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Golfinger “du’etti”. Su Gambero Rosso Channel la quinta stagione con la finger cuisine di Andrea Golino

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Dal 14 giugno, ogni mercoledì, torna su Gambero Rosso Channel Andrea Golino, con la sua finger cuisine. Con lui tanti ospiti, per duettare in cucina all'insegna del divertimento. Protagonisti e temi della quinta stagione di Golfinger. 

E siamo a cinque. Tra qualche giorno Andrea Golino torna sugli schermi di Gambero Rosso Channel con la quinta stagione di Golfinger, che sulla filosofia della finger cuisine sposata dallo chef – e noto volto televisivo – romano gioca sin dal nome del format, leggero, divertito e molto apprezzato dal pubblico del canale 412 di Sky. Come sempre l’obiettivo resta quello di condividere ricette, consigli gastronomici e spunti per valorizzare la materia prima con una cucina adatta per tutte le occasioni, che pur fondata su una grande competenza tecnica non ama prendersi troppo sul serio. E anche il motto resta lo stesso, “perché mangiare è bello, ma ‘spilluzzicare’ è ancora meglio”… E allora perché non lasciare spazio all’originalità?

Dopo anni di ricette e tour in giro per l’Italia, per la quinta stagione del programma Andrea Golino approda alla Città del gusto di Roma, dove accoglierà ospiti sempre diversi, accompagnandoli nel racconto della propria cucina. Ogni puntata, dieci in tutto, sarà dedicata a uno chef, che duetterà – da qui lo scanzonato sottotitolo “du’etti” – con Andrea alla scoperta di tecniche innovative, ingredienti inconsueti e, immancabili, ricette da suggerire al pubblico di Gambero Rosso Channel. Così prima sarà lo chef ospite a presentare se stesso in un piatto, poi spetterà al padrone di casa il compito di reinterpretarlo in versione finger cuisine, perché “finger cuisine non vuol dire cucinare una pietanza e metterla in un piatto piccolo. La portata finger va pensata prima di essere eseguita, trasformando piatti e sapori della tradizione in piccoli bocconi di gusto”. Trenta minuti di divertimento ai fornelli, in onda ogni mercoledì alle 21.30, dal 14giugno.

 

Gli ospiti di Andrea Golino:

Massimo Viglietti

Andrea Dolciotti

Daniele Usai

Arcangelo Dandini

Adriano Baldassarre

Davide Del Duca

Gigi Nastri

Maurizio Di Mario

Gracian Daniele

Matteo Barbarossa

 

Golfinger | Gambero Rosso Channel, canale 412 di Sky | da mercoledì 14 giugno, alle 21.30



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La birra? In Italia piace sempre di più

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Il primo rapporto dell'Osservatorio Birra Moretti certifica un +1,6% nel 2016 e +11% da gennaio ad aprile. Il trend di crescita annua è stimato al 2%. La clientela è diventata più attenta e informata. Intanto, Heineken, leader del mercato italiano, scommette sul brand sardo Ichnusa.

Il momento di mercato sembra essere quanto mai favorevole. L'Italia sta vivendo una sorta di “primavera della birra”, come sostiene il primo rapporto dell'Osservatorio Birra, promosso dalla Fondazione Birra Moretti, in cui si evidenzia una crescita dei consumi nel 2016 pari all'1,6%, con un lusinghiero +11% nei primi quattro mesi del 2017.

Il mercato italiano, con 31,5 litri nel 2016, pur con un consumo pro-capite tra i più bassi d'Europa, è in crescita rispetto ai 30,8 litri del 2015 ed è di fatto, in questo momento, al suo massimo storico, con ampi margini di miglioramento. Il trend di crescita annua è, infatti, stimato a +2%. La ricerca, presentata a Milano e curata da Althesys strategic consultants, sottolinea anche che il nostro Paese è in Europa quello col più alto livello di reputazione della birra (punteggio di 78,2 contro una media di circa 65,5). Per questa bevanda, che ha radici molto antiche, da almeno cinque anni in Italia si registrano buone performance. La ripresa è partita nel 2012 e ha raggiunto il picco nel biennio 2014-2015, con un incremento del 5,5%. Se si fa un confronto con l'andamento dei consumi delle famiglie tra 2012 e 2016, si nota come il consumo di birra sia cresciuto di quasi il 9%, a fronte di una diminuzione della spesa media, soprattutto di quella per i generi alimentari.

 

Quanto vale l'industria della birra in Italia?

Nel 2015, in Italia, il valore condiviso creato dall'industria della birra è stato di 7,8 miliardi di euro, pari allo 0,48% del Pil, all'88% della produzione vitivinicola e al 165% di quello dei soft drink e delle acque in bottiglia. L'economia nazionale beneficia del contributo diretto dell'industria birraria per un miliardo di euro (425,5 milioni di valore aggiunto e 619 milioni di accise). Per quanto riguarda le ricadute indirette, il valore condiviso creato dai fornitori è di 273,3 milioni di euro, quello delle aziende di logistica è di 68,6 milioni. Il settore birra, infine, produce quasi due miliardi di euro di salari lordi, lo 0,19% dei consumi delle famiglie, mentre sono 3.708 le persone impiegate nelle imprese produttrici di birra.

 

Grandi aziende e microbirrifici: ecco il panorama birraio italiano

Il settore birrario italiano si caratterizza per una struttura prettamente industriale, con dieci brand che coprono circa l'86% del volume d'affari complessivo. Il sistema è in un momento positivo, dal momento che anche il numero dei microbirrifici è in crescita. Secondo Unionbirrai, sono circa 800 nel 2016 (erano circa 700 nel 2014) e producono 500 mila ettolitri, il 3,5% sul totale Italia. Il mercato nazionale chiede più prodotto. A gennaio 2017, l'indice della produzione è cresciuto del 3,5% su base annua.

Rispetto ad altri Paesi europei, l'Italia non è tra i grandi consumatori di birra: in termini assoluti è decima in classifica (con 18 milioni di ettolitri), con livelli pro-capite tra i più bassi, assieme alla Francia. Per oltre un terzo (37,3%), i consumi interni sono riferibili a birre importate che, in termini assoluti, ammontano a 7 milioni di ettolitri, il triplo dei volumi che l'Italia riesce a vendere all'estero. Per avere un raffronto (dati Brewers of Europe), l'incidenza del prodotto 'straniero' negli altri mercati è decisamente più bassa: Germania (7,6%), Spagna (12,4%), Paesi Bassi (14,3%), Regno Unito (20,6%), Francia (34,7%).

 

Heineken scommette sul brand sardo Ichnusa

Con un consumatore che chiede più prodotto, il leader di mercato Heineken (835 milioni di ricavi nel 2016), nel frattempo ha deciso un cambio di passo per Ichnusa, brand sardo dal 1986 di proprietà del colosso olandese, che con 5,5 milioni di ettolitri commercializzati detiene il 28% delle quote a livello nazionale. Ichnusa, pertanto, è destinato a diventare uno dei tre brand di punta della casa madre in Italia, capace di affiancare i più noti Birra Moretti (la cui produzione supera i 2 milioni di ettolitri l'anno) e, ovviamente, Heineken.

Il piano di investimenti che interesserà lo storico stabilimento di Assemini (Cagliari), quest'anno al suo 50mo anniversario dalla costruzione, prevede un aumento graduale dei volumi prodotti, in grado di sostenere una domanda dei consumatori che si annuncia importante, e specifici accordi con le grandi catene della distribuzione organizzata. Allo stesso tempo, da giugno, è previsto il lancio di una campagna pubblicitaria nazionale (la prima volta per Ichnusa) con uno spot televisivo, girato interamente sull'isola e curato dall'agenzia di comunicazione Leo Burnett (che tra i clienti annovera brand come Coca Cola, Samsung e McDonald's), incentrato sui valori caratterizzanti la Sardegna, terra fiera e istintiva. La campagna coincide con l'esordio della Ichnusa “non filtrata”, quarta tipologia del birrificio sardo, che punta a intercettare i gusti di una clientela più attenta e amante della prodotto birra in tutte le sue sfaccettature.

Le indagini sui consumatori, si sottolinea nel rapporto dell'Osservatorio, indicano un'apertura verso le novità di prodotto, la curiosità e la disponibilità a sperimentare a fronte della percezione della birra come uno dei settori più innovativi tra quelli delle bevande.

Le fondamenta per questo salto in avanti di birra Ichnusa sono state già poste lo scorso anno: nel 2016, infatti, nella struttura di Assemini sono stati investiti 3,4 milioni di euro, praticamente il doppio di quanto fatto negli anni precedenti. Questo birrificio a ciclo continuo, interamente automatizzato ed esteso su un'area di 160 mila metri quadrati, che sta lavorando sulla sostenibilità energetica e ambientale (-50% di Co2 in atmosfera in 4 anni e -20% di consumi di energia elettrica), produce mediamente 650 mila ettolitri di birra, con 120 milioni di bottiglie, consumate per circa l'85% in Sardegna. I margini per la crescita in volumi ci sono: passare da 5 a 7 giorni di attività nel periodo invernale e allargare lo stabilimento.

Soprattutto, c'è la volontà dei vertici di Heineken: “Vogliamo valorizzare i marchi locali: da Birra Moretti, che in venti anni da regionale è diventato marchio nazionale e ha quadruplicato i suoi volumi, a Ichnusa, gioiello regionale che quest'anno sarà cruciale nella nostra strategia e che puntiamo a far crescere seguendo il modello di Birra Moretti”, ha spiegato l'amministratore delegato di Heineken Italia, Soren Hagh. In termini di volumi, l'obiettivo è superare quantomeno quota 250 milioni di bottiglie. E la produzione sarà “interamente realizzata sul territorio sardo”, come ha specificato Alfredo Pratolongo, presidente della Fondazione Birra Moretti: “Oggi, il birrificio di Assemini genera un valore aggiunto sul territorio pari a 200 milioni di euro nel 2015, con oltre 2 mila lavoratori correlati direttamente (ndr: 81 dipendenti) e indirettamente”.

 

I principali brand sul mercato italiano

Heineken Italia (marchi Heineken, Birra Moretti, Amstel, Dreher, Ichnusa, Prinz...), Birra Peroni/Asahi Europe (Peroni, Nastro Azzurro, Pilsner Urquell, Tourtel, Miller...), AbInbev Italia (Beck's, Spaten, Hoegarden, Leffe, Corona Extra, Bud...), Birra Castello (Birra Castello, Alpen, Birra Domoliti, Pedavena...). Carlsberg Italia (Angelo Poretti, Carlsberg, Tuborg, Kronenbourg), Forst, Bavaria Italia, Ceres, Menabrea (Menabrea varie tipologie, Palmbrau, Tappeto Volante), Theresianer

(con fonte BirrItalia 2016/17 su dati Assobirra)

 

a cura di Gianluca Atzeni

I migliori mieli d'Italia. Apicoltura Muttoni di Taceno

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Nella natura incontaminata della Valsassina, in provincia di Lecco, la famiglia Muttoni conduce dagli anni '30 un'attività apistica basata sul nomadismo. Insieme al proprietario, abbiamo ripercorso la storia dell'azienda.

Le origini

In principio fu nonno Natale (detto Guerino) Muttoni a cominciare a gestire un piccolo quantitativo di api a Taceno, in provincia di Lecco, nel cuore della Valsassina, valle incastonata fra il gruppo delle Grigne e quello delle Alpi Orobie. Negli anni '30, quando la famiglia Muttoni ha iniziato il lavoro con le api, non c'erano ancora gli strumenti e le conoscenze attuali. Venivano utilizzati i bugni villici, delle arnie rudimentali costruite con materiali diversi, in grado di restituire del miele ma non ottimali per la salute delle api. “Mio nonno aveva cinque figli, aveva perso da poco la moglie e le condizioni economiche non erano delle migliori”, racconta l'attuale proprietario, Sergio, detto Fulvio, che spiega ridendo: “Nella mia famiglia ognuno di noi ha dei soprannomi che poi col tempo sostituiscono i nomi reali”. E continua: “Mio nonno doveva spesso sacrificare le api per ricavare il miele. Lo faceva per tirare avanti, e così si è continuato anche dopo che è subentrato mio papà Melchiorre, detto Marco”. Il papà comincia a produrre sopra il torrente che attraversa la valle, ancora con i bugni villici, fino all'ingresso del giovane Fulvio. “Avevo 25 anni quando mio padre, nel '69, ha lasciato a me le redini dell'attività. Ho venduto metà delle famiglie delle api e ho acquistato delle nuove casse moderne con cui ho cominciato una produzione diversa”. Nel '72 comincia a lavorare anche la moglie Rossana, “che si è dimostrata da subito molto più brava di me”, ed è stato allora che l'attività ha iniziato a ingranare: “Abbiamo capito che poteva nascere un buon prodotto, di qualità, e così abbiamo continuato a sperimentare e ricercare”.

La produzione

Oggi, l'azienda conta più di 100 arnie, “un bel passo in avanti rispetto alle 20 con cui abbiamo iniziato”. A curare gli insetti sono Fulvio e la moglie, mentre per la smielatura e il confezionamento ci sono il figlio e la nuora. L'apicoltura Muttoni si basa sul nomadismo, ovvero lo spostamento di apicoltore e api per diversi territori per raccogliere diverse tipologie di nettare, “e in questo ci aiuta l'altro figlio”. Acacia in pianura, a Montevecchia (Lecco), rododendro in montagna, “a seconda dell'annata, ormai non lo facciamo dal 2015”, castagno e tiglio in montagna, insieme al millefiori e la melata di bosco, “tempo permettendo”. Una produzione varia ma limitata, che si aggira attorno ai 50 chilogrammi di miele l'anno, “se il clima è stato favorevole”, o 20/30 chilogrammi in annate cattive, come quella appena passata e, purtroppo, anche quella in corso.

Il clima

Dagli anni '70 a oggi, non ricordo un'annata peggiore di questa”. Tempi difficili per il miele, prodotto che deve far fronte ad avversità climatiche che sembrano non terminare mai. “Il 2016 non è stato un anno positivo ma credo che questo sia anche peggiore”. Il problema principale? “L'escursione termica fra notte e giorno. In questo periodo” spiega “le temperature notturne non dovrebbero scendere al di sotto dei 10°C. E purtroppo è già accaduto”. Con conseguenze per la produzione perché il cattivo tempo notturno asciuga il fiore e impedisce alla pianta di dare nettare il mattino successivo. “Con l'acacia è andata molto male, abbiamo perso quasi l'80% del prodotto”. Per un totale di circa 4 chilogrammi di miele per arnia, “una resa davvero bassa”. Non ci resta che auspicare una raccolta migliore per le prossime fioriture come il tiglio e il castagno, “che inizieremo fra una decina di giorni, sperando in temperature più calde”. La pianta di castagno, al momento, non è ancora pronta: “purtroppo le foglie erano già uscite fuori quando la temperatura una mattina è scesa al di sotto dei 3 gradi. Ma speriamo che ora si mantengano stabili e consentano una produzione migliore”.

La vendita

Fra i vari prodotti, l'acacia resta il più richiesto dai turisti, “specialmente dai milanesi”, ma è il tiglio a conquistare la clientela locale: “Nella Valle quasi tutti consumano miele di tiglio o millefiori di montagna, perché sono i più caratteristici della nostra zona”. E nelle altre regioni? “La maggior parte dei consumatori preferiscono i mieli fluidi a quelli cristallizzati o cremosi, per cui la tendenza è sempre quella di acquistare l'acacia. Spesso faccio assaggiare anche altre tipologie, cerco di convertirli”, racconta Fulvio sorridendo, “ma è difficile”. I mieli Muttoni possono essere acquistati in azienda oppure presso i punti Bennet, catena di supermercati diffusa nell'Italia settentrionale, ma ancora per poco: “La produzione ora è al minimo, non credo di poter rifornire altri punti vendita”. E per lo stesso motivo niente botteghe specializzate o negozi artigianali, “siamo una realtà piccola e vendiamo soprattutto qui nella valle e in Brianza”.

La comunicazione

Limitata anche la presenza alle fiere e le manifestazioni del settore, anche se è grazie alla partecipazione a L'Artigiano in Fiera di Milano che il miele Muttoni ha iniziato a far parlare di sé: “Si tratta di un evento significativo per il settore agroalimentare e Milano è una città che ha sempre molto da offrire. Essere presenti lì i primi anni di attività ci ha consentito di far conoscere i nostri prodotti, ma dopo quest'esperienza abbiamo deciso di rimanere in zona e partecipare solo a delle fiere locali”. Come la Sagra delle sagre, “che dura 9 giorni e raduna tutti i migliori produttori della Valsassina”, e la Fiera Zootecnica, “manifestazione di fine settembre dedicata al bestiame e gli allevamenti, a cui partecipano anche artigiani, agricoltori, contadini che portano il meglio della produzione del territorio”.

La comunicazione del prodotto avviene però anche e soprattutto attraverso l'assaggio: “Invitiamo sempre i nostri clienti a provare il miele prima di acquistarlo”. E non finisce qui: da anni, Fulvio tiene delle lezioni nelle scuole elementari locali per insegnare ai bambini le basi di apicoltura. “I bambini apprendono in fretta e sono molto curiosi. Porto sempre a far vedere l'arnia, il telaino e tutti gli strumenti del mestiere, ma la parte più importante è quella dell'analisi sensoriale. Quando torno dopo tanto tempo oppure quando leggo i compiti che hanno svolto sull'argomento mi si riempie il cuore di orgoglio perché mi rendo conto di aver seminato bene”.

Apicoltura Muttoni | Taceno (LC) | via Tartavalle, 12 | tel. 349 3608009 | muttoni.miele.so.it/

a cura di Michela Becchi

I migliori mieli d'Italia. Giorgio Poeta di Fabriano

I migliori mieli d'Italia. Carlo Amodeo di Termini Imerese

I migliori mieli d'Italia. Delizie dell'Alveare di Tornareccio

I migliori mieli d'Italia. Apicoltura Bianco di Guardiagrele

I migliori mieli d'Italia. Mariangela Prunotto di Alba

I migliori mieli d'Italia. Mieli Thun di Vigo di Ton

I migliori mieli d'Italia. Mario Bianco di Caluso

I migliori mieli d'Italia. Adi Apicoltura di Tornareccio

I migliori mieli d'Italia. L'Ape Operosa di Nettuno

Conoscere e capire il miele: glossario essenziale

Cannavacciuolo Bakery. A Novara la nuova pasticceria dello chef, che rileva una storica insegna

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Ancora una novità per il gruppo di ristorazione di Antonino Cannavacciuolo, prossimo a inaugurare il suo bistrot torinese. Da giugno, a Novara, arriva anche un forno-pasticceria, che rinnova la tradizione di una storica insegna cittadina, Recalchi. 

La storia della pasticceria Recalchi

Quasi settant'anni di attività, la più antica pasticceria di Novara, fondata nel 1947 dai fratelli Remo e Romolo Recalchi. Ma a festeggiare l'anniversario importante, l'insegna di via Giotto non è arrivata per poco: all'inizio di marzo scorso la decisione di chiudere i battenti per difficoltà economiche e di gestione. L'ultimo proprietario della pasticceria Recalchi, Eros Finotti, aveva rilevato l'attività nel 2010, dal nipote dei fondatori. Sulla scia di una proposta della tradizione dolce locale che proprio tra le mura del laboratorio di via Giotto aveva trovato consacrazione, per esempio quando nel 1952 Italo Capettino, pasticcere di Alemagna, inventava il pane di San Gaudenzio, in omaggio al santo patrono della città. Poi, qualche mese fa, la scelta obbligata: tenere in vita la bottega storica non è più sostenibile. Finotti vola in Spagna, per proseguire il mestiere altrove, e le saracinesche si abbassano. Sorte comune a tante insegne d'altri tempi che si ritrovano tagliate fuori dal mercato convulso di molte città italiane. Stavolta però il lieto fine non si è fatto attendere. Almeno per gli estimatori dello chef Antonino Cannavacciuolo (che sono numerosi), che in città aveva scommesso sul rilancio della ristorazione dello storico Teatro Coccia, dove oggi gli affari del Cafè & Bistrot girano piuttosto bene.

Dal Cafè & Bistrot alla bakery. Passando per Torino

Tanto da incentivare il gruppo dello chef – con sua moglie Cinzia Primatesta in prima linea – a replicare il concept a Torino, dove si aspetta con trepidazione l'apertura del Bistrot Cannavacciuolo, proprio dietro la Gran Madre. Nella città della Mole l'operazione è in dirittura d'arrivo, e le candidature per entrare in squadra già aperte da qualche settimana. La formula è quella già rodata a Novara, dal pranzo alla cena, a prezzi accessibili. Niente servizio della colazione però, che invece resta un punto di forza dell'offerta del Teatro Coccia. E infatti, ecco l'idea che non ti aspetti, l'ultimo coniglio uscito dal cilindro dello chef: rilevare la pasticceria Recalchi per aprire una Cannavacciuolo Bakery, già operativa – secondo le anticipazioni della Stampa di Novara – dal mese di giugno. Un forno di impostazione moderna, dunque, che si muoverà inizialmente nel mondo della pasticceria, dalla tradizionale al focus su tecniche e proposte contemporanee, per proporre in un secondo tempo, anche una linea di cioccolatini, praline, macaron, babà al rum. E dai prossimi mesi anche una produzione salata, con focacce e pizza fritta. Con l'idea di mantenere un dialogo costante con il caffè del teatro, da cui la pasticceria dista appena 350 metri. E infatti anche in piazza Martiri sarà possibile acquistare le creazioni della pasticceria, disponibili anche online. Alla guida della nuova insegna Kabir Godi, già pastry chef a Villa Crespi, con esperienze pregresse a Milano, da Cova, Peck e al Principe di Savoia.

 

Cannavacciuolo Bakery | Novara | via Giotto, 2 | da giugno 2017

 

a cura di Livia Montagnoli

Salvatore Tassa. Nuova cucina di ghiaccio e di fuoco

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Il cuoco di Acuto compie un’ulteriore svolta e declina il suo menu tutto sul fronte delle fermentazioni e delle crioestrazioni. Terroir a 360°, inteso come ingredienti e ispirazione. Una cucina leggerissima ed essenziale, proiettata al futuro, con la mission di fare bene.

Che Acuto non sia su una delle strade più facili da raggiungere lo sapevamo e ormai davamo per assodato che Le Colline Ciociare di Salvatore Tassa non potranno mai essere un luogo pieno di gente con file di auto parcheggiate davanti. Questo lo sa anche il cuoco e con lui il suo staff. Ma che sia lo stesso cuoco a rendersi ancora più difficile la vita, questo è davvero il massimo. Anche se – stando a sentire Salvatore – lui la vita non se la complica… se la riempie di senso!

Ecco, a distanza di pochi mesi dal rodaggio del suo nuovo menu dedicato all’esperienza di Expo 2015 che ha portato il cuciniere ciociaro (così si autodefinisce sorridendo) a una riflessione profonda sui tempi della sostenibilità e dell’alimentazione del futuro, ecco che Tassa si cambia di nuovo le carte in tavole e si getta a capofitto in un nuovo tipo e modello di cucina.

 

Stagista di lusso a Parigi

Sto scoprendo le crioestrazioni, le concentrazioni di aromi e sapori attraverso il freddo” spiega “È un modello nuovo, inedito. È un continuo andare verso l’essenziale, un percorso molto complicato e complesso per arrivare alla semplicità dell’ingrediente allo stato puro”. Una semplicità a volte anche spiazzante. Siamo andati a incontrare Salvatore ad Acuto: è tornato da poco dal suo “stage di lusso” (è sempre sua la definizione) da Yannick Alléno al Ledoyen di Parigi (Tre Stelle e un grande lavoro proprio sulle fermentazioni e sulle crioestrazioni) e ha deciso di cambiare di nuovo il suo approccio e il suo rapporto con calore, fiamme e tecniche. E anche con gli ingredienti, dando uno spessore maggiore al suo essere “di territorio, ma completamente sganciato da ogni tradizione o ricetta del passato: le conosco, le ho dentro, ma vado avanti. E offro del territorio un punto di vista che finora nessuno ha mai pensato né tanto meno tentato”.

 

Da Alléno, Salvatore è stato un paio di settimane. Ha fatto lo stagista, (“per davvero!” dice) e ha vissuto intensamente al fianco della brigata parigina cercando di capire. “La prima cosa che ho capito è la differenza che facciamo nell’uso di queste estrazioni naturali” spiega “loro usano i succhi per una cucina alla francese, mischiando e creando salse legate anche con grassi. Io invece intendo e utilizzo le crioestrazioni come ingredienti puri e ne voglio esaltare le qualità sia organolettiche che salutistiche…”Inoltre, mentre al Ledoyen si estrae con l’estrattore, ad Acuto si estrae congelando e poi facendo filtrare le sostanze essenziali attraverso una superbag a 150 micron: “La differenza? Un succo più puro e carico di elementi e, paradossalmente, in quantità maggiore”.

I suoi primi 60 anni

Dopo lungo pensare e riflettere su cosa avrei potuto fare per i prossimi anni, ora che ne ho 60, ho deciso: nei prossimi 10 anni devo produrre il meglio di me, la summa di ciò che ho fatto nei passati 6 decenni”. Per spiegarsi, cerca dallo schermo dello smartphone uno degli ultimi post fatti al ritorno dalla Francia: “Mi reputo nella mia cucina un agitatore di idee e un provocatore di pensiero. Pretendo dai miei cuochi il massimo impegno per soddisfare il mio egoismo della creazione, plasmare la materia per creare emozioni di cui altri beneficeranno. Non dico che i miei piatti siano i migliori, ma sicuramente diversi perché in essi c'è l'apporto intellettivo del cuoco. Faccio una cucina del territorio completamente fuori dalla tradizione del territorio. Il mio è un atteggiamento anarchico in senso bakuniniano: al centro c'è l'individuo che in quanto tale e con la sua particolarità si confronta con gli altri individui”.

salvatore tassa clissici: l'agnelloI classici: l'agnello

Fermentazioni e crioestrazioni

La fermentazione è la prima, antichissima tecnica di conservazione che riesce a marcare in modo specifico ed esatto un territorio. Una fermentazione fatta qui sarà necessariamente diversa da quella fatta in un altro luogo. E poi, gli ingredienti sono puri e altamente digeribili, carichi di flore batteriche utili all’uomo, senza grassi aggiunti, sufficienti in sé stessi” spiega, e continua ancora “Il mio approccio al cibo e alla cucina è di pensare in termini di futuro. Credo che uno dei compiti del cuoco di domani sarà quello di 'fare bene' e di curare e prevenire le malattie attraverso il cibo. Quindi fondamentale è la materia prima e come si processa in funzione anche della salute, oltre che del gusto. E questo vale per tutti: dalla grande distribuzione alla trattoria, dal ristorante di quartiere al grande chef”.

Però… c’è un però! Noi siamo abituati a un certo tipo di gusto: per esempio, chi mangerebbe della pasta secca fatta con farina di grilli? Eppure, diversi pastifici italiani la stanno realizzando. Ecco: il punto è come siamo abituati, qual è la nostra cultura, quale la nostra storia alimentare. Per cui in America Latina, in Asia e in Africa ci saranno persone che sapranno apprezzare quella pasta, in Italia saranno molto meno.

Come per le prime mostre di Picasso in Italia: spaccavano l’opinione pubblica, c’erano critici che rifiutavano quelle opere, non ci erano abituati. Oggi, invece, l’immaginario picassiano è divenuto parte fondamentale del nostro modo di essere, luogo comune per alcuni aspetti già invecchiato. Idem per il gusto, per la cucina: anzi, qui la difficoltà può essere maggiore, più radicate sono le abitudini, le idiosincrasie, gli aspetti di emotività profonda legati al mangiare e alla tavola.

 

Piatto dell’Orto

 

Una cucina inedita

Perché questo ampio preambolo? perché abbiamo assaggiato il nuovo Piatto dell’Orto. Un’idea nata 8 anni fa che ha accompagnato la cucina di Salvatore nei suoi vari passaggi. Oggi la carota – sempre al centro del piatto – non è più passata in padella col burro (un classico!) ma è appena ammorbidita da una cottura neutra e poi rivitalizzata con il suo stesso succo ottenuto per crioestrazione. Idem con la rapa rossa e con il sedano rapa. Mentre dei vegetali sono prima fatti fermentare e poi la crioestrazione viene fatta con l’acqua di fermentazione. Sta di fatto che il risultato è del tutto diverso: sono diverse le sapidità, le consistenze. Il fatto che si vada all’essenza, è sottolineato da un elemento: l’intingolo.

Come ci diceva Niko Romito qualche mese fa (vedi Gambero Rosso mensile di marzo 2017, n. 302) uno degli elementi fondanti e caratterizzanti della cucina tradizionale italiana è l’intingolo. E, al di là delle differenze tra la cucina del cuoco abruzzese e di quello ciociaro di cui peraltro abbiamo nel passato ricordato più di una volta dei punti di contatto quasi naturali, i piatti di Salvatore dimostrano davvero come l’essenza di un piatto possa essere l’intingolo portato alla sua sublimazione.

 

tassa Lenticchie_di_onano_con_crema_di_scorzonera_e_latte_di_sogliola

Lenticchie di Onano, crema di scorzonnera e latte di sogliola

La stessa sensazione si ha con un altro piatto: Lenticchie di Onano con crema di scorzonera e latte di sogliola. Un piatto che va a sostituire la “vecchia” ricetta (dello scorso 2016) che univa le lenticchie ai crostacei (gamberi) i quali erano entrambi i veri protagonisti della proposta: qui, invece, protagonista è l’essenza di sedano rapa e il lontanissimo profumo di arancia dovuto al contenitore di servizio (arancia bruciata). Le lenticchie sono importanti, ma fanno da sottofondo, per quanto forte, e lo stesso dicasi per il latte di sogliola che rimanda al mare.

 

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Trota

Un passaggio simile si ha nel piatto che era una sorta di bandiera per Tassa, la Triglia, in cui il pesce diventava un simbolo identitario del Lazio marittimo (la costa è qui poco distante e il suo profumo si fa sentire) insieme al civet di pesce stesso e a salse vegetali. Oggi il pesce identitario è la Trota.Ce la racconta: “la prendo a Vallepietra, proprio qui sopra”Salvatore indica le colline oltre il ristorante “così come da lì vengono i fagioli ciavattoni”, strepitosi. La trota (sfilettata e appena scottata sulla pelle, quindi lasciata a finire la cottura delicatamente coperta da una cloche fuori dal fuoco) è accompagnata da una serie di piccole palline di salse che riprendono tutti sapori di questa terra: dalla maionese di acqua di fermentazione di sverza alla crioestrazione di legno di castagno, dalla gelatine di mele selvatiche (almeno 5-6 diverse) alla douxelle di funghi pioppini (o champignon) e alla crioestrazione di sedano rapa. Un piatto delicato ed esplosivo al tempo stesso. “Certo” avverte però il cuoco di Acuto “Questa è una cucina nuova, inedita: io la faccio, è il secondo dei due menu degustazione che ho in carta, accanto restano i Classici delle Colline Ciociare (come l'agnello, per esempio ndr). Però è una cucina che va ancora messa bene a punto, occorre valutare a fondo come reagiscono il palato e il cervello di fronte a esperienze nuove”.

 

tassa Uovo selvaticoUovo selvatico

Come in una scuderia di F1

Non a caso Salvatore Tassa utilizza un linguaggio simile a quello dei meccanici e dei box delle squadre corse. In primis perché la moto, la meccanica e le corse su pista sono sempre state le sue passioni (ereditate dal figlio Giovanni che lo segue in sala alle Colline Ciociare e va a girare in pista accompagnato dal padre). “E poi, decidendo di dare e fare il meglio di me nei prossimi dieci anni, ho deciso anche di lavorare proprio come un team di F1” si spiega meglio: “Il menu Tassa Experience è questo: si partecipa, come ai box di una squadra corse, alla messa a punto di piatti, concetti, aromi e sapori. Io non dico cosa farò, se non al momento della presentazione a tavola; il menu nasce dopo un approfondito scambio con gli ospiti già al telefono o via mail. E poi si prova su strada, nel piatto, e si vede… Del resto, anche il menu attuale si chiama Infinito: proprio perché non ha fine, può andare avanti all’infinito, appunto”.

 

Un’esperienza inedita

Già con il nuovo menu Infinito, dicevamo, l’esperienza a tavola non ha molti punti di riferimento noti. Nei Raviolini di mandorla (foto in copertina), per esempio, le categorie di consistenza, contrasto, dolce-aspro, sono superate da una sensazione del tutto nuova che… o la ami o la odi. La pasta è sottilissima, si scioglie in bocca; la farcia è di mandorla lavorata con crema di aglio e crema di limone (sempre ottenute da estrazione a freddo) e il brodo è estratto di legni e radici (tra cui la liquirizia che forse è da dosare meglio) e aromatizzato con pepe di Malabar, scorza di limone ed erba limoncella. Un piatto che può avere molte varianti, che sicuramente deve essere messo a punto, ma che decisamente apre nuovi orizzonti all’educazione del gusto. “Quello che a me piace fare è creare discussione e confronto” sorride Tassa “Bisogna che le idee circolino, che si smuova la calma piatta che altrimenti rischia di soffocare la cucina d’autore”.

 

panino_con_stufato_vitello

Pane & Companatico - panino con stufato di vitello

Fusion e sperimentazione a 360°

Territorio non vuol dire chiusura. “In un mondo sempre più global non ha senso recintare un’area geografica ristretta e chiuderla alle influenze esterne” spiega Salvatore “il terroir è fatto anche di chi ci vive e di chi ci studia, di chi porta idee ed esperienze nuove in una zona. La tradizione si fonde con altri stimoli e si evolve verso il futuro”. È un po’ questo il senso di Pane & Companatico: un piatto main course che rivaluta l’antico panino col bollito rifatto e che fa l’occhiolino ai pani orientali e alla tradizione del quinto quarto rivista anche alla luce dell’esperienza della cucina francese che di animelle e beuf ha una lunga cultura, per quanto diversa dalla nostra. Il pane (un panino appunto) cotto a vapore è farcito di stracotto di manzetta locale e accompagnato da fagioli ciavattoni di Vallepietra e da un consommé di manzo (sempre per crioestrazione, pulitissimo) incredibilmente netto e nuovo nei sapori, servito in un guscio di sedano rapa, da aggiungere a piacere. A lato, animelle arrostite in estrazione di funghi porcini (splendido anche da bere alla fine). Un piatto anch’esso infinito, tanto che Salvatore sta già pensando a farcirlo con maiale nero e accompagnarlo con un consommé di jamon de bellota… E poi, non si butta nulla: delle verdure fermentate si usa tutto e anche le materie da cui si estrae trovano poi una loro collocazione in altre preparazioni. Una cucina circolare a tutto tondo, per citare un suo collega come Corelli.

 

Le Colline Ciociare | Acuto (FR) | via Prenestina, 27 | tel. 0775 56049 | http://www.salvatoretassa.it/

 

 

a cura di Stefano Polacchi

 
 

Benso a Forlì. Cibo e miscelazione per la Pubblica Ristorazione nel parco della città. Con Pier Giorgio Parini

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Ai Giardini Orselli di piazza Cavour nasce la rivoluzione gastronomica di tre storiche insegne forlivesi, che si riuniscono per creare un format moderno e accessibile, con il supporto di Pier Giorgio Parini, a supervisione della cucina. Come sarà Benso, che apre a luglio. 

Novità in arrivo a Forlì

Un ambizioso progetto di “Pubblica Ristorazione”. Con le maiuscole al posto giusto. Chi pensa possa trattarsi di un paradosso - o, peggio, di uno dei tanti proclami acchiappa consensi giocato su informalità e basso profilo, almeno a chiacchiere – è chiamato a fare un giro ai Giardini Orselli, nel cuore di Forlì. Non subito, però, perché la data di apertura di Benso slitta da qualche mese, e prima dell'inizio di luglio è difficile che si riesca a inaugurare. Ma risolti gli ultimi intoppi burocratici - cavilli con la soprintendenza alle Belle Arti circa il valore delle fondamenta del vecchio teatro che doveva sorgere nel parco pubblico della città – la formazione inedita che ha ideato il progetto (ambizioso davvero, ci sentiamo di confermarlo) sarà pronta a condividere con i forlivesi la voglia di rilanciare una volta di più l'immagine gastronomica della cittadina romagnola, che per tradizione si fonda sulle filiere eccellenti del territorio, ma oggi è decisamente capace di essere contemporanea. L'apertura di Eataly, un paio d'anni fa, ha movimentato una scena gastronomica già valida; più di recente, nel 2016, è arrivata anche la Casa di Mare dei fratelli Leoni. E poi ci sono le insegne storiche, come l'Osteria Don Abbondio, la Locanda Appennino di Predappio, il BigBar, che insieme hanno deciso di cimentarsi nella sfida di Benso, in piazza Cavour, la più centrale di Forlì, quella che molti conoscono come piazza delle Erbe, non distante dal mercato coperto e dal polo museale di San Domenico.

 

Pubblica ristorazione. Perché

L'idea è quella di offrire un motivo in più per scegliere di mangiare all'aperto in città, presentando una ristorazione nuova, dove non c'è: “Portiamo avanti un concetto di rottura, che prende le distanze dalla ristorazione tradizionale e pure da quella più blasonata e accademica. Rivendicando la libertà di fare rispetto allo standard riconosciuto”, spiega Maicol Ravaioli, creativo di riferimento in città e consulente per Benso (per i titolari delle attività citate anche Simone ZoliJacopo Valli e Fejzi Cila). E il contesto è privilegiato, una bella struttura con veranda circondata dal parco, che i ragazzi sperano di contribuire a rilanciare dopo un periodo di abbandono. Vi sembra presuntuoso e poco costruttivo? L'intenzione, in realtà, è proprio opposta: da Benso si crede molto nel territorio, nella semplicità delle materie prime - anche le più insolite – nella rivincita della provincia che sa lasciare il segno, accessibile a tutti: “La forza di questo progetto sta nell'unione di realtà storiche che insieme vogliono proporre qualcosa di nuovo, centrando un'idea di consumo da grande città, ma con i ritmi e i privilegi della provincia, dove le cose si possono fare bene”. Qui entra in gioco Pier Giorgio Parini, che dopo l'addio al Povero Diavolo si dedica a diversi progetti di consulenza e sviluppo, ma su Forlì, e la squadra di Benso, sta investendo molte delle sue energie. E del suo cuore.

La cucina di Pier Giorgio Parini

Qualche mese fa, lo chef l'aveva ribadito: “L'alta ristorazione ha un approccio alla tavola che stanca”. Il desiderio, invece, era quello di tornare tra la gente, riconciliare un pensiero gastronomico pur ricercato con la soddisfazione di chi mangia. Senza autoreferenzialità, né protagonismi, perché “Benso vuole vincere con il format” sancisce Maicol “non con la notorietà del singolo”. Che pure, nel caso specifico, genera molta curiosità: cosa dobbiamo aspettarci dal ritorno in cucina di Parini? Del progetto Pier Giorgio è chef manager, supervisore dei contenuti gastronomici e della giovane brigata, che ha selezionato – e sta formando – personalmente. I primi mesi sarà spesso al lavoro in cucina, ma certo “non sarà imprigionato in una gabbia dorata”, libero di dedicarsi ai suoi progetti. L'imprinting, però, è proprio frutto del Parini che abbiamo imparato a conoscere, proiettato verso un nuovo approccio alla ristorazione, piatti semplici e lavorazioni insolite, con suggestioni che rimandano al passato. “Tra le altre cose ci piace definirla una cucina che nasce dai fossi, tante erbe spontanee, i prodotti dell'orto pubblico di Forlì, oggi gestito da un gruppo di pensionati dopo la bonifica di terreni confiscati”. Orario lungo, da colazione (all'inizio solo nel week end) al dopocena, con focus sul servizio serale, “che abbiamo pensato come un percorso fluido dall'aperitivo al dopocena. Vorremmo condurre il cliente attraverso un'ideale mappa della città, che in tavola diventa percorso di degustazione di materie prime del territorio, dalla nostra idea di welcome drink, un twist on classic dai sentori di erbe spontanee come aperitivo,  alla cena, fino al dopocena”.

 

Cibo e miscelazione

Questo perché cucina e proposta di miscelazione cresceranno insieme, con una bella ricerca su estratti di erbe spontanee e sciroppi che caratterizzeranno la cocktail list, in abbinamento ai piatti, o da sorseggiare in giardino nell'after dinner. Al menu già si lavora, nella cucina Angelo Po progettata su misura da Pier Giorgio: una carta di 16-18 proposte, elencate senza distinzioni di sorta, perché ognuno possa fruirne a piacere, cambi frequenti, anche settimanali, in base alla disponibilità del mercato. Qualcuno ha già avuto modo di farsi un'idea a Faenza, qualche giorno fa, in occasione della Cena Itinerante, prima uscita ufficiale di Benso, in versione street: bombolone al forno ripieno di ragù di asparagi, raviggiolo e coniglio. Ma più in generale la cucina sarà fresca ed efficace, presterà attenzione al territorio, giocherà con qualche ricetta cara al Conte di Cavour - “che Pier Giorgio sta rielaborando” - e col tipico cartoccio di trippe fritte e frattaglie del mercato di piazza del Ferro Vecchio. Si sceglie alla carta, e probabilmente tra due menu degustazione a 50 e 80 euro. L'esperienza completa, dall'aperitivo al dopocena, con tappe di degustazione in stile mezè mediorientali, dovrebbe attestarsi tra gli 80 e i 90 euro. A pranzo una formula semplificata, per un menu malleabile e dinamico. Carta dei vini di ricerca, nel mondo delle produzioni naturali.

 

Lo spazio, la veranda, il giardino. La pulizia delle linee

Intorno c'è l'ambiente, che nella comunicazione del format ha un grande peso: 50 metri quadri di cucina, 50 coperti in veranda – una struttura di cristallo nel parco, completamente apribile in estate – e un'altra cinquantina nella bella stagione in giardino. Con l'obiettivo di lasciarsi alle spalle lo shabby chic e l'imperante recupero del modernariato - “la semplicità non significa riprendere qualcosa dal passato, ma partire da un punto per andare avanti” - per ispirarsi “all'organicità della natura, come in tavola così nella progettazione degli spazi”. I modelli di riferimento sono altisonanti, da Wright al post Bahaus: linee pulite, tutto acciaio, legno e vetro. Si parte a luglio, con il servizio serale, “poi la crescita sarà organica”, il pranzo probabilmente arriverà con l'autunno. Ora la cosa più importante è cominciare: “Siamo pronti, non vediamo l'ora di aprire”.

 

Benso | Forlì | Piazza Cavour | da luglio 2017 | www.bensofood.com

 

a cura di Livia Montagnoli

Assolo Femminile a Milano. La festa solidale della cucina in rosa di ItaliaSquisita

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Archiviato il successo della trasferta capitolina, la festa annuale di ItaliaSquisita torna a Milano, ospite della Fondazione Bertini, che è pure beneficiaria della campagna di raccolta fondi che anima la serata. Protagoniste, il 29 maggio, saranno le donne del panorama gastronomico italiano, chef, pasticcere, sommelier, pizzaiole, barlady. Ecco cosa si mangia, e come partecipare. 

La festa

All'inizio di aprile, in una Roma particolarmente generosa nel servire su un piatto d'argento una bella serata di primavera, con vista su Trinità dei Monti, la festa di ItaliaSquisita approdava per la prima volta nella Capitale. Tema: spezial party. Obiettivo, sempre lo stesso: raccogliere fondi per una buona causa, con il contributo di tanti rappresentanti del mondo gastronomico italiano, chef, pizzaioli, pasticceri, barman, in favore di CABSS (Centro Assistenza per Bambini Sordi e Sordociechi). Un successo di pubblico, cucina e solidarietà. Il 29 maggio, dalle 19.30, la festa di beneficenza torna dove tutto è cominciato diversi anni fa, a Milano, per sostenere le attività e i corsi di formazione della Fondazione Gaetano Bertini Malgarini, dedicati a ragazzi con disagio mentale e sociale. Ancora una volta, dunque, l'invito a condividere una serata di solidarietà è pure un'ottima opportunità per godere di buona musica, cocktail d'autore e tanta buona cucina... Tutta al femminile. Si chiama Assolo Femminile il party che andrà in scena in via Cairoli, presso la sede della Fondazione Bertini, e riunirà chef affermate, artiste del cibo, pasticcere e sommelier: la quota rosa della ristorazione nazionale, che nulla ha da invidiare alla cucina dei colleghi.

 

Le protagoniste

E il parterre è davvero nutrito: a pizza e panificazione ci penseranno Marzia Buzzanca – stoica pizzaiola de L'Aquila – e le donne del Forno Sammarco di San Marco in Lamis (Foggia); per il bere miscelato, invece, un trio di barlady d'eccezione tutte attive sulla piazza milanese, Ilaria Bonato di Barba, Valeria Mosca di Wood*Ing Lab (in attesa di inaugurare il nuovo bar dedicato alla wild mixology), Caterina Clausetti di El Tombon de San Marc. In rosa anche lo schieramento delle sommelier: Ramona Ragaini da Andreina a Loreto, Natascia Santandrea dalla Tenda Rossa di Cerbaia, Elisa Arduni di The Cook, ad Arenzano (Genova). Numerose anche le pastry chef all'opera, in arrivo da tutta la Penisola, da Iside De Cesare de La Parolina di Acquapendente (Viterbo) a Carmen Vecchione di Dolciarte da Avellino, a Mineko Kato, che gioca in casa con la pasticceria giapponese di Sushi B. E poi ci sono le chef, una bella rappresentanza della ristorazione storica e contemporanea in rosa:

 

Cristina Aromando di Aromando Bistrot a Milano

Daniela Cicioni 

Maria Cicorella del Pashà a Coversano (BA)

Victoire Gouloubi del Mirtillo Rosso a Riva Valdobbia (VC)

Giuliana Germiniasi e Francesca Tassi del Capriccio a Manerba del Garda (BS)

Marta Grassi di Tantris a Novara

Caterina Lanteri Cravet del San Giorgio a Cervo (IM)

Annamaria Leone di Locanda Vecchia Pavia al Mulino a Certosa di Pavia (PV)

Katia Maccari de I Salotti a Chiusi (SI)

Isa Mazzocchi de La Palta a Borgonovo Val Tidone (PC)

Aurora Mazzucchelli di Ristorante Marconi a Sasso Marconi (BO)

Sara Preceruti di Acquada a Porlezza (CO)

Maria Probst de La Tenda Rossa a Cerbaia in Val di Pesa (FI)

Sakai Fumiko di Casa Mele a Positano (SA)

Mariangela Susigan di Ristorante Gardenia a Caluso (TO)

Rebecca Varjomaa di Bjork a Milano

Loredana Vescovi di Antica Osteria dei Camelì ad Ambivere (BG) 

 

Cosa si assaggia? L'elenco è lungo e l'insieme – che riunisce tanti pensieri, culture e ingredienti diversi – divertente, dal Mangia e bevi di ricciola e ceviche di Aurora Mazzucchelli al salmerino alpino di Priore fumè con le sue uova, patate come de gatte, oxalis e crescione di Mariangela Susigan, al sushi napoletano di Sakai Fumiko. Tra i primi il raviolone di scamorza affumicata e zucchine di Loredana Vescovi o i fusillotti con estratto di peperone rosso, crema di ricotta fermentata e polvere di olive di Maria Cicorella. E poi dichiarazioni di intenti che lasciano la curiosità di scoprire cosa c'è nel piatto: Acqua e Terra per Victoire Gouloubi, Evvia l'estate per Maria Probst. Dessert altrettanto vari: la Perla al limone dal Garda di Villa Feltrinelli, con Annalisa Borella, il Rocher di nocciola dei Monti Cimini di Iside De Cesare, le cheesecake creative di Dolce Voglia a Pioltello, proposte da Antonella Re.

Gli ingredienti per divertirsi, e fare del bene, ci sono tutti. Contributo minimo 35 euro e posti limitati.

 

Assolo Femminile | Milano | Fondazione Bertini, via Cairoli 12 | il 29 maggio, dalle 19.30 | per partecipare http://italiasquisita.net/it/posts/ritorna-la-festa-di-italiasquisita-a-milano

 

a cura di Livia Montagnoli

Le ultime novità dal Mercato Centrale. Le new entry di Firenze, i food truck a Venezia Santa Lucia

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Si preannuncia movimentata l'estate del Mercato Centrale, che a Firenze sta per aprire un secondo punto a I Gigli, mentre a Venezia si presenta in veste itinerante, formato street food, per sondare il terreno. 

Continua inarrestabile la corsa del Mercato Centrale, la creatura nata dalla mente fervida di Umberto Montano, in collaborazione con l’ECV, società di Carlo Cardini: dopo i cambi di gestione di alcuni spazi a Firenze e Roma - con l’apertura a Firenze del Bigallo di Enrico Lagorio, pollo e patate arrosto proposte dal proprietario de La Toraia, e la gestione della pizzeria da parte dell’inventore del trapizzino Stefano Callegari, e, a Roma, l'arrivo di Pier Daniele Seu - si prospettano oggi cambi più corposi.

 

I Gigli. Chi ci sarà

L’Enoteca del Chianti Classico trasloca negli spazi che il Mercato Centrale inaugurerà a giugno all’interno del Centro Commerciale I Gigli, che festeggia quest’anno vent’anni, a suo tempo il più grande d’Italia. Un modo per raggiungere più facilmente un pubblico giovane e curioso, una scelta legata anche a far conoscere di più il vino del Gallo Nero alle nuove generazioni. Insieme a loro sicuramente aprirà La Toraia, brand diventato oramai ben riconoscibile per i suoi hamburger di chianina (ma pure un secondo corner della Ravioleria Sarpi di Milano, che da qualche settimana propone i suoi dumpling a San Lorenzo, proprio accanto ai Trapizzini di Callegari). A San Lorenzo gli spazi saranno occupati dal Caffè Santambrogio, uno dei wine bar più famosi della città e la gestione sarà tutta al femminile con Sara Lai in cucina e Sevil Soltani alla mescita. Vini internazionali per un pubblico internazionale, con particolare attenzione al settore champagne e spumanti. Non solo stuzzichini d'accompagnamento, ma una proposta di cucina più articolata e varia.

 

Il mercato itinerante di Venezia. La nuova scommessa

La grande novità estiva sarà data però dall’apertura del mercato itinerante di Venezia: alla stazione di Santa Lucia, food truck di generi diversi soddisferanno la voglia di cibo gustoso e facile da mangiare dei milioni di turisti che approdano nella città lagunare. Il tutto pare essere un’anteprima dell’apertura di un mercato centrale stanziale, che avrà tempi più lunghi di realizzazione. Ma sarà valutata la fattibilità dopo l’esperienza estiva.

 

A cura di Leonardo Romanelli


Bollicine da vitigni autoctoni. Il metodo classico che non ti aspetti

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Negli ultimi anni assistiamo a un continuo fiorire di nuove etichette di spumante. Non solo: registriamo, ogni stagione, l'aumento delle spumantizzazioni anche fuori da territori e vitigni tradizionalmente vocati alle bollicine. Iniziamo oggi una rubrica che si propone di indagare, tra uve e territori, quelli più vocali al metodo classico.

Il crescente successo commerciale del settore sparking ha spinto molte cantine ad ampliare la gamma dei vini, affiancando ai prodotti tradizionali proprio e “bollicine”. Se fino a pochi anni fa era raro imbattersi in spumanti prodotti con Metodo Classico fuori dalle denominazioni Franciacorta Docg, Trento Doc, Oltrepò Pavese Docg e Alta Langa Docg, oggi l’offerta si moltiplica velocemente un po’ in tutte le regioni.

 

I disciplinari

Anche i disciplinari delle Denominazioni si stanno adeguando e molte delle recenti modifiche hanno introdotto proprio la possibilità di produrre spumanti laddove fino a poco tempo fa non era contemplata. Un segnale di apertura, che va sicuramente incontro alla richiesta dei consumatori, ma non solo. L’Italia può vantare il patrimonio ampelografico più ricco al mondo, con circa 400 vitigni autoctoni distribuiti in tutta la penisola, dalla Valle d’Aosta alla Sicilia. Un potenziale spesso inesplorato, che può riservare sorprese anche nell’ambito della produzione di “bollicine”. Sono molte le uve autoctone italiane che hanno una buona predisposizione alla spumantizzazione e la recente sperimentazione ne sta mettendo in luce le potenzialità.

 

Il modello Champagne e il panorama europeo

La nostra tradizione nel campo del Metodo Classico è nata sul modello della Champagne e ha mutuato dalla Francia non solo il metodo di produzione, ma anche l’uso quasi esclusivo di vitigni della rinomata regione francese: principalmente lo chardonnay e il pinot noir. Solo il disciplinare Franciacorta prevede dal 2017 la possibilità di introdurre un 10% di uve del vitigno autoctono bresciano erbamat. Un primo passo nella direzione di un superamento di una certa rigida sudditanza Champenoise, che potrebbe condurre verso nuovi e interessanti sviluppi.

Nei principali Paesi europei che producono Metodo Classico, c’è invece una maggior libertà nell’utilizzo dei vitigni, in particolare in Spagna e in Francia. Gli spumanti Cava Do sono realizzati soprattutto con le uve locali: macabeo, xarel.lo, parellada, garnacha tinta, monastrell, trepat e malvasía, oltre che con gli immancabili chardonnay e pinot noir. Se poi pensiamo all’Appellation francese Crémant Aoc, troviamo un’ampia varietà di uve oltre a quelle classiche della Champagne. In Alsazia pinot blanc, pinot gris e riesling; in Borgogna aligotè e gamay; nella Loira chenin blanc, sauvignon blanc, cabernet sauvignon, cabernet franc e pineau d’aunis; nello Jura savagnin, poulsard e trousseau; a Limoux mauzac e chenin blanc; a Die la clairette blanche; a Bordeaux cabernet franc, cabernet-sauvignon, carmenère, colombard, côt, malbec, merlot, muscadelle, petit verdot, sauvignon blanc, sémillon e ugni blanc. Un panorama vario e diversificato, che senza nulla togliere al ruolo storico e all’allure dello Champagne, offre una vasta gamma di scelta al consumatore.

 

Le potenzialità italiane

È nato proprio da queste considerazioni il desiderio di fare il punto sugli spumanti prodotti in Italia con uve autoctone. Un viaggio tra le “bollicine” per verificare, se a parte certe derive modaiole e qualche eccessivo accanimento legato a un’esaltazione aprioristica dell’autoctono, ci siano vitigni ed etichette capaci d’esprimere eccellenze. Considerando il gran numero di etichette presenti sul mercato, abbiamo deciso di restringere il campo solo ai vini in purezza elaborati con Metodo Classico. Bottiglie che possono costituire delle valide alternative, quando si ha voglia di bere qualcosa di diverso o si vuole privilegiare un abbinamento cibo-vino legato al territorio. Cominceremo il nostro viaggio da Valle d’Aosta e Piemonte fino ad arrivare a Sicilia e Sardegna, certi che non mancheranno le sorprese.

 

a cura di Alessio Turazza

Via libera alle mense certificate bio. 44 milioni per un'alimentazione sana a scuola

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Presentato dal Ministro Martina l'emendamento alla manovra economica per sostenere la certificazione delle mense scolastiche che servono in tavola prodotti biologici. I precedenti e le regole per accedere al fondo. 

Le mense bio. Con il bollino

Biologiche, e certificate per legge. È questo l'input che il Governo italiano dispensa agli istituti scolastici della Penisola che d'ora in avanti vorranno fregiarsi di servire prodotti biologici sulla tavola delle proprie mense. L'emendamento presentato dal ministro Maurizio Martina, in condivisione con i ministri Fedeli e Lorenzin, si inserisce nell'ambito della manovrina economica ora al vaglio della Commissione Bilancio della Camera. E prevede lo stanziamento di 44 milioni di euro per finanziare il progetto con un fondo speciale, a disposizione delle scuole – dagli asili nido alle secondarie – che potranno dimostrare l'utilizzo di percentuali minime di prodotti bio, stabilite dal Mipaaf insieme al Ministero dell'Istruzione. Per vantare la certificazione, inoltre, le mense dovranno rispettare specifiche tecniche legate alla volontà di “promuovere modelli agroalimentari più sostenibili e garantire ai nostri figli un'alimentazione più sana anche nelle scuole”, ribadisce un fiducioso Maurizio Martina. Se da un lato la produzione in biologico oggi rappresenta per l'Italia un business da grandi numeri, con oltre 60mila operatori coinvolti e una richiesta crescente - che sanciscono la leadership italiana in Europa – l'universo della ristorazione scolastica è variegato e disomogeneo, di recente al centro del dibattito che vuole far riflettere sulla fattibilità di modelli sostenibili di alimentazione sana, sin dall'infanzia. Meglio se integrati da un'efficace comunicazione nelle aule. Nel caso specifico il fondo stanziato dal Governo servirebbe proprio a ridurre i costi a carico delle famiglie, valorizzando al contempo una ristorazione scolastica trasparente e salutare.

 

Biologico a scuola. I precedenti

Del resto si calcola che sul territorio nazionale siano già più di 1200 le mense che fanno regolarmente uso di prodotti biologici (1288 secondo i dati di Tutto Bio 2017, di cui 300 somministrano almeno il 70% di materie prime bio). E la nuova certificazione, qualora l'emendamento fosse approvato, potrebbe entrare in vigore già dopo l'estate, dal prossimo anno scolastico. Per chiarezza è bene ricordare che una legge a riguardo già esiste, la cosiddetta Finanziaria 2000 (488/1999), che al comma 4 dell'articolo 59 impone l’uso quotidiano di “prodotti biologici, tipici e tradizionali nonché di quelli a denominazione protetta” agli enti che gestiscono mense scolastiche e ospedaliere, “per garantire la promozione della produzione agricola biologica e di qualità”. Per questo, prosegue il testo, gli appalti sono aggiudicati “attribuendo valore preminente all’elemento relativo alla qualità dei prodotti agricoli offerti”. Tant'è che sono diverse le regioni che hanno recepito la normativa all'inizio degli anni Duemila: Emilia Romagna, modello virtuoso per numero di adesioni, in grandi città e piccoli Comuni, e poi Friuli Venezia Giulia, Marche, Toscana, Lazio, Basilicata, Umbria, Veneto e Trentino Alto Adige. Stimolando l'ascesa della filiera agroalimentare biologica, indotta alla riconversione dalla domanda crescente di un attore di peso come la ristorazione collettiva.

Nel 2011 era stata la Regione Lombardia a condurre una ricerca sulla diffusione del biologico nelle mense scolastiche, censendo 560 Comuni sul territorio regionale, che accertava già allora l'introduzione di prodotti bio sul menu dell'82% degli istituti censiti, soprattutto alla voce frutta, cereali e legumi. Nello stesso anno, il decreto del Ministero dell'Ambiente sui Criteri Ambientali Minimi si applicava anche ai bandi di gara per i servizi di ristorazione collettiva.

E ora l'introduzione di un “bollino” di certificazione potrebbe garantire nuova linfa al circolo virtuoso.  

 

a cura di Livia Montagnoli

The Great Italian Chef, il film. Gualtiero Marchesi a Cannes. Cracco, Oldani e Berton cucinano per lui

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Anteprima assoluta del lungometraggio che ripercorre la vita di un “cuoco rivoluzionario” a Cannes, in occasione del Festival del Cinema che sta per concludersi. E stasera gli ospiti della preview godranno della cena ideata dagli allievi più celebri del maestro. Il film, invece uscirà in Italia a settembre. 

Il maestro della cucina italiana

Parlare di Gualtiero Marchesi, del suo percorso in cucina e di come la sua storia abbia influenzato quella della ristorazione italiana, mette al riparo dal rischio di abusare in superlativi e attestati di stima incondizionata. Il motivo cercavamo di spiegarvelo qualche mese fa in una lunga intervista al maestro, come lo chiamano tutti: dagli inizi in via Bonvesin de la Riva, nella sua Milano, al perfezionamento di un brand della cucina italiana che sulla sua autorevolezza fa perno per proporsi al mondo. Con la forza del buon gusto. La trama perfetta per un regista a caccia di un copione da portare sul grande schermo. E infatti qualcuno ci ha pensato. Alla fine del 2016, ancor prima della fine delle riprese, le prime immagini di backstage del documentario The Great italian chefcircolavano in rete. Un film sponsorizzato da tante celebri realtà del made in Italy – a confermare la riconoscenza di tutto il settore verso il maestro – frutto di una produzione italo-americana, Food&Media International, per la regia di Maurizio Gigola.

Il film a Cannes

E un lungo viaggio nella biografia di Marchesi, tra tragitti intercontinentali e testimonianze di chi al fianco dello chef è cresciuto, prima di spiccare il volo: Davide Oldani, Andrea Berton, Carlo Cracco. Con loro, tra qualche ora, Gualtiero Marchesi, classe 1930, condividerà il red carpet de La Croisette, a Cannes per presenziare all'anteprima internazionale del film che ne racconta le “gesta”. Sottotitolo: La vera vita di un cuoco rivoluzionario. Che oggi, alla soglia dei novant'anni, può concedersi il lusso di sfilare tra attori blasonati e glorie del cinema facendo il pieno di riconoscimenti. E infatti anche la parentesi francese, questi giorni trascorsi a Cannes, saranno integrati nel lungometraggio che uscirà in versione definitiva a Milano e New York a settembre. Qualche giorno fa, in occasione della conferenza stampa di presentazione del progetto, si è dibattuto molto sul ruolo di mentorship, riconosciuto al maestro che ha saputo formare una nutrita formazione di chef, da anni al vertice della ristorazione italiana, e ancora oggi indirizza la carriera di tanti giovani che ambiscono a lavorare in cucina attraverso l'Accademia che porta il suo nome. “Ecco a voi la storia e i sentimenti dell'uomo più interessante e discusso della cucina italiana”, specifica il gancio del film.

La cena degli allievi

Potranno scoprirlo per primi gli ospiti della serata organizzata da San Pellegrino a Cannes, che dopo la proiezione di stasera prenderanno parte alla cena al Rooftop del Radisson Hotel ideata da Oldani, Cracco e Berton per rendere omaggio al maestro: sfere di parmigiana di melanzane e brodo di prosciutto crudo, merluzzo, pane al prezzemolo e ravanelli per Andrea Berton, mandorle caramellate al curry e zafferano e riso alla milanese per Davide Oldani, cozze alla marinara, uovo affumicato, e cremoso all’amaretto e Moscato per Carlo Cracco. 

 

a cura di Livia Montagnoli

In viaggio. Ibiza: mare, musica e grandi panorami tra i sapori e le tradizioni del passato

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Spiagge e tratti di costa mozzafiato, locali alla moda, architetture e mercati d'antiquariato unici: questo e molto altro ha da offrire Ibiza, gettonata meta della stagione estiva, nota per la sua movida notturna e per i magnifici paesaggi. Ma un viaggio nella Isla Blanca è anche un'occasione per scoprire sapori nuovi e ricette dal fascino antico.

Oltre 3 milioni di passeggeri da tutto il mondo atterrano ogni anno all'Isla Blanca, senza contare i circa 1250mila visitatori che approdano ai porti di Ibiza e Sant Antoni, specialmente durante la stagione estiva.

Una località che ha sempre vissuto del turismo, rifugio hippie prima, meta di vacanzieri in cerca di paesaggi incontaminati poi, e successivamente tappa imperdibile di giovani (e meno giovani) attratti da discoteche, grandi dj set sulla spiaggia e locali d'avanguardia. Un'isola che, ora più che mai, cerca di puntare su un nuovo punto di forza si è andato sempre più consolidando: la gastronomia. Attraverso eventi mirati, come il Foro di Gastronomia Mediterranea e il festival Ibiza Sabor, ristoranti di ricerca, chef giovani e volenterosi e soprattutto tanti agricoltori e artigiani del luogo impegnati a recuperare le tradizioni, il gusto e i prodotti più antichi.

Ibiza vanta una storia – gastronomica, ma anche culturale, architettonica, letteraria – costruita nei secoli attraverso una serie di contaminazioni culturali diverse che hanno dato vita a un luogo senza tempo, unico nel suo genere, forgiato di un carattere preciso, frutto della mescolanza fra diversi popoli. Un racconto di genti e dominazioni che hanno lasciato il segno anche nei piatti.

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Dalt Vila: l'acropoli di Ibiza

Il percorso fra le strade ibizenche non può che cominciare con una visita a Dalt Vila, l'antica area fortificata della città, parte del Patrimonio dell'Umanità. Civiltà diverse hanno contribuito alla costruzione di questa perla bianca del Mediterraneo, che domina la baia da un promontorio su cui nel 654 a.C. i Cartaginesi avevano fondato la città di Bes, poi occupata dagli arabi nel 902 e in seguito dai catalani nel 1235. Un ettagono irregolare di mura difensive costruite in oltre 40 anni di storia, un museo all'aperto attraversato da un dedalo di stradine, talvolta sconnesse e ripide, su cui si affacciano palazzi storici e monumenti. Nel punto più alto, intorno a Plaza de la Catedral, sono il castello Almudaina e la Catedral Santa Maria de les Neus a farla da padroni.

 

Dalt Vila

L'Almudaina, risalente al XVI secolo, era in origine la sede amministrativa e militare del wali, il governatore musulmano, e conta nove torri quadrate. Durante il primo periodo però, era formata da sei baluardi, tra cui spiccano ancora oggi quello di San Giorgio e quello di Santiago.

La Catedral Santa Maria de les Neus (Cattedrale della Madonna della Neve) si trova all'interno delle mura difensive ed è stata costruita nel XIII secolo nello stesso punto in cui un tempo sorgeva la moschea moresca in stile gotico catalano, di cui oggi sopravvive solo il campanile. All'interno della Cattedrale, è possibile accedere al Museo Diocesano di Ibiza, dove sono esposti dipinti, sculture, ornamenti e oggetti liturgici legati alla storia della chiesa sulle isole di Ibiza e di Formentera. Ristrutturato nel 2006, il museo conta inoltre una collezione di gioielli tradizionali ibizenchi, rosari e croci scolpite.

Le civiltà antiche: dai fenici agli arabi

Fenici, cartaginesi, romani, arabi: Ibiza è stata nei secoli un crocevia di diverse culture, ognuna delle quali ha contribuito alla costruzione della complessa identità dell'isola. Civiltà che si sono susseguite e intrecciate nel tempo lasciando la loro impronta impressa per sempre nella città. Tracce di questi influssi possono essere ritrovati in diversi musei che raccolgono i ricordi del passato. Come il Puig des Molins, fondato nei fenici nel VI secolo a.C., considerato una delle più importanti necropoli del Mediterraneo e che comprende una collezione ampia di monete, strumenti, ceramiche e opere d'arte di diverse epoche. E il Museo Entografico di Santa Eulària – una delle zone più affascinanti e curate della città – che organizza periodicamente mostre ed esibizioni volte a far conoscere le antiche tradizioni artigianali dell'isola, gli strumenti musicali di una volta e tutte le attività svolte dalle massaie, dalla lana all'intreccio dei cestini, con laboratori dedicati anche ai più piccoli.

I mercati e il folklore ibizenco

Un'oasi di colori, profumi, suoni, sapori: Las Dalias a Ibiza è una tappa imperdibile per tutti gli amanti del folkore, che nei mercatini della zona troveranno un bazar di vestiti, gioielli, strumenti, pezzi di antiquariato, torte tradizionali, street food, bevande tipiche e tanti altri prodotti diversi che raccontano la storia di un popolo. I vari mercati della città ospitano anche tanti produttori locali, da sempre impegnati a valorizzare le specialità ibizenche. Dall'olio extravergine di oliva al vino, dal miele ai formaggi, al Mercat Vell, mercato contadino nato nel 1872, e al Mercat Nou, aperto nel 1978 e divenuto subito un punto di riferimento per la spesa cittadina, si possono acquistare le prelibatezze tipiche della Isla Blanca. Prodotti freschi, stagionali, che i clienti possono acquistare direttamente sul luogo su consiglio dei contadini, ma questi due mercati ospitano anche eventi e degustazioni guidate per i più curiosi, organizzate periodicamente, soprattutto in primavera.

Il vino: tradizioni e varietà autoctone

Come la maggior parte dei paesi del Mediterraneo, Ibiza vanta un'attività vitivinicola millenaria. La produzione ha inizio nel VII secolo, in epoca fenicia, e a testimoniarlo sono tutti i vasi e le anfore ritrovate, che in passato venivano utilizzati per conservare il vino. La presenza dei romani contribuì poi al miglioramento dell'attività, con nuove tecniche di coltura e processi di vinificazione più moderni. Dal 2003, ai produttori isolani viene riconosciuto l'utilizzo dell'indicazione geografica “Vino de la tierra Ibiza”, che oggi contraddistingue le etichette locali. Cabernet sauvignon, merlot, syrah, tempranillo e monastrell: queste le uve a bacca rossa presenti, accompagnate dalle bianche chardonnay e malvasia.

Bodegas Can Rich

Fra le aziende più rappresentative, è Can Rich a raccogliere il maggior entusiasmo fra consumatori appassionati e ristoratori. Fondata nel 1997 nel comune di Sant Antoni de Portmany, è una realtà a conduzione familiare che inizia la sua avventura vinicola con la produzione di rosati e vini rossi, cui oggi si aggiungono una serie di bianchi e bollicine. SI estende su due terreni diversi che contano, in totale, 22 ettari di vigna e 22 di uliveti, questi ultimi basati principalmente su piante di hojiblanca, oliva tipica della zona di Lucena, Andalusia, verdal e arbequina, oltre a 4-5 alberi da frutto, tutti a regime biologico. “Non utilizziamo pesticidi, diserbanti o altri elementi sulle nostre piante perché crediamo in una coltivazione eco-sostenibile, migliore per noi e per l'ambiente”, racconta Stella González, attuale proprietaria. Solo trattamenti autorizzati nella certificazione biologica, “laddove necessario”, e niente vini naturali per il momento: “È una filosofia molto bella ma per ora ancora troppo complessa per noi”.

 

Bodegas Can Rich

La vendemmia dei rossi comincia a settembre, mentre quella dei bianchi un mese prima, a inizio agosto, “perché vogliamo evitare il caldo torrido per ottenere vini più freschi”. Circa 100mila litri l'anno per un totale di 9 diverse etichette. Fra le specialità della casa spicca l'Ereso, una malvasia fermentata in barrique a temperatura controllata: “I consumatori cercano perlopiù varietà locali, e la malvasia è la più caratteristica della nostra zona”. La fermentazione consente di ottenere un vino “molto profumato all'olfatto ma meno fruttato al palato, dove diventa più salino e secco, accompagnato da una buona acidità”. C'è poi il Blanco, 60% chardonnay, 40% malvasia, il Bes, chiamato così in onore della divinità dell'antico Egitto, protettore del matrimonio, della musica e della fertilità, un rosato a base della varietà autoctona monastrell. E poi gli espumosos, ovvero le bollicine: il Ros Fosc Extra Brut, syrah rifermentato in bottiglia, il Blanco Brut Nature a base di malvasia, e il Rosado Brut Nature realizzato con uve syrah.

Gli altri prodotti

Oltre ai vini, l'azienda produce anche olio extravergine di oliva, fior di sale di Ibiza, famoso perché raccolto meticolosamente a mano nella riserva protetta del “Parc natural de ses Salines d’Elvissa”, che Stella vende in purezza oppure macerato nelle olive e nel vino. E ancora Hierbas Ibicencas, liquore a base di anice e altre piante della zona come il rosmarino, il timo, la menta, il ginepro, la salvia, il finocchio, la lavanda, la camomilla, il limoncino e foglie e bucce di limone e arancio. “Ci sono circa 17 erbe in tutto che, unite insieme, riescono a dare origine a una bevanda ricca di tante diverse proprietà nutraceutiche”. Se assunto in piccole dosi, infatti, lo Hierbas Ibicencas, nonostante la parte alcolica, può contribuire a prevenire diversi malanni di stagione e rafforzare il sistema immunitario, oltre a svolgere una potente funzione digestiva.

 

Erbe

I piatti della tradizione

Sono prodotti che ritroviamo anche nei piatti tradizionali. La cucina ibizenca è variopinta, fatta di pochi ingredienti valorizzati al massimo in ricette semplici e dal sapore definito. Prima fra tutte il bullit de peix, una zuppa di pesce stufato cotto lentamente, realizzata con il pescato del giorno, solitamente con specie locali. E poi i chipirones, calamari fritti, i montaditos, panini farciti con salumi locali, il pa amb oli, bruschetta con olio extravergine di oliva, pomodoro e sale, il sofritpages, ricetta a base di agnello, pollo, patate e strutto di maiale, l'arroz de matanzas, risotto con tante diverse tipologie di carne. E il più antico di tutti, l'ensalada de crostas, un'insalata a base di pane raffermo bagnato nell'acqua, olio extravergine di oliva, pomodori, cipolla rossa ed erbe aromatiche che ricorda da vicino la nostra panzanella. Una cucina, dunque, che coniuga carne e pesce, basata su un'intensa attività ittica ma anche su una selezione ampia di carni insaccate.

E i prodotti...

Una delle specialità dell'isola è infatti la sobrasada, un salume antico originariamente riservato al periodo della mattanza, fase finale della pesca del tonno: “La sobrasada veniva consumata in occasioni speciali, perché la carne in passato era un lusso da concedersi poche volte. La mattanza era la fase più faticosa della pesca, e per questo gli uomini avevano bisogno di un apporto proteico notevole e di un cibo pratico da poter portare con loro”, racconta Toni, agricoltore di Santa Agnès che da anni si impegna a organizzare laboratori dedicati ai bambini, parte di un progetto scolastico volto a recuperare le antiche tradizioni artigianali, dalla preparazione del pane a quella della calce.

 

Toni e Maria

Fra i prodotti che hanno fatto la storia della cucina ibizenca ci sono poi anche le mandorle, “qui ne abbiamo 5 diversi tipi raccolti da alberi che hanno dai 70 ai 100 anni”. Una in particolare stupisce per dolcezza e profumi: l'espineta, frutto dalle piccole dimensioni molto zuccherino.

 

espineta

E poi ancora i formaggi che, come vi avevamo già raccontato qui, si basano principalmente sul latte di capra e prevedono l'utilizzo del caglio vegetale, quello realizzato a partire dall'infiorescenza del cardo, come nel caso dei prodotti di Ses Cabreter, una delle realtà casearie più valide dell'isola. E infine i cetrioli di mare, molto spesso presenti nei menu dei ristoranti più tradizionali ripieni di sobrasada.

La ristorazione

Tanti i locali dove assaporare queste specialità, molti di stampo tradizionale, altri più innovativi, con un occhio di riguardo per le tecniche di cottura, l'estetica dei piatti e la ricerca degli ingredienti. Sono ristoranti solitamente guidati da chef giovani, che cercano di riproporre il gusto della classica cucina ibizenca con un tocco personale, re-interpretando le ricette antiche secondo le tendenze più contemporanee. È il caso di alcuni tapas bar, come Sa Brisa, locale in pieno centro città che evolve il concetto di tapas proponendo delle piccole porzioni di piatti tipici cambiandone forma, struttura, composizione. Ci sono le croquetas,crocchette di patate a base di verdure, pesce o carne, ma accompagnate da salse particolari, come quella di barbabietola ed erbe aromatiche, avocado e yogurt, e poi lo scorfano cotto a bassa temperatura e il dessert ibizenco per antonomasia, il flaó,dolce a base di crema di formaggio, in questo caso di capra, uova, zucchero e menta.

 

Sa Brisa

Ma una delle insegne più interessanti della città è Es Terral, dove lo chef, francese di origine ma ibizenco di adozione, Matthieu Savariaud, nei suoi piatti fa convergere le tradizioni dei due paesi che più lo hanno influenzato, la Francia e la Spagna, senza tralasciare delle contaminazioni italiane, come nel maiale nero di Ibiza con salsa tonnata, e la menestra payesa, mix di fave, carciofi e asparagi simile alla vignarola romana che lo chef impreziosisce con spuma di formaggio di capra e uovo in camicia.

 

Menestra

Specialità della casa è il magret de pato con zanahoria, filetto di carne magra ricavato dal petto d'anatra tipico della cucina d'oltralpe, qui abbinato a carote croccanti e purè di patate. I dessert invece pescano dalla tradizione anglosassone: la composición de fresas de Ibiza con Helado de yogurt (composizione di fragole di Ibiza con gelato allo yogurt) non è altro, infatti, che una rivisitazione del classico Eton Mess, dolce inglese a base di fragole, panna montata e meringhe. Ma per gli affezionati della cucina francese non manca, naturalmente, l'intramontabile Tart au Citron, in questo caso nella versione più moderna servita in bicchiere.

a cura di Michela Becchi

GLI INDIRIZZI

Dove mangiare

Es Terral | Ibiza | Carrer de Sant Vicent, 47 | tel. +34 628581314 | www.facebook.com/Es-Terral-IBIZA-727306650641972/

Sa Brisa | Ibiza | Passeig de Vara de Rey, 15 | tel. +34 971090649 | www.sabrisagastrobar.com/en

Dove dormire

Hotel Torre del Mar | Ibiza | Playa den Bossa, Calle Carlos Román Ferrer, s/n | tel. +34 971303050 | www.hoteltorredelmar.com/en

Ibiza Gran Hotel | Ibiza | Paseo Juan Carlos I, 17 | tel. +34 971806806 | www.ibizagranhotel.com/

Dove comprare

Bodegas Can Rich | San Antonio de Portmany (Ibiza) | Camí de Sa Vorera S/N | www.bodegascanrich.com

Mercat Nou | Ibiza | Carrer de Castella, 30 | esmercatnou.com/inici/

Mercat Vell | Ibiza | Plaza Constitucio, 1T

 

Cantine Aperte 25 anni dopo. Gli appuntamenti di questa edizione

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Nasceva nel maggio del 1993 in Toscana l'evento clou del Movimento Turismo del Vino. Ecco com'è cambiato e come oggi riesce a spostare oltre un milione di enoturisti. Anteprima 2017 affidata al Treno del Vino in Abruzzo. 

Torna questo fine settimana (27 e 28 maggio) l'appuntamento con Cantine Aperte, l'evento principale del Movimento Turismo del Vino (MTV), giunto alla sua 25esima edizione. La prima, nel 1993, coinvolgeva la sola Toscana, con 7 cantine del territorio, per poi essere replicata, negli anni successivi, in Trentino e in Piemonte. Da allora tante cose sono cambiate: oggi sono circa 800 le cantine che in tutta Italia aprono le loro porte a oltre un milione di enoturisti.

Cantine Aperte è l’evento ‘pop’ del vino per eccellenza” ha detto Magda Antonioli, direttore del Master in Economia del turismo all’Università Bocconi di Milano e ispiratrice della prima edizione “ed è nato oltre che per intercettare una domanda turistica latente, anche per la necessità di portare trasparenza nelle cantine italiane dopo lo scandalo del metanolo: una sorta di esigenza di giustizia rivendicata dai migliori produttori del Paese”.

 

Le iniziative solidali e gli appuntamenti

Quest'anno a fare da fil rouge sarà la solidarietà, grazie al progetto Bottiglia Solidale in favore dei territori marchigiani colpiti dal terremoto. Non solo. La grande festa del vino chiuderà l’iniziativa MTV per Amatrice, la raccolta fondi lanciata a settembre scorso, mentre prosegue la collaborazione con Airc, l’Associazione italiana per la ricerca sul cancro, a cui sarà donato tutto il ricavato proveniente dalla vendita dei calici griffati Cantine Aperte 25. Sono già 50mila quelli distribuiti. Ci sono, poi, le attività solidali delle sedi regionali o delle singole cantine, come quelle a favore dell'Unicef in Friuli Venezia Giulia e dell'Associazione Fibrosi Cistica in Trentino Alto Adige.

Non mancano, inoltre, le consuete attività en plein air, tra trekking, eco e mountain bike; poesia arte e fotografia; musica e ovviamente degustazioni: 2mila gli eventi organizzati. Tra le attività più curiose, segnaliamo in Piemonte la visita ai ‘crotin’, le cantine sotterranee scavate a mano nel tufo; lo spettacolo teatrale Eyes Wine Shot che andrà in scena in Puglia; la scuola di cucina, wine&cheesebar e barbeque in vigna della Campania; il mercatino contaminato dall’artigianato e dai prodotti tipici locali nel Lazio. Mentre in tutta Italia ci sarà l’apertura di 30 (eno)dimore storiche da parte dell’omonima associazione.

 

L'anteprima in Abruzzo sul Treno del Vino

Intanto, una piccola anticipazione dell'evento ha visto come protagonista i produttori abruzzesi. È stato, infatti, l'Abruzzo (uno dei luoghi maggiormente colpito dal terremoto del Centro Italia), la regione scelta per l'anteprima nazionale di Cantine Aperte di domenica 14 maggio, con un tour a bordo del Treno del Vino, la transiberiana d'Italia che collega Sulmona a Roccaraso. Tre soste – Campo di Giove, Palena e Roccaraso – e tutti esauriti i 500 posti sui vagoni storici: altissima anche la presenza di turisti stranieri che hanno, così, potuto degustare i vini di 20 cantine (riunite da Mtv Abruzzo) e mangiare i prodotti tipici abruzzesi, oltre che parlare con i produttori, presenti a loro volta sulle carrozze. “È questo il senso dell'enoturismo” ha commentato il presidente nazionale Carlo Pietrasanta, che non ha voluto mancare all'evento “portare turisti e appassionati anche in luoghi meno conosciuti con iniziative che favoriscono l'aggregazione territoriale”. E se gli eventi itineranti sulla vettura storica abruzzese (tutti gestiti dall'associazione Le Rotaie) sono una ventina nell'arco dei 12 mesi, il Treno del Vino – giunto alla sua seconda edizione – passa solo una volta l'anno.

L'enoturismo in Italia

Che l'enoturismo rappresenti un fenomeno dalle enormi potenzialità lo abbiamo detto più volte, ma è interessante notare come oggi l'esperienza di viaggio sia direttamente collegata alle visite in cantina. Lo evidenzia un'indagine di Wine Monitor, secondo cui quasi un Millennial su due (46%) quando sceglie la meta delle vacanze considera anche la possibilità di degustare vini di qualità. Tanto è vero che, sempre secondo la stessa ricerca, quasi 8 su 10 Millennial che consumano vino, nell’ultimo biennio hanno vissuto un’esperienza da enoturista. Ma quali sono le regioni italiane più battute? La Toscana” spiega Denis Pantini direttore di Wine Monitor “svetta su tutte le altre, sia per frequenza (19% dei Millennials enoturisti) sia per qualità e soddisfazione dell’utente (3,9 il punteggio medio su una scala da 1 a 5). Seguono il Piemonte (9% dei Millennials, 3,8 il punteggio medio) e la Puglia (7%, con una valutazione simile a quella della Toscana)”.

 

Per tutti gli appuntamenti di Cantine Aperte www.movimentoturismovino.it

 

a cura di Loredana Sottile

Ciccio Sultano. Il Duomo che verrà: progetti per il futuro e ritorno alla campagna

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Si lavora con intensità, e all'unisono, nel salotto ragusano di Ciccio Sultano, all'ombra della cupola di San Giorgio, nel cuore di Ibla. Dopo 17 anni di attività, lo chef siciliano è pronto a guidare il ristorante verso una nuova fase, forte di una brigata giovane, solida e appassionata. E intanto rinsalda un circuito che si alimenta del territorio e dei suoi prodotti.

Ci sono immagini che costruiscono la mitologia dei luoghi. Per esempio, chi ha seguito le gesta dell'Osteria Francescana di Modena negli ultimi anni sa quanto via Stella, il tran tran rilassato da città di provincia a misura d'uomo, sia fondamentale nel racconto di Massimo Bottura e dei suoi ragazzi, che lì hanno festeggiato i momenti migliori, compatti come una squadra dove tutti contano. E tante sono le foto che li immortalano.

Cambio di set, profondo Sud. Quello plasmato da una luce che ti resta negli occhi, costruendo il ricordo di un panorama che cambia a ogni ora del giorno, l'opulenza sinuosa delle facciate barocche addolcita dal sole del tramonto, l'affastellarsi composto della città vecchia svelata dai raggi del primo mattino, che indagano curiosi ogni spigolo. È così che Ragusa Ibla si presenta a chi l'osserva dall'alto, la tentazione di etichettarla come l'incantevole presepe di turno scacciata da una storia ben più complessa. Per ripensarla “con una certa qualità d'animo” come scriveva Gesualdo Bufalino, che di Ibla è stato uno dei più grandi cantori, “il gusto per i tufi silenziosi e ardenti, i vicoli ciechi, le giravolte inutili”. Con la cupola del duomo di San Giorgio che sorveglia, magnifica, l'abitato: impossibile perderla di vista, specie quando di notte si illumina di blu cobalto. E da via Capitano Bocchieri è sufficiente alzare lo sguardo per ritrovarla lì, imponente, dov'è da quasi due secoli.  

Via Capitano Bocchieri, 31. Ragusa Ibla

Eccoci a stringere il campo su un altro scorcio che racconta la storia vissuta di un luogo, che prima di essere insegna è famiglia: in prossimità del civico 31, dove una targa ricorda che siamo al cospetto di Palazzo La Rocca, non è raro imbattersi nei ragazzi della brigata di Ciccio Sultano. A ogni ora del giorno, perché la “famiglia” del Duomo non si fa sconti, e dalle prime ore della mattina la brigata comincia operosa a ripetere gesti quotidiani. Ci sono le forniture da sistemare, la carne (carrè di maiale e animali interi) da porzionare, il tonno da trattare con cura... Poi arriva il pane dai Banchi (l'insegna complementare in via dell'Orfanotrofio, cucina e bottega al motto di "pane al pane", con la supervisione fresca e competente di Peppe Cannistrà), Ciccio ogni tanto si affaccia sull'uscio, saluta chi passa. Le divise ordinate dei ragazzi – l'età media della squadra è decisamente bassa, eppure ognuno ha alle spalle esperienze di livello nella ristorazione nazionale e internazionale – si confondono all'orizzonte di un tranquillo vicolo della bella provincia italiana (e ci risiamo), ridisegnandone l'immaginario. A vantaggio dei turisti - in crescita costante, attirati dal mito Montalbano - che si aggirano per Ibla, come dei ragusani, che dell'insegna a Due Forchette e Due Stelle di Ragusa e del proprio concittadino diventato ambasciatore dell'alta cucina siciliana vanno piuttosto fieri.  

Il Duomo e Ciccio. Gli inizi

La storia del Duomo è cominciata 17 anni fa, non manca molto al traguardo dei 20. E Ciccio Sultano non vuole farsi trovare impreparato. Perché se alle spalle c'è il ricordo di un percorso di riconoscimenti e conferme che è costato sacrifici e pure momenti di sbandamento, per il futuro si prospetta un nuovo momento di crescita, l'ennesimo: “Il 2016 ci ha dato tante soddisfazioni, la sicurezza e la voglia di investire, perché il mondo intorno a noi sta cambiando, e noi non vogliamo solo mantenere lo stato delle cose, ma rilanciare. Gabriella, che è al mio fianco da diversi anni, nella vita e sul lavoro, mi ha garantito la tranquillità per farlo”. Non è stato sempre così.

Breve riassunto delle puntate precedenti, ché il racconto dell'innamoramento di Ciccio per la cucina – e viceversa - potrebbe riempire un'enciclopedia: “Io lavoro da 37 anni, da ragazzo in campagna, ma ho fatto anche il muratore: prendevo 10mila lire al giorno, mi massacravano. Una mattina mi sono alzato e ho detto basta. E ho deciso che avrei provato in un bar, con la pasticceria. Ma a Vittoria nessuno mi voleva, poi mi sono imbattuto nella Pasticceria Suite. Mi ha accolto Corallo, il papà di Marco (il braccio destro dello chef al Duomo, ndr): cercavano ragazzi, dopo due ore ero al lavoro. Sono rimasto 7 anni. A 20 anni mi sono avvicinato alla cucina da autodidatta: studiavo sull’enciclopedia di cucina internazionale. I miei amici facevano da cavia, dal salmone in court bouillon al gulash”. La passione cresce e si trasforma in mestiere, prima una spaghetteria del posto, poi il lavoro stagionale con Ciccio Giaquinta, in stabilimenti balneari, villaggi “la cucina del parco acquatico per 800 persone al giorno, catering, buffet e matrimoni”. E, dopo la parentesi americana, “quando sono tornato con tutte le mie delusioni, ho deciso di fare un altro discorso: non volevo più lavorare per altri. Dopo 6-7 mesi ho trovato il Duomo”. All'epoca il ristorante già esisteva, con tutt'altra vocazione: Ciccio ne assunse la gestione, fino a quando decise di rilevare l'attività. Poche risorse economiche e tanta voglia di fare bene, “in un anno abbiamo portato il ristorante in positivo”.

Esuberanza e maniacalità

L'inizio di una storia fatta di rigore: “Mi sono imposto la maniacalità, perché voglio continuare a crescere”. Con una filosofia che non nasconde gli spigoli di un temperamento difficile, ma molto concreto: “La nostra è sempre stata una cucina ricca: niente degustazioni da furbetti, pesce azzurro, quinto quarto, essenzialità, poesie, poesie... La gente lavora un anno per permettersi di venire al ristorante, nel piatto 'minchiate' non vogliono trovarne. Devi fare la spesa, l’investimento maggiore è nel tavolo, il padrone di tutto è il cliente”. L'obiettivo è regalare un'esperienza felice anche a chi ritorna a distanza di un anno, aspettandosi di essere conquistato ancora una volta: “La chiave è rinnovarsi sempre, e coinvolgere chi si siede a tavola, farlo sentire a casa. Noi non raccontiamo le ricette come se avessimo inventato il mondo, anche se dietro ci sono dettagli termici, duttili, tattili: il contenuto non deve essere schiacciato dalla tecnica. E anche la pulizia dell’ingrediente è funzionale: prodotti stratificati, messi uno sopra l’altro, riconoscibili in bocca, dove evolvono”. 

Come lo Spaghettino con ricci, alghe, asparago, centrifuga di erbe primaverili, amaricante e limone crudo, chiuso da un boccone di scampo crudo con salsa di fichi d'India. Se il rischio è quello di concedersi troppe licenze barocche - anche se oggi un percorso di degustazione al Duomo rivela una mano educata e delicata e una sensibilità quasi femminile, ricca di profumi floreali, il sambuco e la rosa su tutti – Ciccio non sembra scomporsi: “Certo, mi porto dietro l’esuberanza siciliana: levare non significa privare. Voglio restare siciliano, l’essenzialità a volte mi fa paura”.

 

2018. Il Duomo che verrà

Ma la pulizia del racconto resta centrale, e il simbolo grafico scelto per rappresentare il Duomo di oggi ne è esempio lampante: un codice stilizzato che sembra un sigillo (sviluppato da Copy Studio, che ha curato anche l'ultimo recente restyling del sito, e seguirà l'immagine del Duomo che verrà) e racchiude tre elementi essenziali, grano, olio e sale. Parla, ancora, di evoluzione, alla soglia dei 50 anni (“ormai ne ho 47”). Come? Su due binari che procedono complementari, e si completano: il ristorante e la campagna. “Ho voglia di apparecchiare una grande tavola, e raccontarlo al mondo. E finalmente ho avuto il coraggio, e la possibilità, di rilevare la proprietà delle mura”. Questo, dunque, è un momento cruciale: all'inizio del 2018 la chiusura stagionale del Duomo coinciderà con una ristrutturazione importante del ristorante: “58 giorni per rimodulare gli spazi, razionalizzare la cucina, ripensare la sala senza compromettere l'atmosfera familiare che si respira”.

E lavorare sull'apertura di un nuovo spazio, un locale adiacente che fa parte di Palazzo La Rocca, dove nascerà entro la fine del 2018 il “salotto” del Duomo: “Un progetto di architettura millimetrica per creare un ambiente rilassato dedicato all'aperitivo e all'after dinner, prosecuzione naturale del ristorante. E lì troveranno spazio anche una cucina di produzione, un laboratorio per dare respiro alla brigata e una cantina visitabile”. Alla definizione dell'interior design si lavora con Davide Groppi, che curerà l'illuminazione perché “la luce sia funzionale al racconto del cibo”. E della storia del ristorante: “Non siamo a Milano, Parigi, Hong Kong. Dobbiamo mantenere l'integrità della casa: se è bello per noi, sarà bello per i clienti”.

Cucina, sala...

Nel frattempo si investe su formule di degustazione moderne: il piatto a scelta dal menu con calice di vino per un pranzo a 30 euro, la “cucina alcolica” con una drink list studiata per l'abbinamento (dal Barnum con gin, finocchio fresco, olio essenziale di finocchio e zeste di limone di Sicilia, al Mishima con vermouth Mulassano bianco, estratto di carota, sake e Marrocan Bitter) l'iniziativa 1cl, che invita a scoprire il mondo dei distillati con giudizio. Ma si lavora anche sul perfezionamento del servizio di sala, che segue l'evoluzione della cucina: oltre a Gabriella, tra i tavoli si muovono Giuseppe Di Franca, Claudio Marrale e la giovane Valentina Cinti nel ruolo di Head sommelier, acquisto recente (e brillante) dal Cambio di Torino. In cucina convivono in 6 (oltre allo chef), in spazi millimetrici (“lavori, pulisci, ricominci, come in una cucina di bordo”): “Stiamo raccogliendo frutti straordinari dalla squadra che abbiamo messo su. L'anno scorso abbiamo chiuso con 10mila coperti. Ora dobbiamo rinforzarci, per alzare lo standard e arrivare rilassati alla ristrutturazione”.

E campagna

Fuori dal ristorante, però, l'altro sogno di Ciccio Sultano procede a vele spiegate: l'Aia Gaia si raggiunge in pochi minuti da Ibla, tra i terreni in gran parte abbandonati che disegnano la valle del fiume Irminio con i tradizionali muretti a secco. E questo è il progetto in cui Ciccio ha intenzione di investire il proprio futuro, “quando smetterò di lavorare al ristorante per tornare alla campagna, magari aprendo una fattoria mia”. L'idea è nata un paio d'anni fa, dall'incontro con Carmelo Cilia e Paolo Moltisanti, esperti talent scout di piccoli produttori dell'isola e soci di questa che oggi rappresenta, a tutti gli effetti, un riuscito esempio di valorizzazione della microeconomia locale. Quella di una delle province più ricche della Sicilia proprio per la sua vocazione rurale. Oggi però accanto alle storiche aziende agricole della piana di Vittoria, si fa strada un drappello di giovani imprenditori che vogliono riscoprire il territorio e valorizzarne il prodotto, secondo un'idea di coltivazione e allevamento sostenibile che fa di questo ritorno alla terra un progetto sano, meritevole, dalle grandi potenzialità. Specie se l'impegno dei singoli è sostenuto dalla forza di una ristorazione di qualità, in un circuito di cui beneficiano tutti. Non ultimo il cliente che siede alla tavola di Ciccio Sultano. E allora molto presto torneremo a raccontare dell'Aia Gaia, delle sue galline felici, del ritmo lento delle stagioni. Di tutti i protagonisti di questa bella storia a più voci.

 

Il Duomo | Ragusa | via Capitano Bocchieri, 31 | tel. 093 2651265 | www.cicciosultano.it

 

a cura di Livia Montagnoli

Diageo Reserve World Class. È Mirko Turconi di Piano35 a Torino il miglior bartender d'Italia

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La competizione internazionale istituita da Diageo Reserve che celebra l'arte della mixology si avvicina. Per l'Italia, sarà Mirko Turconi di Piano35 a Torino a rappresentare la miscelazione nazionale ai campionati mondiali. E ci suggerisce tre cocktail di primavera.

La gara

Cucina d'eccezione e un lounge bar unico: apriva i battenti esattamente un anno fa Piano35, il ristorante più alto d'Italia all'interno del grattacielo Intesa Sanpaolo di Torino realizzato da Renzo Piano, locale che fin da subito ha raccolto l'entusiasmo del pubblico e che ora torna a far parlare di sé per questioni decisamente più meritorie. Grazie alla professionalità e al talento di Mirko Turconi, torinese di nascita con 20 anni di esperienza alle spalle, la maggior parte dei quali trascorsi a Milano, vincitore dell'ambito riconoscimento nazionale della Diageo Reserve World Class. Un contest giunto alla nona edizione, ideato da Diageo Reserve – leader mondiale nel mercato degli alcolici – che si propone di valorizzare la complessa arte della mixology, coinvolgendo oltre 50 professionisti del settore. Una gara dal respiro internazionale che si terrà a fine agosto a Città del Messico, ma che ha già premiato i rappresentanti nazionali, Italia inclusa.

Pochi giorni fa, si è svolta a Roma la finale italiana, che ha visto sfidarsi 8 bartender da diverse regioni della Penisola, selezionati dagli esperti Diageo. Prodotti Reserve, una gamma di spirit e distillati del portfolio luxury di Diageo, fra cui gin Tanqueray No. Ten, whisky single malt Talisker, Bulleit Bourbon, vodka Ketel One, rum Zacapa e tequila Don Julio: queste le specialità con cui i bartender si sono dovuti confrontare nella giornata densa di sfide all'interno del Teatro Quirinetta. Dalla prova Fast&curious che ha testato la velocità dei concorrenti (8 cocktail classici in 8 minuti) a Fight for the future, competizione che prevede la realizzazione di un Margarita innovativo con un twist personale e la tequila Don Julio. Sfida conclusiva è The box of secrets, una scatola alla quale hanno potuto accedere solo i tre migliori classificati della giornata, che hanno dovuto preparare un cocktail con gli ingredienti della scatola scelti dalla giuria.

Il vincitore

Mirko si è distinto per personalità e carattere, tenacia e costanza. Classificatosi terzo nel 2016, nonostante la sostanziale mole di lavoro del Piano35, nell'ultimo anno il bartender torinese ha lavorato sodo per guadagnarsi il gradino più alto del podio. “Non posso dire che me l'aspettavo, ma ci speravo molto”, racconta a caldo. “Sono ancora incredulo e continuo a pensare al momento della vittoria”. Il suo punto di forza? “L'esperienza dell'edizione passata. A posteriori sono contento di non aver vinto un anno fa, altrimenti non avrei avuto la sicurezza e la lucidità che mi hanno portato a vincere oggi”. Fondamentale è stata poi la personalizzazione dei suoi drink e il suo approccio unico alla preparazione: “Ci sono regole che vanno seguite scrupolosamente, ma è importante riuscire a inserire un tocco personale e intimo in ogni cocktail. E anche un pizzico di follia”. Un esempio? “Mentre prendevo la menta 'altamente selezionata' giocavo a 'M'ama non m'ama' con le foglioline. I giudici si sono divertiti, perché se è vero che la mixology è un'arte seria e complessa, è altrettanto vero che i drink indimenticabili sono sempre quelli che riescono a strapparti un sorriso”. E non solo: i cocktail proposti da Mirko sono anche gli stessi disponibili al bancone del Piano35, “inutile preparare delle bevande che i consumatori non potranno mai assaggiare. Credo sia più opportuno offrire qualcosa che siamo in grado di riproporre nel nostro locale”. E ora, è già tempo di allenarsi per la finale mondiale, “5 giorni di gara con 52 concorrenti. Sarà difficile ma ho intenzione di iniziare a prepararmi al più presto”.

Le ricette

Non ci resta che auspicare a Mirko tutto il meglio per la sua gara futura, che speriamo possa far luce sulla cultura dei cocktail italiana. Nel frattempo, abbiamo chiesto al bartender tre ricette per realizzare dei drink d'autore in casa. Bevande fresche, ideali per la primavera e i primi caldi, tutte ideate da Mirko per il bancone del Piano35.

Tropical Déco

L’unione tra Miami (capitale dell’art déco) e Tanqueray Ten (nota per la sua bottiglia in stile art déco). Un drink preparato in stile Tiki ma con ingredienti diversi. E “fenicotteri e palme in omaggio allo stile déco – e velatamente kitsch – di Miami”.

Ingredienti

50 ml di Tanqueray Ten

10 ml di dry curaçao

5 ml di estratto di zenzero

15 ml di succo di pompelmo rosa

15 ml di sciroppo di menta all'ananas

2 dash di bitter cardamomo

20 ml di cocco

 

Tropical déco

Il sombrero di Paloma

Una rivisitazione del Paloma, classico drink messicano. Un cocktail fresco e dissetante a base di Tequila don Julio blanco, sciroppo di Pompelmo (ingrediente tipico del Paloma insieme a Tequila e sale), succo di Lime, bitter al Pompelmo, soda all’aloe e uva fragola. “A bordo bicchiere aggiungiamo una crusta di sale all’ avocado e vaniglia”.

Ingredienti

60 ml di Don Julio Blanco

22,5 ml di sciroppo di pompelmo rosa

30 ml di lime

60 ml di soda bibita all'aloe

2 dash di bitter pompelmo

 

Sombrero di Paloma

Il Mi.To del Julep

Il Milano-Torino incontra la preparazione del classico Mint Julep, “drink preparato su ghiaccio trito con menta fresca”. Un cocktail nel cocktail che prevede la realizzazione del Milano-Torino, “campari e vermuth rosso” all'interno del Mint Julep.

Ingredienti

45 ml di vermouth

30 ml di campari

15 ml di cordiale brancamenta

10 ml di liquore alla ciliegia

1 dash di angostura

1 avocado

1 bacca di vaniglia

menta fresca q.b

a cura di Michela Becchi


Emirati Arabi. Vino e turismo crescono insieme

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Nel crocevia tra Oriente e Occidente, sale l'import di vino, nonostante l'altissima tassazione. Italia al 18% della quota di mercato, spinta dalla ristorazione: e anche Bottura è pronto a sbarcare a Dubai. Ecco il report dal Tre Bicchieri World Tour

Da Palazzo Versace Dubai arrivano ottime notizie per il vino italiano confermando un interesse che si dimostra sempre più forte e concreto per il nostro prodotto: i Tre Bicchieri hanno attirato 300 persone tra imprenditori, operatori e grandi collezionisti che hanno vissuto una notte italiana in pieno stile, tra saltimbocca e pizze napoletane sfornate sul posto dal maestro pizzaiolo, Enzo Coccia, le ricette dello chef dell’Accademia Barilla, Marcello Zaccaria, seminari tecnici e oltre 60 eccellenze enologiche, molte delle quali per la prima volta in città. Hanno voluto onorare l’evento anche l’ambasciatore italiano ad Abu Dhabi, Liborio Stellino, il console generale a Dubai, Valentina Setta, e uno dei più noti business man e grande sostenitore del made in Italy: Yogesh Mehta.

Parlare di consumo di vino, negli Emirati Arabi, non è cosa semplice: porta con sé l'analisi di un panorama complesso, che sta evolvendo fortemente negli ultimi anni e che cambierà ulteriormente.

 

Mercato del vino conteso da due soli grandi importatori

Dubai fa storia a sé in fatto di vino. È una città dove meno del 15% della popolazione è locale, con la comunità indiana che da sola supera il 50%, e dove il turismo fa da volano ai consumi. L’80% del consumo di vino è appannaggio degli hotel, che ospitano ristoranti e club di altissimo livello, con carte sempre più profonde e varie. I numeri della ricezione alberghiera sono impressionati: con 15 milioni i turisti nel 2016, Dubai ha sorpassato Roma in questa speciale classifica. E gli analisti prevedono una crescita che porterà i turisti a 20 milioni entro il 2020, anno dell’attesissimo Expo. Grazie alle rotte di Emirates - più di 3 mila i collegamenti settimanali - Dubai è sempre più il punto di raccordo tra Occidente, Asia e Africa. Come nessun’altra città al mondo.

Al di fuori delle strutture turistiche, per comprare alcol, ma anche per trasportarlo, occorre una licenza ad hoc e avere almeno 21 anni. I ricarichi sono così alti perché la tassazione è tra le più elevate al mondo: 50% sul valore, più tassa municipale al 10% e altra tassa finale del 30% sul prezzo finito. Ma di certo, non frenano i consumi, anzi sono in fase di boom. In portafoglio, abbiamo raggiunto le 3 mila etichette”, commenta Jean-Philippe Le Rouzic, wine sales manager dell’African Eastern, il colosso che insieme alla MMI (Maritime and Mercantile International) detiene il controllo dell’importazione e della distribuzione. Solo due players per tutto il mercato. Numerosissimi gli operatori delle due compagnie accorsi all’evento del Gambero Rosso: “La sorpresa” ci dicono “è arrivata soprattutto dalla qualità dei bianchi proposti”.

 

L'interscambio commerciale con l'Italia

Considerando tutto il settore agroalimentare, i rapporti tra Italia ed Emirati Arabi sono molto solidi. Nel 2016, l'export italiano è stato di 317,1 milioni di euro, con una riduzione del 2,1% rispetto al record raggiunto nel 2015 (324 milioni di euro). Con appena 2 milioni di euro di import (+10,3%), il surplus commerciale nel 2016 è stato di 315,1 milioni di euro.

Gli Emirati acquistano dall'Italia soprattutto alimentari (54,2%, nel 2007 erano il 77,5%), derrate agricole (37,2%, era del 9,5% nel 2007) e bevande (8,6%, rispetto al 13% del 2007). All'interno di quest'ultima categoria si nota una progressione continua iniziata nel 2010. L'anno scorso è stato raggiunto il massimo storico di 27,2 milioni di euro, il 3,1% in più rispetto al 2015. Sono le bibite analcoliche e le acque minerali a registrare il valore delle vendite più alto, circa 10 milioni di euro nel 2016, con un aumento del 3,5% annuo; seguite dai vini da tavola che, come fa notare l'Ice di Dubai, nonostante le restrizioni associate alle regolamentazioni di importazione e alla concentrazione del settore della distribuzione, hanno realizzato esportazioni per 8 milioni di euro e un incremento del 3,7% in un anno. In calo i liquori (-4,7% a 3,5 milioni di euro), mentre si registra una grande progressione degli spumanti: +20% e un valore di 3,3 milioni di euro; segue la birra, con esportazioni per 2,8 milioni di euro (-4,3%).

E l'Italia esce bene anche dal confronto con la Francia: il vino tricolore stacca una quota di mercato del 18% (era ferma all'8% sette anni fa), mentre la Francia scende dal 25 al 20%. È l’effetto delle molteplici insegne italiane aperte in città, sono 14 mila oggi i nostri connazionali a Dubai, principalmente impegnati nel settore del food&beverage.

 

Il premio al miglior ristorante italiano

Come per altre tappe, l'evento di Dubai è stato anche un'occasione per premiare i migliori ristoranti italiani in città per la nuova guida Top Italian Restaurant. Il riconoscimento è andato a Il Borro Tuscan Bistro, espressione di una ristorazione che dopo anni di eccessi sta cercando nuove vie. Lo spiega lo chef Maurizio Bosetti: “C’è un ritorno anche qui a una cucina di prodotto, mentre i fine dininig faticano tantissimo. Arrivano persone che hanno girato il mondo, vengono qui per fare un’esperienza, provare cose semplici e autentiche. Il piatto più richiesto sono i pici all’aglione”.

 

a cura di Lorenzo Ruggeri

 

 

Questo articolo è uscito sul nostro settimanale Tre Bicchieri del 25 maggio

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The Vegetarian Chance. A Milano la cucina cruelty free di Pietro Leemann. La gara tra chef, gli incontri, i dibattiti

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È il Teatro Parenti, con lo spazio all’aperto dei Bagni Misteriosi, a ospitare l’edizione 2017 del festival della cucina vegetariana e vegana ideato dallo chef svizzero del Joia con il giornalista Gabriele Eschenazi. Il programma e i protagonisti. 

Il festival della cucina veg

Alla rassegna dedicata alla cucina vegetariana e vegana che questo week end torna di scena a Milano, con l’edizione 2017, bisogna riconoscere il garbo e la serietà che sono propri del suo patron, lo chef Pietro Leemann, ambasciatore della prima ora del pensiero veg e della cucina naturale, senza per questo assumere posizioni radicali. E pure The Vegetarian Chance, l’associazione fondata dal patron del Joia insieme al giornalista Gabriele Eschenazi – che una volta all’anno organizza il festival omonimo – beneficia di questa condotta discreta e professionale, che si concretizza nel concorso internazionale di cucina vegetariana e vegana dedicato agli chef, impegnati nella gara che li vedrà affrontarsi domenica 28 maggio, proprio nelle cucine del Joia. Di fatto però il festival è soprattutto un’occasione per sensibilizzare un pubblico eterogeneo alla causa di un’alimentazione cruelty free, che al Teatro Franco Parenti di Milano sarà raccontata da chef ed esperti coinvolti in una due giorni (27 e 28) di cooking show, conferenze, tavole rotonde, degustazioni tutt’altro che punitive, per scacciare l’immaginario di una cucina per adepti disposti a privarsi dei piaceri della tavola.

 

Il programma, gli ospiti

Anzi, lo spazio all’aperto dei Bagni Misteriosi, adiacente al teatro, ospiterà per tutto il weekend il Vegetarian Market, in collaborazione con il Mercato della Terra di Milano, mentre il bar di Un posto incredibile, con la cucina di Altatto, animeranno l’area ristoro. Intanto sul palco si avvicenderanno le dimostrazioni della Joia Academy e la proiezione del docufilm Food Relovution, lo show cooking dedicato al foraging di Valeria Mosca e l’interpretazione vegana dell’attivista israeliana Ori Shavit (in arrivo da un Paese dove oggi si contano oltre 400 ristoranti vegan friendly). In serata “diciamo qualcosa di vegetariano”, una “maratona culturale per ospiti inattesi e concisi”, 14 tra produttori, chef, giornalisti. Domenica invece spetterà al giornalista gastronomade Vittorio Castellani riscaldare la platea con la cucina dei rifugiati, insieme alla contadina afghana Zahara.

 

Il concorso degli chef

Ma l’ora x scatterà alle 16, quando nel foyer del teatro sarà proclamato il vincitore della sfida tra chef; in giuria Davide Oldani e Antonia Klugmann, l’epidemiologo Franco Berrino, il professore di agraria Stefano Bocchi, il giornalista Luca Ferrua. A confrontarsi col tema Gianluca Casini, Gijs Kemmeren, Rafael Rodriguez, Hitoshi Sugiura, Daniele Succi, Fabio Vacca, Andrea Valle, Lennart van Weert. Tutti alle prese con una creazione che valorizza la cucina naturale ed etica, fino alla reinterpretazione ironica e divertita dei Cappelletti in brodo (cosa nasconderanno nel ripieno?) e della Grigliata tra amici della natura di Daniele Succi. Ma in gara ci sarà anche il Perù di Rafael Rodriguez, dal Quechua di Milano, che nel piatto mette una lapalissiana Foresta Amazzonica. E l’essenziale Carota, carota, carota di Andrea Valle, nella brigata di Marco Sacco al Piccolo Lago di Mergozzo. Con arrivi dal Giappone, l’Olanda, la Germania (quella di Dusseldorf, dove lavora l’italiano Gianluca Casini). Chi vincerà?

 

The Vegetarian Chance | Milano | Teatro Franco Parenti e Bagni Misteriosi | il 27 e 28 maggio | www.thevegetarianchance.org  

 

a cura di Livia Montagnoli

Nasce a Bolgheri la World Wine Town da Oscar che sfida la Cité du Vin di Bordeaux

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Si chiama Musem - Museo Sensoriale e Multimediale del Vino, il progetto firmato dallo scenografo Dante Ferretti e dal manager Franco Malenotti. Obiettivo, portare 150 mila turisti sul territorio. L'inaugurazione il 3 giugno. 

Il progetto

Gli ingredienti ci sono tutti. Uno scenografo tre volte premio Oscar, l'esperienza di un affermato gruppo cinematografico, una storia di sicuro successo, una location di rara bellezza e l'ambizioso progetto di un navigato imprenditore. Non si tratta di un film, ma della risposta italiana alla Cité du Vin di Bordeaux: a un anno esatto dall'inaugurazione del museo francese del vino, anche l'Italia è pronta a presentare al mondo il suo Musem - Museo Sensoriale e Multimediale del Vino. “Che non avrà niente da invidiare a quello dei cugini d'Oltralpe”, ci dice subito Franco Malenotti (ex patron di Belstaff), ideatore del progetto insieme all'amico Gaddo della Gherardesca. Taglio del nastro il prossimo 3 giugno.

Siamo a Castagneto Carducci, patria di alcuni dei più prestigiosi vini italiani conosciuti all'estero, i cosiddetti Supertuscan, come Sassicaia, Ornellaia, Grattamacco, Piastraia. Per il progetto di quella che si inserisce tra le “World Wine Town”, Malenotti si è fatto affiancare dallo scenografo Dante Ferretti (tre Oscar portati in Patria - due con il regista Martin Scorsese e uno con Tim Burton - e una carriera sui più spettacolari set di Hollywood), coinvolgendo anche uno dei maggiori esperti di viticoltura italiana, il professore Attilio Scienza. Un'idea nata 15 anni fa con un investimento di 12 milioni di euro (suddivisi tra Monte dei Paschi di Siena, Banca di Credito Cooperativa di Castagneto Carducci e fondi privati) e che si pone obiettivi importanti: dai 100 ai 150 mila visitatori l'anno.

Le sale

Abbiamo fatto un giro nelle sale del Musem - mille metri quadri sviluppati su due piani - che si trova all'interno di Casone Ugolini, l'antica fattoria della famiglia Della Gherardesca, rilevata qualche anno fa dallo stesso Malenotti e trasformato in un resort di campagna. Quattro le aree principali del museo che ripercorrono altrettanti periodi storici. Si parte dalla Zona storica, dove il professore Attilio Scienza – come una sorta di Piero Angela dell'enologia - racconta in sei lezioni magistrali la storia del vino dalla civiltà Etrusca ai giorni nostri, attraverso i filmati realizzati dalla casa di produzione Canecane (la stessa che sta realizzando il mega-musical IlDivo Nerone a Roma), in collaborazione con il gruppocinematograficoGalactus. Si passa, poi, alla Sala delle grandi famiglie, dove si incontrano i protagonisti del territorio - Gaddo della Gherardesca, Piero Antinori e Niccolò Incisa della Rocchetta - sotto forma di ologrammi a grandezza naturale, che intrattengono il visitatore raccontando la storia di Bolgheri. A seguire la Sala degli imprenditori visionari: Pier Mario Meletti Cavallari e Michele Satta, che narrano della nascita di etichette prestigiose come il Grattamacco ed il Piastraia. Infine, uno sguardo in avanti, nella Sala del futuro, dove tocca a Federico Zileri parlare del passaggio generazionale e del vino che sarà.

A completare la struttura, tre ristoranti, un wineshop e un futuro campus (da ottobre inizieranno i lavori) per i giovani che vogliono approfondire la conoscenza del vino.

Ecco perché investire nel turismo del vino

Come si può vedere” spiega l'imprenditore Malenotti “la nostra città del vino è ben radicata nel territorio, ma con ambizioni nazionali e internazionali. D'altronde, per Bolgheri è un periodo particolarmente favorevole: è in atto la riscoperta di una Toscana meno inflazionata. Lo stesso Antinori, che crede molto in questo territorio, sta costruendo la sua nuova cantina in prossimità della nostra Wine Town”. A garantire, invece, la visione globale, c'è la partnership con la Cité du Vindi Bordeaux - gli stessi vigneron francesi saranno all'inaugurazione, con la degustazione Castelli Chateaux: i bianchi di Bolgheri e Bordeaux- e la collaborazione con le altre Wine Town italiane: House of Chianti Classico di Radda in Chianti, Wimu di Barolo, e la Venice Wine Town, che dovrebbe vedere la luce nei prossimi anni.

Oggi” conclude Malenotti “l'enoturismo vive un momento magico ed è fondamentale promuoverlo tutti insieme. C'è in arrivo un flusso turistico di grandi dimensioni che l'Italia rischia di vedersi portare via da altre nazioni più capaci, come Francia o Spagna, che sono notevolmente salite in classifica. Guardando più lontano, anche la Cina è al lavoro per costruire la più grande Wine Town al mondo. Per inciso, gli archistar che la stanno progettando sono proprio fiorentini. Ormai è chiaro, quindi, che il turismo del futuro è quello che sa mettere insieme arte, natura, cibo e vino: meno discoteche, più cultura del territorio”.

 

www.casoneugolino.com/museo-multimediale-del-vino/

 

a cura di Loredana Sottile

 

 

 

Il cinema al ristorante: The Dinner. Richard Gere, la politica e l'alta cucina

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Si intitola, semplicemente, The Dinner. È il film con Richard Gere e Steve Coogan che racconta, con il ritmo di una cena, rapporti feroci e tragedie familiari, delitti e dilemmi morali. Tutti intorno al tavolo, conditi da piatti di alta cucina e grandi vini.

Champagne rosé - “caro come un atto di guerra” per aperitivo. Accompagnato dal Giardino invernale: carote Chantenay, ravanelli, finocchio selvatico e rapa bianca con olio di oliva del Peloponneso al rosmarino dell'Oregon e una spolverata di sale rosa dell'Himalaya. Così inizia la cena della crudeltà che serve, nello stesso piatto, rancori familiari, ambizioni politiche, un crimine orribile, l'amore per i figli, dilemmi morali. E un menu d'alta cucina che pare essere tanto straniante di fronte alle feroci incomprensioni e ai dubbi etici apparecchiati sulla tavola, quanto necessario per tenere attaccati al presente gli attori di questo Carnage made in Usa, tratto dal bestseller La cena di Herman Koch, e diretto da Oren Moverman.

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Invito alla cena della verità

Ci sono i figli e i genitori. Ci sono due fratelli con le loro mogli. Il deputato Stan Lohman (Richard Gere), uomo di successo e dalla vita complicata, e suo fratello Paul (Steve Coogan), fragile, instabile, uscito da un esaurimento nervoso ma mai uscito da una gelosia castrante e rancorosa nei confronti del maggiore, incapace di gestire i rapporti con il figlio e di tenere a bada dalle proprie ossessioni. Le loro mogli, Kate (Rebecca Hall) che ha sacrificato tutto per essere l'ombra silenziosa ma strategica dell'uomo di successo, Claire (Laura Linney) che ha assorbito su di sé le responsabilità e il sostegno di una famiglia che pare sfuggire continuamente dal suo controllo e dalla normalità, sempre sul crinale della malattia mentale.

C'è un invito a cena che è una convocazione al tribunale della coscienza. Dove decidere delle sorti dei propri figli, del loro futuro e della loro custodia psicologica, umana, materiale. Bisogna decidere cosa è meglio per il loro futuro: salvarli dal giudizio della società ma condannarli a convivere con i rimorsi di un delitto per il quale non hanno pagato, o denunciarli assicurandoli alla giustizia mandandoli in galera? Cosa privilegiare: le leggi della società o quelle della famiglia e della natura? E come affrontare questa decisione se in ballo ci sono incomprensioni irrisolte e tensioni che mandano in frantumi ogni possibilità di confronto?

Perché il distacco tra i due uomini ha radici lontane, tutte da cercare nel labirinto di rapporti familiari psicotici. Moverman sceglie di raccontare i protagonisti attraverso lunghi flashback del loro passato, di quei momenti critici in cui i due fratelli hanno innescato, definitivamente, quel meccanismo corrotto di nevrosi e insano senso di responsabilità che li incatena. Intorno al tavolo, e molto più spesso lontano da esso, si srotolano passato e presente dei quattro. Come un Angelo Sterminatore al negativo: qui non c'è una forza invisibile che li obbliga dentro una stanza, ma una spinta centrifuga che li fa alzare di continuo, come se sfuggendo al reticolo di regole civili condensate nel momento della cena riuscissero a sottrarsi all'obbligo di affrontare se stessi e ciò che li unisce loro malgrado. E a nascondere la complessità di ragioni che detta le loro scelte. La domanda è: quanto ognuno è disposto a pagare per mettere in salvo il proprio status quo?

 

Il ruolo della tavola come perno del presente

A scandire tutto c'è la cena, con il suo ritmo, il servizio impeccabile messo a dura prova dalle continue provocazioni dell'uno e dalle interruzioni dell'altro, che non riesce ad arginare il lavoro neanche per il tempo di un pasto.

Si parte con un potage di zucca, con semi canditi e zucchine, germogli di piselli, aglio arrostito e tuile di pecorino sardo; e radici invernali coltivate nel giardino del ristorante, un dettaglio che rivela come il lusso della semplicità sia un linguaggio universale nell'alta gastronomia contemporanea, con il vezzo della provenienza dei prodotti come di un pedigree da sfoggiare. Vengono servite barbabietole di Chioggia, carote Thumbelina e ravanello viola, con caprino e una vinaigrette all'aringa affumicata. Porro bruciato, radicchio, arancia sanguigna e del pangrattato di segale abbrustolito a completare il piatto. Questa “è food art”.

A seguire, faraona in un nido di funghi selvatici e trota. Con la portata principale, si serve anche il main course del dramma, non c'è più spazio per spiegare le pietanze, perché il passato e le sue conseguenze sul presente incombono sottraendo ossigeno a quel residuo di apparente normalità. L'isteria prende il sopravvento. E solo al momento de formaggi (Harbison dal Vermont, Bayley Hazen Blu Cheese, Hudson Flower dallo stato di New York -una rivisitazione del Fleur du Maquis della Corsica, mimolette dalla Francia,Weinkase Lagrein dall'Italia) si tenterà di ancorarsi al qui e ora. Bisogna tornare a parlare di quel che, oggi, i quattro devono affrontare e delle conseguenze delle loro scelte. Si finisce con uovo di cioccolato con tortino di pastinaca e pompelmo su noci del Brasile, fiori eduli e menta, con salsa salata al caramello e whisky e conbanana foster; ma solo al momento del digestivo si apre la voragine del presente in cui ognuno riesce a fare una proiezione del futuro che l'aspetta.

 

Il film finisce così, fuori dal ristorante come era iniziato. Ma con una consapevolezza che non sarà più possibile ignorare.

 

a cura di Antonella De Santis

 

 

 

 

 

La focaccia e i suoi derivati: 6 specialità tipiche della Liguria e una ricetta

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Una nuova rubrica per scoprire le tantissime preparazioni da forno sparse sulla nostra penisola - focacce, torte salate, pani conditi con diversi ingredienti - spesso ideate per riciclare le rimanenze di altri piatti. Partiamo dalla Liguria, la patria - tra le altre - della focaccia genovese, delle farinata e della focaccia di Recco.

C'è la focaccia che a ogni morso sprigiona tutto il sapore e il profumo dell’extravergine, quella di Genova. E poi un’altra traboccante di formaggio, fatta in provincia. E poi ancora la focaccia verde, quella dolce e quella a base di ceci, la farinata. Sono le specialità liguri: ve ne raccontiamo sei, con la ricetta della focaccia di Recco della Baracchetta di Biagio, locale specializzato in questo prodotto tipico, selezionato dell’edizione 2017della guida Street Food.

 

Farinata

Partiamo da una preparazione diffusa in molte zone del nord ovest dell’Italia, ma soprattutto in Liguria, dove viene chiamata fainâ de çeixai, e in Toscana, dov’è conosciuta come cecìna (Pisa)o torta di ceci (Livorno). Entro i confini liguri, oltre a Genova, luoghi tipici di produzione della farinata sono Chiavari, Santo Stefano d'Aveto, Pegli, La Spezia, Savona e Imperia.

È una torta salata molto bassa - creata impastando farina di ceci, acqua, sale e olio extravergine di oliva - dalla storia antica. Sono diverse, infatti, le preparazioni di origine latina e greca a base di ceci e cotte in forno. Ma la leggenda vuole che sia stata una battaglia, quella fra Genova e Pisa del 1284 (conosciuta come battaglia della Meloria) a generare le condizioni perché questa ricetta fosse messa a punto, complice un evento sfortunato: una terribile tempesta durante la quale, in una galea genovese, alcuni barili d'olio e dei sacchi di ceci si rovesciarono, inzuppandosi di acqua salata. I marinai cercarono di recuperare il più possibile di queste preziose provviste, mettendo in alcuni contenitori purea di ceci, acqua e olio d’oliva. Lasciato al sole per un giorno, questo impasto divenne secco, ma i membri dell’equipaggio, presi dai morsi della fame, la mangiarono voracemente, accorgendosi così della sua bontà. Una volta tornati sulla terraferma i genovesi pensarono di migliorare la ricetta scoperta per caso, cuocendo la purea in forno. Il risultato, per schernire i pisani appena sconfitti, venne chiamato “l’oro di Pisa”.

 

Farinata ligure - foto di Globe HolydaysFarinata ligure - foto di Globe Holydays

 

Le varianti e la diffusione

Una versione molto diffusa nelle zone del ponente genovese e della provincia di Imperia, in particolare a Oneglia, è la farinata con i cipollotti. Prima di mettere in forno l'impasto, lo si ricopre di fettine molto sottili di cipollotti, usando anche la parte più verde. Una volta sfornata, la farinata viene cosparsa anche di pepe nero macinato al momento.

Un’altra ricetta tipica di Savona e dintorni è la farinata bianca, chiamata anche turtellassu, prodotta con un mix di farina di grano e farina di ceci e spolverata anche in questo caso di pepe nero, generalmente più croccante e sottile della versione classica.

Il piatto è diffuso anche al di fuori del confini regionali: in particolare Pisa e Livorno contendono da sempre a Genova la paternità della ricetta. Ma questa specialità viene prodotta anche nel basso Piemonte e, in particolare, nella provincia di Alessandria, dove viene chiamata belé cauda, in Corsica e in Sardegna, a Sassari, dov’è conosciuta comefainèe spesso cotta con altri ingredienti come cipolle, acciughe e salsiccia. È popolare anche quella di Carloforte, colonia genovese dell'isola di San Pietro, nel Sud Sardegna, dove si vende nei cosiddetti tascélli. Infine, grazie all’immigrazione genovese, si mangia anche a Nizza (dove invece prende il nome di socca), a Tolone (dov’è popolare con il nome cade), a Buenos Aires e a Montevideo, capitale dell’Uruguay.

 

Focaccia genovese

La focaccia genovese, in città più nota con il nome dialettale di fugàssa (letteralmente “cotta sul focolare”) è una delle preparazioni più popolari del capoluogo ligure: una sorta di pane alto un paio di centimetri, “pizzicato” in superficie e ricoperto da una miscela di acqua e olio extravergine d’oliva, oltre che da granelli di sale grosso. Sono proprio la farina e l’extravergine gli ingredienti che la rendono così saporita e fragrante e devono essere di alta qualità. Solitamente si usa una farina bianca di grano tenero rinforzata, acqua pura (in alcune ricette una miscela di acqua e vino bianco), malto o farina di cereali maltati, lievito di birra in quantità variabile secondo le condizioni climatiche, sale fino per l’impasto e sale grosso per il condimento, olio extravergine d’oliva (sia per la massa che per ungere la focaccia).

 

focaccia genovesefocaccia genovese

 

La particolarità della preparazione sta nella lunga lievitazione, che deve durare non meno di 20 ore; inoltre, per tradizione, deve essere cotta nel forno a legna, anche se ormai si usano anche i forni casalinghi.

Si può gustare a colazione, intinta nel cappuccino come fanno i pescatori, come “rompi digiuno”, ma anche all’aperitivo: a differenza della farinata, che viene consumata a cena come piatto unico, la focaccia è considerata più uno snack e gustata soprattutto durante fra un pasto e l’altro. Tradizionalmente erano icamalli, gli scaricatori di porto, a mangiarla a metà mattina, intingendola in un bicchiere di vino bianco per bloccare la fame ed evitare di pranzare, cosa che contribuì non poco a creare lo stereotipo dei genovesi come persone particolarmente avare.

 

Varianti: dalle cipolle alle olive, passando per patate e uva passa

Ci sono molte varianti della focaccia genovese, soprattutto nei paesi dell’hinterland. Le più semplici sono quelle che prevedono l’aggiunta di rosmarino all’impasto, oppure di patate, di salvia e perfino di uva passa, che dà un sapore più dolciastro. Si possono aggiungere delle olive all’interno o sulla parte superiore, oppure dei pomodorini tagliati a metà. Tipica dei quartieri più popolari di Genova è lafugàssa co a çiòula, la focaccia con la cipolla, con fettine sottilissime marinate per almeno 20 minuti nell’olio extravergine e poi adagiate in cima alla preparazione.

In epoche più recenti si trova anche con noci o formaggio (sopra e non all’interno, come quella di Recco), cosparsa di salse varie, farcita con frutta secca ma anche con marmellate, panna e crema gianduia, nelle versioni dolci.

Nella zona di Genova Voltri, inoltre, si trova un particolare tipo di focaccia molto bassa lavorata anche con la farina di mais.

 

Focaccia di Recco

Spesso confusa con la focaccia genovese al formaggio, la preparazione tipica di Recco,fugassa de Réccu, è in realtà una pietanza unica, con un sapore particolarmente caratterizzato dalla dolcezza della crescenza, di cui è farcita. La ricetta - usata anche a Sori, Camogli e Avegno - ha ottenuto l’Igp nel 2012. “È un prodotto molto antico”racconta Biagio Palombo, titolare della Baracchetta di Biagio, locale di street food specializzato e segnalato dalla guida ai migliori Street Food d'Italia 2017. “Gli ingredienti di base sono semplicissimi, olio, acqua e sale, mentre il ripieno è fatto con il formaggio che, grazie alle elevate temperature di cottura, si scioglie e diventa molto liquido, fuoriuscendo dalle fessure della sfoglia sottile”.

La differenza sostanziale con la focaccia genovese, oltre alla presenza della crescenza, è il fatto che la focaccia di Recco non è lievitata. Nelle ricette più antiche, la protagonista non era la crescenza ma la prescinsêua, un prodotto caseario della provincia di Genova, a metà tra lo yogurt e la ricotta, oggi lasciato da parte a causa dell’eccessiva umidità e della sua acidità troppo marcata. “Noi la prepariamo ancora con il metodo tradizionale, su una teglia di legno con la farina di mais, per poi farla scivolare sulla piastra bassa del forno e cuocerla direttamente lì”. Ma come si mangia la focaccia di Recco? “Rigorosamente con le mani, avvolta dalla carta per alimenti in cui si vende. Mangiarla con coltello e forchetta vuol dire perdere tutto il suo valore aggiunto: la scioglievolezza del formaggio, che si deve colare un po’ qua e un po’ là”.

 

Focaccia di ReccoFocaccia di Recco

 

Simili per ingredienti e diffusione sono le focaccette al formaggio, preparazioni fritte dalle dimensioni più contenute. Un'altra specialità che somiglia molto a quella di Recco è quella la focaccia di Arenzano, cittadina costiera ligure a ponente di Genova, che prevede l'uso del lievito e, per la farcia, della panna acida mescolata con la fontina. Per la ricetta nel dettaglio vi rimandiamo alla fine di questo articolo.

 

Focaccia dolce sarzanese

Si chiama focaccia ma è un dolce dalla forma rotonda, a metà fra un pane lievitato e una torta. Proviene dalla zona di Sarzana, comune di poco più di 20 mila abitanti in provincia de La Spezia, al centro della val di Magra. La sua cucina è un incrocio di influenze liguri e lunigianesi e mette insieme pietanze sia di mare che di terra. Qui si producono due focacce tipiche: una molto classica, con farina di grano tenero e acqua, farcita con salsiccia arrostita; una più particolare, dallo spiccato sapore di frutta secca e dell’anice. È questa la pietanza che Mario Soldati elogia nel suo Vapor di Val di Magra del 1959.

 

Focaccia dolce sarzaneseFocaccia dolce sarzanese

La ricetta base prevede farina di grano tenero, uva passa di zibibbo, uova, zucchero, noci e nocciole sgusciate, vino bianco, olio extravergine d’oliva, lievito di birra, semi di anice, sale. In alcune varianti nell’impasto vengono aggiunti anche pezzetti di cedro canditi, scorza d’arancia e/o pinoli tostati.

I sarzanesi la mangiano quando si è del tutto raffreddata, per non rovinare la consistenza interna con lo sbalzo di temperature, accompagnata di solito da vino bianco dolce.

 

Focaccia verde di Dolceacqua

Nella provincia di Imperia le torte salate sono un classico. Ce ne sono di tanti tipi, ma quella che si avvicina di più all’idea di focaccia viene preparata a Dolceacqua. Chiamata anchefugasùn opizza verde, è realizzata con un impasto di farina 00, olio extravergine d’oliva, sale e acqua. Al suo interno solitamente si mettono zucchine grattugiate, bieta tagliata a striscioline, cipolle a fettine sottili, maggiorana, uova, parmigiano reggiano, sale, pepe e soprattutto 3-4 pugni scarsi di riso, che dovrà cuocere direttamente in forno. Infine, viene ricoperta da un altro strato di pasta che sarà bucherellato. Perché il risultato sia perfetto, la superficie della focaccia deve essere spesso spennellata di olio, in modo da non seccarsi.

In alcuni comuni limitrofi a Dolceacqua nel ripieno vengono aggiunti pomodorini freschi, pepe nero, mentre l’impasto viene addolcito un po’, utilizzando un mix di acqua e latte.

 

Focaccia verde di DolceacquaFocaccia verde di Dolceacqua

 

Piscialandrea

Focaccia alta e soffice, la piscialandrea o pizza d'Andrea è una specialità della provincia di Imperia, la cui ricetta risale alla fine del 1400. Le ipotesi sul suo nome sono diverse: la più accreditata rimanda ad Andrea Doria, l’ammiraglio che ha dominato la politica genovese per decenni; mentre altre sostengono che deriverebbe da pissaladière, una preparazione di origini romane diffusa in Provenza e a Nizza, il cui nome proviene a sua volta dalla parola peis salat, pesce salato.

La preparazione originale prevede per l'impasto farina, acqua, sale, olio extravergine e lievito, mentre per la farcia è necessario un battuto di cipolla e acciughe salate, che a Imperia chiamano macchettu. Dopo la scoperta dell’America e l’importazione di ingredienti diversi dal Nuovo Mondo, al ripieno sono stati aggiunti i pomodori freschi tagliati a pezzettini. In epoca moderna, inoltre, nella farcia spesso si trovano olive, cipolle a fettine e un formaggio locale a pasta molle, simile allo squacquerone.

 

Piscialandrea

Un’antica variante della piscialandrea è quella di Sanremo: la sardenaira, una focaccia un po’ più bassa condita con le sardine. Ma non è l’unica: ci sono tante ricette che si discostano da quella originale per uno o due ingredienti, oltre che per i diversi nomi con cui è conosciuta. Ad Apricale, ad esempio, si chiama machetusa e si prepara con una sorta di crema di acciughe, ottenuta facendo macerare i pesci più grossi sotto sale per circa 10 giorni; a Bordighera e in Vallecrosia, è famosa come pisciarà, e alla ricetta di basesi aggiungono tanti spicchi di aglio e i capperi; a Taggia abbonda di olive ed è conosciuta comefigassa; la versione di Ventimiglia, pisciadèla, non prevede le acciughe e vuole che all’impasto sia aggiunto del latte.

 

La ricetta della focaccia di Recco della Baracchetta di Biagio

ingredienti

1 kg di farina 00

1 kg di crescenza freschissima

4-5 dl di acqua

1 dl di olio extravergine d'oliva

sale q.b.

 

preparazione

Formare un impasto con farina, sale e l’olio versato a filo, aggiungendo piano piano anche l’acqua. Lavorarlo a mano finché non risulterà morbido e liscio, poi metterlo a riposare per almeno 1 ora a una temperatura di circa 18-20 gradi, coprendolo con un canovaccio.

Trascorso questo tempo, prelevare poco più della metà dell’impasto e tirarlo leggermente con il mattarello rendendo la pasta sottile. Chiudere la mano a pugno sotto la sfoglia e, ruotandola, allargarla per stenderla il più possibile. Mettere la sfoglia su una teglia di rame già unta di olio. Quindi poggiare delicatamente sulla sfoglia la crescenza in piccoli pezzi (circa una noce).

Fare una seconda sfoglia molto sottile, quasi trasparente, con lo stesso procedimento della prima e utilizzarla per coprire la preparazione. Chiudere le estremità dei due strati di pasta in modo che i bordi sovrapposti risultino ben saldati. Con le dita pizzicare la parte superiore in più punti, formando dei fori della grandezza di circa 1 centimetro.

Cospargere la focaccia di sale e di olio extravergine d’oliva e cuocerla in forno a una temperatura che va dai 270 ai 320 gradi per circa 5-7 minuti. Per ottenere una focaccia perfetta, è necessario che la parte bassa del forno sia più calda della piastra superiore. Sarà pronta una volta che la superficie sarà completamente dorata.

La Baracchetta di Biagio | Recco (GE) | lungomare Marinai d'Italia, 3 | tel. 0185720658 | www.labaracchetta.com

 

 

a cura di Francesca Fiore

 

 

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