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Oli d'Italia 2017. Frantoio dell'anno: Nicolangelo Marsicani di Morigerati

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Continua la nostra indagine alla scoperta delle migliori aziende olivicole nazionali. A Morigerati, in provincia di Salerno, è quella di Nicolangelo Marsicani a distinguersi per qualità del prodotto e soprattutto per il lavoro in frantoio.

Le origini

1928, Cilento. Per la prima volta l'attività di frantoio oleario della famiglia Marsicani viene registrata alla Camera di Commercio di Salerno. Una passione di famiglia, quella per la trasformazione dei prodotti agroalimentari, inizialmente incentrata sulla molitura di grano, cereali e olive, oggi tutta focalizzata sull'oro verde. Un'evoluzione naturale per l'azienda, negli anni passata in mano a Nicolangelo Marsicani, attuale proprietario, che nel 2007 decide di modernizzare l'attività e puntare sempre di più all'alta qualità del prodotto. E di farlo attraverso uno studio costante portato avanti insieme a Oleum, Assaggiatori Oli Salerno, associazione volta a valorizzare la cultura dell'extravergine di qualità con corsi di formazione e degustazioni. Un percorso che gli è valso il premio come Frantoio dell'Anno nella la guida Oli d’Italia 2017 del Gambero Rosso. Ma il lavoro di Nicolangelo continua: “da 4 anni sono amministratore Oleum e mi occupo di sostenere i piccoli olivicoltori” racconta.Perché la scuola negli anni si è rinnovata e, oltre ai corsi di analisi sensoriale, offre anche servizio ai giovani agricoltori per aiutarli in campo e in frantoio.

La produzione

6500 piante per 35 ettari di terreno, coltivazione tradizionale e quattro varietà principali: la pisciottana, tipica del territorio, il frantoio, il leccino e il moraiolo. Ma ci sono, in quantità minori, anche la rotondella e la ravece, che vengono impiegate principalmente per il blend. Quattro etichette in tutto: l'Algoritmo Dop Cilento, blend prevalentemente a base di pisciottana, frantoio, leccino; il Ditirambo, monocultivar di pisciottana, il Viride, monocultivar di coratina bio “realizzato con olive acquistate da altri terreni che lavorano a regime biologico”, e un blend che rappresenta la seconda linea dell'azienda, prodotto con la testa e la coda della lavorazione. Cosa si intende con questi termini? “Durante la produzione, la parte iniziale e finale del prodotto vengono scartate, perché per realizzare oli di ottima qualità si utilizza solamente il 'corpo'. Il nostro blend invece è a base di testa e coda delle lavorazioni di tutte le cultivar, più tutte quelle olive che non riusciamo a raccogliere in tempo e che sono, quindi, leggermente più mature”.

 

Raccolta

Interpretare le cultivar

Ogni varietà va interpretata”, questa la prima regola di Nicolangelo. Perché non basta conoscere tecniche e macchinari, occorre avere consapevolezza delle cultivar presenti in azienda. “In base all'annata, ogni oliva si comporta in maniera diversa a seconda della quantità di acqua che riesce ad assimilare, agli attacchi parassitari, allo stress che la pianta subisce e così via”.

 

Pisciottana

Per esempio la pisciottana è molto difficile da gestire:“È una cultivar selvaggia in grado di restituire aromi piacevoli, ma non grandiosi. Al momento stiamo lavorando per cercare di intensificarli”. Come? “A partire dagli anni '80, tanti alberi di pisciottana sono stati abbandonati per far posto a leccino, frantoio e altre cultivar più semplici da gestire. Ho pensato di recuperarne alcuni e creare un campo sperimentale”. Uno spazio dove fare ricerca e lavorare su questa varietà, “mantenendone il patrimonio genetico originario ma innestando sulla pianta varietà diverse come leccino, frantoio e coratina”. Per innesto, in agronomia si intende l’inserimento in un albero di una porzione di un’altra pianta, per migliorarne l'aspetto quantitativo e qualitativo. “Dovremo aspettare qualche anno per vedere eventuali risultati, ma ci stiamo impegnando molto”.

Il recupero degli ulivi

La caratteristica più ostica della pisciottana? La maestosità degli alberi, “che possono arrivare fino a 18-20 metri di altezza”. Recuperare le piante non è semplice, specialmente se si tratta di varietà così complesse. A raccontarci nel dettaglio il progetto è l'agronomo Leonardo Feola, che gestisce per Marsicani tutto il lavoro in campo. “Gli ulivi abbandonati sono pieni di muschi, licheni, occhio di pavone (unfungo che attacca l'ulivo, ndr) e altre malattie in grado di radere completamente al suolo la superficie fotosintetizzante della pianta”. Per cercare di riattivare il ciclo produttivo dell'albero occorre “reimpostare l'intera impalcatura, a cominciare dalla chioma”. Ma per recuperare una pianta malata occorrono anni, “almeno 4-5 per la pisciottana”.

Ma perché nella provincia di Salerno ci sono così tanti ulivi abbandonati? “La nostra zona detiene più della metà della superficie olivetata regionale, ma trae comunque poco reddito da questo settore per diversi fattori di tipo culturale”. Come la tendenza a concepire la produzione di olio come hobby e non come lavoro dato che “molti non credono si possa vivere di olio”, la percezione dell'extravergine solo come condimento o “ingrediente marginale e non imprescindibile”.

Insomma, ci sono dei luoghi comuni e miti da sfatare, delle credenze sbagliate da cancellare attraverso la divulgazione di corrette informazioni: “Persone come Nicolangelo sono in grado di cambiare le cose. Insieme, cerchiamo di stimolare i più giovani a fare meglio ma, soprattutto, con un lavoro ben fatto si crea fra i produttori uno spirito di emulazione che può migliorare la qualità generale del prodotto”. Inoltre, Marsicani offre anche la possibilità ad altri olivicoltori di molire le proprie olive nel suo frantoio: “Io mi occupo dell'accettazione dei frutti”, spiega Leonardo, “e sono molto rigido. Se c'è, per esempio, un attacco di mosca che supera il 3% su tutte le olive, scelgo di non procedere. Le drupe devono essere in ottime condizioni per poter essere molite da noi”.

Il lavoro in frantoio: quantità o qualità?

Uno studio profondo sulle varietà, dunque, che si traduce in frantoio in una attenzione maniacale a ogni fase della lavorazione. Ed è di nuovo Nicolangelo a parlare, che lavora in prima persona al processo di estrazione affiancato da Leonardo e dal presidente di Oleum, Gaetano Avallone, “deus ex machina del nostro olio”. Un lavoro di squadra che coinvolge più menti e soprattutto più palati, perché "l'assaggio è una fase fondamentale della produzione: l'analisi sensoriale ci consente di capire se stiamo procedendo nel modo adeguato, e soprattutto se ci sono dei dettagli da modificare o migliorare".

 

Assaggio

Ma come si fa un buon prodotto? Sono due le condizioni:“materia prima eccellente e pulizia dei macchinari. Ogni oliva deve essere perfetta e il frantoio impeccabile”. Senza queste due premesse, “l'olio non si può fare”.

 

Olive

Dopo la raccolta, “metà ottobre per la pisciottana”, le olive vengono portate immediatamente in frantoio, “nella peggiore delle ipotesi dopo 6 ore”, dove comincia il processo di estrazione. L'impianto scelto è l'Alfa Laval NX x17, una macchina che lavora 10 quintali di olive all'ora, “teoricamente a tre fasi, ma alle volte lavoriamo a due”, con frangitore a dischi e tre gramole, “ma spesso ne utilizziamo solamente due”. La pisciottana viene lavorata a tre fasi senza aggiunta di acqua, “o con al massimo solo un 3%”, e passa poi poco tempo in gramola, “una dozzina di minuti a circa 23/4°C”, una scelta che comporta una perdita di resa “perché in questo modo la macchina perde capacità lavorativa”. Ma quanto? “Invece di 12 quintali di olio, ne avrò all'incirca 8”. Ben 4 in meno. Ma vale la pena? “Per me l'olio è emozione, istinto, impulso, passione. Sì, vale sempre la pena perdere la resa per la qualità se si ama il prodotto”. Dopo la fase di gramolatura e decantazione, l'olio viene filtrato e conservato sotto gas inerte.

Le tecniche di frangitura

Come abbiamo detto, però, ogni oliva richiede un tipo di lavorazione diversa. Un esempio? “Ho notato in questi anni che le olive che presentano un sentore di pomodoro” come l'itrana (oliva di Gaeta) “solitamente sono quelle che richiedono meno tempo in gramola di tutte. Poco meno di 10 minuti e poi subito nel decanter”. Questo perché hanno una quantità ridotta di fenoli, le sostanze che conferiscono l'aromaticità al prodotto, e per questo motivo “occorre lavorarle poco per preservare tutti i profumi”. Bisogna stare attenti anche con il frangitore, da adoperare con cura “per riuscire a conferire le giuste sensazioni di amaro e piccante”. Perché è proprio in questa fase che le percezioni tipiche dell'olio vengono sviluppate e i modi di lavorare anche in questo caso sono diversi: “i frangitori variano a seconda delle griglie o dei dischi, che possono essere più o meno ravvicinati”. Più che i tempi, quindi, secondo Marsicani in questa fase è “il settaggio del frangitore” a fare la differenza.

L'annata difficile, i trattamenti e la potatura

Scegliere la qualità a discapito della resa implica una perdita produttiva notevole, specialmente in un'annata come quella appena trascorsa. Per Nicolangelo, l'ostacolo maggiore durante la scorsa campagna olearia è stato rappresentato da“tutta l'acqua che c'è stata a giugno, che ha fatto ingrossare il nocciolo, e poi la seguente siccità e le ultime piogge, proprio nel momento della raccolta. L'oliva risultava ingrossata ma praticamente priva di olio”. E la mosca? “Non è il problema principale. Oramai abbiamo tutti gli strumenti per combatterla. La conosciamo da tempo, non ci sono più scuse: chi vuole fare un buon lavoro sa come evitarla”. Insomma, non bisogna mai perdere di vista quel che accade in campo: “Se continuiamo con questo ritmo – un'annata buona e una cattiva – non saremo più in grado di sostenere la mole di lavoro”.

Fondamentale per la qualità delle olive è la potatura, in questo caso di tipo meccanico, che avviene alla fine di ogni inverno, “ma attualmente stiamo valutando di effettuarla anche durante la fase di mignolatura, ovvero l'emissione delle infiorescenze chiuse”, racconta l'agronomo Leonardo. “Questo ci consentirebbe di intervenire sulla pianta a seconda del potenziale di olio che ha, ma per ora è ancora in fase sperimentale”.

 

Potatura

E la potatura sulla chioma come deve essere? “Ci sono tante credenze antiche secondo le quali all'interno della chioma dell'ulivo ci dovrebbero essere spazi sufficientemente grandi per il passaggio degli uccelli”. Ma la realtà è molto diversa e, leggende contadine a parte, la potatura deve essere contenuta: “Nel momento in cui apriamo di più la chioma, favoriamo l'immissione di luce, per cui limitiamo il ristagno dell'umidità con seguente occhio di pavone, ma riscontriamo poi dei problemi di efficienza della distribuzione della linfa”. La distanza ideale? “Per frantoio, leccino e moraiolo noi ci teniamo sui 2 metri di spazio massimo fra rami e tronco”.

Nicolangelo Marsicani | Morigerati (SA) | Contrada Croceviale | tel. 0974 982063 | www.marsicani.com/

a cura di Michela Becchi

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Guida Oli d'Italia 2017. Ecco tutti i premi speciali

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Olio extravergine di oliva. Glossario essenziale per conoscere l'oro verde


Starbucks Reserve a Chicago. Nel 2019 apre il più grande store del colosso del caffè

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Quasi 4mila metri quadri per quello che sarà il più grande punto di Starbucks, gigante del caffè nato a Seattle e diffusosi in breve tempo in tutto il mondo. L'apertura è prevista per il 2019 e sarà Chicago a ospitare il nuovo store, proprio a 30 anni dall'inaugurazione del primo caffè in città.

Il ritorno a Chicago

1989. Starbucks, il colosso del caffè americano, apre il suo primo locale al di fuori di Seattle, a Chicago, dove inizialmente viene accolto con diffidenza da quei consumatori “così fieri del loro caffè, così esperti” che guardavano con timore il nuovo arrivato, come racconta Howard Schultz, direttore esecutivo di Starbucks. “Chicago è una città fatta di tanti vicinati, piccoli quartieri. Per Starbucks è stato un vero e proprio test”. Una sfida che non ha tardato a dare i suoi frutti: in poco tempo, la caffetteria è diventata, come in tutte le altre località, un punto di ritrovo per giovani, famiglie, ma anche il luogo ideale per una sosta per tutti i turisti in cerca di un po' di ristoro. A 30 anni dalla prima apertura, il gigante del caffè è pronto a tornare a Chicago con un nuovo, originale locale, destinato a essere il più grande di sempre. “Abbiamo preso del tempo per pensare allo spazio adatto, cercare un luogo dove poter portare tutta l'esperienza del caffè consolidata in questi anni”. Tutto questo avverrà “in una delle strade più blasonate e ricche di negozi”, la North Michigan Avenue. “E non vediamo l'ora”.

Il progetto

Un'iniziativa ambiziosa e entusiasmante, in grado di coinvolgere tutti, dall'appassionato di caffè al semplice consumatore che non potrà restare indifferente di fronte al nuovo locale. Stiamo parlando di quasi 4mila metri quadri di spazio, tutti interamente dedicati alla cultura del caffè. Un ambiente suddiviso in sala tostatura, estrazione, degustazione e confezionamento, proprio come nei migliori Starbucks Reserve, locali per la somministrazione, ma ancora prima laboratori a tutti gli effetti, dove i clienti possono sperimentare un'esperienza a tutto tondo nell'articolato universo del caffè. Dal settore della torrefazione alla tazzina finale, dall'assaggio alla preparazione delle diverse bevande: entrare in uno Starbucks Reserve (al momento ne esistono due, uno a Seattle e uno a Londra) consente ai visitatori di provare aromi e gusti nuovi, modificando completamente il proprio approccio all'oro nero. La stessa materia prima è diversa rispetto a quella di tutti gli altri bar: una scelta più ampia, ma soprattutto più curata, che comprende selezioni di microlotti di caffè tostati singolarmente, in modo da poter catturare da ogni chicco il massimo delle proprietà aromatiche. Niente frappuccino Unicorno, dunque, la bevanda rosa zuccherina che ha recentemente spopolato sui social network, ma solo caffè scelti con attenzione e lavorati con altrettanto scrupolo, estratti in diversi metodi. Ci sarà l'espresso, naturalmente, ma anche tanti metodi filtro pour over, dal syphon al v60, dall'aeropress al cold brew.

Il design

Non trapela ancora nessuna notizia per quanto riguarda il nome dell'architetto che curerà l'intero progetto, che dovrebbe concludersi entro il 2019. Per il momento, però, si iniziano a intravedere le prime basi dell'edificio: distribuito su quattro livelli, il locale è provvisto anche di un'ampia terrazza, e si compone di facciate in vetro. Stando alle dichiarazioni di Schultz, l'ambiente sarà molto simile a quello dello Starbucks Reserve di Seattle, che vanta un design e una cura del dettaglio invidiabili. A strutturarlo era stata LizMuller, vicepresidentessa del settore Creative and Global Design dell'azienda. “Abbiamo creato uno spazio che rappresenta per gli esperti un palco dove poter diventare i nostri educatori in fatto di caffè. Interagendo in un luogo elegante”. Così la designer definiva il locale nel 2014, uno spazio “che deve essere perfetto, perché se lo merita”. E così è stato, fra eleganti arredi in legno ed elementi di design originali in un ambiente luminoso e e dall'ampio respiro, accogliente ma al contempo raffinato. Auspichiamo che la nuova creatura di Starbucks a Chicago manterrà questi standard elevati; forse, chissà, superandoli.
 

a cura di Michela Becchi

Spirits, I maestri del cocktail. La seconda serie con Massimo D'Addezio su Gambero Rosso Channel

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Appuntamento sabato 6 maggio per la prima puntata della serie dedicata ai maestri della miscelazione, ospiti di Massimo D'Addezio per raccontare un mestiere fatto di storia, competenza, psicologia e passione. Tutte le novità della seconda stagione: 10 puntate dietro al bancone del bar e in giro per l'Italia. 

Spirits, la seconda stagione

Archiviata la prima serie, conclusa con successo grazie al traino di un animale da palcoscenico come Massimo D'Addezio, le nuove puntate di Spirits – I maestri del cocktail stanno arrivando ad animare il palinsesto di Gambero Rosso Channel. Il format dedicato alla miscelazione d'autore, che finora ha ripercorso la storia di un'arte longeva coinvolgendo personalità di settore e grandi bartender, scommette ancora una volta sulla personalità travolgente del bartender capitolino (lo trovate dietro al banco di Chorus, a pochi metri dal Cupolone di San Pietro), che da sabato 6 maggio racconterà il mondo della miscelazione con nuovi ospiti e tante storie da scoprire, tra aneddoti del mestiere, suggerimenti e ricette per approcciare l'universo del buon bere miscelato. Tanto che, per onorare la seconda esperienza davanti alle telecamere, il format si rinnova seguendo Massimo alla scoperta delle aziende del settore, per guardare da vicino quanto lavoro si nasconda dietro alla produzione di ogni singola materia prima che arriva sul bancone: “Ci ho messo il naso personalmente, ogni episodio ci porterà alla scoperta di un'azienda diversa, da Montenegro a Carpano, da Gancia a Branca, al primo produttore di vodka bio made in Italy, in Toscana, per raccontare la storia dall'inizio, spiegare cosa usano i maestri del cocktail”. E quindi si parlerà anche di territori e tradizioni, prodotti, produttori e stili, in compagnia degli ospiti che raggiungeranno Massimo, per intavolare una piacevole chiacchierata da bar (mai espressione fu più azzeccata!).

Gli ospiti

Dialoghi informali e mai troppo compiaciuti, per intrattenere e coinvolgere il pubblico di Gambero Rosso Channel, senza prendersi troppo sul serio: “A tutti ho fatto una domanda: come ti comporti quando il cliente ti dice “fai tu”? È la sfida più grande per chi sta dietro al bancone, può essere una grande fortuna, o al contrario una situazione difficile da sciogliere. Vedrete cosa mi hanno risposto”. Grande la professionalità e l'esperienza degli ospiti coinvolti: Cristian Bugiada e Roberto Artusio da La Punta di Roma, Alfio Liotta dal Belmond Grand Hotel Timeo di Taormina, Daniele dalla Pola del Nu Lounge Bar di Bologna, lo storico barman Giorgio Fadda, e molti altri. Ogni puntata sarà dedicata a tre cocktail, di cui saranno spiegati storia, curiosità ed episodi legati alla loro fortuna, mentre la barlady Giulia Castellucci (ancora una volta compagna di Massimo) miscelerà i drink dietro al banco dello Sky Stars dell'hotel Aroma, con vista sui tetti della Capitale, mostrando nel dettaglio ingredienti, quantità e tecniche di realizzazione dei singoli cocktail.

 

I Segreti di Max

Ma non mancherà anche una parentesi dedicata al glossario e alle istruzioni per l'uso, una sorta di scuola della miscelazione in pillole con il supporto di animazioni che descriveranno, con dovizia di particolari, la caratteristiche di distillati e liquori. E in apertura spazio alla maestria di Massimo D'Addezio, con i riflettori puntati sul bancone di Chorus, dove il barman regalerà una reinterpretazione di classici della miscelazione e proposte inedite per il siparietto dei Segreti di Max: un cocktail diverso per ogni episodio. Mentre si riconfermano “le amabili chiacchierate a spasso per Roma con il Signor sì e il Signor no”. Dieci puntate da non perdere, ogni sabato (e domenica in replica) alle 23, sul canale Hd 412 di Sky.

 

a cura di Livia Montagnoli


IN COLLABORAZIONE CON

 

Elezioni in Francia: Macron o Le Pen? Il confronto vitivinicolo tra i due candidati all'Eliseo

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Europa sì, Europa no. Anche quando si tratta di vino e politiche protezionistiche in materia. In vista del ballottaggio del 7 maggio, i due candidati alla presidenza della Francia si confrontano su un tema molto caro ai francesi: il vino. Differenze e punti di vista. 

Macron sul vino. Settore strategico

Lui preferisce i rossi di Bordeaux e i bianchi di Borgogna, lei è più tipo da Champagne. Non trovano punti di accordo neppure sulle preferenze in fatto di vino (rigorosamente francesi) i due candidati all'Eliseo: Emmanuel Macron e Marine Le Pen che, alla Revue du Vin de France, parlano delle loro politiche vitivinicole.

Il leader del partito En Marche punta soprattutto sugli accordi internazionali di libero scambio per mettere i viticoltori francesi nelle stesse condizioni dei produttori del Nuovo Mondo, Cile in primis: “La mia agenda politica è progressiva e ruota intorno a due assi principali: liberare e proteggere” ha detto “Il vino è un settore strategico per la Francia ed è essenziale portare avanti la negoziazione di accordi di libero scambio per garantire la nostra competitività. In parallelo, però, dobbiamo accompagnare l'industria del vino in azioni di protezione delle denominazioni sia a livello europeo, sia extra Ue, come quello che è stato fatto in Cina con il riconoscimento geografico della AOC di Bordeaux”.

Le Pen. La critica alle politiche europee vitivinicole

La candidata del Front National (anzi “sostenuta” dal Front National, come ha dichiarato qualche giorno fa, lasciando a sorpresa la presidenza del partito) appare, invece, molto critica sulle politiche europee vitivinicole che definisce “un désastreuse” anche in ambito di protezione dei marchi: “Il nostro è un grande Paese del vino, ma nella classifiche internazionali adesso sta soffrendo parecchio,  e parte della responsabilità è dell'Unione europea e delle sue le norme incoerenti, che aggiungono complessità e vincoli ai nostri produttori, senza una migliore tutela dei consumatori, delle denominazioni e dell'ambiente. La Pac, poi, non aiuta sufficientemente i piccoli produttori. Per questo è necessario ritrovare la nostra sovranità per avere le mani libere di sviluppare politiche più vicine agli interessi del nostro Paese”.

Enoturismo e proprietà terriere

Tra gli altri temi sul tavolo, Macron insiste sull'enoturismo, possibile grazie alle modifiche apportate alla tanto contestata legge Evin (la legge che vieta le pubblicità legate al vino): “Oggi è permesso fare azioni di marketing rivolte alle superfici viticole e al know-how francese” spiega“per questo più di 10 milioni di persone vanno ogni anno alla scoperta dei nostri vigneti. Ma è un percorso che va accompagnato con precisi programmi politici”.

Le Pen si sofferma, invece, su un altro problema francese che riguarda non solo la viticoltura: la successione delle proprietà, e di conseguenza la continuità familiare delle aziende vitivinicole. Oggi, infatti, il passaggio di proprietà è tassato fino al 60% per i nipoti: “Invece di modificare il regime generale delle successione” ha detto “la mia proposta è di rafforzare la solidarietà intergenerazionale, consentendo a ciascun genitore di passare senza tassazione 100 000 euro per ogni bambino ogni cinque anni - oggi il tetto è di 15 anni - questo dovrebbe favorire il passaggio generazionale esentasse”.

Per entrambi i candidati, però, la vera sfida del futuro è quella ambientale:“In 40 anni la Francia ha perso il 37% delle sua superficie vitata a causa delle malattie del legno” dice Macron“mentre aumenta la pressione fiscale sui prodotti fitosanitari. La soluzione non è contrapporre necessariamente il modello biologico a quello convenzionale, ma affrontare la questione tutti insieme, sostenendo l'azione volontaria e accompagnandola con un programma di investimenti per l'ammodernamento delle aziende agricole”.

È mio dovere di proteggere la salute dei miei connazionali” precisa Le Pen “tuttavia, dobbiamo anche sottolineare i molti sforzi dei nostri viticoltori, che riducono l'uso dei pesticidi e si convertono al biologico, nonostante i molti vincoli dell'Ue: recuperando la nostra sovranità” insiste“metteremo ordine in questo bosco legislativo”.

 

Visioni molto diverse, quindi, che di fatto girano intorno al tema principale della discordia: Europa sì, Europa no. Ma al di là dei singoli temi, programmi e di come finirà il prossimo 7 maggio, la certezza per il momento è che il vino ha già vinto la sua partita, entrando di diritto nelle campagne presidenziali francesi, con la capacità di spostare voti da una parte o dall'altra. Chapeau!

 

a cura di Loredana Sottile

Peter in Florence. Nel capoluogo toscano nasce una distilleria interamente dedicata al gin

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Non si ferma il crescente successo del gin, distillato che sta facendo sempre più parlare di sé nel Bel Paese, apprezzato nei cocktail ma anche in purezza. A Pelago (Firenze), una nuova micro-distilleria seleziona ginepro e altre botaniche toscane per realizzare un gin di territorio.

Gin: continua il successo del distillato del momento

Solo ginepro e petali di iris toscani da agricoltura biologica, spezie certificate e un alambicco realizzato ad hoc. È Peter in Florence, la nuova distilleria di Pelago, nella zona collinare di Firenze, interamente dedicata al gin, distillato del momento che continua a destare l'interesse di addetti ai lavori e appassionati del buon bere. Un progetto simile sul territorio toscano, infatti, aveva esordito due anni fa con la famiglia Sabatini di Teccognano, in provincia di Arezzo, che ha portato in Toscana il gusto del London Dry Gin realizzato non solo con il ginepro ma anche con una serie di botaniche colte principalmente nella proprietà di famiglia e nelle aree limitrofe, distillato poi a Londra in collaborazione con Charles Maxwell della Thames Distillers, erede di undici generazioni di distillatori londinesi, e l'aiuto di Alessandro Palazzi, manager dell'hotel Dukes della capitale britannica. Peter in Florence, invece, gioca dall'inizio alla fine nel perimetro fiorentino: ospitato dall'Eco Resort Podere Castellare di Pelago, produce un London Dry Gin a base di ingredienti (quasi) esclusivamente toscani, fatta eccezione per alcune botaniche non reperibili in Italia. Con micro-distilleria specializzata, e laboratorio dedicato al gin a tutto tondo, dove sarà possibile scoprire e cogliere le erbe impiegate nella produzione che crescono nell'orto botanico attorno al casolare. Ma ci sarà anche la possibilità di imparare qualcosa in più sul prodotto, nonché di assaggiare il distillato con una serie di degustazioni guidate dagli esperti.

 

Gin

Peter in Florence: ingredienti e processo produttivo

Quattordici botaniche in tutto: ginepro, iris – icona della città di cui vengono utilizzati, oltre alla radice, anche i petali – scorza di bergamotto fresca, scorza di limone essiccata, semi di cardamomo verde, bacche di rosa, fiori di lavanda e di rosmarino freschi sono gli ingredienti realizzati da piccoli produttori del territorio, tutti biologici. Ma ci sono anche specialità estere come la radice di angelica dalla Francia, la corteccia di cassia dalla Cina, il coriandolo dal Marocco, le mandorle amare dalla Spagna e i grani del Paradiso dall'Africa Occidentale. Materia prima indispensabile è poi, ovviamente, l'acqua: quella scelta dalla distilleria è raccolta dal pozzo, analizzata in laboratorio e trattata con l'osmosi inversa (o iperfiltrazione), processo con cui si desalinizza l'acqua e si rimuove ogni traccia di fosfato, calcio, metalli pesanti, fitofarmaci, materiali radioattivi e altre molecole inquinanti. Per la produzione, è stato ideato un alambicco particolare da Green Engineering, strumento che rappresenta una versione più piccola dello storico Carter Head, impiegato nelle grandi distillerie come la Hendrick's. E in grado di mantenere stabili tutti i parametri del processo produttivo come il grado alcolico, la densità e la temperatura, e che consente di estrarre in maniera più delicata e naturale tutti gli oli essenziali e aromi presenti nelle botaniche grazie all'infusione a vapore.

 

Alambicco

Il primo evento

Un prodotto d'eccellenza, dunque, che va comunicato al meglio. E si comincia durante la serata conclusiva della Florence Cocktail Week, in scena dal 1 al 7 maggio per coinvolgere i banconi più celebri della città, dai bar storici alle insegne più moderne. Domenica 7, a partire dalle 13, Peter in Florence organizza un pranzo esperienziale con portate ispirate ai fiori e le spezie del distillato, naturalmente in abbinamento a cocktail a base di gin. Si inizia con un Flan di carciofi alla lavanda, prosciutto e coccoli al rosmarino e si prosegue con un Risotto agli asparagi con erbette di campo e cenere di coriandolo, un Filetto di cinta aromatizzato con spezie e gin, fino ad arrivare alla Tortina di mele con salsa al ginepro e mandorla amara.

Peter in Florence | Pelago (FI) Firenze | Via Case Sparse, 12 | tel. 055 8326082 | www.peterinflorence.com/default.aspx

a cura di Michela Becchi

Concours Mondial de Bruxelles: si parte! Al via la rassegna che premia i vini del mondo

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Al via oggi, Venerdì 5 Maggio, la 24a edizione dell’unico Concorso dei Vini Mondiali itinerante. Più di novemila campioni, provenienti da diverse nazioni del Mondo, verranno assaggiati in tre giorni a Valladolid, in Spagna, che quest’anno ospita l’iniziativa.

Il concorso itinerante approda in Spagna

Dopo 23 anni di esperienza i numeri sono davvero alti. 9080 campioni di vino, 50 Paesi produttori, 320 assaggiatori, tra giornalisti, sommelier, buyer ed enologi provenienti da tutto il mondo. Il Concorso Mondiale di Bruxelles è ormai un’istituzione e sono sempre di più le aziende che decidono di prenderne parte: negli ultimi 10 anni si è registrata una crescita costante del 5% con la Francia, Spagna e Italia sul podio per numero di cantine presenti (sono anche le prime tre nazioni in Europa per quantità di vino prodotto) seguite da Portogallo, Cile, Cina, Sud Africa, Bulgaria, Svizzera, Grecia e Slovacchia, giusto per citare le prime dieci nazioni presenti; l’Azerbaigian e l’Andorra rappresentano invece le novità di quest’anno, al loro primo anno di partecipazione.

L'”armata” cinese e il premio per il bio

La Spagna, da Paese ospitante, incrementa del 25% i numeri di campioni presentati, ma la vera crescita è rappresentata dalla Cina che in due anni registra il 250% in più di etichette mandate al concorso; la produzione di vino cinese cerca un ruolo sempre più internazionale e, per attestare ciò, il Concorso di Bruxelles è una delle iniziative più seguite tra i distributori cinesi.

Grande novità di quest’anno sarà il Trofeo Vini Bio, vista la costante e importante crescita (oltre l’80% in tre anni) dei prodotti presentati frutto di agricoltura organica o biodinamica: “Da diversi anni i consumatori si interessano maggiormente all’origine dei vini e ai metodi di produzione utilizzati– racconta Thomas Grenoble, direttore del Concorso - privilegiando in tal senso i prodotti biologici e locali. La nostra decisione di inserire una nuova categoria dedicata ai biologici e biodinamici tiene conto di questa evoluzione del mercato, ed è il motivo per cui esordisce un premio dedicato alla categoria Bio.”

L'Italia in concorso

Il nostro Paese, presente con più di 1300 vini provenienti da tutte le regioni, cercherà di far valere il suo ruolo da protagonista delle produzioni di qualità. La regione con più campioni registrati è il Veneto con oltre 200 etichette, seguita da Sicilia e Puglia. Ricordiamo che l’Italia, due anni fa, ha ospitato a Jesolo il concorso. Nel 2016 invece si è svolto in Bulgaria. Non resta che aspettare domenica 7 maggio, quando si conoscerà il Paese che ospiterà il Concorso l’anno prossimo, ma soprattutto saranno assegnate le tanto attese medaglie (oro, argento e bronzo) attribuite ai vini partecipanti.

a cura di Giuseppe Carrus

Intervista a Virgilio Martinez. Il Perù, la cucina, le prospettive future

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Con Virgilio Martinez la cucina peruviana si è importa al vertice della gastronomia mondiale. Lo abbiamo incontrato e ci ha parlato di cucina e di sviluppo, di quello che, attraverso il suo lavoro al Central di Lima, può fare per il suo paese.

Virgilio Martinez

Il suo è un approccio da esploratore, e il frutto della sua ricerca lo mette in scena ogni giorno per 60 persone nel suo Central di Lima. In quella metropoli di 9 milioni di persone, piena di contrasti e armonie, Virgilio Martinezracconta il Perù attraverso i suoi i piatti. Il menu è un'antologia dell'incredibile varietà paesaggistica e climatica del paese che in poco più di un milione e duecentomila chilometri quadrati (quattro volte l'Italia) racchiude altitudini diverse e quasi tutti i microclimi e gli ambienti del pianeta. Dalle terre bagnate dal Pacifico alla pianura arida subito a ridosso dell'Oceano, dai rilievi andini che toccano facilmente i 6mila metri sopra il livello del mare, alle foreste tropicali: un territorio ricchissimo e vario, con diversi ambienti naturali, climi, etnie e il retaggio di civiltà precolobiane con il loro carico di cultura e tradizioni.

 

Il Perù, la biodiversità gastronomica e il ruolo di Gastron Acurio

In sintesi: uno scrigno di ricchezze e varietà, ancora in parte da valorizzare che solo egli ultimi anni sta registrando una crescita decisa che ha fatto gridare in molti al “miracolo peruviano”.Merito anche della gastronomia contemporanea. Che è una cucina di filiera, capace di valorizzare le tradizioni e sostenere tutto l'indotto che si muove intorno ai cibi nativi.

Un approccio che ha segnato un punto di svolta, a partire dal padre di tutti gli chef contemporanei peruviani,Gaston Acurio che,dice Martinez“è un missionario. Col suo lavoro, in più di 15 anni ha strutturato la cucina peruviana e l'ha preparata per il mondo”. L'impatto di questa cucina contemporanea, strettamente connessa con il territorio e le popolazioni locali, è stato decisivo per la sopravvivenza degli abitanti delle diverse regioni peruviane e per la conservazione della loro identità, delle tradizioni e dei territori. Dell'esperienza di Acurio, Virgilio Martinez conserva tutta la retorica dell'autenticità e dei territori, le istanze legate alla riscoperta dei territori e dei loro frutti. E fa un passo avanti.

Mater Iniciativa

Con il progetto Mater Iniciativa, Martinez mira a disegnare le coordinate gastronomiche del suo paese con un lavoro di ricerca sul territorio che mette insieme prodotti agricoli, allevamenti, gastronomia autoctona, tradizioni locali. Un approccio che si nutre di viaggi, e non può scindere i sapori dalle storie che le sottendono, così da rendere lo chef e il suo team custodi della diversità biologica e culturale. “A un certo punto conoscere dei prodotti, impiegarli nel ristorante non bastava più” spiega Martinez “li prendevamo senza dare in cambio niente se non soldi”. Per questo nasce Mater, per l'esigenza di dare in cambio qualcosa di più importante: futuro e dignità.

Il suo progetto, che coinvolge biologi, architetti del paesaggio, nutrizionisti, botanici, fotografi, antropologi, è di conoscere, documentare, studiare, e salvaguardare questi prodotti (oltre 4mila tipo diversi di patate, e 400 tipi di pane solo per fare due esempi) e quel che gira loro intorno, ovvero le società rurali con le loro storie e culture.

 

Il caffè

Oggi Virgilio Martinez è in Italia a presentare la nuova linea di caffè di Lavazza. Potrebbe sembrare strano vedere proprio lui associato a una grande azienda. Lo è molto meno se si considera che Martinez è il testimonial di un progetto tutto legato al rispetto dei territori e dei suoi abitanti (le selezioni di arabica provengono da aziende agricole certificate Rainforest AllianceTM), delle tradizioni locali e del prodotto. Dietro Single Origines - due caffè monorogine, Cereja Passita dal Brasile e Selva Alta dal Perù - si nasconde l'idea del viaggio e dell'incontro, del dialogo aperto e libero da preconcetti. E su questo cammino di scoperta dei territori con la loro geografia umana si inserisce l'incontro con Virgilio Martinez. Peruviano e cittadino del mondo, che ha nel suo Dna il caffè non solo come bevanda da sorseggiare al mattino, ma come pianta da conoscere, studiare e impiegare in ogni sua parte.

Del resto Martinez non è nuovo a unire poli opposti: due ristoranti in Perù (il primo e principale, il Central, aperto nel 2010 e oggi al vertice della 50 Best dell'America Latina e quinto nella classifica dei 50 migliori del mondo), due a Londra (uno, a Fitzrovia aperto nel 2012 e primo ristorante peruviano al mondo a conquistare la stella Michelin, e l'altro nel 2014 a Floral Street, angolo Covent Garden) e uno a Dubai, è anche colui che ha saputo raccontare l'identità culturale e agricola del paese e di portarla sulla scena dell'alta gastronomia mondiale. Di sdoganare prodotti nativi e tecniche contemporanee, in una comunione degli opposti che sa essere fruttifera per tutte le parti in causa.

 

In Perù come consuma il caffè?

Il 95% delle persone lo beve, come nel resto del mondo la tazzina simboleggia il caffè.

 

Quanto tempo è che lavora con il caffè?

Praticamente da sempre: 14 anni.

 

Il caffè è presente nel suo ristorante di Lima. In che modo?

Sì sono da sempre legato al caffè e lo lavoro in ogni sua pianta: foglie, radici, frutti, semi, pelle. È una pianta e si trova vicino a dove sono io, per questo posso fare davvero di tutto impiegandone tutte le parti.

 

Difficile far capire alle persone che c'è un altro modo di guardare a questo prodotto?

Nel nostro mondo si pensa al caffè e alla tazzina, ma se mostro a un indigeno la tazzina non la collega certo alla bevanda. Tradizionalmente, nelle zone più remote del Perù, in montagna e in Amazzonia, il caffè viene consumato in molti modi diversi.

 

Molto del suo lavoro in cucina è collegato alle sue esplorazioni antropologiche...

Io ho imparato moltissimo dalle comunità amazzoniche sull'uso del caffè che queste società fanno sin da tempi ancestrali. Nella nostra cultura l'energia è incarnata dal caffè, nella coltura andina l'energia è data dalla foglia di coca. È un uso completamente diverso della pianta, per esempio se ne fanno infusi. E l'infuso è uno dei modi in cui viene lavorato anche il caffè.

 

In che modo lei, che è abituato a rapportarsi con piccole comunità agricole o di allevatori, dialoga con una grande azienda come Lavazza?

È importantissimo lavorare anche con le grandi compagnie, non c'è contraddizione tra piccolo produttore e una grande azienda nella misura in cui si lavora su una base di buona fede. Il futuro nel mondo si lavorerà con grandi aziende e il piccolo produttore deve essere preparato.

 

Dal punto di vista gastronomico il Sud America è cresciuto molto, e ha fatto molto rete. È pensabile che questa rete possa uscire dai confini attuali ed essere ancora più internazionale?

C'è una strada di internazionalizzazione, credo che oggi sia quella la strada, per certi chef e certi concetti. Non c'è solo un Perù, non c'è solo un'America Latina, ma migliaia di Americhe Latine e migliaia di Perù. C'è un altro problema: è la velocità. Il mondo corre molto veloce, vuole tutto molto velocemente e invece noi andiamo lenti.

 

Ma negli ultimi anni si riscontra una rande crescita, qualcuno parla di “miracolo peruviano”, ci sono stati grandi investimenti, per esempio quello di Marca Perù, il progetto di comunicazione di grande impatto che, 5 anni fa, invitava a visitare e investire nel Perù.

Puoi fare la migliore campagna pubblicitaria, puoi spendere milioni, ma se non hai contenuti non va bene, e questo è un po' successo. Hanno fatto una campagna dicendo a tutti: venite in Perù. Le persone sono arrivate e sono state bene, la condivisione è corsa veloce anche grazie ai social network, ma questo da solo non basta, serve un progetto più concreto.

 

In quella campagna si è parlato molto di gastronomia ma in che modo quel progetto ha portato benefici al settore?

All'agricoltura moltissimo. Oggi i nostri prodotti sono riconosciuti, i nostri piatti sono conosciuti. Sono stato a Madrid da poco e c'erano bambini di 5 anni che sapevano cosa è un ceviche. C'è stata una diffusione nell'intero pianeta dei nostri piatti e dei prodotti. I nostri cuochi hanno cominciato ad avere lavoro, prima non ce l'avevano, e le comunità che vivono nelle aree amazzoniche ora non hanno bisogno di spostarsi in città. Vivono nei loro luoghi, nella natura.

 

Il Perù ha una grande tradizione alimentare. Questo aiuta?

C'è sempre stato un grosso orgoglio peruviano nei confronti della gastronomia e questo ha generato un grosso flusso turistico interno, e ovviamente anche un turismo internazionale che cambia molto le economi. Un turismo di lusso. Ma questa è una cosa recentissima che sta continuando ancora oggi. Ci sono persone di Hong Kong che vengono in Perù per due giorni solo per mangiare al Central e poi ritornano a casa.

 

Ma il governo, che nella comunicazione punta molto sulla gastronomia, in che modo è di aiuto ai ristoratori?

Io mi continuo a lamentare che il governo non sostiene a sufficienza la gastronomia perché non capisce la potenzialità di un paese dove si può fare una gastronomia a chilometro zero dall'inizio alla fine. Produciamo cacao, caffè, olio di oliva, abbiamo pesce, prodotti ittici dalla parte pacifica e dalla parte amazzonica abbiamo 4mila e più varietà di patate, oltre 80 tipi di mais, abbiamo tutti i vegetali possibili e immaginabili, abbiamo carne. Il potenziale è enorme, sufficiente per le esigenze locali. Ma non c'è un sostegno, non c'è un ufficio che si occupi di noi. Io sono da solo.

Per quello ho creato Mater Iniziativa, i cui ho riunito un team di vari esperti con diverse professionalità, con loro abbiamo pensato un progetto a lungo termine. L'iniziativa sta dando degli ottimi risultati che poi condividiamo con l'intera popolazione peruviana.

 

Ora però Mater è maturo e sta diventando un progetto sempre più grande e anche il Central ha bisogno di espandersi.

Faremo 2 cose importanti. A fine dicembre o, forse tra gennaio e febbraio, il Central si sposterà in un locale che è praticamente il doppio di quello di ora. Avremo anche una parte per Mater Iniciativa molto grande e il giardino del Central entrerà nel ristorante.Abbiamo bisogno di Mater Iniciativa a Lima, oggi Mater funziona in un locale del Central, ma è piccolino invece ha bisogno di spazio per 15 persone.

Mater è il centro di ricerca, di interpretazione e di registrazione del prodotto. Apriremo a Cusco, a Moray, un posto che si chiama Mill, dove ci sarà Mater Iniciativa e Mill. Lì ci saranno 15 persone che lavoreranno per registrare le piante autoctone.

 

Ha mai pensato di creare Mater Iniciativa fuori dal Perù, in altri territori?

Stanno arrivando molte proposte per farlo in altre parti del mondo. Stiamo aspettando prima di aprire la nuova struttura per Mater Iniciativa, e poi, l'anno successvo, penseremo a replicarlo da qualche altre del pianeta. Il mondo è oggi molto collegato e avere un progetto e una struttura del genere solo in Perù sarebbe egoistico.

 

Ci spieghi meglio.

Il Perù è un grande esempio di biodiversità, per noi è facile vedere la natura, gli ecosistemi, i microclimi, microsistemi, le varie altitudini, mentre per gli altri paesi è più difficile e così come è più difficile per gli altri chef. Gli altri chiamano i fornitori, noi invece no, non solleviamo la cornetta, noi andiamo direttamente a cercare il prodotto. Tutto questo è replicabile anche a luoghi e non devono per forza essere così biodiversi... A meno di Dubai.

 

Lo dice per esperienza diretta, dato che ha un locale lì. È così diverso?

Quando sono arrivato ho visto una pianura sterminata, dove non c'è niente, nessuna agricoltura. “Posso aprire solo una cevicheria”, ho pensato.

 

Nei ristoranti fuori dal Perù può replicare una cucina simile al Central?

Oggi giorno è impossibile, dovrei far viaggiare troppi prodotti. Il giorno che Mater Iniciativa diventasse più internazionale sarebbe possibile. Però oggi giorno il nostro obiettivo non è replicare il Central. Quel che si può replicare è lo spirito. Altri ristoranti in qualsiasi parte del mondo possono replicare la filosofia: il contatto con i produttori, il contatto con le comunità, un lavoro di sensibilità.

 

Un paio di anni fa ha presentato il progetto Origines con Mauro Colagreco e Jorge Vallejo. Come si sta evolvendo?

Il progetto continua. Noi giriamo in America Latina e cerchiamo tradizioni e le mostriamo al mondo moderno. Adesso andremo in Patagonia, nella parte Argentina, siamo andati 4 mesi fa a Wakaka, in Messico, e poi dopo andremo nuovamente a Cusco.

 

Origines, Mater Iniciativa: In tante parti del mondo si creano progetti simili, penso a quello del Nordic Food Lab di raccolta e documentazione del patrimonio agroalimentare con un approccio multiculturale. Come mai?

Succede in modo organico perché è strettamente necessario fare questo. Perché un cuoco cieco che non vede la propria natura non ha molto da dire in un ristorante. Dobbiamo smettere di affidarci unicamente ai fornitori, dobbiamo fare affidamento in modo limitato.

 

È necessario conoscere le persone?

Esatto, voglio sapere chi coltiva i miei asparagi, chi le mie patate. E non solo per acquistarli, io devo andare a casa sua, mangiare con lui, dormire a casa sua. Devo capire il suo fabbisogno.

 

Cosa conosce della gastronomia e quali cuochi?

La conosco abbastanza. I cuochi? Conosco quelli di sempre, i nomi più noti. Alla cucina del Central è venuto Niko Romito per Gelinaz. Inoltre una delle migliori esperienze della mia vita è stata da Enrico Crippa al Piazza Duomo, 4 anni fa.

 

Trovi cose in comune tra la tua cucina e quella italiana?

Sì: il minimalismo di Niko, il sapore, la presentazione. Vedo parecchi elementi in comune, anche se abbiamo regioni, natura, tradizioni e contesti diversi. A livello della cucina popolare peruviana c'è molta influenza italiana perché molti italiani sono arrivati i Perù.

 

Ci sono suggestioni dalle esperienze negli altri locali fuori dal Perù?

Moltissimo. Ogni volta che mi reco in un posto torno a casa con qualcosa, un'idea, un concetto. Mai con un prodotto. E se riporto prodotto, è solo per conoscere come è stato trattato, per approfondirne la tecnica, la mia cucina è molto influenzata da tecniche prese da fuori.

 

In che modo si fonde?

Per esempio quando sono stato a Tokyo o Hong Kong ho imparato molto come trattavano il pesce perché cerco il miglior trattamento di quel prodotto, cerco i migliori chef che lavoro quel prodotto. Se vado in California cerco una azienda di avocado. In questo sono aperto perché potrei dire il Perù è il paese del pomodoro, il Perù è il paese della patata, dell'avocado, di tutto. Ma vado in un altro paese e vedo. Bisogna essere molto umile. Nel mio cibo ho un messaggio molto peruviano ma potrebbe essere un errore essere troppo nazionalista. Alla fine è una cucina molto internazionale ma conoscendo e raccontare la mia regione.

 

 

Central | Perù | Lima | Santa Isabel, 376, Miraflores | www.centralrestaurante.com.pe

www.materiniciativa.com

 

a cura di Antonella De Santis

foto di Virgilio Martinez: Brambilla Serrani

 

I migliori mieli d'Italia. Mirko Bagini di Albosaggia

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In Valtellina, il giovane Mirko Bagini mette in pratica la tecnica dell'apicoltura nomade per realizzare mieli pregiati, dai classici a quelli più particolari, come quello di lampone. Ci siamo fatti raccontare la sua storia.

Le origini

Albosaggia è un piccolo comune della provincia di Sondrio immerso nel verde più incontaminato della Valtellina. Qui, Mirko Bagini ha fondato la sua azienda apistica nel 2008, ma il suo amore per l'apicoltura risale a molto tempo prima, a quando aveva solamente 10 anni. “Mio papà ha sempre avuto degli alveari e così fin da bambino ho iniziato ad aiutarlo in campo, ma a quel tempo si trattava solo di un hobby”. Passano gli anni, e l'interesse di Mirko si trasforma in passione e la passione diventa poi un lavoro a tutti gli effetti: “Appena compiuti 18 anni, ho aperto l'azienda agricola, iniziando a sviluppare un'attività ben strutturata”. Praticando il nomadismo, ovvero lo spostamento di apicoltore e api in giro per vari terreni per raccogliere il nettare di diverse piante e realizzare così più tipologie di miele. “Il lavoro è aumentato ma mantengo sempre lo stesso approccio artigianale e di rispetto per la natura che mio padre mi ha trasmesso”.

La produzione

3 linee di prodotto, 11 varietà di miele e circa 200 unità di api: questi i numeri dell'azienda, che si basa sul lavoro di sole due persone, Mirko – a tempo pieno – “e un mio amico che mi aiuta soprattutto durante il periodo di raccolta del nettare”. Acacia, millefiori, millefiori di alta montagna, tiglio, castagno, melata, rododendro ma anche mieli più rari come quello di melo, lavanda e soprattutto lampone, “il nostro cavallo di battaglia”. Perché sono davvero pochi gli apicoltori che riescono a realizzare un prodotto simile, “molto delicato, perfetto se abbinato ai formaggi freschi”. Mirko lo ha scoperto per caso qualche anno fa e da allora non lo ha più abbandonato: “Eravamo andati a raccogliere il nettare di rododendro in un campo della zona e, una volta ottenuto il prodotto finito, come sempre siamo andati a farlo analizzare in laboratorio”. Solo in quel momento si è accorto che quello che aveva realizzato era in realtà miele di lampone: “In pratica, lo abbiamo prodotto per sbaglio”. Un errore che ora rappresenta una delle specialità dell'azienda. Nelle sue tenute, Mirko ha solamente l'acacia, mentre per tutti gli altri fiori si affida al lavoro di piccoli agricoltori del territorio, “solitamente spostandomi più in alto possibile, laddove l'ambiente è meno inquinato”.

L'annata difficile

È proprio la sua acacia ad aver subito maggiormente i danni dell'annata appena trascorsa, fra le più ostiche di sempre: “Il clima freddo seguito da un caldo improvviso ed eccessivo ha rovinato l'intero lavoro, bruciando tutti i petali di acacia”. La nuova campagna promette meglio, ma se le temperature non si innalzano il problema potrebbe ripresentarsi:“Specialmente in questo periodo, per l'acacia dovrebbero esserci fra i 10/12°C durante la notte, e 22°C durante il giorno, invece qui in zona siamo arrivati anche ai 2°C di notte e raggiungiamo un massimo di 14°C il giorno”. In questo modo, “la pianta non produce nettare, compromettendo tutta l'annata”. È per questa perdita di produzione che negli ultimi 4-5 anni, il prezzo del miele di qualità si è notevolmente innalzato: “Stiamo parlando di una differenza sostanziale. Siamo passati dai 4 ai 7/8 euro al chilo per il miele di acacia”.

La vendita

Ma Mirko non demorde e continua il suo lavoro con cura e passione. Il suo canale principale di distribuzione è la vendita al dettaglio, che avviene soprattutto durante fiere e manifestazioni del settore: “Partecipo molto attivamente a tutti i mercatini locali e i vari eventi enogastronomici dedicati ai prodotti artigianali, perché credo che siano delle occasioni uniche per confrontarsi e farsi conoscere al pubblico”. E lo fa anche con il sostegno della Fondazione Campagna Amica, associazione promossa da Coldiretti per promuovere l'agricoltura italiana attraverso una serie di attività a tutela dell’ambiente, del territorio, delle tradizioni e della cultura agroalimentare della Penisola. “La Fondazione ci aiuta a organizzare degli eventi volti a valorizzare il nostro prodotto”, che è infatti disponibile anche nei diversi mercati di Campagna Amica, in particolare nel Nord Italia. Ma i mieli di Mirko si trovano anche presso alcune botteghe specializzate, “molto poche a dire il vero”, e presto anche online, “attualmente stiamo ristrutturando il sito, che comprenderà una sezione dedicata all'e-commerce”.

La comunicazione

Sono proprio le fiere di settore a consentire all'apicoltore di comunicare al meglio il duro lavoro che si cela dietro un vasetto di miele: “Durante questi eventi raccontiamo ai consumatori come funziona l'apicoltura nomade, spiegando loro le differenze fra le varie colture e i diversi tipi di territorio”. Perché ogni miele ha una storia che va raccontata. Ma come? “Non esiste metodo migliore dell'assaggio. La degustazione di un prodotto è una fase fondamentale della formazione del consumatore”. Prima di comprare il vasetto, dunque, il cliente dovrebbe sempre assaporarne il contenuto “per percepire profumi e sentori caratteristici di ogni tipologia, solo così può fare un acquisto davvero consapevole. Capita spesso, infatti, che qualcuno finisca per prendere un tipo di prodotto diverso da quello che voleva inizialmente”. È un modo semplice e immediato per coinvolgere il pubblico e abbracciare così una fetta di clientela più ampia.

Ma non finisce qui, perché a partire dal prossimo anno scolastico Mirko sarà presente anche nelle scuole elementari con un percorso formativo sull'apicoltura: “Ci stiamo ancora lavorando, ma la nostra intenzione è di puntare sui più piccoli, che apprendono in fretta. Parleremo loro di api, miele ma anche di ambiente e territori, perché l'educazione alimentare comincia fin dall'infanzia”.

La scelta del biologico e il rispetto per l'ambiente

E così anche l'educazione ambientale, “tema molto delicato e complesso, che va spiegato a grandi e piccini”. Mirko sostiene l'importanza di una produzione biologica, con trattamenti – laddove necessario – che non siano in alcun modo dannosi per il territorio circostante. Per esempio, ogni anno a fine stagione deve occuparsi della prevenzione delle malattie per le sue api, e lo fa in maniera sostenibile e salutare, per la terra e gli insetti: “A fine ciclo produttivo occorre fare attenzione agli acari che possono infettare le api. Per combatterli, utilizzo l'acido ossalico, rimedio completamente naturale che riesce a far diventare più acido il ph all'interno della cassetta e uccidere così l'acaro”.

Apicoltura urbana

Quando si parla di ambiente, si apre la riflessione su una delle tendenze del momento, che sta prendendo piede specialmente nel Centro-Nord Italia: l'apicoltura urbana, ovvero l'allevamento di api in città. È davvero una buona idea? “Dipende molto dalla zona. Ho tanti amici che realizzano un buon miele di tiglio in città, ma è impossibile stabilire se sia meglio o peggio per le api”. Perché ogni caso è a sé, e se è vero che la maggior parte dei terreni di alta montagna sono fra i più incontaminati della Penisola, è altrettanto vero che molte aree della pianura centro-settentrionale sono piuttosto inquinate, specialmente negli ultimi anni. “La campagna non è sempre sinonimo di aria buona. Tante pianure emiliane e toscane non sono adatte all'agricoltura proprio perché i terreni sono ricchi di pesticidi e diserbanti, e spesso si trovano in prossimità di fabbriche e grandi industrie. In questo caso, naturalmente, una zona urbana pulita è preferibile”.

Mirko Bagini | Albosaggia (SO) | via Gerone | tel. 340 3212535 | www.facebook.com/mielevaltellina/

a cura di Michela Becchi

I migliori mieli d'Italia. Giorgio Poeta di Fabriano

I migliori mieli d'Italia. Carlo Amodeo di Termini Imerese

I migliori mieli d'Italia. Delizie dell'Alveare di Tornareccio

I migliori mieli d'Italia. Apicoltura Bianco di Guardiagrele

I migliori mieli d'Italia. Mariangela Prunotto di Alba

I migliori mieli d'Italia. Mieli Thun di Vigo di Ton

I migliori mieli d'Italia. Mario Bianco di Caluso

I migliori mieli d'Italia. Adi Apicoltura di Tornareccio

Conoscere e capire il miele: glossario essenziale


Le Coucou: il trionfo della cucina francese a New York. La storia di Daniel Rose, l'americano che ama la Francia

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Alla soglia dei 40 anni, Daniel Rose è uno degli chef più acclamati di New York, dopo appena un anno dall'apertura di Le Coucou. Ma le ossa, lui che è originario dell'Illinois, se l'è fatte a Parigi, dove nel 2006 apriva Spring. Una carriera di successi nel segno di una passione costante: la grande cucina francese.

Gli ultimi dieci anni di Daniel Rose. Da Spring a New York

 

Fresco di incoronazione tra i grandi della ristorazione americana, per Daniel Rose sembrano molto lontani i tempi del primo mitico Spring, appena 16 coperti in rue de la Tour d'Auvergne per l'americano – da Wilmette, Illinois - innamorato della Francia, che nel 2006 apriva a Parigi il suo primo ristorante, dopo l'alunnato con Yannick Allenò all'Hotel Meurice. Successo folgorante, già allora, per una cucina stagionale e di territorio, menu del giorno sempre diverso a piccolissimi prezzi che negli anni a venire avrebbe fatto la fortuna della moderna bistronomia parigina. E quindi, nel 2010, il trasloco nel locale di rue Bailleul, in vista del Louvre, più spazioso e sempre ispirato alla cucina di mercato, un solo menu da quattro portate che cambia ogni mese (oggi, cenare da Spring costa 84 euro, e in cucina c'è Gilles Chesneau). Ma il presente glorioso di Daniel Rose, all'indomani della cerimonia di premiazione della James Beard Foundation – che ogni anno sancisce i protagonisti dell'universo enogastronomico statunitense – si chiama Le Coucou. Ed è il frutto di un ritorno all'ovile meditato e concretizzato appena un anno fa – era maggio 2016 – a New York. La cucina bistronomica francese che strizza l'occhio alla classicità vintage per conquistare la platea americana tra folclore e ardimento tecnico, come solo chi conosce davvero gusti e manie dei suoi connazionali può fare.

 

Le Coucou. Best New Restaurant USA

E Daniel Rose, a quanto confermano le cronache degli ultimi mesi, c'è riuscito con un ristorantone d'atmosfera e carta raffinata – mise en place impeccabile, tappeti, candele e mattoncini a vista – che da qualche giorno può fregiarsi del titolo di Best New Restaurant d'America. Del resto, già l'autunno scorso, Le Coucou aveva meritato 3 stelle del New York Times dopo la visita del temibile critico gastronomico Pete Wells, letteralmente conquistato dalle salse di Mr. Rose, che nell'avventura newyorkese si era lanciato con il sostegno economico del socio Stephen Starr, ristoratore di successo tra New York, Philadelphia e Parigi (con oltre 30 insegne in portafoglio), pure lui premiato durante la cerimonia di Chicago come Outstanding Restaurateur. A New York Le Coucou divide i riflettori dei James Beard Awards 2017 con l'Oyster Bar del rinnovato Grand Central Terminal, eletto Design Icon, e soprattutto con l'italiano Marco Canora, Best Chef in città per la cucina di Hearth, rilanciata del restyling salutista di un anno fa, e voce di tendenza per il (paleo)brodo da passeggio lanciato con il corner Brodo all'inizio del 2015.

 

La cucina francese di Mr. Rose. Perché piace

Ma è l'insegna francese ospitata all'interno dell'Howard Hotel di Soho a strappare la palma di miglior successo imprenditoriale, considerando pure l'ascesa constante del suo ideatore: neanche 40enne, negli ultimi dieci anni Daniel Rose è stato capace di conquistare (da straniero) la piazza parigina – dove nel frattempo ha aperto anche il bistrot La Bourse et la Vie - e scalare le classifiche internazionali, e ora anche a New York tutti lo acclamano, memori della gloria dello storico Lutece, emblema della classicità francese in città alle direttive di Andrè Soltner, oggi non più in attività. Alla sua cucina, e alla suggestione di quella tavola, Rose ha dichiarato sin dall'inizio di voler rendere omaggio. A modo suo, certo, ispirato dallo studio sui ricettari di inizio Novecento, ma con quella personalità unica che gli ha fatto guadagnare il favore di tante glorie della ristorazione newyorkese, Eric Ripert, chef-patron de Le Bernardin, in testa. Il segreto? “La cucina francese è un'enciclopedia codificata di pietanze che la maggior parte delle persone trovano deliziose” ha rivelato in passato “Non si tratta di reinventarla, ma di farne rivivere la memoria nel presente”. Rendendola al contempo generosa e divertente. Ed ecco New York ai suoi piedi.

 

Le Coucou | New York | 138 Lafayette street | www.lecoucou.com

Zanze XVI, lo chef Nicola Dinato riapre la storica trattoria veneziana

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Un locale in funzione sin dal XVI secolo, chiuso da un paio di anni, sta per essere riaperto in una veste nuova, grazie a un team di giovani chef e imprenditori. È Zanze XVI, “osteria elegante” che incrocia la bistronomie di stampo francese. Alla guida del progetto lo chef Nicola Dinato e il suo socio, lo startupper Nicola Possagnolo.

Dalla Trattoria delle Zanze a Zanze XVI

La Trattoria delle Zanze ha chiuso nel 2015, dopo oltre 500 anni di onorato servizio. Una vera e propria istituzione della cucina veneziana, che dal XVI secolo accoglieva visitatori e cittadini amanti del pesce. Intorno alla sua nascita, una leggenda: i veneziani narrano che la vecchia Zanze, detenuta di lungo corso, cucinasse proprio in questo edificio i pasti per i prigionieri delle carceri cittadine.

La sua chiusura ha lasciato un vuoto che Nicola Dinato - chef stellato (Due Forchette sulla guida del Gambero Rosso) e anima pulsante del ristorante Feva di Castelfranco Veneto - ha deciso di colmare. A fine maggio, infatti, la trattoria riaprirà in veste nuova, sempre nel sestiere di Santa Croce, lungo Fondamenta dei Tolentini.

 

Il progetto e la formula dell’azionariato popolare

La proprietà voleva dare una svolta, cercando di tornare ai vecchi fasti ma in un’ottica più moderna. Quando mi hanno contattato ho aderito subito con entusiasmo” racconta lo chef Dinato che, insieme al socio Nicola Possagnolo, fondatore della tech company padovana Noonic e digital strategist appassionato di food, aprirà a breve Zanze XVI. Ai fornelli, Luca Tartaglia, promessa della cucina italiana, fino a poche settimane fa al tristellato L'Astrance di Pascal Barbot, a Parigi. “Abbiamo dovuto fare subito un vero e proprio restauro: grazie ad alcune famiglie venete, che hanno capito che l’idea ha anche una vocazione sociale, siamo riusciti a raccogliere l’investimento adeguato”. Una sorta di azionariato popolare, che fa diventare i veneziani protagonisti dell’investimento soci del locale ma anche “ambasciatori” dell'osteria che nascerà.

 

Il concept e la location

È la bistronomie francese ad aver ispirato Dinato nel delineare il concept del locale, insieme al trend dell’osteria di fascia alta, di cui spesso si abusa. “Volevo una formula snella nel servizio e leggera anche per quanto riguarda l’ambiente, ma che rivelasse l’alto livello della proposta gastronomica fin da subito, dall’assaggio del primo piatto”. Un format giovane e informale, caratterizzato però dalla qualità dell’offertaI prezzi però saranno contenuti, soprattutto per quanto riguarda la formula del pranzo, proprio per favorire una clientela ampia”.

 

Il menu

In regia Nicola Dinato, in cucina Luca Tartaglia: “Luca voleva riavvicinarsi a casa e trovare qualcosa che fosse più cucito sulla sua personalità. Aveva già diverse offerte interessanti, in brigate di alto livello, ma ha scelto di intraprendere questa strada probabilmente anche per la libertà che un progetto del genere ti garantisce”, spiega Dinato. Ma quale sarà la proposta di Zanze XVI? Tre i menu degustazione, con la possibilità di combinare piatti di percorsi diversi: “Abbiamo cercato di unire i due volti di Venezia, la terra e il mare. A questa idea abbiamo aggiunto una terza proposta che è quella del menu ‘anima’, espressione della creatività dello chef. Ci piace questo concetto perché l’anima è qualcosa di astratto che non puoi mai afferrare completamente ed è costantemente in divenire”. Materie prime locali protagoniste, con un’offerta a rotazione che privilegi non solo la stagionalità ma anche prodotti antichi e ricercati, in memoria della storia gastronomica di Venezia e, naturalmente, i produttori più fidati.

Ma non è tutto: a conferma del carattere “giovane” del locale, una zona sarà dedicata alla mixology.“Ci sarà un angolo bar, guidato da Nicolò De Pol, un pasticcere dotato di grande savoir faire che si è dato all’arte dei cocktail, e una piccola corte esterna dove fare anche esperimenti sulle miscelazioni”. Apertura prevista per l’ultima settimana di maggio.

Zanze XVI | Venezia | Santa Croce, 231 | tel. 041 715394

 

a cura di Francesca Fiore

 

 

 

Mangiare in Italia. 10 ristoranti selezionati dai lettori inglesi del Guardian. Con qualche sorpresa

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La tradizione gastronomica tricolore è una delle più ricche e affascinanti del pianeta. E gli inglesi lo sanno bene, per questo il giornale The Guardian ha chiesto ai suoi lettori di stilare una classifica con le 10 insegne migliori della Penisola.

La cucina italiana vista dagli inglesi

L'immagine di Julia Roberts che addenta la pizza napoletana o assapora con gusto una forchettata di spaghetti al pomodoro è rimasta scolpita nella mente di chiunque abbia visto Mangia prega ama, film del 2010 diretto da Ryan Murphy che giocava parecchio sul folclore made in Italy. Ma la lista di scene cinematografiche che rappresentano la cultura del mangiare bene tricolore è ampia, specialmente quando si parla di pellicole anglosassoni. Grandi estimatori della tradizione gastronomica italiana, i turisti americani sono fra i più curiosi in fatto di cibo, ma non solo: anche i britannici trovano nella nostra Penisola un luogo rassicurante e allo stesso tempo sorprendente per quanto riguarda la tavola. Perché se da una parte i piatti delle diverse tradizioni regionali sono ancora i più rappresentativi della cucina made in Italy all'estero, dall'altra esiste un bacino di chef giovani (e non solo) che amano sperimentare con sapori e gusti, coniugando diversi stili e facendo convergere nei loro piatti più anime.

La sfida del Guardian

Il ritratto dell'Italia che si ricava dalla classifica stilata dai lettori del Guardian, uno dei quotidiani britannici più seguiti, è eterogeneo e insolito. Il giornale ha dato ai suoi lettori più affezionati la possibilità di selezionare le dieci migliori cucine del Bel Paese, da Nord a Sud, in piena autonomia e libertà di scelta. Nessuna regola infatti sulla scrematura delle insegne: nella lista si trovano gli indirizzi più disparati, dal ristorante con cucina ricercata all'angolo più nascosto delle città che serve il tipico cibo da strada regionale, dal locale vegetariano alla trattoria rustica che propone prodotti del territorio. Un'istantanea autentica e sincera di come gli inglesi percepiscono la nostra tavola, e soprattutto la ristorazione nazionale, che cattura una collezione variegata di insegne, alcune condivisibili, altre meno, tutte piuttosto inaspettate.

La classifica

È la Capitale a registrare il maggior numero di preferenze, con ben tre locali molto diversi tra loro: c'è la porchetta de Er Buchetto, trattoria di fine Ottocento in zona Esquilino specializzata nei panini più famosi di Roma, il filetto di baccalà de Dar Filettaro a Campo de' Fiori e poi la cucina di tradizione di Trattoria Da Simonetta a San Giovanni. Conta due insegne invece la Liguria con Trattoria La Brinca a Ne, in provincia di Genova (questa sì, una delle insegne più interessanti della cucina regionale italiana), molto apprezzato dai lettori per “le specialità che riflettono il gusto semplice e genuino della tradizione rurale del luogo” e “l'utilizzo dei prodotti di piccoli agricoltori locali”, e la Pizzeria Kebab SoleLuna nel capoluogo ligure, che “trasporta l'atmosfera napoletana nel cuore di Genova”. Sull'Appennino, è l'Umbria a farla da padrone, in particolare Bevagna (Perugia) con la sua Antiche Sere Osteria Enoteca, che colpisce per i piatti di carne, specialmente “piccione, coniglio e guanciale”, mentre sul lago di Como spicca l'Osteria Il Pozzo a Menaggio, “cucina povera con prodotti d'eccezione”. L'Antica Pizzeria da Michele (ora anche a Londra) è stata eletta invece miglior pizza napoletana, “perfetta nella sua semplicità”, mentre in Toscana è l'Antica Trattoria La Grotta il locale preferito dagli inglesi, che nell'osteria di Sassa, in provincia di Pisa, ritrovano il piacere di un buon pasto con vista panoramica sulle colline toscane. Ma è la presenza di un'insegna campana che mette d'accordo tutti a stupire di più: l'Oasis Sapori Antichi di Vallesaccarda (Avellino), premiato dai lettori inglesi, è uno dei ristoranti più interessanti d'Irpinia e d'Italia, vanta Due Forchette sulla guida Ristoranti d'Italia del Gambero Rosso e Una Stella Michelin. E conquista anche il pubblico inglese con il suo menu stagionale, ricercato, “e una carta dei vini curata nel dettaglio”.

Er Buchetto, Roma

Dar Filettaro, Roma

Trattoria Da Simonetta, Roma

Trattoria La Brinca, Ne

Pizzeria Kebab SoleLuna, Genova

Antiche Sere Osteria Enoteca, Bevagna

Osteria Il Pozzo, Menaggio

L'Antica Pizzeria da Michele, Napoli

Antica Trattoria La Grotta, Sassa

Oasis Sapori Antichi, Vallesaccarda

a cura di Michela Becchi

Libri sul cibo per bambini. 10 imperdibili volumi sull'alimentazione

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Bambini e alimentazione. Sono tanti i temi da affrontare quando si parla di cibo con i più piccoli, dall'agricoltura ai principi nutritivi, dalle buone maniere a tavola alla provenienza dei prodotti. Fortunatamente, sono altrettanti i testi scritti sull'argomento pensati appositamente per i bambini.

I libri per bambini che hanno come tema il cibo possono diventare, per genitori e insegnanti, strumenti utili per trasmettere loro le basi di una corretta alimentazione. E non solo: dalla storia dei prodotti alla loro coltivazione, dallo spreco alimentare alle cucine straniere, i temi da tenere in considerazione sono diversi e tutti ugualmente importanti. Dopo una prima lista di titoli consigliati sull'argomento, per completare la ricerca abbiamo raccolto un'altra serie di volumi dedicati a questo tema così delicato, da tenere in considerazione durante l'educazione alimentare dei più piccoli.

La grande storia dell'ulivo

Un viaggio in compagnia del “gigante buono” dalla folta chioma argentata: l'ulivo, albero secolare da sempre parte della cultura mediterranea, che nel testo di Cosimo Damiano Guerini diventa protagonista principale di un racconto fantastico che ripercorre la storia di questa pianta. Un tragitto che parte da Noè e da un prezioso ramoscello simbolo di pace, e passa poi per il mondo contadino, che con cura e pazienza trasforma i suoi frutti nell'oro verde che tutti conosciamo, per finire con il prodotto d'eccellenza a cui siamo abituati oggi. Con illustrazioni, giochi ed esperimenti per coinvolgere direttamente i più piccoli, il libro trasporta i giovani lettori alla ricerca di una delle specialità più rappresentative delle tavole italiane.

La grande storia dell'ulivo | Cosimo Damiano Guerini | ed. Adda | Euro 5,00

Conosci il tuo cibo

Protagonista di questa insolita storia è Gnam, una papilla gustativa, quell'elemento che si trova sulla lingua, la laringe o la faringe che ci consente di percepire e riconoscere gusti e sapori del cibo e che in questo racconto guida i bambini alla scoperta del proprio palato. In un percorso articolato che comincia dalle materie prime, passa per la qualità degli ingredienti e la composizione degli alimenti, e finisce con un'analisi delle conseguenze delle nostre scelte alimentari. L'autrice, Giusi D'Urso, affronta il tema complesso della dieta sana e sostenibile attraverso un linguaggio semplice e immediato e partendo da basi scientifiche. Una guida a un consumo consapevole ma anche al piacere del cibo, con giochi ed esempi studiati appositamente per i più piccoli.

Conosci il tuo cibo | Giudi D'Urso | ed. ETS | Euro 8,50

La storia che avanza

Il testo prende spunto da uno dei temi più caldi del settore enogastronomico: lo spreco alimentare. L'autore, AlessandroLumare, trasforma i vari avanzi di cibo in racconti fantastici, riportando l'attenzione sull'importanza di ogni singolo prodotto impiegato nella realizzazione di un piatto e sul valore che il cibo ha a livello etico e sociale, oltre che salutare. Un invito a non sprecare, a rispettare il territorio attraverso scelte consapevoli, ma anche a non dimenticare mai il lato ludico ed edonistico del cibo, stimolando i bambini a giocare – con consapevolezza – con gli ingredienti in cucina.

La storia che avanza | Alessandro Lumare | ed. Artebambini | Euro 13,50

La salute vien mangiando

Un progetto didattico ambizioso che ha come obiettivo quello di trasmettere ai bambini le conoscenze base per una sana alimentazione. Il volume si basa sulla piramide alimentare, con i suoi gruppi e principi nutritivi, e sull'ampia varietà di cibo di cui disponiamo. Lo scopo? Diffondere la cultura del mangiare bene per prevenire il sempre più comune problema dell'obesità infantile. Il testo si propone di rendere il bambino capace e autonomo nella valutazione della porzione dei cibi, ma nel volume trova spazio anche la sfera sensoriale, con laboratori e attività che invitano i più piccoli a riconoscere gli alimenti utilizzando i propri sensi, dall'olfatto al gusto.

La salute vien mangiando | Sonia Loffreda | ed. Mela Music | Euro 16,90

Tutti a tavola!

Perché la prima colazione è un pasto fondamentale? Perché è importante masticare bene il cibo? Che cos'è la piramide alimentare? E le calorie? A queste e altre domande si propone di rispondere Mario Corte con il suo libro sull'alimentazione. Con un taglio estremamente semplificato e un linguaggio essenziale, l'autore svela i segreti nascosti nel piatto che il bambino si trova davanti ogni giorno e con cui può avere un rapporto ora difficile, ora distratto, ora eccessivo. Tenere sempre una bottiglietta d'acqua nello zainetto, imparare a calcolare le calorie che si consumano quando si corre, si va in bicicletta, si salgono o si scendono le scale: queste e tante altre sono le piccole indicazioni che Mario offre ai piccoli lettori. Un testo che non dimentica anche la parte conviviale dell'atto del mangiare e che ricorda ai bambini le buone maniere da tenere a tavola.

Tutti a tavola! | Mario Corte | ed. Emme | Euro 11,90

Sono celiaco, non malato!

Un disturbo alimentare che si sta diffondendo sempre di più negli ultimi anni: è la celiachia, risultato di un'infiammazione cronica dell'intestino tenue causata dal malassorbimento del glutine, componente proteica dei cereali presente nel frumento. Un problema che spesso viene diagnosticato in età adulta ma che è presente fin dall'infanzia e che, come le intolleranze alimentari, può rappresentare per chi ne soffre un disagio notevole. Ma non ce ne è motivo, perché si può mangiare bene e con gusto anche con qualche ristrettezza: è questo il tema del libro di RaffaellaOppimittie GianfrancoTrapani, che insieme hanno deciso di trattare la celiachia sotto diversi punti di vista per far capire ai bambini che la diversità non è un limite. Ci sono le informazioni medico-scientifiche, psicologiche e naturalmente anche quelle nutrizionali ma il messaggio fondamentale è uno solo: i celiaci non sono malati, semplicemente, devono porre maggiore attenzione durante le loro scelte alimentari.

Sono celiaco, non malato! | Raffaella Oppimitti, Gianfranco Trapani | ed. Red | Euro 14, 30

La bussola a tavola

Fra i maggiori ostacoli che i bambini possono incontrare sul loro percorso di educazione alimentare c'è l'incapacità di distinguere la gola dalla fame. È questo il punto di partenza del libro che – come spiega il titolo stesso – si propone come una guida e un punto di riferimento per i più piccoli a tavola. Con questo intento sono nate le storie, i giochi e i quiz che compongono le pagine del volume, che con poche semplici parole accompagna i bambini sulla strada della sana alimentazione. Scandagliando tutte le cattive abitudini alimentari, spesso tramandate dagli stessi genitori, ma anche, e soprattutto, quelle buone che consentono di mangiare bene con gusto.

La bussola a tavola | Cristina Cherchi, Stefania Pallini | ed. Mds | Euro 8,50

Il mio orto

Se mangiare bene è fondamentale, altrettanto imprescindibile è capire da dove provengono gli alimenti di cui ci nutriamo quotidianamente. A cominciare dai frutti della terra, e dunque dall'agricoltura. “Il mio orto” fornisce ai bambini una serie di informazioni utili per scoprire come funziona la coltivazione delle piante, dagli alberi da frutto agli ortaggi, dai semi ai tuberi, attraverso illustrazioni, attività, giochi e adesivi colorati. Gli esperimenti proposti dal libro si impegnano a coinvolgere direttamente i bambini, spingendoli a mettere le mani in pasta e nella terra: ricette di cucina semplici e veloci da riproporre a casa sotto la supervisione di un adulto e consigli preziosi per realizzare un orto casalingo fai da te, per imparare così non solo lo sviluppo delle piante ma anche l'arte della pazienza.

Il mio orto | Sonia Goldie | ed. Scienza | Euro 9,90

Mangiocosa?

Il titolo è frutto di un gioco di parole, 'mangiare' e 'gioco', e nasce dal lavoro di ricerca delle sorelle Monicae RossanaColli, insieme all'amica SofiaGallo, tre autrici da tempo specializzate in editoria per l'infanzia. Storie, filastrocche, racconti e fumetti per spiegare ai più piccoli le regole principali di una dieta equilibrata, dall'importanza della prima colazione alla differenza fra proteine, vitamine e carboidrati. E non finisce qui: il volume descrive anche piatti stranieri, in una panoramica essenziale e semplificata della cultura gastronomica degli altri paesi. Un testo pensato per i bambini ma anche per gli adulti con approfondimenti specifici dedicati ai più grandi presenti in ogni capitolo, per aiutare genitori e insegnanti ad affrontare in maniera corretta questo tema delicato.

Mangiocosa? | Monica Colli, Rossana Colli, Sofia Gallo | ed. La Scuola | Euro 12,30

Giochiamo a mangiare

Mangiare divertendosi: è questo il messaggio che il volume vuole trasmettere ai più piccoli attraverso un percorso educativo da intraprendere insieme agli adulti. Un libro che tocca tutti i temi dell'alimentazione, dal funzionamento dell'apparato digerente ai principi nutritivi, dall'importanza delle cinque porzioni giornaliere di frutta e verdura alla piramide alimentare, dalle allergie alla scelta vegetariana. Nozioni fondamentali spiegate con un linguaggio adeguato e sviluppate attraverso una serie di attività, ricette, giochi e cruciverba. Perché si può imparare a mangiare bene anche attraverso il gioco, le favole e i racconti.

Giochiamo a mangiare | Raffaella Oppimitti | ed. Red | Euro 14,30

a cura di Michela Becchi

Leggi anche: Libri sul cibo per bambini. 10 imperdibili volumi sull'alimentazione

Francesco Apreda ci racconta il menu del decennale dell'Imàgo

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Il ristorante all'ultimo piano dell'Hotel Hassler di Roma compie 10 anni. E lo festeggia con un restyling della sala e un menu dedicato al decennale.

Festeggia i 10 anni il ristorante all'ultimo piano dell'Hotel Hassler di Roma. L'Imàgo, come l'ha immaginato e voluto Roberto Wirth, è oggi uno degli indirizzi di riferimento della ristorazione capitolina. E non solo per la vista da mille e una notte capace di lasciare senza parole anche chi Roma la conosce e la guarda da una vita. Ma anche per la cucina che, anno dopo anno, si fa più matura e centrata. Una proposta all'altezza del panorama: è stato questo il preciso desiderio di Wirth, dinastia di albergatori, da 39 anni saldamente alla guida di questo albergo dal fascino ineguagliabile.

 

Imago 10 anni

Roberto Wirth è più di quanto il suo ruolo possa dire: non solo il presidente e general manager, ma l'anima di questo 5 stelle lusso indipendente. Sempre presente, “la dedizione all'Hassles è totale” dice, e aggiunge: “questa dedizione si trasmette ovunque: nello stile, accoglienza, servizi offerti, nello staff”. E nel ristorante. Quell'Imàgo in cui lui ha creduto fortemente 10 anni fa, così come ha creduto in quel cuoco campano che era transitato ancora giovanissimo nelle cucine dell'Hassler e che è andato a ripescare anni dopo, proponendolo per esperienze all'estero prima di affidargli completamente il neonato ristorante al roof. A lui, Francesco Apreda, si deve il successo di questi anni. E al lavoro di concerto con la proprietà.

 

Imago

 

Le esperienze in Oriente sono quelle che Apreda ha saputo trasformare in ingredienti vivi per la sua cucina al pari di mozzarella e pomodoro, a sorpresa protagonisti in un ristorante gourmet di alto rango come questo. Apreda - anima campana, spirito cosmopolita, e la capacità di saldare in incontri apparentemente impossibili ingredienti esotici e sapori nostrani - ha saputo mettere a segno quella proposta internazionale e insieme italianissima che voleva Wirth. Il risultato è una cucina contemporanea, che racconta l'Italia varcando frontiere e oceani. Capace di parlare a romani e turisti di ogni parte del mondo, e spiegare come la Campania, l'India e il Giappone possano convivere senza frizioni nei piatti.

 

 

Il restyling e un menu per celebrare i 10 anni

Un traguardo importante, questo dei 10 anni. Per l'occasione, un restyling della sala ha reso ancora più accoglienti e piacevoli gli spazi, e una nuova illuminazione valorizza i piatti che devono contendere l'attenzione degli ospiti alla vista che abbraccia la Città Eterna. Per raccontare il percorso fatto fino a ora, Francesco Apreda ha studiato un menu di 10 portate riproponendo quei piatti che hanno un significato particolare nella storia del ristorante. Lo chef ha voluto raccontarsi così, con una carta tutta dedicata ai suoi classici, talvolta rielaborati alla luce della piena maturità di oggi, delle esperienze di questi anni, che hanno regalato viaggi, conoscenze, ingredienti e suggestioni. Un esempio? Il piatto preferito da Mr. Wirth: le Capesanteimpanate e ripiene di mozzarella di bufala, foglie di sedano e tartufo nero,in cui la panatura da classica milanese con pangrattato e farina è ora a base di panko e lamelle indiane di riso essiccate, mentre la salsa è arricchita da funghi shitake.

 

Imàgo dell'Hotel Hassler | Roma | p.zza Trinità dei Monti, 6 | tel. 06.69934726 |www.imagorestaurant.com

 

a cura di Antonella De Santis

video Francesca Naccarato

 

 

 

L’Abruzzo in 9 biscotti tradizionali e la ricetta degli spumini della pasticceria Ferretti

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Olio extravergine, farine di montagna, pepe e anice. Sono i biscotti abruzzesi, dolcetti rustici ma delicati allo stesso tempo, in cui spiccano gli aromi tipici e le farine della zona. Oggi vi raccontiamo 9 specialità regionali e la ricetta degli spumini della pasticceria Ferretti di Roseto degli Abruzzi.

Biscotti della tresca, sassi, spumini, lingue di suocera. Sono dolcetti dal sapore intenso e dalla lunga storia, rustici ma dal sapore gentile. Per la rubrica sui biscotti regionali vi portiamo in Abruzzo, con 9 specialità tradizionali e la ricetta degli spumini della pasticceria Ferretti, Due Torte nell’edizione 2017 della guida Pasticceri&Pasticcerie.

 

 

Amaretti 

In Abruzzo gli amaretti erano i dolci tipici del carnevale, ma oggi sono prodotti durante tutto l’arco dell’anno. Diversamente dalla ricetta piemontese, in questa versione, oltre alle mandorle dolci e amare, le armelline e gli albumi montati a neve, c'è  anche una decisa dose di scorza di limone, che dona un aroma diverso da quelli degli amaretti tradizionali delle altre regioni. 

Si inizia tritando le mandorle con lo zucchero e montando gli albumi a parte. Una volta unite le due parti si aggiunge la scorza di limone grattugiata. A questo punto il composto deve riposare in frigo per almeno 3 ore. Trascorso questo tempo si stende su una spianatoia coperta da un velo di farina e zucchero e si creano dei tondini un po’ schiacciati. Infine si infornano a 150 gradi per 30 minuti circa.

 

 

amarettiamaretti

 

Biscotti della tresca 

Tresca in abruzzese vuol dire trebbiatura: questi dolcetti da inzuppo dalla ricetta molto semplice venivano preparati proprio in questa occasione, durante l’ultima fase del raccolto, quando si doveva separare la granella del frumento dalla paglia e dalla pula. Erano i contadini a mangiarli, portandoli con sé e inzuppandoli nel vino alla fine della giornata lavorativa.

Per prepararli a casa servono farina, uova, zucchero di canna, latte, olio extravergine d’oliva, lievito, scorza di limone e cannella. Per prima cosa si setaccia la farina e si mischia con il lievito, subito dopo si aggiungono lo zucchero, metà delle uova e il latte. Si impasta per qualche minuto e si incorpora il resto delle uova, l’olio evo e gli aromi. Il composto deve risultare morbido ma non troppo, simile a quello della pasta frolla. 

Una volta stesa la massa si ricavano biscotti da 7 centimetri circa, quindi piuttosto grandi, e si mettono su una teglia infarinata, distanziati uno dall’altro di almeno 4 centimetri, per evitare che si attacchino fra loro durante la cottura. Si cuociono per 15 minuti, o fino a completa doratura, a circa a 180 gradi.

 

Cancelle o ferratelle

Le cancelle, chiamate ancheferratelle, sono dolci diffusi in Abruzzzo e in Molise, di cui vi abbiamo già raccontato parlando dei biscotti tipici di questa regione. Ricordano, per la griglia che ne decora la superficie, i waffle inglesi (o goufre in Belgio), ma differiscono perché sono molto più sottili. Si cuociono con una doppia piastra arroventata sul fuoco, che dà loro la classica forma di cialda percorsa da nervature. Le piastre tradizionali hanno diversi disegni, quella più comune è a rombi, da cui il nome ferratelle usato in alcune parti della regione (ma vengono chiamate anche nivole o neole a Teramo, pizzelle in provincia dell’Aquila, mentre nella variante con due cialde sovrapposte e farcite prendono il nome di coperchiole). In origine venivano prodotte soprattutto per i matrimoni: non è raro trovare infatti piastre a forma di cuore. Si mangiano condite con marmellata, solitamente d’uva, ma anche crema pasticcera o cioccolata: in alcuni paesi si farciscono, si arrotolano e si consumano a mo’ di cannolo. 

 

ferratelle abruzzesiferratelle

 

Ciambelline al vino

Le ciambelline al vino sono un dolce comune, diffuso in diverse regioni, in particolare nel centro Italia. La particolarità della versione abruzzese sta nell’uso dellaSolina - una farina di grano tenero di montagna coltivata soprattutto nell'area del parco nazionale del Gran Sasso e Monti della Laga - e del Montepulciano, vino autoctono di cui gli abruzzesi sono molto orgogliosi.

Insieme a questi due ingredienti anche farina, zucchero, olio extravergine d’oliva e soprattutto semi di anice o finocchietto, che regala alle ciambelline un aroma intenso. Per realizzarli basta setacciare la farina e unirla con il vino precedentemente mescolato all’olio, lo zucchero e gli aromi, continuando a impastare finché non si ottiene una consistenza omogenea. A questo punto la massa deve riposare in frigo per mezz’ora coperta con un canovaccio. Passato questo periodo si riprende l’impasto e si formano dei cordoncini da chiudere alle estremità, come si fa con i taralli. Infine, si infornano a 190 gradi per 20 minuti circa.

 

ciambelline al vinociambelline al vino

 

Lingue di suocera

Una specialità della provincia di Chieti, in cui prevale il sapore rustico della farina di farro e delle mandorle abbrustolite e l’aroma della grappa. Solitamente si mangiano a fine pasto, in occasione delle feste, insieme a un vino dolce o un liquore.

Gli ingredienti di base sono farina 00, farina di farro, uova, mandorle, zucchero, cioccolato fondente, burro, grappa, semi di anice (in alcune versioni sostituiti dal liquore all’anice), lievito. Come prima operazione si tostano le mandorle intere e si uniscono alle uova già sbattute insieme allo zucchero. Si trita il cioccolato grossolanamente e inserisce nel composto. Poi si aggiungono le due farine miscelate e setacciate, il burro a temperatura ambiente, i semi di anice la grappa e il lievito. Nel caso in cui si utilizzasse il liquore all’anice, si deve aumentare leggermente la quantità di farina. Una volta pronta la massa, che deve essere compatta, si formano delle strisce da 10-12 centimetri da infornare per 20 minuti circa a 180 gradi. Una volta dorate in superficie, le strisce devono essere tagliate a fette sottili e biscottate per altri 10 minuti alla stessa temperatura.

 

lingue di suocera vecchio fornoLingue di suocera del Vecchio Forno

 

Mostaccioli

Abbiamo già parlato in diverse occasioni dei mostaccioli, diffusi un po’ in tutta la penisola, in particolare in Umbria, Campania, Molise, Calabria, ma anche Sardegna e Lombardia. Dati i legami fra le due regioni, questa ricetta avvicina molto quella molisana, tranne che per la presenza dell’olio extravergine d’oliva. Anche in questo caso prevale l’aromatizzazione alla cannella e (in alcune versioni locali) dei chiodi di garofano, mentre la croccantezza dei biscotti è data dalle mandorle tritate ma anche dalla glassa al cioccolato fondente. A volte all’impasto viene aggiunta una piccola parte di mosto cotto, che dà il nome a questi dolcetti, ormai caduto in disuso in quasi tutte le ricette.

Provate a prepararli a casa con farina, cioccolato fondente, zucchero, uova, miele liquido, mandorle tritate grossolanamente, olio evo, lievito, cannella e chiodi di garofano. 

 

mostaccioli abruzzesi

 

Pepatelli

Anche questi biscotti si trovano tanto in Molise che in Abruzzo e, in particolare nella provincia di Teramo. Sono dolcetti dal sapore deciso, che si preparano nel periodo natalizio, ma ormai si possono reperire in diversi periodi dell’anno. La differenza con la ricetta molisana sta nell’uso della farina ditritello che, insieme a crusca, cruschello e farinaccio, fa parte dei sottoprodotti della macinazione del grano duro, ottenuti secondo i diversi gradi di molitura. In alternativa si può usare la farina integrale.

La ricetta prevede farina di tritello (a volte mescolata con una piccola parte di farina 00 per un sapore più leggero), miele, buccia d’arancia e, naturalmente, pepe in abbondanza.  Si inizia dal miele, che deve essere riscaldato in un pentolino fino al bollore. A questo punto si immergono le mandorle pelate e la scorza d’arancia. Si amalgama il tutto e si versa a filo sulla farina, lavorando il composto con una spatola. Infine si aggiunge il pepe ben macinato. Una volta che il composto è omogeneo si stende in un rettangolo dallo spessore di 3 centimetri e lo si inforna a 180 gradi per 10 minuti. Appena inizierà a dorarsi, si tira fuori dal forno e si taglia a fettine di 1 centimetro circa da disporre sulla placca da forno per continuare la cottura per altri 15 minuti circa.

 

Sassi d’Abruzzo o mandorle atterrate

È un prodotto originale che nasce dall'esigenza di impiegare le mandorle spezzate inutilizzabili per i confetti e poi diventato celebre in tutta la regione, con diverse varianti. Sono state inventate dalla famiglia Cicconi, proprietaria di un confettificio di Sant’Egidio alla Vibrata, nella Val Vibrata, in provincia di Teramo. Sono dei piccoli biscotti croccanti, chiamati appunto sassi o mandorle atterrate, che usano frammenti di mandorle tostate (o tritate più che grossolanamente), zucchero, acqua, cacao in polvere, scorza di limone e cannella. In alcuni casi si aggiunge anche mezzo bicchierino di alchermes o caffè. 

Si fa sciogliere lo zucchero in una pentola antiaderente insieme ad acqua (ed eventualmente all’alchermes o al caffè) a fuoco medio. Si uniscono le mandorle e il cacao mescolando continuamente. Una volta che i liquidi si sono ritirati e lo zucchero avrà formato dei piccoli grumi sulle mandorle si toglie dal fuoco il composto e si versa su un piano di marmo (o su un foglio di carta da cucina). Si fa raffreddare il tutto leggermente e si separano le mandorle una ad una, con l’aiiuto di un cucchiaio. Quando sono completamente fredde, le mandorle atterrate sono pronte da servire.

Un’altra variante presente soprattutto a Teramo prevede che si usi anche del cioccolato fondente e che le mandorle siano staccate a “gruppetti” da quattro o cinque, in modo che i dolcetti risultino più grandi. Solitamente vengono serviti dentro a pirottini di carta colorati

 

Spumini

Biscotti semplicissimi, chiamati anchetorroncini, realizzati in maniera diversa secondo la provincia di provenienza. Si mangiano nei mesi invernali, inzuppandoli nel tè o in un liquore a fine pasto. Possono essere a forma di barrette, ricoperti di una glassa fatta con acqua e zucchero, oppure a forma di meringa. Nella versione più semplice si utilizzano solo albumi, mandorle tostate e zucchero, mentre le varianti più ricche prevedono anche la scorza di limone e la cannella.

Ma non diremo altro sul procedimento: è proprio questa la ricetta che ci siamo fatti regalare dalla pasticceria Ferretti di Roseto degli Abruzzi, provincia di Teramo, Due Torte nell’edizione 2017 della guida Pasticceri&Pasticcerie.

 

 

 

Ricetta degli spumini della pasticceria Ferretti di Roseto degli Abruzzi (TE)

 

ingredienti

 

1 kg di albume d’uovo (circa 30)

2,5 kg di zucchero semolato, 

500 g di mandorle a filetto tostate

 

procedimento

 

Montare gli albumi con un terzo della dose di zucchero. Aggiungere il resto in due diverse fasi, continuando a montare. Quando la massa risulta ben gonfia aggiungere le mandorle già tostate. Mettere il composto in una sac à poche e formare delle piccole meringhe su una placca da forno antiaderente. 

Cuocere in forno a 100 gradi per circa 2 ore e mezza. Se necessario fare un prova tagliando a metà un biscottino: il prodotto deve infatti risultare asciutto all’interno. Far raffreddare e servire.

 

 

 

a cura di Francesca Fiore

 

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Pop up restaurant. I 10 migliori del 2017 secondo la CNN

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Ristoranti aperti per brevi periodi, che danno modo ai clienti di provare nuove esperienze e allo chef di sperimentare e mettersi alla prova, magari imparando da altri colleghi. Sono i pop up restaurant: la CNN ha stilato una classifica dei migliori del 2017.

I pop up restaurant

 

Che siano di un giorno, una settimana o un mese, i pop up restaurant continuano ad attirare l’attenzione dei clienti, in America ma anche in Europa. Per i clienti, rappresentano delle esperienze a tempo limitato, di cui approfittare subito o mai più, mentre per gli chef un pop up vuol dire spesso aprirsi a nuovi stimoli, osservare il lavoro dei colleghi in contesti completamente diversi, caricarsi di energia creativa da sfruttare più avanti, magari una volta tornati a casa. Per questi motivi, la CNN ha deciso di stilare un elenco dei migliori pop up del 2017, dalla Spagna fino a Hong Kong, passando per Porto Rico, Bali e Macao. 

 

1. Malcolm Lee all’Asia Society's Garden Court Cafe, New York

Lo chef Malcolm Lee è attualmente al Garden Court Cafe dell’Asia Society, a New York. Lui è resident del Candlenut, l’unico ristorante di Singapore con una Stella Michelin dedicato alla gastronomia peranakan, che coniuga le tradizioni degli immigrati cinesi con la cucina malese. L’Asia Society di New York celebra questa cucina dal 4 marzo al 7 giugno di quest’anno: protagonista della rassegna è appunto chef Lee, insieme ad altri colleghi di Singapore. Un pop up che ha riscosso molto successo nella Grande Mela e che serve piatti come lo yeye, curry di pollo al cocco con foglie di lime combava, il polpo con salamoia di ananas e achar (una conserva tradizionale la cui ricetta risale a 500 anni fa) o la panna cotta alla crema di cocco e gelatina di pandano.

Asia Society and Museum | New York | Garden Court Café, 725 Park Avenue | tel. +1 212 570-5202 | dal 4 marzo al 7 giugno 2017

 

2. Gli chef dell’Iberostar in tour nei Caraibi

Una serie di cene pop up del gruppo Iberostar nell’arcipelago caraibico (Cuba, Repubblica Dominicana, Giamaica) e in Messico. Alcuni fra i migliori chef al mondo - fra cui Emma Bengtsson dell’Aquavit di New York e Suzette Gresham dell’Acquarello di San Francisco - si stanno dirigendo verso climi più caldi, per far assaggiare la propria idea di cucina agli avventori degli Iberostar Hotels & Resorts. Sono 9 gli chef coinvolti - che insieme contano ben 14 Stelle Michelin- e la varietà di proposte è fortemente diversificata, grazie anche alla provenienza dei protagonisti. Un esempio su tutti? Il giovane chef danese Ronny Emborg (Atera di New York), serve una crema di vongole razor clam (le vongole californiane del genere siliqua patula) con barbabietole e rafano o i bocconcini di manzo con broccoli, wasabi e salsa di midollo affumicato. Il tour inizierà ai primi di giugno e terminerà alla fine di luglio 2017.

Iberostar Hotels & Resorts | Cuba, Giamaica, Repubblica Dominicana, Messico | dal 1 giugno al 31 luglio 2017 | www.iberostar.com/it

 

3. Le cene a quattro mani al Nerua Guggenheim di Bilbao

È il ventesimo anniversario del Guggenheim Museum nella città basca di Bilbao e per l’occasione quattro grandi chef internazionali hanno deciso di proporre una serie di cene a otto mani. Loro sono Bruno Oteiza (Biko), Joan Roca (El Celler de Can Roca), Mauro Colagreco (Mirazur) e Virgilio Martinez (Centrale) e lavorano in tandem con Josean Alija, chef del Nerua. La kermesse di cene-evento è iniziata a febbraio e si chiuderà a settembre: 12 portate per ogni cena, ma anche conferenze, seminari e laboratori aperti sulla cucina degli chef.

Nerua Guggenheim Bilbao | Bilbao | Abandoibarra Avenue, 2 | tel. +34 94 4000430 | dal 1 febbraio al 30 settembre 2017 | www.neruaguggenheimbilbao.com/en

 

4. Test Kitchen, Hong Kong

Un posto che ospita regolarmente pop up restaurant, richiamando a raccolta chef da tutti gli angoli del mondo. Il Test Kitchen di Hong Kong, situato nel vivace distretto di Sai Ying Pun, apre 3-4 sere alla settimana per proporre le specialità di cuochi di fama mondiale e permettere loro di dialogare con i clienti, spiegando la propria visione della cucina, ma elargendo anche consigli su tecnica e prodotti. I prossimi pop up previsti saranno a cura dello chef israeliano Gal Ben-Moshe (Glass Berlin), l’islandeseVictoria Eliasdóttir (del Dottir di Berlino, nominata San Pellegrino young chef per il 2016), l'irlandese Mark Moriarty (Culinary Counter, Dublino).

Test Kitchen | Hong Kong | Sai Ying Pun | Shop 3 Kwan Yick Building | 158A Connaught Road West | www.testkitchen.com.hk

 

5. Archipelago Amigos all’Ubud Food Festival, Bali

Archipelago Amigos riunirà 3 fra i più importanti chef del sud est asiatico a Bali: Louis “Chele” Gonzales del Gallery Vask di Manila cucinerà insieme a due cuochi “locali” come Ray Adriansyah e Eelke Plasmeijer, (Locavore, Bali). Sarà dunque chef Gonzales - che ospita regolarmente pop up grazie al progetto Cross Cultural - a raggiungere i colleghi a Bali in occasione dell’Ubud Food Festival previsto per il 14 maggio 2017. Il menu degustazione in preparazione celebrerà la cucina dei 3 chef e i prodotti delle nazioni insulari.

Ubud Food Festival | Bali | Ubud | Ristorante Locavore |  Jl. Dewisita | tel. +62 361 977733 |  14 maggio 2017 | www.locavore.co.id

 

6. Lo Sparkling 10 ad Altira, Macao

Una serie di pop up che apriranno a Macao durante il mese di maggio per celebrare diversi tipi di cucine, dalla cucina Nikkei (commistione fra la tradizione del Giappone e quella peruviana) alla cucina cantonese, passando per diverse tradizioni europee (francese, spagnola e anche italiana). Protagonisti Gaetan Evrard dell’'Evidence di Tours, Norbert Niederkofler del St. Hubertus di San Cassiano in Badia, Kirika Oi del Nobu di Manila e Ryan Clift del Tippling Club, Singapore. L’occasione è il decimo anniversario dell’Altira di Macao.Aperti sia a pranzo che a cena per quattro alla settimana, gli chef ospiti saranno affiancati da alcuni fra i più famosi barman al mondo, che avranno il compito di abbinare le bevande alle specialità culinarie.

Altira | Macao | Avenida de Kwong Tung | tel. +853 2886 8866 | maggio 2017 | www.altiramacau.com

 

7. I newyorkesi Root & Bone al Wyndham Grand, Porto Rico

Rote & Bone è un food magazine gratuito, pubblicato da un team di chef, designer e fotografi londinesi. Dietro al progettoJeff McInnis e Janine Booth,entrambi ex partecipanti del programma Top Chef e finalisti del James Beard Award. I due hanno deciso di celebrare la cucina sudamericana a Porto Rico, per la precisione al Wyndham Grand Rio Mar Beach Resort. Fino ad agosto 2017 qui si potranno assaggiare piatti come le uova alla diavola ubriache o i “biscotti di mamma” con jus di pollo, oltre a prodotti particolari come il formaggio di mango bianco.

Wyndham Grand Rio Mar Beach Resort | Porto Rico | Rio Mar Boulevard, Rio Grande | tel. +1 787 888 6000 |www.wyndhamriomar.com

 

8. Le Epicurean Exploration a bordo della Windstar

Una crociera che parte da Dublino e arriva a Lisbona rappresenterà un’occasione unica per assaggiare la cucina di Hugh Acheson, protagonista qualche anno fa di un pop up in Galleria a Milano, con il James Beard Restaurant. Il viaggio di 10 notti prevede la visita agli allevamenti di ostriche irlandesi, alle regioni del cognac e la possibilità di assaggiare alcuni fra i migliori porto. La Windstar Legend percorrerà anche il fiume Garonne, Francia, per portare gli ospiti a visitare i vigneti della rinomata regione del Médoc. Sarà dunque lo chef Acheson a preparare il menu giornaliero per i visitatori a bordo, basandosi sui prodotti assaggiati durante il viaggio. Inoltre, per gli appassionati di vino sono  previste diverse degustazioni guidate con il sommelierSteven Grubbs.

Epicurean Exploration | James Beard Foundation | partenza prevista per il 15 agosto, 2017 dal porto di Dublino | www.facebook.com/events/1250731941701040

 

 

9. Cene a quattro mani all’Amber Restaurant del Mandarin Oriental, Hong Kong

Anche l’Amber Restaurant del Mandarin Oriental di Hong Kong ospita spesso pop up di chef internazionali, fra cui Ferran Adria e Corey Lee. Per la stagione estiva 2017 il culinary director Richard Ekkebus ha deciso di volgere lo sguardo verso sud, in particolare alla cucina australiana, invitando Dan Hunter del Brae Restaurant, celebre - oltre che per l’alto livello della proposta gastronomica - anche per essere circondato da 30 acri di giardini e frutteti biologici. Lo chef australiano cucinerà con i prodotti locali, biologici e – laddove possibile – a km 0, cimentandosi per la prima volta con la cucina di Hong Kong per tutto il mese di giugno 2017.

Amber Restaurant 7 | Hong Kong | The Landmark Mandarin Oriental | 15 Regina Road Central | tel. +852 2132 006 | www.amberhongkong.com

 

10. Tali Wiru a Uluru, Australia

Nella lingua dei pitjantjatjara, gli aborigeni  del Deserto Centrale, tali wiru significa “bella duna”. Questo open-air pop-up promette un menu unico a base di antichi prodotti del territorio, servito sulle dune e sulla roccia. Sono diversi gli chef che parteciperanno al progetto, tutti di provenienza locale. Con il suggestivo panorama del deserto a fare da cornice ci saranno aperitivi, cene di 4 portate e racconti tratti dalla cultura indigena. Un’occasione unica per assaggiare una cucina insolita, con piatti tipici delle tribù pitjantjatjara rivisitati per l’occasione.

Tali Wiru | Yulara NT | 175 Yulara Dr | tel. +61 2 8296 8010

 

www.edition.cnn.com/2017/05/04/foodanddrink/culinary-pop-ups-around-the-world

 

a cura di Francesca Fiore

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


Maggio all'insegna del bere bene: 4 interessanti eventi dedicati al vino

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Maggio: tempo dei primi caldi e di germogliamento delle viti. E mentre l'attesa per i nuovi frutti si fa sempre più trepidante, appassionati ed esperti di tutta Italia si impegnano a diffondere la cultura del bere bene attraverso eventi specializzati. 

Naturale – Salone del vino artigianale - Capestrano (AQ)

Continua a destare l'attenzione di sommelier, produttori ma anche dei consumatori più attenti all'ambiente il vino naturale, prodotto in maniera sostenibile ma che non rinuncia al gusto. E cresce di conseguenza anche il numero di eventi dedicati: ne è un esempio il Mercato dei Vini di Roma, festival organizzato da FIVI che si propone di radunare i migliori produttori naturali nazionali, in scena il 13 e 14 maggio 2017, come vi avevamo già anticipato qui. Nello stesso fine settimana, in Abruzzo, il Salone del vino artigianale, giunto quest'anno alla sesta edizione, chiama a raccolta diversi vignaioli indipendenti, da Nord a Sud. Un viaggio nell'articolato universo vitivinicolo, fatto di assaggi liberi, degustazioni guidate e seminari, rassegna di grandi etichette, uniche come le annate, i territori e le persone che le producono. A ospitare l'evento è il Convento di San Giovanni di Capestrano, in provincia di L'Aquila, struttura di metà Quattrocento completamente immersa nel verde più incontaminato dell'Appennino. Tante bottiglie in assaggio, accompagnate dalle specialità gastronomiche del territorio realizzate da piccole aziende artigianali locali. Degustazioni a parte, durante la manifestazione sarà possibile partecipare a due seminari con Sandro Sangiorgi, fondatore della casa editrice Porthos Edizioni e dell’Associazione Porthos racconta, che spiegherà le basi dell'analisi sensoriale, offrendo ai visitatori un approccio emozionale e profondo all'assaggio del vino.

Le anime del Verdicchio 2017 - Roma

È tutta dedicata al bianco marchigiano per antonomasia la fiera capitolina del prossimo 11 maggio: Le Anime del Verdicchio torna per il secondo anno consecutivo all'hotel Westin Excelsior di Roma, portando nella Capitale il gusto delle diverse sfumature del vitigno più amato delle Marche. A organizzare l'evento, la redazione di Cucina & Vini che, in collaborazione con l'IMT, Istituto Marchigiano di Tutela Vini, raduna per l'occasione oltre 60 etichette diverse. Una giornata per riscoprire la cultura enogastronomica delle Marche a tutto tondo, a cominciare dal Verdicchio – sia nella denominazione di Jesi che in quella di Matelica – per finire con i prodotti tipici del territorio che potranno essere degustati in abbinamento, dai cartocci di cremini alle olive ascolane fritte al momento, dal salame di Fabriano alla schiaccia marchigiana farcita con i salumi locali. Un'occasione unica per confrontarsi con le tante anime del vitigno che, come spiega il direttore di Cucina & Vini Francesco D'Agostino, “si distingue per un linguaggio estremamente riconoscibile, per livelli medi di qualità molto alti e per vette di straordinario valore, carattere e longevità che lo rendono il più importante bianco d'Italia e lo pongono nella ristretta cerchia dei grandi vini bianchi del mondo”.

Vino e Arte che passione! - Roma

Fra i legami più indissolubili che contraddistinguono il mondo dell'enogastronomia, un posto d'onore lo merita sicuramente quello con l'arte. Da sempre, l'atto del mangiare e del bere viene catturato nelle opere di grandi artisti, assumendo così un ruolo che supera la dimensione puramente nutrizionale del pasto, sconfinando nella sfera emotiva, culturale e sociale di una comunità. Ed è proprio questa stretta interrelazione fra vino e arte che la manifestazione ideata da CT Consulting Events si propone di sottolineare. Con l'obiettivo di riunire in uno stesso spazio le migliori aziende vinicole e le collezioni d'arte privata, Vino e Arte che passione! torna domenica 21 maggio per una seconda edizione all'insegna del gusto nel Casino dell'Aurora Pallavicini, gioiello del barocco romano degli inizi del Seicento situato all'interno del complesso architettonico di Palazzo Pallavicini Rospigliosi, in passato sede delle Terme di Costantino, proprio di fronte al palazzo della Presidenza della Repubblica. Oltre 50 realtà produttrici saranno protagoniste di una degustazione organizzata in concomitanza con una visita guidata alle opere d'arte. Saranno l'affresco de l'Aurora di Guido Reni, i dipinti di Luca Giordano, Annibale Carracci, e tutte le sculture della sala centrale, dalla Minerva alla Diana cacciatrice, a impreziosire ancora di più gli assaggi. Non mancheranno, inoltre, due seminari dedicati alla degustazione di olio extravergine di oliva a cura di Simona Cognoli, proprietaria di Oleonauta, oleoteca nel cuore di Ostia Lido, Roma.

Cantine a Nord Ovest – evento itinerante

Nell'Italia Settentrionale è Slow Food Piemonte e Valle d'Aosta a organizzare la manifestazione dedicata al vino che coinvolge ben cinque località diverse. La serie di appuntamenti è cominciata lo scorso marzo e, dopo il successo delle prime tappe, Cantine a Nord Ovest continua ora il suo percorso per promuovere i vini del Piemonte, da quelli più noti come Barbera e Dogliani a quelli meno conosciuti come il Timorasso, Gavi, Grignolino ed Erbaluce. Si comincia il prossimo 7 maggio a Caluso, Torino, con una giornata dedicata all'Erbaluce e si prosegue poi domenica 28 a Casale Monferrato, in provincia di Alessandria, dove andrà in scena un evento focalizzato sul Grignolino. E così via fino all'8 ottobre, giorno in cui la manifestazione farà la sua tappa conclusiva a Dogliani (Cuneo), per valorizzare l'omonimo vino locale. Passando per altre due province alessandrine, Tortona e Novi Ligure, per un totale di cinque diversi comuni. Un festival originale che offre ai più curiosi l'occasione di scoprire non solo profumi e sapori nuovi, ma anche paesaggi mozzafiato, territori affascinanti, prodotti gastronomici di nicchia e ricette della tradizione regionale.

Cantine a Nord Ovest | evento itinerante | dal 7 maggio all'8 ottobre 2017 | cantineanordovest.com/

Le anime del Verdicchio | Roma | via Veneto, 125 | 11 maggio 2017 | www.cucinaevini.it/le-anime-del-verdicchio/

Naturale – Salone del vino artigianale | Capestrano (AQ) | 13-14 maggio 2017 |  www.naturalesalonedelvino.it

Vino e Arte che passione!  | Roma | via Ventiquattro Maggio, 43 | 21 maggio 2017 | www.facebook.com/events/408017652912427/

a cura di Michela Becchi

 

Milano: Pavé compie 5 anni. Analisi di un successo

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Diego Bamberghi, Giovanni Giberti e Luca Scanni: i tre soci di Pavé ci raccontano il segreto del successo che in 5 anni ha trasformato un laboratorio di pasticceria in uno dei punti di riferimento milanesi: 3 sedi con un'offerta differenziata e un modello che fa gola a molti.

Sono in tre, Diego Bamberghi, Giovanni Giberti e Luca Scanni. Sono loro che, un lustro fa, hanno dato vita a un progetto che unisce attenzione per il design e grande qualità del prodotto, un'atmosfera come si fatica a trovare in Italia e grande solidità imprenditoriale. 

paveI soci di Pavè

 

Parliamo di Pavé, che in 5 anni ha triplicato sedi e offerta. Come ci sono riusciti? Lo abbiamo chiesto direttamente a loro inanellando questa lunga intervista in cui, per una volta, si parla di azienda, numeri, dipendenti e economie e non di panettoni, farine e lievitazioni. Pavè poi, non dimentichiamolo, in questi 5 anni oltre ai favori del pubblico ha scalato anche le classifiche anche e soprattutto per quanto riguarda il Gambero Rosso sia per quanto concerne la parte di bar e pasticceria sia per la neonata attività sul gelato, appena aperta e già considerata dalla nostra guida tra le migliori gelaterie d'Italia.

 

pave

Diego, Giovanni, Luca. A chi dei tre è realmente venuta l'idea? In che modo?

Più che l’idea di qualcuno si è trattato del momento vissuto da tutti. Non eravamo particolarmente felici dei nostri lavori e delle prospettive, avevamo iniziato a lavorare nel pieno del periodo di crisi che non lasciava grande spazio alla possibilità di mettersi in gioco con delle idee. Contemporaneamente avevamo viaggiato, visto locali che sentivamo molto genuini e liberi, informali, e attenti alla persona. Così ci siamo chiesti se non si potesse creare un posto che rispecchiasse le nostre personalità nei prodotti, nell'ambiente e nella tipologia di servizio. Un posto totalmente informale. Il punto focale naturalmente sarebbe stato il cibo, il momento sacro la colazione.

 

Siete partiti lancia in resta o avete fatto qualche, anche rudimentale, analisi di mercato?

Abbiamo fatto analisi di mercato nella maniera più naturale: colazioni su colazioni e pranzi su pranzi. Avremo messo su parecchi chili in quel periodo. Ma il grosso del lavoro, in realtà, è stato fatto su un’area di Milano totalmente differente da dove è Pavé, perché in un primo momento avevamo provato ad aprire in un’altra zona. Poi il progetto non si è concretizzato, ma quel lavoro sul campo fatto di catalogazione, analisi di spese medie, studio e tempi del servizio è servito a darci degli strumenti impiegati qualche mese dopo.

 

E quindi poi come avete lavorato per la scelta del quartiere?

Il quartiere ha scelto noi! A parte gli scherzi, la scelta è stata del tutto casuale: Giovanni stava andando in bicicletta qui quando ha visto un cartello “Affittasi”. Il giorno dopo siamo entrati a vedere lo spazio e in un paio di giorni lo abbiamo bloccato perché perfetto per le nostre esigenze. È stato un po’ un salto nel buio, certo. Nessuno di noi è di Porta Venezia o di zone limitrofe. Abbiamo però avuto la fortuna di scoprire un’area che per storia e conformazione ben si poteva sposare con la nostra offerta. Porta Venezia è un quartiere multietnico, popolare, creativo, in cui convivono diversità e in cui prendono forma novità: si è rivelato un quartiere dove ci saremmo trovati bene, insomma.

 

Tre soci. Sempre paritetici?

Sempre paritetici, certo.

 

pere ee cioccolato

Quali le rispettive professionalità? Chi fa cosa?

Abbiamo da sempre la fortuna di essere, ognuno, un terzo completamente diverso e complementare degli altri due.

Giovanni: io mi occupo della linea di produzione in laboratorio, del prodotto, di tutto quello che esce dal laboratorio. Sono il pasticcere e naturalmente il mio ufficio è il laboratorio, assieme ai miei ragazzi;

Diego: mi occupo della componente amministrativa e commerciale, del rapporto con i fornitori e degli acquisti di Pavé;

Luca: mi occupo di tutto ciò che è la comunicazione del marchio, oltre alla gestione dei contratti dei dipendenti.

 

Come sono stati i primissimi mesi. E soprattutto quali sono state le più complesse difficoltà affrontate e risolte.

I primissimi mesi di lavoro sono iniziati prima di alzare la saracinesca: settimane e settimane di ricerca delle materie prime, degli arredi, oltre che di gestione burocratica dell’attività. Sono stati mesi bellissimi in cui abbiamo raccontato, in una specie di diario di viaggio, l’avvicinamento all’apertura. Lo abbiamo fatto un po’ per fare conoscere la nostra storia ancor prima di aprire e un po’ per non sentirci totalmente soli. E se “soli” non fosse la parola giusta allora usiamo la parola “spaesati”. Molli il lavoro, investi quello che hai in una pasticceria, decidi di indebitarti, inizi a scontrarti con permessi e carta bollata: la paura ti viene. Poi passa. Diciamo che essere in tre ha aiutato a non mollare. Non sappiamo se da soli ce l’avremmo fatta. Perché le procedure e le attese sono snervanti.

 

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Siete passati da 4 dipendenti a decine e decine. Quale è la cosa più difficile, trovare persone in gamba o pagarle cifre accettabili visto il cuneo fiscale e i costi folli del lavoro in Italia?

Trovare persone in gamba e che sposino la causa è una delle cose più difficili. La proporzione di successo ai colloqui è di uno su quindici, nel senso che uno su quindici è interessante sulla carta ma poi bisogna vedere anche sul campo come è la resa.

Quanto agli stipendi iniziamo con l’essere chiari: i costi sono altissimi e sbilanciati. Però non è difficile pagare le persone cifre accettabili. È semmai difficile far quadrare i conti. Sono cose molto diverse. I costi da sostenere per l’azienda sono vergognosi ma questo non deve essere un motivo per contratti fittizi vergognosi. Sempre che uno degli obiettivi aziendali sia la creazione di valore nella sua accezione più ampia. Per noi lo è.

 

Quali scelte dei primi mesi non rifareste?

Probabilmente rifaremmo tutto. Questo vuol dire che di errori ne abbiamo commessi (fornitori sbagliati, spese sbagliate, persone sbagliate) ma anche che i passi falsi ci hanno fatto raddrizzare il tiro per la volta successiva. Fare impresa è fare scelte, migliorandole.

 

In che preciso momento avete capito che le cose si stavano mettendo per il verso giusto?

Abbiamo capito fin da subito che stava funzionando ma tuttora non pensiamo che le cose siano messe per il verso giusto. Non per pessimismo ma per rispetto del mercato e degli equilibri di cui vive. Perché più le cose si fanno grandi e più l’equilibrio diventa difficile da mantenere. Avere le cose che si mettono per il verso giusto significa per noi far funzionare le cose. Una volta che funzionano è il turno di farle funzionare meglio. Se ti fermi ti mangiano, inizi a perder colpi.

 

Quando la vostra azienda ha raggiunto per la prima volta il break even?

Dopo qualche mese, anche se non siamo la tipica azienda facile da studiare sotto il profilo costi/ricavi. Ogni anno abbiamo reinvestito o in macchinari o in spazi per andare incontro alla domanda. Al secondo anno abbiamo allargato il laboratorio, al terzo abbiamo lavorato sull’ufficio, al quarto abbiamo investito per la gelateria e il secondo punto vendita di pasticceria. Avremo sempre a che fare con costi importanti, abbiamo sempre creato un punto zero all’inizio di ogni anno per ripartire. Ogni gennaio ci si trova e ci si dice: “Come è andata? La struttura attuale tiene botta? Potevamo fare meglio? In che modo potremmo fare meglio?”. E via, si riparte.

 

Siete nati un lustro fa, quando la città di Milano stava iniziando a spiccare il volo trasformandosi in quello che è (o appare) oggi, una piccola metropoli finalmente internazionale e inserita nei ritmi e nelle dinamiche di un occidente evoluto, lontano dai difetti e dalle tare mentali di certa Italia. E forse siete stati anche voi uno dei simboli di questo rinascimento. Un vostro pensiero sulla crescita della città dal 2012 a oggi.

Abbiamo sempre pensato che Milano fosse bellissima e con un alto potenziale. Ora si vede il suo splendore. Ed è commovente perché avevamo sempre pensato di fare qualcosa qui e di non lasciarla, nonostante tutti ne parlassero male. L’uscita dal buio è iniziata attorno al 2010, con realtà imprenditoriali giovani e tangibili nel tessuto cittadino. Sono state di ispirazione anche per noi visto che nel 2011 ci siamo seduti a un tavolo per capire come creare Pavé.

La più grande soddisfazione per Milano crediamo sia rappresentata non tanto da Expo in sé quanto dai mesi precedenti e successivi. I mesi precedenti hanno visto fiorire attività su attività in campo food e i mesi successivi hanno visto realtà giovani e nuove mantenere alta l’offerta qualitativa su Milano. In mezzo c’è stata una speculazione in ambito ristorativo da mettersi le mani nei capelli. Molti posti hanno chiuso. Moltissimi posti gestiti da under 35 hanno invece tenuto e sono cresciuti. Ottimo segnale.

pave

In questo quadro entra la riflessione dei ragazzi di Pavé sul quartiere che lo ospita. Come è? Come è cambiato? Come dovrà cambiare?

È un quartiere ad alto potenziale. Già da tanti anni. Ci sono vie che hanno iniziato prima, come Panfilo Castaldi o Lazzaro Palazzi. Ora crescono Via Felice Casati, via Tenca, Viale Vittorio Veneto. Ci sono nuovi locali, una popolazione giovane, una vita notturna di livello. Manca forse il coraggio di fare un passo forte in ottica di pedonalizzazione. Quella cosa per cui si lamentano sempre tutti, dai commercianti ai residenti con le macchine, senza pensare al volano positivo che un’operazione di questo tipo può generare.

 

Spesso si viene da voi e più della metà delle persone parlano lingue diverse dall'italiano. Cosa è successo?

Abbiamo avuto la fortuna di essere inseriti da subito in diverse guide italiane e straniere. Il New York Times ci ha dato sicuramente una grossa spinta, parlando di noi nel 2014. Siamo anche molto vicini alla Stazione Centrale e capita spesso che i turisti vengano, incuriositi dal nostro arredamento bizzarro in un tratto di via ancora abbastanza desolato. Il passaparola funziona, i blog che recensiscono le colazioni della città pure. In generale gli stranieri da noi sono in aumento perché sono in aumento i turisti su Milano. E ne siamo felici.

 

Come hanno vissuto il vostro oggettivo successo i commercianti vostri vicini di casa?

Con i commercianti della zona si è creato un legame molto bello. Ci si conosce, si è amici. Si conferma, insomma, l’anima popolare di Porta Venezia e quella sua capacità di generare “vita di quartiere”. Credo che non ci sia uno studio del successo altrui. Credo che ognuno si auguri il meglio per il suo vicino.

 

I riconoscimenti delle guide e della stampa di settore sono funzionali anche al business oppure servono esclusivamente a rinsaldare il morale della squadra e ad accrescere un astratto concetto di prestigio e autorevolezza?

Sono funzionali dal momento che diventi un oggetto da testare e provare. I riconoscimenti fanno sempre piacere e ti permettono di condividere con la squadra traguardi, ripagando le fatiche di questo lavoro. Il riconoscimento dell’impegno è importate. Contemporaneamente, classifiche e riconoscimenti ti mettono maggiormente sotto una lente di ingrandimento: la maggior considerazione fa sì che chi entra nel tuo locale lo faccia dicendo “ora vediamo proprio se questi qui valgono come si dice in giro o se son tutte fesserie”. Devi essere ancora più attento. Ma è una bella sfida da raccogliere.

 

Nel 2015/2016 grandi investimenti per aprire il secondo punto vendita (Pavé Break) e la gelateria. Avete fatto tutto da soli? Avete chiesto alle banche? Avete fatto entrare nuovi finanziatori?

Abbiamo chiesto un finanziamento a breve termine in banca e ci è stato concesso sulla base della solidità acquisita dal primo Pavé. I numeri iniziavano a darci ragione, il lavoro in via Felice Casati era buono e ha fatto da naturale garanzia. La strada dei finanziatori esterni al momento snaturerebbe la nostra essenza. Già in tre amici a volte è dura. Pensa aggiungerci la testa di uno sconosciuto. È la fine.

 

Con tre punti vendita quali sono i principali problemi organizzativi e quali sono invece i principali vantaggi logistici e di ottimizzazione.

Il problema fondamentale è proprio la logistica e il coordinamento della stessa. Partiamo dal presupposto che lo spostamento della merce in bicicletta sia più snello e sostenibile e ci affidiamo a corrieri su due ruote. E a volte gli spostamenti sono delicati. Ma ci stiamo organizzando bene e dopo il primo anno i miglioramenti ci sono stati.

 

È aumentato, invece, il potere contrattuale verso certi fornitori?

Più che potere contrattuale verso i fornitori aumenta la materia prima necessaria per tre locali e aumentano le economie di scala.

 

pav

Ora state un po' fermi o già ci sono nuove idee di sviluppo?

Vorremmo stare fermi, migliorarci sulla gestione e pensare serenamente al 2018. Usiamo il condizionale perché lo scorso anno tutto è nato dal caso e da alcune occasioni fortuite. Quindi, benché tu ti imponga di non fare nulla, sei in balia degli eventi e saranno loro a metterti di fronte a scelte, treni che passano, opportunità o idee divertenti da sviluppare. Finora è stato così. Forse questo lavoro è così. Qualche idea pazza in cantiere c’è, molto lontana, ma c’è. Però si tratta di sogni, non di business. Magari un giorno ve lo diciamo.

Tra le vostre molteplici attività (caffetteria, ristorazione, drink&aperitivi, confezionati e consegne, panificazione) quale è quella con maggior margine di guadagno e quello, invece, che si fa anche se sarebbe quasi conveniente non farlo?

 

I margini più alti come sempre avvengono con l’alcool e quindi ti risponderemmo “aperitivo” anche se noi siamo una attività un po’ anomala che punta alla preparazione espressa di quasi tutta la sua offerta con conseguenti costi. Non è per noi conveniente il delivery del fresco su città e nonostante diversi operatori di Milano si siano proposti come partner non ce la sentiamo proprio. Per due motivi: il primo è che il nostro prodotto risente di viaggi e tempi; il secondo è che le trattenute di commissione dell’operatore su prodotti da forno o di tavola fredda azzererebbero ogni margine.

 

Tutti si lamentano tantissimo della burocrazia. Riguarda anche voi?

La burocrazia è una cosa imbarazzante. Hanno provato a facilitare negli ultimi anni giusto perché con Expo c’era bisogno di far aprire chiunque. Rimangono però delle difficoltà nella comunicazione tra impresa e istituzioni. Nei comuni hanno ancora i faldoni cartacei e alcune comunicazioni si fanno con il fax, nel 2017.

 

Sparate un aneddoto, ci sarà no!?

Altroché! Settembre 2014, il Comune ci multa per dei sacchi della spazzatura. Non sono nostri ma del condominio quindi andiamo dai vigili per contestare. Firmiamo tutte le carte e chiediamo come si risolverà la cosa e in quali tempi. “Guardate, al momento stiamo analizzando le contestazioni del 2012, siamo a quelle di due anni fa, vi faremo sapere”. Ti viene chiesto tutto e subito. Ti viene risposto poi e male. Sempre che ti sia data una risposta.

 

Al di là della burocrazia, quale è stato l'episodio o il momento più spiacevole di questi anni?

L’inizio, i primi giri in banca per il finanziamento. La sensazione di essere trattati come tre ragazzini di 30 anni che chiedono i soldini per un giocattolo. Ti sedevi nella filiale e ti facevano aspettare. Dovevano trovare un buco in agenda per incontrarti. Dopo il primo anno invece hanno cominciato a contattarti. “Vogliamo naturalmente essere coinvolti nei vostri prossimi passi, fateci sapere cosa volete fare”, hanno iniziato a dire. È buffo.

L’altra botta grossa l’abbiamo presa prima di trovare l’attuale Pavé di via Felice Casati. Avevamo avuto la possibilità di proporre il nostro progetto al proprietario di uno spazio in pieno centro ma non ha funzionato: poco credibili e a detta sua non sostenibili. È andata bene così, Porta Venezia ci rispecchia di più.

 

pve

In qualsiasi contesto internazionale una storia come la vostra vive in maniera “indipendente” per qualche mese, forse un paio d'anni, ma poi arrivano i fondi di investimento che comprano una quota considerevole, ricoprono d'oro i fondatori e iniziano ad aprire punti vendita in giro per il mondo. Avete resistito oppure non c'è stata proprio una proposta?

Finora abbiamo avuto a che fare con singoli imprenditori che ci hanno proposto aperture spot fuori dall’Italia che non ci sembravano tutelare la cosa più importante: il prodotto. Per il futuro ci farebbe piacere confrontarci con fondi di investimento e capire cosa hanno da proporci, come ragionano, cosa vorrebbero. Sarà però importante mantenere il focus sull’aspetto per noi fondamentale che ribadiamo ancora una volta: la qualità di prodotto.

 

Al di là di fondi, investitori, finanziatori, come è possibile che un marchio studiato come il vostro e con un marketing e una art direction così peculiare non abbia scalato all'estero in così “tanti” anni? Credete che sia impossibile standardizzare e mantenere la qualità aprendo anche lontano da Milano?

Il nostro marchio e il nostro progetto è molto “estero”, se vogliamo. La standardizzazione dei nostri prodotti è però la cosa più difficile. Come dicevamo prima, la tutela della qualità di prodotto è l’aspetto più complesso che merita uno studio molto approfondito. Non basta avere qualcuno che ti promette di aprire a Londra o New York. Ci vogliono strumenti, economici e non solo, per garantire che la brioche mangiata a in Via Felice Casati sia buona come quella mangiata nel Pavé di Boston.

Il nostro piccolo primo passo è stato quello di misurarci col secondo punto vendita milanese e vi assicuriamo che è stato un grosso scoglio nonostante la distanza fosse di soli cinque chilometri.

 

Da un po' di tempo la vostra impresa ha superato il milione di euro di fatturato all'anno, con che investimento iniziale siete partiti?

Siamo partiti con un investimento di 250mila euro circa. Quasi tutto è andato in macchinari di laboratorio e lavori di ristrutturazione. Da lì la scelta di arredo di recupero. Potevamo fare tavoli su misura bellissimi e avere impastatrici scarse. Abbiamo fatto la cosa più sensata: il contrario.

 

Spesso imprenditori di qualità e corretti in Italia vivono male l'essere circondati da concorrenti che o non pagano le tasse o non pagano i dipendenti o non pagano i fornitori. Finendo per attuare una concorrenza slealissima e scorretta. Vi è mai capitato di avere questa sensazione?

No, viviamo male la scarsa premialità nei confronti di chi fa le cose bene. Ma non ci possiamo fare nulla. I nuovi imprenditori under 35 secondo noi si stanno comportando però in maniera molto diversa da chi è venuto prima. Le schiere di stagisti, i fornitori non pagati, i giochetti anni 2000 non fanno parte del bagaglio delle nuove generazioni. Forse perché sono generazioni che hanno vissuto anche dall’altra parte della barricata.

 

A oggi quanti stipendi pagate ogni mese?

24.

 

Quali sono i margini di guadagno di una attività come la vostra? Si riesce a stare tranquilli o è una lotta mese dopo mese?

Star tranquilli è un equilibrio. Si lavora mese dopo mese per mantenere l’equilibrio facendo crescere la macchina, aumentandone ogni aspetto positivo: margini, qualità di prodotto, quantità, valore percepito per chi vi lavora e chi ci viene a trovare. Aspetti soggetti a tantissime variabili: basti pensare alla stagionalità. Gli stipendi da pagare sono gli stessi anche quando ad agosto in pasticceria la gente viene a trovarci di meno.

 

I vostri consigli a ragazzi che, come voi, vogliono provare a intraprendere oggi in Italia. Se doveste motivarli e spronarli cosa direste?

Se avete voglia di provare a far qualcosa e vi brillano gli occhi anche solo all’idea, allora fatelo. Mettete in conto di avere ansie e paure, di far sacrifici e rinunce. Ma fatelo. E puntate tutto su qualità dei rapporti umani e qualità di prodotto. È naturalmente più difficile ma è oggettivamente più distintivo.

 

Chiudiamo pensando ai prossimi 5 anni dopo questi primi 5. Come vedete il progetto Pavé al compimento dei 10 anni di vita nel 2022?

Ci piacerebbe vederlo ancora più ampio, più differenziato su prodotti che ancora non abbiamo toccato. Stabile, strutturato e riprodotto su scala decisamente più ampia. Aprire all’estero rimane un obiettivo reale che ci poniamo, non solo un sogno nel cassetto. E ci piacerebbe che tutto nella percezione delle persone rimanesse come è ora: ragazzi che cercano di fare le cose bene, nel miglior modo possibile, che si tratti di una brioche o di un gelato o di qualsivoglia cosa.

Forse noi tre non saremo più molto ragazzi. Ma ci circonderemo di giovani, sicuro.

 

a cura di Massimiliano Tonelli

 

Pavé | Milano | via Felice Casati 27 | tel. 02 94392259 | www.pavemilano.com

Pavé Gelati&Granite | Milano | via Cesare Battisti, 21 | tel. 02 94383619 | dalle 12 alle 21, tutti i giorni | www.pavemilano.com

Pavé-Break | Milano | via della Commenda, 25| www.pavemilano.com

 

 

I migliori mieli d'Italia. Il Pungiglione di Mulazzo

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Compresa fra Toscana e Liguria, la Lunigiana è una terra vocata all'agricoltura e ricca di prelibatezze. Fra queste vi è anche il miele, ed è proprio quello della Lunigiana che, per primo, ha conquistato la Dop, ben 13 anni fa. La storia della cooperativa Il Pungiglione.

Le origini

La storia della cooperativa Il Pungiglione, azienda apistica di Mulazzo in provincia di Massa Carrara, affonda le sue radici nell'Associazione Comunità Papa Giovanni XXIII. Nata nel '68, la cooperativa ha fin da subito puntato sull'impegno sociale e sull'altissima qualità dei prodotti; da sempre attenta alla cura delle api, lavora secondo i dettami del metodo biologico e ha collezionato, in questi anni, certificazioni, attestati, premi. A raccontarci il percorso de Il Pungiglione è Giuseppe Lucano, che si occupa in prima persona della produzione di miele.

L'Associazione e il progetto Onlus

Per ripercorrere la storia della realtà di Mulazzo non si può prescindere da quella dell'Associazione fondata da Don Benzi sempre nel 1968 e impegnata nel reinserimento sociale di persone che vivono situazioni di emarginazione. Nella cooperativa “l'occupazione nella filiera dell'apicoltura diventa un percorso educativo che aiuta persone svantaggiate a ritrovare un posto nella società e una stabilità positiva nella vita quotidiana”. In che modo? “L'attività lavorativa si integra all'accoglienza residenziale per offrire alle persone in difficoltà una famiglia e una via di integrazione sociale”. Così, la produzione di miele diventa “una misura concreta di responsabilità e un impegno per una comunità che coinvolge gli ultimi e gli esclusi” mentre le case famiglia dell'Associazione Papa Giovanni XXIIIassicurano un ambiente protetto in cui costruire un percorso di integrazione sociale e lavorativa. Strettamente collegato a Il Pungiglione si è sviluppato nel 1999 il progetto Rinascere, centro di accoglienza per adulti, che consente un recupero globale della persona a partire dalla rete di relazioni sociali, accompagnando il singolo nello sviluppo di competenze professionali e nell'inserimento lavorativo. Un progetto che si inserisce in una più vasta rete di servizi su scala nazionale che consente di creare nuove possibilità e dare nuove risorse a persone che vivono l'esperienza detentiva e che devono scontare una pena. “La creazione di un polo altamente specializzato nell'attività complessa dell'apicoltura, contribuisce a integrare persone che per motivi diversi già frequentano Il Pungiglione, dando la possibilità di tessere una relazione tra chi viene definito svantaggiato e chi invece si avvicina solo per motivi professionali”. Un lavoro, dunque, quello del Pungiglione, che va ben oltre la produzione di miele e sconfina nella dimensione etica e nell'impegno nel sociale.

La DOP: acacia e castagno

Ma veniamo alla produzione. Fiore all'occhiello de Il Pungiglione è il miele certificato DOP, sia quello di acacia che quello di castagno. Quello della Lunigiana è il primo miele ad aver ricevuto, nel settembre 2004, la Denominazione di Origine Protetta dall'Unione Europea, e oggi sono circa 40 gli apicoltori certificati, con un parco di oltre 4mila arnie distribuite sui terreni di questa area “economicamente depressa, in cui l'apicoltura rappresenta una risorsa importante”. L'ambiente dell'estremo lembo settentrionale della Toscana è particolarmente vocato all'apicoltura, “perché il basso grado di antropizzazione e il limitato sviluppo industriale hanno preservato le componenti naturali del territorio”. Ogni anno vengono prodotte mediamente 100 tonnellate di nettare degli dei fra 14 comuni della provincia di Massa Carrara. A occuparsi dell'intero processo di lavorazione e confezionamento di tutto il miele DOP della Lunigiana è la cooperativa.

L'acacia viene raccolta dalle ultime settimane di aprile alle prime di maggio, “si caratterizza per la consistenza liquida, il colore molto chiaro, l'odore leggero e il sapore decisamente dolce con una leggerissima nota acidula”. Dal gusto più netto e persistente invece il miele di castagno, “di color ambra scuro con tonalità rossastre, con un odore forte e penetrante e una componente amara più o meno accentuata”. Quest'ultimo viene raccolto dalla seconda metà di giungo alla prima metà di luglio.

La vendita

E nonostante Il Pungiglione produca anche un miele biologico senza certificazione, “la nostra linea base, realizzata in parte con materie prime nostrane e in parte con nettare ricavato da altre zone”, i prodotti di punta restano sempre le due DOP. Come canale di vendita, oltre all'e-commerce, “che funziona molto bene grazie a una sezione dedicata sul nostro sito”, la cooperativa ha scelto la Gdo, “per venire incontro alle esigenze dei consumatori”anche se i loro mieli certificati DOP e bio non si trovano in tutti i supermercati: “Siamo presenti principalmente nei vari punti Esselunga, e poi in alcuni del gruppo Pam Panorama e Conad, principalmente fra le città al Nord Ovest della Penisola, e poi in qualche Coop”.

Gli abbinamenti

Ma come abbinare queste due specialità? “Il miele di castagno è ottimo con il pane casareccio e si abbina bene alla caciotta toscana e al parmigiano”, mentre quello di acacia “è un ottimo dolcificante per la colazione”perché, grazie alla sua delicatezza, è in grado di rendere più dolci bevande calde come tè e tisane senza snaturarne il gusto. Per il classico accostamento con i formaggi, invece, Giuseppe consiglia di giocare per contrasto, abbinandolo a dei latticini dal sapore intenso come il gorgonzola e il pecorino.

Il Pungiglione | Mulazzo (MS) | loc. Buceda | 01 87850022 | www.ilpungiglione.org/sito/

a cura di Michela Becchi

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Conoscere e capire il miele: glossario essenziale

 

Pier Daniele Seu a Ostia per tutta l'estate. La pizza tonda al Plinius

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Ostia, quartiere periferico della Capitale sul litorale romano. È qui che approda per tutta la stagione estiva uno dei giovani pizzaioli più talentuosi del momento, Pier Daniele Seu. Alla prova in uno degli stabilimenti storici del lungomare.

La crescita gastronomica del litorale romano

Continua il fermento gastronomico sul litorale romano. Dopo l’arrivo di Stefano Callegari e Flavio al Velavevodetto insieme a La Spiaggia dei Coqui di Fregene per portare il gusto della tradizione romana e dello street food capitolino per eccellenza, il Trapizzino, in occasione della riapertura stagionale degli stabilimenti ci sono buone nuove in arrivo anche qualche chilometro più a sud, località Ostia. Una novità che conferma ancora una volta il momento propizio per la ristorazione delle località balneari laziali, in particolare nella provincia di Roma che, per molti anni, era rimasta ancorata a modelli obsoleti, e ora finalmente pronta a sfruttare il suo potenziale. Nel tratto di costa che va da Civitavecchia a Nettuno, la cultura gastronomica più tipica è indissolubilmente legata al pescato del giorno. Una cucina schietta, influenzata al contempo dalla vicina tavola romanesca, basata su piatti semplici ma dal carattere ben definito. Ma il nuovo che avanza può stupire con effetti speciali.

La pizza a Ostia

E proprio sull’onda di questa rinascita il giovane talento della pizza tonda, Pier Daniele Seu, arriva a Ostia con le sue creazioni. Un ritorno a casa per Seu che, ostiense doc, ha lavorato da sempre nel cuore della Città Eterna, da Gazometro38 nel quadrilatero del Porto Fluviale all'ultima recente avventura al Mercato Centrale di Termini, che sembra aver già ingranato: “Un'esperienza positiva e diversa per me, che fin dall'inizio ho sempre sperimentato e giocato con gli ingredienti mentre qui mi ritrovo a preparare le pizze classiche, ma molto soddisfacente. La squadra è forte e ben strutturata e il lavoro procede nel migliore dei modi”. E ora i tempi sono già maturi per cercare di replicare il successo nel suo quartiere, dove sarà protagonista per tutta la stagione estiva ospite dello storico stabilimento Plinius, fondato nel 1933. “In realtà l'idea è nata per caso, a seguito di una serie di coincidenze fortuite”, racconta. In particolare, è stata una conversazione con Antonio Gentile, chef del ristorante Red Fish di Ostia, a far scaturire questa nuova collaborazione: “Conosco Antonio da tempo e sono un estimatore del Red. Il suo socio aveva preso da poco in gestione il Plinius e altri stabilimenti del lungomare e, dopo aver assaggiato la mia pizza al Mercato Centrale, mi ha chiesto se fossi interessato a occuparmi della cucina per tutta l'estate”. E così Seu, insieme ad Antonio, “che gestirà la parte gastronomica”, prenderà le redini del ristorante a cominciare dal prossimo 15 giugno.La nuova tavola del Plinius sarà dedicata principalmente alla pizza: “Pizze tonde, bruschette e fritti, una cucina molto semplice ma di qualità”, mentre a coordinare l'intero progetto sarà la fidanzata Valeria Zuppardo. Circa 1400 abbonati estivi garantiranno a Seu un bacino d'utenza molto ampio, “senza contare l’indotto della piscina”, e soprattutto un pubblico nuovo, eterogeneo, che comprende i romani in trasferta ma anche tanta clientela del luogo che non ha ancora avuto modo di provare le sue pizze e spesso resta tagliata fuori dalle dinamiche frenetiche del panorama gastronomico capitolino. “Sono molto felice di portare la mia pizza a Ostia; d'altronde ci vivo da tanto e non ho mai lavorato qui, sarà una bella sfida”. Che si concretizzerà con 5 pizze classiche e 5 creative, “i miei cavalli di battaglia”, più una studiata su misura per il pubblico ostiense, la Gentile vs Seu, “ideata insieme ad Antonio”. Ad accompagnare l'offerta, le birre artigianali di ECB, Eternal City Brewing, “che realizzerà per noi una birra personalizzata per l'estate”.

Plinius | Ostia (RM) | Lungomare Duilio, 17 | 06 56304554 | dal 15 giugno 2017

a cura di Michela Becchi

Chiude il progetto Maple a New York. La crisi del delivery food di David Chang, che cede a Deliveroo

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Poco meno di due anni, tanto è durata l'esperienza del delivery di alta qualità ideato tra gli altri da David Chang per la consegna di cibo a domicilio nell'area di Manhattan. Spese di gestione elevate, food cost insostenibile, concorrenza spietata hanno costretto la start up ad arrendersi al mercato. E arriva il matrimonio con Deliveroo. 

Nascita e ascesa di Maple

Un paio d'anni fa, quando David Chang decideva di intercettare il fenomeno in rapida ascesa del delivery food, è stato facile esaltare la portata innovativa di Maple, start up dal valore di 22 milioni di dollari (quelli strappati alla fiducia di grandi venture capitalist statunitensi) che al genio imprenditoriale della ristorazione americana deve la sua prima apparizione sulla piazza newyorkese, nell'estate 2015. Del resto il servizio di consegna a domicilio studiato da Chang sembrava meritevole sotto diversi punti di vista, proponendo al mercato del delivery service un livello di ottimizzazione nella gestione dell'ordine e della consegna – in tutta l'area di Manhattan – ad oggi ancora difficile da eguagliare: solo 15 minuti di attesa dal pagamento dell'ordine online prima di scartare il proprio pranzo a domicilio. E tutto questo grazie al perfezionamento di un'app che all'epoca richiese svariati mesi di studio. Oltre, chiaramente, alla qualità della proposta gastronomica, una variazione di menu stagionali sviluppati con la supervisione di un board gastronomico e preparati sul momento in una cucina dedicata nel cuore di New York. Senza per questo gravare sul portafoglio dei clienti: 15 dollari la spesa media per ricevere un pasto completo. Fin qui le premesse. E col passare dei mesi i nuovi acquisti entrati in rosa non hanno fatto che accrescere le aspettative sull'ascesa del progetto, arrivato a coinvolgere Cristina Tosi e i suoi dessert in edizione limitata a firma Milk Bar e Soa Davies – già in squadra nella cucina di Le Bernardin – per l'elaborazione di menu giornalieri sempre diversi. Unica nota stonata l'assestamento del tempo effettivo d'attesa sulla mezz'ora di media. Nulla di troppo preoccupante, tutto sommato, tanto che già all'inizio del 2016 Maple progettava di estendere il proprio raggio d'azione a Midtown.

Le prime difficoltà. Il buco nel bilancio

Qualcosa, però, a ben guardare il registro degli incassi, non è andato come sperato: spese in crescita costante e difficoltà importanti nel racimolare un profitto spendibile per la sopravvivenza dell'attività (anche in relazione all'elevato food cost per il reperimento di materie prime di qualità), che negli ultimi mesi avevano portato all'aumento dei prezzi, all'introduzione di una spesa di commissione, persino a eliminare i biscottini bonus compresi nell'ordine. Ed ecco spiegata la decisione di chiudere bottega – con 10 milioni di dollari di debiti sul conto, si vocifera - in un periodo tutt'altro che roseo per gli affari di Chang, che proprio nelle ultime settimane ha dato alle stampe l'ultimo numero ufficiale (in autunno uscirà uno speciale per tutti i fan del magazine) di Lucky Peach, il progetto editoriale intrapreso 6 anni fa con Peter Meehan e ora arrivato al capolinea. Per Maple analoga sorte: si chiude per l'impossibilità di tener testa alla concorrenza dei grandi, l'industria del delivery food richiede mezzi e strumenti solidi come base di partenza imprescindibile, finanche in presenza di idee originali e iperspecializzazioni, che non sempre ripagano degli sforzi.

Maple chiude. E chiede aiuto a Deliveroo

È il caso di Maple, che ringrazia tutti e si rassegna a consegnare gli ultimi ordini dell'era Chang (l'attività è cessata l'8 maggio), prima di confluire sulla piattaforma di Deliveroo: “è chiaro che dobbiamo interrompere la nostra esperienza in solitaria per fonderci con un partner più forte, che non vanifichi quanto abbiamo costruito fin qui”. Resta l'orgoglio per quanto realizzato, dunque, ma anche la lucidità di guardare in faccia il mercato odierno, sposando la strategia di affidarsi a un gruppo come Deliveroo, “che condivide la nostra filosofia di consegnare cibo di qualità al maggior numero di persone possibile”. Ecco perché parte del team di Maple – compresi i cofondatori Caleb Merkl e Akshay Navle - raggiungerà nei prossimi mesi la base operativa di Deliveroo a Londra, che potrà contare pure sulla tecnologia sviluppata dalla start up americana per perfezionare un servizio ancora più efficiente. Per David Chang, invece, resta ancora in vita la sfida Ando, l'ultimo progetto di delivery service lanciato dallo chef nella primavera 2016. Riuscirà a difendersi dalla concorrenza?

 

a cura di Livia Montagnoli

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