attività artigianali. Nello specifico, l'amministrazione della cittadina romagnola nota per la produzione di sale promuoveva il recupero dello storico Magazzino Darsena, con l'idea di garantire un nuovo polo culturale alla città, tra ristoranti e circuiti museali dedicati al sale, offrendo all'aggiudicatario dell'appalto per la ristrutturazione una concessione di 12 anni. Fine dei lavori stimata: 2019. Con l'occasione ricostruivamo anche le fasi conclusive del progetto per il rinnovamento dell'ex Cral Saline, costruzione di fine XVII - inizio XVIII secolo a supporto dello sfruttamento delle saline di Cervia, che presto sarebbe rinata in veste di centro polifunzionale, con la partecipazione di librerie Coop. Il 1 giugno le Officine del Sale sono state ufficialmente inaugurate, e da qualche giorno in città c'è un nuovo caffè letterario. Il rinnovamento architettonico porta la firma di Fabrizio Fontana di Archlabo e ha alle spalle la società di Alessandro Fanelli, ristoratore di Milano Marittima e vincitore della concessione, in partnership con librerie Coop.

Le Officine del Sale

Oltre alla caffetteria con libreria – aperta dall'ora della colazione con cornetti da lievito madre, crostate, torta di riso e ciambelle, ma pure croissant salati con i prodotti di San Patrignano e piada con mortadella Bonfatti - l'ex magazzino del sale ospita una bottega per la vendita di prodotti a km 0 dedicata alla salina Camillona, e la tavola di un'osteria marinara dall'atmosfera informale, l'Osteria del Mercato, che valorizzerà la tradizione gastronomica del territorio, con cucina a vista e banco pescheria per il pescato del giorno.

Spazio anche al bar, che modernizzerà l'approccio del vecchio circolo Cral – tavolini e palco per gli spettacoli - un tempo ospitato nella struttura. Il fil rouge resterà quello del sale, lasciato come traccia del passato sulle pareti e celebrato in tavola, dove saranno servite pietanze che recuperano le tecniche di cottura al sale di Cervia. Idem per la miscelazione, con una variante salina dei cocktail a base Martini. E infatti nel progetto è stato coinvolto anche il Musa, il Museo del Sale della città, che organizzerà appuntamenti a tema in libreria e spettacoli ricreativi. Sugli scaffali oltre 500 volumi. In attesa di riqualificare anche le aree all'aperto con tavolini e giardino lungo il canale.

Treviso. Open Dream nell'ex manifattura di ceramiche

L'iniziativa di Cervia, peraltro, non è isolata, e soprattutto nel Nord Est Italia trova riscontro in due progetti che si conretizzeranno nei prossimi mesi. Il più affine – per il recupero di uno spazio in disuso e l'intenzione di lavorare su un fronte polifunzionale che valorizzi soprattutto l'offerta gastronomica – è l'Open Dream di Treviso. Dietro c'è l'imprenditore Damaso Zanardo, che nel 2015 ha acquistato un'area industriale alle porte della città, l'ex Pagnossin, e con il sostegno delle istituzioni locali e dell'università di Venezia si prepara a rilanciare lo spazio. All'opera designer, architetti, curatori d'arte per restituire nuova vita agli edifici in mattoncini rossi dell'ex stabilimento per la manifattura della ceramica artistica, che nel secondo Dopoguerra ha tenuto a battesimo un vero e proprio cenacolo di artisti (anche il Victoria&Albert Museum si rivolgerà alla fabbrica per la replica di alcuni modelli). Lo stabilimento è fermo dal 2007, ma le potenzialità dell'area – 100mila metri quadri, di cui 55mila coperti – ne fanno uno spazio ideale da restituire alla collettività in veste nuova: il progetto di “rigenerazione urbana” si concretizzerà a partire dalla fine del 2017, quando cominceranno i lavori per realizzare una cittadella “nella quale si incontrino food & beverage, ricettività ed eventi con arte e design, dando grande attenzione alle produzioni locali a partire dalla bioagricoltura”, spiega il rettore della Iuav di Venezia, Alberto Ferlenga.

 

M9 a Mestre. Non solo museo

Non molto distante, a Mestre, prende forma il polo culturale M9: museo del Novecento e spazio espositivo, prevalentemente, ma ancora una volta orientato alla rigenerazione urbana, con la supervisione della Fondazione di Venezia. Anche in questo caso si parte dal recupero di un edificio storico (in origine convento benedettino), chiuso da oltre un secolo, per creare un polo culturale – a cura dello studio berlinese Sauerbruch Hutton - che celebri l'identità della terraferma veneziana, in un'area di 9mila metri quadri che dovrebbe inaugurare entro il 2018 (la data è slittata più volte), dando spazio pure alla ristorazione nella piazza coperta destinata ai servizi al pubblico, nel chiostro del convento. Linea guida: fare e proporre qualità.

 

Officine del Sale | Cervia (RA) | via Evangelisti, 2 | tel. 0544 976565 | www.officinedelsale.com

 

a cura di Livia Montagnoli

 

In viaggio. Miami: 18 indirizzi per mangiar bene fuori dai soliti giri

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Qui si intrecciano Decò e arte contemporanea, movida notturna e avanguardia urban chic, design e spiagge sconfinate: siamo a Miami. È stato necessario ribattezzarla Greater Miami per metterci dentro tutte le sue anime, anche gastronomiche.

Miami, pochi gradi sopra al Tropico del Cancro. Qui la varietà di gruppi etnici e culturali non si conta più, ma si contano le lingue parlate: più di 100. Sarà la convivenza pacifica, le nuvole che sembrano di zucchero filato, la brezza o il tempo mite per la maggior parte dell’anno, ma atterrare a Miami significa contagiarsi immediatamente dell’umore rilassato locale: via lo stress, si desidera di non venir più via.Miami è fusion, per la gente, le culture e il cibo: ognuno ha portato qui la cucina dalla propria terra di origine. Si contano più di 6.000 ristoranti, dal casual all’alta cucina e di innumerevoli provenienze: dai Caraibi, al Sudamerica (Perù e Argentina inclusi) fino all’Asia.

Il luogo dove la cucina fa spettacolo

La New World Cuisine, fondata qui dallo chef Norman Van Aken, si riferisce proprio al mix speciale in cui a Miami i sapori di più diversa provenienza incontrano la cucina americana. La cucina del Nuovo Mondo (per lo meno questa) è povera di grassi e molto gustosa e mette insieme sapori puliti con combinazioni ingegnose di pesce fresco, frutta e verdura tropicali. Il Wine & Food Festival Food Networkdi South Beach(in febbraio) è l’appuntamento d’obbligo per chiunque voglia tenersi aggiornato in fatto di tendenze new world e new entries. Singolari anche le tappe dedicate durante l’anno a temi come frutta e spezie dal mondo, sapori latini, festival dei frutti di mare o del mango, il festival Goombay (che celebra il gemellaggio di Miami con le Bahamas) o il Taste of the Nations dove gustare sapori di nazionalità diversa a cura di più di 30 dei migliori ristoranti di cucina internazionale. Nel mese del Miami Spice Restaurantè possibile accedere a degustazioni d'autore a prezzifissi promozionali, proprio nello spirito della massima diffusione di qualità e cultura gastronomica di ogni cucina

 

Negli ultimi anni gli equivoci sui perimetri geografici di Miami vanno ridefinendosi in un quadro che, ricomposto insieme, finalmente fa città. La Greater Miami vuole il suo riscatto nel mondo. Con dentro oltre 35 comuni (incluso Miami Dade, Downtown Miami, Miami Beach e tutti i tasselli urbani che fino ad ora hanno identificato questo luogo solo attraverso lo spirito vacanziero e la bella vita) oggi Miami sa che può competere con le capitali globali della cultura, ben oltre il cliché della città del divertimento senza tempo, che pur continua a vivere. Oggi faremo un viaggio tra le anime di Miami attraverso alcuni luoghi simbolo: hotel storici, nuovi centri nevralgici, distretti di stile

Miami Beach tra hotel e granchi

È conla metafora degli uccelli migratori che Godefroy Desrosiers-Lauzon descrive il fenomeno di attrazione inconsapevole verso il calore di Florida e Miami: i Florida’s Snowbirds sono gli umani (del nord del mondo) che vanno lì a svernare fermandosi dai 2 ai 6 mesi all’anno. È a Miami Beach che l’oceano diventa smeraldo, che la spiaggia (finta o vera) è la più bianca mai vista e le passeggiate diventano slow; qui c’è la più grande collezione di Art Deco degli Usa declinata su scala urbana, essenziale, con appena qualche tocco kitsch.

Gli hotel a Miami Beach sono icone storiche d’eccellenza, per architettura e vita sociale: in percentuale e densità altissima rispetto alle residenze, segnano il ritmo urbano della griglia di strade a sud dell’isola. Su 2 chilometri di Ocean Drive, 12 edifici su 14 sono in stile MiMo. I primi a segnare il passo furono il Fontainebleau e l’Eden Roc, poi il nuovo Faena, il Delano, il Traymore (oggi Como Metropolitan) e gli altri.

Nobu hotel

Nobu Hotel e Como Metropolitan

Oggi in tandem con l’Eden Roc, sotto la storica torre con il logo azzurro, c’è il Nobu Hotel. Vi si accede dalla leggendaria hall disegnata da Morris Lapidus in deco neo-barocco, famosa per lo spazio ottogonale e le colonne altissime rivestite in legno scanalato in neo dorico. Il nuovo Nobu disegnato da David Rockwell, introduce l’arte dell’ospitalità Omotenashi, anche nei dettagli di interior design, con un uso di colori ed elementi tattili dalla speciale armonia ispirata alla natura.

 

Un piatto di Nobu

Il ristorante è naturalmente a firma di Nobu Matsuhisa e accosta il meglio della cucina peruviana e giapponese. Non solo: qui nasce anche il primo ristorante on the beach per Miami, clone in Florida del Malibu Farm californiano. La chef Helene Henderson, lungamente corteggiata dal management del Nobu, ha scelto infatti Miami per il suo menu farm-to-table, fresco e cucinato al momento, creato apposta per la vita vacanziera bordo mare.

 

Como Metropolitan 

Più giù, lungo l’Ocean Drive, il Como Metropolitan (in origine solo Traymore) merita una tappa speciale: il nuovo design degli interni, opera di Paola Navone, comunica luce e leggerezza in trasposizione immediata nell’atmosfera anni ’30, rivisitata in maniera sapiente con dettagli contemporanei, dal lusso elegante mai invadente. In cucina al ristorante Traymore c’è Juan Loaisiga – appassionato di piatti di mare classici americani, con pesce freschissimo, crostacei e granchi – che fa rivivere gli anni d’oro della Miami deco.

Un piatto da Joe's Stone Crabs

Il tempio degli stone crabs (il granciporro della Florida) invece è giù, nella punta più a sud di South Beach da Joe’s Stone Crabs. La pesca di questi crostacei è assolutamente sostenibile: le chele ricrescono e il granchio viene rispedito in mare vivo più di prima; e un piano di profit sharing permette a tutti, dal management ai camerieri, di condividere i benefici dell’attività. Il ristorante ha l’atmosfera familiare di una grande trattoria e la sua gestione familiare va avanti da 94 anni: non si può lasciare Miami senza aver assaggiato granchio e mostarda da Joe.

 

EAST

Downtown e il Brickell Cityentre

In quattro anni con lavoro h24 è stato definito dal nulla il nuovo baricentro urbano e finanziario di Miami. Al Brickell City Centre il compito di rappresentare la rinascita di questa parte della laguna, nel cuore di Downtown a sud del Museum Park. Due torri residenziali, due edifici per uffici ‘mid-rise’ e la torre di EAST (hotel residenziale completo di area sport, piscina e 4 ristoranti inaugurato lo scorso anno) sopra un centro commerciale inaugurato a novembre scorso dove ci sono già nomi importanti come i Pubbelly col secondo Pubbelly Sushi, Quinto la Huella e Sugar, il cocktail bar sul tetto.

 

EAST

Innovazione, arte e tecnologia elaborata per la sostenibilità ambientale fanno di questo progetto uno dei più avanzati negli Usa. Un sofisticato sistema di raccolta dell’acqua piovana, ad esempio, assicura refrigerazione e autonoma elettrica all’intero complesso. Uno degli elementi progettuali più interessanti è la piattaforma coperta che collega i tre nuovi isolati tra loro e al tessuto intorno, in un unico sistema urbano pubblico percorribile a piedi, agganciato alle stazioni dei trasporti pubblici e del metrorail. Autori del cambiamento e della meticolosa pianificazione urbana i progettisti di Arquitectonica, già paesaggisti al Perez Museum di Herzog & De Meuron e autori del nuovo Student Activities Center dell’Università di Miami.

Il riscatto di Miami dal folklore di città vacanziera, dunque, parte da qui: il Brickell City Centre è anche la meta gastronomica per gli appassionati del cibo italiano. Il progetto prevede, in un blocco nord, una food hall coperta di 11.500 mq. su tre livelli interamente dedicata al mercato gastronomico italiano. Una grande varietà di ristoranti, ognuno espressione della nostra cucina regionale, è la scena continua di degustazioni, show cooking, corsi di cucina e programmi educativi di abbinamento enogastronomico con i migliori chef italiani, alle prese con prodotti freschi direttamente prelevati dal mercato.

Il progetto è di Swire Properties Inc, uno dei maggiori imprenditori immobiliari urbani della Florida. Debora Overholt vicepresidente della società, è convinta che Miami sia pronta per un progetto così complesso sul tema del cibo: “Vogliamo portare a Miami la tradizione e l'energia che c’è nelle strade, nei centri storici e nelle piazze italiane. Il mercato alimentare è cuore e anima della maggior parte delle città italiane, ora questo sarà vero anche qui a Miami, nel cuore di Brickell”.

Coral Gables e il Biltmore Hotel

È un luogo poco battuto da chi viene a Miami in vacanza, e pochi sanno che agli inizi degli anni ’20, a Coral Gables nasceva una delle prime New Town americane con un progetto urbanistico d’avanguardia, ancora oggi modello di integrazione e funzionalità urbana. Il suo fondatore, George Edgar Merrick, immaginò una città in stile mediterraneo. E non a caso fu scelta come sede dell’Università di Miami. Ma Coral Gables ospita anche l’icona assoluta di Miami, il Biltmore Hotel che da solo racchiude pezzi dei 90 anni di storia più forti della città, dall’uragano del ’26 alle vicende post belliche, passando per gli anni d’oro del jazz. Ospiti fissi erano Ginger Rogers, Judy Garland, Bing Crosby. Abitò qui F.D. Roosvelt e anche Al Capone, nonché il Duca e la Duchessa di Windsor. Nel ‘96 prende il titolo nazionale di Historic Landmark, massimo riconoscimento attribuibile dal governo federale. Visibile da grandi distanze, il Biltmore fa da orientamento per l’intero quartiere e segna il baricentro morfologico tra il tessuto urbano del villaggio originario e il grande parco dedicato al golf. I suoi ristoranti sono meta fissa dei local: dai banchetti della domenica, oggi brunch leggendari, a feste di nozze e party privati delle famiglie più note se c’è qualcosa di importante da celebrare si viene qui, tra il fruscìo delle palme sudamericane nell’atmosfera della corte interna dai riverberi moreschi e spagnoli.

Alla guida del ristorante Fontana c’è chef Giuseppe Galazzi: ferrarese, laurea in economia e passione per il food tourism, oggi ha una squadra di 14 persone che producono tutto in casa, dal pane ai prodotti gluten free.Mi affascina qui la possibilità di lavorare a livelli alti di qualità. Serviamo cibo fresco e genuino sempre e per tutti. Il brunch al Biltmore è un cult. Per 100 dollari è possibile bere Champagne e gustare ostriche tutto il giorno oltre alle pietanze a buffet”.Ma dove mangia lochef italiano quando non è in cucina?Abito a South Beach, il posto più adatto per un italiano a Miami, e adoro la cucina fatta di cibi freschi e fragranti come quella thai. Il posto più buono a Miami è Lung Yai Thai Tapasin Calle 8. Se invece ho voglia di pizza vado da Renato Viola, al Visa01. A ottobre ha aperto un nuovo posto anche al Brickell Centre e un terzo è atteso a Wynwood: il nome (Visa01) è quello del visto necessario per lavorare in territorio americano”.


Byscane Boulevard

La nuova frontiera del Moderno Deco a Miami, passa di qui. Al di qua della laguna, bordo ad ovest di Little Haiti, dove la passione per il revival dei motel degli anni ’50, ha creato un movimento di ricerca modernista in tono con il MiMo (Miami Modern) già consolidato nel recupero Deco di South Beach, e l'ondata, concentrata nella zona Block27 (tra la 50ᵃ e la 77ᵃ strada), ha già un nome: MiMo Biscayne Boulevard Historic District.

 

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In molti ricorderanno la pubblicità Coppertone, quella con la ragazzina abbronzata cui un cagnolino tirava giù il costume. Ecco: quel cartellone è nato qui nel 1958 e oggi è stato rimesso al suo posto dopo che la Dade Heritage Trust lo ha donato alla MiMo Biscayne Association.

Più su, invece, un giro in bici a Morningside è un viaggio nella Miami residenziale degli anni ’30.

Tra i progetti icona della rinascita di Byscane c’è The Vagabond Hotel, gemma architettonica e isola felice per avventori d’Oltre Oceano, amatissimo dai locals intellettual trend. Era un luogo abbandonato, The Vagabond, quando l’immobiliarista newyorkese Avra Jain decise di rilevarlo e dargli nuova vita. La piscina non era più visibile, ora il suo mosaico con la sirena sul fondo azzurro (montato con tasselli di vetro-ceramica giapponese, prontamente riprodotti per il restauro) accoglie i nuovi ospiti.

 

The Vagabond

L’Hotel – frequentato negli anni della Magic Miami da Frank Sinatra, Dean Martin e Sammy Davis – oggi è iscritto al National Register of Historic PlacesMay Mallouh, fondatrice del nuovo corso, ci racconta l’impresa: “Qui si vive come in una piccola comunità e il ristorante è uno dei luoghi preferiti nei passaparola degli intenditori. Molti residenti preferiscono evitare i circuiti turistici di South Beach e venire a cena in un luogo tranquillo e accogliente”. Qui sta per ri-nascere anche il motel Royal (del 1951): sarà una scuola di cucina guidata dallo chef Norman Van Aken, pioniere della cucina Floribbean.

 

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Lo chef del Vagabond, Roberto Dubois, dà invece un’impronta familiare ai suoi piatti: “È importante riconoscere gli ingredienti, così come succede nella semplicità della cucina di casa. Il mio obiettivo è creare una cucina dove si ha voglia di tornare spesso, non solo per un’esperienza gourmet una tantum, ma come un punto di riferimento del quartiere”.

A pochi motels più in là, nella passeggiata in atmosfera MiMo si può far tappa al Blue Collar, un ristorantino con pochi tavoli dove gli chef Daniel Serfer ed Ervin Bryant cucinano piatti semplici e atmosfera casual.

 

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Little Haiti, alias Lemon City

Per i residenti è ancora Lemon City, nome dato per via degli alberi di agrumi ancora presenti in molti giardini prima che, negli anni 20, il villaggio venisse annesso a Miami. Per decenni ritenuto luogo di crimine e spaccio, oggi Little Haiti si trova nel bel mezzo di trasformazioni importanti a effetto gentrification: a nord il proliferare di condomini di lusso di Edgewater e a sud l’onda trend del Design District direttamente collegato a Wynwood. L’effetto delle pressioni immobiliari intorno ha generato un certo spopolamento da parte degli indigeni originari e una rinnovata vitalità con nuove alternative all’intrattenimento.

 

 

I luoghi storici delle abitudini un tempo a uso esclusivo dei locali, oggi sono cult per chiunque voglia un’immersione totale in latino-america, con la garanzia di non sentir parlare inglese per un’intera serata. Succede al Ball & Chain, posto cult degli anni ’30, tra le venues preferite di Billie Holiday, dove oggi millennials in esplorazione vintage si mischiano a veterani ottantenni dj e ballerini di samba acrobatica.

 

 

GLI INDIRIZZI

 

The Vagabond Hotel - Vagabond Bar & Kitchen | 7301 Biscayne Blvd | Miami | FL 33138 | tel. +1 (305) 400-8420 | www.thevagabondhotel.com

Biltmore Hotel | 1200 Anastasia Avenue | Coral Gables | FL 33134 | tel. +1 (305)913-3200 | www.biltmorehotel.com

Wynwood Diner | 2601 NW 2nd Avenue | Miami | FL 33127 | www.wynwooddiner.com

Nobu Miami Eden Roc |Nobu Hotel Miami Beach at Eden Roc Miami Beach | 4525 Collins Avenue | Miami Beach | FL 33140 | www.nobuhotels.com

El Tucán | 1111 SW 1st Ave. | Miami | FL 33130 | www.eltucanmiami.com

Ball & Chain | 1513 SW 8th St. | Miami | FL 33135 | www.ballandchainmiami.com

Traymore | Metropolitan Miami Beach – Como Hotels | 2445 Collins Ave | Miami Beach | FL 33140 | www.comohotels.com

Joe’s Stone Crab | 11 Washington Ave, Miami Beach | FL 33139 | www.joesstonecrab.com

Brickell City Centre | 701 S Miami Ave | Miami | FL33131 | http://brickellcitycentre.com

East |788 Brickell Plaza |Miami | FL 33131 | tel. +1 305 712 7000 | www.east-miami.com

Quinto la Huella | 5/F, EAST | Miami | 788 Brikell Plaza | FL 33131 | http://brickellcitycentre.com

Sugar | 40/F, EAST | Miami | 788 Brickell Plaza | FL 33131 | http://brickellcitycentre.com/stay/sugar

Fontana | Biltmore Hotel | 1200 Anastasia Ave | Coral Gables | Miami | FL 33134 | www.biltmorehotel.com

Blue Collar | Biscayne Inn | 6730 Biscayne Blvd | Miami | FL 33138 | www.bluecollarmiami.com

Lung Yai Thai Tapas | 1731 SW 8th St | Miami | FL 33135 | lungyaitapas.com

Eating House | 804 Ponce De Leon Blvd | Miami | FL 33134 | www.eatinghousemiami.com

Panorama Restaurant | 2889 McFarlane Road | Miami, FL 33133 |https://www.sonesta.com/us/florida/miami/sonesta-coconut-grove-miami/panorama-restaurant?fa=restaurant1.home

 

 

a cura di Emilia Antonia De Vivo

 

 

 

Marco Garfagnini di nuovo a Parigi con Pierre Gagnaire. Aprirà un ristorante italiano creativo

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Lo chef di Carrara, Giovane Chef 2005 per la guida del Gambero Rosso, ha lunghi trascorsi tra la Svizzera e la Francia, dove da oltre 10 anni dirige brigate prestigiose. Dopo Le George a Parigi, l’ultimo anno l’ha passato in Loira, guadagnando una stella. Ma da ottobre torna in città, con Pierre Gagnaire. 

Da Carrara alla Loira. Passando per Parigi

È partito da Carrara, dov’è nato 44 anni fa, e dove nel 2000 conquistava la prima stella della sua carriera, con la cucina di Ninan. Ma oggi, e da qualche anno, Marco Garfagnini ha trovato una seconda casa in Francia, chef stimato del panorama transalpino, e presto protagonista di un nuovo, ambizioso progetto. L’avvicinamento al confine francese, in realtà, passava, 10 anni fa, da Ginevra: sulle sponde del lago svizzero Garfagnini era arrivato a dirigere la brigata dell’hotel Four Seasons, conquistando per la seconda volta una stella. Il terzo macaron, invece, è arrivato proprio quest’anno, all’inizio del 2017, durante la cerimonia di presentazione dell’ultima edizione francese della Rossa Michelin: al toscano l’ennesimo riconoscimento importante per il ristorante dell’hotel lusso Chateau de Noirieux di Briollay, nella regione della Loira, e il privilegio di tenero alto l’orgoglio italiano all’estero, proprio nella patria dell’alta cucina. Del resto il suo percorso Oltralpe vanta anche un passaggio importante al Four Seasons George V di Parigi, dove tra il 2015 e il 2016 ha preso le redini dello staff del Restaurant Le George.

Un talento in cucina. Giovane chef 2005 per il Gambero Rosso

E se facciamo un salto indietro nel passato, in tempi non sospetti (era il 2005), la guida del Gambero Rosso sembrava intuire quanto sarebbe successo in seguito, premiando l’allora giovane talento di belle speranze con il riconoscimento di Giovane Chef dell’anno, già all’epoca forte di esperienze al fianco di Martin Berasategui e Joan Roca. Dopo il periodo carrarese, Garfagnini ha scelto di confrontarsi con la ristorazione d’hotellerie, passando in rassegna realtà prestigiose del settore dell’ospitalità, fino ad approdare tra i castelli della Loira, dove la proprietà cinese della struttura ha scelto di affidargli non solo il comando della cucina, ma anche la gestione dell’albergo, solo venti camere che segue con l’aiuto di sua moglie Silvia, dirigendo il lavoro di 40 persone, 25 solo in cucina. Filo rosso della sua evoluzione in cucina la leggerezza e la semplicità che valorizzano la materia prima. E infatti il piatto simbolo che lo chef ha portato con sé in tutti questi anni, da Carrara alla Loira, sono i tortelli limone e menta con ripieno di ricotta e pecorino. Niente di più diretto per conquistare la fiducia del commensale. Una bella storia, dunque, quella di Marco Garfagnini, e in crescita costante.

Con Pierre Gagnaire a Parigi. L’Italia creativa e generosa

L’ultima novità, nonostante non abbia mai nascosto il desiderio di tornare un giorno in Italia, arriva ancora una volta dalla Francia, e segna l’inizio di un sodalizio inedito con uno dei suoi primi maestri, Pierre Gagnaire. Al fianco del maestro francese, Garfagnini si era ritrovato nel lontano 1992, appena un paio d’anni dopo essersi diplomato all’Istituto alberghiero di Massa. E ora, entro la fine del 2017, un nuovo progetto di ristorazione li vedrà collaborare all’insegna di una cucina che valorizza le radici italiane del toscano – “Marco viene da una cultura diversa dalla mia, un universo che amo molto, ma non ho mai avuto modo di conoscere fino in fondo: l’Italia” ha ribadito Gagnaire “E oltre alle sue origini, lui ha dalla sua un savoir faire sorprendente” -   e trova il suo punto di forza nella spontaneità e nella sincerità, almeno secondo le prime dichiarazioni d’intenti della nuova coppia. Le prime indiscrezioni raccontano di una tavola italiana creativa che dovrebbe inaugurare nel mese di ottobre a Parigi. Due le opzioni ancora al vaglio per scegliere lo spazio più adatto: ottavo o settimo arrondissement. Resta da capire se e quando avverrà un passaggio di consegne a Briollay, che presto potrebbe restare orfana della cucina di Garfagnini. Chi invece approderà alla nuova tavola parigina si aspetti “entusiasmo, creatività, gentilezza e sincerità”. Parola di Pierre Gagnaire. La Ville Lumiere si prepara a (ri)accogliere un altro italiano di talento.

 

a cura di Livia Montagnoli

Il Titanic sbarca a Torino. Cosa si mangiava sul transatlantico più famoso e sfortunato del mondo

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Cosa si mangiava sul Titanic? Una mostra a Torino testimonia l'epopea della nave e del più clamoroso naufragio della storia. Una tragedia da migliaia di vittime, ma anche una vicenda piena di fascino. Che ha sollecitato la fantasia di scrittori, musicisti, registi, e che non smette di appassionare persone in tutto il mondo. Oggi una mostra consente di guardare tra gli spiragli dei suoi reperti e immaginare anche cosa si mangiava sul transatlantico più famoso del mondo.

Il Titanic rivive a 105 anni dal tragico naufragio con una grande mostra che sta girando le più importanti città del mondo. Un tour internazionale che ha totalizzato finora oltre 25 milioni di visitatori, arrivato al Parco del Valentino di Torino, dove un suggestivo ed emozionante allestimento, catapulta il visitatore nell’allure di quella nave lussuosa e nei drammatici momenti che hanno preceduto il tragico naufragio.

La mostra Titanic – The Artifact Exibition, a Torino fino al 25 giugno, guida i visitatori nella pancia del famoso transatlantico, all’epoca considerato inaffondabile, ne percorre i corridoi, i ponti, le cabine, i ristoranti, i saloni, e grazie ai reperti in mostra, appartenuti ai facoltosi ospiti di prima classe, e ai poveracci, per lo più immigrati, di terza classe (comunque al livello della secondaclasse delle altre navi), svela le storie di vita che si celano dietro agli uomini dell’equipaggio e ai passeggeri. Un inedito percorso espositivo per la prima volta in Italia, nato da un’idea dell’americana Premiere Exhibitions, proprietaria del relitto del Titanic, e promossa in Italia da Dimensione Eventi.

Gli oggetti in mostra

I rari reperti che compongono la mostra sono il frutto di numerose spedizioni tra il 1987 ed il 1994, che portarono alla luce oltre 4.000oggetti, pezzi autentici della nave e oggetti originali di proprietà dei passeggeri. Si aggiungono inoltre una cabina di prima classe e una di terza classe ricostruite in scala reale, il celebre ponte principale, reperti dell’epoca, una sala dedicata alle storie dei 37 italiani a bordo con i ricordi dei parenti dei passeggeri ancora viventi, ma anche una parete reale di ghiaccio, che riporta alle proibitive temperature delle prime ore del mattino di quel tragico 15 aprile 1912, fino al memorial wall, il triste elenco di tutti i passeggeri, dispersi e posti in salvo, mentre un rumore sordo, che simula i motori a vapore del Titanic, fa da sottofondo all’intera visita.

Memorial Wall

Alexandra Klingelhofer Vice President of Collections Premier Exhibitions, arrivata a Torino per curare e allestire la mostra spiega: “Quella del Titanic è una storia che è stata raccontata innumerevoli volte, ma mai in modo così dettagliato e con così tanta passione come in questa mostra. Il mio lavoro è quello di conservare, curare e quasi coccolare i reperti per garantirne la conservazione perché anche le generazioni future abbiamo la possibilità di conoscere attraverso di loro una delle più grandi tragedie del 900. La parola chiave del mio lavoro è impegno: ogni volta che un oggetto viene recuperato occorre prodigarsi per preservarlo e mantenerlo in tutta la sua straordinaria bellezza naturale”.

 

La ricostruzione di una cabina di prima classe

Il Titanic

Era chiamata la nave dei sogni, ed era il più lussuoso transatlantico del mondo, in viaggio inaugurale dal porto di Southampton alla volta di New York, quando nella notte fra il 14 e 15 aprile del 1912 si scontrò con un iceberg affondando nel giro di 2 ore e 40 minuti. Morirono 1.518 passeggeri di cui 900 uomini dell'equipaggio, su 2.223 persone che erano a bordo. Solo poco più di 700 persone persone ebbero salva la vita.

 

La ricostruzione di una cabina di terza classe

 

A tenere viva la memoria del Titanic e il suo tragico epilogo, le spedizioni che si sono succedute nel corso di oltre un secolo, e i tanti ritrovamenti di oggetti, ma anche una famosa pellicola del 1997, un kolossal diretto dal regista James Cameron, che fece il giro del mondo, totalizzando un botteghino da record, giungendo con tutto il suo drammatico messaggio alle nuove generazioni.

Il muro di ghiaccio

Gli italiani a bordo: personale del ristorante di prima classe

In mostra anche un dettagliato elenco, con alcune note, di ognuno dei 37 italiani a bordo, imbarcati per prestare servizio nel ristorante di prima classe del transatlantico, su esplicita richiesta della White Star Line, proprietaria del Titanic, che aveva imposto camerieri solo italiani. La selezione del personale era stata affidata a Luigi Gatti, un esperto ristoratore che all’epoca gestiva tre locali e sul Titanic aveva sotto di sé cinquanta dipendenti.

Maestranze specializzate, camerieri, macellai, addetti ai bicchieri, sommelier, giunti dal Piemonte, dalla Liguria, dalla Lombardia, dalla Toscana, che pernottavano sul ponte E, negli scantinati del transatlantico. Non essendo riuscito a denunciare all’ufficio del lavoro i nomi del personale reclutato, affidò il documento a una passeggera che stava salendo sulla scialuppa, ma nessuno seppe più nulla di loro, annegarono nelle acque gelide dell’Atlantico perché non c’era posto per loro sulle scialuppe di salvataggio. Tra questi Basilice Giovanni, 27 anni, di Ceriano Laghetto (MI), cameriere. Il suo corpo non è mai stato ritrovato e i genitori furono risarciti con sole 25 sterline che si presume fosse la paga per i giorni di lavoro prima della tragedia. Peduzzi Giuseppe, 24 anni, di Schignano (CO), era emigrato a Londra per fare il cameriere. Il suo corpo non fu mai identificato. Una lapide, di cui è stata trafugata la foto, lo ricorda a Schignano, e nel 2012, in occasione del centenario dell’affondamento, il comune ha finanziato un’artista locale perché dipingesse un ritratto di Giuseppe in base al ricordo dei parenti.

 

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La cucina del Titanic

A giudicare dalle quotazioni a cui vengono ancora battuti i reperti del Titanic ritrovati e poi affidati a famose case d’asta, il secolo e più che ci separa dal naufragio, non è servito a far perdere appeal all’argomento, ammantando ancora oggi l'evento più glamour e tragico di quell'inizio '900 di un'incredibile fascino. Anche per via di quella sintesi di disperazione e sfarzo che rappresentava, espresso – quest'ultimo – in ogni dettaglio, si trattasse di arredi o di cucina. 

titanic

Già la cucina. Che cosa si mangiasse nel transatlantico più grande, veloce, e lussuoso del mondo, sembra interessare ancora, e traspare anno dopo anno nel corposo materiale arrivato fino a noi grazie ai passeggeri sopravvissuti. Un menu miracolosamente scampato al naufragio, battuto tra i 50 e i 70 mila dollari, ci parla di quel nefasto ultimo giorno di navigazione.

ttanic

Il menu? Cucina internazionale, in senso letterale. Piatti francesi, il consommé contadino, le uova all’argenteuil (una varietà di asparagi con il gambo bianco e la punta verde-viola), ma anche piatti americani, come il pollo alla Maryland (passato nella farina, avvolto nella pancetta e accompagnato da piselli e ceci); il prosciutto della Virginia; oppure ricette scozzesi, come la Cockie leekie, zuppa a base di pollo e porri, o piatti inglesi: dalle jacket potatoes, le patate stufate al forno, alla brawn, la testa in cassetta, affettato simile alla coppa fatto con la testa del maiale (tipico anche di alcune regioni italiane), passando per la lingua di bue salmistrata, poi alla griglia. E poi braciole di montone, salmone, anguille norvegesi, scampi, sardine affumicate, aringhe, filetti di rombo. Nel menu compare anche la Bologna sausage, un salume a base di pollo, tacchino e maiale diffuso negli Usa e in Canada che deve il suo nome a una remota somiglianza con la mortadella per concludere con pudding, meringhe, pasticcini e selezione di formaggi (tra cui il nostro Gorgonzola, che giungeva a Londra a bordo di casse di legno con paglia). Made in Italy che non poteva mancare su una nave di lusso, ed era già un brand famoso. Oltre a olio, vino, prodotti di pelletteria, c’è infatti la certezza che fossero imbarcate anche 30 forme di Parmesan Cheese, utilizzato a scaglie, ma anche per preparare il consommè Olga (parmigiano in bastoncini come guarnizione), il sautè di pollo lyonnase (una sorta di canapè di sfoglia riempiti di verdure e formaggio), la zuppa Parmentier (con patate e Parmigiano Reggiano tagliato a fette).

E per rivivere l’atmosfera edoardiana di quegli anni, c’è un museo a Belfast con oggetti e cimeli del Titanic, e il ristorante Rayanne House, dove lo chef Connor McClelland si ispira allo stile del famoso transatlantico e alla cucina del Titanic, con un menu di nove portate che strizza l’occhio al grande chef francese dell’epoca August Ecoffier, mentre i balconi delle camere, si affacciano sul Belfast Lough, l'insenatura dalla quale il Titanic salpò per la prima e ultima volta.

 

Titanic – The Artifact Exibition | Torino | Promotrice delle Belle Arti | via Balsamo Crivelli, 11 | fino a 25 giugno | http://www.mostratitanic.it/

 

a cura di Luca Bonacini

 

www.rayannehouse.com

 

 

Link immagini: https://goo.gl/eVuSxC

 

 

 

La Città del gusto Roma svela tutti “i segreti dell’Asia” con il Food, Wine and Music

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Appuntamento nel cortile della Città del gusto con la cucina orientale di Cina, Giappone e Thailandia. Assaggi, lezioni di cucina e degustazioni guidate per una serata all'insegna del divertimento e del buon cibo. 

Chi non subisce in fascino della cucina orientale? La sua grande e secolare tradizione gastronomica ha da sempre suscitato curiosità e destato l’attenzione dei foodies di tutto il mondo. Se in origine era soprattutto la cucina cinese a farla da padrone, negli ultimi anni abbiamo assistito al fiorire di insegne dedicate all’arte culinaria di altri Paesi orientali, dalla Thailandia al Giappone più autentico, al Vietnam. E tanti sono gli imprenditori che hanno scelto di scommettere su questa nuova passione degli italiani. Tanto interesse è giustificato anche dalla qualità di alcuni piatti, apprezzabili sia per gli ingredienti utilizzati, che per tecniche di preparazione e cottura.

Gambero Rosso Academy ha riunito tutto questo in uno speciale evento alla Città del gusto di Roma: si tratta del “Food, Wine and Music: I segreti dell’Asia” in programma giovedì 15 giugno, dalle 19 alle 23. È qui che si riuniranno le cucine cinesi, giapponesi e thailandesi per un evento unico nel suo genere.

 

L’evento

Nel cortile esterno della Città del gusto sarà possibile degustare specialità gastronomiche della cucina cinese, giapponese e thailandese, sake e cocktail a base di sake preparati da Joy Napolitano, barman e manager di The Barber Shop, secret bar romano a due passi dal Colosseo, che strizza l’occhio alla moda newyorkese con serate barba&capelli e cocktail originali.

Da bere anche un'ampia selezione di birre artigianali (sia alla mescita che in bottiglia) scelte dagli esperti UDB - Unione Degustatori Birre, acquistabili sul posto.

Ad allietare la serata la buona musica suonata dagli AfterWork che proporranno un percorso musicale all’impronta dello smooth jazz, funk e latin jazz suonando classici italiani e inediti con qualche rivisitazione in chiave pop, rock e folk.

Acquistando il biglietto si avrà diritto a una degustazione che comprende un assaggio di cucina cinese, uno di cucina giapponese, uno di cucina thailandese e uno di ramen da abbinare a un bicchiere di sake, a un cocktail o a un calice di vino selezionato dagli esperti Gambero Rosso Academy.

Ulteriori consumazioni (un assaggio a scelta tra le proposte della cucina cinese, giapponese, thailandese o ramen e una bevanda) saranno invece acquistabili a 5 €.

 

I corsi di cucina

Ma non è tutto. Gambero Rosso Academy proporrà per l’occasione anche tre corsi di cucina a tema (dalle 19 alle 22), con tre chef italiani specializzati nella cucina asiatica: la cucina cinese con lo chef Gianni Catani, curatore del progetto svolto in collaborazione con Vocational Training Center e il Chinese Culinary Institute; Ia cucina giapponese con Riccardo Fanucci, resident chef del ristorante Tiki Maki di Roma, curatore del progetto Gambero Rosso Academy Japan a Tokyo; la cucina thailandese con Rita Monastero, corrispondente in Thailandia per Gambero Rosso Academy, dove è docente dei corsi professionali e amatoriali presso il Dusit Thani College.

 

La degustazione

Se invece siete appassionati di sake, potrete partecipare a una degustazione di sake guidata da Gaetano Saccoccio - ideatore e curatore di “Natura delle cose”, il sito attraverso il quale promuove un’educazione consapevole al bere, e autore del libro “Un viaggio nel sake” - che guiderà i partecipanti in un affascinante viaggio alla scoperta di questa bevanda alcolica ricavata dalla fermentazione del riso e prodotta da secoli in Giappone.

In abbinamento sarà servito per l’occasione un ramen preparato da Hideki Nakagawa, chef di Koto Ramen, il primo ramen bar di Firenze: in assaggio, oltre allo Shoyu ramen, in anteprima esclusiva per Gambero Rosso, il Tonkotsu ramen.

Altre specialità di Koto Ramen (come il bao bun ripieno di kakuni, pancetta brasata alla giapponese) potrete gustarle tra i banchi d’assaggio in cortile.

I biglietti per Food, Wine and Music: I segreti dell’Asia sono acqustabili sullo store online di Gambero Rosso o presso la segreteria delle scuole della Città del gusto Roma.

 

Food, Wine and Music: I segreti dell’Asia | Roma | Città del gusto, via Ottavio Gasparri, 13 | il 15 giugno dalle 19 | Per Informazioni e biglietti clicca qui

 

a cura di Gianluca Ciotti

 

 


La focaccia e i suoi derivati. 6 specialità della Toscana e la ricetta della torta di ceci

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La terza puntata sulle focacce regionali ci porta in Toscana, terra della schiacciata all’olio e della cecìna. Ma anche di preparazioni particolari come il panigaccio, e della focaccia nelle sue mille varianti. Ecco 6 specialità tipiche di questa regione e la ricetta della torta di ceci della pizzeria Da Cecco di Livorno.

C’è la focaccia leva, quella pontremolese e quella di nonno Pilade. Ci sono i ciaccini senesi, le focaccine di Aulla e il panigaccio di Podenzana. Sono i prodotti da forno toscani, un mondo tutto da scoprire. Vi raccontiamo 6 preparazioni tipiche, con la ricetta della torta di ceci della pizzeria Da Cecco di Livorno, selezionata dalla nostra guida Street Food 2017.

 

Cecìna o torta di ceci

Tanti i nomi di questa preparazione semplicissima diffusa sia in Toscana che in Liguria, unico il sapore: quello della farina di ceci trasformata in una focaccia bassa e croccante, e del pepe che viene messo sulla superficie in abbondanza. La cecìna è la versione toscana della farinata ligure, di cui abbiamo già parlato, che in questo territorio diventa un vero e proprio street food. Solitamente si mangia dentro ilfrancesino: un pane lungo di farina di grano duro, che viene riempito di pezzi di torta di ceci spolverati di pepe. Il nome cecìna viene usato soprattutto a Pisa, ma anche a Lucca e nella Versilia, mentre nella variante livornese è chiamata torta di ceci o, più semplicemente, torta. Dalla tradizione livornese è nato un appellativo popolare, che identifica la merenda tipica  con l’espressione “cinque e cinque”: un modo di dire nato nella prima metà del XX secolo che indicava una porzione di 5 centesimi di lira di torta e 5 centesimi di lira di pane.

Il 5 e 5 oggi fa parte dei prodotti tradizionali della cucina livornese e viene venduta dai tortai, negozianti specializzati, ma anche pizzerie al taglio e locali di street food. Un panino diventato talmente importante per la città da dedicargli un cammino gastronomico chiamato proprio “Dammi 5 e 5!”. La cecìna non è diffusa solo a Pisa, Livorno e Lucca, ma anche a Carrara, dove si chiama calda calda. Noi abbiamo chiesto la ricetta della cecìna, anzi in questo caso della torta di ceci, alla pizzeria Da Cecco di Livorno, selezionato dalla nostra guida Street Food 2017.

 

Cecìna o torta di ceci - foto di Carpe DiemCecìna o torta di ceci - foto di Carpe Diem

 

Ciaccino senese

Un prodotto che nasce come derivato della ciaccia o schiaccia, di cui parleremo più avanti, la tradizionale schiacciata impastata con i frizzoli, i ciccioli di maiale. Da questa specialità diffusa un po’ in tutte le province è nato il ciaccino, una mini focaccia croccante fuori e morbida all’interno - preparata con farina di grano duro, lievito, sale, acqua, olio extravergine d’oliva o, nelle ricette più antiche, strutto -  diffusa soprattutto a Siena. Solitamente viene farcita con prosciutto e mozzarella, ma sono diverse le varianti che si trovano nei locali senesi, come quelle con pomodorini e mozzarella, oppure quella ripiena di salsiccia e verdure ripassate in padella. Una ricetta locale particolarmente golosa vuole il ciaccino ripieno digota stagionata, salume ricavato dalla guancia del maiale conciata e salata, e pecorino delle Crete Senesi, che viene lavorato tra Pienza, Montepulciano, Castiglione d’Orcia e altri comuni della provincia.

A Ciciano, frazione del comune di Chiusdino, immerso nel verde della Colline Metallifere, ogni ogni estate si celebra il ciaccino e le sue tante varianti, fra cui anche quella dolce a base di uvetta e noci.

È diffuso anche a Firenze, dove è conosciuto come covaccino, mentre a Pistoia viene chiamato cofaccino: in entrambi i casi è più sottile del ciaccino, ricoperto soltanto con olio extravergine toscano e grani di sale grosso.

 

Ciaccino seneseCiaccino senese

 

Focacce e varianti

Sono davvero tante le preparazioni da forno che in Toscana vengono chiamate “focaccia”: spesso il nome è utilizzato come sinonimo di schiacciata, che racconteremo più avanti, anche se la focaccia, pur avendo gli stessi ingredienti, comprende sempre il lievito ed è quindi più alta e morbida.

Una preparazione particolare è la focaccia leva di Gallicano, piccolo comune della Lucchesia, la cui ricetta si tramanda da molto tempo. È fatta con gli ingredienti del pane, a cui si aggiungono un po’ di latte e delle patate lessate per renderla più soffice. Qui di solito si mangia insieme a un altro piatto tradizionale, i fagioli giallorini all’uccelletto, ma si trova anche da sola, farcita con pancetta arrotolata, lardo, formaggi freschi o semi stagionati. Altra pietanza tradizionale è quella di Seravezza, realizzata con un mix di farina 0 e farina di mais macinata a pietra, a cui si aggiungono sale, acqua, lievito, olio d’oliva, pezzettini di lardo e un trito di basilico, rosmarino e aglio. 

Più simile al pane è la focaccia pontremolese, zona di Massa-Carrara, che ha la caratteristica di lievitare avvolta nelle foglie di castagno, cosa che conferisce al prodotto un’aromatizzazione particolare. Nella stessa zona, a Fossola, frazione del comune di Carrara, si fa la focaccia di nonno Pilade, che prende il nome da un cittadino affettuosamente chiamato da tutti “nonno”, che ne mise a punto la ricetta: lievita fra le 6 e le 9 ore e comprende, oltre agli ingredienti di base, anche uova, semi d’anice, mandorle, nocciole e uva sultanina.

A metà fra il dolce e il salato è anche la focaccia bastarda di Pitigliano che, a guardarla, somiglia più ad un panettone. Gli ingredienti sono farina, ricotta, cannella, sale, un pizzico di pe­pe, olio d’oliva e lievito naturale: nel piccolo comune del grossetano sono solo 4 i forni che ancora producono questa specialità, tradizionale del periodo pasquale.

 

focaccia con patatefocaccia con patate

Focaccette di Aulla

Ci spostiamo in Lunigiana, una zona compresa fra le provincie di Carrara in Toscana e della Spezia in Liguria, per raccontarvi le focaccette di Aulla, fugacete nel dialetto locale. Le loro origini affondano nel mito delle “streghe donaneghe”, figure magiche che si racconta popolassero i boschi della Lunigiana e che sarebbero le creatrici di questa ricetta.

Alte circa 1,5 centimetri, rotonde e dalle dimensioni contenute, sono preparate con farina di grano duro, spesso mescolata alla farina di mais, sale, lievito madre e acqua. Si cuociono sul testo, una piastra dalle antiche origini formata da una base di terracotta o, nella cucina moderna, anche in ghisa. In realtà sono due i metodi di cottura ammessi: nei testi impilati e messi sul fuoco tutti insieme, oppure e nel forno, riscaldato con legna di quercia. 

Solitamente vengono mangiate come antipasto o per merenda, con farciture di vario tipo: con formaggi e salumi locali, in particolare pancetta e lardo, con i rapini, per ottenere una versione vegetariana, oppure con ilchiodo, l’impasto della salsiccia o del salame cotto negli stessi testi. 

Sono diverse le sagre storiche che celebrano le focaccette, fra cui quella di Vaccareccia, Fornoli (frazione di Bagni di Lucca) o Amola (frazione Licciana Nardi).

Una variante della Garfagnana sono le crisciolette di Cascio, realizzate con un mix di farine di frumento e mais, cotte tra i testi e consumate con pancetta o formaggio.

 

Focaccia di Severazza - foto di Serena Giovannoni,FoodSpottingFocaccia di Severazza - foto di Serena Giovannoni, FoodSpotting

 

Panigaccio di Podenzana

Un prodotto a metà fra schiacciata e piadina, anche in questo caso cotto nei testi, ma questa volta quelli di Podenzana, in provincia di Massa-Carrara, i più antichi e celebri di tutta la Toscana. L’uso di queste piastre in terracotta risale all’epoca bizantina, quando diverse preparazioni realizzate con questo metodo venivano servite come antesignano del cibo di strada, ai pellegrini di passaggio sulla via Francigena.

La ricetta di base prevede acqua, farina e sale, da mescolare fino a ottenere una pastella fluida che non deve riposare, né tantomeno lievitare. L’impasto viene versato nei testi già arroventati sul fuoco e impilati, in modo che per la cottura, fatta nel forno a legna o sul fuoco del falò, siano necessari solo pochi minuti. Una volta pronto, può essere mangiato subito, farcito con formaggi molli e salumi.

Nella Lunigiana toscana il panigaccio è invece una cialda più piccola, di circa 15 centimetri, da tagliare a metà e farcire sia con ingredienti salati che dolci.

 

Panigaccio di Podenzana - foto di World SoupPanigaccio di Podenzana - foto di World Soup

 

Schiacciata all’olio

Anche in questo caso, diverse specialità in regione vengono identificate con il nome di schiacciata. Noi partiamo dalla schiaccia ociaccia, la più tradizionale e antica, sinonimo di schiacciata all’olio (da non confondere con la schiacciata fiorentina che è invece un dolce): un prodotto basso, cotto nel forno a legna, pizzicato in superficie e condito con olio extravergine d’oliva. Nella versione dei contadini, all’interno dell’impasto (un composto di farina di grano duro, acqua, in alcuni casi latte o vino, sale e olio per condire) si mettevano i ciccioli, che qui prendono il nome regionale di frizzoli.

Tante le varianti in regione, fra cui quella di Grosseto, salata solo in superficie e spesso farcita con cipolle e acciughe, che diventa un piatto unico, da consumare al posto del pranzo. Altra variante celebre è la schiaccia pala di Montiano, una preparazione dalle grandi dimensioni (40-50 centimetri di diametro) prodotta con la pasta del pane e infornata sulle pale da pizza.

Tre le versioni dolci di questa pietanza, c’è la classica schiaccia con l’uva, solitamente canaiolo, che si trova a Firenze e dintorni: niente di più di una schiacciata farcita con dei chicchi d’uva sia all’interno che in superficie. La schiaccia pizzicata è invece a base di farina, uova, zucchero, ricotta, uvetta e scorza d’arancia, ed è pizzicata proprio come nella versione salata; la terza, tipica delle celebrazioni del 2 novembre, è la schiaccia dei morti, preparata con farina, olio, acqua, lievito naturale e pezzettini di fichi secchi, uva passa e noci.

 

Ricetta della torta di ceci della pizzeria Da Cecco

 

ingredienti

1 kg di farina di ceci

60 g di sale

3 l di acqua

50 cl di olio di arachide 

 

procedimento

Mescolare la farina di ceci con il sale, l’acqua e 40 cl di olio di arachidi. Una volta amalgamato il composto, che deve restare abbastanza liquido, lasciarlo riposare per 1 ora almeno (l’ideale sarebbe 1 ora e mezzo). Ungere la teglia di rame stagnato con il restante olio e con un mestolo versare il composto. Se si utilizza il forno a legna, bastano 10 minuti di cottura, mentre se si cuoce nel forno casalingo sono necessari circa 30 minuti a 200 gradi.  Per comporre il 5 e 5 mettere la torta di ceci all’interno di un panino chiamato francesino, completando il tutto con del pepe a piacere.

 

Pizzeria Da Cecco | via dei Cavalletti, 2 | tel. 0586 881074 | www.facebook.com/pg/CeccoAlessio/about/?ref=page_internal

 

 

a cura di Francesca Fiore

 

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Lotta allo spreco alimentare. Dal G7 alle ultime novità. A New York l’energia pulita si fa con gli scarti

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Mentre a Bologna si conclude il G7 dell’ambiente aperto dal confronto sullo spreco alimentare tra Italia e Stati Uniti, sono tante le iniziative che cercano di porre un freno a un’emergenza globale. Da Milano il circuito solidale, a Berlino l’outlet del cibo scaduto. E a New York si produce biogas. 

Al G7 di Bologna si parla di spreco

Plastica in mare e spreco alimentare. Il G7 dell’ambiente di scena a Bologna in queste ore cerca di superare le incomprensioni di Taormina (con Trump che porta gli Stati Uniti fuori dall’accordo di Parigi), concentrandosi (anche) su due emergenze ambientali del nostro tempo. Guidato dal ministro Galletti, il gruppo che riunisce i leader di Giappone, Francia, Gran Bretagna, Canada, Germania e Stati Uniti e i 4 ministri di Cile, Ruanda, Maldive ed Etiopia, ha posto all’ordine del giorno anche l’annoso problema dell’inquinamento marino e le buone pratiche per contrastare lo spreco di cibo. Dibattito sul clima, dunque, ma imprescindibile impegno per la sostenibilità: proprio nella giornata conclusiva di lunedì 12 si discuterà di “Tre R”, riduzione, riuso e riciclo, ed economia circolare. Anche in termini di abitudini e costumi alimentari. Il tema è stato preceduto, alla vigilia dell’incontro, dal tavolo tra Italia e Stati Uniti sugli Innovative Food Waste Approaches (ospitato dal nascente Fico), in riferimento tanto all’esperienza della campagna Spreco Zero che l’Italia conduce da anni in diverse città, come alle buone pratiche promosse negli States sullo stesso tema. Ma intanto, fuori dalle sale del potere, quali sono le ultime novità in materia di lotta allo spreco?

Ghe n’è minga de ruera. La rete di Milano

Mentre a Londra prende forma l’ennesimo refettorio di quel progetto ambizioso e visionario che Massimo Bottura inaugurava giusto un paio d’anni fa, in concomitanza con Expo 2015, a Milano si concretizza un nuovo circuito di prossimità che aiuta chi non ha cibo recuperando quello in eccesso, altrimenti destinato allo spreco. L’idea è frutto del sodalizio tra Ciessevi (Centro Servizi per il Volontariato della Città Metropolitana di Milano) e Milan Center for Food Law and Policy, e si concentra sulla piccola distribuzione che vuole contribuire alla causa, mettendola in comunicazione con le associazioni a loro volta impegnate a redistribuire cibo fresco e di qualità alle famiglie bisognose (11mila i nuclei familiari in difficoltà censiti a Milano). Ghe n’è minga de ruera – “non ce n’è mica di spazzatura” - è il nome spiccatamente meneghino del progetto che si auspica possa essere operativo dopo l’estate, quando la rete di panettieri, pasticceri, fruttivendoli, trattorie e tutte quelle attività che producono o vendono cibo non stoccato sarà costituita, con l’obiettivo di distribuire prontamente i prodotti freschi alla fine di ogni giornata, sull’onda della legge Gadda approvata lo scorso agosto.

SirPlus. L’outlet del cibo scaduto a Berlino

Intanto a Berlino, città da tempo protagonista della battaglia contro lo spreco alimentate, comincia l’avventura di SirPlus, l’outlet che vende cibi scaduti, ma commestibili, variante tedesca di un’esperienza già attiva in diverse città nord europee (anche se in tutta Europa si continuano a sprecare ogni anno circa 88 milioni di tonnellate di cibo). A Berlino l’idea arriva ancora una volta da Raphael Fellmer, attivista già noto per le sue teorie sul ritorno al baratto e l’apertura di una piattaforma online che mette in comunicazione i Gas della città. Con due soci, Raphael sta promuovendo la realizzazione del progetto su un sito di crowdfunding, che servirà a reperire i fondi per intraprendere il business: 150mila euro il traguardo da raggiungere, quando mancano 35 giorni alla fine della campagna e sono stati raccolti oltre 65mila euro. Da SirPlus il cibo scartato dai supermercati sarà venduto al 70% in meno del prezzo di mercato, e un’app consentirà di ordinare i prodotti disponibili e farseli recapitare a casa entro 24 ore.

Biogas. Energia pulita dal cibo in eccesso

A New York, invece, si attacca lo spreco alimentare da una prospettiva diversa, ma altrettanto valida. E innovativa. La metropoli produce ogni anno 14 milioni di tonnellate di rifiuti, e già nel 2013 l’allora sindaco Michael Bloomberg individuava la lotta allo spreco alimentare come frontiera all’avanguardia sulla via del riciclo. Un’idea ripresa dal suo successore Bill de Blasio, che proprio negli ultimi mesi sta lavorando per perfezionare un sistema di raccolta dei rifiuti organici sistematico ed efficiente, già operativo in molti distretti della città, e in costante espansione, sul modello di città come San Francisco e Seattle, ma con la difficoltà in più di applicarlo a una città popolosa come New York. Ma la sfida più innovativa arriverà in un secondo momento, quando si tratterà di riciclare gli scarti alimentari. Oltre a incentivare i privati che lavorano sul compostaggio, la risorsa in più potrebbe rivelarsi quella di produrre energia pulita a partire dalle eccedenze di cibo. Come? Con l’aiuto di microrganismi anaerobici che nutrendosi dell’organico producono il cosiddetto biogas, da utilizzare come carburante per le automobili o incanalare in condotti di gas naturale. La sperimentazione è cominciata nel 2012, ed entro il 2018 un ristretto campione pilota di utenti potrà utilizzare il biogas prodotto al Brooklyn’s Newton Wastewater Treatment Plant. Per saperne di più consigliamo l’esaustivo reportage “animato” del New York Times.

 

a cura di Livia Montagnoli

Libri. Gialli Culinari. Racconti gastronoir alla maniera di Hitchcock

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Dal cinema al cibo e ritorno: un libro di racconti mescola cucina e grandi film d'autore in una raccolta nerissima e molto gustosa.

C'è un sacco di roba in Gialli Culinari, il libriccino di Rosalba Graglia per i tipi di Morellini. C'è il suo amore per la cucina e quello per il cinema, la passione per Truffaut e quella per Hitchcock. E – ovviamente – anche quella dell'uno per l'altro. In un inevitabile golden bridge che unisce i due registi con tanto di riferimento a Il cinema secondo Hitchcock (libro cult frutto di un'intervista fiume del francese al maestro inglese, recentemente anche diventato un doc diretto da Kent Jones). Truffaut, con il suo ultimo film, Finalmente domenica, è stato il modello per questo libro. Da Hitchock, invece, e dalla sua vasta filmografia, Rosalba Graglia ha preso a prestito i titoli dei racconti, ognuno poi corredato da una breve e arguta sinossi della pellicola cui è collegato. La Graglia mette insieme tutto questo e ne escono 9 brevi storie che traducono su carta l'incontro di questi elementi, mescolandoli a un'altra passione: quella della scrittura, per lei anche una professione dato che Rosalba scrive di cibo, anche su queste pagine (virtuali e non ). Le protagoniste dei racconti sono tutte donne, e – neanche a dirlo – tutti i racconti hanno una fine nerissima, non a caso questi sono racconti gastronoir, come la stessa autrice si è divertita a definirli, con un neologismo di cui rivendica la maternità, quello dell'esplicativo sottotitolo: Racconti gastronoir alla maniera di Hitchcock.

I racconti

Dalla sua dimestichezza con il mondo della gastronomia arrivano molti spunti e altrettante ambientazioni, e la conoscenza di vezzi e vizi di questo ambiente regala all'autrice più di una suggestione per tratteggiare i contorni di questi quadretti. Miniature garbate ma appuntite di quella varia umanità che popola il settore del cibo e quel ci gira attorno.

C'è la blogger, quella che – lentamente - mescola la vita vissuta con la sua proiezione virtuale fino a farsene invadere (in Vertigo, la blogger che visse due volte) cedendo alla lusinga del facile successo. E mentre la Graglia passa al tritacarne (anzi ne fa una battuta al coltello), le manie di quel limbo che unisce blogosfera e vita reale, ritrae l'esistenza volatile delle starlette del cibo e questa gastrofollia che pare aver contagiato, senza possibilità di salvezza, ormai tutti quanti.

E continua con la sua disanima anche quando narra di Frenzy, scuola di cucina,nel raccontino arguto che richiama il più gastronomico dei film di Hitchcok. La sceneggiatura di Frenzy diventa proprio il grimaldello di questo breve noir ambientato tra pentole, fornelli e un ciclo di lezioni di ricette cinematografiche che dà il là a un incontro che si rivelerà fatale.

Si parla ancora di scrittura e narrazione del cibo nel terzo racconto, La donna che sapeva troppo (da L'uomo che sapeva troppo)in cui la food writer di turno si trasforma in ghost food writer, in un crescendo di frustrazioni e attualità. Quella del veganesimo e delle varie mode alimentari, da distinguere – mi raccomando – dalle allergie, che possono essere letali. La finestra sul cortile non è altro che quella della caffetteria che incarna il sogno (di molti) di una attività nel campo della somministrazione. In fondo sembra facile, no? Si preparano cose buone, con buoni prodotti. Invece la ristorazione, a qualunque livello, è una brutta bestia, e non basta cucinare bene per essere un bravo ristoratore. Non è un caso che in Italia chiudano più attività di quante ne aprano e la malavita trovi terreno fertile per i suoi loschi traffici.

Non manca, ovviamente, il vino (Il sospetto), con quell'immaginario di bella vita che si porta dietro. Un lifestyle da cartolina, perfetto panorama per un thriller psicologico che concentra ogni tensione intorno a un bicchiere, non di latte (come nell'originale cinematografico), ma di vermouth. Poi ci sono anche Rebecca,che gioca come nel film, sul tema del doppio, Gliuccelli, che chiama in causa i locali tematici, i concept store dove al “famolostrano” non c'è mai fine, tanto da mettere in vetrina tanti e tanti animali domestici, nel racconto uccellini (non poteva essere altrimenti), più di frequente gatti. Certo, sembra voler dire la Graglia, gli animali domestici li amiamo un po' tutti, ma siamo sicuri che i ristoranti siano il loro posto? Non poteva mancare Psycho, dove il presunto potere taumaturgico del cibo manifesta, drammaticamente, i suoi limiti nel comprendere e correggere le psicosi delle persone. L'ultimo, infine, è Nodo alla gola. Questo è il racconto numero 9, quello in cui, come dice la stessa autrice, “si è presa una piccola rivincita”. Un raccontino che strapperà un sorriso a chiunque abbia mai indagato, con un po' di attenzione, per scoprire cosa si nasconde dietro gli odori più familiari.

La presentazione

Rosalba Graglia lunedì 12 giugno alle 18,30 presenta Gialli Culinari alla Città del gusto di Torino. Un appuntamento fra storie da brivido, food e spezzoni di film di Hitchcock.

 

Gialli Culinari | di Rosalba Graglia | Morellini editore

Città del gusto di Torino | corso Stati Uniti, 18/a | lunedì 12 giugno h.18.30 | prenotazione obbligatoria: tel. 011 4546594

 

a cura di Antonella De Santis

 

I Carbonari a Roma. Apre a Trastevere il ristorante-scuola sequestrato alla 'ndrangheta

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I protagonisti di questa storia di ritorno alla legalità, che partirà il 15 giugno, sono gli studenti dell'Istituto alberghiero Tor Carbone, che hanno ottenuto la concessione dell'ex Rosticchio (locale sequestrato un anno fa) dal Ministero di Giustizia. Per loro, guidati dai professori, un'ottima opportunità di lavoro, per mettere in pratica quello che imparano a scuola. Proprio nel cuore di Trastevere. 

Il sequestro di Rosticchio. Un anno fa

Era l'autunno 2014. A Roma, rione Trastevere, proprio sotto la targa che celebra i natali di Alberto Sordi in via di San Cosimato, apriva i battenti Rosticchio, piccolo locale dedito al take away della tradizione capitolina e italiana. Una delle tante insegne acchiappaturisti senza infamia e senza lode, con proposta di “fritti di strada, lasagna, parmigiana”, e temibile menu del giorno a 7 euro tutto compreso. Poi, un anno fa, un'indagine delle forze dell'ordine porta al sequestro dell'attività, confiscata a un clan della 'ndrangheta. Sorte comune e tante insegne della ristorazione turistica più squalificante per la città. Un anno dopo, però, e la buona notizia arriva dalle pagine del Corriere della Sera, il piccolo spazio trasteverino è pronto a riaprire, grazie alla gestione degli studenti dell'Istituto alberghiero di Tor Carbone, concessionari della licenza commerciale e dell'attività per decisione del Ministero di Giustizia. Scelta azzeccata, ci sembra già il caso di sottolineare, non solo perché mira al ripristino della legalità, ma pure perché valorizza la formazione professionale, e ci offre l'opportunità di spezzare una lancia a favore dei tanto bistrattati istituti alberghieri. Perché le realtà virtuose, nel mondo scolastico, esistono ancora, pur in economia di risorse.

Il progetto dei ragazzi di Tor Carbone

E infatti la soddisfazione di Riccardo Cocco, presidente del Consiglio d'Istituto della scuola della periferia romana, è tangibile. A lui, in qualità di vicepresidente della cooperativa Alpha 53 – costituita per l'occasione, il presidente è il professor Mario Sapia – spetta il compito di sottolineare come, per la prima volta in Italia, “una scuola ottiene un bene che era della malavita organizzata, e di questo siamo orgogliosi”. Ora al civico 12 di via San Cosimato cosa succederà? L'obiettivo è quello di garantire un primo futuro lavorativo ai ragazzi diplomati in Istituto, garantendogli anche un'ulteriore valvola di sfogo rispetto alle attività in aula: i ragazzi di Tor Carbone (1500 in tutto), infatti, già gestiscono il bar interno del liceo Vivona all'Eur e presto applicheranno la stessa formula al liceo Russell, quartiere Tuscolano.

 

I Carbonari. Rosticceria di qualità

A Trastevere, invece, proporranno pizza, fritti, ricette della cucina romana e piatti più elaborati – secondo il modello di una rosticceria da asporto, con qualche tavolino per una pausa veloce – lavorando nel seminterrato di 200 metri quadri, dove è stato ricavato il laboratorio di cucina, montato dai ragazzi con l'aiuto dei professori. Il principio è quello del turnover, quattro ragazzi tra bancone e cucina che si avvicenderanno ogni settimana, coordinati da un supervisore esperto. E sotto il profilo gestionale cambia tutto: la cooperativa pagherà un affitto ai proprietari delle mura, mentre gli incassi saranno riutilizzati per attività di ristorazione e turismo. E cambia anche l'insegna, I Carbonari, che riassume più significati in una sola parola, richiamando la toponomastica di Tor Carbone, il piatto simbolo della tradizione gastronomica cittadina e pure i moti rivoluzionari del gruppo guidato tra gli altri da Giuseppe Mazzini all'epoca dell'Unità d'Italia. Giusto per ribadire con forza i valori della legalità. Si inaugura il 15 giugno, alle 18.30.

 

I Carbonari | Roma | via di San Cosimato, 10-12 | tel. 06 58300374 | inaugurazione il 15 giugno | https://www.facebook.com/carbonari53/

 

a cura di Livia Montagnoli

 

Gelaterie d'Italia 2017. Gusto & Salute: Oasi American Bar di Fara Gera d'Adda

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Alla scoperta delle migliori gelaterie d'Italia: fra le insegne che si distinguono per qualità e freschezza delle materie prime e un'attenzione particolare alle loro proprietà nutraceutiche, è l'Oasi American Bar della provincia di Bergamo a guadagnarsi il premio speciale della guida del Gambero Rosso.

Mangiare bene con gusto

Gusto e salute: un binomio sempre più stretto in ambito enogastronomico, in Italia come all'estero. La buona cucina che fa bene non è più un'utopia, con le conoscenze attuali e le competenze acquisite si può ambire a questo risultato. Il punto di partenza è un'alimentazione sana che, ormai lo sappiamo, è alla base di una migliore qualità della vita. Ma ci si può spingere oltre: usando, in maniera consapevole, i cosiddetti alimenti funzionali: quelli naturalmente ricchi di proprietà benefiche per il nostro organismo, capaci di una specifica azione preventiva per la salute. Coniugare più elementi ricchi di proprietà nutraceutiche non è sempre semplice ma sembra ormai la strada da percorrere per rispondere alle tante esigenze alimentari dei consumatori, e soprattutto per valorizzare il ruolo del cibo, non più solo sostentamento e piacere, ma anche cura, ma ancor prima prevenzione. Così seguire un certo regime alimentare o una dieta può non essere più sinonimo di sacrifici e restrizioni, perché oggi gli alimenti funzionali e i prodotti buoni per la salute sono anche buoni per il palato.

Ce lo dimostra Candida Pelizzoli, maestra gelatiera dell'Oasi American Bar di Fara Gera d'Adda, in provincia di Bergamo, insegna che nella prima edizione della guida Gelaterie d'Italia del Gambero Rosso guadagna il titolo di miglior gelato funzionale, con il premio speciale Gusto & Salute. Ma cosa ha portato Candida a creare un gelato così singolare? La sua storia inizia 30 anni fa, e ce la siamo fatta raccontare.

L'attività

Nel 1987 Candida diventa madre, di Alessandra ma anche di un'altra creatura tutta sua, l'Oasi American Bar, una gelateria di 80 metri quadri aperta “il 17 maggio alle ore 17”, in barba alla scaramanzia (quella italiana), nello spazio di un appartamento costruito dal padre. Candida, prima di quattro sorelle, ama la buona tavola e soprattutto è una gran golosa, ma il papà immagina un futuro diverso per lei: “Ci aveva lasciato una casa, che io pensai bene di trasformare in una gelateria visto che nel piccolo comune dove siamo cresciute mancava. Mio padre era scettico, proprio perché il nostro paese è microscopico, ma io ci credevo fermamente'”. Ma a distanza di poco tempo anche il papà si è dovuto ricredere, grazie al duro e attento lavoro della figlia che, insieme al marito, ha da subito conquistato il palato dei consumatori: “Dopo un po' mio padre si è convinto a buttar giù un altro muro e lasciarmi ampliare il locale: eravamo sempre pieni!”.

Partita come una sfida personale, quella di Candida si è poi tramutata in una passione portata avanti con sempre maggiore impegno: “Ho avuto la fortuna di conoscere fin dall'inizio un'azienda locale molto buona che mi fornisce di glucosio e simili, e poi qui accanto ci sono ben due stalle da dove posso rifornirmi per il latte, sia di pecora che di mucca”. E non solo: “Ho avuto anche tanto aiuto da parte delle mie sorelle, ma soprattutto ho avuto la fortuna di entrare in contatto con Cast Alimenti di Brescia, dove ho conosciuto nel tempo tanti professionisti, fra cui Luca Caviezel, un guru della gelateria artigianale”. Quando frequenta il primo corso, Candida è l'unica donna insieme a due uomini, “capitava raramente in passato di trovare delle gelatiere donne; sono felice di aver intrapreso questa strada”.

L'associazione

Passo determinante nella formazione dell'artigiana è la fondazione, nel 2006, di Maestri della Gelateria Italiana, associazione di cui Candida è presidente fin dal 2007. “È un ruolo che mi riempie di orgoglio, perché attraverso questa attività il confronto e lo scambio fra colleghi è molto più diretto: mi ha aiutata tanto negli anni a migliorarmi e sono certa lo farà ancora”. Grazie all'associazione, Candida conosce diversi medici e biologici nutrizionisti, con cui stringe rapporti lavorativi solidi e duraturi: “Ho compreso a fondo quanto fosse importante il ruolo del cibo nella nostra vita e ho capito che anche il gelato, nonostante sia un dolce, può diventare un alimento funzionale al nostro organismo”. È nel 2014 che nasce la nuova linea che oggi rappresenta una delle specialità e punti di forza dell'Oasi American Bar, quella dei gelati funzionali, ovvero “realizzati combinando fra loro frutta e verdure con proprietà nutraceutiche ben definite che, una volta congiunte, possono rappresentare un valido alleato contro diversi disturbi”.

La produzione

Fra i cavalli di battaglia di Candida c'è il gusto spinacino, a base di spinaci e kiwi, e poi quello con carota e violetta, e ancora pomodoro datterino e lampone, tutti riconoscibili sin dall'impatto cromatico: “I colori sono fondamentali, perché indicano il tipo di composti che si trova all'interno del frutto, come gli antociani nelle carote o i flavonoidi nella pesca e così via”,una segnaletica golosa che suggerisce sapori e proprietà.

Accanto ai gusti funzionali, ovviamente, ci sono anche quelli classici. Per esempio il cioccolato, a base di latte fresco, panna, zucchero e cioccolati Gran Crue Coer de Guanaya 70% di Valrhona, “un'azienda a cui ci affidiamo da sempre per la qualità delle materie prime e della loro lavorazione”. E ancora il cioccolato al latte, “con cacao e fava di cacao sbriciolata in fase di uscita del gelato”; o la meringa realizzata con zuccheri, albume, latte e panna; il pistacchio “di Bronte Dop” e la stracciatella. La frutta e la verdura sono tutte locali, “da piccoli agricoltori della zona”, e ci sono poi i sorbetti, le granite alla mandorla, gelsi, cioccolato, limone e basilico, arancia e zenzero e menta, “da accompagnare con la pagnottina dolce, ricetta di Luca Caviezel”. Gelato a parte, Oasi American Bar ha infatti anche una piccola linea di pasticceria e pralineria, basata soprattutto sui prodotti Valrhona: “Io la chiamo 'La pasticceria del gelatiere' perché si tratta principalmente di semifreddi, realizzati a partire da pan di Spagna molto sottili uniti ai nostri gelati”.

Complessivamente un'offerta molto varia: “Abbiamo una gamma ampia, in grado di abbracciare le varie esigenze della clientela, e stiamo molto attenti anche alla consistenza del gelato e alla sua originalità: un bravo gelatiere è quello che, una volta radunati gli ingredienti, riesce a realizzare una ricetta unica”.

La comunicazione

Quello di Candida è un prodotto particolare che fin da subito ha riscosso un bel successo fra la clientela locale e non. Ma come? “La comunicazione è fondamentale. Senza, non si va da nessuna parte: è importante condividere con i consumatori il lavoro che sta a monte del prodotto finito”. La gelatiera organizza, infatti, diversi eventi e degustazioni durante l'anno, “per esempio uno dedicato al gelato al cioccolato, in cui mostriamo dei video realizzati grazie al contributo di Valrhona, dove viene spiegata l'intera filiera produttiva del cioccolato, dalla fava di cacao alla tavoletta”. È sempre in collaborazione con l'azienda di cioccolato che la gelateria si adopera per diffondere volantini e brochure studiati su misura. Non solo: “prima di Natale, verso fine novembre, organizziamo sempre una degustazione dedicata alla pasticceria, e spesso delle serate a tema in cui facciamo assaggiare ai clienti i vini usati per realizzare i nostri gelati” come il Prosecco Valdobbiadene e il Moscato di Scanzo, “che usiamo in purezza”.

E grazie a una comunicazione attenta e mirata, il panorama del gelato artigianale italiano può continuare a crescere: “Realtà come il Gambero Rosso sono determinanti nel nostro lavoro, perché permettono al grande pubblico di venire a conoscenza di prodotti fino ad allora sconosciuti” spiega, e continua “soprattutto di guardare con occhi diversi delle specialità made in Italy a lungo date per scontate, come il gelato. La televisione è in grado di arrivare a tutti, ma anche le guide e i vari media hanno un impatto notevole sui consumatori”. La scena nazionale? “Sta migliorando sempre di più, ma non bisogna mai fermarsi, anzi: la ricerca e lo studio devono essere continui così come le azioni di valorizzazione del prodotto”.

Nel futuro della gelatiera, ora, c'è l'idea di creare una nuova linea incentrata sui fiori eduli, “una mia grande passione”, che attualmente vengono utilizzati solo come decorazione, “ma vorrei diventassero protagonisti”. E una nuova sede? “Ci abbiamo pensato ma per ora siamo felici così. Col tempo, chi può dirlo?”.

Oasi American Bar | Fara Gera d'Adda (BG) | via Treviglio | tel. 0363 399977 | www.gelateria-oasi.it/contatti.php

a cura di Michela Becchi

Gelaterie d'Italia | Gambero Rosso, 2017 | pp. 208, 8,90 euro | disponibile anche on line

Per saperne di più: Gelaterie d'Italia 2017 del Gambero Rosso. La classifica e i premiati

Gelaterie d'Italia 2017. Miglior gelato gastronomico: Greed Avidi di Gelato di Frascati 

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