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L’addio di Bangkok allo street food. La guerra agli ambulanti nella capitale del cibo di strada

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Il Paese con una ricca tradizione di street food sta per vietare la vendita di cibo in strada agli ambulanti. È un paradosso, ma è quello che sta succedendo a Bangkok, dove le autorità hanno annunciato di voler “far sparire” carrettini e venditori ambulanti entro la fine dell’anno.

Bangkok e lo street food

Khao pad kung, spicy tom yum soup, laap. Sono alcune fra le specialità di strada di Bangkok, da assaggiare assolutamente durante una visita nella capitale thailandese. Almeno fino alla fine di quest’anno, dal momento che le autorità della città hanno previsto lo smantellamento di tutte le attività che vendono cibo di strada entro dicembre 2017. Una città che per decenni ha messo in mostra l’arte dello street food - tanto da essere nominata per la seconda volta capitale mondiale del cibo di strada dalla CNN - e che ora potrebbe risentire del provvedimento delle autorità, che motivano la decisione con misure di ordine pubblico e igiene. “Tutti i funzionari lavorano già alla completa cancellazione delle attività che vendono cibo in strada, che saranno illegali entro la fine dell’anno” ha spiegato Wanlop Suwandee, consigliere capo del governatore di Bangkok, “Non ci sarà eccezione alcuna: tutti i 50 distretti di Bangkok saranno ripuliti, per restituire i marciapiedi ai pedoni”.

 

Il tentativo di “ripulire la città”

Non è il primo tentativo delle autorità locali in tal senso: da quando si è insediata la nuova giunta militare, in seguito al colpo di stato del maggio del 2014 (il 19esimo nel Paese dall’istituzione della monarchia costituzionale, nel 1932), tutti gli sforzi delle istituzioni si sono focalizzati sul concetto di “pulizia”. Dal commercio del sesso all’abuso di alcol nelle ore notturne, alla corruzione. E nel calderone è finito anche il cibo di strada, vero fiore all’occhiello della città. “Ci hanno già provato anni fa”, ha raccontato al Guardian Chawadee Nualkhair, food blogger di Bangkok, “ma questi tentativi sono falliti per la decisa opposizione dell'opinione pubblica e degli addetti ai lavori, per cui bancarelle e furgoncini sono fondamentali”.

 

La guerra allo street food delle autorità thailandesi

Ma questa volta sembra che l’operazione stia proseguendo senza particolari problemi per le autorità. Il processo è già in atto da mesi in alcuni punti caldi di Bangkok: il famoso mercato alimentare Soi Sukhumvit 38, attivo da 40 anni, è stato smantellato all’inizio dell’anno, per far posto a un condominio di lusso.“Alcuni dei venditori ambulanti sono riusciti ad affittare i seminterrati dell’edificio e quindi a continuare l'attività, ma per la gran parte non è stato possibile, dati gli elevati costi che l’operazione comporta” ha sottolineato Nualkhair. Altro distretto duramente colpito dalle nuove norme è Siam, municipalità che comprende aree famose per lo street food come Chinatown, Yaowarat Road e Khao San Road.

Inoltre, lungo le trafficate vie di Thong Lor e Ekkamai, il divieto di vendere cibo di strada, con decorrenza dal 1 giugno 2017, è stato anticipato al 16 aprile scorso. “Non sappiamo come sarà il nostro futuro” ha raccontato preoccupata Aunty Tao, una delle più celebri venditrici di street food della città “le autorità hanno detto che forse permetteranno ai carrettini mobili di vendere spostandosi spesso da una via all’altra, ma le notizie sono incerte. I chioschi fissi dovranno chiudere o, se vogliono continuare a lavorare, affittare un locale. Ma gli affitti qui sono molto cari”. Un’iniziativa, questa della guerra allo street food, che forse garantirà alle autorità thailandesi di presentare una città “più pulita e ordinata” agli occhi dei turisti, ma che probabilmente toglierà una parte consistente del suo fascino alla metropoli asiatica, oltre a mettere in crisi centinaia di famiglie.

 

 

a cura di Francesca Fiore

 

 

 

 

 


Antonia Klugmann dell'Argine di Vencò è il nuovo giudice di MasterChef Italia

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MasterChef Italia: al posto di Carlo Cracco arriva Antonia Klugmann, la chef dell'Argine di Vencò. Ecco chi è. 

Trentasettenne, triestina ma friulana d’adozione, profondamente legata al territorio, quello del Collio (precisamente a Vencò), dove risiede il suo piccolo ristorante con camere, immerso nel verde del Friuli, tra vigne, frutteti e orto. Una natura bellissima e incontaminata che è tesoro e ispirazione della cucina responsabile di Antonia Klugmann, che guarda alla materia prima come elemento centrale della sua ristorazione. Sarà lei a prendere il posto di Carlo Cracco, a MasterChef Italia - il talent show di Sky prodotto da Endemol Shine Italia - al fianco degli altri giudici, confermati anche per questa edizione, Bruno Barbieri, Joe Bastianich Antonino Cannavacciuolo.

Antonia Klugmann e l'Argine di Vencò

La passione per la cucina arriva come un colpo di fulmine mentre Antonia Klugmann frequenta la facoltà di Giurisprudenza a Milano. È lì che l'obiettivo di vita si fa chiaro, netto: vuole diventare chef. Così muove i primi passi a Pavia di Udine, per poi affinare tecniche e conoscenze al ristorante Venissa sull'isola di Mazzorbo. Un'esperienza fondamentale, che la porta ad approcciarsi per la prima volta con numeri importanti e con l'orto. O meglio i piccoli orti affidati agli abitanti di Burano, dove Antonia sviluppa il suo amore sconfinato per i carciofi, che appena ha potuto, ha piantato anche nell'orto del suo attuale ristorante. Arriviamo così a Vencò: nel 2014 finalmente realizza il suo sogno aprendo L'Argine - quello del fiume Judrio che segna il confine naturale tra Italia e Slovenia - nato recuperando un mulino di fine Settecento. È il ristorante di Antonia Klugmann e di suo marito Romano de Feo, ma è anche locanda con quattro stanze per gli ospiti. Dove l'imprinting, culturale e territoriale, è di confine e il filo conduttore è la natura: anche nel Collio la chef beneficia dei prodotti raccolti tra l’orto e il frutteto di pertinenza, affidandosi anche a piccoli produttori locali per raccontare l’identità di una terra che accoglie da secoli sollecitazioni diverse. Il resto è un dono della natura selvatica che circonda il ristorante. Trovando l'ispirazione non solo nella bontà delle materie come gusto al palato, ma anche nella loro bontà come impatto sull'ambiente. Perché per lei un cuoco deve avere il minor impatto possibile sul mondo. La sua cucina, all'insegna dell'equilibrio e del sapore, ne è la conseguenza.

Per quanto riguarda il nuovo impegno (parliamo ovviamente di MasterChef) attualmente trapela la sua soddisfazione, ma per ora non può rilasciare altre dichiarazioni. E noi siamo certi che il suo background e la sua filosofia apportino al talent televisivo una nuova prospettiva. Una ventata di aria fresca, quella del Collio, che noi ci auguriamo non si alteri mai.

 

L'Argine a Vencò | Dolegna del Collio (GO) | Loc. Vencò, 15 | tel. 0481 1999882 – 3381865573 | http://largineavenco.it/

 

a cura di Annalisa Zordan

 

  

Passata di pomodoro. Tutto quello che c'è da sapere

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Tipo San Marzano, ciliegino, grappolo, cuore di bue. Le passate di pomodoro non sono tutte uguali, e neanche gli altri prodotti derivati. Facciamo un po' di chiarezza su prodotto ed etichettatura.

È il colore rosso della bandiera agroalimentare italiana. Figlio dell’estate, di quei due mesi di solleone che vanno da fine luglio a inizio settembre, il pomodoro è protagonista del ricettario italiano. Ma anche fonte di conserve che rappresentano una delle voci più attive e importanti della nostra produzione gastronomica. E di eccellenza, almeno per quanto riguarda le trasformazioni di pregio: pelati, pomodorini, polpa e passata. “Sono conserve ottenute rigorosamente da materia prima fresca e coltivata in Italia, lavorata in azienda entro 24-36 ore dalla raccolta” spiega Giovanni De Angelis, direttore dell’Anicav, Associazione nazionale industriali conserve alimentari vegetali, con 110 aziende associate il più grande organismo di rappresentanza delle imprese di trasformazione di pomodoro. “Pomodori di alta qualità: quelli non idonei e gli scarti della produzione dei pelati vengono trasformati in concentrato tramite lavorazione ad alta temperatura”.

Cosa dice la legge

Se si acquista il virtuoso poker di conserve made in Italy, non si sbaglia: si mangia italiano e dal fresco. Anche la passata, che dal 2006 – per arginare l’importazione di triplo concentrato cinese, acquistato e diluito da industrie italiane disinvolte per preparare la fluida conserva rossa – è tutelata dal Decreto Ministeriale 17/02/2006; tale legge impone che anche la passata sia ottenuta soltanto da pomodoro fresco e obbliga il produttore a indicare l’origine della materia prima impiegata, precisando la regione o lo Stato dove è stata coltivata. “Tuttavia una norma che vale solo per l’Italia ha un’efficacia molto relativa” continua De Angelis “pertanto come Anicav ci siamo fatti promotori della richiesta di estendere, a livello comunitario, l’obbligo di utilizzare esclusivamente pomodoro fresco per la produzione di passata”.

Veniamo agli altri derivati del pomodoro, i concentrati e i sughi finiti, che rappresentano una piccola fetta dei consumi. Se sul mercato interno il 56% dei derivati del pomodoro è rappresentato dalla passata, il prodotto più venduto seguito dalla polpa (24%), dai pelati interi (15%) e dai pomodorini (3%) – dati IRI al 31 dicembre 2016 – al concentrato va l’1,5% mentre agli altri derivati, cioè sughi pronti e salse a base di pomodoro, solo lo 0,5%. Eppure basta buttare un occhio agli scaffali dei supermercati per rendersi conto che quest’ultimo settore è in grande espansione. Su questi derivati dei rossi ortaggi estivi non esiste una legge che obblighi l’indicazione di origine della materia prima, come per pelati, pomodorini, polpe e passate.

 

omodori

Il concentrato triplo di pomodoro cinese

Non vogliamo pensare male, ma l’assenza di informazioni sulla provenienza dei pomodori e il vuoto legislativo in tal senso lasciano perplessi: perché sulle passate sì, e su concentrati e sughi finiti no, solo l’indicazione di dove avviene la trasformazione? Né si può ignorare l’allarme lanciato da Coldiretti a inizio marzo, dopo la divulgazione dei dati Istat 2016 sul commercio estero da Paesi extracomunitari. “Da gennaio a novembre dello scorso anno sono stati importati 168mila tonnellate di concentrato triplo di pomodoro, con un aumento del 22,3%”entra nel dettaglio Lorenzo Bazzana, responsabile ortofrutta della Coldiretti “mentre dall’altro cantoai produttori italiani di pomodoro viene richiesto di ridurre la superficie coltivata per non creare eccedenze. È una contraddizione! E poi dove va a finire il concentrato triplo?”.

Per capire la destinazione di questo derivato iperconcentrato del pomodoro abbiamo chiesto a De Angelis dell’Anicav. “L’importazione del concentrato triplo può avvenire in due modalità: per via normale, con pagamento delle imposte doganali, o in regime TPA, 'traffico di perfezionamento attivo' o 'temporanea importazione' (concesso dalla UE per agevolare l’attività delle industrie di esportazione comunitarie e renderle più competitive sui mercati internazionali, n.d.r.), a dazio 0: la merce transita ma esce dall'Unione Europea, viene importata da Paesi terzi ed esce in Paesi terzi”. E il concentrato triplo arrivato in TPA dove va a finire? “Chi usa questa modalità, del prodotto può farne quello che vuole. E per la privacy non si può sapere quanto sia stato importato, se in 'temporanea importazione' o no, e quali sono le aziende di trasformazione che l’anno acquistato”. Però si sa da dove proviene. “Quasi la totalità del concentrato triplo importato arriva dalla Cina – precisa Giovanni De Angelis dell’Anicav – però in TPA e lavorato solo per essere riesportato in Paesi terzi, primo fra tutti l’Africa. E spesso come 'packed' in Italy e non 'made' in Italy”.

Al di là dei problemi etici e del danno d’immagine che potrebbe subire uno dei settori gioiello della nostra produzione agroalimentare, c’è anche in ballo la sicurezza alimentare. Scorrendo la Relazione sul sistema di allerta per gli alimenti redatta dal Ministero della Salute per l’anno 2015, emerge che “lo Stato che ha ricevuto il maggior numero di notifiche per prodotti non regolari è la Cina”. Non resta che aspettare sviluppi sulla trasparenza della provenienza dei pomodori per tutti i suoi derivati, non solo per pelati, pomodorini, polpe e passate, norma del resto invocata dalla stessa Anicav. Del resto, come dice Bazzana della Coldiretti, “l'etichettatura è l'elemento di maggiore democraticità che esista: consente di fare scelte consapevoli e libere”.

Il vestito del food

Se il packaging è il vestito del prodotto, la passata di pomodoro offre un guardaroba quattro stagioni di abiti di tutte le taglie, le misure e i colori. Basta scorrere con lo sguardo gli scaffali dei supermercati. “La comunicazione di un'azienda, intesa come brand design, è uno dei lavori più complessi che ci siano” spiega Carlo Angelini, che 30 anni fa ha fondato l'omonima agenzia di graphic design con sedi in Italia, Francia e Cina; tra i sui progetti più importanti nel food: Garofalo, Amarelli, Simply, Lindt, Bertolli, Chinotto Neri. “L'obiettivo è quello di dare al prodotto una personalità forte e trasparente. Deve comunicare la mission in modo chiaro, raccontare una storia credibile e appassionante, avere il dono della sintesi ed emozionare. In inglese si direbbe tasty, appetibile. E riportarci al savoir-faire gastronomico italiano-mediterraneo”. Purtroppo molte aziende dell’agro-alimentare, compresi gli artigiani, tendono all’improvvisazione: poca coerenza tra immagine e sostanza, scarsa chiarezza su materie prime e lavorazione, su marchio e reale produttore. “La corrispondenza tra 'abito e monaco' è fondamentale. La sfida è essere contemporanei pur parlando di eccellenza produttiva e artigianato, esprimere la propria personalità cercando di osare, di incuriosire il consumatore, di anticipare le tendenze”.

pomodori

Passate a prova di chef

Che caratteristiche deve avere la passata per ricette d'autore? “Di pomodoro San Marzano, non troppo concentrata, fatta con l’attenzione e l'amore della nonna. Quando la passata è buona, si sposa bene con ogni piatto!”. Così in sintesi il fluido oro rosso secondo lo chef campano Antonino Cannavacciuolo, volto noto grazie a fortunati programmi televisivi di cucina e patron del ristorante-hotel Villa Crespi sul lago d'Orta, 3 forchette del Gambero Rosso e 2 stelle Michelin. Come già è avvenuto per vino, olio, miele, acqua e cioccolato, si stanno delineandofigure di intenditori anche nel settore del pomodoro. Due anni fa Mutti, azienda leader del comparto, in sinergia con gli chef dell'Associazione Jeunes Restaurateurs d’Europe ha stilato una specie di manifesto del Sommelier del Pomodoro per individuare l'impiego ad hoc per le tre principali trasformazioni industriali del pomodoro: la polpa, la passata e il concentrato. “Triplo concentrato per dare dolcezza, corpo e struttura, per esempio nel ragù di carne alla bolognese” spiega Marcello Trentini, chef patron del ristorante Magorabin di Torino e Sommelier del Pomodoro“Una passata fine e setosa va bene per il ragù napoletano, abbastanza fluida perché deve pippiare per molte ore. La versione rustica, grezza e meno acquosa, con tracce di semi e bucce e acidità più bassa, è ideale per sughi dalle cotture brevi e con il pesce. Per il classico pomodoro e basilico cotto al volo ci vuole un pomodoro molto dolce, una varietà terroir come il ciliegino, la butalina piemontese, il cuore di bue, il pomodorino vesuviano, intensa, molto dolce e con acidità calibrata”.

Varietà e lavorazione: industria e artigianato

Le differenze tra conserve di pomodoro industriali e artigianali spesso partono dal campo. In genere su entrambi i fronti vengono impiegati pomodori ibridi rossi: quelli lunghi a lampadina (i “tipo” San Marzano, per intenderci) per fare i pelati, quelli rotondi per le passate. Ma per conserve gourmet, con caratteristiche di sapore particolari o d'altri tempi, bisogna rivolgersi alle produzioni di nicchia, alle piccole e medie aziende che selezionano varietà autoctone e territoriali, magari coltivate nel proprio pezzo di terra. Se le conserve di San Marzano (che si fregiano della Dop nei pelati), di ciliegino e datterino vengono prodotte anche dalle grandi industrie, situate soprattutto in Campania, quelle di altre varietà inconsuete e “terroir” sono terreno esclusivo dei piccoli produttori. Per esempio di pomodori pizzutello, fiaschetto, pera, regina, corbarino, del piennolo, cuore di bue, prunill, riccio di Parma... Altra grande differenza la lavorazione.

La passata industriale è ottenuta “dalla concentrazione del succo di pomodoro con tecnica hot break ed è caratterizzata da una elevata percentuale di solidi solubili e insolubili, al fine di garantire una buona consistenza e viscosità del prodotto”spiega Giovanni De Angelis, direttore dell’Anicav. Le piccole aziende di qualità lavorano il pomodoro a bassa temperatura per conservarne la fragranza, gli aromi, la consistenza e il colore, talvolta con cottura dell'ortaggio in acqua, e non al vapore, e pastorizzazione a bagnomaria. Ne derivano prodotti che, come è emerso dalla degustazione comparativa delle passate di cui vi parleremo a breve, sono meno concentrati nella struttura, più chiari, con profumi, aromi e gusto freschi che richiamano quelli del pomodoro appena raccolto.

 

a cura di Mara Nocilla

foto di Francesco Vignali

 

Articolo uscito sul mensile di Marzo 2017 del Gambero Rosso. Per abbonarti clicca qui

 

 

 

 

Graukäse della Valle Aurina, il formaggio più magro del mondo

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Un formaggio che nasce dalla necessità di riutilizzare il latte avanzato dopo la produzione del burro, che coagula senza alcuna aggiunta di caglio e ha bassissimi livelli di grasso. Vi raccontiamo il Graukäse della Valle Aurina.

La storia del Graukäse

Un prodotto molto antico, nato in Valle Aurina e poi diffusosi nelle valli a essa collegate, come la Selva dei Molini e Rio Bianco. Il Graukäse è un formaggio a latte crudo vaccino che fa parte del gruppo dei sauerkäse, specialità dell’arco alpino tirolese che coagulano senza l’utilizzo del caglio, ma grazie all’acidificazione del latte (cagliata acida o lattica). Si tratta di un prodotto antico: per trovare la prima fonte che testimoni l’esistenza di questo prodotto si deve risale al 1325, con i registri di Castel Badia (Sonnenburg), che elencano le preparazioni locali da produrre per la nobiltà tirolese, tra cui viene citato anche il Graukäse, in particolare quello di Rio Bianco, all’epoca considerato il migliore. Un formaggio prodotto storicamente dalle donne, per un motivo ben preciso: “Il Graukäse ha bisogno di essere riscaldato lentamente, quindi impiega molto tempo” spiega Agnes Laner, del Caseificio Mittermair, “dal momento che la cucina era il luogo delle donne erano loro a badare alla produzione, mentre gli uomini si occupavano del lavoro in malga”.

 

Il legame con la Valle Aurina

La Valle Aurina è una valle (e un comune allo stesso tempo) appartenente alla provincia autonoma di Bolzano: afferisce sia della Val Pusteria che della Val di Tures ed è considerata una delle zone più incontaminate d’Italia, grazie anche alla corona di montagne che la circondano e che si ergono sopra i 3 mila metri. Gli abitanti di queste valli si sono divisi per secoli fra la tradizione della malga e la “vocazione” alla miniera (è famosa la miniera di rame di Predoi, il comune più a nord, in funzione dal 1400 al 1971). Un territorio fatto di uomini e donne dalla volontà di ferro e dal palato abituato a sapori decisi, lontani dai fronzoli delle tavole mondane, che hanno conservato quasi del tutto intatti usi, costumi e tradizioni. E il Graukäse si inserisce perfettamente in questo quadro: prodotto esclusivamente in alpeggio da giugno a settembre, prevalentemente in piccoli masi di montagna, sviluppa durante la stagionatura muffe grigio-verdi naturali che regalano al formaggio un profilo aromatico-gustativo intenso e deciso.

 

Graukäse

 

Il suo nome in tedesco, letteralmente formaggio grigio, deriva proprio dal colore delle muffe, anche se diverse fonti sostengono che potrebbe essere anche legato alla parola grab, grossolano, con un riferimento alla sua particolare consistenza.“Il formaggio grigio” racconta Guenther Niederkofler, del maso Knoll, “oggi è considerato un prodotto di nicchia, ma in Valle Aurina è da sempre fonte di sostentamento. È ideale per un territorio difficile come questo: grazie al Graukäse i produttori storici hanno trovato il modo di non sprecare il latte scremato, di creare un formaggio senza nessuna materia prima proveniente dall’esterno, che fosse conservabile per i mesi invernali”.

Oggi il Graukäse si produce in tutta la Valle Aurina (Toul) e nella Valle di Tures (Tauferer Tal), comprese le valli laterali come Selva dei Molini (Muehlwald), Lappago (Lappach), Rio Bianco (Weissenbach) e Riva di Tures (Rein), in provincia di Bolzano.

 

Tecnologia di produzione e aspetti tecnici

Il Graukäse della Valle Aurina è uno tra i formaggi più magri, se non il più magro al mondo: la materia grassa sul residuo secco non supera il 2%, cosa che dona al prodotto un tenore di circa 150 calorie per etto. Una caratteristica dovuta dal tipo di materia prima utilizzata per produrlo: il latte residuo della lavorazione del burro. Oltre al prodotto di base, da cui poi si ricaverà il formaggio, la tecnica di produzione del Graukäse ha diversi aspetti peculiari, legati alle tradizioni della sua zona d’origine.

 

Graukäse del masoGraukäse Moserhof

 

Si parte dal latte di vacca, “tradizionalmente di razza pinzgauer o pustertaler” spiega Michael Oberhollenzer, del Caseificio Moserhof, “ma nei primi del ‘900 si iniziano ad utilizzare anche la grigia alpina, la bruna e la pezzata rossa (Simmenthal)”, che viene scremato e lasciato a riposare per due giorni affinché acidifichi in maniera corretta: in questo lasso di tempo si possono aggiungere dei fermenti lattici per aiutare la coagulazione acida.

Avvenuta la coagulazione, la massa viene riscaldata molto lentamente e portata fino a un massimo di 55 gradi. La cagliata - dalla consistenza molto friabile - viene quindi estratta a mano, grazie a un telo di cotone o di lino, e poi appesa per favorire la spurgatura. Dopo circa mezz’ora viene frantumata con le mani è a questo punto che la massa emetterà una sorta di sibilo, quasi uno squittio: è il suono del formaggio “che canta”, come dicono i malgari tirolesi.

La cagliata, molto fragile, viene raccolta a mano con l’aiuto di un telo di cotone o di lino e appesa per favorire lo spurgo, cioè la perdita dell’eccesso di acqua, quindi messa negli stampi. A questo punto c'è la fase della salatura, solitamente a secco, l’aggiunta del pepe (non presente in tutte le lavorazioni) e la pressatura a mano, fondamentale perché lo spurgo avvenga correttamente. Alcune forme, quelle destinate al consumo fresco, non vengono pressate.

 

La stagionatura

Di solito il Graukäse stagiona in una cassa di legno” racconta Agnes Laner, “che viene coperta da una ‘rete’ (tipo zanzariera). Per farlo maturare bene c'è bisogno di alte temperature, ma solo all’inizio: quando inizia a diventare giallo viene lasciato stagionare ulteriormente, ma a temperature più basse. Le forme che maturano più a lungo hanno gusto più particolare e complesso”.

La stagionatura prevede dunque in due fasi. La prima, circa 10 giorni, è fatta in ambienti temperati (circa 25 gradi) e con l’umidità naturalmente presente. Le forme non vengono pulite per non eliminare le muffe, fondamentali per lo sviluppo delle qualità organolettiche del Graukäse, ma rivoltate spesso per evitare stagnazioni all’interno della pasta. Trascorso questo tempo la stagionatura viene interrotta e le forme portate in un ambiente più freddo (con almeno 10 gradi di differenza), dove continueranno a maturare per circa 12 settimane. In Val Venosta si utilizza un procedimento diverso - stagionatura a caldo su fieno - ormai quasi scomparso.

 

Graukäse con cipolle

 

È in questa fase che il Graukäse sviluppa muffe fungine grigio-verdi, che gli doneranno il suo particolare profilo aromatico e gustativo. Ma non tutte le forme sono destinate ad una lunga stagionatura, come sottolinea Agner Laner: “Ci sono due tipi di Graukäse, il più celebre forse è il ‘pressato’, che stagiona almeno un mese (ma può arrivare anche a 12 mesi di maturazione) e diventa giallo solo esternamente. Poi c’è il fresco, che prende la forma dalla ciotola in cui viene messa la cagliata, si può mangiare anche dopo 10 giorni appena e somiglia quasi a una ricotta. I due prodotti hanno un sapore molto differente”.

 

Aspetto, profilo organolettico e abbinamenti

Il Graukäse viene prodotto in tagli che variano fra 1 e 4 chili, solitamente di forma cilindriche o di parallelepipedo. La crosta - assente nelle versioni più fresche - è sottile, rugosa e screpolata e dal caratteristico colore grigio-verde con riflessi azzurrini. La pasta ha una consistenza particolare: non è completamente compatta e in alcuni casi tende al friabile (anche per questo in Valle Aurina non sono pochi a chiamarlo “ricotta”), untuosa, attraversata da crepe e screpolature, considerate del tutto regolari per questa tipologia di formaggi (in generale le cagliate lattiche tendono ad avere una pasta poco compatta).

Man mano che stagionatura aumenta sulla crosta del Graukäse si sviluppano muffe fungine naturali, presenti nei luoghi di maturazione, che permettono al formaggio di esprimere una personalità complessa e intensa. Si parte dal latte cotto, con note erbacee e vegetali fresche che si trasformano rapidamente in note di fieno e stalla pulita. Sempre presente la nota fresca e agrumata, che nella parte finale dell’assaggio lascia il posto a una piccantezza elegante, equilibrata. In generale, è considerato un formaggio un po’ lunatico: il baricentro del sapore può spostarsi da un punto ad un altro, secondo l’alimentazione delle vacche e la mano del casaro.

 

Graukäsesouppe

Ma qual è il modo migliore per cogliere appieno le sue caratteristiche? “Nella versione originale il Graukäse si mangia a fettine, condito con olio, aceto e cipolla”, sottolinea Niederkofler, “ci sono poi dei piatti che potremmo definire tradizionali, come i pressknödel, i canederli pressati, ma anche la zuppa di Graukäse, le torte al formaggio o l’accoppiata con la polenta”. Sono tanti gli abbinamenti che si possono fare con questo prodotto: si trova perfettamente a suo agio con le verdure estive (melanzane e zucchine soprattutto), con le pere in particolare la varietà William, con i chutney di cipolle e le mostarde di pomodori verdi, fino agli accostamenti più moderni e “azzardati” come quello con il pesce crudo o il sushi.

 

Dove comprarlo

Il Graukäse si vende prevalentemente in maniera diretta nei caseifici di produzione, sono gli abitanti delle valli, i molti turisti che attraversano la Valle Aurina e agli appassionati di formaggi che percorrono chilometri per conquistare questa specialità.

 

indirizzi

Caseificio Knoll | Selva dei Molini (BZ) | Lappago 205 | tel. 0474 685 003 | www.hotelknoll.eu/caseificio.htm

Caseificio Moserhof | Valle Aurina (BZ) | Cadipietra, 4 | tel. 0474 652274 - 348 35 47 329

Caseificio Mittermair |Selva dei Molini (BZ) | Mittermair, 57 | tel. 0474 653 389 -338 87 37 161

Caseificio Hofer Schneider | Valle Aurina (BZ) | San Giovanni | Hirnerhof, 226 | tel. 0474 671 162

 

 

a cura di Francesca Fiore

Country Food a Roma e FUD a Napoli. Il ponte del 25 aprile tra filiera corta e artigiani del gusto

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Due appuntamenti per due grandi città, decise a rinnovare il legame con la terra e con i buoni prodotti del territorio. Il 25 Aprile, al Parco della Mistica, ospiti della Fattoria Capodarco, va in scena la festa della ristorazione d'eccellenza di quartiere; il 22, a Porta Capuana, si ritrovano i piccoli produttori della Campania. Chi c'è e come partecipare. 

Country Food al Parco della Mistica

Il successo delle edizioni precedenti lo conferma: trascorrere una giornata all'aria aperta circondati dai migliori artigiani del gusto della piazza romana può essere un'ottima soluzione per godere di un po' di relax in famiglia. E un'idea intelligente per il 25 aprile. Tanto più che per il terzo anno consecutivo il parterre riunito per onorare l'appuntamento con Country Food al Parco della Mistica, in casa dell'azienda agricola Capodarco, promette grandi soddisfazioni a chi è sempre in cerca di cibo buono, genuino e garantito. L'iniziativa organizzata dai Sarti del gusto andrà in scena anche quest'anno nel giorno della Liberazione, dalle 11 fino al tramonto in compagnia di ristoratori e artigiani di tanti quartieri della Roma più periferica - da Tuscolana a Centocelle, da Tiburtina a Prenestina, a Trionfale – che testimoniano un fermento gastronomico diffuso in città. Del resto proprio la Tenuta della Mistica, 33 ettari di terreno tra Tor Sapienza, Tor Tre Teste e Torre Maura, rappresenta da qualche anno un riuscito modello di valorizzazione del territorio urbano a partire dalla riqualificazione agricola, che passa dalla gestione della Fattoria di Capodarco su terreni pubblici assegnati in gestione da Roma Capitale.

 

Chi c'è, cosa si mangia

E nel cuore del parco martedì 25 aprile si incontreranno Roberto Liberati – la macelleria di riferimento del quartiere Tuscolano – Giancarlo Casa con la pizza della Gatta Mangiona da Monteverde, le ragazze di Food on the Road, che la sfida del delivery food di qualità l'hanno intrapresa diversi anni fa al Trullo, e oggi conducono anche un bel punto vendita in zona Laurentina. E ancora Gabriele Bonci in team con Gerardo Roccia di Pork'n'Roll per il panino generoso di Casa Braciola – una ciabatta farcita rigorosamente di carne di maiale e affini – la pasta fresca di Mauro Secondi, la pizza dei fratelli Sancho da Fiumicino, i fritti di Pastella, le focacce ripiene con i prodotti dell'orto della Fattoria Capodarco, il gelato di Da Re, dal quartiere Trieste. Mentre all'esordio, dalla caffetteria bistrot di viale Marconi, torte della nonna e sfizi salati di Cafè Merenda. Da bere la birra di Eternal City Brewing, impianto artigianale di Corviale, e le birre a marchio Vale la Pena dei detenuti del carcere di Rebibbia. A corredo mostre fotografiche con scatti storici e contemporanei della città, laboratori e mini corso di botanica, attività per bambini. Ingresso gratuito e acquisti in gettoni da un euro.

FUD al chiostro di Porta Capuana. Fresco, urbano, differente

Ma il fine settimana che precede il ponte del 25 Aprile sarà all'insegna delle produzioni di qualità anche a Napoli, dove il Chiostro di Santa Caterina a Formiello, da un anno fulcro del progetto di riqualificazione Made in Cloister, aprirà le porte a FUD, Fresco Urbano Differente. L'appuntamento è per sabato 22 aprile, dalle 10 alle 16, con le produzioni artigianali di qualità che da anni lavorano sul territorio campano riunite nel chiostro cinquecentesco di Porta Capuana trasformato in food market, per la vendita e l'assaggio dei prodotti esposti (al Cloister bar, brunch con le materie prime in arrivo dai banchi). Per un incontro a tu per tu tra produttori e consumatore, con realtà d'eccellenza del territorio regionale, dalla Masseria della Contessa di San Martino Valle Caudina (AV) per erbe selvatiche e ortaggi al pane di Soul Crumbs (pochi metri più in là del chiostro), dalla stracchinata della Fattoria Savoia di Roccabascerana, in Irpinia, alle conserve della Masseria Guida di Ercolano, ai salumi de La Tradizione di Sorrento. La giornata conclude un ciclo di quattro appuntamenti, a ingresso gratuito, che ha visto alternarsi tante piccole realtà campane, attirando un gran numero di curiosi all'ex Lanificio di Porta Capuana. E anche per il prossimo sabato si preannuncia un'affluenza numerosa: per il brunch è gradita la prenotazione.

 

Country Food 2017 | Roma | Parco della Mistica, via Tenuta della Mistica, snc | il 25 aprile, dalle 11 al tramonto | ingresso gratuito | www.countryfoodmistica.it

FUD | Napoli | Chiostro di Santa Caterina a Formiello, piazza Enrico de Nicola, 48 | il 22 aprile, dalle 10 alle 16 | tel. 081 447252 | www.madeincloister.it

 

a cura di Livia Montagnoli

Il made in Italy in etichetta. Via libera per latte e formaggi, ora imperversa la battaglia del riso

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Entra in vigore oggi il decreto che sancisce l'indicazione d'origine, condizionamento e trasformazione in etichetta per tutti i prodotti lattiero caseari. Una normativa che privilegia la tracciabilità e la filiera nazionale, anche se non del tutto risolutiva. Intanto anche la risicoltura italiana potrebbe seguire l'esempio, per difendersi dall'invasione orientale. 

Etichetta trasparente per latte e formaggi

Origine, luogo di pastorizzazione e di trasformazione. Della nuova normativa che avrebbe regolamentato le etichette del latte sul territorio nazionale si parlava da tempo, da quando all'inizio di dicembre scorso i ministri Martina e Calenda approvavano il decreto risolutivo. Da oggi il provvedimento entra in vigore per tutti i prodotti lattiero caseari – latte, burro, yogurt, latticini e formaggi - che dovranno riportare in etichetta l'indicazione d'origine della materia prima secondo quanto disposto dal decreto 15/2017 del ministero delle Politiche Agricole in attuazione del regolamento UE 1169/2011. Soddisfazione unanime che accomuna il ministro Maurizio Martina e il presidente di Confagricoltura Massimiliano Giansanti, come tanti produttori italiani che da tempo si appellavano al diritto alla trasparenza per il consumatore, in difesa del made in Italy sul territorio nazionale, ancor prima che sui mercati esteri. Certo, bisogna sottolinearlo, un'etichetta che distingue il latte vaccino, ovicaprino, bufalino e di altra origine animale (UHT compreso) in tre diverse categorie – Italia, Paesi Ue, Paesi non Ue – è solo un primo passo verso la responsabilizzazione della filiera casearia.

Si può fare di più

E questo perché, inevitabilmente, un cappello così ampio come “Italia”, sotto cui canalizzare tutta la produzione (mungitura, condizionamento e confezionamento) di latte entro i confini della Penisola, è piuttosto generica, finisce per comunicare poco la reale origine della materia prima, e ancor meno dirime la questione qualitativa, finendo per appiattire differenze e peculiarità, considerando che la fotografia dell'Italia lattiero casearia può nascondere situazioni anche molto diverse tra loro, per serietà e bontà del lavoro. Salvo quanto già prevede il disciplinare dei prodotti a marchio Dop, Igp e Stg, tutelati da un regime specifico di tracciabilità. E fermo restando il traguardo importante sancito dal decreto, e rimarcato da Coldiretti, che parla di “momento storico”, a fronte di una situazione finora indecifrabile, “con tre confezioni di latte su quattro a lunga conservazione straniere, senza che nessuno lo sappia”. Mentre da oggi, secondo i dati Ismea, il consumatore disporrà di informazioni in più sull'origine delle materie prime di oltre 500mila formaggi non Dop. Un verdetto non scontato, visto che attualmente l'Italia è il più grande importatore mondiale di latte, con l'equivalente di 24 milioni di litri che ogni giorno varcano la frontiera nazionale, tra cisterne, semilavorati, formaggi, cagliate e polveri di caseina. Il prossimo passo auspicabile? Per esempio informare il consumatore sulle modalità di allevamento e nutrizione degli animali, proprio per segnalare dove sta davvero di casa la qualità.

 

La battaglia del riso

Intanto -  sotto a chi tocca - tiene banco proprio negli ultimi giorni, l'ultima puntata di una battaglia per la trasparenza della filiera che i risicoltori italiani hanno ingaggiato da tempo. Il settore è in crisi, e nonostante l'Italia resti il principale produttore di riso in Europa con 15 milioni di quintali ogni anno (8 milioni solo in Piemonte) da Oriente – Vietnam e Thailandia principalmente - nel 2016 sono confluiti sul mercato nazionale 244 milioni di chili di riso a basso costo, che mettono in ginocchio i produttori italiani. La situazione odierna, fa presente il dossier #SosRisoItaliano di Coldiretti, è conseguenza dell'azzeramento dei dazi per i Paesi che operano in regime Eba disposto dall'Ue, che ha determinato un'impennata delle importazione, dal 35% del 2008/2009 al 68% del 2015/2016. Il 13 aprile scorso, la protesta è arrivata a Roma e Maurizio Martina non si è fatto trovare impreparato, anticipando l'imminente approvazione di un decreto per la sperimentazione dell'obbligo di indicazione d'origine in etichetta per il riso italiano (dal luogo di coltivazione del risone allo stabilimento di trasformazione). E promettendo al contempo di perorare la causa dei risicoltori davanti al Parlamento europeo, chiamato a introdurre clausole di salvaguardia per frenare l'invasione del riso extra Ue e tutelare i ricavi dei produttori.

 

Tracciabilità e promozione

Molti, intanto, invocano che al settore – una delle filiere di qualità dell'agroalimentare italiano – sia dato il respiro che merita, con una campagna di promozione che sensibilizzi i consumatori su una materia ancora poco conosciuta come il riso, le peculiarità della filiera e le realtà d'eccellenza (perché anche nel “calderone” risicolo nazionale, sono 4263 le aziende registrate su un territorio di 237mila ettari, bisogna rimarcare le debite differenze) che tramandano una tradizione radicata in diverse regioni della Penisola, dal triangolo d'oro piemontese Vercelli-Novara-Biella (qui, per esempio, parlavamo degli Aironi) alle risaie sarde dell'Oristanese, alle distese di arborio, carnaroli, vialone di Pavia. La speranza, insomma, è che l'Ente Risi, oggi a detta di molti spogliato di autorevolezza e strumenti di valorizzazione del settore, torni a essere trait d'union e ambasciatore di un comparto “da primato, per qualità, tipicità e sostenibilità”.  

 

a cura di Livia Montagnoli

I consigli dell'oste. Daniele Minarelli dell'Osteria Bottega e la mortadella di Ennio Pasquini

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Il patron dell'Osteria Bottega ricorda Ennio Pasquini, scomparso ieri a 83 anni, gran parte dei quali passati nel laboratorio e spaccio di Bologna a produrre mortadelle.

Il viaggio a tappe alla scoperta di prodotti e produttori selezionati dagli osti più bravi d'Italia, premiati dalla nostra guida Ristoranti d'Italia 2017 con i Tre Gamberi, fa tappa a Bologna per ricordare il re della mortadella Ennio Pasquini, morto ieri all'età di 83 anni. Ce ne parla Daniele Minarelli, chef e patron dell'Osteria Bottega a Bologna.

Daniele Minarelli

All'Osteria Bottega è ormai diventata una meta fissa per chi vuole rivivere l'atmosfera verace di quella che è la Bologna dei ricordi, delle osterie aperte fino a tardi, dall'ambiente spartano e accogliente, dove si giocava a carte per tutto l’arco della giornata, con l’oste che passava in giro fra i tavoli. Il locale di Daniele Minarelli è proprio così. E il merito è principalmente suo, con il suo piglio cortese e mai invadente, che indirizza il cliente nella scelta dei piatti più meritevoli di giornata. Daniele rappresenta la vera Bologna della tradizione, e la sua identità quella dell'oste di una volta, che il rapporto con i fornitori lo ha alimentato negli anni quasi in modo maniacale. Quando gli chiediamo di consigliare un prodotto o un produttore, Daniele, non ha alcun dubbio: “La bottega nasce per enfatizzare i prodotti della zona, essendo a Bologna è impossibile non citare la fantastica mortadella di Pasquini”. Questo succedeva un paio di giorni fa appena. Prima cioè che si sapesse della morte del grande artigiano Ennio Pasquini. Così abbiamo voluto ricontattare l'oste affabulatore, nel miglior senso del termine, per farci raccontare il suo ricordo del re della mortadella.

Ennio Pasquini

Ennio era un vero bolognese. Lo chiamavamo orsaccio per via della sua indole burbera, ma in realtà dietro quella scorza coriacea c'era un uomo onesto e dai principi saldi. Ancora non posso crederci sia venuto a mancare, giuro che dimostrava sì e no sessantacinque anni!”. Effettivamente, nonostante Ennio fosse del 1934, lo si continuava a vedere all'opera nel suo laboratorio e spaccio di via Tofane, mentre trafficava con spalla, gola, trippino (ovvero lo stomaco del suino), rifilatura di prosciutto e di pancetta di suini italiani, sale, aglio, spezie. Per una mortadella bella e buona, dall'impasto omogeneo e compatto di un bel colore rosa intenso e vivace, con un bouquet delicato, persistente e complesso, dalle piacevoli note dolci. Un gusto pieno ed equilibrato di carni e spezie, e una consistenza morbida, umida e al tempo stesso corposa. La sua era (e rimane) la quintessenza della mortadella, prodotta in tiratura limitata. “In laboratorio ti accoglieva dicendo: “io faccio poca roba, se non l'avete ordinata non ce n'è”. Non gli importava nulla di chi avesse di fronte. Lui era così, sincero e diretto. Un vero artigiano che elevava a protagonista il suo prodotto, senza lasciarsi minimamente sopraffare da mode o tendenze”. Da oltre cinquant’anni Ennio produceva mortadelle, dopo gli inizi insieme a Roberto Brusiani, suo suocero e maestro salumiere. Poi, col tempo, la sua bottega era diventata un porto sicuro per gli acquisti artigianali, tra cui anche pancetta, salame, zampone, salsiccia, coppa di testa e il goloso salame rosa, tipico insaccato bolognese che appartiene alla famiglia dei salumi cotti, confezionato con carni suine di prima scelta tagliate a punta di coltello, lavorato a mano; ormai raro da trovare sulle tavole della zona. Si può dire fosse l'ultimo salumiere artigiano in città. “Lui è il mito, e il mito non si tocca”. E resta nei ricordi.

 

All'Osteria Bottega | Bologna | via Santa Caterina, 51 | tel. 051 585111

Pasquini & Brusiani | Bologna | via delle Tofane, 38 | tel. 051 6143697 | www.pasquiniebrusiani.com

 

a cura di Annalisa Zordan

 

I consigli dell'oste

Michele Vallotti e i salumi di Vanni Forchini

Gherra e Vergano del Consorzio di Torino e la carne della Macelleria Brarda

Giovanni Milana di Sora Maria e Arcangelo e i formaggi di Marzia Molinari

Luca Casablanca di Tischi Toschi a Taormina e le conserve ittiche di Adelfio 

 

 

Ricordando Nello Baricci. Addio a uno dei produttori che ha reso celebre il Brunello di Montalcino

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Una vita trascorsa tra le vigne, sulla collina di Montosoli, dove negli anni Cinquanta la famiglia Baricci aveva acquistato il Podere Colombaio. Scompare a 95 anni un grande produttore, che il Brunello di Montalcino l’ha reso celebre nel mondo.

Un precursore nella storia del Brunello

Nello Baricci del Podere Colombaio di Montosoli a Montalcino, è scomparso all’età di 95 anni – era del 1921- in ospedale a Siena. Con lui se ne va uno degli ultimi esponenti della generazione che ha dato inizio alla moderna storia del Brunello di Montalcino. Nella metà degli anni Cinquanta la campagna italiana stava vivendo un momento di grande trasformazione e la crisi della mezzadria spinse molti ad acquistare le terre che avevano lavorato da generazioni. La famiglia Baricci – erano ex mezzadri – aveva acquistato grazie alla Cassa Contadina, il Podere Colombaio sulla bella e vocata collina di Montosoli. Nello con grande tenacia sistemò e ampliò i vigneti esistenti – arrivando poi a 3 ettari- e ristrutturò casa e cantina. Nel 1971 la prima annata di Brunello che in precedenza aveva trascorso oltre che nel legno, un periodo in vasche di cemento di un incredibile rosa shocking, difficili da dimenticare. Vini d’Italia 1989 che per la prima volta gli assegnò i Tre Bicchieri per il Brunello di Montalcino 1983 scrisse che il suo era stato “un successo costruito faticosamente, giorno per giorno, a incominciare da tempi non sospetti quando il Brunello non godeva della odierna notorietà”. Era nato un piccolo produttore, che si distingueva per pulizia di vinificazione e naturale piacevolezza accompagnata da un tocco di rusticità che nel corso degli anni non si sarebbe mai persa, ma solo affinata. Bellissimi gli incontri tra Nello e Giulio Gambelli, incaricato dal Consorzio di girare per le cantine per dispensare consigli: mentre Nello, di cortesia innata, aspettava il suo commento quasi con trepidazione, non sapeva che Giulio prima di varcare la soglia mi aveva già anticipato il suo giudizio dicendo “Qui è sempre bono”.

La nascita del Consorzio

Nello Baricci nel 1967 è stato uno dei 24 fondatori del Consorzio del Vino Brunello di Montalcino. Per molte piccole aziende del territorio, non solo ex mezzadrili, è sempre stato un punto di riferimento in quanto artefice che ha contribuito alla crescita e successo internazionale del grande rosso toscano. Patrizio Cencioni, presidente del Consorzio parlando di lui ha detto che “il suo impegno, i suoi consigli, la sua disponibilità sono sempre stati per tutti noi una risorsa preziosa così come la qualità e l’eccellenza dei suoi vini. Lo ricorderemo portando avanti i valori e la saggezza che hanno sempre caratterizzato il suo lavoro e la sua persona. Valori che ha saputo trasmettere alla famiglia”. Vini d’Italia 2013 ha premiato il suo Brunello 2007 poi nel 2015 il Brunello 2009, nel 2016 il Brunello 2010 e infine nel 2017 il Brunello di Montalcino Riserva 2010 Nello. La scheda di Baricci in Vini d’Italia 1989, finiva così: “Dei vini della collina di Montosoli se ne sentirà parlare parecchio nei prossimi anni, parola del Gambero Rosso”. E così è stato. In questo momento siamo vicini ai suoi nipoti Federico e Francesco, oggi alla guida dell’azienda. Ciao Nello, grazie per la gioia che il tuo Brunello ci ha saputo donare.

Il  funerale si svolgerà giovedì 20 Aprile  alle ore 15 presso la Chiesa della Madonna del Soccorso a Montalcino.

a cura di Andrea Gabbrielli


LSDM 2017 report. Prima giornata: Apreda, Colonna, Piras, Alija

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Libertà, condivisione, contaminazioni, tradizioni, amarcord. E ancora tecnica, creatività, innovazione. Primo giorno di LSDM a Paestum. 

I giovani

Un incontro a più voci apre la decima edizione de Le Strade della Mozzarella, ed è una partenza ad alta velocità, quella che porta sul palco, insieme a Barbara Guerra e Albert Sapere, ideatori e anima della manifestazione, 6 giovani talenti della nostra cucina. A loro il compito di tentare, per primi, una risposta al quesito posto da LSDM quest'anno: è possibile conciliare quantità e qualità? Ma il discorso si fa subito più ampio, e riguarda il futuro stesso della cucina italiana, la possibilità di costruire una nuova scena gastronomica forte e indipendente. A definire il panorama della ristorazione di domani, di cui si hanno concrete espressioni già oggi, Oliver Piras (AGA), Luca Abbruzzino (Ristorante Abbruzzino), Marco Ambrosino (28 posti), Martina Caruso (Signum), Lorenzo Stefanini (Ristorante Giglio) e Floriano Pellegrino (Bros). Quella che è emersa è una generazionale consapevole - non solo della propria cucina ma anche del ruolo della figura professionale nella società - capace di dirimersi nell'eterno dualismo tradizione-innovazione con un approccio disincantato e mai manicheo, sensibile alle tendenze internazionali, e allo stesso tempo capace di interpretarle senza rinnegare radici e territorio, ma – al contrario – valorizzandoli con orgoglio e freschezza, coraggio e qualche (dovuta) intemperanza giovanile.

Gli stranieri

Dalla Spagna alla Slovenia, all'Inghilterra passando per la Germania, sfiorando l'Olanda, la Francia e la Nuova Zelanda. L'onda lunga degli stranieri, in questa edizione di LSDM, si perde in mille rivoli e percorre altrettante strade prima di arrivare a Paestum. Sono tanti gli stranieri di nascita o di adozione, di origini o di suggestioni. Un catalogo di nazioni e sensibilità che pare convergere verso un unico precetto, che vorremmo sempre più albergasse anche fuori dalla cucina: zero confini. Nessuna barriera. Amore per il territorio, il proprio e quello di adozione, per quella geografia umana fatta di cultura, tradizioni e incontri, e apertura fiduciosa all'altro, a creare una fitta trama di rimandi e infiltrazioni. “Abbattete le frontiere, rompete le regole” dice Josean Alija del Nerua di Bilbao e aggiunge “condividete sempre quel che fate” due moniti che paiono parlare all'esistenza nel suo complesso e non solo alla vita in cucina. Insieme ad Alijaa, c'è un dream team eterogeneo: lo sloveno Tomaž Kavčič del Gostilna Pri Lojzetu di Vipava, la neozelandese di origini danesi di stanza a Londra Anna Hansen (The Modern Pantry), il pugliese MartinoRuggeri oggi a Parigi, al Pavillon Ledoyen, il tedesco Cristoph Bob del Refettorio del Monastero Santa Rosa di Conca dei Marmi e l'italo olandese Eugenio Boer di Essenza di Milano, protagonista in uno dei laboratori. Ognuno segna una linea di incontri e combinazioni. Ognuno sperimenta una cucina nuova nata dal confronto di anime e di territori.

Lo fa Alija (Nerua di Bilbao) quando racconta di una Bilbao che ha saputo affrancarsi da un passato industriale e un declino certo, grazie alle ardite architetture del Guggenheim che ne hanno cambiato non solo il lungofiume, ma anche il destino. Un cambio di passo che il cuoco ha fatto suo quando, nel 2011, ha aperto il Nerua proprio lì, negli spazi sinuosi disegnati da Frank Gehry scommettendo sulla trasformazione dell'idea di alta ristorazione, così come il museo negli anni '90 aveva scommesso su una nuova idea di città. Un cambio di prospettiva che ha una radice semplice: la felicità. Quella del cliente, di Alinja stesso e dello staff della cucina. “Volevo trovare uno stile personale, che mi facesse crescere con gli altri e mi rendesse felice” spiega, e continua “volevo che i clienti potessero partecipare a quel che accade in cucina, divertisti, imparare, stare bene con chi si prende cura di loro”. Così ha cominciato il suo lavoro alla ricerca di un'identità gastronomica che fosse, soprattutto, legame con la materia prima (per il quale ha strutturato un ciclo di tre menu stagionali studiati con un anno di anticipo), ricerca (dal 2003 ha un laboratorio dedicato solo allo studio), unione, gioco ed empatia, legame profondo con i prodotti del suo territorio e apertura verso sapori, prodotti e tradizioni altre. Lo dimostra qui a Paestum, dove si confronta con la parmigiana di melanzane (lavora sulla mozzarella in cubetti che hanno il compito di assorbire gli umori della melanzana), per carpire il cuore di un piatto che, dice, “unisce”.Forse per via del pomodoro su cui ha fatto il lavoro magistrale dei cinque pomodorini ripieni di aromi con sciroppo di acqua di pomodoro e capperi, un esempio cristallino di lavoro sul prodotto e sui fondi, le famose salse di Alija che sono essenza e base dei piatti del Nerua.

Lo sloveno Tomaž Kavčič (Gostilna Pri Lojzetu di Vipava), quarta generazione di cuochi, incarna lo spirito contemporaneo di una cucina che non tradisce le proprie radici – fatte di territori e tradizioni, e anche di confini – ma non ha timore di puntare lo sguardo al domani. Fresco dell'Innovation Award del JRE è il patron del Gostilna Pri Lojzetu di Vipavai. Gostilna, in Slovenia, è qualcosa che si avvicina alla nostra trattoria, ma nel suo nome c'è qualcosa di più: una radice che richiama l'ospitalità, il prendersi cura. Qualcosa che supera i confini del gusto per entrare nell'ambito dell'amore e delle cose belle. Un confine prezioso per chi, come Kavčič, ha visto cambiare più volte nel corso del tempo la bandiera della sua città. La sua è una cucina-madre, fatta di piatti completi che esprimono luogo, momento, persone, una cucina al servizio del cliente (“ci sono troppe primedonne, bisogna ricordarsi che noi cuochi non siamo niente senza i clienti” ammonisce), una cucina del rispetto: “del prodotto, del territorio, delle persone, di dove vivono e di dove vanno”, da una parte all'altra del bancone.

Dalla sua cucina emerge un evidente amore per il prodotto, e in questo caso è quello campano a fare da sponda ai suoi piatti: lo gnocco ripieno di mozzarella; l'Idea di paninoche ricorda il pasto dei pescatori, con alici marinate, formaggio e fili di un'erba che richiama, nel retrogusto, il sapore del grano; e l'ostrica con una perla di mozzarella. In quest'ultimo piatto, al miele il compito di addomesticarne gli aspetti più ostici che non tutti i clienti gradiscono. Anche questo significa prendersi cura di loro.

Anna HansenAnna Hansen

Anna Hansen  (The Modern Pantry di Londra) è l'esponente di un'idea di ristorazione meticcia e responsabile, con un approccio onnicomprensivo alla sostenibilità che riguarda non solo i rifiuti, l'origine delle materie prime, ma anche il ciclo alimentare, i comportamenti virtuosi, il rispetto per i collaboratori, i clienti e le diverse scelte dietetiche o esigenze nutrizionali. Aperta alle contaminazioni per eredità familiare, per via di quella nonna danese che, trasferitasi in Nuova Zelanda negli anni '50, ha dovuto suo malgrado inventare una fusion replicando una cucina nordeuropea con i prodotti dell'altro emisfero. Un imprinting che la Hansen replica a suon di mescolanze di spezie e di suggestioni, attingendo a quell'enorme dispensa che il mondo contemporaneo mette a disposizione. Presenta pane e panelle, e contamina il classico street food siciliano (che ha tanto in comune con molte specialità di mezza Europa) con suggestioni e sapori esotici: “ci sono ingredienti dai 5 continenti qui” sottolinea allegra, e mescola spezie ed erbe aromatiche nel panino che trova un twist con la mozzarella nature e la salsa di tomatillos messicani. Il risultato è un robusto snack, con un equilibrio instabile negli accenti aromatici, ma molto gustoso. Il suo ristorante è semplice, leggero, festoso.

Il viaggio di Cristoph Bob parte dal nord della Germania per giungere, dopo esperienze di rango, in Campania. Una terra che incanta, dove la natura incredibilmente generosa regala panorami splendidi e materie prime straordinarie di cui, nel suo precedente girovagare professionale, non vedeva che timide repliche (“buona, sì, ma qui è straordinaria”). È il fil rouge che collega gli interventi di tutti gli stranieri, questo sguardo ammirato al prodotto mediterraneo che lascia stupiti e, talvolta, incerti sul come elaborarlo. Non per Bob, da 5 anni in quel Monastero Santa Rosa emblema di lusso e semplicità: 50 milioni per 20 stanze il costo di un restauro che ha trasformato il monastero del '600 in uno dei luoghi più esclusivi, incantati e discreti del mondo. Un posto che conserva una sua verità, e che non poteva che inserire il ristorante guidato da Cristoph Bob nell'antico refettorio. E infatti così si chiama il ristorante dell'hotel. Un posto che la clientela internazionale raggiunge per avere, nel piatto, la stessa autenticità e meraviglia che gli si offre allo sguardo. Semplice e lussuoso: “da noi non ci sarà mai foie gras o altri prodotti di questo genere” piuttosto una meravigliosa pasta al pomodoro. Ne dà un esempio nella costoletta di manzo, “wagyu dei poveri”dice lui, che dopo il trattamento che gli riserva, lasciato in acqua e poi cotto al bbq, è un eden di consistenza e sapore. Aromatizzato in cottura dai sassi lavici raccolti sul Vesuvio e poi abbinato a una salsa di mozzarella e a un ragù di radici è un piatto incredibile. Che dimostra la familiarità dello chef con la cucina del gesto, quella a cui non serve la tecnologia, che una volta si chiamava questione di manico. Del resto “la macchina non fa bravo il pilota” dice Cristoph il tedesco. Ci vuole tecnica. Lui l'ha appresa in Francia, alla corte di Ducasse, e la unisce a un'organizzazione teutonica e alla materia prima e lo spirito italiani.

Le radici di EugenioBoer sono il suo passato e il suo presente. Lo sono da sempre, da quando nei suoi piatti ha iniziato a riportare - una dietro l'altra - esperienze di vita e di lavoro: dai sapori conosciuti in quella sua famiglia italo (per un quarto siciliana) olandese, a quanto assorbito nelle esperienze tra Niederkofler, Gaetano Trovato e via dicendo. In questo caso è il suo quarto siciliano a venire a galla. Con la ravazzata che, nell'atelier del fritto - uno dei corner collaterali della manifestazione - mette nel piatto l'impatto opulento e rinvigorente del ragù di maiale, la spuma di ricotta, pane fritto e i piselli appena sbollentati, per dare un tono vibrante a un piatto dal morso godurioso e rinfrancante.

Dalla Puglia in Francia: è Martino Ruggieri, braccio destro di Yannick Alléno, che porta a Paestum suggestioni legate alle tendenze internazionali: fermentazioni, estrazioni, lunghe cotture elaborate alla luce di quella tecnica tutta francese di cui si fa ambasciatore. Qui si traduce nella proposta hardcore di una testa di vitello cotta sei ore e lasciata una notte ad asciugare, con la guancia affettata e saltata in padella con porri e mozzarella. O nei tempi lunghi necessari per il succo di sedano rapa: fermentato per 8 mesi e arricchito da vaniglia, fragole mature e pomodori secchi.

Nord Sud Italia

Contaminazione e territorio, materia prima e riconoscibilità: gli chef di casa nostra mettono in scena l'eterno gioco a rimpiattino con la propria identità. Si tratti di quella a tutta materia prima di Nino Di Costanzo (Danì Maison – Ischia) che apre con un elogio alla semplicità e al prodotto, invitando alla difesa del nostro patrimonio di tipicità da valorizzare anche grazie alle lezioni apprese nei viaggi: “senza una materia prima eccellente è impossibile fare davvero un piatto di grande livello” dice, ma ricorda anche come per materia prima si debba intendere un complesso sistema che include anche il territorio, il modo in cui un prodotto è coltivato, allevato o pescato, gli artigiani. Nei piatti portati a Paestum pesci poveri ancora poco valorizzati e le varietà di agrumi, oro giallo della Campania, qui in un risotto ai cinque limoni.

Il campano Gennaro Esposito della Torre del Saracino di Vico Equense si esibisce in un mini menu (4 piatti) che sono un omaggio senza vincoli al territorio e ai suoi produttori, di terra e di mare: alici su germogli di bietola con yogurt alla spirulina, ravioli ripieni di pesto trapanese con asparagi anemoni di mare, ricci e maruzzelle; cannoncino ripieno di ragù napoletano e, a conclusione il dessert a base di Melannurca del pastry chef Carmine Di Donna.

Francesco Apreda

Francesco Apreda

Ancora Campania con il napoletano Francesco Apreda che quest’anno ha compiuto dieci anni con il suo Imàgo di Roma. Il più internazionale degli chef partenopei è il mago delle spezie che mescola con sapienza da alchimista tradizione campana e slanci orientali, gioco e abilità tecnica, come con la mozzarella con scapece di verdure, con le quattro consistenze del latticino, tra cui una ottenuta con il siero della mozzarella di bufala.

È un'accelerazione sui classici rinnovati da tecnica contemporanea l'intervento di Matteo Baronetto (Del Cambio – Torino), una macchina del tempo che mette in fila gamberetti in salsa rosa, vitello tonnato, acciughe in salsa verde, l’uovo sodo. Tra rassicuranti rivisitazioni e giochi sorprendenti accompagna i suoi ospiti in un percorso che rassicura e conforta senza mai annoiare.

Semplicità, cultura gastronomica, disciplina, studio costante su materie prime e tecniche. La strada intrapresa da Antonio Guida del Seta di Milano è chiara. Ed è quella che porta a una cucina godibile, che si apre alla città quanto agli ospiti del Mandarin Oriental “il cliente deve avere voglia di tornare” dice, intendendo anche lui che lo chef non deve lavorare solo per sé ma pensare anche agli altri. Nei suoi piatti tanta cultura e molto piacere: il pan perdu con pomodoro candito, il risotto con crema di riso alla curcuma, setosa e avvolgente, i ravioli ripieni di pomodori, crema di burrata.

Antonello ColonnaAntonello Colonna

Da perenne outsider e protagonista della vita gastronomica laziale Antonello Colonna (Antonello Colonna Resort – Labico), è uno chef che ha saputo dare lustro alla cucina di territorio in un periodo, la fine degli anni '80, in cui le suggestioni francesi imprimevano una rotta decisa. Lui no, lui è sempre stato concentrato sul suo territorio di cui ha saputo smussare spigoli e valorizzare caratteristiche. Negli anni ha saputo dare - ancor di più - un ruolo di primo piano alle radici, alla terra e alla semplicità, qui rappresentata da un tortello ripieno con alici ripensamento della classica abbinata burro e alici.

 

LSDM | Paestum (SA) | Savoy Beach Hotel | il 19 e 20 aprile | www.lsdm.it

 

a cura di Antonella De Santis

Smor a Roma. La cucina vichinga incontra la tradizione giuliana: smørrebrød, tartine e bolliti per un insolito street food

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Da Copenaghen a Trieste, tra pane di segale spalmato di burro danese, caldaia dei bolliti e tartine con paté di baccala. È nuova per la piazza romana la proposta di Smor, laboratorio con cucina prossimo all’apertura, dietro piazza Fiume. Ecco cosa si mangerà. 

Smørrebrød. Cosa sono, dove si mangiano in Italia

Di smørrebrød, come di molte specialità gastronomiche distanti da noi per tradizione, cultura e geografia, più di qualcuno avrà già sentito parlare. Sì, perché le tartine di pane di segale spalmate di burro e farcite a piacere tanto apprezzate in Danimarca, e in molti Paesi del Nord Europa, da qualche anno a questa parte vivono una ripresa più o meno fedele all’originale in diverse città d’Italia. Anche loro nel calderone di quella cucina etnica che suscita curiosità e si fa moda esotica, eleggendo una o più pietanze caratteristiche e di facile presa su un pubblico eterogeneo a simbolo di un’identità culinaria in arrivo da lontano. A onor del vero, c’è da dire che, in passato, quando si è trattato di importare questi panini golosi del Nord che per etimologia uniscono le parole burro (smor) e pane (brod), gli esperimenti riusciti non sono mancati. Specie a Milano, nella declinazione raffinata della Bjork Swedish Brasserie, per esempio (è invece da poco naufragata l'esperienza più insolita di Smooshi, che alle influenze nordiche applicava formule e modalità di servizio di un sushi bar). In una dimensione originale, l'insegna, replica un modello di riferimento per chi vuole sperimentare una tavola imbandita di smørrebrød e affini: ideato all’interno di un hotel di Aosta nel 2012, il progetto è approdato a Milano alla fine del 2014, in zona Porta Venezia, dove il locale somma lo store dedicato al food e al design con la proposta di un bistrot aperto all day long, dal pranzo alla merenda, al dopocena. In menu, immancabili le tartine di segale, con salmone marinato, aringhe, caviale nordico e creme fraiche. E poi proposte più elaborate e curiose, che della Bjork Brasserie fanno un ristorante a tutto tondo. A Roma, invece, una cucina tutta dedicata alla tradizione “vichinga” ancora mancava.

Smor a Roma. Non solo Danimarca

Dal 26 aprile l’indirizzo di riferimento sarà Smor, via Cesare Paoletti (a pochi metri da piazza Alessandria, nel quadrilatero gastronomico particolarmente animato che lambisce piazza Fiume), laboratorio con cucina che si avventura con originalità nell’universo nordeuropeo. La particolarità della formula elaborata per Smor, infatti, sta nell’intenzione di coniugare ingredienti e tecniche di trasformazione della materia prima tipicamente scandinave – dall’affumicatura alla fermentazione, all’essiccazione – alla generosità dei buffet triestini, tavole popolari dove lo storico repertorio austroungarico viene interpretato alla maniera locale, nelle grandi caldaie dove sobbolle tutto ciò che di buono si ricava dal maiale, tra condimenti a base di senape e kren, e crauti d’accompagnamento. Da Trieste, peraltro, ci sembra calzante il parallelo con il laboratorio del pesce (e affumicatoio artigianale) di SaluMare, dove le tartine con aringhe, tartare, carpacci, mantecati e affumicati di pesce la fanno da padrone per un golosa pausa street food che prende in prestito la tradizione familiare di molte case giuliane.

Cosa si mangia. Smørrebrød, tartine, bolliti. E tunnbrodsrulle

Quel che succederà da Smor, tra qualche giorno, invece, è presto detto. Quattro le tipologie di riferimento in menu: Smørrebrød, Tunnbrodsrulle, Caldaia dei bolliti, Tartine. La prima sezione si avvarrà esclusivamente di burro danese, proponendo pane di segale a pasta acida arricchito di volta in volta con Salmone marinato, insalata di patate e salsa remoulade homemade, Aringa affumicata, rapa rossa, mela verde e salsa al wiskey, Carpaccio di manzo affumicato con pomodoro a fette, patate, cipolla croccante, cetriolini, maionese al rafano, gelatina di consommé. E a seguire molte altre combinazioni. Altrettanto valida l’idea del bollito misto, da gustare in panino o al piatto, condito con senape, kren e crauti a piacere.

Per le carni il fornitore è un nome dell’eccellenza giuliana, Masè, che da Smor arriva anche con il mitico prosciutto cotto in crosta di pane. Nella caldaia, quindi, finiranno, pancetta tesa affumicata, lingua di bovino salmistrata, cotechino, stinco affumicato e salsiccia di Cragno, tipico del Carso. Oltre ai wurstel Vienna, che farciscono anche il tunnbrod svedese, una sorta di piadina sottile proposta anche con insalata di gamberetti, pulled bbq salmon, e altre ricette originali per la sezione Tunnbrodsrulle. Tra le tartine, burro (della Normandia) e alici (del Cantabrico), prosciutto cotto di Masè, paté di salmone bbq, carpacci di mare. E una linea di farciture a base di baccalà, come il paté dell’azienda istriana Il Baccalà della Mamma, per la prima volta sul mercato romano. Da bere birra, sidri e bollicine. Per una pausa street food insolita, dalle 11 alle 21. Ma solo durante la settimana, dal lunedì al venerdì.

 

Smor | Roma | via Cesare Paoletti, 23 | tel. 06 97842095 | dal 26 aprile, dalle 11 alle 21 | www.facebook.com/smorcucina

Bjork Swedish Brasserie | Milano | via Panfilo Castaldi, 20 | tel. 02 49457424 | http://bjork.it/bjork-milano/

SaluMare | Trieste | via di Cavana, 13a | tel. 040 3229743 | www.salumare.com

 

a cura di Livia Montagnoli

Foto di Alberto Blasetti

Lavorare nel mondo dell'agroalimentare e della ristorazione. Le posizioni aperte, da Fico a Mutti

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L'industria alimentare continua a rappresentare un valido sbocco occupazionale per chi è in cerca di lavoro qualificato. Ecco le ultime offerte, molte in arrivo dal gruppo Eataly, tra Fico e l'espansione internazionale. 

Da Fico a Born to be Eatalian

Oscar Farinetti l'aveva promesso, e in effetti i mesi che ci separano dall'inaugurazione dell'ambiziosa Fabbrica Contadina di Fico vedranno il reclutamento di forza lavoro in quantità, 700 unità da destinare a profili anche molto diversi tra loro, e non solo alle dipendenze di Eataly, per far funzionare la macchina che sta prendendo forma alle porte di Bologna. E così il parco dei divertimenti e tema enogastronomico sarà pure un'importante fonte di impiego, che tra le altre, conferma i risvolti positivi del mercato food&beverage sul fronte occupazionale. Solo all'interno del nascente Fico Eataly World, per esempio, sono molti i brand dell'industria alimentare che hanno già aperto i colloqui e le selezioni, da GranaroloLavazza, da Venchi a Carpigiani, e poi i Consorzi, come quelli del Grana Padano e del Parmigiano Reggiano. Tutti coinvolti in un progetto che mira a rilanciare la filiera agroalimentare made in Italy e insieme si ripromette di costituire un fiore all'occhiello dell'economia territoriale, generando indotto e posti di lavoro. Intanto il gruppo diventato sinonimo di enogastronomia tricolore di qualità nel mondo persegue il suo piano d'espansione internazionale, con un calendario di aperture imponente, da Stoccolma a Los Angeles nei prossimi mesi, per poi concentrarsi nel 2018 su Parigi, Londra, Las Vegas, Toronto. E al grido di Born to be Eatalian, Eataly seleziona candidati dal profilo specifico (qualcuno ricorderà pure l'appello di Oscar Farinetti al Corriere della Sera di qualche mese fa), che previo training on the job di 6-12 mesi potrebbero ambire a occupare un posto da responsabili di mercato o responsabili di negozio. I requisiti? “Cerchiamo persone curiose, dinamiche, appassionate” recita l'annuncio pubblicato su Linkedin e sui principali portali per la ricerca/offerta di lavoro. Indispensabili una laurea in Economia o Ingegneria Gestionale, e buona conoscenza della lingua inglese. Anche perché al responsabile di negozio “eataliano” spetterà il compito di gestire il punto vendita e il conto economico, garantendo un’altissima qualità dell’assortimento dei prodotti secchi e freschi, una ristorazione semplice ma di alto livello e con materie prime di qualità ed una programmazione efficace degli eventi e della didattica.

 

Le oltre offerte di lavoro. Mutti, Ferrero, Amadori

Tra i colossi del food in cerca di volti nuovi e personale qualificato anche il Gruppo Cremonini, che entro l'anno prevede 17 nuove aperture della catena RoadHouse Grill sul territorio nazionale e recluta 650 dipendenti, tra addetti al servizio e figure manageriali. E di grandi gruppi dell'industria alimentare parliamo anche introducendo le posizioni aperte per contratti a tempo indeterminato e stage formativi negli stabilimenti piemontesi della Ferrero, che ricerca, tra gli altri, tecnologi alimentari di processo laureati in Scienze e Tecnologie Alimentari. Mentre Amadori, celebre realtà del settore avicolo, è in cerca di tecnici di allevamento pollo nella provincia di Foggia (ma tutte le posizioni aperte sono consultabili alla sezione Lavora con noi del sito aziendale). In previsione di una crescita europea, anche Mutti assume 24 nuovi profili, tra figure dirigenziali e tecnici del servizio agricolo. Tra loro anche una figura di controllo per il progetto che vedrà coinvolta la storica azienda parmense del pomodoro in conserva all'interno di Fico (candidature aperte sul sito di Mutti, sezione Lavora con noi).

 

E le sfogline di Bottega Portici

E sempre a Bologna, ancora aperte le candidature per entrare a far parte del progetto Bottega Portici, che ha recentemente inaugurato il grande punto vendita di Palazzo Bega, e recluta sfogline, cuochi, baristi, addetti alla cassa, commessi. Anche in questo caso è possibile inviare il proprio curriculum online. 

 

I link utili:

Born to be Eatalian | https://it.linkedin.com/jobs/view/262229466?trk=sushi_topic_jobs_guest_photo

Gruppo Cremonini | www.cremonini.com/it/lavora_con_noi

Ferrero | www.ferrerocareers.com

Amadori | www.amadori.it/lavora-con-noi

Mutti | www.mutti-parma.com/it/lavora-con-noi

Bottega Portici | www.bottegaportici.it/lavora-con-noi/

 

a cura di Livia Montagnoli

 

Sous la Vie, le buste per cuocere il cibo in lavatrice

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Quante volte vi siete ritrovati a fissare immobili la lavatrice, in attesa che vi consegnasse dei vestiti puliti? In futuro potreste ritrovarvi nella stessa situazione, ma in attesa di un pasto.

Perché Iftach Gazit, creativo israeliano che lavora alla Bezalel Academy of Arts and Design ha messo a punto delle speciali buste che permettono di cuocere il cibo in lavatrice, insieme ai vestiti.

Il sottovuoto il lavatrice

Dimenticate la vasocottura in lavastoviglie di qualche anno fa, perché a breve potrete cuocere i vostri pasti nella lavatrice, insieme ai vestiti. L’idea è di Iftach Gazit, che ha messo a punto delle buste speciali, nell’ambito di un progetto per la Bezalel Academy of Arts and Design di Gerusalemme: cuocere in acqua il cibo sigillato in buste alimentari speciali a una temperatura compresa fra i 50 e i 100 gradi, sfruttando il principio della cottura sottovuoto.

Una tecnica che negli ultimi anni ha conquistato molti chef, tanto da spingere qualcuno come i fratelli Roca a studiarla in maniera quasi maniacale, sperimentando anche pentole speciali come la Rocook. Ma i Roca sono solo un esempio della fama raggiunta dal sottovuoto, che è diventato popolare anche presso i cuochi amatoriali, grazie al fatto che consente agli alimenti di restare morbidi conservando quasi tutti i liquidi, che invece vanno persi quando si effettuano cotture a temperature più elevate.

 

Le buste Sous la Vie

Si chiamano Sous la Vie e probabilmente permetteranno di avvicinare ancora di più l’universo dei cuochi amatoriali - coloro che amano sperimentare nella propria cucina di casa - alle cotture sottovuoto. I contenitori inventati sono fatti in tyvek, un materiale impermeabile, con una protezione ulteriore all’interno, per evitare che il cibo venga a contatto con il sapone. Perché con le buste Sous la Vie non solo è possibile cuocere sottovuoto in lavatrice, ma anche farlo insieme ai vestiti, durante un normale lavaggio, sfruttando direttamente l’acqua riscaldata dall’elettrodomestico.

Sperimentare questo metodo non è difficile: l’etichetta di ogni confezione - venduta già piena di tutti gli ingredienti necessari - riporta sia le proprietà nutritive del contenuto che il metodo di lavaggio da impostare per la cottura. Per fare un esempio, le verdure si cuoceranno con un semplice lavaggio rapido per cotone, mentre per la carne si consiglia un programma completo per tessuti sintetici, intorno ai 60 gradi circa.

 

Le motivazioni, un pasto caldo a chi non ha una casa

Quella che potrebbe sembrare un’idea divertente per giovani single, nasce invece da un’esperienza di Gazit che, durante un altro studio condotto a New York, ha notato come le lavanderie a gettoni fossero uno dei pochi luoghi sicuri per i senzatetto della città. “La lavanderia è un luogo dove si possono fare molte cose, oltre a lavare i vestiti” ha spiegato il creativo israeliano. “Si può ricaricare il cellulare e riempire delle bottiglie con l’acqua in maniera gratuita. Per molti senzatetto, inoltre, è uno dei pochi luoghi in cui possono riposare per qualche ora in maniera sicura. Per questo ho pensato che potesse essere anche un luogo dove cucinare qualcosa”.

 

 

a cura di Francesca Fiore

 

 

 

 

Premio Internazionale di Architettura e Design “Bar, Ristoranti e Hotel d'autore 2017”. Il bando

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Architettura e design protagonisti nella valorizzazione di spazi destinati alla ristorazione e all'ospitalità. Sono tanti i progetti d'autore che accrescono il valore di tavole, insegne, bar e alberghi italiani modulando lo spazio con originalità, coerenza, sinergia con il contesto paesaggistico. Il premio BRH individua i migliori. Ecco chi può partecipare. 

Il premio all'autorialità degli spazi

Terza edizione e ancora una volta riflettori puntati sulla capacità di valorizzare gli spazi destinati alla ristorazione, alla somministrazione e al retail di prodotti enogastronomici, all'accoglienza e all'ospitalità attraverso il design e l'architettura d'autore, tenendo conto del contesto e del paesaggio circostante. Con questo obiettivo nasceva qualche anno fa il Premio Internazionale di Architettura e Design Bar e Ristoranti d'autore, che col tempo ha esteso il suo raggio d'azione anche a strutture alberghiere, ostelli e agriturismi e ora si presenta all'appello con un nuovo bando intitolato a Bar, Ristoranti e Hotel d'autore, per sottolineare il ruolo dell'artigianalità e del disegno industriale nella realizzazione di uno spazio d'autore a 360 gradi.

Il premio – bandito dall’Istituto Nazionale di Architettura – IN/ARCH, Gambero Rosso, FederlegnoArredo, Università degli Studi Roma Tre, Artribune, Archilovers, con HostMilano e il patrocinio di ADI – Associazione per il disegno Industriale – come pure le menzioni assegnate ai progetti più meritevoli a discrezione della giuria, punta a dare risalto ai committenti e ai progettisti che hanno realizzato le opere più interessanti, innovative e caratterizzate per l’inserimento paesaggistico, l’architettura e l’arredo. Valorizzando quindi sia le opere nuove che le ristrutturazioni di qualità per incentivare l’attenzione e gli investimenti dei privati in questo senso.

 

Come partecipare

Due le tipologie di premi assegnati, entrambe estese alla partecipazione internazionale: il riconoscimento a un'opera realizzata per 5 interventi completati negli ultimi tre anni sul territorio italiano da progettisti italiani e non, o all'estero da progettisti italiani (con premio assegnato anche ai committenti dell'opera); il premio di design, per 3 progetti relativi a oggetti, materiali e complementi d'arredo che non abbiano ancora un produttore. Per partecipare al concorso è necessario presentare la propria candidatura entro il 20 luglio 2017 (e a partire dal 20 aprile) compilando il modulo online disponibile sul sito ufficiale del Premio, Archilovers. L'iscrizione prevede, oltre al versamento di una quota di partecipazione di 60 euro, la presentazione della scheda progetto con un minimo di 6 foto dell'intervento, uno o più disegni e un breve testo descrittivo in lingua italiana. A valutare i candidati, come sempre, una giuria di qualità, composta da esperti nelle discipline Architettura, Design, Ingegneria e Tecnologia del mondo enogastronomico. E i premi saranno conferiti in autunno, in occasione di HostMilano, il 24 ottobre 2017. Chi vuole candidarsi ora sa come fare.

 

Il sito di riferimento del Premio BRH 2017

17 passate di pomodoro da grande distribuzione all'assaggio: ecco le migliori

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Se il Paese Italia fosse una passata di pomodoro sarebbe una potenza non solo mondiale ma planetaria. La degustazione dedicata a uno dei prodotti simbolo del made in Italy agroalimentare ha dato risultati sorprendenti. 

È uno dei prodotti alimentari più amati e consumati dagli italiani: la passata di pomodoro. Immancabile nelle dispense della Penisola, reperibile in tipologie e caratteristiche diverse: da quelle industriali, vendute al supermercato e negli hard discount, ai prodotti artigianali, di piccole e medie aziende, presenti in botteghe gourmet. Abbiamo deciso di provare entrambi i tipi, in una degustazione in due tappe. Questa è la prima con i prodotti della grande distribuzione più presenti sugli scaffali. L'altra nei prossimi giorni.

Consistenze setose e vellutate, prorompenti sapori dolci e aciduli, profumi di orto, memorie estive. L'assaggio ha messo in fila le passate presenti sul mercato nazionale: decine di prodotti, coperti e numerati, con caratteristiche, target e prezzi differenti, che sono stati sottoposti a un duplice assaggio, crudi e cotti velocemente in tegame, senza sale e olio.

In questa prima tappa della nostra lunga degustazione, le passate presenti in supermercati, Gdo e hard discount, prodotte da industrie e grandi aziende specializzate nella pummarola, in vendita con il proprio marchio o con il nome del distributore, sono nella maggioranza dei casi le classiche passate di pomodoro che il consumatore medio si aspetta: dense, corpose, compatte e omogenee, color rosso intenso, la variante Rustica per definizione più granulosa, con tracce di bucce e semi, e dal sapore più intenso e casereccio. Prodotti concentrati anche negli aromi: pomodoro cotto e note tostate che hanno la meglio sui profumi freschi dell'ortaggio. Sono il risultato di una lavorazione industriale, ad alta temperatura e che garantisce uno standard costante che il consumatore medio, ma anche lo chef, richiedono.

Sono state prese in esame solo le passate di pomodori cosiddetti convenzionali, rigorosamente rossi, sia lunghi a lampadina che rotondi, e abbiamo riportato i prodotti che si sono classificati ai primi posti. Delle passate di piccoli produttori, fatte con pomodori di varietà particolari, di antiche varietà, autoctoni e territoriali, ci occuperemo in altre classifiche.

La degustazione

Prima tappa del nostro test sulle passate di pomodoro: all'assaggio i prodotti industriali, che si trovano nella grande distribuzione, supermercati e hard discount. Nei prossimi giorni la seconda tappa, con le passate di piccoli produttori che è possibile reperire nei negozi di specialità di nicchia.

I prezzi indicati sono quelli medi al dettaglio.

Tranne la prima classificata, le aziende sono in ordine alfabetico.

1° Classificato

1° ex aequo

Le Conserve della Nonna

Pomodoro italiano lavorato entro un giorno dalla raccolta, con aggiunta di sale e acido citrico. È quanto riporta in etichetta la passata Le Conserve della Nonna, brand del gruppo Fini. Una passata molto classica, funzionale, ruffiana nel senso migliore, densa, corposa e concentrata. Non solo nell’aspetto, una purea compatta rossa tendente al bordeaux. Anche nelle sensazioni al naso e in bocca: consistenza di velluto pesante, assai dolce, con aromi tostati e di pomodoro cotto, ma pochissimo acida, pulita nelle sensazioni e con una concentrazione naturale, non forzata. Perfetta per il ragù ma anche per un sugo da preparare al fulmicotone.

350 g prezzo 1,49-1,55 euro

Le Conserve della Nonna | Ravarino (MO) | via Confine, 1583 | tel. 059 900432 | www.leconservedellanonna.it

ex aequo

Petti

Storica azienda della pummarola nazionale, dal 1925, Petti si è evoluta nel tempo affinando le tecniche di trasformazione e selezionando la materia prima: solo pomodori toscani da agricoltura integrata lavorati a bassa temperatura con sale iodato, null'altro. Raggiunge il gradino più alto con Il Delicato, una passata extrafine che mantiene le intenzioni e il claim dell'etichetta. Sottile e pulita, omogenea e compatta eppure di aspetto artigianale, che i tre minuti di fuoco rendono ancora più bella e luminosa. Immediata e lineare al naso e in bocca, con i caratteristici sentori di pomodoro fresco, è quello che ci si aspetta da una buona passata industriale, un modello per le aziende del settore. Da sugo semplice pomodoro e basilico fresco, ma anche umidi, pizzaiole e azzardi in piatti di ricerca.

700 g prezzo 1,38-1,50 euro

Petti | Venturina Terme (LI) | via Enos Cerrini, 67 tel. 0565 855150 - 800 192500 | www.petticonserve.com

{gallery}Passate di pomodoro gdo 1{/gallery}

Le altre selezionate

Alce Nero BIO

Del noto marchio dell'alimentazione naturale, presente nel settore biologico e in supermercati convenzionali, abbiamo assaggiato la polpa di pomodoro bio, di varietà a bacca lunga e tonde, coltivato nel Delta del Po e lavorato entro 10 ore dalla raccolta (da La Cesenate Conserve Alimentari di Cesena) senza aggiungere altro. Colore rosso fuoco, abbastanza omogenea e compatta ma vibrante, durante una breve cottura diventa una purea compatta e perfettina. Gusto dolce e fresco, come il claim in etichetta promette, ma anche note tostate e una dolcezza naturale che i tre minuti di fuoco accentuano ma senza far perdere l’originaria freschezza. C’è il basilico, ma si sente appena e non disturba. Classica, corretta, ben fatta, un passe-partout per ricette di tradizione e non. Da podio.

500 g prezzo 1,98-2 euro

Alce Nero Bio | San Lazzaro di Savena (BO) | via Palazzetti, 5c | tel.051 6540211 | www.alcenero.com

Ca' dell'Orto - In’s 

La passata Classica “velluttata” Ca’ dell’Orto, brand In’s (catena di hard discount nel gruppo Pam), è quel che il nome promette: una purea fine e pulita, compatta, omogenea e abbastanza concentrata color rosso bandiera. È ottenuta da pomodoro 100% italiano proveniente da lotta integrata e lavorato fresco (insieme a sale e acido citrico) da Columbus di Martorano (PR). Profumo e sapore sono quelli di una passata industriale ma buona, ben fatta, caratteristica e corretta, dove si riesce ancora a percepire il pomodoro. E ci guadagna con la cottura. Un miracolo considerando il prezzo. Per questo si aggiudica l'Oscar Qualità/Prezzo.

700 g prezzo 0,49 euro

Ca' dell'Orto – In’s | Venezia | via Istituto Santa Maria della Pietà, 6 | tel. 041 8690111 | www.insmercato.it

Cirio

Storica azienda legata alle conserve di pomodoro fatte “con il cuore dal 1856” (la promessa commerciale), nata a Torino e oggi nel gruppo Conserve Italia, leader europeo dell’industria conserviera made in Italy. La Rustica, solo pomodoro italiano senza aggiunta di altro, lavorata nello stabilimento di Codigoro (FE), è una classica passata industriale, di un vivace colore rosso fiamma, che conserva le note del pomodoro fresco. Acidità alta ma naturale, gusto equilibrato e pulito, aromi abbastanza schietti. Al palato si avverte la traccia di semi e bucce, previsti nella versione rustica della conserva, ma la consistenza è tutto sommato vellutata. Per ricette tradizionali, anche per il classico spaghetto pomodoro e basilico.

680 g prezzo 1,44 euro

Cirio | San Lazzaro di Savena (BO) | via Paolo Poggi, 11 | tel. 051 6228311| www.cirio.it

Cuore Mediterraneo - Todis

La passata “Sfiziosa” Cuore Mediterraneo, brand di Todis, in vendita nella nota catena di supermercati hard discount, è un prodotto che merita la piena sufficienza e l’ingresso in classifica. È prodotta daICAB La Fiammante nello stabilimento di Buccino (SA) con pomodori coltivati in Italia tramite lotta integrata, sale e acido citrico. All’occhio è una purea color rosso fiamma vivace, fine, compatta e rustica, con tracce di semi e bucce, una specie di ketchup grezzo. Poco esuberante al gusto, forse, un po' liquida, con un acido/dolce molto pacato e una leggera traccia amara in chiusura, ma al naso e in bocca si avverte il pomodoro fresco.

680 g prezzo 0,89 euro

Cuore Mediterraneo – Todis | Fiano Romano (RM) | via Tiberina, km 19,300 | tel. 0765 4621 | www.todis.it

{gallery}passate di pomodoro gdo 2{/gallery}

De Cecco

Bella e perfettina la passata Rustica a marchio De Cecco, lavorata da Rodolfi Mansueto a Ozzano Taro, Parma, con pomodori italiani e sale), una purea polposa, compatta e omogenea rosso fuoco, valorizzata ulteriormente dalla veloce cottura. Ci sono le tipiche note di pomodoro cotto, come nella maggior parte delle passate industriali, ma non manca un richiamo alla freschezza. Presente il sale, che ruffianamente dà spinta al sapore e amplifica le sensazioni aromatiche. Classica, immediata, molto ben fatta. Per tutti i piatti della tradizione, soprattutto ragù, sughi e salse di media e lunga cottura.

700 g prezzo 1,10-1,38 euro

De Cecco | Fara San Martino (CH) | zona industriale | tel. 0872 9861 | www.dececco.it

De Rica

De Rica, marchio storico dell'alimentare italiano e delle conserve di pomodoro, da alcuni anni brand di Generale Conserve (insieme a Asdomar e Manzotin), propone sul mercato una “Pura passata di pomodoro vallivo, 100% italiano”, coltivato alle porte del Parco Naturale del Delta del Po, prodotta dall'azienda Le Due Valli di Ostellato (FE) con aggiunta di sale. È la tipica passata figlia di una trasformazione industriale, senza difetti ma senza neanche i sentori freschi dell'estivo ortaggio. All'occhio è una purea rossa molto fine, omogenea, densa e corposa con odori e aromi un po' scarichi che richiamano il pomodoro molto cotto e concentrato. Gusto piuttosto acido e con finale amaro.

700 g prezzo 1,52/1,99 euro
De Rica | Genova | p.zza Borgo Pila, 39 - Corte Lambruschini Torre B | tel. 800 035410 | www.derica.it

In’s BIO

Oltre alla Vellutata Ca’ dell’Orto, In’s (catena di hard discount nel gruppo Pam) distribuisce anche la passata Bio, 100% pomodori italiani e da agricoltura biologica, prodottada Columbus di Martorano (PR) con aggiunta di sale. Finissima, lucida, molto omogenea e fluida, simile al ketchup, è la classica passata industriale, senza difetti evidenti, con le tipiche note di pomodoro cotto e la dolcezza forzata, ma a differenza di tanti prodotti concorrenti qui l'acidità non è alta e il pomodoro riesce a conservare la sua identità.

500 g prezzo 0,69 euro

In’s BIO | Venezia | via Istituto Santa Maria della Pietà, 6 | tel. 041 8690111 | www.insmercato.it

La Fiammante - ICAB

La Fiammante è il marchio di punta del gruppo ICAB, Industrie Conserve Alimentari Buccino (nel suo pacchetto anche La Paesana e La Reale). L'aziendafa filiera con gli agricoltori (in maggioranza foggiani) tramite accordi diretti, incoraggia la pratica della lotta integrata, promuove la raccolta meccanica dei pomodori per combattere lo sfruttamento della manodopera nelle campagne e garantire tempi rapidi di conferimento in azienda dei pomodori freschi, trasformati nel giro di poche ore. Le buone intenzioni si vedono e si sentono in particolare nella Rustica Licolife, microfiltrata, che rispetto alle altre passate La Fiammante subisce metà del trattamento termico, una cottura velocissima che vuole esaltare il pomodoro fresco. È una purea granulosa e lucente che lascia appena in bocca residui di semi e buccia, ma non fastidiosissimi, con il giusto equilibrio dolce/acido e gli aromi che rimandano al pomodoro fresco. Classica e caratteristica, dà il meglio da cruda, la cottura accentua leggermente l’acido.

680 g prezzo 1,10-1,20 euro

La Fiammante – ICAB | Buccino (SA) | tel. 0828 957155 | www.lafiammante.it

Mutti
La passata Mutti, da pomodori italiani “maturi raccolti in piena estate e subito lavorati”, è uno dei prodotti più apprezzati e acquistati nel mercato delle conserve di pomodoro. È la classica passata nella variante concentrata, tendente all’estratto, molto lavorata, fine, pulita, compatta e omogenea: velluto e seta fluidi color rosso intenso: quello che il consumatore cerca e si aspetta. Cruda risulta molto pacata, leggermente acida e con note di pomodoro cotto; assenti i sentori del frutto fresco. Ma le prestazioni migliori arrivano dopo una breve cottura: cancella la traccia di amaro, smussa l’acido, concentra il dolce. Un prodotto da podio, figlia di una signora industria, che punta a un prodotto volutamente concentrato: è il suo target. Perfetta per ragù di carne, alla bolognese o alla napoletana, o per umidi dalle lunghe cotture. Anche lei si aggiudica l'Oscar Qualità/Prezzo.
 
700 g prezzo 0,99-1,48 euro
 
Mutti | Montechiarugolo (PR) | via Traversetolo, 28 | tel. 0521 652511– 800865040 | www.mutti-parma.com

Pomì

Pomì, uno dei marchi italiani leader del settore. Dietroc'è il Consorzio Casalasco del Pomodoro, cooperativa agricola specializzata nella produzione e trasformazione del rosso ortaggio, e proprietaria del brand, che un paio d'anni fa si è fuso con A.R.P., Agricoltori Riuniti Piacentini, società che opera nello stesso settore, creando un colosso del pomodoro italiano. Tra le tante referenze abbiamo assaggiato la passata classica, ottenuta da “pomodori italiani coltivati e confezionati sul posto, nel rispetto dell'ambiente e dell'uomo, maturati al sole”, lavorati dal “fresco a poche ore dalla raccolta” con aggiunta di sale (in sintesi le informazioni contenute nell'etichetta). Una passata maggiorata, una Anitona della pummarola, corposa, compatta, omogenea e densa, di tonalità rosso bandiera, che all'olfatto e al palato si dimostra il classico prodotto industriale, con la materia prima sottoposta a un'alta concentrazione come dimostrano la consistenza, gli aromi intensi di pomodoro cotto e una dolcezza un po' forzata. Odore di disinfettante.

700 g prezzo 1,09/1,55 euro
Pomì | Rivarolo del Re ed Uniti (CR) | s.da prov.le 32 |
tel. 0375 536211 | www.pomionline.it

Santa Rosa

“Tutto il sapore del pomodoro crudo”. Così recita l'etichetta delle passate Pomodorissimo Santa Rosa, storico marchio oggi nel gruppo Valsoia.Nella sua“La Passata”, classica,fine e vellutata, lavorata con pomodori italiani freschi e sale dall'azienda Copador di Collecchio (PR), la promessa dell’etichetta viene abbastanza mantenuta, soprattutto in bocca. Le note aromatiche di concentrato lasciano spazio a quelle del pomodoro fresco. Ci sono delicatezza, pulizia, coerenza, uno stile lineare e abbastanza genuino, una certa freschezza e pochissima acidità. La breve cottura toglie la traccia di amaro che si percepiva nella passata cruda.

700 g prezzo 1,05-1,18 euro

Santa Rosa | Bologna | via I. Barontini, 16/5 | tel. 800910550 | www.santarosa.it | www.pomodorissimo.it

{gallery}Passate di pomodoro gdo 3{/gallery}

Simply

Simply, la catena di supermercati di Auchan Retail Italia, nel gruppo Auchan-Sma, distribuisce una passata a proprio marchio “100% pomodoro italiano”, con aggiunta di sale, prodotta da Emiliana Conserve di Busseto (PR). L'aspetto, una purea molto fine, compatta, concentrata e lucente color rosso intenso, la fanno assomigliare al ketchup. L'olfatto e l'assaggio confermano l'appartenenza della passata alla sfera delle conserve industriali: note tostate e di pomodoro cotto e lavorato, acidità alta, finale leggermente amaro.

700 g prezzo 0,89 euro

Simply | Rozzano (MI) | s.da 8 Palazzo N - Milanofiori | tel. 800 824039 | www.simplymarket.it

Star

La Mia Pummarò di Star, lavorata dalla Emiliana Conserve di Busseto (PR), è ottenuta da “100% pomodoro italiano lavorato appena raccolto da filiera controllata” e aggiunta di sale. È la tipica passata perfettina e concentrata nella consistenza e negli aromi. L'aspetto è quello di una purea finissima e densa, molto compatta e omogenea, color rosso fiamma intenso, senza traccia di semi e bucce. L'odore e le sensazioni aromatiche richiamano i classici sentori di pomodoro cotto e molto lavorato. Un prodotto corretto, senza difetti evidenti ma lontano dalla freschezza dell'ortaggio.

700 g prezzo 0,69/1,09
Star |
Milano | via C. Imbonati, 18 | tel. 800 274094 | www.star.it

Terre d’Italia - Carrefour

La passata di Puglia Terre d’Italia, brand di Carrefour, lavorata per la nota catena francese di supermercati daPuma Conserve di Molfetta (BA) con pomodori freschi coltivati in Puglia, sale e acido citrico, è una polpa granulosa vibrante color rosso fiamma, ben lavorata e di aspetto artigianale. Dà il meglio di sé gustata cruda: per essere un prodotto industriale rimane fresca, molto equilibrata, con l’aromaticità del pomodoro non troppo lavorato. La cottura gli toglie un po' di fragranza e freschezza.

500 g prezzo 1,99 euro

Terre d’Italia – Carrefour | Milano | via Caldera, 21 | tel. 02 48251 - 800 650650 | www.terreditalia.com | www.carrefour.it

Valfrutta Conserve Italia

Valfrutta è uno dei marchi di Conserve Italia, società cooperativa leader in Europa nel settore delle conserve ortofrutticole (nel pacchetto ancheYoga, Cirio e Derby, tanto per citare i brand più famosi). La passataVellutata è prodotta con pomodori italiani (in evidenza sull'etichetta “noi li coltiviamo qui” e la cartina dell'Italia con le regioni da dove proviene l'ortaggio) e aggiunta di sale e acido citrico come correttore di acidità (quella assaggiata è stata fatta nello stabilimento di Codigoro, Ferrara). Nell'aspetto è il classico prodotto industriale molto lavorato, una purea color rosso bordeaux che risponde alle aspettative del consumatore medio. Il pomodoro è quello standard industriale ma lavorato bene, con una buona tecnica di trasformazione, che tuttavia nel campione assaggiato non è riuscita a gestire completamente l'acidità dell'ortaggio. Sentore di disinfettante.

700 g prezzo 1,05/1,10 euro

Valfrutta Conserve Italia | San Lazzaro di Savena (BO) | via Paolo Poggi, 11 | tel. 051 6228311 - 800 885030 | www.valfrutta.it

 

a cura di Mara Nocilla

 

Articolo uscito sul mensile di Marzo 2017 del Gambero Rosso. Per abbonarti clicca qui

 

 

Berberè apre a Roma. Con un menu stagionale composto da quindici pizze

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Apre i battenti a Roma la pizzeria dei fratelli Aloe. Impasti e materie prime di qualità e un format volto a rielaborare la pizza valorizzandone l'artigianalità e la sua anima pop. Appuntamento previsto a inizio giugno.

Il 13 febbraio scrivevamo così: “Con una media di un locale all'anno, i fratelli Aloe sembrano non volersi fermare”. E ci sbagliavamo. I due fratelli stupiscono e accelerano il passo aprendo un nuovo locale a Roma, nel quartiere Nomentano a pochi minuti dal MACRO - Museo d'Arte Contemporanea.

foto di Francesca Sara Cauli Foto di Francesca Sara Cauli 

Il menu

L'apertura di Berberè a Roma ce la auguravamo tutti. D'altronde, tolte poche realtà, il loro format, che ha l'obiettivo di rielaborare la pizza valorizzandone l'artigianalità, senza cedere il passo a esasperazioni gourmet e anzi privilegiando l'anima pop del prodotto, mancava. Devono aver pensato proprio a questo Matteo e Salvatore Aloe - che il pubblico romano ha potuto ammirare nel corso della tre giorni dedicata al prodotto nella Città della Pizza - prima di lanciarsi in questa ennesima sfida. Il settimo locale del team aprirà a inizio giugno in via Mantova 5, nel quartiere Nomentano. Una zona sempre più interessante dal punto di vista gastronomico, che ospita realtà eterogenee tra loro, pensiamo a Marzapane con la cucina gourmet di Alba Esteve Ruiz, al portavoce dei prodotti laziali Pro Loco Pinciano, all'etnico Galbi, al vegetariano Ops! o alla nuova caffetteria di qualità Faro. Tornando a Berberè, il menù sarà “stagionale composto da una quindicina di pizze realizzate con l'impiego di prodotti provenienti da contadini e allevatori scelti secondo parametri di lavoro, di impiego della terra, di lavorazione delle materie prime che fanno parte della nostra visione del mondo. Molti di loro sono certificati biologici, impegno che continuiamo a portare avanti, perché crediamo che il biologico sia l’unica agricoltura possibile in grado di preservare la terra per le future generazioni”.

Il format

Anche per questo locale, come per gli altri, la gestione è diretta mantenendo un rapporto quotidiano con dipendenti e fornitori, nel rispetto del lavoro e della clientela. Berberè, infatti, rifiuta la logica della catena perché la sua essenza (e sfida) risiede nel tramandare una professionalità frutto di esperienza e saperi. Quindi niente franchising, ma gestione diretta e supervisione su tutte le pizze che usciranno dal forno. “Noi portiamo la nostra giovane storia ma con un obiettivo comune a molti colleghi romani: valorizzare l’artigianalità della pizza, mantenendone l'anima pop senza sofisticazioni ma attraverso un lavoro di selezione degli ingredienti, di tecnica degli impasti e di cura nella formazione dei ragazzi e ragazze che, siamo sicuri, troverà terreno molto fertile in questa città”. Non ci rimane che augurare in bocca al lupo.

 

Berberè | Roma | via Mantova, 5 | www.berberepizza.it| apertura prevista a inizio giugno

 

a cura di Annalisa Zordan


Oscar Farinetti stanzia un milione di euro per il Cenacolo Vinciano. Eataly sponsor del restauro: è polemica

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Non piace al Codacons il coinvolgimento di Eataly e del suo patron nell’ambizioso – e costoso – intervento di bonifica che permetterà al fragile Cenacolo di Leonardo da Vinci di sopravvivere per altri 500 anni. L’accusa? Puntare al ritorno d’immagine. 

Salvare il Cenacolo. Una priorità

La notizia, quella degna di nota, è che Oscar Farinetti finanzierà il restauro del Cenacolo Vinciano con un milione di euro destinati al ripristino ambientale di una delle opere più celebri, ma più fragili, del mondo. La storia della pittura parietale che Leonardo da Vinci realizzò per la comunità monastica di Santa Maria delle Grazie alla fine del Quattrocento, infatti, si fa ricordare in secoli di letteratura dell’arte non solo per lo straordinario esempio di composizione rinascimentale, ma pure per la temeraria sperimentazione dell’artista toscano, che nel refettorio del convento utilizzò la tecnica singolare della tempera grassa su intonaco, anziché la consueta pittura a fresco. Destinando così il Cenacolo a una lotta costante con l’umidità dell’ambiente che lo ospita, oggi visitato da migliaia di persone ogni anno, su ingresso contingentato. E se dalla seconda metà del Novecento sono stati molteplici gli interventi di conservazione promossi con tecniche all’avanguardia per arrestare il degrado della pittura, proprio il nuovo piano di tutela e conservazione programmato dal Mibact – a 1,2 milioni di euro ammonta lo stanziamento statale – permetterà di igienizzare il microclima dell’ex refettorio in tre anni (l’operazione si concluderà nel 2019, filtrando ogni giorno 10mila metri cubi di aria pulita, per assicurare una buona ossigenazione per i prossimi 500 anni), garantendo l’accesso a un maggior numero di visitatori e triplicandone il dato complessivo annuale, che fa capo a circa 410mila ingressi, accontentando così parte delle moltissime richieste inevase.

L’operazione di restauro. Il contributo di Eataly

Ma Oscar Farinetti che c’entra? Sarà proprio Eataly a finanziare una voce di spesa importante dell’operazione Una cena da non perdere ("Una cena così non la puoi perdere" recita il discusso slogan) presentata un paio di giorni fa a Milano alla presenza del ministro Dario Franceschini, dello scrittore Alessandro Baricco, del Vicario episcopale per la cultura monsignor Luca Bressan, della direttrice del Cenacolo Chiara Rostagno. E del buon Farinetti, in qualità di ambasciatore del made in Italy nel mondo e ora pure nell’inedita veste di mecenate. Ma se questa vi sembra una storia a lieto fine – con tanto di plauso del ministro, che loda “l’impegno importante di Eataly, sperando che altri lo prendano d’esempio” – il Codacons minaccia tempesta.

Le proteste del Codacons

A poche ore dall’annuncio ufficiale, infatti, l’Associazione dei consumatori rende nota l’intenzione di vederci chiaro, presentando istanza d’accesso per conoscere, si legge “a quali condizioni Oscar Farinetti finanzierà la conservazione dell’opera”. In poche parole, si intuisce, l’associazione paventa il rischio di “privatizzazione” di un bene patrimonio culturale dell’umanità a fronte della vantaggiosa partnership pubblico-privato, e si dice pronta a ricorrere al Tar in caso dovesse accertare “clausole sproporzionate e condizioni svantaggiose per la collettività” dietro all’interessamento di Eataly e del suo patron.

Una battaglia, quella ingaggiata dal Codacons, che appare spropositata e viziata da questioni pregresse oltre che ideologiche. Dal canto suo, Farinetti, che da tempo aveva annunciato il sostegno economico al restauro e alla campagna di comunicazione dell’intervento, parla di “dovere e piacere” per motivare la discesa in campo di Eataly, senza nascondere le ricadute positive sul brand: “Penso sia giusto che qualche cliente possa preferire un'azienda che destina una parte del proprio valore aggiunto a questi progetti”. Insomma, sulle strategie per ottenere un buon ritorno d’immagine Farinetti è piuttosto navigato. E in ambito artistico i precedenti celebri non mancano: si pensi al caso recente di Fendi alla Fontana di Trevi, al finanziamento di Della Valle per il Colosseo, o, per restare tra le mura di Santa Maria delle Grazie, al contributo fondamentale dell’Olivetti per il restauro ultraventennale del Cenacolo terminato solo nel 1999. Ma in quale civilizzazione migliorare la propria immagine aziendale contribuendo al bene comune è considerabile come una colpa? E anche, per paradosso, se a Eataly, in cambio del denaro, fossero state offerte delle facilitazioni o magari la possibilità di organizzare un evento (come ha fatto Della Valle al Colosseo), qualcuno riesce a spiegarci cosa ci sarebbe di male o di sbagliato?

 

a cura di Livia Montagnoli

Gli hotel del Gruppo Como e la ristorazione. Da Gualtiero Marchesi a Arzak passando da Nobu

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The Halkin è un albergo che ha sempre puntato sull'alta ristorazione, si da quando ha aperto, oltre 25 anni fa con Gualtiero Marchesi. Oggi, dopo Nahm di David Thomson ci sono gli Arzak. Ma non è il solo grande ristorante degli hotel del gruppo Como. Perché da qualche tempo, al vicino Metropolitan, insieme a Nobu c'è l'alta cucina shambhala a fare la parte del leone.

Tra i primati della ristorazione italiana all’estero, c’è anche il primo ristorante d’hotel stellato, in tempi in cui l’idea di pranzare in hotel seguiva di solito a un taciuto ripiego, per mancanza di tempo o alternative da raggiungere all’esterno. A fine anni ’80 i menu tricolore in città erano ancora fettuccine alla bolognese e pasta alla carbonara (non necessariamente in versione filologica); olio evo, rucola e basilico suonavano come ingredienti esotici, e chi li usava balzava alle cronache come esperto avanguardista. Ancora pochi, all’epoca, i luoghi dove fare esperienza di gastronomia di qualità, prima della grande rivoluzione della ristorazione londinese internazionale, figurarsi nelle cucine di un hotel.

The hakinThe Halkin: logo con il prospetto di palazzo rinascimentaleitaliano

Correva l'anno 1991

Nel 1991, con un anticipo di almeno 15 anni sui trend che avrebbero invaso il mondo, qualcuno la pensava diversamente. Hotel, ristorante, ospitalità e benessere, estetica inclusa, secondo Christina Ong dovevano esser parte di un'unica idea, di un progetto olistico completo “offrire alti standard di servizio e stile senza compromessi” era l’obiettivo. Confidenze ufficiose divenute ormai patrimonio comune riportano che l'albergo The Halkin sia stato il regalo di compleanno di Ong Beng Seng a sua moglie Christine per il suo (..)mo compleanno. La passione di Christina per l’Italia ha fatto il resto, da allora l’hotel è diventato un modello, considerato a livello internazionale come l’albergo più elegante, esclusivo e discreto di Londra. Ancora oggi si smarca dal genere cool dal design urlato, per distinguersi in un classico senza tempo (ha 25 anni, ma sembra nuovo) che le mode guarda da lontano.

Nel progetto ad alti standard la ristorazione avrebbe avuto ruolo cardine. Nel ’91 The Halkin parte con Gualtiero Marchesi e diventa il primo ristorante italiano stellato in territorio non italiano. Il maestro lascerà il timone al suo pupillo Stefano Cavallini fino alla chiusura del primo decennio nel 2001. Le stelle si passano la staffetta e alla cucina italiana segue quella tailandese di David Thomson, il nome cambia, diventa Nahm.

AmetsaUn piatto di Ametsa with Arzak istruction

L'era Arzak

Presto Nahm, poi diventato il ristorante thai più celebre al mondo, andrà a Bangkok in una struttura Como (il gruppo che include moda, ospitalità ristorazione, benessere, attività nel sociale e molto altro, di Christine Ong e sua figlia Melissa Ong) nata lì nel frattempo, e al suo posto si insedia il basco Ametsa di Elena Arzak e suo padre Juan Mari. Costola del 3 Stelle Arzak spagnolo di San Sebastian, è il primo del genere a Londra e porta un nome che non si ricorda facilmente se prima non si prova a tradurlo. Ametsa in basco significa sogni. Il misto con l’inglese del sottotitolo “with Arzak istruction” fa invece riferimento a scuola e tradizioni della famiglia Arzak, di quelle costruite in forma di manuale, d’eccellenza s’intende.

Juan Mari Arzak padre, e sua figlia Elena firmano il ristorante con l’autorevolezza che si addice ai membri di una famiglia come la loro, che vanta una lunga tradizione di grande cucina, che risale al 1897, con quattro generazioni di chef.

Elena non è in pianta stabile a Londra, ma la sua presenza è comunque ben percepibile, con la sua mano e le sue istruzioni a garantire l'eccellenza nella realizzazione di bei sogni. In cucina c’è Sergi Sanz Blanco di Barcellona. La squadra in cucina prende la Stella in soli sei mesi dall’apertura, riconfermata anche nel 2017. L'approccio è radicato nelle tradizioni della nuova cucina basca che abbina sapori dalla terra e dal mare con tecniche tradizionali e incursioni contemporanee. Il menu si svolge in un colpo di scena e di palato dopo l’altro. Dal Kataifi con Pastel de Cabracho (una sorta di torta di scorfano) all’Huevo Enhoado (uovo in foglia), ai Tubos de Ensayo Iberico, “minuzie di prosciutto iberico” in provette salva-aroma. Nota di merito per il servizio capace di mescolare professionalità e informalità, come si conviene ad una tavola evoluta contemporanea.

AmetsaAmetsa. Il soffitto con le provette

The Halkin

The Halkin, primo nella storia dei 13 rifugi Como in giro per il mondo, ha appena celebrato il 25mo compleanno. L’anniversario riguarda un progetto che già alla sua nascita si annunciava come l'espressione di un’idea del vivere contemporaneo, di stile di vita di cui ogni hotel Como è oggi ambasciatore, nella sua propria particolarità legata all’identità del luogo in cui si trova. The Halkin è un omaggio all’Italia. Cristina ha una passione antica per il nostro paese e volle che a progettarlo fosse uno studio di Milano Laboratorio Associati con il risultato di un’opera che attraversa i tempi, raccogliendo suggestioni dall’antichità alla tecnologia contemporanea. Dietro la facciata georgiana impeccabile, con mattoni, pietra di Portland e finestre ad arco, gli interni riportano citazioni colte di architettura e design della migliore scuola italiana. In omaggio al passato italiano più illustre, disegno del pavimento nella hall si ispira al pattern ovale di Michelangelo in piazza del Campidoglio. Opera a sé il corridoio scultoreo in pieno stile Modernodei Sessanta: una lunga curva morbida di grande impatto ottico fa da smistamento ai piani. Le pareti scanalate in pannelli ondulati di legno nero, moltiplicano la prospettiva all’infinito con l’effetto di una strana attrazione magnetica. Di grande avanguardiatecnologica per gli anni ’90, la consolle di controllo per la domotica in camera in sei lingue, da cui gestire illuminazione, temperatura e contatti con l’esterno.

Riparato dalle folle, in una strada riservata del quartiere di Belgravia, sembra il posto più adatto a custodire i segreti dello stile britannico più elegante con un appeal tutto italiano, in un mix che è solo da provare. Complicato provare a descriverlo.

 

NobuUn piatto di Nobu

Il Metropolitan

A due passi dal The Halkin, il gruppo Como a Londra ha un secondo indirizzo, quello del Metropolitan dove, a conferma del ruolo centrale dell’alta ristorazione d’hotel, Christina ha voluto Mark Edwards alla gestione del Nobu per i suoi ospiti e per chi abbia voglia di un’esperienza asiatica in fusion nipponico-peruviana delle più accreditate al mondo. Specialitàcomeil merluzzo nero con miso, l’insalata sashimi con salsa di soia Matsuhisa, o il sashimi Hamachi con jalapenos, fanno parte di un menu infinito di piccoli assaggi di felicità. Ma la vera novità di Como a Londra è la cucinashambala di cui il Metropolitan è ambasciatore: una rivoluzione volta a comporre equilibri di una certa complessità.

ShambalaUn piatto di Shambala

Shambala cuisine

Corinna Yap, Como Shambala Spa Director, ci racconta di come ospitalità e cibo risultino gli elementi essenziali per la riuscita di un viaggio ‘esperienziale’ sintonizzato il più possibile con le nostre percezioni. “Parliamo di quando visitiamo una città, un luogo, per lavoro o vacanza, e quel che vorremmo sopra ogni cosa è prenderne il meglio nel poco tempo solitamente disponibile. È tutto un gioco di tempi (stretti), voglia di vedere, conoscere, passeggiare, correre in giro e anche stancarsi. L’equilibrio complicato è immergersi totalmente in un luogo nuovo, cercare di assorbirne il massimo, e al contempo riuscire ritrovarsi nella propria privacy e intimità, la nostra comfort zone di sempre”. Trascorrere tre giorni in una metropoli come Londra e percepirne un benessere profondo, che ricarica di ogni fatica, è un modo rapido per comprendere, sul proprio bioritmo, cosa significa mangiare secondo i principi shambhala, circondati da un ambiente dalla serenità contagiosa. “Curiamo il corpo per lenire l’anima. Nella cucina shambala non si tratta di contare le calorie: una cucina sana può e deve essere gustosa e nutriente, bella anche da vedersi. Ogni pasto è progettato per massimizzare le nostre prestazioni personali, aumentare i livelli di concentrazione e di energia senza incorrere in squilibri di zucchero nell’organismo. Lavoriamo in tal senso nei nostri menu da oltre 10 anni”.

Volendo avere qualche indicazione in più sui modi in cui ottenere questo obiettivo, risponde facilmente: “Nella nostra cucina è di uso comune il latte di riso in sostituzione del latte di vaccino; ogni giorno prepariamo pane fresco senza lievito, usiamo poco sale e stevia al posto dello zucchero. Cerchiamo fornitori locali e prodotti biologici dove possibile. A tavola c’è un mix perfettamente calibrato di ingredienti freschissimi, crudi e cotti, ognuno con scopi nutrizionali molto specifici” spiega, e prosegue: “Le tecniche di preparazione sono estremamente delicate e gli ingredienti vengono trattati pochissimo in modo da esaltarne la ricchezza di enzimi vivi, vitamine e minerali per purificare il corpo, dall’esterno all’interno. I pasti si accompagnano a una gamma di circa 20 tipi di succhi di frutta mista a verdure preparati al momento: elisir, brodi e tè biologici, ognuno con sue specifiche azioni sull’organismo, dal detox al rilassante, all’energizzante. Insieme alle specialità shambhala, fanno del progetto Met una delle cucine più innovative a Londra.

Per il 25° anniversario appena passato, il nuovo libro di ricette healthy firmato COMO Shambhala, ha una copertina speciale con lettere di colore ramato brillante incise su tela. Sfogliarlo è un piacere tattile e invita a mettersi ai fornelli a preparar cose buone in cucina, e attraverso di questo volersi bene, prima di prenotare un volo per la Londra più esotica che c’è, vicino Hyde Park.

 

The Halkin | GB | Londra SW1X 7DJ| 5-6, Halkin St, Belgravia | tel. +44 20 7333 1234| http://www.comohotels.com/thehalkin/dining/ametsa-arzak-instruction

Metropolitan | GB | Londra W1K 1LB | Old Park Lane | tel. +44 20 7447 1000 | http://www.comohotels.com/metropolitanlondon/dining

 

a cura di Emilia Antonia De Vivo

LSDM 2017 report. Seconda giornata: Olleros, Mukhin, Desramaults, Klugmann

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Nella seconda giornata de Le strade della Mozzarella il viaggio si spinge ancora più lontano alla scoperta di territori e paesaggi diversi. Lontani, se non geograficamente, nelle atmosfere e le culture. 

Chi ancora non fosse convinto che la gastronomia possa rappresentare la chiave d'accesso alla cultura di un paese, avrebbe dovuto passare qualche ora nelle sale del Savoy Hotel di Paestum.

Nella seconda giornata de Le strade della Mozzarella continua il viaggio verso territori e paesaggi diversi, lontani e non.

Il piatto di Javier Olleros

Lo spagnolo Javier Olleros di Culler de Pau a Pontevedra, in Galizia

La vicina Spagna si rivela selvaggia e tumultuosa in quell'area di confine e di contasti che è la Galizia. Natura ruggente, scarpate precipitose e pascoli scoscesi. È questo il panorama che si scorge dalle grandi vetrate di Culler de Pau di Pontevedra. Un finis terrae dove Javier Olleros,tra i più interessanti spagnoli della sua generazione, officia una cucina che stringe relazioni non solo virtuose ma quasi simbiotiche con i produttori della zona. Che gli offrono, da un'area pure circoscritta, tesori capaci ancora - dopo anni - di stupire lo chef stesso, che ricambia con la presa in carico di un impegno di responsabilità, onestà e rispetto nei loro confronti. In questa prospettiva, “cucinare il paesaggio” rappresenta l'ideale didascalia del suo lavoro, nel quale tradizione e modernità vanno a braccetto. Ed è interessante vedere in che modo il suo approccio alla cucina, così intimamente legata alla materia prima e al territorio (inteso anche come organismo di luoghi persone e conoscenze), abbia affrontato un prodotto complesso come la mozzarella di bufala. Lo ha scisso nelle sue componenti, studiato e sperimentato mediante le temperature. Con l'obiettivo non di coprirlo, ma di svelarlo nella sua caratteristica centrale: la freschezza. Ne è nato un piatto molto contemporaneo nell'uso di un'acidità presente ma misurata con estrema eleganza, nelle consistenze, nei contrasti tra morbidezze e spigoli, fresco eppure lussuoso. Un raviolo di sfoglia leggerissima di farina di riso e siero e cuore di mozzarella. Insieme, sul fondo di latte di mozzarella, una perla ottenuta lavorando insieme e poi facendo bollire mozzarella siero e panna, del pesce marinato nel siero e, a contrasto, tocchi erbacei e vegetali. Ma le prove del galiziano non finiscono qui e continuano nei brodi intensi e gelatinosi, nella ricerca di sfumature saline e di punte sapide a restituire la forza di quel mare che osserva ogni giorno dal suo ristorante e che anche qui a Paestum, è compagno fedele della terra rigogliosa.

 

Il russo Vladimir Mukhin del ristorante White Rabbit a Mosca

Ci introduce invece alla grande madre Russia Vladimir Mukhin che, con il suo White Rabbit di Mosca, è lo chef più famoso della sua nazione. Il più internazionale e quello che, più di ogni altro, ha interiorizzato la lezione della gastronomia mondiale. Che oggi esibisce un interesse sempre più deciso verso le tradizioni locali. Nel suo intervento Mukhin ci dà uno spaccato di una cultura ancora troppo poco conosciuta, quella di una nazione da sempre incline a cogliere prodotti e suggestioni straniere, la cui identità gastronomica è debitrice tanto delle sue condizioni climatiche quanto di una storia alimentare tutta da indagare. Ci sono le acidità e le fermentazioni, le zuppe opulente, i sapori sferzanti di certi vegetali, i cetriolini di molte fogge (a quanto pare uno dei prodotti caratteristici), ma anche la passione per i latticini la cui ricchezza fa da contraltare alle caratteristiche note pungenti di certi sapori. Scopriamo infatti una lunga familiarità con mozzarella, ricotta e soprattutto burrata. Importate prima, prodotte in loco in questi tempi di embargo: certamente prodotti diversi da quelli originali (e la meraviglia di Mukhin nell'assaggiare il latticino campano e il suo liquido di governo, la stessa di tutti gli chef stranieri, ne è la testimonianza più evidente) ma rivelano le potenzialità di un territorio che va ben oltre le distese gelide a cui di solito si associa. La capasanta marinata al melograno, unita a foglie di radicchio, cipollotti, cren e gli immancabili cetrioli, sono gli elementi che accompagnano la morbidezza materna della mozzarella. Prosegue a mescolare sapori di origini diverse, Mukhin, come caviale di trota, cetrioli, burrata e acqua di mozzarella, o ancora in una versione della caprese in cui l'aceto balsamico (in Russia ingrediente immancabile di questo piatto che ci rivela un'importazione non proprio fedele) è sostituito dal malto fermentato usato nel pane nero.

Gaggan Anand e il suo locale omonimo a Bangkok

Un viaggio più lungo porta in India, e dall'India in Thailandia. È quello in cui ci accompagna Gaggan Anand, miglior chef per la 50 Best Asia con il suo locale omonimo a Bangkok. Indiano di nascita, traccia una linea tra le sue origini e quelle del nostro paese, rivela inaspettati punti di congiunzione e li filtra attraverso lasua esperienza thailandese, che dura ormai da 10 anni. “Devo cambiare l'India fuori dall'India” dice. E non è l'unica cosa che racconta: con il suo fare da grande mattatore mette in fila storia e passioni, battute irresistibili e spunti di riflessione, in un intervento che pare essere un manifesto di quanto la cucina possa sintetizzare e raccogliere della vita. Il latte come simbolo dell'elemento materno e come richiamo decisivo alla sua infanzia in India è uno degli snodi centrali. Con gli allevamenti visitati a Paestum che mettono in moto il cortocircuito del ricordo dei villaggi dove è cresciuto, dove le vacche avevano un ruolo fondamentale nella comunità e il latte era un alimento base. Poi il suo quadro si compone: il rito del tè e quello dello street food, le 25 cucine del suo paese, il fritto ovunque, il masala e la passione per i fermentati che, dice “non devono essere fini a se stessi, ma funzionali al piatto”. E poi la necessità di spingersi oltre il già visto e il già fatto, di uscire dalla comfort zone per entrare nella vita vissuta, abbracciando le sfide che si pongono giorno dopo giorno, traguardo dopo traguardo. Un'ondata di parole e racconti profumata di spezie, quelle del tè masala accompagnato dalla crocchetta nera di ricotta, spinaci ed erbe aromatiche.

Il piatto di Antonia Klugmann

Continua poi il giro per il mondo e sulle strade della mozzarella: la vicina Barcellona di Paolo Casagrande (Restaurante Lasarte), autore di una meravigliosa insalatina di pesce, il Belgio di Kobe Desramaults che ha annunciato la prossima apertura a Gent, quella terra di confine che è il Collio, dove alberga Antonia Klugmann, la Cina contemporanea tradotta da Ed Schoenfeld, patron del Red Farm di New York e i molti spunti che, anche in Italia, la regina bianca ha portato con sé.

 

LSDM | Paestum (SA) | Savoy Beach Hotel | il 19 e 20 aprile | www.lsdm.it


Le Strade della Mozzarella 2017 report. Prima giornata

a cura di Antonella De Santis

 

 

Maltempo d'aprile. Gelo e grandine danneggiano i vigneti da Nord a Sud

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Vigne e ortofrutta sono state duramente colpite dall’improvvisa ondata di maltempo, con gelo e neve, che sta inaspettatamente attraversando l’Italia. 

Situazione critica in tutta Italia

Temperature sotto lo zero, venti freddi e primi effetti dannosi sulle viti nella delicata fase fenologica del germogliamento. Non è la prima volta che il mese di aprile riserva all'agricoltura questi scherzi. Accadde anche un anno fa. Dal Piemonte al Veneto, dalla Toscana alla Campania, fino alla Sardegna, sono diversi i territori dell'Italia interessati dalle gelate, e in alcuni casi dalla grandine, a seguito dell'ingresso di aria fredda dalla zona dei Balcani. A partire dalla sera di Pasqua, il freddo ha messo in crisi i viticoltori. Sabato è previsto un rialzo termico.

 

In Piemonte, in provincia di Asti, il vento di tramontana ha portato sotto zero le temperature e a soffrire sono stati soprattutto gli impianti più nuovi. Qualche problema anche nell'area del Barolo, così come nel Canavese e Vercellese. Forte la preoccupazione nella zona del Blanc de Morgex, in Valle d'Aosta, dove il 90% dei vigneti ha subito gli effetti del freddo e dove bisognerà attendere almeno una settimana per capire con esattezza gli effetti sulla pianta. Tra il 16 e il 17 aprile, una forte grandinata ha interessato le province di Mantova (Poggio Rusco, Villa Poma, Pieve) e Modena. Gelate anche sui Colli Bolognesi in zona Borgo Tossignano (danni oltre il 50%). Battuta d'arresto per la primavera anche nell'areale bresciano, in Franciacorta, dove il consorzio di tutela ha registrato una gelata sui vigneti tra martedì 18 e mercoledì 19. I sopralluoghi dei tecnici parlano di "danni a macchia di leopardo", soprattutto nei terreni a fondovalle e nelle aree pianeggianti. È presto per fare una stima, essendo un fenomeno precoce la vendemmia non è compromessa anzi "si ipotizza un possibile recupero anche delle vigne più colpite". Soffrono anche la Valtellina (area Grumello) e l'Oltrepò Pavese, come rileva la Coldiretti.

 

La situazione in Veneto

Più a est, tra Verona, Vicenza e Treviso, a causa del termometro sceso a -1 gradi, Confagricoltura rileva difficoltà per le vigne a causa degli effetti della brina. Interessati, in particolare, i vigneti di Glera, Sauvignon, Chardonnay e Pinot grigio, con danni stimati tra 60% e 80%, con qualche punta del 100% nel territorio vicentino, e dal 30 al 50% nel trevigiano. Colpita l'area di Valdobbiadene, terra del Prosecco superiore. Nella provincia di Padova, la Cia segnala effetti del gelo su almeno il 70% della produzione sui 5.800 ettari vitati complessivi. Prudenza, invece, nelle stime da parte del Consorzio della Doc Arcole, colpita dalla gelata soprattutto tra i comuni di San Bonifacio, Locara e Cologna Veneta: "Alcuni vigneti sono decisamente compromessi altri sono invece recuperabili, ma va detto"sottolinea il Consorzio dell'Arcole "che non conosciamo la reazione alle gelate da parte di varietà nuove (Pinot grigio; ndr) di recente impianto in questo territorio". Salvo il vigneto della Doc Colli Berici, fa sapere il Consorzio: "Dove è concentrata la produzione di vitigni a bacca rossa identificativi di questo territorio come Tai Rosso, Cabernet e Merlot, i problemi sono contenuti e poco consistenti".

 

Il gelo non ha risparmiato il Centro e il Mezzogiorno

Sul vigneto toscano, è pari a circa 80 milioni di euro la stima di Confagri: più del 20% della produzione è compromessa. A Montalcino, terra del Brunello, sono stati interessati i terreni più bassi. Nel Chianti, Chianti Classico e Chianti Rufina alcune aziende hanno perso fino al 90% della produzione. Più a sud, nel Lazio, i vigneti a Frosinone e Latina hanno sentito il colpo. In Campania, dove lo scorso anno una gelata di aprile interessò l'Irpinia, i problemi sono segnalati ai vigneti nel Beneventano e nell'Avellinese. In Sardegna, riferisce la Coldiretti, migliaia di ettari di vigneti sono stati “bruciati” dalle gelate nel Sassarese, con l'area di Berchidda particolarmente colpita. Secondo l'associazione presieduta da Roberto Moncalvo, tutta l'agricoltura nel suo insieme ha subito danni da questo maltempo anomalo per circa cento milioni di euro.

 

a cura di Gianluca Atzeni

 

 

Questo articolo è uscito sul nostro settimanale Tre Bicchieri del 20 aprile

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Foto

Franciacorta (foto Lazzari vini, Capriano del Colle)

 

In viaggio. Mangiare a Varsavia e scoprire la sua crescita gastronomica

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Abbiamo vissuto una città in movimento, pulsante, che non rinnega il passato ma volge lo sguardo al futuro. E lo fa benissimo. Parliamo di Varsavia.  

Musei, artigiani, bar e mercati, ma soprattutto giovani e vivaci chef danno alla capitale polacca un tocco di vitalità che negli ultimi tempi ha reso la città un luogo piacevole ed effervescente. Ai fornelli, ragazzi che cresciuti nelle cucine di Francia, Inghilterra e Italia portano alla tradizione gastronomica un interessante e godibile apporto di modernità.

La leggenda

Un giorno uscì dal fiume Vistola una bellissima sirena di nome Sawa. Il posto le piacque così tanto che decise di rimanervi per sempre, per la gioia di tutti i pescatori che ogni sera si deliziavano con il suo bellissimo canto. Purtroppo, settimane dopo, un ricco mercante la vide e decise di catturarla e imprigionarla in un capanno di legno. Sennonché, Wars, il giovane figlio di un pescatore udì il pianto della sirena e con l'aiuto dei suoi amici, la liberò. La sirena, grata del gesto, promise di difendere la città, armata con spada e scudo. Da qui il nome Warsaw. Città che rispecchia perfettamente l'indole dei due protagonisti. Lui grigio, malinconico, triste, gonfio di dolore. Lei allegra, luminosa, delicata, armonica, sorridente. Wars e Sawa: due volti di una città che gli abitanti perdonano e di cui turisti si innamorano.

foto di Alberto Blasetti

I musei: Storia, Guerra, Comunismo e la nuova creatività

Per capire la città fino in fondo non potete non visitare il Warsaw Rising Museum, un museo dove è descritta e rappresentata la storia travagliata della città. Prima martoriata dai tedeschi durante la seconda guerra mondiale - nel gennaio del 1945 l'85% di Varsavia era completamente distrutto – poi invasa e prosciugata dalle truppe sovietiche, che erano state a guardare tale distruzione senza intervenire. È proprio per via della sua storia che oggi Varsavia è una città riedificata, anche se si è cercato di ricostruire seguendo la forma originale, perlomeno delle principali chiese e palazzi. Il coloratissimo centro storico della Città Vecchia oggi è Patrimonio dell'Umanità dell'UNESCO. Un altro museo imperdibile (non preoccupatevi, il tempo stimato di visita è di circa 15 minuti) è quello dedicato ai neon, all’interno di un complesso in mattoni rossi di quella che nel Novecento fu una fabbrica di munizioni: la Soho Factory. Diventata cuore creativo di Varsavia, incubatrice di start-up, punto di ritrovo di giovani imprenditori, fotografi, designer, stilisti, commercianti, architetti. Anche in questo caso sapere la storia è fondamentale: le centinaia di insegne al neon presenti nel museo un tempo illuminavano le notti della Varsavia socialista, quando il regime cercò di adottare nuovi linguaggi comunicativi per superare il grigiore del periodo più ideologico. Se avete tempo, sempre nella factory, si trova il Museo del Comunismo, un vecchio appartamento comunista che mostra un autentico spaccato di vita quotidiana di quei tempi.

foto di Alberto Blasetti

All'aria aperta

Ovviamente di musei, a Varsavia, ce ne sono molti, ma il consiglio è di perdervi tra le stradine del centro storico, passando per la piazza del Castello, quella del mercato e oltrepassando le mura che dividono la città vecchia dalla nuova; con un'unica raccomandazione: se incontrante una “panchina musicale” ricordatevi di pigiare il bottone, partirà come per magia una sinfonia di Chopin. Durante le vostre passeggiate sarà impossibile non vedere il Palazzo della cultura e della scienza di Varsavia (PkiN), costruito nel 1955 in una città ancora devastata dalle macerie della guerra e preso di mira con l’avvento della democrazia: c'era più di qualche polacco che voleva distruggerlo. Oggi nelle sue stanze c’è di tutto, dal cinema ai teatri, dai musei ai locali. In cima la terrazza panoramica, da cui si scorge, oltre il letto della Vistola, lo Stadion Narodowy, costruito per gli Europei di calcio del 2012. Qui vengono organizzati anche concerti. Con l'avvicinarsi della primavera, ma soprattutto dell'estate, sono due le mete più gettonate: il Parco Łazienki dove d'estate ogni sera c'è un concerto gratuito (occhio agli scoiattoli!). E il lungo fiume Vistola, dove a partire da maggio si inaugura la stagione della navigazione.

Dove mangiare

Ma veniamo all'aspetto che più ci ha colpito, ovvero l'incredibile fermento gastronomico. Già, perché moltissimi chef polacchi con alle spalle esperienze francesi, italiane, spagnole, data la crescita economica, sono ritornati a Varsavia. Nelle cucine di Varsavia. Ecco gli indirizzi imperdibili in ordine alfabetico:

Atelier Amaro. È il primo ristorante polacco ad aver ricevuto la stella Michelin. La cucina di Modest Amaro esprime le influenze di Ferran Adrià e René Redzepi, con i quali Modest ha lavorato. È una cucina tecnica e creativa, che fonda le sue basi sulla natura e le sue stagionalità.

foto di Alberto BlasettiFoie gras con zucca e olivello spinoso - Concept 13

Concept 13.Se potete andateci a pranzo perché la luce che vi entra dalle enormi vetrate è impagabile. La cucina dello chef Dariusz Barański è giovane e divertente: si parte con un delicatissimo Cavolfiore e maionese all'aglio, si continua con il Foie gras con zucca e olivello spinoso. Si passa alla tipica zuppa polacca, lo Żurek, (zuppa tipica polacca) con funghi e farina di segale fermentata e all'Anatra, carote e mandarini. Si conclude con delle pere cotte al vino e miele, accompagnate con gelato al burro affumicato.

 

foto di Alberto Blasetti

Dyletanci Il Ristorante Dyletanci è frutto di un duo: Rafał Hreczaniuk e Maciej Sondij. Rafał è lo chef, che ha lavorato in locali come Chapter One di Dublino o L'Ecrivain sempre a Dublino, e che ha l'arduo compito di stare all'altezza dei vini scelti da Maciej, un produttore e importatore di vini che per il suo locale si sta letteralmente sbizzarrendo.

foto di Alberto BlasettiMichael Tkaczyk - Elixir Dom Wódki

Elixir Dom Wódki. È stato un'autentica sorpresa. Ce l'hanno presentato come un locale dove si pasteggia con la vodka, ma in realtà (oltre ad aver assaggiato vodke incredibili: una tra tutte quella fermentata con il rafano) è la cucina la vera protagonista. Lo chef Michael Tkaczyk ha la capacità di innovare i piatti tradizionali senza stravolgerli. Li migliora, semplicemente. Il suo Żurek si può dire sia il migliore di Varsavia, Michael lo prepara con bacon, patate, uova di quaglia, pancetta croccante ed emulsione di maggiorana. Meritano anche i Pierogi (ravioli polacchi) ripieni di anatra, barbabietole e mele cotogne o quelli con salmone, crauti, coriandolo e cumino nero.

foto di Alberto BlasettiCipolle ripiene con maiale -  Kieliszki na Hozej 

Kieliszki na Hozej. Un ristorante aperto a ottobre scorso dallo stesso proprietario del ristorante Kieliszki na Próżnej. Qui lo chef Dawid Balana ha un'impostazione francese (si è laureato con il massimo dei voti alla scuola di Alain Ducasse a Parigi) e il sommelier è preparatissimo. E la formula del menu che consente di assaggiare tanti “mezè” è l'ideale. Tant'è che non ci siamo risparmiati. In ordine sparso: Cipolle ripiene con maiale, grano saraceno e funghi; Zuppa di patate con porri e tartufo; Alette di anatra e crocchette con le sue frattaglie; Aringhe marinate; Rombo con topinambur, burro di aragosta e taro.

foto di Alberto Blasetti

Andrea Camastra - Senses

Senses. In questo stabile, che prima della distruzione nella Seconda Guerra Mondiale era la zecca della città,  Andrea Camastra propone una cucina impattante e di pancia, a partire dallo studio spasmodico che Andrea svolge nel suo laboratorio. Pensiamo alla Trota con groviera, cren e salsa di mandorle, al Goulash con granchio reale, yuzu e yogurt e peperone arrostito oppure al Pierogi con bottarga, lardo, gambero rosso e salsa affumicata. Una cena qui rimette in pace con il mondo.

foto di Alberto Blasetti

Le alternative e il bere

Un'alternativa suggestiva è quella dei milk bar, specie di mense istituite dal Partito Comunista per garantire a tutti un pasto caldo, il cui fascino è rimasto immutato nel tempo. Così come i prezzi: qui potete mangiare gli autentici piatti tipici con pochi euro, dai Pierogi allo Żurek fino ai Placki ziemniaczane (frittelle di patate). Uno dei nostri preferiti è il Bar Ząbkowski nel quartiere Praga, che consigliamo di visitare. Un po' hard-core, se vogliamo, ma un'esperienza unica. In cucina le signore sembrano continuare a vivere nel periodo sovietico e i frequentatori rappresentano tutte le classi sociali di Varsavia. Se non ve la sentite, optate per i milk bar della catena Zapiecek(presente solo a Varsavia) dove il menu è illustrato.

A Varsavia si beve anche. E bene. Noi abbiamo provato tre cocktail bar, tutti convincenti: The Roots, Klar Cocktail Bar e Kita Koguta. Se invece volete fare un aperitivo o una cena al volo andate da Hala Koszyki. Quel che nel 1906 fu un vero e proprio mercato, è stato da poco ristrutturato e rimesso in vita. Il format è simile ai nostri mercati gastronomici con all'interno bar, ristoranti, alcuni negozi e un mercato alimentare chiamato Koszyki Bazar.

foto di Alberto Blasetti

Prima di ripartire, un indirizzo per souvenir gastronomici è sicuramente il BioBazar: mercatino di prodotti biologici provenienti da agricoltori e artigiani polacchi, dove trovare formaggi, insaccati e conserve eccezionali.

 

Musei

Warsaw Rising Museum | Grzybowska 79 | www.1944.pl

Museo dei Neon | Mińska 25 | www.neonmuzeum.org

Museo del Comunismo | Minska 22 | czarprl.pl

Ristoranti

Atelier Amaro | Agrykola 1 | atelieramaro.pl

Concept 13 | Bracka 9 | www.likusrestauracje.pl/pl/Restauracja_Concept

Dyletanci | Rozbrat 44A | www.facebook.com/dyletanci

Elixir Dom Wódki | Wierzbowa 9/11 | www.facebook.com/domwodki

Kieliszki na Hozej | Hoża 41 | www.facebook.com/Kieliszki-na-Hożej

Senses Restaurant | Bielańska 12 - Senator building | sensesrestaurant.pl/en

Milk bar

Bar Ząbkowski | Ząbkowska 2 | barzabkowski.waw.pl

Zapiecek | www.zapiecek.eu

Cocktail bar

The Roots | Wierzbowa 11 | www.facebook.com/therootswarsaw

Klar Cocktail Bar | Krakowskie Przedmieście 41 | klarcocktailbar.com

Kita Koguta | Krucza 6/14 | kitakoguta.pl

Mercati

Hala Koszyki | Koszykowa 63 | koszyki.com

BioBazar | Żelazna 51/53 | biobazar.org.pl

 

a cura di Annalisa Zordan

foto di Alberto Blasetti

 

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