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Invasione di cinghiali alla Riserva della Marcigliana. Cosa dicono gli agricoltori che coltivano alle porte di Roma

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Il problema è annoso, diffuso sul territorio nazionale, e coinvolge da anni molte amministrazioni locali ed enti ambientali. Da qualche mese però l'allarme cinghiali è scattato alle porte della Capitale. E nella Riserva della Marcigliana minaccia circa 70 aziende agricole. La parola ai diretti interessati. E la risposta di RomaNatura. 

L'invasione dei cinghiali. Dove, come e perché

Il problema non è nuovo. Del proliferare indiscriminato delle colonie di cinghiali presenti sul territorio italiano trattavamo approfonditamente già nell'estate 2015, quando l'allarme si diffondeva su scala nazionale, sull'onda di disagi diffusi tra aziende agricole e produttori, e ancor più per il timore di non riuscire ad arginare un'invasione capillare e sempre più minacciosa alle porte delle grandi città. Dove i cinghiali fiutano la possibilità di cibarsi in abbondanza, tra rifiuti e scarti alimentari. E imbattersi in qualcuno di loro, magari nel buio della notte con quanto ne consegue in termini di danni a cose e persone, è un rischio da considerare. Così eravamo risaliti anche alle cause di una situazione sfuggita di mano in tempi non sospetti, quando il ripopolamento a scopo venatorio intrapreso a partire dagli anni Cinquanta aveva messo in circolazione capi importati dall'Est Europa, molto più grandi, forti e prolifici dei cinghiali autoctoni. E pure un gran numero di animali ibridati in cattività con i maiali, poi lasciati a piede libero in natura. In barba a qualunque forma di pianificazione faunistica. Di contro però, la legislazione nazionale continua a tutelare i cinghiali come fauna selvatica, e pertanto “patrimonio indisponibile” (legge 157, 192). Questo significa che oggi, salvo deroghe specifiche, la caccia al cinghiale è aperta per tre mesi all'anno, dal 1 ottobre al 31 dicembre. Con l'unica possibilità di ricorrere all'abbattimento controllato autorizzato da Regioni e Province in casi limite.

 

Il caso della Riserva della Marcigliana. Alle porte di Roma

Anche se, a distanza di oltre un anno dal nostro punto della situazione, l'emergenza non è rientrata, e anzi la comunità di cinghiali nella Penisola cresce, con picchi preoccupanti in aree specifiche del Paese, dove la cattiva gestione degli strumenti di controllo unita all'incuria e al degrado ambientale inaspriscono il quadro complessivo. Tralasciando i casi di cronaca che nelle ultime settimane hanno puntato i riflettori sui quartieri periferici della Capitale, la nostra attenzione resta però centrata sul territorio rurale dell'Urbe (dove i cinghiali sono arrivati dal "corridoio" del Parco di Veio), in quella Riserva Naturale della Marcigliana che si estende per 4800 metri quadrati nel perimetro provinciale, dalle propaggini della Bufalotta, delimitata a ovest dal corso del Tevere e a nord dal Rio del Casale, che segna la fine della pertinenza del Comune di Roma. Nell'area, tutelata dell'ente RomaNatura in osservanza della legge 29/1997, sono in attività una settantina di aziende agricole, che costituiscono un circuito di approvvigionamento importante per la Capitale, tra colture cerealicole e orti, allevamenti e agriturismi. Da tempo chi vive e lavora nel parco denuncia un'emergenza a cui, sostengono, nessuno ha saputo prestare l'attenzione che merita, tanto che ora, le voci che abbiamo interpellato sono unanimi nel denunciare una situazione fuori controllo.

L'allarme della Coldiretti

Il primo (e per tutti) qualche settimana fa, è stato il presidente di Coldiretti Lazio David Granieri, che molte di quelle aziende le rappresenta, come appartenenti al circuito di Campagna Amica. A lui il compito di rilevare la “devastazione” in corso, denunciando danni “calcolati nell'ordine di centinaia di migliaia di euro”. E se è vero che nelle aree protette non è possibile ricorrere all'abbattimento controllato, la richiesta è quella di attivarsi per organizzare la cattura con le gabbie, per poi macellare gli animali in mattatoi pubblici e alimentare la filiera del cinghiale, com'è già avvenuto a Viterbo o nel parco del Circeo.

Danni ai campi e mancato indennizzo. La situazione oggi

Quando la parola passa agli agricoltori, le richieste non cambiano, aggravate da una situazione paradossale che non solo costringe le aziende a trovare rimedi fai da te – molti cercano di scongiurare le scorribande almeno negli orti, provando con recinzioni di ultima generazione – a proprie spese, ma li vede pure impotenti davanti all'indisponibilità di fondi regionali che dovrebbero indennizzarli per le perdite del raccolto: “Nel 2016 ci hanno liquidato una cifra irrisoria, ora i soldi sono proprio finiti, ma noi continuiamo a rimetterci” denuncia il titolare dell'Azienda Antiqua, che ha sede proprio nel cuore della Marcigliana. “Sono anni che combattiamo con il problema, ora però il numero dei cinghiali che si muovono nella Riserva è cresciuto, immagino raggiunga le 2mila unità (RomaNatura ridimensiona decisamente la stima, ndr). E sono una razza resistente, partoriscono 7-8 cuccioli per volta”. La stima dei danni? “Abbiamo perdite che oscillano dal 20-50% della produzione, soprattutto per quanto riguarda il favino e il grano. Ora cominciano a brucare anche sotto le piante di ulivo, attorno alle radici. L'orto abbiamo dovuto recintarlo, ma non serve a molto: se entra uno, poi arrivano tutti gli altri”. Per non parlare dei danni all'ecosistema, e del rischio di fare incontri spiacevoli, specie di sera, “spesso devo evitarli in macchina, è anche un problema di sicurezza. E si stanno spostando verso la città: cosa deve succedere ancora perché qualcuno prenda provvedimenti?”.

L'allevamento di bufale di Giancarlo D'Angelo

A quanto pare non molto, visto che proprio pochi giorni fa la procura ha aperto un'inchiesta per indagare sulla cattiva gestione delle aree verdi della Capitale, e l'impunità dei cinghiali è tra i “capi d'accusa” più significativi in mano al pm Marcello Monteleone. Anche se la lista degli “imputati”, dalla Caffarella al Parco di Veio, all'Insughereta, non contempla, almeno per ora, la Riserva della Marcigliana. Intanto il malcontento diffuso cresce, come conferma anche Giancarlo D'Angelo, che della tenuta di famiglia, in attività dal 1930 al confine nord della Riserva, gestisce l'allevamento di bufale su 200 ettari di terra attraversati dalla Salaria. Di questi, 130 sono nell'area protetta, e qui pascolano circa 150 capi per la produzione di mozzarelle, che mangiano solo quello che è coltivato in azienda. Almeno fino all'arrivo dei cinghiali: “La situazione è drammatica. Non è più possibile seminare mais ,favino, piselli proteici, e da quest'anno anche il grano, perché i cinghiali mangiano i semi appena seminati o distruggono il raccolto quando sono maturi. E il favino mi occorre per l'alimentazione delle bufale: ora sono obbligato a sostituirlo con la soia che acquisto”.Confermato anche il problema con la liquidazione dell'indennizzo: “A tutto questo si aggiunge il comportamento del commissario di RomaNatura che, per sua stessa ammissione, non sa come liquidare i danni”. Parole che si ripetono alla prima periferia della città: “I cinghiali hanno scavato tutto il favino, danneggiano le coltivazioni di grano e orzo. L'orto, per fortuna, ancora resiste, grazie alla nuova recinzione”. Siamo all'Azienda Agricola Scrocca, parte della Colonia Agricola della Bufalotta, dove si coltivano circa 38 ettari tra ortaggi, cereali e uliveto.

 

La risposta di RomaNatura

Ma nella Riserva sono diverse anche le strutture che offrono ospitalità. Uno degli ultimi ad aprire, un anno fa, è stato il BoMa Country House, hotel raffinato e ristorante in via della Marcigliana 532. Cosa si dice, al resort, dei cinghiali che sembrano assediare l'area? “Per fortuna non abbiamo ancora riscontrato problemi, anche gli ospiti non si sono mai lamentati”. Certo, resta il fatto che le cronache delle ultime settimane non stanno facendo una buona pubblicità alla Riserva.

E l'Ente Regionale RomaNatura, che gestisce i 14 parchi terrestri urbani e perurbani nel Comune di Roma ne è ben consapevole: “La situazione riguarda gran parte dei nostri parchi” spiega il Presidente Maurizio Gubbiotti, che è pure Coordinatore Regionale Federparchi e laureato in veterinaria “ma l'allarmismo non serve a nessuno. Certo l'emergenza è evidente sul versante agricolo, sociale e per l'impatto negativo sulla biodiversità del nostro ecosistema”. Insomma, “un piano di contenimento è necessario subito, perché dobbiamo lavorare sulla prevenzione, ancor prima che sull'indennizzo, di cui in passato si è abusato e oggi i fondi regionali si trovano in difficoltà a gestire”. Questo significa che, nell'impossibilità di sparare in aree antropizzate - “escludiamo l'abbattimento” - si dovrà procedere alla cattura con gabbie, consapevoli che “si tratta di una procedura che richiede formazione specifica e custodia per evitare incidenti. Ma le stesse aziende agricole sarebbero disponibili a collaborare”. L'altro ostacolo, invece, è di tipo burocratico: “L'approvazione di un piano di contenimento funziona come quella di un piano regolatore, dopo il censimento è necessaria la validazione dell'Ispra, e poi l'approvazione regionale che autorizzi l'entrata in vigore”. Tempi più lunghi, dunque, anche se nell'area di Decima le misure sono già scattate, e l'intenzione di replicare alla Marcigliana e all'Insugherata (sull'esempio della Maremma o della comunità dei Monti Sibillini) c'è tutta, con l'idea di catturare tra i 300 e i 400 esemplari prossimi alla città ogni anno.

Nel frattempo, domani ci si ritroverà in Regione con l'Assessore all'Ambiente, per decidere una misura straordinaria di più rapida esecuzione: “Stiamo pensando di approntare un recinto all'interno della Riserva dove riunire i cinghiali, in attesa di procedere alle operazioni di cattura dei singoli animali”. Una sorta di allevamento controllato, che potrebbe limitare i danni. Ma, ricorda Gubbiotti, “c'è una questione centrale, che chiama in causa il Comune di Roma: i cinghiali arrivano in cerca di cibo, è necessario potenziare la pulizia delle strade, lavorare sulla segnaletica stradale, manutenere le aree verdi a ridosso delle strade”. 

 

a cura di Livia Montagnoli


ViniVeri 2017. I 5 migliori assaggi da Cerea

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Ecco i nostri migliori assaggi della quattordicesima edizione di ViniVeri, a Cerea. Da un grande nome come Rinaldi all'azienda mignon come Angol d'amig, dal rosato alle bollicine. Una selezione di etichette da scoprire (o riscoprire).

Non solo Vinitaly: ormai intorno alla fiera del vino di Verona ci sono una serie di appuntamenti e manifestazioni satellite, dentro e fuori la città. Tra quelli di maggior richiamo, la manifestazione che anticipa di un paio di giorni quella di Verona, ovvero ViniVeri a Cerea, giunta ormai alla 14esima edizione. Un appuntamento tutto dedicato alle produzioni naturali (certificate bio oppure no), quest'anno dedicata alla primavera e dedicata alla Rinascita di Castelluccio di Norcia e dei territori colpiti dal terremoto.

Brichet

Brichet Casa Coste Piane

Pimpanti i due Prosecco con rifermentazione spontanea in bottiglia di Loris Follador, proposti a prezzi onestissimi. Leggera preferenza per il Brichet, da un piccolo appezzamento con terreni particolarmente ghiaiosi e clima più fresco. Che bel naso: arioso, fragrante e nitido. Bocca bella sapida, incisiva, fragranza da mela spaccata sul tavolo, tratto appena rustico e finale secco che spinge e rinfresca. Opzione obbligatoria: magnum.

 

Fric

Fric 2016 Casebianche

Visione e sperimentazione. La cantina cilentana di Pasquale Mitrano è tra le realtà più vivaci e in crescita del Sud Italia. Sugli scudi la batteria di rifermentati in bottiglia, su tutti il FRiC, un fragrante e goloso aglianico rosato. Profuma di melograno, piccoli frutti rossi e scorza d'arancia; la bocca schiocca per ritmo e velocità, con un frutto puro, un'acidità vibrante ma ben integrata e un finale saporito e appuntito che fa fare un sussulto alla lingua. Che bella bevuta.

 

la banda

La Banda 2016 Angol d'amig

È alla quarta vendemmia Marco Lanzotti, proprietario di questa piccolissima realtà di Castelvetro, nel modenese. Una manciata di bottiglie, ma da seguire con molta attenzione. Delicato e di gran carattere La Banda, un Lambrusco di Sorbara rifermentato in bottiglia. Profumi invitanti e nitidi di fiori e polpa a frutta bianca, bocca di grinta e spinta, di grande continuità e lungo sapore, con un timbro agrumato ben sfumato e un leggero tocco di frutta secca, sullo sfondo. Sull'etichetta, il dato produttivo, 665 bottiglie, e numero di cellulare del produttore.

 

Klinec

Malvasia 2012 Klinec

Una meraviglia dal Collio sloveno. Riflessi dorati particolarmente brillanti e un tripudio gentile e cangiante di note iodate, agrumi, erbe aromatiche. E che razza di bocca: multidimensionale, affilata e cremosa, avvolgente e lunghissima. In una parola:, trascinante. “La 2012 è stata un'annata caldissima e le piante sono dovute andare a pescare affondo nel suolo. Senti che sapidità e mineralità!”, sorride Aleks Klinec. Cinque giorni di macerazione sulle bucce e poi maturazione in botti di acacia sulle fecce.

 

rinaldi

Langhe Nebbiolo 2015 Giuseppe Rinaldi

Chiudiamo con un'ottima versione di un classico che continua a sfoggiare un favorevolissimo rapporto qualità prezzo. Negli ultimi anni sembra aver accentuato la sua quota tannica senza perdere in slancio e piacevolezza di frutto. La 2015 è matura ed elettrizzante, rigorosa nello sviluppo, ampia nel fraseggio gustativo, dirompente per freschezza ed energia. Finale in crescendo, e che crescendo!

 

A cura di Lorenzo Ruggeri e William Pregentelli

foto di apertura di Paolo Metelli

 
 

I migliori mieli d'Italia. Mario Bianco di Caluso

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Un'azienda apistica piemontese che è riuscita a stabilire fin da subito legami solidi e duraturi con l'estero, esportando il gusto del made in Italy fuori i confini nazionali ed europei. La storia di Mario Bianco.

Le origini

Una tradizione tramandata di generazione in generazione: la famiglia Bianco di Caluso (Torino) è da sempre appassionata di apicoltura ma bisogna attendere i primi anni '70 perché l'amore per le api si trasformi in lavoro a tutti gli effetti, con la nascita dell'azienda. “Abbiamo cominciato a produrre a livello regionale, poi abbiamo inserito degli alveari anche in Sicilia, a Zafferana Etnea, in provincia di Catania, dove abbiamo lasciato le arnie in affidamento a una cooperativa locale”, racconta Andrea Bianco, attuale proprietario. “La svolta c'è stata nel 2000: abbiamo ricevuto un'offerta per portare il nostro miele in Giappone, e così abbiamo rivoluzionato il packaging e ci siamo specializzati sempre di più”. Valorizzando i piccoli lotti, differenziando la produzione, “attraverso un'attenta analisi organolettica del prodotto: abbiamo diverse linee, ognuna caratterizzata da aromi e qualità specifiche”.

La produzione

400 arnie in tutto per una produzione che si aggira attorno ai 250 quintali di miele l'anno, nonostante le difficoltà degli ultimi tempi, “in cui le condizioni climatiche non sono state molto favorevoli e l'attacco da parte dei parassiti è stato più violento”. Miele di acacia, castagno, tarassaco, ciliegio, millefiori alpino, rododendro e tiglio, queste le specialità realizzate in Piemonte, mentre la produzione siciliana è dedicata al miele di agrumi e di eucalipto. Oltre al nettare degli dei, l'azienda lavora anche distillati e cioccolata, prodotti in collaborazione con altre aziende. C'è il liquore Mielò, “realizzato con il contributo della distilleria Revelchion di Ivrea” a base di grappe piemontesi e miele siciliano di agrumi e la selezione di praline, le Honey Diamonds (diamanti di miele), “cioccolatini fondenti ripieni di crema al miele di agrumi e liquore Mielò” prodotti insieme a una realtà artigianale di Ivrea, Nella Cioccolata. Presenti anche pappa reale e polline, ma in misura minore, “abbiamo così tanti elementi che non riusciamo a concentrarci anche su questi”.

Il packaging

Fondamentale per lo sviluppo dell'azienda è stata la rivoluzione del packaging, avvenuta grazie alla collaborazione con il Giappone: “I consumatori e commercianti giapponesi sono molto più attenti di noi all'estetica dei prodotti e così negli anni abbiamo cercato di capire quale fosse per loro il dettaglio in grado di fare la differenza”. E la risposta è stata semplice: “Il valore aggiunto è dato dalla possibilità di riuscire ad ammirare il prodotto attraverso la confezione senza avere – come spesso accade – un'etichetta troppo grande che copre l'alimento”. Un concetto facile e di impatto immediato, che ha rappresentato per la famiglia Bianco un punto di svolta: “Dopo 7 anni di lavoro con i giapponesi, siamo riusciti a trovare le persone giuste per realizzare delle confezioni adatte, essenziali ed eleganti”. A curare packaging e grafica, lo studio piemontese Xito, “nostri cari amici da molto tempo con cui abbiamo stretto un rapporto lavorativo duraturo e consolidato”.

La vendita

La maggior parte dei prodotti firmati Mario Bianco, dunque, sono destinati all'estero, in particolare al Paese del Sol Levante e agli Stati Uniti: “In America ci appoggiamo a Rosenthal”, gruppo specializzato nella vendita di prodotti alimentari, coltelleria e articoli da cucina, “che vende soprattutto mieli d'annata, organizzando delle degustazioni verticali in cui i consumatori possono assaggiare lo stesso prodotto di età diverse”. Mentre in Giappone è l'azienda Queen Been Garden di Tokyo a occuparsi della vendita del miele, che arriva nella capitale nipponica sfuso all'interno di container appositi e viene messo in vasetto direttamente dall'azienda, che lo commercializza a marchio Mario Bianco. E in Italia? “Vendiamo principalmente online e poi abbiamo una gamma diversa, con packaging e prodotti differenti, disponibile presso i punti vendita Crai”.

La comunicazione

Ma perché così poca vendita nel Belpaese? “In realtà siamo finiti all'estero per una serie di coincidenze e l'attività ha iniziato a ingranare fin da subito nei paesi stranieri”, ma il settore del miele in Italia sta crescendo e Andrea ce lo conferma: “Siamo in un momento di spartiacque, perché i crolli produttivi degli ultimi 5 anni hanno generato un'invasione di miele straniero di bassa qualità sugli scaffali dei nostri supermercati”, soprattutto per l'innalzamento del prezzo medio dei prodotti italiani. Parliamo di circa 12/13 euro per un chilogrammo di miele. “In questo modo, da una parte ci sono i consumatori non disposti a spendere che scelgono di acquistare un prodotto di qualità inferiore, e dall'altra ci sono quelli più attenti che non vogliono rinunciare al gusto”. E così, mentre la Gdo (Grande Distribuzione Organizzata) si trova attualmente in una fase di stallo, le botteghe specializzate nella vendita di prodotti artigianali stanno vivendo un momento di rinascita e grande sviluppo. Il segreto per promuovere la cultura del miele buono? “Comunicarlo al meglio, come accade nei piccoli punti vendita gestiti da commercianti appassionati oppure durante eventi e corsi di formazione”. Andrea organizza per questo serate di degustazione e incontri dedicati a diffondere il verbo del miele artigianale, oltre a corsi di assaggio: “Sono iscritto all'Albo Nazionale degli Esperti in Analisi Sensoriale di Miele e credo che imparare a riconoscere pregi e difetti di un alimento sia fondamentale per accrescere la consapevolezza del consumatore”.

Azienda Apistica Mario Bianco | Caluso (TO) | via Morteo, 20 | tel. 011 9833441| www.mieleitalia.com/

a cura di Michela Becchi

I migliori mieli d'Italia. Giorgio Poeta di Fabriano

I migliori mieli d'Italia. Carlo Amodeo di Termini Imerese

I migliori mieli d'Italia. Delizie dell'Alveare di Tornareccio

I migliori mieli d'Italia. Apicoltura Bianco di Guardiagrele

I migliori mieli d'Italia. Mariangela Prunotto di Alba

I migliori mieli d'Italia. Mieli Thun di Vigo di Ton 

Conoscere e capire il miele: glossario essenziale

Rob De Matt a Milano. Il bistrot che forma e fa lavorare le persone svantaggiate

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Apre a Milano Rob De Matt. Un luogo di aggregazione sociale, dove si organizzano corsi di formazione professionale, con un ampio bar e un ristorante di 50 coperti in cui lavorano persone con disagio psichico, ma anche rifugiati politici, migranti in difficoltà ed ex carcerati.  

Rob De Matt

Fortunatamente il mondo della ristorazione non è nuovo a progetti di integrazione (solo pochi giorni fa vi abbiamo parlato di Refugee Masterchef a Venezia) che elevano il cibo a strumento virtuoso. L'ultimo in ordine cronologico è il locale nato all'interno della sede de L'Amico Charly Onlus, nel quartiere periferico di Dergano, dove, nonostante negli ultimi anni si stia sviluppando una vivace sensibilità collettiva con nuove reti sociali nel territorio, non sono ancora molti i luoghi di aggregazione e di ristoro. Al numero zero di via Enrico Annibale Butti, il bistrot Rob De Matt promuove l'inclusione sociale e lavorativa di persone svantaggiate, attraverso corsi di formazione professionale il cui fine ultimo è l’inserimento nell’organico del ristorante. Anche se una volta entrati a regime la loro ambizione è di poter fornire personale qualificato ad altri bar e ristoranti. L’idea è venuta allo chef Edoardo Todeschini, dopo un'esperienza londinese in cui ha conosciuto Jamie Oliver, che tra le altre cose aiuta ex detenuti a lavorare nel campo della ristorazione, seguendo sia la formazione sia l’inserimento nei suoi locali. Ispirato, una volta tornato a Milano, Edoardo dapprima collabora con Italia Squisita e inizia a tenere dei corsi di cucina per persone con disagio psichico per la Fondazione Bertini, poi si attiva per dar vita a un progetto che queste persone le seguisse durante tutto il percorso di formazione e di inserimento nel mondo del lavoro. Nasce così il bistrot, con un'ampia sala soppalcata e un giardino da 600 metri quadri, in cui è stato piantato un immancabile orto sinergico, per insegnare agli studenti l'intera filiera, dalla terra alla padella.

Il CevicheIl Ceviche

Il menu

Sul versante cucina, lo chef parte da materie prime di facile reperibilità, dove fanno capolino prodotti stagionali e di filiera corta dove la linea dei fornitori è ancora work in progress. Il menu suddiviso in vegetali, pescato e carne, e dai prezzi popolari, strizza l'occhio ai piatti etnici, pensati come occasione di conoscenza e scambio interculturale. Scambio che coinvolge anche gli altri cuochi docenti che collaboreranno alla formazione degli allievi, che potranno partecipare all'elaborazione di piatti inseriti successivamente in menu. “La linea l'ho studiata assieme al mio amico Leonardo Grassini (ndr. chef di Xemei a Barcellona)ed è caratterizzata da piatti poveri arricchiti grazie alla trasformazione, proprio per far imparare il più possibile a chi lavora con noi”. In una sorta di learning by doing. Qualche esempio? “C'è la pasta con la crema di ortiche dell'orto, il ceviche marinato con agrumi o il polletto ruspante marinato per un giorno con salsa di yogurt, menta e curcuma, successivamente grigliato e scaloppato”. La carta dei vini e delle birre segue la stessa filosofia dei piatti, coinvolgendo piccoli produttori a filiera corta, selezionati valorizzando le esperienze di maggior qualità. Lo staff attualmente è composto da undici persone, più due outsider con una borsa lavoro emessa dal Centro Psichico Sociale di Rho. E con loro verrà realizzato anche un servizio catering per eventi esterni. Il locale, aperto dalle 10 di mattina a mezzanotte, tutti i giorni tranne il lunedì sera, ospiterà spettacoli, mostre, piccoli concerti, proiezioni e attività per bambini. E ogni fine settimana appuntamento fisso con la Domenica del villaggio, animata da brunch, spazio per bambini e il Rob de market con produttori e artigiani locali.

Rob de Matt | Milano | via Enrico Annibale Butti, 0 | 320 4672408 (corsi, progetti, eventi)

e 388 4461762 (prenotazioni ristorante) | www.robdematt.org


a cura di Annalisa Zordan

foto di Viola Tofani

 

 

Gli chef di East Lombardy a Orio al Serio. Cucina d'autore all'aeroporto di Bergamo

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Sono otto firme d'eccellenza della ristorazione della Lombardia Orientale, chiamate a rappresentare il territorio nel terzo scalo aeroportuale d'Italia per numero di passeggeri. E fino a marzo 2018 si avvicenderanno in cucina per proporre un piatto d'autore per una pausa gourmet, prima di prendere il volo. Coordina Vittorio Fusari. 

Mangiare in aeroporto

Mangiare in aeroporto è ormai più che una necessità, quasi una moda. E senz'altro un piacere in tutti quegli scali che hanno scelto di intercettare uno dei mercati più floridi per la ristorazione – quanti passeggeri in cerca di un pasto veloce o di qualche coccola prima del decollo transitano ogni giorno nei principali aeroporti del mondo? - indirizzando gli sforzi nella realizzazione di ambiziose food hall o concertando un'offerta gastronomica ricca di colpi di scena. Sempre più spesso con la collaborazione di grandi nomi della cucina d'autore, che già da qualche anno calcano il palcoscenico di celebri scali internazionali (tra i primi c'è stato Heston Blumenthal ad Heathrow, presto potrebbe cimentarsi con l'impresa anche Mauro Colagreco, all'aeroporto di Nizza), e più recentemente affollano anche gli aeroporti d'Italia. L'investimento più ingente, concretizzato alla fine del 2016, ha interessato il nuovo terminal E dell'aeroporto Leonardo Da Vinci, a Fiumicino, dove oggi convivono Cristina Bowerman, Heinz Beck, Michelangelo Citino (protagonista anche a Linate) e molti altri format di ristorazione veloce di qualità. Mentre allo scalo di Orio al Serio, aeroporto di riferimento per Bergamo e importante snodo internazionale, già nel 2014 ci provavano i fratelli Cerea, portando piatti all'altezza del ristorante di Brusaporto al Vicook, bistrot gourmet a prezzi accessibili (l'approccia che Antonello Colonna ha portato sempre a Fiumicino con l'Open Bistrò), che continua a lavorare con successo al primo piano del Terminal Landside, sette giorni su sette, tra caffetteria, ristorante e lounge bar.

 

Gli chef di East Lombardy a Orio al Serio

E da qualche giorno, proprio l'aeroporto di Bergamo ha accolto una nuova food court nell'ambito dell'iniziativa East Lombardy, che per tutto il 2017 proietterà la gastronomia delle quattro province della Lombardia Orientale (Bergamo, Brescia, Cremona e Mantova) sul palcoscenico europeo. L'obiettivo di Italy Loves Food, non a caso, è quello di racchiudere nella nuova area aeroportuale ricavata al terminal delle partenze tutte le eccellenze enogastronomiche del territorio. E il progetto sarà operativo fino a marzo 2018, coinvolgendo, tra gli altri, i volti noti della cucina locale in un turn over all'insegna della ristorazione gourmet. Oltre agli scaffali destinati alla vendita, inaugurati già un anno fa, i passeggeri in transito nel terzo scalo più frequentato d'Italia (11 milioni i passeggeri nel 2016) potranno fare tappa nel nuovo spazio di WineGate11, dove le cucine sono affidate alla supervisione di Vittorio Fusari, che dirige una brigata pronta a lavorare con gli chef che si avvicenderanno ogni mese. Lo spazio, dedicato alla degustazione di bollicine del Consorzio Tutela Franciacorta, offrirà ogni mese un piatto diverso, che porta la firma dei protagonisti della ristorazione del territorio. Otto in tutto, a cominciare da Philippe Leveille del Miramonti l'Altro, con il suo Cubismo di sarde di lago, salsa verde e verdure agrodolci. Poi, in vista dell'estate, toccherà a Sergio Carboni, Romano Tamani, Petronilla Frosio, in attesa che sia reso noto anche il palinsesto autunnale. Una pausa veloce al WineGate11, quindi, consterà del piatto d'autore e di una selezione di quattro formaggi dell'area, uno per provincia, in abbinamento a un calice di Franciacorta Docg.

 

www.eastlombardy.it

WineGate11 | Aeroporto Orio al Serio, Bergamo | Terminal partenze | www.facebook.com/Franciacorta-Airport-Winegate-11-1026234410771661/?fref=ts

 

a cura di Livia Montagnoli

The Fork e Fipe contro il no show. La prenotazione con carta di credito per l'alta ristorazione

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Sadler l'ha testato in anteprima, ora il servizio studiato per contrastare la mancata disdetta di un tavolo arriva ufficialmente sulla piattaforma di Tripadvisor per le prenotazioni online. E diversi l'hanno già sottoscritto, dai fratelli Cerea a Don Alfonso. Ecco come funziona. 

The Fork e Fipe contro il no show

Da quando è sbarcata sul mercato italiano, The Fork non ci ha messo molto a imporsi come leader di settore tra i servizi dedicati alla prenotazione online dei ristoranti. Come del resto era già stato in tanti altri Paesi del mondo. L'ultimo traguardo raggiunto dalla piattaforma sviluppata da Tripadvisor - che garantisce tra l'altro diversi servizi e vantaggi ai suoi utenti, oltre alla possibilità di recensire i locali provati – concretizza una collaborazione con Fipe annunciata da tempo. E attesa da molti addetti ai lavori, quotidianamente alle prese con il fenomeno del no show. Perché quella prenotazione non rispettata, o disdetta all'ultimo minuto, continua a far paura e pesa sul bilancio di tanti ristoratori di casa nostra. Tanto da costringerli a studiare strategie di difesa efficaci (ma non sempre sufficienti), che qualcuno di loro ci aveva raccontato alla fine del 2016. Prima ancora che, all'inizio del 2017, proprio The Fork, in collaborazione con Identità Golose, organizzasse a Milano un convegno sul tema, dando voce ai protagonisti del settore nel dibattito No-Show. Quando il cliente prenota e non si presenta al ristorante: come affrontare il problema? Quali le soluzioni? E ora, a seguito di quell'esperienza di riflessione, arriva la possibilità di prenotare un tavolo con carta di credito presso gli indirizzi dell'alta ristorazione italiana, per “contrastare, nei ristoranti segnalati dalle principali guide gastronomiche, il fenomeno del no-show - la cattiva abitudine di prenotare un tavolo per poi non presentarsi”, si legge nel comunicato ufficiale.

La prenotazione con carta di credito. Come funziona

Il lanciodel nuovo strumento, già introdotto in tre dei dodici mercati in cui opera The Fork, segue una fase di sperimentazione testata in collaborazione con Claudio Sadler, che per qualche tempo ha sperimentato il servizio per limitare i danni del no show di cui non ha mai fatto mistero di scontare le pene. Con danni economici significativi che pesano sul bilancio del Sadler. Ma come funziona il sistema? La carta di credito sarà richiesta al cliente in fase di prenotazione, a titolo di garanzia. E fino a 24 ore prima del pasto sarà possibile disdire gratuitamente il tavolo. In caso di mancata presentazione o cancellazione all'ultimo secondo, invece, il ristoratore potrà decidere che cifra trattenere e addebitarla sulla carta del cliente. Tutto nella massima trasparenza, perché l'utente sarà informato sulla cifra pattuita già prima di concretizzare la prenotazione. E anche della sicurezza, grazie alla mediazione di un fornitore di servizi che si occuperà della transazione. Soddisfazione, dunque, da parte di Lino Enrico Stoppani, presidente Fipe, che ricordando come questo traguardo sia già una realtà consolidata in molti Paesi d'Europa, auspica “che il servizio possa servire a limitare i danni di comportamenti discutibili sul piano etico e relazionale, segno di decadimento di valori”. Un auspicio condiviso dai primi ristoranti che hanno scelto di aderire al servizio, tutti nomi noti dell'alta cucina: Da Vittorio, Don Alfonso 1890, L'Erba del Re, La Taverna del Capitano, Parizzi e Vun. L'elenco, probabilmente, è destinato ad aumentare, ma sempre nel giro della ristorazione che conta, a cui nella prima fase è riservato il servizio. Per tutti gli altri, da tempo, The Fork propone misure di contenimento per scoraggiare comportamenti scorretti e assai dannosi per tutto il settore, dai promemoria inviati al cliente alla possibilità di disdire semplicemente con un click. In tempi utili. Come dovrebbe succedere, sempre.  

 

a cura di Livia Montagnoli

Vinitaly 2017. Aglianico del Vulture: 13 assaggi per conoscere un vino

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Intenso, strutturato, minerale, fruttato, elegante. L'Aglianico è un vino dalle molte sfumature aromatiche che si presta a molte diverse interpretazioni. Ne abbiamo avuto una prova nella bella degustazione fatta a Vinitaly. Questi sono i nostri migliori assaggi.

Ellenico per i Greci, aglianico per gli Aragonesi. È sicuramente l’uva a bacca rossa più famosa del Sud Italia, presente nei grandi Taurasi da invecchiamento e nei vulcanici Aglianico del Vulture, protagonisti di una degustazione itinerante di diversi terroir di quindici comuni della provincia di Potenza. Prodotto nella sola zona del monte Vulture, vulcano inattivo, si tratta un rosso ricco di tannino e ben strutturato, giocato su sensazioni fruttate e una spiccata mineralità. Caratteristiche che l’Aglianico del Vulture acquisisce grazie al terreno ricco di potassio e sali minerali, substrato ottimale per la coltivazione da secoli di questo vitigno.

 

vinitaly aglianico

Ben 20 le etichette presenti in degustazione lunedì 10 aprile nell'ambito della 51° Edizione del Vinitaly. Vini dalle caratteristiche uniche e dalle mille sfaccettature aromatiche, capaci di raccontare bene l'orografia della Basilicata e il carattere dell’Aglianico del Vulture. Ecco quello che ci sono piaciuti di più.

 

Aglianico del Vulture Pipoli ’15 – Vigneti del Vulture

Ad Acerenza troviamo la cantina del gruppo vinicolo Fantini che, in contrada Pipoli, su suoli in cui la pozzolana fa da padrona, produce questo Aglianico dalle sfaccettature fruttate. Profumi intensi di ciliegia si alternano a sensazioni balsamiche, cannella e grafite. Al palato è sapido, nitido nel frutto, dalla chiusura piacevole.

 

Aglianico del Vulture Gudarrà ’14 – Bisceglia Vulcano e Vini

Dal 2001 al timone di questa realtà vinicola di Lavello c'è Mario Bisceglia che propone questo Aglianico del Vulture dal carattere moderno e intrigante. Colore rubino cupo, fitto e naso che narra di frutti neri e profumi di muschio. Ben equilibrato e fresco al palato, possiede una buona verve acida e tannini ben maturi.

 

Aglianico del Vulture Portale Adduca ’14 – Casa Maschito

Siamo a Maschito, dove il suolo è costituito principalmente da argilla e calcare che conferiscono a questo rosso una buona struttura e una notevole longevità. Un vino all’insegna del frutto rosso cupo, con sfumature balsamiche e note boisé. Ricco di polpa, chiude su note di marasca ed erbe aromatiche e sensazioni piccanti.

 

Aglianico del Vulture Stupor Mundi ’13 – Carbone Vini

Luca e Sara Carbone, fratelli, conducono dal 2000 questa cantina nata in quel di Melfi più di una quarantina di anni fa. Lo Stupor Mundi ’13 ha bei toni di liquirizia e tinte di mora e mirtillo. Nell’annata 2013 si presenta sapido e profondo, con un finale tagliente e piccante.

 

Aglianico del Vulture Titolo ’13 – Elena Fucci

Titolo è l’unica etichetta della giovane Elena Fucci che elabora il suo vino da sette ettari di vigne ad alberello. Ancora giovane il 2013: fragrante ed elegante. Possiede un bagaglio aromatico ricco, con note di menta piperita, piccoli frutti neri di bosco e note di grafite. Il palato è lungo e avvolgente.

 

Aglianico del Vulture Serra del Prete ’13 - Musto Carmelitano

La cantina, guidata con piglio da Elisabetta Musto Carmelitano secondo i dettami biologici, produce tre diversi cru vinificati separatamente. Serra del Prete è uno di questi. La versione 2013 ha intense nuance di frutti neri con sfumature di pietra focaia e una spiccata mineralità. Dinamico al sorso, concentrato nella struttura, dalla forte energia tannica.

 

Aglianico del Vulture Quarta Generazione ’13 - Quarta Generazione di Giovanna Paternoster

Le vigne della storica azienda dimorano a circa 500 m s.l.m. Un’altitudine che permette notevoli escursioni termiche tra il giorno e la notte, arricchendo il bagaglio aromatico di questo portentoso vino. Ricchezza estrattiva e frutto rosso, si apre all'insegna di sentori di cacao, mirtillo e ribes.

 

Aglianico del Vulture Donpà '13 - Regio Cantina

Di proprietà della famiglia toscana Piccini, vanta diversi ettari vitati dislocati tra Maschito e Venosa. Il Donpà è una piacevole interpretazione della denominazione. Struttura salda e fittezza tannica e un bouquet caratterizzato da tratti mediterranei e profumi di cacao amaro. Buona la spalla acida.

 

Aglianico del Vulture Carato Venusio '12 - Cantina di Venosa

È la cooperativa di riferimento per tutto il territorio del Vulture, attiva sin da 1957. L'azienda possiede una numerosa gamma di etichette, mentre le vigne sono presenti a Ripacandida, Venosa, Ginestra e Maschito. Il Carato Venusio si distingue per i suoi profumi complessi di ciliegia croccante, note di macchia mediterranea e sfumature di tabacco. Tannini eleganti e chiusura all'insegna del frutto rosso.

 

Aglianico del Vulture Oraziano '11 - Martino

La giovane Carolin Martino e il suo papà Armando seguono con attenzione l'intera filiera produttiva per la realizzazione di Aglianico di qualità. Di stampo tradizionale l'Oraziano '11, dai toni di confettura, liquirizia e nota fumé. Solida nella struttura, sapido nel finale e tannini abbastanza vellutati.

 

Aglianico del Vulture Re Manfredi '11 - Terre degli Svevi

Una terra che vanta una lunga storia vinicola: Re Manfredi, figlio di Federico II di Svevia, ne era un tempo proprietario. Oggi la cantina rientra nelle proprietà del Gruppo Italiano Vini, che continua a mantenere salde le tradizioni vinicole di queste terre colivate ad Aglianico. Il Re Manfredi '11 si mantiene integro, strutturato ed equilibrato. Offre note di marasca e frutta secca e un finale balsamico con tannini eleganti.

 

Aglianico del Vulture La Sfida '09 - Cantine Bonifacio

Non ha perso un colpo questo rosso dal frutto nitido e dalla beva fresca. Prodotto dalla cantina nell'area del Vulture è un vino immediato, concentrato su toni di piccoli frutti rossi e aromi speziati, sentori che in maniera coerente ritroviamo nella piacevole chiusura di beva.

 

Aglianico del Vulture Donato D'Angelo '07 - Donato D'Angelo

Azienda simbolo dell'Aglianico del Vulture della tradizione, comincia la sua avventura enologica nel dopoguerra e preserva il suo tratto distintivo nella produzione di ogni singola bottiglia. Naso di liquirizia, humus e radici, l'annata 2007 in degustazione conserva grande tensione e sapore e una nota delicatamente boisé.

 

a cura di Stefania Annese

 

 

Vinitaly al tempo dei social. Boom di interazioni, attenzione su bollicine e Cina: l'indagine Almawave con Gambero Rosso

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Nasce nel segno di Vinitaly la partnership tra Gambero Rosso e Almawave per indirizzare il monitoraggio big data verso un'indagine di settore sul mondo del vino. E dell'edizione in corso si parla molto sui social, specialmente su Twitter. Ecco cosa raccontano i dati. 

Gambero Rosso e Almawave. La partnership

Dal 9 al 12 aprile l'attenzione mediatica del mondo enogastronomico italiano, e non solo, è tutta rivolta a Verona, dove ancora per un paio di giorni terranno banco gli espositori e le degustazioni di Vinitaly 2017. E la rete monitora assiduamente la situazione, tanto da far registrare, già dai giorni che hanno preceduto la data inaugurale, un boom di conversazioni social sul tema. Questo è quanto conferma l'indagine condotta da Almawave Gambero Rosso nel periodo compreso tra il 3 e il 9 aprile, che segna anche l'avvio di una partnership in difesa e sostegno dell'eccellenza enogastronomica made in Italy. Forte di trent'anni di esperienza nel settore della comunicazione food&wine, infatti, Gambero Rosso non smette di investire nell'innovazione, e stavolta si affida alla competenza della società di innovazione tecnologica di Almaviva, Gruppo ICT leader in Italia nell’agrifood. Insieme, le due realtà, hanno messo a fattor comune le rispettive competenze per realizzare una panoramica globale di quanto emerge dall’universo social su temi, opinioni e tendenze legati al vino nei giorni del Vinitaly; l'indagine proseguirà nei prossimi giorni, fino al termine della manifestazione, ma i primi dati raccolti già consentono di definire i trend dell'edizione numero 52 della fiera veronese.

 

L'indagine. È boom di interazioni sui social: la vigilia e i primi giorni

Grazie alla piattaforma proprietaria di analisi del linguaggio naturale e dei Big Data di Almawave, l’indagine ha raccolto tutte le interazioni legate all’evento dal 3 aprile su Twitter, Facebook e Google+, in sei lingue: italiano, inglese, spagnolo, francese, tedesco e portoghese. Il totale dei dati raccolti è stato analizzato da un punto di vista quantitativo, mentre la valutazione di sentiment verrà estratta in ambito Twitter, le cui interazioni rappresentano ad oggi il 98% del totale. Ma sono tutti i canali social a lavorare come cassa di risonanza dell'evento vinicolo, con oltre 21mila conversazioni monitorate (e un picco del 205% nella giornata di domenica 9 aprile) e un hashtag – quello ufficiale #Vinitaly2017 – condiviso 11599 volte su Twitter, Facebook Google+.

Nello specifico, l'analisi dei dati ha permesso di stilare una classifica di preferenze tra gli interessi degli internauti, evidenziando un picco del 37% per le bollicine, e, a seguire, un 29% di citazioni per i rossi, il 19% per il rosato e il 14% per i bianchi. Chi emerge nettamente è pure la Cina, che compare nel 50% delle conversazioni riguardanti i mercati esteri e stacca gli Stati Uniti, attestati sul 18% e la Francia ferma al 5%.

Il bilancio in chiusura di Vinitaly

Lo screening al 12 aprile, ultimo giorno di fiera, fa invece registrare oltre 42mila conversazioni sul tema, con un picco di scambi social nella mattinata di lunedì 10. E l'hashtag della manifestazione ha raggiunto le 20750 condivisioni. Il Chianti è il più citato, al primo posto nella top ten dei vini. Raccoglie il 9% dell’interesse, rispetto al 6,4 del Franciacorta e al 3,9 del Barolo, seguiti da Pinot, Lambrusco, Trento doc, Etna, Amarone, Valpolicella e Grillo. La Regione che attira maggiore attenzione è la Sicilia (12%), seguita dalla Puglia (10,6%), dal Veneto (7,7%), dalla Toscana (7,4%) e dalla Sardegna (6,8%). Mentre si confermano vincenti le bollicine, e il biologico è il trend che si impone sugli altri: se ne parla nel 4% delle interazioni monitorate.

Ma la collaborazione tra i due gruppi andrà avanti, integrando una consolidata leadership di settore alle competenze tecnologiche distintive per sostenere, nel segno dell’innovazione, la crescita di un’eccellenza del comparto agroalimentare, così rilevante per l’economia del nostro Paese.


IN-Intelligenza Nutrizionale. Il progetto per la ristorazione collettiva di Niko Romito alla prova dei fatti

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IN-Intelligenza Nutrizionale. Dall'alta ristorazione alle mense ospedaliere: il progetto firmato Niko Romito è ormai una realtà. Al Cristo Re di Roma da un mese i pasti sono prodotti secondo il protocollo creato dallo chef abruzzese. Ecco i primi risultati

Ne avevamo parlato a ottobre quando era stato presentato il progetto all'Università La Sapienza di Roma. E già allora la portata rivoluzionaria di IN-Intelligenza Nutrizionale era emersa con chiarezza. Per la capacità di coniugare, in modo strutturato, vantaggi economici, organizzativi, efficienza lavorativa, miglioramento della qualità organolettica e nutrizionale dei cibi. Portando dunque benefici ai pazienti, alla struttura, agli operatori. Un riscontro che va ben oltre la semplice consulenza del Romito-chef blasonato nell'elaborazione del menu, ma rientra in un ripensamento complessivo della ristorazione collettiva nei termini di una maggiore sostenibilità e riduzione degli sprechi, a partire dal know how tipico dell'alta ristorazione in termini di conoscenze tecniche, chimiche, di procedure in cucina e della qualità sensoriale dei cibi.

 

 

Così, se un sistema informatizzato dei pasti in uscita permette di ottimizzare la gestione del magazzino e degli acquisti, l'organizzazione e il metodo pensato attraverso il lavoro in anticipo e la catena del freddo, consente ai pazienti di decidere cosa mangiare, potendo comporre i pasti scegliendo tra diverse opzioni. Riducendo la malnutrizione ospedaliera, e incentivando così una partecipazione attiva al cibo, passaggio fondamentale in un percorso di guarigione e di educazione alimentare che deve continuare anche al di fuori delle strutture ospedaliere.

 

Grandi numeri - alta qualità

Un modello standardizzato che limita al massimo le variabili e gli errori e, proprio per questo, particolarmente declinabile in tutta la ristorazione di grandi numeri: mense aziendali e scolastiche, per esempio. Un dettaglio importante non solo sotto l'aspetto imprenditoriale, ma per il suo potenziale impatto sociale: “l'alimentazione è una forma di prevenzione e di educazione alimentare” dice il professor Lorenzo Maria Donini (ricercatore in Scienza dell'Alimentazione e Nutrizione Umana del Dipartimento di Medicina Sperimentale de La Sapienza di Roma), tanto più quella collettiva cui è affidato, quotidianamente, il programma alimentare di moltissime persone. Situazioni in cui è molto alto il rischio di sacrificare la qualità di fronte all'esigenza di dare risposte in tempi brevi alle esigenze imposte dai grandi numeri. L'ospedale Cristo Re soddisfa circa 250 persone al giorno (tra degenti e dipendenti), attualmente il progetto IN-Intelligenza Nutrizionale provvede ai due pranzi principali del complesso ospedaliero e a quelli della Casa di Cura Villa Betania.

Siamo ora in fase di monitoraggio: non solo dell'efficienza del modello, ma anche della soddisfazione dei degenti (raccolta attraverso dei questionari) che permette di correggere ricette e proposte e di aggiustare i protocolli, passaggio necessario per esportare questa metodologia in più strutture, come ricorda AndreaSponzilli, DG di GioService, società diservizi alle strutture ospedaliere che ha ben chiaro il ruolo dell'alimentazione nel percorso di guarigione e che, come illustrato dall'amministratore unico Lorenzo Miraglia, ha raccolto la sfida di alzare gli standard nutrizionali in un contesto in cui si registra l'esigenza di un continuo abbassamento dei costi.

 

Il lavoro in cucina

A seguire l'applicazione pratica in cucina e l'addestramento degli operatori, Davide Mazza, da anni in forza alla Niko Romito Formazione e storico nome dell'organizzazione formativa delle scuole di cucina di Gambero Rosso. A lui il compito di mettere in pratica il metodo Niko Romito nella cucina del Cristo Re. I risultati? Dopo quasi un mese il sistema è a regime e i pazienti dichiarano di essere molto soddisfatti del cibo, prodotto con le stesse materie prime usate da sempre nel complesso ospedaliero, ma lavorate secondo il nuovo protocollo. Con più sapore, consistenze corrette e colori vividi e invitanti. Bilanciati e saporiti, circa 500 calorie con una spesa che si aggira sotto ai 4 euro per primo, secondo, contorno.

 

a cura di Antonella de Santis

video di Saverio De Luca, montaggio Francesca Naccarato

 

Zurigo Gourmet. La Svizzera più golosa con il Gambero Rosso e i suoi consigli di viaggio

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In attesa che la seconda edizione di Food Zurich trasformi la città in un grande capitale del cibo per undici giorni, il prossimo autunno, esploriamo la città Svizzera ricca di spunti per viaggiatori curiosi. E gourmet. Buona navigazione! 

70 eventi dedicati al pubblico gourmet condensati in 11 giorni di calendario a tema enogastronomico, per promuovere le eccellenze del territorio. Se in Italia la consuetudine con la tavola di qualità è pratica diffusa in tutta la Penisola, anche la Svizzera ha tutte le carte in regola per dire la sua. E il prossimo autunno, Zurigo si prepara ad accogliere un grande festival dedicato al cibo, Food Zurich, lanciato da Zurigo Turismo insieme ai suoi partner. Così, dal 7 al 17 settembre, la seconda edizione della manifestazione coinvolgerà chef e ristoranti della città in un programma ricco di degustazioni guidate, cene, show cooking.

 

E anche se diversi sono i mesi che ci separano dall'apertura dei giochi, scoprire la Zurigo più affascinante per i viaggiatori in cerca di nuove esperienze gastronomiche (e non solo) può essere un valido esercizio per non arrivare impreparati a settembre. Il sito del Gambero Rosso, con la sezione Zurigo Gourmet, si propone quindi di soddisfare le aspettative di chi ha già in programma un viaggio in città, o è in cerca di spunti per farsi ingolosire da una meta fuori dalle solite rotte europee. Perché Zurigo è “una finestra sulle Alpi e sul buon gusto” che ha molto da offrire, ed esplorarla con qualche suggerimento in più può cambiare la prospettiva, tra passeggiate nell'arte e indirizzi fidati dove mangiare una buona cucina italiana, tavole all'avanguardia e quartieri di tendenza. Tanti i consigli per l'uso, di facile consultazione grazie alla mappa interattiva geolocalizzata degli indirizzi e dei percorsi segnalati in città. E per chi volesse approfondire, anche un menu tematico dedicato alla Svizzera tout court e alle regioni che la compongono, nel segno della varietà di panorami, tradizioni e offerta enogastronomica. Che aspettate a programmare il viaggio?

 

www.gamberorosso.it/it/zurigo

Vinitaly 2017. Tutte le classifiche della Fiera di Verona

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Dai vini preferiti dall’alta ristorazione a quelli più venduti al supermercato. Dalle denominazioni che hanno incrementato di più le vendite a quelle che danno più lavoro. Tante top list per un unico comun denominatore: la rivincita degli autoctoni

I bianchi autoctoni preferiti dall’alta ristorazione

Vinitaly, si sa, è anche tempo di classifiche e bilanci. Il momento in cui ci si sbizzarrisce nel dare risposte a interrogativi e curiosità maturati durante tutto l’anno, ma che solo in Fiera si svelano al grande pubblico dei curiosi. Ce n’è per tutti i gusti. Ad esempio, quali sono le regioni più presenti nelle carte dei ristoranti? Quali i vini preferiti dai grandi chef? E ancora, quali denominazioni potrebbero fare di più e quali, invece, non mancano proprio mai? Forte dei suoi tre cavalli di battaglia del territorio (Pecorino, Passerina e Verdicchio), l’Istituto Marchigiano Vini ha fatto il punto sui bianchi autoctoni nella ristorazione, con una ricerca firmata Nomisma-Wine monitor, condotta su 220 intervistati tra sommelier, titolari e cuochi, e presentata proprio in Fiera.

 

Le regioni più rappresentate

Il primo dato che emerge è che l’alta cucina preferisce i vini legati ai territori italiani: su 126 etichette di vini bianchi in carta, nei ristoranti top sono 106 quelli di autoctoni (contro i 64 di tutto il comparto ristorazione). Tra le regioni più rappresentate, al primo posto si piazza il Friuli Venezia Giulia (40%), seguito da Alto Adige (15%), Sicilia (9%) e Marche (7%). Poi Abruzzo, Trentino, Veneto, Campania, Piemonte e Valle D’Aosta.

 

I più presenti

Sul fronte vini, a vincere – anche al di fuori della regione di riferimento – è il Traminer (Trentino e Alto Adige), presente nell’84% dei casi, prima di Moscato (78%), Tocai Friulano (74%), Vermentino (73%) e Fiano (69%).

 

I sottostimati

Tra gli underachiever - della serie si impegnano, ma non ancora abbastanza - il primato spetta a Glera (Prosecco), Garganega (Soave), Catarratto e Trebbiano.

 

Gli emergenti

Tra gli emergenti, svettano Pignoletto, Passerina e Pecorino, mentre sono immancabili Falanghina, Fiano, Vermentino, Friulano, Traminer e Verdicchio. Onnipresente è, infine, il Moscato, nella maggioranza dei casi inteso nella sua interpretazione di vino dolce.

 

Le denominazioni che hanno incrementato le vendite

Il ritorno ai vitigni autoctoni è sottolineato anche da Coldiretti che ha stilato la top ten delle denominazioni che hanno incrementato maggiormente le loro vendite nel 2016.

 

Miglior performance nel 2016

Nella borsa dei vini italiani salgono sul podio Ribolla gialla friulano(+31%), Passerina marchigiana (+24%) e Valpolicella Ripasso del Veneto (+23%). A seguire, Pecorino con un aumento del 19%, Primitivo (+14%), Pignoletto ( +13%) e Custoza con un +10,5%. A pari merito all’ottavo posto, con un +10%, ci sono il Negroamaro e il Lagrein, mentre il decimo posto (+10%) è appannaggio del Traminer. Nessun vitigno internazionale, quindi, tra i primi dieci. “Il futuro dell’agricoltura italiana ed europea” ha affermato il presidente Coldiretti Roberto Moncalvo “dipende dalla capacità di promuovere e tutelare le distintività territoriali”.

 

Il vino che “assume” di più

E sempre Coldiretti, per questo Vinitaly, è andata alla ricerca del “vino più utile”, ovvero quello che dà più lavoro nel comparto.

 

Maggior impatto lavorativo

Con un totale di 19,4 milioni di ore impiegate all’anno, the winner isil Montepulciano d’Abruzzo Doc, davanti al Puglia Igt con 16,5 milioni nella provincia di Foggia e alla Doc Sicilia con 16 milioni di giornate in quella di Trapani. Una classifica che, nelle prime tre posizioni, mette in evidenza come il settore vitivinicolo sia particolarmente importante per l’economia e l’occupazione nel Mezzogiorno, sebbene l’impatto lavorativo sia rilevante anche al Nord. Al quarto posto, infatti, si piazza il lombardo Oltrepò Pavese Doc, con 14,2 milioni di ore di lavoro, davanti ai piemontesi Asti Docg e Barbera d’Asti, con all’attivo 13,4 milioni di ore. Bisogna, invece, arrivare al sesto posto per trovare una denominazione veneta: l’Amarone della Valpolicella Docg con 13,1 milioni di “banca ore”.

 

Valore complessivo del comparto

Complessivamente, stima la Coldiretti, nel 2016 il vino ha offerto opportunità di lavoro a un milione e trecentomila persone, tra vigna, cantina, distribuzione, trasporti, assicurazioni, industria vetraria, enoturismo, ricerca e formazione, divulgazione, editoria, bioenergie e così via. La ricerca Coldiretti è stata anche l’occasione per porre l’accento sulle difficoltà del settore dopo l’abolizione, di qualche settimana fa, dei voucher. “Il settore del vino” ha detto il presidente Moncalvo “dimostra più di altri che l’agricoltura è in grado di offrire opportunità di lavoro. Adesso, però, la prima vendemmia senza voucher rischia di far perdere 25 mila posti di lavoro tra le vigne per giovani e pensionati e occorre trovare pertanto presto una valida soluzione alternativa nell’interesse delle imprese e dei cittadini”.

 

I migliori sugli scaffali della Gdo

 

I più venduti

Infine, uno sguardo, all’immancabile top list dei vini più venduti al supermercato, presentata da Iri. Sul podio le tre punte di diamante degli scaffali: Lambrusco,Chianti e Montepulciano d'Abruzzo. A seguire Nero d’Avola (Sicilia), Vermentino (Sardegna), Muller Thurgau e Gutturnio (Lombardia) con un aumento superiore al 4%.

 

Gli emergenti

Tra gli “emergenti” con una maggiore progressione di vendita a volume troviamo Ribolla Gialla(Friuli Venezia Giulia), Passerina (Marche), Valpolicella Ripasso (Veneto). Confermata la crescita del Pignoletto (Emilia), del Pecorino (Marche/Abruzzo) e della Passerina (Marche), mentre rientrano in classifica il Grillo (Sicilia) e il Cannonau (Sardegna). Ottimi risultati anche per il Chianti Docg, con quasi 10 milioni di litri per un valore di oltre 45 milioni di euro.

 

Le tendenze

Tra i maggiori trend da rilevare, la crescita dei biologici – una novità per la Gdo - con un +25,7% in volume per un totale di 2,5 milioni di litri venduti; e l’accelerazione dei vini a denominazione e degli spumanti.

 

a cura di Loredana Sottile

 

Arriva il bollino blu al ristorante. A tutela dei consumatori che soffrono di allergie alimentari

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Sono oltre 2 milioni (3,5% della popolazione) gli italiani colpiti da allergie alimentari, un fenomeno che può portare a conseguenze anche gravi. Per questo motivo, nasce il bollino blu, marchio che identifica i locali in cui i soggetti allergici possono mangiare senza correre pericoli.

Il fenomeno delle allergie in Italia

Nocciole e poi verdura, frutta fresca, crostacei, pesce, legumi, semi e grano: questi, nell'ordine, gli alimenti che più preoccupano quando si tratta di allergie alimentari infantili. A soffrirne però non sono solo i più piccoli, ma anche gli adulti. Oltre 2 milioni di italiani, ovvero il 3,5% della popolazione, sono interessati da allergie e intolleranze, disturbi che possono provocare reazioni blande ma anche gravissime. Di questi soggetti allergici, circa 270mila sono bambini di età inferiore a 5 anni, di cui 5mila a rischio di reazioni molto gravi, che possono anche costar loro la vita. Tra questi, 100mila sono intolleranti al latte vaccino, 80mila alle uova, 50mila alla frutta secca, in particolare noci, nocciole e arachidi. Un disturbo che grava, dunque, non solo sulla salute dei consumatori ma anche sulle loro tasche, specialmente per gli allergici al lattosio: le famiglie costrette ad acquistare altre tipologie di latte (soia, riso, cocco, capra, asina e simili) spendono infatti oltre 50 milioni di euro l'anno. Il numero di morti per anafilassi – reazione allergica a rapida comparsa – in Italia ammonta a 40 casi l'anno e per questo ora le organizzazioni specializzate si stanno muovendo per poter garantire a tutti gli affetti da allergie uno stile di vita più dignitoso.

La risposta della ristorazione

Per questo, i ristoratori possono ora adottare il bollino blu, simbolo che contraddistingue gli chef che hanno seguito corsi specifici per ridurre al massimo i rischi per i clienti che soffrono di allergie. Dalla fine di aprile, all'Università Cattolica del Sacro Cuore di Roma sarà possibile seguire le lezioni di Domenico Schiavino, responsabile del Servizio di Allergologia del Policlinico Gemelli di Roma, dapprima disponibili sono nella Capitale, e a breve estesi al resto della Penisola. Organizzati dalla Società Italiana di Allergologia, Asma e Immunologia Clinica (Siaaic), i corsi prenderanno il via in occasione del XXX congresso nazionale Siaaic, durante il quale saranno presentati i nuovi bollini blu. Ma cosa rappresenta questo marchio? Si tratta di un segno che, nello specifico, identifica i locali dove i soggetti allergici possono mangiare serenamente, senza correre pericoli. "L'esigenza di educare chi lavora nella ristorazione nasce dalla consapevolezza che i pazienti sono in continuo aumento”, spiega Giorgio Walter Canonica, presidente Siaaic. E continua: “Sono moltissime le forme di allergia al cibo che si stanno sempre più diffondendo: si stimano per esempio circa 5 milioni di allergici o intolleranti al nichel che manifestano sintomi sistemici o gastrointestinali dopo aver ingerito uno dei tanti alimenti che contengono il metallo, ma anche circa 100mila persone, in continuo incremento, che non tollerano uno o più delle migliaia di additivi alimentari che si possono incontrare nei cibi". Con i corsi specifici, i ristoratori impareranno così a gestire le varie esigenze della clientela: “Alleneremo il personale di ristoranti ed esercizi alimentari a riconoscere le manifestazioni cliniche di allergia alimentare, soprattutto nelle forme più gravi, spiegando che cosa sia necessario fare per intervenire nel modo più corretto”, aggiunge Mario Di Gioacchino, vicepresidente della società. Lo scopo? “Far sì che i ristoratori non commettano errori e possano consigliare i piatti più adatti a ciascun cliente, per esempio non servendo pietanze che contengono cibi a cui l'avventore non è direttamente allergico ma che possono scatenare reazioni a causa di allergie crociate".

a cura di Michela Becchi

 

Zia Esterina a New York. La pizza fritta di Gino Sorbillo alla conquista dell'America. Aspettando la tonda

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Apre oggi la prima delle due insegne che Gino Sorbillo progetta da tempo a New York, con l'obiettivo di portare la tradizione partenopea della pizza oltreoceano. Si comincia con la pizza fritta di Zia Esterina, a Little Italy. Ma presto arriva anche la Margherita. 

Sorbillo arriva a New York. In buona compagnia

New York capitale della pizza d'autore made in Italy. Fino a qualche anno fa, nonostante la buona concentrazione di pizzerie che in città tengono alta la tradizione tricolore (attenti però a schivare le trappole per turisti!), affermarlo con sicurezza sarebbe stato impensabile. E invece, un po' come sta accadendo su altre importanti piazze internazionali – Londra in primis, con l'arrivo di Michele e Berberè – la pizza all'italiana (e non solo quella di stile napoletano) conquista i riflettori, e schiere di estimatori adoranti. Così è stato per l'arrivo del Trapizzino di Stefano Callegari nella Grande Mela, così, c'è da scommetterci, sarà per la pizza in teglia di Gabriele Bonci, prossimo all'apertura del primo punto vendita all'estero, a Chicago. Inaugurazione attesa per il mese di giugno. Ma da tempo, per le strade di New York, si fa un gran parlare anche dell'arrivo di Gino Sorbillo, (a giugno 2016 ci anticipava i suoi progetti in città) che al sindaco Bill de Blasio in persona, in visita a Napoli, aveva promesso lo sbarco della pizza fritta a Little Italy. Quella di Zia Esterina, per intenderci, ben diversa dalle imitazioni che proliferano oltreoceano, interpretazioni folcloristiche di un costume partenopeo rimaneggiato, che non rappresenta affatto Napoli e le sue tradizioni gastronomiche.

 

La pizza fritta di Little Italy

Ora, la sfida del pizzaiolo campano che il suo impero lo gestisce tra Napoli e Milano – dove Zia Esterina ha prima inaugurato all'ombra del Duomo e presto prevede di raddoppiare, mentre la fila non diminuisce mai – è quella di far scoprire all'America la vera pizza fritta (in città c'è anche Don Antonio, del team Caporuscio/Starita), in attesa che anche la seconda apertura dedicata alla tonda da forno a legna e rinviata da tempo possa decretare l'affermazione definitiva del brand Sorbillo a New York. La città, dal canto suo, è pronta ad accogliere il pizzaiolo a braccia aperte: la notizia dell'inaugurazione al civico 112 di Mulberry street, prevista per oggi, è già rimbalzata su siti specializzati e stampa locale, che celebrano l'aspettativa per un prodotto “di alta qualità, con ingredienti super”. E a Little Italy, Zia Esterina proporrà anche un altro must della tradizione di strada partenopea: la pizza a portafoglio. Se i titoli non sbagliano (“La pizza fritta è il calzone fritto che l'America stava aspettando” sancisce Eater), sarà un successo. E un ottimo trampolino di lancio per l'insegna al 334 di Bowery, semplicemente Sorbillo Pizzeria.

 

Antica pizza fritta da Zia Esterina | New York | 112 Mulberry street | dal 13 aprile 2017 | www.sorbillo.it

 

a cura di Livia Montagnoli

 

 

La mappa delle gelaterie artigianali italiane in Portogallo

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Una panoramica sulle gelaterie artigianali italiane in Portogallo. Che negli ultimi anni, con un forte ritardo rispetto ad altri paesi, stanno spopolando.  

C'è l'apripista Santini, nata 70 anni fa, alla quale si aggiungono Nannarella, Gelato Davvero, Gelato Mù e altre ancora. Ecco com'è la situazione delle gelaterie artigianali italiane in Portogallo.

Santini

A fare da apripista la gelateria Santini, aperta 70 anni fa dall'immigrato bolognese Attilio Santini. Quando in Portogallo non esistevano gelaterie artigianali, ed “era difficile anche solo reperire tutte le materie prime necessarie, ovviamente parliamo di prodotti di qualità che vanno oltre la classica frutta di stagione”. Ce lo racconta la nipote Marta Botton. “Per l'epoca era pura avanguardia, ma con la perseveranza di mio nonno Santini il nostro gelato è diventato 'Il gelato' per tutti i portoghesi e probabilmente uno dei pochi veri marchi di consumo del Portogallo”. Tenacia e costanza di Attilio, ma anche l'aiuto economico di Filipe de Botton, che nel 2009 è diventato azionista dando la possibilità di moltiplicare i punti vendita. “Siamo partiti da una singola gelateria nel centro di Cascais vicino a Lisbona, per arrivare a 8 negozi - 4 a Lisbona, 3 a Cascais e 1 a Porto - con l'intenzione di aprirne altri 3 a Lisbona durante il 2017”. Senza contare i loro food truck chiamati Valentini. Una serie di negozi franchising in cui l'artigianalità ha lasciato il posto all'imprenditorialità, senza tralasciare (a detta loro) la qualità delle materie prime utilizzate: “Il gelato è ancora fatto allo stesso modo in cui veniva preparato all'inizio. Con la migliore frutta fresca del mercato, utilizzando la pentola di rame per il caramello, i baccelli di vaniglia vera o il miglior cioccolato”. Che però non ci è dato sapere da dove provenga.

Nannarella

Siamo partiti dal gigante per parlare di un settore, quello delle gelaterie artigianali italiane, che in Portogallo sta prendendo sempre più piede. Con un ritardo evidente rispetto la tabella di marcia degli altri paesi, europei e non. Come conferma Costanza Ventura, proprietaria della gelateria Nannarella: “Tolto Santini, le gelaterie italiane in Portogallo sono cosa recente. Io ho aperto solo 4 anni fa, quando ho notato che qui non c'era praticamente alcuna offerta. Essendo romana per me era quasi impensabile che in una città come Lisbona, le gelaterie artigianali si contassero sul palmo di una mano”. Dopo una chiacchierata con i tre figli di Tony, il fondatore dell'omonima gelateria nel quartiere Monteverde di Roma, che la tranquillizza e la invoglia, e un corso alla Carpigiani Gelato University, Costanza, con l'allora marito, cambia città e vita. E apre una gelateria nel quartiere São Bento, dove c'è il Parlamento, con la consulenza del tecnologo di gelato artigianale Gianpaolo Valli. Passano i mesi e le titubanze iniziali da parte dei portoghesi; e arriva il successo: “Nonostante il mio gelato fosse decisamente meno dolce e 'intrugliato' rispetto agli standard portoghesi, i clienti hanno presto cominciato ad apprezzarlo, forse anche per via del prezzo democratico, che poi è quello che si trova nelle gelaterie della mia città”. È stata la prima vittoria sul campo, alla quale segue purtroppo la separazione dal marito, che nel frattempo apre con un altro socio a poco più di un chilometro di distanza (Il progetto si chiama Gelato Davvero e ne parliamo più sotto). “Dopo qualche mese di chiusura ho deciso di riaprire più forte di prima, anche grazie al mio braccio destro Sergio Martins, cominciando a vendere in alcuni punti vendita di El Corte Inglés”. Oltre alla distribuzione nella catena di supermercati gourmet spagnola, ha anche avviato la rivendita in due locali a Lisbona e due a Porto, e da poco sta sviluppando l'offerta all'interno di un vecchio carretto di gelati. Anche il laboratorio (e la gelateria) si è nel frattempo allargato, senza però cambiare via: “Ho aperto in un locale di 18 metri quadri, tra gelateria e laboratorio, così a novembre quando mi si è presentata l'occasione ho traslocato di pochi metri per avere più spazio”. Qui utilizzano perlopiù prodotti locali, dal latte fresco alla frutta che“ha una qualità altissima”. Senza però rinunciare ad alcune materie prime importate: “Per le paste di frutta secca mi affido a Pariani, perché nel mio laboratorio non riesco a lavorarla. Credo che ognuno debba essere esperto nel proprio settore”. Il gusto che va per la maggiore? “Frutta in generale, oggi il nostro primo gusto è la fragola”.

Gelato Davvero e Gelato Mù

In un mercato fatto da prezzi altissimi e gelati troppo zuccherati, Costanza è riuscita a educare i clienti. Quegli stessi clienti che oggi possono contare su più di una gelateria di qualità. Tra queste Gelato Davvero dei due soci e amici d'infanzia Filippo Licitra (l’ex marito di Costanza Ventura appunto) e Riccardo Farabegoli. Anch'essi romani, il primo è il gelataio, il secondo è grafico ed ex pubblicitario. “Negli ultimi cinque anni è esploso il business del gelato artigianale, noi abbiamo anticipato i tempi. E oggi contiamo di cinque negozi più tre corner, e forniamo diversi ristoranti”. Ma la lavorazione nei laboratori a vista è rimasta artigianale. “Ogni giorno compriamo la frutta fresca al Mercado Da Ribeira, mentre importiamo il cioccolato Valrhona e la frutta secca italiana”. Per un gelato, conservato all'interno dei pozzetti e servito con la pala, a un prezzo relativamente modico (3 € per 3 gusti) e con aggiunta di panna montata gratis. Che è un po' la firma del gelato italiano, anzi a dire il vero più precisamente di quello romano.

A cavalcare l'onda del gelato made in Italy anche un nome noto: Marco Bauli. Che nonostante il noto business dolciario di famiglia, una laurea in architettura e 15 anni di lavoro nell'ambito di sviluppo software, decide di trasferirsi nel 2013 a Lisbona, assieme alla moglie Elena. Con un obiettivo premeditato: “Ai tempi l'offerta di gelato in Portogallo era ancora scarsa, almeno non ai livelli italiani. Così una volta fatto un corso da Carpigiani, trovata la location e sistemato le pratiche burocratiche (la burocrazia è decisamente più snella rispetto all'Italia), nel 2014 ho aperto Gelato Mù”. Le cose vanno talmente bene che solo dopo un anno bissa. Il suo è un gelato ancora meno dolce di quello di Nannarella, dettato principalmente da un gusto personale. “Lo zucchero è un esaltatore di sapori ma se il gusto è presente nella materia prima, a mio avviso la quantità di saccarosio da utilizzare può diminuire”. Ragionamento che segue anche nel cavallo di battaglia, che lui propone in tutte le salse, ovvero il cioccolato.

Gli altri indirizzi: La Colchianata, Gelateria Italiana e Fib - il vero gelato italiano

Sono molte altre, oggi, le gelaterie italiane di qualità in Portogallo: pensiamo a La Colchianata in Avenida da Grecia, alla Gelateria Italiana del gelataio Fabio Lupi o a Fib – il vero gelato italiano, nata dall'amore per il Portogallo (e per una portoghese in particolare) di Moreno Gorrara. Che descrive il Portogallo non tanto come la nuova terra promessa dove tutto si può, ma come un paese dove“se fai le cose in regola, c'è una buona probabilità di riuscire nel lavoro che vuoi fare. Anche grazie a una burocrazia meno soffocante e decisamente più snella, basata principalmente sulle auto certificazioni”. Ed è difficile capire come sia potuto succedere che, nonostante le condizioni così favorevoli, il mercato del gelato, ma anche quello dei ristoranti italiani o delle più classiche pizzerie, non sia esploso già da parecchi anni. A proposito di pizzerie, il cui boom va di pari passo con quello dei gelati, Costanza di Nannarella, assieme ad Alessandro Laganà, proprietario de Il Matriciano sempre nel quartiere São Bento, ha appena aperto una pizzeria al taglio dove una volta c'era la sua vecchia gelateria, “finora ci sono solo un paio di locali a Lisbona che fanno la pizza come si deve, ovvero scrocchiarella come piace a me”. Il nome? La pizza di Nanna, dove propongono tre pizze basiche, più una del giorno, supplì e calzoni.

 

a cura di Annalisa Zordan

 

Santini | Lisbona | Chiado, Rua do Carmo, 9 | tel. +351 213468431 | santini.pt

Santini | Lisbona | Belém, Museu Nacional dos Coches – Praça Afonso de Albuquerque | | tel. +351 210987208

Santini | Carcavelos | Estrada da Torre | tel. +351 214582374

Santini | Cascais | Avenida Valbom, 28 F | tel. +351 214833709

Santini | Cascais Baía | Alameda dos Combatentes da Grande Guerra | tel. +351 210966779

Santini | Oporto | Largo dos Lóios 16-20 | tel. +351 222011692

Santini | S. João do Estoril | Rua Nova da Estação, 5 | tel. +351 214686441

 

Nannarella | Lisbona | Rua Nova da Piedade, 64 | tel. +351 926878553

 

Gelato Davvero | Lisbona | Praça de São Paulo 1 | tel. +351 929165208

Gelato Davvero | Almada | Rua Cândido dos Reis 29 | tel. +351 916995769

Gelato Davvero | Almada | Cacilhas, Rua Cândido dos Reis 29 | tel. +351 960 430 270

Gelato Davvero | Aveiro | Praia da Barra, Rua da Praia 6 | tel. +351 234 423 596

Gelato Davvero | Olhão | Praça Patrão Joaquim Lopes 21 | tel. +351 289099425

 

Gelato Mù | Lisbona | Campo Martires da Patria 50 | tel. +351 21 886 1041

Gelato Mù | Lisbona | Rua Dom Pedro V, 1 | tel. +351 213470433

 

Gelados Conchanata | Lisbona | Avenida da Igreja, 28A | tel. +351 21 849 1741

 

Gelateria Italiana di Fabio Lupi | Lisbona | Cascais, Avenida Valbom 10A| tel.+351 21 483 9775

 

Fib - il vero gelato italiano | Lisbona | Avenida Padre Manuel da Nóbrega 13E | tel. +351 211324311

Florence Cocktail Week 2017. La settimana del bere miscelato a Firenze

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Il format è internazionale, pensiamo alle cocktail week di Singapore, Londra o Parigi. Ma il panorama fiorentino è unico, con i suoi bar storici, gli alberghi esclusivi e le insegne moderne. Che sono cresciute proprio grazie alla manifestazione. Torna in scena dal 1 al 7 maggio la Florence Cocktail Week. Ma prima un'anticipazione per il pubblico romano, da Yugo il 19 aprile.

La seconda edizione della Florence Cocktail Week

Dal 1 al 7 maggio torna a Firenze la settimana tutta dedicata alla miscelazione, all'insegna di ricette classiche e contemporanee, distillati di qualità, atmosfere suggestive che animano ogni sera i banconi più celebri in città. Un ricco calendario di eventi, ideato e organizzato dalla “nostra” Paola Mencarelli e da Lorenzo Nigro, che toccherà bar storici, nuove insegne, hotel esclusivi. Dove si susseguiranno degustazioni, masterclass, seminari e incontri, affidati a esperti del settore italiani e star internazionali, come Hidetsugu Ueno del Bar High Five di Tokyo o Marian Beke del The Gibson di Londra, con l’obiettivo di creare consapevolezza, valorizzare la figura del bartender e far conoscere la materia. Si parlerà di drink del futuro, “graspology” (miscelazione con la grappa), cocktail a base di mezcal o tequila. E ancora di liquori dimenticati, caffè nella miscelazione o abbinamenti tra “cocktails e records”.“Florence Cocktail Week è nata diverso tempo fa, guardando le Cocktail Week di Londra e Parigi, come un’idea utile per il mercato italiano della miscelazione, un punto di incontro e scambio per professionisti e appassionati”, raccontano gli organizzatori, “per questo da un lato miriamo a coinvolgere il pubblico e a far crescere la cultura del mondo dei cocktail e dall’altro a migliorarne la reputazione. Sempre con occhio attento al consumo consapevole e al bere responsabile”.

Il contest tra bartender professionisti al Mercato Centrale

La sette giorni è anche un itinerario, che prenderà vita nel pomeriggio per protrarsi fino a sera inoltrata, nel cuore di Firenze toccando 16 cocktail bar, con altrettanti bartender, che hanno voglia di farsi riconoscere per la qualità e l'originalità della propria proposta attraverso una cocktail list studiata ad hoc per l'occasione, a un prezzo speciale. A siglare l’edizione 2017 il consueto contest finale, che si terrà sabato 6 maggio al Mercato Centrale, dove i 16 bartender partecipanti presenteranno il loro Signature Cocktail. A eleggere il vincitore di FCW 2017 una giuria d’eccezione, tra cui i bartender Alessandro Procoli e Mattia Pastori, e l’attore Neri Marcorè. Oltre al contest dedicato ai professionisti, verrà dedicato uno spazio ai giovani talenti selezionati nel panorama della miscelazione fiorentina. E per un'anticipazione d'autore l'appuntamento è a Roma, il 19 aprile, quando Julian Biondi, vincitore della Cocktail Week 2016, sarà ospite di Yugo per la Yugo Cocktail Night con un menu ideato per la serata.

Cocktail bar e bartender partecipanti

Atrium Bar del Four Seasons Hotel - Edoardo Sandri

Bitter Bar - Cristian Guitti

Ditta Artigianale Oltrarno - Kareem Bennett

Gilli 1733 - Luca Picchi

Gurdulù - Sabrina Galloni

Harry’s Bar - Thomas Martini

La Ménagère - Luca Manni

Le Pool Bar diVilla Cora - Paolo Ponzo

MAD Souls & Spirits - Neri Fantechi

O’ Cafè – Golden View Open Bar - Fabiano Buffolino

Rasputin - Daniele Cancellara

Tabarin - Roberto Prato

The Fusion Bar del Gallery Hotel Art - Michel Granpasso Orlando

Vicktoria Lounge Bar - Paolo Marini

Winter Garden Bar del The St. Regis - Christian Pampo

 

Florence Cocktail Week | Firenze | dal 1 al 7 maggio | www.florencecocktailweek.it

 

a cura di Annalisa Zordan

 

 

 


In viaggio. Salento, nelle terre del Negroamaro

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Il Salento, fuori stagione, diventa una meta intima e accogliente dove rifugiarsi per rilassarsi e da cui partire per scoprire la ricchezza della cultura e dei sapori delle Terre d’Otranto.

E cominciano, nella pianura, quei paesi bianchi, che in lontananza prendono in lucentezza ma nel tempo medesimo, un’incertezza di miraggi, da cui si avverte d’essere nel Salento” scriveva Guido Piovene nel suo Viaggio in Italia. Arrivando a Copertino, Gallipoli, Galatina e in tanti altri paesi delle province di Lecce, di Brindisi o del tarantino, la suggestione di quel bianco evocata dal grande scrittore, è sempre viva. I vigneti, come del resto gli uliveti, sono parte integrante di questo paesaggio vivo, vitale, seppur sofferente per qualche ferita.

 

uliviUlivi colpiti dalla xylella

 

Gli ulivi e il pericolo xylella

La xylella, il terribile batterio che sta uccidendo gli ulivi salentini, sta modificando il paesaggio, specialmente nei comuni dell’entroterra gallipolino. In attesa di trovare un rimedio efficace e che nel frattempo vengano attuate le misure per impedire la diffusione del contagio, dovremo abituarci a una campagna diversa con un panorama meno ricco, rispetto al passato. Una delle ipotesi è quella di trovare delle cultivar di olivo resistenti all’infezione che, in futuro, potrebbero essere reimpiantate colmando, almeno in piccola parte, i vuoti lasciati nel paesaggio e nella produzione di olio del Salento. Potrebbe essere anche un’opportunità per ripartire con una nuova consapevolezza del suo valore identitario oltre che produttivo. “L'olio extravergine d'oliva è uno dei prodotti cardine dell'agricoltura regionale” afferma Donato Taurino, presidente di Buonaterra (associazione di “produttori-artigiani” di olio extravergine di oliva del Movimento Turismo dell'Olio Puglia) e titolare dell’oliveto di famiglia a Squinzano (Lecce) “puntiamo a valorizzarlo in tutti i suoi aspetti e non solo come prodotto d'eccellenza, bensì anche come traino del turismo enogastronomico e come simbolo della nostra civiltà frantoiana”.

 

Il Negroamaro

Per conoscere e capire davvero l’essenza del Negroamaro, il Salento bisogna viverlo, respirando quell’atmosfera particolare creata dai venti che corrono tra i due mari, Adriatico e Ionio, che ne disegnano i confini. Qui il Romanico convive con il Barocco, i frantoi ipogei e le masserie sono opere d’arte così come i muretti a secco che delimitano i vigneti ad alberello. “Abbiamo puntato alla sinergia tra arte, cultura, territorio e vitigni come il negroamaro (un’uva identitaria, al pari del nero di Troia o del primitivo) al centro delle attività delle aziende consorziate nel Movimento del turismo del vino” spiega la vicepresidente del movimento, Barbara Mottura, titolare dell’omonima cantina di Tuglie. D’altra parte se la cultura materiale è stata definita “un ponte verso l'immaginazione dell'uomo e la sua creatività”, quest’uva rossa è una parte integrante del contesto culturale salentino e l’approccio al Negroamaro non può prescindere dalle suggestioni che il territorio offre.

vigneto_Le_Pitre_MotturaVigneto Le Pitre Mottura

Carlo Vallone (cantina Santi Dimitri di Galatina) è pienamente integrato in questa logica “Dal 2014 siamo impegnati nel ricercare una sempre più forte identità territoriale per i nostri vini” dice “La scelta per caratterizzare il nostro Negroamaro parte dai terreni leggeri e sabbiosi adatti ai nostri rosati o ai rossi giovani dai tannini morbidi, mentre per i vini con strutture più complesse utilizziamo i terreni argillosi e freschi”.

A Minervino di Lecce, i fratelli Vito Angelo e Gaetano Marangelli sono i fondatori di Cantine Menhir Salento. L’azienda, a poca distanza da Otranto e dall’area del parco megalitico, è nata con un obiettivo: “Raccontare la nostra terra attraverso i nostri vitigni: recuperando lo spirito ma anche le tecniche della tradizione per esaltarne i caratteri”. Si tratta di vini pieni e cremosi come il Numero Zero o il Fine, tutti da uve negroamaro, e sono il risultato di una ricerca a tutto campo, packaging compreso.

Un progetto altrettanto appassionato è quello che a Cutrofiano Ninì e Michele Palamà, padre e figlio, realizzano portando avanti l’azienda familiare nata nel 1936. “Anche io ho messo radici nelle vigna del Salento, come il Negroamaro: continuiamo a piantare barbatelle, tanto che non so più neanche quanti ceppi abbiamo messo a dimora io e la mia famiglia. So solo che tuttora continuiamo”. Il 75 Vendemmie o il Mavro Palamà si ispirano a questa filosofia: preservare la tradizione mantenendo vivi i ricordi, ma anche domare quei tannini vellutati e solo a volte un po’ scorbutici.

Cantina CanteleLa Cantina di Cantele

Tendenza bollicine anche per il Negroamaro

Più o meno tutte le cantine salentine si stanno cimentando (da qualche tempo, ormai) con la produzione di spumante da uve negroamaro. Questo vitigno a bacca rossa, grazie alla naturale ricchezza di acidità e di zuccheri, è particolarmente adatto alla spumantizzazione in rosa o in bianco. Lo conferma Gianni Cantele, dell’omonima cantina: “Anticipando la vendemmia dal negroamaro si può ottenere un’ottima base per il metodo classico. Le premesse ci sono, vediamo cosa succederà in futuro”. La Regione Puglia, inoltre, ha messo a disposizione dei fondi proprio per la realizzazione di impianti di spumantizzazione. E così nelle cantine, accanto alle botti di rovere, hanno trovato posto autoclavi e pupitres per il metodo classico. Questo sta succedendo da Leone Castris a Santi Dimitri, alla cooperativa Due Palme o nell’azienda del Duca Guarini. Ma il destino del Negroamaro, anche in futuro, continuerà a essere legato alla produzione dei grandi rossi o rosati, com’è giusto che sia.

salento_bionaturalisNaturalis Bio Resort

Il resort tra gli ulivi

Per percorrere le vie del Negroamaro un punto di partenza può essere il Naturalis Bio Resort: immerso nella campagna alla periferia Martano (Lecce) fa parte della catena Relais du Silence. È un grande borgo rurale, nato un paio di secoli fa in mezzo agli uliveti. Dopo una ristrutturazione molto rispettosa della sua storia è stato arricchito di una piscina e di una piccola, ma attrezzata, spa. Le ampie stanze sono state ricavate nelle antiche case dei coloni, affacciate sui campi coltivati e arredate con mobilio d’epoca. Da qui si può partire per raggiungere le principali località salentine: Lecce è a soli 20 chilometri, Gallipoli a 40 e Otranto a 15.

 

Il Salento nel piatto

Per assaggiare i sapori della cucina salentina in abbinamento al Negroamaro, un buon indirizzo nei paraggi – una decina di chilometri da Martano – è la Trattoria Alogne: qui Maria, Assunta ed Elsa propongono piatti a base di freschissime verdure locali, formaggi freschi e carni locali. Da segnalare i tanti e appetitosissimi antipasti – è fondamentale gestirne la quantità nel èiatto se si vuole assaggiare altro! – e tra i primi la tajiedda di granu stumpatu e cozze, mentre per i secondi basta assaggiare lo splendido pesce azzurro locale.

A poco meno di 30 chilometri da Martano, la masseria Le Stanzie di Donato Fersino a Supersano unisce le tradizioni gastronomiche locali alle suggestioni di un’antica casa di campagna un tempo luogo di sosta e di ristoro dei pellegrini e dei commercianti di olio che si recavano a Gallipoli. Le Stanzie è anche un’azienda agricola che produce verdura e frutta, sottoli, salse di pomodoro e tante altre specialità come i critimi (rucola di mare) e le caroselle (fiori di finocchio) sotto aceto. Al ristorante – gestito dal trio composto da Fernanda e Rosanna Mita e Mariluce Scarcia – è possibile assaggiare pitta, pittule, parmigiana di melanzane, purè di fave con peperoncino, sagne n’cannulate, ciciri e tria, carne di cavallo al sugo e molto altro ancora. Anche qui il Negroamaro è l’abbinamento perfetto per i sapori del Salento.

Chi volesse invece fare l'esperienza di una cucina contemporanea, una roccaforte delle avanguardie gastronomiche in salsa salentina, deve spingersi a Lecce, dove da poco più di un anno i giovanissimi fratelli Pellegrino di Bros' stanno mettendo a segno una proposta moderna, dall'appeal internazionale.

 

La via dell'aloe

Domenico e Marinella Scordari, imprenditori nel settore della cosmesi naturale, nel 1988 hanno creato N&B, una delle poche aziende al mondo in grado di seguire direttamente tutte le fasi della filiera produttiva dell’aloe vera: dalla coltivazione biologica delle piante, all’estrazione dei principi attivi, alla realizzazione dei prodotti confezionati. Dal campo al laboratorio, tutto viene eseguito con la massima attenzione per preservare i principi attivi naturali di questa straordinaria pianta che ha proprietà immunostimolanti, antibatteriche, antivirali, antiossidanti, disintossicanti. L’aloe vera diventa così l’ingrediente di body lotion, shampoo, bagnoschiuma, creme solari, gel. Il Salento non è solo uva e vino ma anche produzioni sostenibili di grande valore aggiunto per il territorio.

 

Fichi di SerranoFichi di Serrano

I fichi di Serrano

L’azienda agricola Furnirossi di Serrano (LE) è uno dei ficheti biologici più estesi d’Europa. Creato per volontà dell’imprenditrice Anna Maria Balena si estende per 13 ettari dove sono state collocate 80 varietà salentine selezionate con il supporto scientifico dell’Orto Botanico dell’Università del Salento nell’ambito del progetto Re.Ge.Fru.P (Recupero del germoplasma fruttifero pugliese). Nomi dialettali come Russiddha, Rizzeddha, Casciteddha oppure Dottato, Citrulara, Coppa, Potentino, Verdesca e tanti altri ancora, sono tutti dolcissimi e assicurano, tra precoci e tardivi, un lungo periodo di raccolta. Da visitare.

 

GLI INDIRIZZI

 

i vini

 

Mottura Vini del Salento | Tuglie (LE) | p.zza Melica, 4 | tel. 0833 596 601 | www.motturavini.it

Cantine Menhir Salento | Minervino di Lecce (LE) | via Scarciglia, 18 | tel. 0836 818 199 | www.menhirsalento.com

Vinicola Palamà | Cutrofiano (LE) | via A. Diaz, 6 | tel. 0836 542 865 | www.vinicolapalama.com

Cantele | Guagnano (LE) | s.p. 365 Salice Salentino-Sandonaci, km 1 | tel. 0832 705 010 | www.cantele.it

Cantine Due Palme | Cellino San Marco (Br) | via San Marco, 130 | tel. 0831 617 865 | www.cantineduepalme.it

Duca Carlo Guarini | Scorrano (LE) | | tel. 0836 460288 | via G. Sindaco, 54 | www.ducacarloguarini.it

Leone De Castris | Salice Salentino (LE) | via Senatore de Castris | tel. 0832 731 112 | www.leonedecastris.com

Santi Dimitri | Galatina (LE) | C.da Santi Dimitri | via Guidano | tel. 0836 565866| http://www.santidimitri.it/

Movimento Turismo del Vino e dell’Olio Puglia | Bari | via Sangiorgi, 15 | tel. 080 5233 038 | www.mtvpuglia.it

 

gli oli

 

Donna Oleria | Monteroni di Lecce (LE) | via San Fili - c.da Saetta, 19 | tel. 335 6260 697 | www.donnaoleria.it

Le Ferre | Castellaneta (TA) | c.da Catalano | tel. 099 8493 207 | www.leferre.it

Luigi Congedi | Ugento (LE) | via Marina | tel. 0833 555 263 | www.oliocongedi.com

D’Erchie | Montemesola (TA) | via degli Ulivi, 1a | tel. 099 5660 096 | www.olioderchie.com

Acli – Racale | Racale (LE) | via Prov.le Racale Ugento km 1,2 | tel. 0833 583 484 | www.acliracale.it

Tenuta Bianco | Ugento (LE) | via Teano, 10 | tel. 0833 554 241 | www.tenutabianco.it

Tenuta Venterra | Grottaglie (TA) | c.da Mannara | tel. 099 9915 296 | www.tenutaventerra.it

Buonaterra | www.buonaterra.info

 

dormire, mangiare, comprare

 

Naturalis Bio Resort & Spa | Martano (LE) | via Traglia | tel. 349 8251 363 | www.naturalisbioresort.com

Palazzo Zacà B&B | Gallipoli (LE) | via Coppola, 9 | tel. 329 8070 056| www.bbpalazzozaca.it

Insula B&B di charme | Gallipoli (LE) | via A. Pace, 56 | tel. 329 8070 056| www.bbinsulagallipoli.it

Palazzo Siena Hotel Boutique | Minervino di Lecce (LE) | fraz. Specchia Gallone | p.zza del Popolo, 10 | tel. 0836 818 216 | www.palazzosiena.com

Agri Resort Furnirussi | Carpignano Salentino (LE) | loc. Serrano | tel. 0836 1975 150 | www.furnirussi.com

Trattoria Alogne | Cursi (LE) | via Alogne 4 (p.zza papa Pio XII | tel. 0836 332975 | http://ristorantealogne.blogspot.it/

Le Stanzie Agriturismo | Supersano (Le) | s.da p.le 362 km. 32,900 | tel. 0833 632438 | cell. 340 1088 978 | www.lestanzie.com

Osteria Origano | Minervino di Lecce (LE) | via G. Scarciglia, 18 | tel. 0836 818 199 | www.menhirsalento.com

Fondazione Le Costantine | Uggiano La Chiesa (LE) | fraz. Casamassella | via Costantine | tel. 0836 812 110 | www.lecostantine.eu

B&N | Martano (LE) | via Laterale Campo Sportivo Z.A. | tel. 0836 575042| www.benesserenatura.com

L’azienda agricola Furnirossi | Serrano di Carpignano Salentino (Le) | Contrada Giammanigli, Strada Comunale "Scine" n. 29 | tel. 0836.1975150| www.aziendaagricolafurnirussi.it

Bros' | Lecce | via Acaja, 2 | chiuso il martedì | tel. 0832 092601 | www.brosrestaurant.it

a cura di Andrea Gabbrielli

 foto Carlo Elmiro Bevilacqua

Il Rum è Servito, quinta edizione. Ron Zacapa a Modena e Milano con L'Erba del Re e Trippa

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Ancora due cene per valorizzare l'abbinamento a tutto pasto con Ron Zacapa. E per il tour del Rum è Servito scendono in campo due chef che coniugano al meglio creatività e tradizioni del territorio. I menu di Luca Marchini e Diego Rossi, per le serate Zacapa de L'Erba del Re e Trippa. 

L'occasione è ghiotta, a Modena e Milano, per intercettare il tour dell'iniziativa Il Rum è Servito subito dopo le feste di Pasqua. Le cene organizzate sulle migliori tavole della ristorazione italiana da Ron Zacapa, in collaborazione con Gambero Rosso, continuano a conquistare gli appassionati del rum in cerca di un'esperienza di degustazione insolita, come gli amanti della cucina d'autore che vogliono farsi sorprendere dall'abbinamento a tutto pasto con le tre varianti della gamma Zacapa, eccellenza guatemalteca della distillazione. Il 19 aprile l'iniziativa itinerante approderà a Modena, alla tavola de L'Erba del Re, dove Luca Marchini ha studiato un menu che valorizza la creatività e i prodotti del territorio, omaggiando i piatti della tradizione e insieme la cucina contemporanea. Tutto in abbinamento con le proposte Zacapa:

 

Sgombro alla moda di Romagna (cotto in sale e zucchero, crema di melanzane, salsa acidula con senape e aneto, peperone rosso)

Dai ... nooo ... tonnè! (Roast beef di daino, funghi all'aglio, cilindro di zucchero Isomalto e mousse di salsa tonnè classica

Zacapa 23

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Ravioli di parmigiano reggiano, brodo di faraona

Zacapa 23

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Anatra confit, emulsione al suo fondo, foie gras, mela ai lamponi, affumicatura "parallela"

Zacapa Edicion Negra

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Omaggio alla Torta Barozzi ... ma non è la Barozzi

Zacapa XO

 

Il giorno seguente, si sale a Milano, per incrociare la cucina di una delle trattorie più celebrate in città. Sarà Trippa a cimentarsi con l'abbinamento, e Diego Rossi si prepara a stupire i commensali che si presenteranno in via Vasari la sera del 20 aprile, all'insegna del consueto mix tra piatti della tradizione, quinto quarto e visione contemporanea. 

 

L'Erba de Re | Modena | via Castel Maraldo, 45 | tel. 059 218188 | www.lerbadelre.it 

Trippa | Milano | via Giorgio Vasari, 3 | tel. 327 6687908 | www.trippamilano.it 

Vincenzo Tiri. I segreti della colomba migliore d'Italia

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Una pasticceria storica e una passione antica per panettone, prima, e colomba, poi. Così Vincenzo Tiri dell'omonima pasticceria lucana, ha messo a punto una ricetta che lo ha imposto tra grandi lievitisti d'Italia.

Tiri dal 1957

La pasticceria è lì dal 1957, da quando nonno Vincenzo, allora trentenne, la aprì dedicandosi a pane e dolci cotti nel forno a legna. Dopo 60 anni la pasticceria di Acerenza è una delle più note dentro e fuori la Basilicata, con nonno Vincenzo ancora nel laboratorio a presiedere il lavoro. Oggi in mano al nipote che porta il suo stesso nome e al fratello Giuseppe che, anno dopo anno, l'hanno resa meta di appassionati dell'arte dolce. Soprattutto per quanto riguarda i grandi lievitati. Lo abbiamo verificato noi stessi, nella recente degustazione alla cieca di colombe, che ha messo a confronto grandissimi prodotti e in cui Tiri si è distinto con un prodotto praticamente perfetto.

VIncenzo tiriVincenzo Tiri e il nonno

Acerenza è un centro di neanche 2mila abitanti, un paio di ristoranti di cucina tipica, la pizzeria solo sabato e domenica, “ché durante la settimana si esce pochissimo, è un posto dove si vive più lentamente” spiega Vincenzo il giovane, “siamo lontani da tutto” e aggiunge “qui bisogna venirci apposta”. E ora in molti ci vengono, non solo per visitare la locale Cattedrale, ma per provare i suoi famosi dolci: “la prima cosa che chiedono sono i lievitati”. Ormai prodotti tutto l'anno. Il panettone, soprattutto, che sta diventando il loro prodotto di punta, tanto che hanno scelto di rimanere chiusi la domenica per concentrarsi sulla produzione durante la settimana. Sotto le feste tutto cambia: “dormiamo 2 o 3 ore a notte” dice, e aggiunge “il panettone ci ha cambiato la vita”. E la fila fuori dalla porta della pasticceria, in certi periodi sin dalle 5 del mattino, è la conferma del loro successo.

AcerenzzaAcerenza

 

La passione per il panettone

Ovviamente all'apertura non si producevano panettoni e colombe, al sud non si usavano. Sono arrivati in epoca recente, con i prodotti commerciali della grande distribuzione, senza che ci fosse nulla del genere nelle pasticcerie locali, e con lo sviluppo degli artigiani negli ultimi anni. Ma lui, Vincenzo, l'idea di fare un grande panettone la coltiva sin da quando è piccolo, “per via di quella sua capacità di riunire le famiglie” spiega. E ha iniziato così. “Ho seguito il mio sogno” confessae racconta di come si fosse intestardito nell'idea di “non portare qui solo una scuola milanese o piemontese, ma di fare un prodotto più personale, con una mia ricetta e un mio metodo”.

E per fare un panettone che fosse completamente suo, prima ha girato per l'Italia a imparare dai grandi maestri: 6 mesi da Morandin a Saint Vincent, poi Iginio Massari, Achille Zoia e tanti altri “ho conosciuto persone che hanno esperienze di 60 e più anni sui lievitati”. Ogni esperienza è un'occasione per imparare, incluse le consulenze per grandi aziende alimentari, come quando è volato fino in Giappone in una multinazionale da migliaia di dipendenti proprio per lavorare sui grandi lievitati: “fanno un buon panettone” racconta “e hanno una gestione del lievito un po' alternativa, lì”. Così, di incontro in incontro “anche la mia è diventata una gestione un po' alternativa”. Perché è lì, nel lievito, che si nasconde il segreto dei suoi prodotti “il panettone è la faccia del lievito”.

 

llievitoIl lievito

Il lievito

Da quando abbiamo aperto, 60 anni fa” racconta “abbiamo sempre usato il lievito madre” per pane, cornetti e gli altri dolci. Anche per questo il laboratorio è ormai un ambiente ricchissimo di contaminazioni, “si è creato un habitat favorevole, si sente subito entrando un buon profumo di lievito”. Da Tiri, se ne usano vari, con mantenimenti diversi: liquido, in acqua e legato, ovvero nel sacco. E proprio questo è quello che impiega per le sue colombe e i panettoni: “è un processo più complicato” spiega “si prende un telo in cui viene avvolto il lievito, poi legato da una corda. Il lievito fermenta così e si sviluppano i sapori, ma con questo metodo c'è più rischio che inacidisca”. Per i panettoni usa un lievito madre donatogli 12 anni fa da Rolando Morandin; poi ha iniziato a studiare (e tanto) per trovare un suo metodo “perché capire lieviti, impasti e temperature non è semplice”. E il panettone è il prodotto che mette più alla prova, per lui.

Quando è in produzione rinfresca il lievito ogni 4 ore circa, “in altri periodi in genere basta una, con acqua e farina”. Impossibile essere precisi: “dipende da quando il lievito è maturo, da quando c'è bisogno di dargli da mangiare, può essere prima o dopo” non c'è un parametro giusto in assoluto, “quello giusto è quello che funziona ” ogni lievitista (e ogni caso) è diverso: “il lievito madre è vivo e cambia tutti i giorni, bisogna essere bravi a capirlo”.

 

L'impasto

Per Tiri lunga lievitazione significa circa 72 ore, ovvero 3 giorni: “più le lievitazioni sono lunghe più il prodotto è digeribile, umido, soffice e profumato” spiega. E aggiunge: “Faccio tre impasti per ogni colomba, a differenza della scuola piemontese che ne vuole due, ma è il terzo che dà questo sviluppo all'impasto. Certo, così i tempi di lavorazione si allungano molto, “ma poi il prodotto è diverso”. Il primo impasto è bianco, con acqua, zucchero, farina e una parte di burro, il secondo è con farina, zucchero, uova e burro, con l'ultimo si aggiungono zucchero, uova, miele vaniglia (“è il profumo che mi piace di più e lo metto anche nei lievitati” e si vede ad occhio nudo), burro, sale e infine la farcitura: canditi, cioccolato o altro.

Giuseppe e Vincenzo TiriVincenzo e Giuseppe Tiri

I canditi

Ho imparato a candire 12 anni fa” spiega. Un processo elaborato anche quello, frutto dello studio e del tempo: “faccio una canditura alla francese con le vasche aperte”. Congela la buccia “così si rompe la fibra e mantiene le caratteristiche” e poi inizia: dopo una leggera scottatura immerge le scorze in uno sciroppo di acqua e zucchero, tenendo le temperature molto basse, controllando costantemente i grandi brix degli zuccheri dello sciroppo fin quando arriva a 70 brix. Nel processo lo zucchero sostituisce per osmosi l'acqua nelle bucce. Ci vogliono circa due settimane perché sia pronto ma così mantiene più oli essenziali. “Li facciamo nei momenti di minore produzione”: due mesi sono dedicati solo ai canditi. “Uso l'arancia scaccia: di grandi dimensioni, anche un chilo l'una, schiacciata ai poli e molto profumata”. Ma stavolta, per Pasqua, sono finite anche le scorte di canditi.

Colome tiriLe colombe

La glassa

Vedevo che la glassa non andava. Quindi ci abbiamo lavorato su tutto l'anno: dedichiamo sempre 2 o 3 ore al giorno per la ricerca sui nostri prodotti”. Quindi si è applicato alla copertura, che è la prima cosa che si vede appena la colomba esce dalla confezione: “se troppo morbida - con un prodotto così ricco come la colomba - si bagna in fretta, se troppo dura si stacca dal resto. L'abbiamo studiata apposta perché rimanga intatta” spiega “ovviamente può succedere che si rompa, magari se c'è un candito o un pezzetto di cioccolato in superficie, ma nel 90% dei casi è integra”. Non solo: “volevo una glassa uniforme, che non si rompesse, croccante”. Risultato raggiunto. Ma come? “Con la semola rimacinata di grano duro, tipico di questa zona” a rafforzare l'identità territoriale della sua pasticceria. Mentre per le mandorle sceglie le Bari o le Toritto.

 

La forma

La vecchia scuola insegna che, per una colomba da un chilo, si usavano due terzi dell'impasto per il corpo e un terzo per le ali oppure si fa solo la parte centrale e poi si tagliano le ali. Il problema è che così la glassa non è uniforme. “Faccio un unico pezzo senza tagli”. Detto così pare semplice, ma questo implica che la pasta sia della giusta elasticità quando si mette nel pirottino, e l'attenzione e la cura anche in questo passaggio devono essere massime.

 

La produzione

Abbiamo finito mandorle e arance e perfino le scatole, questa Pasqua” ci dice. Quest'anno la produzione di colombe è iniziata prima per questo ha esaurito perfino le buste con il marchio. In genere comunque non si va oltre i 15 giorni precedenti la festa mentre il panettone il periodo caldo è molto più lungo: da metà novembre a metà gennaio. “Anche se le cose stanno un po' cambiando, la colomba è meno richiesta: quasi un terzo del panettone”. La produzione, nei periodi prefestivi, è a getto continuo, e nei 200 metri quadrati di spazio si alternano i vari impasti, una lievitazione dopo l'altra: “servirebbe un po' di spazio in più e un altro forno”. Negli anni le quantità sono cambiate ma le modalità no: “rimaniamo su un numero per cui riusciamo a controllare tutto, anche se è molto faticoso: non dormiamo quasi”. E infatti sotto Natale alle 13 spesso la disponibilità giornaliera è già finita. Voleva dare una sua versione di questo prodotto, dice: “mettere a punto una ricetta mia, a partire da come si faceva 100 anni fa, ma che potesse dare un prodotto diverso” diceva “che le persone volessero mangiare anche oltre la prima fetta”.

Ora sto studiando un nuovo lievitato per i 60 anni di attività quest'anno e tra qualche mese sarà pronto per essere in commercio. Aspettiamo di provarlo.

 

Tiri 1957 | Acerenza (PZ) | via Antonio Gramsci, 2 | tel. 0971 749182 | www.tiri1957.it

 

a cura di Antonella De Santis

 

Il Refettorio di Massimo Bottura presto in America. Grazie ai 500mila dollari della Rockefeller Foundation

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La donazione al progetto Food for Soul arriva con l’obiettivo di contrastare la povertà di molte città statunitensi creando nuovi poli di aggregazione sociale e combattendo lo spreco alimentare. Ideali che sostengono il refettorio sin da Expo 2015, ed entro il 2019 garantiranno l’apertura di due strutture oltreoceano. Intanto si profila l’ipotesi Palermo.

Il Refettorio. Da Milano… All’America

Una decina di giorni fa, al termine di una cerimonia di premiazione carica di aspettative, lo scettro dell’alta ristorazione internazionale passava di mano da Massimo Bottura a Daniel Humm. Da Modena a New York, attraversando l’Atlantico per premiare l’efficienza di un’insegna impeccabile, non solo cucina da fuoriclasse, ma soprattutto gestione d’impresa perfetta. Ma sull’asse Italia-America lo chef della Francescana non sembra affatto stanco di investire, lui che ha trovato la compagna di una vita proprio oltreoceano, e che negli Stati Uniti, come in buona parte del pianeta, è considerato l’ambasciatore per eccellenza del made in Italy. E dei suoi valori. Anche quando gli ideali da perseguire travalicano il mestiere del cuoco, verso obiettivi più ambiziosi che sulla cultura gastronomica, come sull’estetica del buono e del bello, fanno affidamento per creare aggregazione, educare alla solidarietà e aiutare il prossimo. Tutto questo è il Refettorio, il progetto etico nato a Milano sotto la stella di Expo 2015 di cui c’è sempre un valido motivo per parlare. Specie ora, che dopo Rio, Modena, e presto, entro il mese di giugno, Londra con il Refettorio Felix (con il coinvolgimento di Alain Ducasse, Daniel Boulud, i fratelli Cerea, Isaac McHale, Claude Bosi, Clare Smyth e molti altri per servire oltre 2000 pasti nel mese del London Food), finalmente anche la possibilità di replicare sul territorio americano sembra più concreta. L’idea, bisogna dirlo, era nell’aria da tempo.

La Rockefeller Foundation per Food for Soul

Del resto la nascita della fondazione Food for Soul, all’indomani della chiusura di Expo, sanciva il desiderio di non disperdere le energie e gli stimoli di un’esperienza tanto importante, facendo appello a tutte le risorse per radunare il maggior numero possibile di donazioni, da destinare all’apertura di refettori ovunque ce ne fosse bisogno. E il suo sogno americano, Bottura lo condivideva giusto un anno fa con Robert de Niro, in occasione di una visita in Francescana. Nulla di fatto. Chi invece farà la differenza nella pianificazione di un’espansione negli States è la Rockefeller Foundation, impegnata nella lotta allo spreco, che in favore di Food for Soul ha recentemente versato un assegno di oltre 500mila dollari, con l’intento di contrastare lo spreco alimentare nelle comunità più povere d’America, e cioè, per dirla con le parole del neopresidente della fondazione Rajiv Shah, “la diffusione capillare di Food for Soul negli States ci aiuterà a sfamare più persone, offrendoci un nuovo modello per ridimensionare la povertà attraverso l’inclusione sociale”.

Due nuovi refettori entro il 2019

Così, ora è certo, tra il 2018 e il 2019 è prevista l’inaugurazione di due refettori a stelle e strisce, in attesa che il numero delle strutture possa crescere negli anni successivi, con sette ulteriori aperture nei confini statunitensi. Alla stampa americana Lara Gilmore e Massimo Bottura hanno anticipato qualche dettaglio a tal proposito, restringendo il raggio d’azione a diverse città al vaglio della Fondazione: il Bronx di cui già tempo fa si vociferava, ma pure Washington D.C., Detroit, Baltimora, Miami, Los Angeles, San Francisco, Seattle, New Orleans, Chicago. Ovunque ci sia una situazione disagiata su cui intervenire, meglio se in collaborazione con partner locali, portando la speranza di un refettorio. Come presto potrebbe accadere a Palermo, che, anticipa Bottura, sarebbe pronta ad accogliere un nuovo progetto, in collaborazione con il Comune e i 20 migliori ristoranti della città.

a cura di Livia Montagnoli

Il re del barbecue americano arriva in Italia. Storia e progetti di Steven Reichlen

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Un guru del barbecue in America e non solo: da 20 anni a questa parte, Steven Raichlen contribuisce allo sviluppo e alla crescita della cultura della griglia e del mangiare bene negli Stati Uniti con programmi tv, libri e corsi di formazione. E ora si prepara ad approdare in Italia con un nuovo, originale show.

Gli inizi

Non esiste un modo univoco per introdurre Steven Raichlen, il re del barbecue americano che ha rivoluzionato completamente il modo di concepire la griglia negli Stati Uniti: professionista, chef, ex critico gastronomico, star della tv, ma ancora prima un appassionato. Un uomo che ha fatto della qualità del cibo, della ricerca delle materie prime e dello sviluppo di tecniche innovative, il suo mantra. E un grande comunicatore, promotore del rito del barbecue e portavoce di tutta la cultura nord e sud americana che si cela dietro questo metodo di cottura. “Tutto ha inizio con una laurea in letteratura francese, una scelta di vita sbagliata che però, a distanza di 20 anni, ha dato i suoi frutti”.

Nato a Nagoya, in Giappone, cresciuto a Baltimora, in Maryland, Steven – classe '53 – si specializza in poesia francese medievale e, tramite questo percorso di studi, viene a conoscenza dell'antica tradizione culinaria del Medioevo. “Da quel momento, ho capito quanto fosse profonda l'interazione fra cultura e cucina”. Comincia così a sviluppare un interesse sempre più forte verso il mondo dell'enogastronomia, lavora come critico, inizia a visitare tutti i migliori ristoranti, studia il vino e soprattutto si mette dietro ai fornelli. “Un giorno qualcuno mi ha detto che non mi sarei mai guadagnato da vivere scrivendo di cibo. Per cui, naturalmente, mi sono messo a scrivere libri di cucina”. E la sua determinazione lo ha portato al successo attuale: “Il primo volume è stato The Barbecue Bible ed è diventato un besteller mondiale”. Perché?“Semplicemente, era il testo giusto nel posto giusto al momento giusto”. È il '98, un momento storico in cui in America imperversano fast food e cucine di bassa qualità, fatte di ingredienti mediocri e poca cura nella preparazione: “Mi ci è voluto tanto per scriverlo, ma alla fine il duro lavoro mi ha ripagato perché, fino ad allora, nessuno aveva pensato al barbecue come una pratica sofisticata”. Il passo dalla scrittura alla televisione è breve: “Dopo il successo immediato mi sono chiesto: 'Quanti progetti si possono sviluppare con il barbecue?' Programmi tv, siti web, scuole”. E così li ha realizzati. Tutti quanti.

La tv e i libri

Circa 8 anni fa mi trovavo a Montreal per promuovere la versione francese di The Barbecue Bible e in questa occasione ho conosciuto un produttore televisivo che mi ha proposto di tenere uno show tutto mio incentrato sul barbecue”. Da allora, ne sono nate tre stagioni, “e vado a Montreal la prossima settimana per iniziare le riprese della quarta” trasmesse negli Stati Uniti ma anche in diversi paesi europei. Un'esperienza unica, quella televisiva, che ha consentito a Steven di farsi conoscere anche al grande pubblico: “Inizialmente ero terrorizzato. Ricordo ancora la prima ripresa: 3,2,1 azione... E dalla mia bocca non uscì alcun suono, tanta era la tensione”. Dopo i primi anni più difficoltosi, lo chef comincia a prendere confidenza con le telecamere e oggi trascorre più tempo in TV che nella sua cucina, registrando diversi programmi.

 

Programmi TV

Il mio lavoro primario però resta sempre la scrittura. Oltre ai libri di cucina, ho scritto un romanzo 3 anni fa, Island Apart, che racconta la storia di un uomo e una donna che scoprono loro stessi e si innamorano attraverso il cibo”. Steven ha scritto anche di spezie e della tradizione dell'America Latina: “Per anni noi americani non abbiamo avuto nulla di cui essere fieri per quanto riguarda la cucina. Poi però abbiamo scoperto che al Sud esiste una storia densa e articolata di tradizioni, ricette, piatti antichi e prodotti tipici davvero invidiabile. Così, le zone che non avevano una cultura culinaria storica, hanno iniziato a inventarla. Miami, per esempio. Si è creata una nuova generazione di chef innovativi che hanno posto le basi per costruire una storia. Da questa osservazione, è nato il desiderio di esplorare la cucina latina e il libro Healthy Latin Cooking”. Il barbecue però resta il tema centrale, e l'autore-chef è pronto a presentare un nuovo volume il mese prossimo.

 

libri

L'Università del Barbecue

Un professionista così appassionato non poteva esimersi dal trasmettere le sue conoscenze a tutti i giovani aspiranti cuochi: al Broadmoor Resort, in Colorado Springs, parte centro-orientale dello stato del Colorado, c'è la Barbecue University, scuola di formazione dove Steven mostra agli studenti come realizzare un barbecue ad hoc. “Funziona come una sorta di campo estivo, dove gli studenti condividono gli spazi e seguono lezioni teoriche e pratiche. A fine corso c'è un esame e ogni allievo deve realizzare una presentazione su un tema a scelta”. Studenti di tutti i tipi, dagli addetti ai lavori ai cuochi amatoriali più appassionati e soprattutto di tutte le nazionalità. Il prossimo passo? “Creare un'Università del barbecue anche in Italia, mantenendo tecniche e tradizioni americane ma utilizzando ingredienti del territorio”.

La tradizione del barbecue in America

Un legame profondo e inossidabile, quello fra americani e griglia, ma cosa rappresenta nel Nuovo Mondo questo rituale? “Ci sono due scuole di pensiero principali: il classico barbecue americano, diffuso soprattutto nell'America Latina, che prevede cotture lente a fuoco basso e diversi tipi di carne a seconda della nazione”. Nell'America Settentrionale invece la tradizione prevede un uso cospicuo di salse di vario genere: “Lo chiamiamo barbecue ma in realtà è la griglia, ben diversa. Perché sulla griglia puoi cucinare qualsiasi cosa, dalla carne ai dolci”. Barbecue, griglia e infine affumicatura: “Uno dei libri che ho scritto si chiama Project Smoke e parla di cibi affumicati, che sono un prodotto completamente differente”.

 

Gamberi grigliati

 

Ma come è cambiato il concetto di barbecue negli anni? “Quando ero bambino, si preparava il barbecue o la griglia una volta al mese. Ora siamo passati addirittura a tre volte a settimana. Non è più una cottura riservata alle occasioni speciali, ma un'usanza abituale”. Col tempo, cambia (fortunatamente) anche la carne: “Fino agli anni '50 i tagli erano buoni, ma dalla seconda metà del 20esimo secolo fino ai primi anni 2000 i prodotti erano tutti industriali e di scarsa qualità. Gli americani pensavano che la tipologia di cottura coprisse sapori e profumi e che quindi non fosse necessario spendere per la materia prima”. Oggi, c'è un'attenzione maggiore sia al Nord che Sud America.Steven utilizza solo carne grassfed, ovvero di animali allevati al pascolo e nutriti a erba, verdure biologiche, “stagionali”e pesce di mare, “mai di allevamento”. E cerca di promuovere questi principi in un paese “schizofrenico, patria del McDonald's ma anche dei Farmer's Market, dove si trovano le due tipologie opposte di consumatori”.

 

carne

E in Italia...

Anche nel Bel Paese esiste una tradizione di barbecue e griglia, solamente è più nascosta. “Conoscevo la rinomata bistecca alla fiorentina e quando ho iniziato a interessarmi al barbecue sono andato in Toscana a provarla”, ma era solo l'inizio perché il punto di svolta per Steven c'è stato in Basilicata: “Quando in Italia chiedi a qualcuno informazioni sul barbecue, la maggior parte delle persone ti risponde che non esiste questa tradizione, ma non è vero, è solo un'arte invisibile”. E prosegue: “Camminando per i borghi della Basilicata mi sono reso conto della grande quantità di macellerie buone. La griglia si usa, è una tradizione più casalinga e poco diffusa fra i ristoranti, ma c'è. Ed è squisita, specialmente con la carne di cavallo, che per noi americani è davvero inusuale”. Da questo viaggio nella terra lucana, lo chef prende ispirazione per il suo nuovo progetto.

Il programma con il Gambero Rosso

Ho pensato: Perché non andare alla scoperta del barbecue italiano facendomi aiutare dagli artigiani locali, scambiando consigli e informazioni?”, e così ha fatto. Un suo amico lo mette in contatto con Stefano Monticelli, regista del Gambero Rosso Channel (canale 412 di Sky) e dopo vari scambi di email finalmente i due si conoscono e, insieme a tutta la squadra del canale del Gambero Rosso, capitanata da Bianca Perugia, iniziano a porre le basi per un nuovo programma, ancora tutto da definire. “La mia intenzione è quella di coinvolgere macellai, pescatori, cuochi e consumatori appassionati dei vari territori, chiedere loro di mostrarmi prodotti tipici e cotture tradizionali e poi fargli vedere la mia interpretazione di quegli ingredienti, portando così la mia idea di barbecue anche in Italia”. Sempre rispettando il gusto e la tradizione degli italiani: “La cucina tricolore si fonda su usanze e ricette antiche e non ho intenzione di stravolgere. Voglio usare materie prime italiane, cucinarle a modo mio ma senza distorcere i gusti locali”. Ma promette comunque di stupirci: “Non vedo l'ora di realizzare una crostata o una pizza sulla griglia”.

 

pizza grigliata

L'Italia di Steven

Ma quali ristoranti italiani piacciono al re del barbecue americano? “Non sono ancora stato in un posto che non mi è piaciuto”. Gli indirizzi preferiti dello chef restano quelli più tradizionali: “Ogni volta che vengo in Italia ho voglia di assaggiare i piatti classici. È un po' la figura stereotipata del turista americano questa, me ne rendo conto, ma davvero trovo più soddisfazione in una cacio e pepe ben fatta che in piatti di cucina molecolare”. Steven però non ha rinunciato a provare l'Osteria Francescana di Massimo Bottura, “eccellente”, e Piazza Duomo di Enrico Crippa, “esperienza sensoriale unica”, ma le sue cene più belle sono state quelle a Roma da Checchino dal 1887, “la coda alla vaccinara è meravigliosa”, Roscioli, “amatriciana, carbonara e in particolare cacio e pepe da maestro”, piatti autentici, dal sapore antico, “quello che manca a Boston, New York, San Francisco e anche Miami”. Cucina regionale preferita? “Quella siciliana e lucana. Noto è un luogo incantevole, e così anche Siracusa, dove ho provato una fantastica grigliata di pesce”. Ma a uno straniero che gli chiede consiglio su un itinerario (anche) gastronomico Steven raccomanderebbe senza esitazioni di iniziare da Como, “perfetta per rilassarsi e godersi un po' di sana quiete”, passare per la Toscana, “specialmente la zona del Chianti”, Roma e poi finalmente approdare al Sud, “dove ci sono alcune delle cucine più interessanti e variegate del mondo e degli ingredienti unici”. Ma sono ancora tanti i luoghi da visitare ed esplorare, perché “ho la netta sensazione che puoi trascorrere tutta la vita a viaggiare e mangiare in giro per l'Italia e scoprirai sempre qualcosa di nuovo”.

Progetti futuri

Programma TV italiano a parte, Steven ha in cantiere diversi progetti: “La prossima settimana comincio le riprese a Montreal, ho la presentazione del libro e poi sto già lavorando a un altro testo, Project Fire, sulla falsa riga di Project Smoke ma incentrato sulla griglia”. Ci sarà un volume, poi, anche sulla sua esperienza in Italia, “probabilmente in lingua italiana, ma non ne sono certo. Sto studiando ma ci vuole tempo”. Il sogno è quello di portare la scuola di formazione nella nostra Penisola, ma anche di esportare il format dello show del Gambero Rosso in Spagna e Germania, “due paesi con una ricca tradizione di barbecue, anche in questi casi un po' nascosta, ma ben radicata”. E un ristorante? “Ci ho pensato ma non ne aprirei mai uno tutto mio. Se trovassi i giusti partner, seri e preparati da me, a cui affidare la produzione forse...”. Forse un giorno, ma nel frattempo attendiamo con ansia il nuovo programma TV, il primo in Italia...

a cura di Michela Becchi

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