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Sulle strade della California. Un viaggio a più tappe tra assaggi e racconti. Vol. 4

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Viaggio in California quarta tappa: i grandi recuperi di palazzi d'epoca e il meticciato gastronomico . Con la fusion coreana a dettare le nuove mode ristorative.

Los Angeles K-Town fusion: fenomeni di gentrificazione e fusion di tendenza

Da Beverly Hills a Downtown le città di Los Angeles vivono di contaminazioni. In cucina la parola d’ordine è fusion, a patto che sia sana, fresca, bio e di stagione. Non c’è da stupirsi se a colazione ti arriva un mini muffin cioccolato e zucchine. “Gli abbinamenti valgono come contrassegno di avvenuta integrazione tecnico etnica tra le parti, che siano asiatiche, europee o sudamericane. Molto dipende dal quartiere e dalla provenienza dei suoi abitanti. A Koreatown ci sarebbe da aspettarsi cibo d’oriente, ma ci vivono anche molti messicani e latino americani, dal mix nascono sperimentazioni interessanti” a parlare è Summer Davis, da anni food explorer globale per Urban Adventures, nata e vissuta a Los Angeles, conosce ogni sfumatura delle espressioni culturali in cucina, quartiere per quartiere. “Negli ultimi anni l’ambiente architettonico deco d’inizio secolo di K-Town e una gentrificazione silente ma progressiva, determinata a creare qui un nuovo urban status simbol, attraggono nuovi residenti, prevalentemente giovani, ricchi e in cerca di quartieri di tendenza in cui insediarsi. La posizione è perfetta, a ridosso di Downtown, e la densità degli edifici, qui più che altrove, dà l’idea di città tradizionalmente intesa, che manca alle strade di Los Angeles” spiega, e continua: “Così capita che il mix a tavola rispecchi in un'unica composizione, due e più provenienze diverse. L’Italia è citata sopra ogni cosa, un ristorante fusion italiano, a Los Angeles, è rifugio, mito e madre di tutte le cucine. La nuova tendenza gastronomica sposta l’attenzione dalle cene scenografiche in perfetto stile hollywoodiano, tovaglia al tavolo e candelabro. Si punta all’informale, al casual, al contrappunto: quel che conta è che il cibo sia autentico, parli da sé”.

 

Ambientazioni eclettiche

I contrasti impensabili valgono anche nelle ambientazioni. A Los Angeles si trova di tutto: dai ristoranti sui tetti con piscina, caminetti e sedie sdraio sotto gli ulivi - simulazione esotica di improbabili spiagge urbane - alla passione per il cibo coreano, al pellegrinaggio on the road alla ricerca dei food truck più originali e inconsueti, dispensatori rigorosamente ambulanti di buon cibo. Una tappa di orientamento geo-culturale è d’obbligo al Gaylord Apartments, primo hotel residenziale del 1924 in stile rinascimento italiano, oggi convertito in appartamenti di lusso. La Hollywood degli anni d’oro aveva qui il suo quartier generale. Un drink prima di cena al HMS Bounty, il ristorante su strada dell’antico hotel è un’immersione senza confronti nella Hollywood che fu. Wiston Churchill aveva il suo tavolo fisso. Indian Summer, un episodio di Mad Man, è ambientato qui.


Ham Ji ParkHam Ji Park

 

K-Town. Passioni coreane e altre contaminazioni

In tono con il lusso eclettico di inizio secolo il Chapman Market è il primo supermercato drive-in del 1929, su misura per l’accesso in automobile. Dalle sembianze di una fortezza in pietra, in stile revival spagnolo oggi fa da piazzetta chic per negozi e ristoranti corean fusion. Da Ham Ji Park la cucina coreana fresca e autentica è garantita dagli studi in biologia della moglie del proprietario: carni, pesce e fragranti verdure di ogni tipo vengono serviti in una sequenza inarrestabile di piccoli assaggi eco sostenibili. EscaLA combina a tavola Colombia e Corea, un sandwich farcito può avere i colori di una festa, far paura al colesterolo e invece va giù leggero senza danni, mentre manda su lo spirito latino. Il progetto è articolato: non solo food, ma anche hub per artisti dediti alla street art e ai graffiti, l’effetto è un dentro-fuori che simula strade e piazze al coperto, con tavoli in mezzo. Street art fa rima con hip hop e il mix cibo, musica, cultura è servito.

Il mercato coreano Zion Market dà idea della vita domestica di K-Town, ci fanno la spesa tutti, dalle signore indigene ai manager techies asiatici, in cerca del pasto single-healthy dai valori nutrizionali bilanciati. Nella zona gastronomia gli stand cucina dei prodotti più strani, offrono assaggi pronti al momento. I bignè a forma di pesce con crema pasticcera valgono la visita. Li prepara Lee da vent’anni alle prese pastella e forno in ghisa.

 

i pasticcini di CocohodoI pasticcini di Cocohodo

 

Allo stand accanto, la carta velina bianca dei pasticcini di Cocohodo avvolge Cina e Messico insieme per una delle scoperte gastronomiche più stravaganti di Los Angeles. L’impasto leggero alle noci fa da involucro alla crema di fagioli rossi in una forma dal disegno e proporzione di una noce. Il sapore delicato non dolce può creare dipendenza.

 

 The LineThe Line

 

The Line e Normandie: non solo cibo

Ma la trasformazione urbana di Koreatown si deve al The Line. Un progetto complesso e riuscito a tutti i livelli: urbano, gastronomico e architettonico. Non facile diventare in poco tempo uno dei riferimenti più noti nelle tendenze stylish degli hotel in una città come LA, e comunicare benessere in un edificio in cemento grezzo del Moderno Brutalista. La cucina è firmata Roy Choy, mito assoluto della cucina coreana. L’ambientazione tropicale in serra, aperta sulla piscina sul tetto del Commissary e il design fresco del Pot e del Cafe fanno del The Line il centro innovativo di K-Town in tema di innovazione gastroculturale.

Adiacente al The Line è il Normandie che gli fa da contrappunto. O andrebbe forse detto il contrario, dal momento che il Normandie custodisce la storia di Los Angeles: con discrezione e senza fronzoli ne ha catturato l’anima deco dei Venti, nella facciata neo rinascimentale e gli interni in stile coloniale spagnolo. A chi non conosce le storie consumate al Normandie negli anni d’oro di Hollywood, oggi il Normandie è noto per Cassel’s, il ristorante anni ’70 al piano terra: il burger con marchio qualità è meta d’obbligo per i foodies losangelini.

 

Downtown: il fascino è nella sintesi tra passato, presente e futuro

A Downtown Ace Hotel e Mama Shelter stanno alla rinascita delle luci di Broadway come The Line sta alla rivincita di K-Town. Tappe obbligatorie per testare il cambiamento e assorbirne il fascino.

I Mama Shelter sono noti per l’immagine ironica ed estrema di un concept che shakera arte, design, artigianato e improvvisazioni –anche umane - ad alto wow factor. Imperdibile una cena al ristorante sul tetto: c’è la notte di Los Angeles intorno, divani e tappeti colorati per indugiare con un drink fino a mattina. L’Ace Hotel è un viaggio nel viaggio. Verrà ricordato con ogni probabilità come dichiarazione di fiducia e amore nella rinascita di Downtown: il recupero dell’edificio deco - sede della United Artists Theatre prima e della Texaco poi - è spettacolare, in tono con la vocazione di Broadway. Sul tetto, al bar come a bordo piscina, si tocca con mano l’architettura che fu, a diretto contatto con la torre neogotica e il panorama di LA, quasi a sentirsi parte della città che cambia. Il ristorante al piano terra L.A. Chapter mantiene un’aura inizio secolo nei colori e nei dettagli. La cucina di Jud Mongell e Ken Addington è un’esperienza imperdibile per creatività e ricerca. Verdure e frutti di mare di provenienza locale certificata sono la base per composizioni esotico-europee insolite, arricchite di erbe fresche e accenti colorati: apparenti contraddizioni per sapori autentici, fragranti in cui riscoprire la tradizione.

 

La Bottega LouieLa Bottega Louie

La Bottega Louie porta il ritmo dei tempi che cambiano e della voglia di rinascere che si tocca con mano a Downtown; o ccupa la hall di una banca degli anni Venti, il contrasto dei dettagli in oro sul bianco di pietra e stucchi bianchi esalta la luce della sala di cui sono rimaste intatte le altezze originarie. Cibo gourmet e pasticceria raffinatissima, anche per catering, sono un'attrattiva irresistibile per quel gusto americano per lo stile europeo, qui proposto in una fusion franco italiana. Il Grand Central Market, invece, vale come sintesi di tutte le cucine e culture gastronomiche di Los Angeles: è il mercato più antico della città, attivo sin dal 1917, teatro di vita reale fra i teatri dismessi di Broadway, in una ambientazione multietnica che più urbana non si può.

 

 

The line | Usa | California | Los Angeles | 3515 Wilshire Blvd | http://www.thelinehotel.com/

Normandie | Usa | California | Los Angeles | 605 South Normandie Avenue | http://www.hotelnormandiela.com/

Cassel’s | Usa | California | Los Angeles | http://www.cassellshamburgers.com/

Mama Shelter | Usa | California | Los Angeles | 6500 Selma Ave |http://www.mamashelter.com/los-angeles/

Ace Hotel | Usa | California | Los Angeles | 929 S Broadway |http://www.acehotel.com/losangeles.

L.A. Chapter | Usa | California | Los Angeles | http://www.acehotel.com/losangeles/lachapter

EscaLA | Usa | California | Los Angeles | 3451 W 6th St | http://www.escalaktown.com/#about

Bottega Louie | Usa | California | Los Angeles | 700 S Grand Ave | https://www.bottegalouie.com/

Grand Central Market | Usa | California | Los Angeles | 317 S. Broadway |http://www.grandcentralmarket.com/history

Gaylord Apartments HMS Bounty | Usa | California | Los Angeles | http://www.thegaylordapartments.com/history.html

Urban adventures | Usa | California | Los Angeles | http://www.urbanadventures.com/destination/los-angeles-tours

 

 

a cura di Emilia Antonia De Vivo

 

Per leggere Sulle strade della California. Un viaggio a più tappe tra assaggi e racconti. Vol. 1 clicca qui

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Perché tutta Italia vuole produrre bollicine?

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La forte progressione del comparto sparkling sta spingendo molti consorzi a modificare i disciplinari, per incrementare l'uso della tipologia. È giusto intercettare le richieste dei consumatori o c'è il rischio di snaturare l'identità di un territorio?

Che l'export 2016 di vino italiano sia in discreta salute grazie agli spumanti è un fatto assodato. E a livello mondiale, saranno proprio quelli italiani, col Prosecco in prima linea, a dare un contributo importante all'aumento del consumo di alcolici nel periodo 2015-2021. Con un tasso medio del 2,2% annuo, secondo elaborazioni Iwsr (The International Wine and Spirit Research, autorevole fonte di analisi del mercato globale delle bevande alcoliche) nel Forecast 2016-2021, la categoria sparkling si rivelerà una delle più dinamiche del mercato globale delle bevande, che si avvicinerà in cinque anni a quota 229 milioni di casse da 9 litri, pari a circa due miliardi di litri.

 

Voglia di bollicine in tutto lo Stivale

Un trend che si sta via via consolidando e che sta determinando in Italia, in maniera importante, un riorientamento delle produzioni verso questa tipologia. Al punto che, da Nord a Sud, molti consorzi di tutela hanno modificato i rispettivi disciplinari di produzione, o si apprestano a farlo, allargando la gamma delle tipologie per chi già prevede le bollicine e, inoltre, offrendo la possibilità alle cantine di confezionare spumanti anche in quelle zone dove questi non rappresentano di certo una tradizione. Non solo, quindi, Alta Langa, Trentodoc, Oltrepò Pavese, Prosecco Doc e Docg, ma anche Val d'Orcia, Sardegna, Abruzzo. Una "voglia di bollicine", come l'ha definita il presidente di Assoenologi, RiccardoCotarella,che l'Italia vitivinicola vuole intercettare, potendo disporre di una vastissima biodiversità tutta ancora da scoprire.

 

Il progetto sardo

Lo sta facendo in primis la Sardegna, attraverso il progetto cluster Akinas (che in sardo significa "uve"), lanciato tramite Sardegna Ricerche, in collaborazione con l'agenzia regionale Agris. Iniziativa, finanziata con 300 mila euro, che ha già trovato l'adesione di oltre trenta cantine: l'obiettivo è vinificare in chiave spumantistica diversi vitigni autoctoni, dai più noti Nuragus e Vermentino ai semisconosciuti Arvisionadu e Cuccuau, tipico della zona dell'altopiano del Barigadu, nella zona centrale dell'isola. Tre anni per capire, innanzitutto, quali uve e quali areali sono maggiormente vocati di altri per produrre spumanti di qualità.

Il metodo charmat sembrerebbe finora l'orientamento prevalente, in vitigni in alta collina (500-700 metri) soprattutto nel centro-nord Sardegna. Ma sono diverse le cantine del Campidano che lavorano agli charmat. Il Consorzio vini di Cagliari, in particolare, sta studiando una modifica al disciplinare, che prevede la spumantizzazione del Nuragus con metodo classico e charmat, introducendo la categoria del superiore per la versione ferma, con rese più basse. Un deciso cambio di rotta, se si pensa che fino a quarant'anni fa il Nuragus era venduto dalle aziende sarde in Germania proprio come base spumante per i prodotti made in Germany.

 

Abruzzo, bollicine a partire dagli autoctoni

Aria di cambiamento anche nel centro Italia. La Doc Abruzzo dal 2010 prevede la possibilità di spumantizzare, ma le produzioni rivendicate sono esigue, perché l'obbligo di vinificazione in regione ha fatto sì che la gran parte delle cantine abbia preferito elaborare i propri vini altrove, ad esempio in Veneto, e pertanto al di fuori della Doc. “I nostri autoctoni Pecorino, Passerina e Cococciola stanno dimostrando di avere le caratteristiche per produrre delle buone basi spumante”, rimarca il presidente del Consorzio di tutela Vini Abruzzo, Valentino Di Campli, che parla di "disciplinari da rivedere al più presto, per dare una più chiara identità al prodotto abruzzese". Si va verso l'introduzione nella Doc del Trebbiano d'Abruzzo spumante, ora fuori dalle opzioni per i produttori. Da Lanciano a L'Aquila, oggi sono una trentina le aziende che spumantizzano, mentre molti si appoggiano a terzi. "Gran parte della nostra filiera" fa notare Di Campli "si ferma spesso alla vinificazione, perdendo così una parte del valore aggiunto. Occorre allora seguire un percorso di valorizzazione del territorio anche per questo tipo di vini che il mercato ci sta chiedendo".

 

La conversione, dal Salento alla Val d'Orcia

Bollicine sempre più di casa anche nel Salento. Aziende come Leone de Castris o Rosa del Golfo da anni le propongono con uve locali, ma vinificando fuori regione. Ora, la cooperativa Due Palme (mille soci conferitori) ha cambiato strategia, grazie a un investimento di 1,5 milioni di euro, portando per la prima volta la spumantizzazione in loco. Negroamaro, Primitivo, Susumaniello e anche Malvasia nera sono i vitigni che più si prestano allo scopo, secondo il patron Angelo Maci: "Siamo partiti nel 2016 e stiamo viaggiando già a quota 500 mila bottiglie. Ma la strada è lunga. Non è facile, infatti, spiegare ai consumatori che le bollicine salentine non sono il Prosecco. Per questo, stiamo conducendo una campagna di informazione a partire dalla nostra stessa regione. Ci accorgiamo che c'è ancora una certa confusione in materia".

Bollicine che saranno ufficialmente di casa molto presto in Val d'Orcia. Sorprende un po' che questa piccola denominazione toscana, dirimpettaia del Brunello di Montalcino, rispetto alla tradizione rossista che l'ha sempre caratterizzata possa pensare alla spumantistica. Sta di fatto che il Consorzio di tutela della Doc Orcia ha avviato le procedure per la richiesta di modifica del disciplinare: "La base ampelografica sarà proprio il vitigno Sangiovese, con metodo classico e charmat", sottolinea la presidente Donatella Cinelli Colombini, che parla di "fase esplorativa", utile alle cantine per capire come muoversi e quale tipologia valorizzare al meglio. Il potenziale produttivo è calcolato su 400 ettari, dal momento che si può rivendicare vino Orcia Doc anche dai vigneti iscritti alla denominazione Chianti. Oggi sono quattro le cantine associate che spumantizzano. La speranza è che il via libera del Mipaaf alla modifica alla Doc arrivi "in tempo per la vendemmia 2017".

 

Il parere degli esperti

I dossier arriveranno, gradualmente, dai vari territori sul tavolo del Comitato nazionale vini di via XX Settembre di Roma, che nella prima decade di marzo dovrà affrontare il delicato nodo delle richieste avanzate dal Consorzio dell'Asti Docg, che punta a introdurre una versione secca, e dal Consorzio del Brachetto d'Acqui, che ha scelto di immettere sul mercato una versione "non dolce". Per le due importanti denominazioni piemontesi è una sfida su due binari paralleli, per tentare di risollevare le sorti dei rispettivi mercati. Strizzando l'occhio al fenomeno Prosecco, indubbiamente artefice indiretto di questa tendenza italiana.

Del resto, se il mercato chiede spumante, bisogna accontentare il mercato. Una semplice legge dell'economia che ogni produttore tiene bene a mente. "Indubbiamente il Prosecco ha fatto e sta facendo da locomotiva a una fascia di spumanti italiani" ci dice il presidente del Comitato nazionale vini, Giuseppe Martelli "del resto, l'operazione varata nel 2009, dopo qualche anno di assestamento, ha iniziato a mietere consensi fino ad arrivare, tra Doc e Docg, a oltre mezzo miliardo di bottiglie vendute nel 2016. Un successo che molti vorrebbero cavalcare. E, in effetti, è da diverso tempo che alcune denominazioni stanno valutando di inserire nei propri disciplinari la tipologia spumante, anche se finora al Comitato vini non sono pervenute richieste in tal senso".

Più laico, e pratico, l'atteggiamento dell'Assoenologi, che con Riccardo Cotarella evidenzia come l'Italia abbia a disposizione un patrimonio di biodiversità nato anche grazie al contributo della ricerca scientifica applicata alla vitivinicoltura: "Visto che abbiamo in mano questa grande varietà dobbiamo valorizzarla e farne tesoro. Se il mercato chiede le bollicine non capisco perché non si debba andare in questa direzione. Ma attenzione" avverte Cotarella "dobbiamo farlo a una condizione: rispettando le regole della viticoltura. E gli enologi hanno le competenze giuste. Ci sono tante aree italiane e tanti vitigni adatti alla spumantizzazione: penso al Negroamaro in Puglia, al Gaglioppo in Calabria, al Nerello Mascalese in Sicilia". Pertanto è un dovere professionale, secondo il presidente degli enologi italiani, dare al produttore "tutte le opportunità che scienza e territorio mettono loro a disposizione. Non fare questo sarebbe un errore, in un momento in cui il mercato, anche grazie al Prosecco, attraversa un momento positivo. Se stiamo fermi, il vero rischio è lasciare campo libero ai competitor, come Francia, Germania, Spagna, Cile e Argentina, che andrebbero a coprire questa richiesta del mercato".

 

Cosa ne pensano i produttori storici di bollicine

E se, tuttavia, questo desiderio di assecondare i comportamenti di consumo rischiasse di snaturare l'identità di una Dop e di un intero territorio? Innocente Nardi, numero uno del Consorzio del Conegliano Valdobbiadene Prosecco Docg, non teme l'eventuale concorrenza di altre bollicine italiane, ma sottolinea che quel rischio è dietro l'angolo: "La storia della nostra Dop, che risale ufficialmente al 1969, ma occorre considerare anche i pionieri della spumantistica di fine Ottocento, dice che le bollicine sono connaturate al nostro territorio. Tutta la denominazione è ancorata a questa tipologia; il Consorzio è nato per preservarne specificità e qualità. Una Dop deve caratterizzarsi per territorialità, vocazionalità e saper fare: ciò che i francesi chiamano 'terroir'. Se avessimo un Sangiovese, saremmo bravi a interpretarlo con la nostra cultura spumantistica, ma non saremmo capaci di fare un vino rosso. In questo senso dico che il vino è cultura, è saper fare. E ritengo ci debba essere più coerenza da parte di tutti". Sulla stessa linea anche uno dei marchi pionieri delle bollicine italiane come la Carpenè Malvolti, unica cantina italiana in mano alla stessa famiglia da quasi 150 anni: "Il forte interesse all'ampliamento delle aree vitivinicole destinate alla produzione di spumanti a denominazione d'origine, intervenendo in modo speculativo sui disciplinari, non è positivo", riferisce la casa spumantistica, dal momento che "potrebbe contribuire a creare ulteriore confusione nel settore piuttosto che, ancora di più, nello stesso consumatore". Ecco perché la filiera, ad avviso dell'azienda guidata da Etile jr Carpenè, dovrà insistere ancora di più per "esaltare le peculiarità del Prosecco Docg", valorizzando il territorio collinare (candidato Unesco) e rispettando le norme a tutela di questo vino.

 

a cura di Gianluca Atzeni

 

 

Questo articolo è uscito sul nostro settimanale Tre Bicchieri del 2 marzo

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Novità per la Puglia gourmet. Da Mena Resta.urant a Casamatta con Valeria Piccini. Aspettando il nuovo Sabatelli

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Quant'è ancora difficile fare ristorazione moderna in Puglia lo sanno gli chef che ogni giorno provano a scardinare un sistema fin troppo devoto alla ricchissima tradizione locale. Ma di mosche bianche cominciano a contarsene diverse: dai Bros al bis di Nazario Biscotti, da Angelo Sabatelli prossimo al nuovo inizio a Pietro Penna, con la benedizione di Valeria Piccini. 

La riscossa della ristorazione pugliese. Il nuovo Sabatelli

La Puglia è una regione estremamente vocata all'enogastronomia. Quel che le manca, in troppe circostanze, è invece una visione lucida sulle esigenze della ristorazione contemporanea capace di far spiccare il volo a un sistema gastronomico d'autore che sia sì espressione del territorio, ma anche libero di guardare oltre la cucina tradizionale. Sfida che sta riuscendo per esempio ai fratelli Pellegrino con Bros (di cui avevamo raccontato a poche settimane dall'apertura), a Lecce, nonostante la diffidenza iniziale della città davanti a una proposta così dirompente.

Mentre più avvezzo a confrontarsi con le criticità regionali – ma pure con la grande varietà di materie prime d'eccellenza che la Puglia sa offrire – è Angelo Sabatelli, chef d'esperienza che si appresta a esordire nel centro storico di Putignano, in Palazzo Romanazzi, in arrivo dalla Masseria Spina di Monopoli che ha visto trionfare la sua cucina per tanti anni, dal 2007, dopo le sue peregrinazioni in giro per il mondo e un'esperienza importante, ancora prima, al Convivio Troiani di Roma. Con sé lo chef di Monopoli porterà la brigata di sempre, in sala sua moglie Laura e la figlia Simona, con il sommelier Gianni Tortora. E in sala ci sarà posto solo per una trentina di commensali, su due livelli (due salette divise da qualche gradino) con tutti i crismi della tavola e dell'accoglienza gourmet. I tempi previsti per l'apertura, purtroppo, sono slittati, “finiremo per inaugurare con un paio di mesi di ritardo, spero all'inizio di maggio”, rivela un Angelo Sabatelli impaziente di ricominciare: “Abbiamo portato con noi la nostra storia, ma proporremo un ristorante nuovo, con l'obiettivo di alzare il livello. Finora ci siamo trattenuti, dalle nostre parti è difficile proporre una cucina diversa, crea scompiglio. Ma sono tanti anni che vogliamo fare di più”.

 

Dalla masseria al centro di Putignano

Del resto lo spazio ha permesso di realizzare da zero un ambiente creato secondo esigenze e ambizione, classico ma moderno, progettato perché gli ospiti siano a proprio agio: “Alla Masseria mi ripetevano spesso di sentirsi come a casa, qui cercheremo di portare lo stesso calore”. E certo il pensiero di proporre esclusivamente un menu degustazione è subito stato accantonato, almeno per il momento, “perderemmo una gran parte di clientela, anche se le prime impressioni sono positive, la gente del posto ha già mostrato molta curiosità. Ma siamo consapevoli di dover lavorare sempre, in estate potremmo permetterci di fare oltre 100 coperti, noi ne prendiamo una trentina per fare bene”. Per lavorare con serietà, sperando nella correttezza dell'altra parte in causa: “Il fenomeno del no show ci taglia le gambe. Per questo abbiamo deciso di richiedere la carta di credito in fase di prenotazione. Dobbiamo difenderci”. Sul versante gastronomico il menu proporrà al 50 e 50 piatti storici e una nuova linea in fase di perfezionamento, almeno all'inizio. E per l'aperitivo ci si potrà appoggiare ai tavolini del corridoio che porta verso la prima sala, nascosta alla vista da un caminetto di Antonio Lupi e dalla cristalliera dei distillati.

 

Mena Resta.urant. Nazario Biscotti a Foggia

Intanto più a nord, nella provincia pugliese che forse soffre più di tutte un certo ritardo rispetto ai progressi della ristorazione nazionale, è appena cominciata l'avventura del Mena Resta.urant, frutto dell'incontro in cucina tra Nazario Biscotti ed Ettore Pacilli. Lo chef de Le Antiche Sere (Una Forchetta), sul lago di Lesina, sa bene cosa significhi confrontarsi con un palcoscenico difficile come quello dell'entroterra foggiano. Il ristorante vista lago che gestisce con Lucia Schiavone si conferma ogni anno una valida meta per scoprire una cucina originale che valorizza i prodotti del lago, a dispetto della vocazione prettamente marinara della Puglia, che pure è ben presente in menu. Del resto il pesce che arriva in tavola compie un tragitto brevissimo, e allora la carta è ricca di spunti dedicati all'anguilla come al cefalo o all'orata di laguna. La nuova avventura di Nazario Biscotti invece è cominciata meno di un paio di mesi fa proprio nel cuore del capoluogo di provincia, a Foggia. Con 24 coperti e cucina a vista in circa 70 metri quadri, e tre menu differenti per conquistare il pubblico gourmet della città raccontando la pianura (quella del Tavoliere e dell'enoteca Uvarara, che Pacilli gestisce a Foggia) da un lato, e la laguna delle Antiche Sere dall'altro. Le specialità simbolo di questa contaminazione intraregionale, non a caso, sono l'anguilla e il torcinello, che per l'occasione viene farcito con il gambero rosso in sostituzione delle frattaglie. L'idea insomma è quella di giocare con la tradizione e il territorio, anche se non mancano proposte più composte, come le orecchiette con rucola e patate o le favette con la cicoria. E l'abbinamento con i vini della cantina è prestigioso, circa 700 referenze tra cui scegliere.

 

Casamatta a Manduria. Valeria Piccini in Puglia

Riscendiamo nel Salento di Manduria per raccontare le ultime novità che da qualche tempo animano il castello del Vinilia Wine Resort, l'ospitalità ricercata in vigna secondo le sorelle Marika e Simona Lacaita. La campagna che circonda l'edificio di inizio Novecento, nella terra del Primitivo, produce in biologico cinque etichette; il resort, invece, dispone di 18 camere arredate con gusto decò, pur stemperato da un certo eclettismo, che associa arredi vintage e pop, pezzi di design e dettagli minimal. E poi c'è il ristorante, Casamatta, aperto da meno di un mese, un altro esempio di come sia possibile scardinare le vecchie logiche della ristorazione locale per riflettere sulla cucina tradizionale da una nuova angolazione. La sfida gourmet è affidata al giovane Pietro Penna, che si è formato al fianco di Sergio Mei, ma ha lavorato anche al Four Seasons George V di Parigi, prima di incontrare Valeria Piccini, e farsi suo ambasciatore in Salento. E se le materie prime sono quelle fornite dai produttori locali, l'imprinting è quello della chef toscana, che ha partecipato alla stesura del menu di avvio. In sala (tavoli d'epoca e sedie ultramoderne che convivono, insieme a luminarie tradizionali pugliesi degli anni Cinquanta e un imponente camino artigianale) invece c'è il pugliese Giovanni Baccaro, di ritorno dopo l'esperienza al Pellicano di Porto Ercole. Per i primi tempi Valeria Piccini supervisionerà la cucina, affidandosi all'esperienza dello chef salentino (di Gagliano del Capo), che ha forgiato il suo gusto su una solida formazione classica, influenzata dal periodo francese, e predilige il lavoro con i prodotti del territorio per tradurre nel piatto la semplicità del territorio salentino.

 

Sabatelli | Putignano (BA) | Palazzo Romanazzi, via della Conciliazione, 138 | da maggio 2017

Mena Resta.urant | Foggia | via Arpi, 45 | www.leantichesere.it

Casamatta al Vinilia Wine Resort | Manduria (LE) | Contrada Scrasciosa | tel. 099 9908013 | www.viniliaresort.com

 

a cura di Livia Montagnoli

Le migliori pizzerie di Firenze. Da provare durante Taste 2017

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Una città in grande fermento, Firenze, con nuove aperture e grandi progetti, in particolare per la pizza. Un panorama tutto da scoprire. Ecco cosa si deve aspettare chi si trova in questi giorni a Firenze, magari di passaggio per il Taste

Una Firenze da mangiare

L'Italia del buon cibo si dà appuntamento a Firenze per il Taste, l'annuale riunione alla Stazione Leopolda con i migliori prodotti agroalimentari, e quest'anno trova una città con una scena gastronomica in piena effervescenza: nuove aperture e cambi di chef, filiazioni, raddoppi e format che testimoniano di una primavera ristorativa che pareva impensabile solo un lustro fa. Delle molte suggestioni esotiche abbiamo più volte detto detto. Un orientamento tanto vivo da aver conquistato quel toscanaccio del Picchi che allo storico Cibreo oggi affianca il Cibleo con un mix di cucina fiorentina e orientale a tutto gusto, in perfetta sintonia con quanto, nell'alta cucina quanto nella proposta pop, succede nel resto d'Italia

Ditta artigianale OltrarnoDitta Artigianale Oltrarno

L'avanguardia degli specialty coffe ha qui un presidio importante, con le sedi (da poco diventate tre) di Ditta Artigianale, senza parlar dei locali che, più o meno giovani, stanno dando una rinnovata alla scena gourmet.

 

Il rinascimento di lieviti e pizza

Dopo anni di fermo assoluto, poi, ecco lì che anche la città del giglio è diventata d'improvviso un buon rifugio per gli appassionati di pizza. Non ha finora sviluppato uno stile che si può definire tipicamente fiorentino, ma registra degli indirizzi solidi di ottimo livello e una graduale ma costante colonizzazione di alcun dei grandi nomi dell'arte bianca nostrana, insieme alla nascita di locali che, da soli, valgono il viaggio. 

 

berberèBerberè

Ci sono per esempio i fratelli Aloe che, nel 2014, hanno aperto lungo l'Arno la sede toscana di Berberè,un marchio ormai più che consolidato che conta locali in diverse città d'Italia e, da poco, anche a Londra. Proprio la loro pizzeria ospiterà uno degli eventi del FuoridiTaste, lunedì 13 dalle 19 alle 23: Aperitivo caciarone con pizza fritta, lampredotto e birrecon il mastro pizzaiolo Giovanni Santarpia alla scoperta della pizza fritta e del lampredotto. Con una selezione di vini naturali e birre artigianali (prezzo: 10 euro. L'incasso della serata sarà devoluto all’ospedale pediatrico Meyer di Firenze).

Quattro anni prima dei fratelli Aloe, però, c'è stato l'approdo di Graziano Monogrammi che ha lanciato non solo l'insegna La Divina Pizza, ma anche l'idea di una pizza alla pala da condividere. Una pezzo dopo l'altro, con una proposta di alta qualità nella formula “a degustazione”. Un format originale non solo per Firenze, che regala grandi soddisfazioni e permette di assaggiare diversi tipi di pizza, che gli è valsa i Tre Spicchi della Guida Pizzerie del Gambero Rosso. Sabato 11, per il FuoriDiTaste, dalle 19: Metti una sera che l'oca... serata di assaggi di focacce e pizze abbinate ai salumi d'oca (prezzo: 18 euro)

 

L'onda lunga della Campania

La schiera dei pizzaioli campani a Firenze è ben nutrita. Tra i primi esponenti Carmine Candito, da diversi anni tra i rappresentanti della pizza in stile napoletano lungo l'Arno con 'O Munaciello. E una delle voci migliori, con un ruolo conquistato a suon di cornicioni alti e soffici e impasti elastici frutto di lunga lievitazione a temperatura ambiente e poco lievito (secondo le stagioni è di birra o pasta madre). A comporre un'offerta napoletana doc la selezione rigorosa di prodotti campani, dal pomodoro di Angri ai pomodorini del piennolo del Vesuvio, al fiordilatte di Sorrento, per una proposta molto tradizionale nelle farciture come negli sfizi fritti.

 

SantarpiaSantarpia

È passato pochissimo tempo da quando Giovanni Santarpia da Castellammare di Stabia è approdato – dopo un passaggio aSan Donato in Poggionel cuore della città. Neanche un anno e mezzo, mese più mese meno. Ma tanto è bastato per collocare Santarpia tra gli indirizzi di riferimento dell'arte bianca toscana, premiato con Tre Spicchi nella guida Pizzerie d'Italia. La storia di Giovanni con le farine e gli impasti inizia da ragazzino ed evolve fino a giungere dove è ora, grazie allo studio continuo e alla messa a punto di un impasto che per qualcuno potrebbe sembrare eretico, più vicino a quello del pane che a uno napoletano. Tant'è: il risultato è di quelli che si distingue per gusto, qualità, digeribilità, e che vale la pena provare.

 

New entry da Roma e Napoli

Arrivati da pochissimo in terra fiorentina Stefano Callegari e Antonio Starita. Il primo, romano, è famoso ai più per il trapizzino (quel triangolo di pizza farcito, sarebbe meglio dire imbottito, di specialità romanesche e non solo) ma è anche uno dei nomi di riferimento per la pizza al piatto, con Sforno, Tonda e Sbanco: pizzerie che hanno saputo ridefinire le rotte dei gourmet capitolini.

 

CallegariStefano Callegari al Mercato Centrale

 

È lui, dopo l'addio di Rizzuti, a firmare la pizzeria del Mercato Centrale di San Lorenzo, la suggestiva struttura in ferro battuto riportata a nuova vita da Umberto Montano. Di Callegari la consulenza e il training del gruppo di pizzaioli che già è operativo davanti al forno del mercato, bisognerà invece attendere ancora qualche settimana per il trapizzino, alla sua prima sede in Italia fuori da Roma.

Risale a pochissimi giorni fa, invece, l'apertura di Buonerìa. Una notizia che ha fatto sobbalzare sulla sedia i pizza addicted, e se questo nome non vi dice molto, potrà forse aiutarvi quello di Don Antonio Starita, uno dei grandi pizzaioli partenopei. Quarta generazione di maestri dell'impasto che, dal cuore di Napoli, si è spinto fino al capoluogo toscano, segno evidente che la città è ormai matura per accogliere una simile proposta, semplice e verace, con pizze old school, bordi alti e sottili al centro, lunga maturazione e farciture per lo più classiche. Una decina le pizze, qualche proposta stagionale e, in più, pizze fritte e qualche piatto, in uno spazio, quello del Fosso Bandito, aperto sin dal mattino .

 

Le future aperture

Bisognerà attendere ancora un po' e non solo per i trapizzini di Callegari, ma anche per vedere nuovamente all'opera Romualdo Rizzuti e Daniele Pescatore. Fino a poche settimane fa uno al Mercato Centrale di Firenze e di Roma, e l'altro presso Da Pescatore – casa di cucina, e come deus ex machina della pizzeria Fratelli di cuore (all'ex biglietteria internazionale della Stazione, che rimane attiva con la squadra e la linea dello stesso Pescatore), i due oggi lavorano alacremente per portare a termine i rispettivi progetti. Che li vedono in doppia formazione, l'uno consulente dell'altro e viceversa, per dare finalmente continuità alle molte collaborazioni che hanno avuto negli anni.

Mentre sono ancora top secret le location, sono già noti i format che vedranno, per Rizzuti, una proposta di grande pizza con cucina, con pochi piatti di tradizione partenopea che variano molto frequentemente, dal soffritto alla pasta e patate, e ampio spazio alla cucina di pesce che avrà la firma di Daniele Pescatore. Napoletana anche la pizza, e non solo per stile e impasto: “oltre alle classiche marinara, margherita e così via, ci saranno, a rotazione, anche delle pizze ispirate ai piatti napoletani, per esempio ragù e gattò” dando seguito ad alcune idee già sviluppate dai due. E tutto in un ambiente che, più che a una pizzeria, avvicina quello di un ristorante gourmet “abbiamo preso un posto molto bello e grande, circa 150 coperti” che, rivela, era già un ristorante di alto livello.

Se quella di Romualdo è, di base, una pizzeria con cucina, quella di Daniele sarà, all'inverso, un ristorante con pizza. Riserbo sul luogo, si sa solo che sarà all'interno di un grande albergo in cui la pizza entrerà dalla porta principale, intercettando un orientamento che vuole, finalmente, sdoganarla anche nei 5 stelle lusso e nei Relais&Chateaux, e che fa pensare all'arrivo di Franco Pepe a Erbusco.

“Avevo già annunciato che volevo trasferire il progetto di alta cucina di pesce del Pescatore in un grande albergo” dice “e sono in contatto con un paio di posti molto belli che hanno la mentalità giusta per accettare un concetto di alta ristorazione moderna” in cui, spiega, non ci sono diverse cucine e ambienti separati per tutte le offerte ristorative dell'hotel, ma c'è un unico spazio che le riunisce. Un grande salone dove si cucina, si mangia, e c'è anche un'area per il forno e una pizza d'autore, in questo caso di Rizzuti. I clienti, dalla tarda mattinata al pomeriggio, possono mangiare, ma anche soprattutto vedere la preparazione dei piatti in diretta. L'idea è quella di una grande cucina e di una sala in cui cliente e cuoco possono confrontarsi, dialogare, scegliere insieme, si può chiedere al cuoco e ordinare al cameriere, senza però che venga meno un servizio adeguato al contesto. Qualcosa di più di una cucina a vista, insomma, ma una cucina live, più informale e più accessibile. La sera si torna al servizio classico, sempre mantenendo il doppio binario di cucina e pizzeria.

 

Pitti Taste | Firenze | Stazione Leopolda | dall'11 al 13 marzo | www.pittimmagine.com/corporate/fairs/taste.html

 

Berberè | Firenze | Piazza De’ Nerli 1 | tel. 055 2382946 | www.berberepizza.it

La Divina Pizza | Firenze | Borgo Allegri, 50r | tel. 055.2347498 | www.ladivinapizza.it

Mercato Centrale | Firenze | via dell’Ariento | www.mercatocentrale.it

Buonerìa | Il Fosso Bandito | Firenze | via del Fosso Macinante, 4 | tel. 055 365500| www.buoneria.com

Santarpia | largo Pietro Annigoni, 9 c | tel. 055 245829 | www.facebook.com/santarpiapizzeria

'O Munaciello | Firenze | via Maffia, 31/r | tel. 055 287198 | www.munaciello.com

Fratelli Cuore | Firenze | Stazione c/o Stazione di Santa Maria Novella | tel. 055 2670264 | www.fratellicuore.it

 

a cura di Antonella De Santis

L’Emilia-Romagna in 10 biscotti tradizionali e la ricetta dei buslanein della pasticceria Falicetto

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Per la nona tappa della rubrica sui biscotti regionali italiani andiamo in Emilia-Romagna, una delle regioni a più alta vocazione gastronomica. Vi raccontiamo 10 specialità, con la ricetta dei buslanein della pasticceria Falicetto di Piacenza.

Due tradizioni culinarie che si incontrano, creando un patrimonio inestimabile di sapori che, in più sono fortemente influenzati dalle suggestioniprovenienti dalle regioni a nord e a ovest dei suoi confini. Stiamo parlando della cucina dell'Emilia-Romagna. Patria di pasta fresca, ragù, carni e grandi salumi. Ma anche terra di biscotti. Ve ne raccontiamo 10, tutti da rifare a casa, con la ricetta dei buslanein della pasticceria Falicetto di Piacenza, Due Torte nell’edizione 2017 della guida Pasticceri&Pasticcerie.

 

Amaretti di Modena

Si chiamano amaretti di Modena, o amaretti di Spilamberto, i biscotti da cui partiamo per raccontare le tradizioni dell’Emilia-Romagna. Prodotti antichi, già diffusi nel 1500, ma caduti in disuso intorno al 1800. Sono diverse le ricette in circolazione che riguardano questo dolce, fra cui anche quelle di Pellegrino Artusi e Giovanni Felice Luraschi, ma fu la famiglia Goldoni a restituire agli “amaretti morbidi” la fama che gli spetta. Pasticcieri già affermati, preparavano i biscotti e li portavano al forno di Concetta Sirotti, chiamata la "Gemma del Forno", dove la ricetta veniva completata. Per molti anni, dopo la chiusura della pasticceria Goldoni, la signora Sirotti fu l’unica depositaria della ricetta degli amaretti, prima di passarla alla cugina e ad altre compaesane fidate. Oggi, oltre al territorio di Spilamberto, gli amaretti sono diffusi in tutta la provincia di Modena.

La ricetta è molto semplice: mandorle dolci e una piccola parte di mandorle amare (il 10% circa) uova e zucchero. La loro caratteristica più importante è la morbidezza: per questo per farli si preferivano le giornate piovose dei mesi invernali.

 

Biscotti alla Malvasia di Parma

Se in molti conoscono la Torta Maria Luigia - tipica torta di Parma fatta con pan di Spagna mandorle, cioccolato, crema e fragoline di bosco - non sono altrettanti coloro che conoscono questi biscotti. Maria Luigia d’Asburgo-Lorena, moglie di Napoleone I e duchessa regnante del Ducato di Parma, Piacenza e Guastalla dal 1814 al 1847, si diceva fosse una buongustaia. La sovrana amava non solo le paste ripiene e le carni cotte a lungo, ma anche dolci anche semplici come questi biscotti, destinati a essere inzuppati nel latte, nella Malvasia dolce del colli parmensi o mangiati insieme allo zabaglione. La ricetta originale pare sia del liquorista Vincenzo Agnoletti, responsabile della credenza di corte: è contenuta nel ricettario La nuova cucina economica, datato 1803. Per farli servono farina, burro, zucchero, lievito per dolci, latte tiepido, un pizzico di sale e un baccello di vaniglia. Una volta impastati farina, burro a temperatura ambiente, lievito e zucchero, si fanno riposare per qualche minuto i semi della vaniglia nel latte tiepido e si versa a filo, aggiungendo un pizzico di sale. Si stende la pasta e si tagliano fette da circa due centimetri di larghezza per 10 di lunghezza. Infine, si infornano per circa 20 minuti a 180 gradi.

 

Biscotti alla Malvasia di ParmaBiscotti alla Malvasia di Parma

 

Buslanein

Ci spostiamo a Piacenza per parlare dei buslanein, ciambelline diffuse in doppia versione (più morbide o più dure) originarie della Val Tidone, in particolare di una piccola frazione del comune di Rottofreno, San Nicolò a Trebbia. Una frazione importante soprattutto nell’alto medioevo, perché tappa fondamentale sulla via Francigena dotata di due “hospitali” per il riposo dei pellegrini.

I buslanein sono diffusi da molto tempo nel territorio piacentino - pare che nel 1300 fossero i monaci della chiesa di San Savino a preparali – ma la loro ricetta fu messa a punto dal fornaio Peppino Lombardi, nel 1931. Un tempo venivano infilate in cordoncini colorati per formare una collana che le ragazze di San Nicolò avrebbero indossato nei giorni di sagra e regalati anche in occasione delle cresime.

Per realizzarli vi occorrono farina, burro, zucchero, latte, vaniglia e un pizzico di sale. È proprio questa la ricetta che ci siamo fatti regalare dalla pasticceria Falicetto di Piacenza: il procedimento nel dettaglio lo troverete in fondo.

 

Buslanein della pasticceria FalicettoBuslanein della pasticceria Falicetto

 

Canestrelli di Piacenza

Abbiamo già parlato della diffusione dei canestrelli, in particolare di quelli liguri. Questa volta racconteremo il canestrello di Piacenza, meno conosciuto al di fuori della regione rispetto agli altri, ma altrettanto antichi. Dalla Val d’Aveto, infatti, la ricetta si è diffusa nell’adiacente Val di Trebbia fino ai territori intorno Piacenza.

La ricetta è uguale a quella dei canestrelli di Santo Stefano d'Aveto (farina, zucchero, burro, uova, un pizzico di sale) ad eccezione dell’aromatizzazione al rum presente nella versione emiliana e invece assente in quella ligure. Anche in questo caso si usa mangiarli bagnandoli in un vino dolce locale.

 

Fave dei morti

Pasticcini alla mandorla, dalla forma ovale e schiacciata, diffusi in tutta la Romagna: sono le fave dei morti, che si inseriscono nelle tradizioni culinarie del 2 novembre e del culto dei morti. Ci sono diverse versioni della ricetta: le fave di Ravenna, quelle di Forlì, quelle Massalombarda, quelle di Lugo e le fave dolci di montagna. Gli ingredienti di base sono farina, zucchero, mandorle e uova, ma le varianti differiscono in qualche piccolo dettaglio che però ne caratterizza il sapore. Le fave di Ravenna, ad esempio, contengono anche i pinoli, un po’ di farina di crusca mescolata alla bianca e sono aromatizzati all’acquavite; quelli di Forlì sono impastati con il burro e l’alchermes; nella ricetta di Massalombarda spicca invece l’aroma del caffè; i biscotti di Lugo sono preparati con farina gialla e cognac; infine le fave di montagna, che prevedono una parte di farina di castagna.

 

Fave dei mortiFave dei morti

Al di là di tutte le varianti locali, il procedimento non differisce: si impastano gli ingredienti finché la massa non risulta morbida ed elastica; a questo punto si forma un grosso cilindro che andrà tagliato in tanti piccoli pezzi da schiacciare per dare l’aspetto tradizionale. Si spennella la superficie con un po’ di uovo sbattuto e si infornano a 180 gradi per 20 minuti.

 

Mandorlini del ponte

Biscotti tipici di Pontelagoscuro, frazione di Ferrara di circa 6 mila abitanti. Chiamati in dialetto mandurlin dal pont, sono simili ai brutti ma buoni. Della storia di questi dolcetti esistono due version: la prima vuole che siano stati creati nel 1857 in occasione del viaggio a Ferrara di Papa Pio IX, mentre la seconda narra che siano stati inventati in pieno ‘900 da un apprendista pasticcere per riutilizzare l’albume d’uovo avanzato da un’altra preparazione. Qualunque sia la verità, è chiaro che i mandorlini sono un biscotto da riciclo molto semplice: per farli servono mandorle, zucchero, un po’ di farina e albume d’uovo. Gli originali si trovano solo nei forni artigianali di Pontelagoscuro, mentre la versione commercializzata a Ferrara è meno fragrante e raffinata.

 

Mandorlini dal ponteMandorlini dal ponte

 

Mandorlotti

Torniamo in Romagna per questi biscotti simili alle fave dei morti, tipici del territorio fra Gatteo, Sala di Cesenatico e Gambettola, in provincia di Forlì-Cesena. Si preparano con farina, zucchero, albumi, mandorle tritate e una parte di mandorle intere per la decorazione.

Si parte tritando grossolanamente le mandorle e montando a neve ferma gli albumi. Si mischiamo le mandorle agli albumi con delicatezza, aggiungendo anche la farina e lo zucchero. L’impasto deve essere molto morbido, quasi liquido. Con un cucchiaino si distribuisce il composto sulla placca rivestita di carta forno, lasciando un po’ di spazio tra i biscotti per evitare che, quando gonfiano durante la cottura, si attacchino gli uni con gli altri. Su ogni dolcetto si mette una mandorla intera. Infine, si infornano a 200 gradi per 15-20 minuti.

 

MandorlottiMandorlotti

 

Scarpette di Sant’Ilario

L’origine di questi biscotti di Parma, seconodo la tradizione, è legata alla storia del cattolicesimo. La leggenda narra che Sant'Ilario da Poitiers (315 - 367 d. C.), vescovo di Pictavium (l'attuale Poitiers) e teologo romano, passò da Parma in un inverno freddo e nevoso. Lì fu visto camminare da un calzolaio che, notando i vecchi e laceri sandali ai piedi del vescovo, gli regalò un paio di comode scarpe, non sapendo chi fosse l’illustre clerico. Il giorno dopo il calzolaio trovò, nel posto in cui aveva appoggiato le scarpe donate, un paio di scarpe d'oro.

Per preparare questi dolcetti occorrono farina, uova e tuorli, zucchero, burro, vaniglia, scorza di limone, zucchero a velo e perline dolci. Si fa ammorbidire il burro e si versa la farina a fontana, mettendo al centro due uova e due tuorli e si comincia a impastare. Poi si aggiungono il burro, la scorza di limone e la vaniglia. Una volta steso l’impasto si tagliano dei biscotti a forma di “L”, in modo che ricordino delle scarpette. Mentre cuociono in forno (per 30 minuti a 180 gradi) si prepara la glassa con zucchero a velo e acqua. A cottura ultimata si tolgono i biscotti dal forno, si ricoprono con la glassa e si decorano con le perline dolci. A Parma di preparano per la festa di Sant’Ilario (13 gennaio) e si mangiano accompagnati dalla malvasia locale.

 

Scarpette di Sant'IlarioScarpette di Sant'Ilario

 

Savoiardi di Persiceto

Biscotti originari di San Giovanni in Persiceto, comune a nord di Bologna, chiamati anche africanetti. Un nome che pari derivi dalla grande richiesta di questi biscotti nelle colonie italiane d’Africa, così come avveniva per i Krumiri. La ricetta di base è molto semplice: per prepararli servono solo farina, uova e zucchero. Si montano i tuorli con lo zucchero e, separatamente, gli albumi. Una volta eseguite le due operazioni le due parti possono essere unite, aggiungendo la farina gradualmente. Si formano piccole strisce regolari e si infornano ad alta temperatura (220 gradi circa) per un tempo molto breve (10 minuti): l’obiettivo è ricreare una caratteristica specifica dei biscotti, ovvero il contrasto fra la croccantezza della parte esterna e la morbidezza dell’interno.

 

Zuccherini montanari

Concludiamo questo breve viaggio nel mondo dei biscotti dell’Emilia-Romagna con dei dolcetti di confine. Gli zuccherini montanari sono biscotti friabili tipici della tradizione dell'appennino tosco-emiliano, diffusi soprattutto nelle province di Bologna e Modena ma anche in Toscana, a Firenze e Prato. Biscotti da cerimonia, venivano regalati come bomboniera alla fine dei banchetti nuziali, tradizione tuttora in uso in alcuni paesi a cavallo fra le due regioni.

 

Zuccherini montanari con glassa e senza

L’aggettivo “montanari” è stato aggiunto per distinguerli dagli zuccherini bolognesi, biscotti ormai scomparsi, una volta diffusi nella pianura intorno al capoluogo (simili nella forma, ma diversi per consistenza). Per prepararli a casa servono farina, zucchero, uova, lievito, semi di anice e liquore all’anice, olio di semi di arachide. Per prima cosa si mischiano le uova con il liquore e l’olio, sbattendoli a lungo con una forchetta per amalgamarli. Su un piano si versa poi la farina, e si aggiungono lievito, semi di anice, lo zucchero e il composto creato. Si impasta la massa cercando di ottenere una consistenza simile a quella della frolla. Dopo aver formato delle ciambelline, si infornano a 180 gradi per 13-15 minuti. Infine si ricoprono di glassa e si lasciano solidificare prima di servirli insieme a buon bicchiere di vino dolce.

 

Ricetta dei buslanein della pasticceria Falicetto di Piacenza

 

Ingredienti

1 kg di farina debole

600 g. di zucchero

200 g. di burro fresco

Sale

Vaniglia

Latte intero quanto basta

 

procedimento

Impastare il burro a temperatura ambiente con lo zucchero, vaniglia e un pizzico di sale. Aggiungere poco a poco sia farina che latte, fino a creare un impasto dalla consistenza morbida. Ricoprirlo con la pellicola trasparente e farlo riposare per qualche minuto in modo che lo zucchero si amalgami per bene.

Impastare per un paio di minuti ancora e creare dei serpentelli grandi 7-8 millimetri, avvolgendoli poi a formare delle ciambelline.

Una volta pronti, scottarli in acqua bollente e biscottarli in forno a 170 gradi per 20 minuti circa. Quando si sono raffreddati usare un filo di cotone per farne una collana e servirli.

Pasticceria Falicetto | Piacenza | via IV Novembre, 170/172 | tel. 0523 452422 | www.falicetto.it

 

 

a cura di Francesca Fiore

 

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Stix. Il nuovo ristorante degli spiedini a Bologna. Parla Vincenzo Vottero

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Un locale interamente dedicato agli spiedini. Nascerà a Bologna, da un’idea di Lara Balboni che ha chiamato ai fornelli lo chef Vincenzo Vottero. Con un menu di respiro internazionale - ma attento anche al territorio - e una posizione centralissima.

L’idea di Stix Spiedini & Co.

Dopo aver riportato in vita l’Antica Trattoria del Reno, locale storico bolognese datato 1929, lo chef Vincenzo Vottero è pronto per una nuova sfida. Fra meno di due mesi (apertura prevista per metà aprile), al civico 8 di via Santo Stefano ci sarà Stix Spiedini & Co., un locale interamente dedicato agli spiedini, che vede in società, oltre a Laura Balboni e Vottero, anche Licia Mazzoni, compagna di vita dello chef e braccio destro della trattoria, e Ugo Nazzarro (che ha da poco preso in gestione l’Antico Circolo Petroniano). “Lo spiedino è una delle pietanze più internazionali che esistano, diffuso in tutto il mondo in mille varianti” dice lo chef “un prodotto versatile, che può essere declinato in molte versioni, anche parecchio distanti dalla nostra idea di spiedino”.

 

Il format

Un prodotto versatile, uno stile internazionale, grande tecnica nelle lavorazioni, uso di prodotti non solo locali. Sono queste le caratteristiche di base di Stix, un progetto su cui lo chef Vottero sta mettendo una buona parte delle sue energie “Quando si parte con una nuova idea, lo studio è fondamentale. Non solo sui prodotti, sulla clientela, sul menu, ma anche su aspetti più tecnici come le macchine”. Ma come sarà il nuovo locale? “L’idea è quella di puntare su un respiro internazionale, senza però perdere di vista la clientela bolognese. Qui in città se con convinci prima i bolognesi non vai da nessuna parte”. L’idea è quella di integrarsi nel tessuto cittadino con uno stile e un format nuovo, per poi allargarsi ad altre città. “Saranno prodotti semplici ma lavorati con grande tecnica e con materie prime di qualità. Il locale si trasformerà a seconda degli orari, dalla mattina all’ora dell’aperitivo fino alla sera, avrà diversi volti”.

 

Il menu

Sono oltre 30 le tipologie di spiedini presenti nel menu di Stix, per accontentare i gusti più disparati ma anche raccontare anche qualcosa della cucina internazionale.“Ci saranno spiedini in stile americano, quelli giapponesi, il souvlaki greco e le specialità orientali. Le cotture saranno tutte sul barbecue a basse temperature”. Ma lo chef non dimentica il legame con il territorio: “Saranno diversi gli spiedini che partono dalle tradizioni locali, come il classico stecco alla petroniana (mortadella e formaggio messi sullo stecco e fritto, ndr) o quello alla lasagna bolognese”.

Attenzione anche alle tendenze della ristorazione, alle intolleranze e alle scelte etiche “una parte del menu sarà dedicata a vegani e crudisti, mentre stiamo progettando uno spazio apposito per realizzare spiedini gluten free”. I prodotti sono quelli del territorio, ma senza vincoli di sorta: “Per alcune pietanze servono materie prime che vengono da più lontano rispetto ai confini regionali. Per gli spiedini più legati alla nostra tradizione mi avvarrò, come sempre, dell’aiuto dei miei fornitori più fidati”. Uno su tutti, Luigi Ballarin e la sua pollanca.

E i dolci? Naturalmente in menu non possono mancare le pietanze golose, per cui lo chef ha deciso di avvalersi della collaborazione del collega e amico Francesco Elmi, della pasticceria Regina di quadri, già membro dell’Accademia maestri pasticceri italiani, Due Torte nell’edizione 2017 della guida Pasticceri&Pasticcerie“Ci saranno spiedini-dessert più classici, come quello alla torta di riso o lo spiedino di castagnole ripiene di crema, ma anche qualcosa di più creativo e sperimentale, creato con il prezioso aiuto di Francesco Elmi”.

 

Un locale in divenire e i progetti per il futuro

Con un tema altamente declinabile come quello degli spiedini Vottero non si fermerà di certo a Bologna. “La nostra idea è di conquistare prima i palati bolognesi e studiare, a breve, i contesti migliori in cui aprire. In ogni territorio il menu sarà in perenne divenire, perché odio focalizzarmi su un prodotto sempre uguale a se stesso, e tarato su sapori e materie prime locali, oltre alla parte internazionale”. Ma solo in Italia? “No, secondo noi l’idea è esportabile altrove: potrebbe anche avere maggiore fortuna in paesi in cui il legame con la tradizione della trattoria è meno forte”.

 

Stix Spiedini & Co | Bologna | via Santo Stefano, 8

 

a cura di Francesca Fiore

 

 

Giancarlo Perbellini ai fornelli di casa per aiutare le mamme del Burkina Faso

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Una cena a domicilio firmata dallo chef Giancarlo Perbellini. Un’occasione unica per assaggiare la cucina del bistellato Michelin e, contemporaneamente, contribuire ad affermare il diritto al cibo e un’alimentazione adeguata a donne e bambini: è l’iniziativa di CharityStars e dell’Ong ProgettoMondo Mlal, che vede lo chef in prima linea.

Una cena gourmet all’asta per aiutare mamme e bambini

Uno chef stellato nella cucina di casa. Non è uno slogan della pubblicità di robot da cucina, ma un’iniziativa che porterà Giancarlo Perbellini a sbizzarrirsi ai fornelli dei foodie più appassionati. Dall’ 8 al 22 marzo, sul portale di Charity Stars, si apre l’iniziativa di solidarietà dell’Ong veronese ProgettoMondo Mlal: coloro che vorranno partecipare all’asta potranno aggiudicarsi una cena gourmet a domicilio firmata Perbellini. Il ricavato dell’asta andrà in Burkina Faso, a sostegno del programma di cooperazione allo sviluppo “Mamma”, che punta a garantire il diritto a un’alimentazione adeguata a donne e bambini, per ridurre le principali cause di mortalità infantile e di malattie legate alla denutrizione, che ogni anno provoca gravi ritardi nello sviluppo per il 40% dei bambini.

 

Come funziona l’asta

Potranno partecipare all’asta gli abitanti di Verona, Rovigo, Milano, Venezia e Trento. La base di partenza è di un euro a persona, con un massimo di sei partecipanti per cena. Una volta vinta l’asta, lo chef andrà a casa dei vincitori e preparerà la cena con gli ingredienti presenti in dispensa più una “sorpresa”: alcuni piatti dello chef, che Perbellini preparerà insieme al sous-chef Giacomo Sacchetto, con ingredienti selezionati dal duo gourmet. I vincitori, che avranno sei mesi di tempo per prenotare la cena a domicilio, potranno assistere alla preparazione della cena, chiacchierando con lo chef patron del ristorante pluripremiato Casa Perbellini di Verona. Sei mesi di tempo per consumare la cena dopo l’asta.

 

Gli chef e la solidarietà

Perbellini collabora da anni con l’ong Mlalal per il programma “Mamma” che forma le mamme africane su come selezionare e cucinare gli alimenti del loro territorio, oltre a fornire le materie prime di base per un’alimentazione corretta. Ma non è l’unico chef sensibile ai profondi conflitti che la sperequazione di cibo crea nel mondo, che siano sotto i nostri occhi o lontano migliaia di chilometri. Negli ultimi anni un rinnovato interesse verso le persone in difficoltà ha mosso diversi cuochi nostrani, a partire dai progetti di Massimo Bottura (con l’ultima iniziativa in ordine di tempo a Modena), ma anche quelli di Chef Rubio, gli chef contro la disfagia del Centro Nemo di Milano, le tante iniziative a sostegno delle zone dell’Italia Centrale colpite dal terremoto.

www.charitystars.com

 

 

a cura di Francesca Fiore

Viaggio nelle torrefazioni italiane di ricerca. Ventinovesima tappa: Bugan Coffee Lab di Bergamo

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Una torrefazione artigianale, ma ancora prima un laboratorio del caffè suddiviso fra bar, scuola di formazione, area tostatura e spazio degustazioni. Un locale in cui convergono più anime, tutte finalizzate allo stesso obiettivo: diffondere la cultura del caffè di qualità. La storia di Maurizio Valli e del suo Bugan Coffee Lab. 

Ci sono passioni che vengono tramandate di generazione in generazione e altre che nascono e maturano col tempo. Il bergamasco Maurizio Valli non è figlio d'arte, ma si avvicina al caffè da piccolo, inebriato dal suo aroma. In seguito ha intrapreso la sua ricerca per amore della conoscenza, “per capirne di più della bevanda che consumo da sempre quotidianamente”. E ha iniziato così a interessarsi, studiare, informarsi il più possibile sul caffè e tutto ciò che ruota attorno a questo prodotto e a farne la sua attività. Fino ad arrivare ad avere più locali dedicati al caffè d'alta qualità, e non solo quello. Oggi il tra Bugan Bar e Bugan Lab, il forno Bugan Farina, e l'Ice Lab, il bar all'interno del Palaghiaccio di Bergamo, conta 13 dipendenti.
 
Come nasce l'attività?
Ho aperto la torrefazione con caffetteria nel 2000. L'attività si divide in due macro-aree principali, il Bugan Bar, caffetteria con tavola calda, e Bugan Lab, laboratorio di torrefazione e spazio dedicato ai corsi di formazione e le sessioni di assaggio.
 
Come nasce la tua passione per il caffè?
Quando andavo a scuola, ogni mattina mia madre mi lasciava i soldi per la colazione e così, giorno dopo giorno, fra brioches alla crema e cappuccini, mi sono innamorato dell'aroma del caffè. Ho cominciato a studiare presso la 9bar, scuola di formazione per baristi di Rivanazzano Terme (Milano), con i trainer Andrea Lattuada e Mariano Semino. Mi sono appassionato sempre di più e ho continuato a ricercare attraverso viaggi in piantagione e gare baristi.
 
Come selezioni il caffè per il tuo locale?
Utilizzo solo caffè monorigini e li acquisto direttamente in piantagione oppure da diversi importatori del Nord Europa. A breve andrò con tutto il mio team in una piantagione in Panama a selezionare nuovi chicchi, in particolare sono alla ricerca di un Geisha naturale. E poi vorrei sperimentare nuove forme di lavorazione del caffè e realizzare una miscela per questa realtà, Cafè de Eleta, che vende in tutto il Panama.
 
Quanti siete nel team?
Oltre al Bugan Bar e Bugan Lab, ho anche un forno, il Bugan Farina, e un bar all'interno del Palaghiaccio di Bergamo, l'Ice Lab. In tutto, l'azienda Bugan conta 13 dipendenti.
 
Com'è suddiviso il lavoro?
Io mi occupo del bar la mattina e dei corsi nel pomeriggio. Gian Andrea Sala è il responsabile della tostatura e trainer di roasting, mentre mia sorella  Sonia Valli si occupa del Bugan Lab, e poi c'è Matteo Franzi che gestisce la parte di marketing e comunicazione. Al Bugan Farina ci sono mio cognato e mia madre e infine all'Ice Lab mia moglie.
 
Che metodi di estrazione hai al bar?
Tutti quanti, dal v60 all'aeropress. Quello che va per la maggiore in inverno è sicuramente il v60, mentre in estate è molto apprezzato il cold brew, caffè estratto a freddo.
 
Che corsi tieni nella tua scuola?
Quelli di caffetteria, di tostatura e di analisi sensoriale. Cerco di distinguermi soprattutto per questi ultimi due, che sono più rari in Italia.
 
Fai anche corsi per i consumatori?
Assolutamente sì. L'obiettivo dei vari trainer, baristi e torrefattori secondo me deve essere quello di diffondere la cultura del buon caffè in Italia e creare maggiore consapevolezza fra il pubblico.
 
Come sono organizzati?
Ci sono corsi di primo e secondo livello, aperti a tutti per un massimo di 5 persone alla volta. Si tratta di un'introduzione al mondo del caffè con degustazioni guidate e fondamenta di analisi sensoriale. Le lezioni non sono tecniche come quelle per i baristi e gli addetti ai lavori ma danno comunque un accenno sulla filiera del caffè. Ci sarebbe poi anche un terzo livello che ancora non sono riuscito a sviluppare perché – fortunatamente – le iscrizioni a quello base sono davvero numerose.
 
Quest'anno sei stato giudice ai campionati italiani baristi per la prima volta. Com'è stata questa esperienza?
Unica, emozionante e anche stressante.
 
Qual è stata la difficoltà maggiore?
Giudicare ragazzi che conosco e che frequentano il mio bar. È difficile distinguere il rapporto privato da quello professionale ma ho dovuto farlo per forza ed è stata una bella sfida. Nel momento in cui si sceglie di fare il giudice bisogna completamente resettare le proprie emozioni e concentrarsi solo sulla gara.
 
Come trovi il panorama delle caffetterie specialty in Italia?
In grande crescita. C'è fermento e i ragazzi più giovani stanno lavorando bene. Secondo me fra una decina di anni raggiungeremo l'apice della qualità
 
Qual è il passo in più che dobbiamo fare per sviluppare questo settore?
Domanda difficile. Bisogna puntare sulla comunicazione, ma anche sulla formazione dei baristi. Ci vorrebbe una trasmissione televisiva in grado di dare grande visibilità a questo mondo.
 
Come si può comunicare al meglio il caffè di qualità?
Organizzando più sessioni di cupping – assaggio ufficiale di caffè – aperte a tutti. E poi creando degli eventi rivolti ai consumatori, per allargare la fetta di clientela e soprattutto ampliare questo circuito di appassionati, che è ancora molto ristretto.
 
E in che modo?
Per esempio, qualche anno fa avevo organizzato una gara di moka che ha riscosso un gran successo. È un metodo di estrazione tutto italiano e conosciuto da consumatori di ogni età: in questo modo, si può iniziare a fare comunicazione sul caffè buono partendo da qualcosa che è familiare a tutti.
 
Consigliaci una torrefazione estera da provare.
Sicuramente Bonanza Coffee Roasters di Berlino, bar/torrefazione di primo livello: sono il modello a cui mi ispiro! Professionali, preparati, attenti, scrupolosi: nella loro caffetteria si possono trovare i dettagli che fanno la differenza. E poi c'è il Workshop di Londra, una realtà meravigliosa.
 
Rifornisci anche bar o ristoranti?
Sì, Estratto e Checchi Cafè & Bakery di Brescia, La bottega delle Delizie di Bra e poi la scuola di formazione Workup di Cagliari. Di recente ho iniziato, finalmente, a rifornire anche dei ristoranti importanti come Tenuta Serradesca di Maria Acquaroli.
 
Progetti per il futuro?
Tanti. Ne ho uno molto impegnativo che riguarda la tostatura e l'analisi sensoriali, ma per ora preferisco non svelare nulla.
 
Bugan Coffee Lab | Bergamo | Via C. Quarenghi, 32 | tel. 035 317147 | bugancoffeelab.com/
 
a cura di Michela Becchi
 

Per leggere Viaggio nelle torrefazioni italiane di ricerca. Prima tappa Lelli di Bologna clicca qui

Per leggere Viaggio nelle torrefazioni italiane di ricerca. Seconda tappa: Le piantagioni del caffè di Livorno clicca qui

Per leggere Viaggio nelle torrefazioni italiane di ricerca. Terza tappa: Lady Cafè di San Secondo Parmense clicca qui

Per leggere Viaggio nelle torrefazioni italiane di ricerca. Quarta tappa: Caffè Piansa di Bagno a Ripoli clicca qui

Per leggere Viaggio nelle torrefazioni italiane di ricerca. Quinta tappa: Caffè Penazzi di Ferrara clicca qui

Per leggere Viaggio nelle torrefazioni italiane di ricerca. Sesta tappa: Ditta Artigianale di Firenze clicca qui

Per leggere Viaggio nelle torrefazioni italiane di ricerca. Settima tappa: Bontadi di Rovereto clicca qui

Per leggere Viaggio nelle torrefazioni italiane di ricerca. Ottava tappa: Antico Caffè Spinnato di Palermo clicca qui

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Per leggere Viaggio nelle torrefazioni italiane di ricerca. Decima tappa: Mogi Caffè di Bergamo clicca qui

Per leggere Viaggio nelle torrefazioni italiane di ricerca. Undicesima tappa: Caffè Musetti di Pontenure clicca qui

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Per leggere Viaggio nelle torrefazioni italiane di ricerca. Ventiseiesima tappa: Nero Scuro di Bassano del Grappa clicca qui

Per leggere Viaggio nelle torrefazioni italiane di ricerca. Ventisettesima tappa: Bocchia Caffè di Avegno

Per leggere Viaggio nelle torrefazioni italiane di ricerca. Ventinovesima tappa: Caffettin di Candelù  clicca qui 

Il caffè: glossario essenziale per conoscere il caffè


San Pellegrino Sapori Ticino 2017: alla scoperta della ristorazione ticinese con Le Soste

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Si protrarranno dal 3 aprile al 18 giugno le cene con gli ospiti della manifestazione che valorizza il territorio del Canton Ticino, nelle realtà più prestigiose dell'hotellerie svizzera. Per questa edizione, San Pellegrino Sapori Ticino incontra Le Soste, associazione italiana che riunisce molti dei migliori chef della Penisola. 

L'evento

Cominceranno il prossimo 3 aprile due mesi di calendario serrato per i ristoranti più esclusivi della Svizzera italiana. Da undici anni le realtà gourmet del Canton Ticino animano la manifestazione gastronomica organizzata da San Pellegrino per promuovere il legame tra il territorio ticinese e la cucina d'autore internazionale, con particolare attenzione per gli chef di casa nostra, che partecipano numerosi all'appuntamento itinerante. L'edizione 2017 vede per la prima volta la collaborazione con Le Soste, realtà che raduna alcuni dei più validi cuochi d'Italia.

11 cene per festeggiare gli 11 anni della manifestazione, organizzate in diverse località del Canton Ticino, da Lugano ad Ascona fino a Mendrisio. “Sono certo che gli Chef de Le Soste confermeranno la comune visione di una cucina sempre più etica ma anche la spiccata voglia di sperimentare e la scelta di materie prime d’eccellenza che sono da sempre i marchi di fabbrica della manifestazione stessa”, ha affermato l’ideatore dell'evento, Dany Stauffacher.

Il programma

Si parte dalle serate oltre Gottardo il 3 aprile a Zurigo presso The Dolder Grand, e si prosegue il 5 aprileaBerna al Bellevue Palace;il 10 aprile è la volta de Le Richemonddi Ginevra, dove gli chef ticinesi saranno ospiti degli esclusivi alberghi del gruppo Swiss Deluxe Hotels, un gruppo che riunisce la maggior parte dei migliori hotel cinque stelle lusso della Svizzera. Queste le cene di gala che aprono la manifestazione, a cura di chef del calibro di Lorenzo Albrici, Andrea Bertarini,Salvatore Frequente, Mauro Grandi, Egidio Iadonisi, Frank Oerthle, Dario Ranza, Mattias Roock, Domenico Ruberto, con la collaborazione dei padroni di casa Heiko Nieder, Gregor Zimmermann e Philippe Bourrel. Dopo le prime serate, l'evento itinerante si trasferisce a Lugano, dove Domenico Ruberto ospiterà i colleghi Philippe Bourrel (Le Richemond Geneva), Pierre Crepaud (Le Crans Hotel & SPA) e Patrick Mahler (Park Hotel Vitznau) presso l'Hotel Spledide Royal, per una cena a più mani.

Cominciano invece il 24 aprile gli appuntamenti con gli chef italiani de Le Soste: a inaugurare l'iniziativa Mauro Uliassi, ospite di Claudio Bollini al Seven Lugano The Restaurant. Tema della serata saranno, naturalmente, i sapori del mare, cuore pulsante della cucina e della filosofia dello chef marchigiano, che incontreranno le eccellenze della terra ticinese. Sarà poi la volta dei fratelli Serva del ristorante La Trota di Rivodutri, in provincia di Rieti, ospitati dal Ristorante Galleria Arté al Lago del Grand Hotel Villa Castagnola di Lugano da Frank Oerthle. È il pesce d'acqua dolce il protagonista della serata, prodotto tipico sia della cucina di Lugano che di quella reatina. E ancora Claudio Sadler, Davide Scabin, Giancarlo Perbellini, Pino Cuttaia e altri grandi nomi della ristorazione tricolore. Oltre agli 11 appuntamenti, il calendario della manifestazione si arricchisce di altri eventi speciali, come la serata dedicata alle donne al Ristorante Metamorphosis di Lugano con la chef Patrizia Di Benedetto del Bye Bye Blues di Palermo e Ana Roš, nominata di recente migliore chef donna al mondo dalla World's 50 Best Restaurants. E ancora cena all'insegna dell'abbinamento con i grandi vini di  Château Palmer al Secret Spot di Arvi a Melano, che saranno accostati alla cucina di Alfio Ghezzi della Locanda Margon. E ancora serate dedicate ai prodotti dell'orto, ai giovani chef, e la cena conclusiva al Casinò, tutte con un unico obiettivo: promuovere la gastronomia e il gusto del territorio ticinese.

www.saporiticino.com/

a cura di Michela Becchi

Pasqua nel Regno Unito: hot cross buns e simnel cake

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Solamente due ricette, entrambe dolci, che affondando le proprie radici in tempi antichi: le specialità pasquali in Gran Bretagna sono limitate ma molto gustose. 

Pasqua nel Regno Unito

Assieme al Natale, Pasqua è la principale festività cristiana e segna l'inizio della primavera e la fine del periodo di digiuno quaresimale. Proprio per questo motivo, nella maggior parte dei paesi non solo europei, le tavole nel giorno di festa sono tradizionalmente imbandite con le prelibatezze più succulente, per celebrare l'abbondanza e il piacere del cibo dopo 40 giorni di austerità. Ci sono nazioni, Italia in primis, in cui le ricette variano di regione in regione e comprendono una vasta tipologia di pietanze dolci e salate. Ce ne sono altre invece, come il Regno Unito, in cui le specialità sono più limitate, ma non per questo meno interessanti. Come in tutti i paesi cristiani – cattolici, ortodossi o protestanti che siano – anche in Gran Bretagna vige la tradizione di donare un uovo di cioccolata agli affetti più cari. Usanza che affonda le radici nel significato stesso della Pasqua, quello di celebrare la resurrezione di Gesù: l'uovo rappresenta la nuova vita ed è da sempre il simbolo della festività per antonomasia. Zucchero, marzapane e infine cioccolato: le uova dolci come le intendiamo noi oggi sono apparse solamente il secolo scorso e hanno fatto il giro del mondo.

Hot Cross Buns, fra storia e leggenda

Uova a parte, ogni paese ha poi le sue specialità locali: quelle britanniche, dicevamo, non sono molte: solamente due, e risalgono entrambe al medioevo. La più diffusa delle ricette, esportata poi  anche in Australia, Nuova Zelanda, Canada e Sud Africa è l'hot cross bun, panino dolce speziato ripieno di uvetta e segnato in superficie con una croce, in ricordo della crocifissione di Cristo. Secondo la leggenda, il dolce è nato a St. Albans, città dell'Hertfordshire a sud dell'Inghilterra, per opera di Thomas Rocliffe, monaco del Trecento nell'abbazia di St. Albans. A partire dal 1361 questo dolcetto – inizialmente chiamato Alban Bun – veniva distribuito ai poveri del luogo in occasione del Venerdì Santo. Un'usanza che ebbe breve durata, perché durante il periodo Elisabettiano il direttore dei mercati di Londra ne proibì la vendita: così, gli hot cross buns divennero un prodotto realizzato e consumato solamente nelle mura di casa. Un divieto che – stando alla leggenda – perdurò nel tempo fino al regno di Giacomo I d'Inghilterra (1603–1625): bisogna attendere il 1733 perché i dolci diventino nuovamente di dominio pubblico. È l'almanacco Poor Robin, una pubblicazione satirica del tempo, a dare la prima testimonianza di questa ricetta: “Venerdì Santo arriva questo mese, la vecchia donna corre. Con uno o due centesimi per gli hot cross buns", queste le prime righe scritte al riguardo. Che non fanno che confermare che il dolce, nonostante non ci fossero state altre testimonianze scritte, fosse già molto noto. Lo storico gastronomico Ivan Day lo conferma, “i panini venivano fatti a Londra molto prima del 18esimo secolo, ma se cerchi delle ricette antecedenti a quel periodo non trovi nulla”.

La ricetta: varianti e abitudini di consumo

C'è il pane, come per la Comunione, le spezie, che rappresentano quelle strofinate sul telo in cui è stato avvolto Gesù prima di essere messo nella tomba, e poi la croce. Sono così pieni di simbolismo cristiano”: li racconta così Steve Jenkins, portavoce della Chiesa Anglicana in un'intervista per la BBC News del 2010. Oggi, questi piccoli panini dolci sono disponibili in diverse varianti, da quella al cioccolato a quella alla frutta, e si possono trovare quasi ovunque, dal supermercato ai forni, dalle pasticcerie ai ristoranti. Nella grande distribuzione, sono presenti tutto l'anno ma continuano a essere consumati prettamente durante il periodo pasquale. Soffici e profumati, gli hot cross buns sono apprezzati soprattutto per la loro aromaticità: durante la preparazione, viene infatti aggiunto un cucchiaino di spezie miste (cannella, chiodi di garofano, noce moscata) e poi scorza di limone e frutta secca, e generalmente uva passa. Ottimi a colazione da soli oppure farciti con marmellate e creme spalmabili, il modo più tradizionale per gustarli è tagliarli a metà, scaldarli in forno e spalmarmi con un velo di burro. Per accompagnarli, naturalmente, una tazza di English Breakfast.

Simnel Cake: le origini

Meno conosciuta ma altrettanto gustosa è la SimnelCake, una torta di frutta e marzapane, originariamente preparata durante la quarta domenica di quaresima. Anche in questo caso, non vi è traccia di alcuna testimonianza scritta fino al Medioevo, periodo in cui sono iniziate a comparire le prime ricette. L'origine del termine Simnel non è certo, ma secondo le ipotesi più accreditate potrebbe derivare dalla parola latina simila (farina), ma un racconto popolare vuole che l'inventore della torta sia stato Lambert Simnel, pretendente al trono inglese e uno degli usurpatori che cercarono di rovesciare re Enrico VII alla fine del 15esimo secolo, anche se alcuni dei riferimenti al dolce risalgono almeno a 200 anni prima della sua nascita. Sono state tante nel corso dei secoli le città che hanno rielaborato la ricetta a modo proprio, ma è la variante di Shrewsbury della contea di Shropshire, nella zona a ovest dell'Inghilterra, la più popolare e conosciuta di tutti.

La ricetta: ingredienti e simbologia

Farina bianca, zucchero, burro, uova, spezie dolci, frutta secca, scorza di limone e canditi: sono questi gli ingredienti base della torta Simnel, simili a quelli degli hot cross buns, e comuni alla maggior parte dei dolci anglosassoni. Solitamente (ma non sempre) strutturata a strati, due di pan di Spagna e due di marzapane (o in alcuni casi pasta di mandorla), la Simnel cake è ricoperta da 11 palline di marzapane, in rappresentanza di tutti gli apostoli, tranne Giuda, appositamente escluso. Occasionalmente, si trovano Simnel cake con 12 palline, ma anche in questo caso Giuda resta fuori dal dolce: la dodicesima sta infatti a simboleggiare Cristo con i suoi 11 apostoli fedeli.

a cura di Michela Becchi

Nasce Italian Artisan Wines: “Così vendiamo il vino italiano in Cina”

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Si trova ad Hong Kong, ma è italiana la nuova piattaforma di e-commerce e distribuzione di vino made in Italy. Il suo fondatore ci racconta il progetto e ci rivela come ha esportato il modello milanese Pazzeria in Oriente

Hong Kong è la porta dell'Oriente. Ormai questa frase abbiamo imparato a ripeterla quasi come un mantra, pensando, così, di aver scoperto il segreto per conquistare il mondo con il made in Italy. Ma sicuramente non basta attraversare quella porta per avere ai propri piedi, quasi per magia, il Dragone Rosso. Attraversarla davvero significa starci dentro, salire a bordo di questo hub d'Oriente e da lì studiare mosse e strategie. Lo sa bene Stefano Balsamo, ceo di Zixun China Advisor, società operativa che ha dato vita a diversi progetti. L'ultimo, il più ambizioso, si chiama Italian Artisan Wines e si propone come piattaforma per aiutare le piccole e medie imprese ad esportare e vendere vino in Cina.

Partiamo da una definizione: cos'è Italian Artisan Wines?

In sintesi è la prima piattaforma – e non solo di e-commerce - verticale italiana con sede ad Hong Kong.

 

Per fondarla e seguirne la crescita ti sei trasferito proprio ad Hong Kong, dove hai aperto anche degli uffici. Da che tipo di esperienza vieni?

Mi definiscono un imprenditore sin dalla nascita. Nel tempo si è aggiunta la passione per il food&beverage e sei anni fa ho iniziato il mio giro per il mondo - dagli Usa passando per Londra, fino ad approdare ad Hong Kong - alla scoperta del modello migliore di business da seguire.

 

E cosa hai capito?

Principalmente che il made in Italy, oltre a essere inesauribile, è un vero e proprio movimento, è lifestyle, non solo un prodotto.

 

Però, se parliamo di prodotti hai scelto di lavorare sul vino...

Non solo. Nei mesi precedenti ho lanciato anche dei progetti legati alla birra artigianale: Italian Artisan Beer per la vendita e distribuzione di questo prodotto qua in Cina, e il franchising del locale Pazzeria di Milano, gestito da due ex McDonald's, oggi soci del progetto cinese. Il primo punto vendita lo abbiamo aperto lo scorso anno, la seconda apertura è prevista per i prossimi mesi. Il format mette insieme birra artigianale italiana e prodotti italiani della tradizione street food, come piadine e salumi. A maggio scorso tra investimenti personali e round di partner e investitori abbiamo chiuso con un milione di euro per la fase start-up.

 

Poi è arrivato il progetto vino ...

Già, e per iniziare ho ho disegnato un mio modello di business e cercato le soluzioni ai problemi/errori più diffusi.

 

Che sarebbero?

Primo errore: frequentare le grandi fiere qui in Oriente, pensando di conquistare il mercato, per poi tornarsene a casa carichi solo di biglietti da visita. Invece, bisogna essere presenti sul territorio, proporre il prodotto, educare a certi sapori. Per questo, io in prima persona, ho deciso di trasferirmi qui. Secondo: presentarsi singolarmente. Quante volte abbaiato sentito dire che il vino italiano non fa sistema? Noi ci presentiamo come Italian Artisan Wines e come tali ci proponiamo. Infine, aiutare le aziende non solo a vendere il loro prodotto una volta varcata la dogana, ma aiutarle con le pratiche burocratiche, le documentazioni, le traduzioni e tutta quella parte che serve ad arrivare fin qui.

 

Primissimo bilancio dell'attività avviata.

Dallo scorso dicembre abbiamo lanciato la versione beta del progetto, in due mesi abbiamo venduto 2 mila bottiglie. Intanto, ci siamo strutturati con l'ufficio di Milano e quello di Hong Kong per un totale di 25 impiegati, tra logistica, marketing, ufficio traduzioni e così via.

 

Obiettivi?

Al momento del lancio ci eravamo prefissati di arrivare a 100 etichette entro il primo semestre, ma visto il sempre maggior numero di contatti - oggi siamo a 40 etichette in portfolio (tra cui Cascina Faletta; Negretti; Massimo Rivetti; Tenuta Pescarina; Cosimo Masini; Vinicola Serena; ndr) - direi che possiamo alzare l'asticella delle aspettative.

 

Passiamo al lato pratico. Che tipo di selezione fate?

Non abbiamo parametri dogmatici, ma come dice lo stesso nome della nostra piattaforma - Italian Artisan Wines - puntiamo molto sui vini artigianali, con produzioni non vastissime, ma molto territoriali. Vogliamo dare la possibilità, anche a chi non ha mai avuto accesso a questo mercato, di affacciarsi ad esso, portando la propria storia familiare.

 

Cosa chiedete ad un'azienda per entrare nel vostro circuito?

Parlando in termini materiali: non chiediamo soldi, ma vino. Noi investiamo nella parte burocratica e commerciale, in cambio chiediamo l'invio di un quantitativo – al momento limitato – di bottiglie che andrà a confluire nel nostro magazzino. Il pagamento avverrà in seguito alla vendita, e dopo sei mesi valutiamo assieme quali prodotti stanno andando meglio e in base a questo quali strategie commerciali adottare.

 

Qual è il vostro modello di business?

Ci rifacciamo ai grandi marketplace, come Amazon o Alibaba. Non diventiamo proprietari del vini, ma li mettiamo in vetrina; non abbiamo un magazzino nostro, ma esternalizziamo il servizio; non chiediamo alle singole aziende di pensare alla parte logistica e commerciale, ma ce ne occupiamo in prima persona, dal ritiro del vino direttamente in cantina fino alle pratiche burocratiche per uscire dall'Italia, dalle traduzioni in cinese alle strategie di marketing per vendere il prodotto.

 

Quali strategie ad esempio?

Prima di tutto seminari, incontri, degustazioni. Poi, accordi commerciali che devono accompagnare il prodotto anche al di là della singola vendita online. Da ultimo, sul piatto ci sono gli accordi commerciali con due importanti partner, uno a Shangai e l'altro a Pechino. Infine, roadshow sul territorio, incoming in Italia e realizzazione di video promozionali.

 

Anche Tmall di Alibaba ha puntato molto sulla parte video. Il contatto visivo è, davvero, così importante da quelle parti?

Sì, a patto che si parli il linguaggio locale. Non mi riferisco solo alla lingua – sebbene i video siano tradotti sia in inglese sia in cinese – ma anche a semplicità e immediatezza. Anche le schede tecniche che costruiamo non hanno niente a che vedere con quelle italiane: devono essere meno tecniche, ma molto chiare e didascaliche, parlare di abbinamento e soprattutto non trascurare lo storytelling. La storia delle aziende e del territorio diventa fondamentale.

 

Se ci spostiamo sul lato cliente, chi è il vostro target di riferimento?

Sicuramente non solo clienti occasionali. Non ci interessa la vendita spot, ma puntiamo sulla vendita fidelizzata soprattutto a grandi distributori e ristoratori.

 

Parliamo di ristoranti italiani o cinesi?

Ristoranti cinesi. Dove oggi si beve solo vino locale, francese o cileno. Vogliamo inserirci in questa importantissima fetta di mercato.

 

Per farlo, bisogna anche essere attenti alle cifre. Vi siete posti dei tetti massimi di prezzo?

No, non vogliamo giocare al ribasso, anzi. Un buon Barolo deve essere venduto per quel che vale, non bisogna farsi intimorire dalla concorrenza. Siamo l'anello finale di questa catena che parte dal produttore, il nostro obiettivo è valorizzare i vini, non deprezzarli.

 

Ma come la mettiamo con la concorrenza? Il Barolo non è il Bordeaux, se parliamo in termini di percezione cinese del vino.

Scommettiamo?! Basta saperlo raccontare. Oggi in Cina c'è una borghesia medio-alta assetata di novità. Se fino ad ora qui si son bevuti solo grandi barricati è perché venivano proposti solo quelli, ma i nuovi consumatori sono pronti a fare il salto con altre tipologie di vino: dalle nostre bollicine ai nostri rossi meno tannici. Poi amano molto il vino dolce, stile Moscato. Tutto dipende da noi.

 

Qual è il vostro rapporto con il gigante dell'e-commerce cinese Alibaba?

Siamo in contatto con il gruppo ed entro luglio anche noi sbarcheremo sulla loro piattaforma Tmall con una nostra vetrina.

 

Lasciamoci con una provocazione: come mai una cantina italiana dovrebbe decidere di affidarsi a Italian Artisan Wines e non direttamente ad Alibaba?

Perché Alibaba non potrebbe gestire tutto il sistema: è una vetrina autorevole, ma non può seguire il prodotto dall'arrivo alla vendita. Oggi, in un mercato difficile e competitivo come quello orientale, bisogna saper essere duttili, passando dall'off line all'online. Noi rappresentiamo tutto questo: siamo un ponte culturale e commerciale.

 

 

a cura di Loredana Sottile

 

 

Questo articolo è uscito sul nostro settimanale Tre Bicchieri del 2 marzo

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Santo Palato a Roma. La giovane cuoca Sarah Cicolini riscopre la tradizione romana

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Aprirà i battenti tra qualche settimana la trattoria d'ispirazione futurista a poca distanza da piazza Re di Roma, quartiere Appio Latino. In cucina c'è Sarah Cicolini, dalla brigata di Roy Caceres a Stefano Callegari, ora alla prima prova solista. E il menu è un omaggio (divertito) alla tradizione romana più autentica. Ecco come sarà. 

Sarah Cicolini e la cucina. La passione di una vita

Medico mancato, e quell'attitudine da secchiona sui banchi di scuola che a distanza di dieci anni riserva alla passione di sempre, quella per il cibo. Lei si chiama Sarah Cicolini, oggi di anni ne ha 28, gli ultimi trascorsi intensamente in cucina, da quando ha capito che la ristorazione sarebbe stata la sua vita. L'unica possibile. Autodidatta di talento, dunque, nei confini di una storia di formazione in cui si rintracciano coordinate precise: l'infanzia nella campagna abruzzese, a Guardiagrele - “un paese di cuochi in un territorio molto vocato all'enogastronomia” - in cucina con la nonna a giocare con i ritagli di pasta; e poi i pranzi della domenica, quelli conviviali, con la frittata di rigaglie di pollo, e la capoccetta d'abbacchio “che si mangiava solo se l'animale l'aveva ammazzato qualcuno che conoscevi”. Il liceo classico e una buona predisposizione allo studio, l'arrivo a Roma, per frequentare l'università: “Studiavo medicina e intanto per mantenermi facevo la chef a domicilio. D'estate tornavo in Abruzzo, per arrotondare facevo le stagioni sulla costa, negli hotel di Ortona. Il mio primo approccio con la ristorazione, una dimensione semplice, ma formativa”. E pian piano una consapevolezza che cresceva, la frattura definitiva con il percorso professionale che la famiglia aveva immaginato per lei. Succedeva qualche anno fa, Sarah ripartiva da zero, facendosi carico di un ruolo che non aveva mai sperimentato prima, quello della pecora nera.

Da Roy Caceres a Stefano Callegari

Una storia comune a tanti, che si trasforma nella voglia di farcela. Qualcosa da dimostrare a se stessa, che un futuro nella cucina, da chef, l'aveva sempre sognato: “Avevo bisogno di farmi una formazione, ho girato tante cucine. Poi sono arrivata da Metamorfosi, nove mesi intesi e bellissimi, per la prima volta lavoravo in brigata. Sono entrata agli antipasti, in poco tempo Roy mi ha affidato i primi. E quando finivo prima aiutavo con i dolci”. Gli stimoli sono moltissimi, “si entrava in cucina alle 9.30, alla fine del servizio, dopo cena avevi condiviso fatica e rigore, ma anche tutte le sperimentazioni di una cucina in grande fermento”. Un'esperienza importante, che rafforza la tenacia di Sarah. “Però volevo fare altre esperienze, capire se la mia strada doveva essere quella dell'alta cucina, in grandi brigate, o se avevo margine per provare a mettermi in gioco”. E quando un anno fa arriva la chiamata di Sbanco (il progetto di pizza, birra e cucina di Marco Pucciotti, Giovanni Campari e Stefano Callegari che allora stava nascendo e oggi è ben avviato) la passione per Stefano Callegari gioca un ruolo fondamentale: “Da anni seguivo Stefano come una divinità, a casa curavo il mio lievito madre, lavorare per lui sarebbe stato un sogno. Quando ne ho avuto la possibilità non me la sono fatta scappare”. La storia che segue, fino a qualche settimana fa, è quella di una cucina che asseconda e valorizza l'estro di Stefano e le sue pizze, una collaborazione prolifica che gli avventori del locale di via Siria, quartiere Appio Latino, hanno imparato a conoscere. “Stefano mi ha insegnato molto. Per esempio che non bisogna aver paura di osare: i sapori si devono sentire, perché è la pienezza di gusto che caratterizza la cucina italiana”. Un tassello ancora, quello decisivo: “Ora sono pronta, so cosa voglio fare”.

 

Santo Palato. La trattoria romana di Sarah

Non solo una dichiarazione d'intenti, visto che entro la fine di marzo, tra pochi giorni, Sarah si ritroverà per la prima volta in una cucina tutta sua (in società con Marco Pucciotti e con lo zampino di Cultivar Agency di Alberto Bloise per lo sviluppo del concept), quella di Santo Palato, a piazza Tarquinia. Nella sua rinnovata identità, la giovane chef abruzzese spinge l'acceleratore sulla sinergia per la cucina giudaico/romanesca, e promette di portare in tavola piatti della tradizione ben cucinati, da materie prime selezionate, e senza fronzoli che distolgano l'attenzione dal piacere della buona tavola. Una trattoria come oggi se ne trovano (troppo) poche, insomma, che rivendichi la romanità del quartiere che la ospita, sin dall'ambientazione (su progetto di Michele Marincola e Ivan Spadaccini) informale e persino spartana, mattonelle anni Settanta, sedie Milano, pannelli in legno alle pareti, stoviglie tutte diverse rintracciate per mercatini e rigattieri della città. E una quarantina di coperti in tutto, con due turni di servizio serali (sabato e domenica anche a pranzo). L'insegna omaggia il manifesto futurista, ma vuole reinterpretarlo votandosi al gesto del masticare e a quell'esaltazione dei sapori che sarà il filo conduttore della cucina.

Cosa si mangia. Dai cannelloni alla lingua in salsa verde

Il che significa che il menu si articolerà tra primi della tradizione (“dai piatti stellati torno a fare la lasagna, come quella alle quattro carni con coscio d'anatra”), quattro e cinque secondi secondo disponibilità del mercato - “valorizzerò molto il quinto quarto... La trippa, le cotiche con i fagioli, la lingua in salsa verde, ma anche i brasati, le lunghe cotture della carne” - il carrello dei dolci, dal maritozzo con la panna alla crostata ricotta e visciole. Per le paste la collaborazione d'autore è quella con Mauro Secondi, i formati freschi saranno molti, dal cannellone con la faraona allo spaghettone, ai primi più classici, amatriciana, cacio e pepe, gricia, che non mancheranno mai. Come anche i rigatoni con la pajata. La carne invece è quella di Roberto Liberati, un sodalizio consolidato, mentre i formaggi arrivano dal Mercato Latino (come molte delle materie prime), selezionati da Francesco Loreti. “L'idea è quella di restare su un prezzo medio che si aggira sui 25-30 euro a persona. Una cucina onesta, gustosa, ben fatta e popolare”. E anche sul versante della cantina Santo Palato promette sorprese: “Abbiamo chiesto a diversi addetti ai lavori e grandi sommelier italiani di indicarci cosa gli piacerebbe bere in un'autentica trattoria romana”. E la carta dei vini sarà il risultato di questi suggerimenti d'autore. Ma si potrà bere anche birra, sette artigianali in bottiglia dal territorio laziale: Pils ritual lab, Pils - Ritual Lab, Apa - EastSideBrewing, Ipa - JungleJuice Bitter - Hilltop, Tripel - ECB, Blanche - Freelions, Saison - Rebel's, Imp Stout – VentoForte. E un cocktail di benvenuto a sorpresa ideato da un celebre barman capitolino, che strizza l'occhio alla miscelazione futurista e alla riscoperta della polibibite: gazzosa, umeshu (vino di prugne giapponese) e una fettina di limone. Servito al tavolo in quartino, in abbinamento allo stuzzichino della casa, pizza bianca e mortazza. Perché una cosa sia subito chiara: da Santo Palato si mangia (e si beve) bene e ci si diverte.

 

Santo Palato | Roma | piazza Tarquinia, 4 a/b | dalla fine di marzo

 

a cura di Livia Montagnoli

Enotica 2017, la manifestazione romana che coniuga vino e eros

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Torna uno dei festival più attesi della primavera capitolina: dal 17 al 19 marzo al Forte Prenestino va in scena Enotica, l'evento dedicato ai piaceri del vino e dell'eros, fra degustazioni, spettacoli e performance. 

L'evento

Giunge alla 7a edizione la manifestazione del Forte Prenestino che si propone di coniugare vino e eros, sempre in nome del libero mercato, quello certificato che fa bene a chi produce e chi consuma. Vini biologici e naturali, prodotti tipici e la cucina di TerraTerra, e poi spettacoli e performance dedicati all'eros per un programma fitto di appuntamenti. La formula è sempre la stessa, quella dichiarata sin dalle origini nel 2004: proporre una manifestazione che “inebria, unisce, avvicina”. Per aiutare il pubblico a riscoprire la sensorialità del gusto, in contrasto con le catene di distribuzione e la produzione industriale. Un evento che fa appello alla più tradizionale delle tematiche legate al vino, il suo potere afrodisiaco. A ospitare Enotica, le Centocelle sotterranee del Forte Prenestino, noto centro sociale romano che si dividerà fra degustazioni vinicole di etichette biologiche e biodinamiche, specialità gastronomiche, mostre, concerti, cinema e dj set. Trasformandosi per tre giorni, dal 17 al 19 marzo, in una sorta di baccanale contemporaneo, dedicato al bere bene e all'intrattenimento culturale. A promuovere i prodotti saranno gli stessi vignaioli e contadini in prima persona, che si impegneranno a diffondere fra i visitatori la cultura del cosiddetto vino critico, di provenienza certificata, che non specula sul prezzo e rispetta l'ecosistema, con l'obiettivo di favorire il consumo consapevole. In nome della trasparenza dei prezzi e della riduzione dell'impatto ambientale, anche sul versante gastronomico, con le proposte dei produttori da diverse regioni italiane e straniere, all'insegna della biodiversità.

Il programma

60 vignaioli, ma non solo: il festival è dedicato anche ad artisti, musicisti, dj e perfomer. Si comincia la sera di venerdì 17 con tre concerti, e si prosegue sabato 18 con lo spettacolo di Lilith Primavera, performer che lavora con il corpo e che si esibirà cantando e suonando il basso, per concludere domenica 20 ancora nel segno della buona musica di vario genere con tre concerti. Ad accompagnare i vini, diverse cucine in degustazione, proposte da più regioni italiane: cartocci di verdura fritta, cresce ripiene di erbe di campo e polpette di ceci dalle Marche, piatti vegetariani, salsicce di cinta senese e cinghiale dalla Toscana, gnocchi e crepes dolci e salate dall'Emilia Romagna, pane e panelle dalla Sicilia. C'è poi Family Kitchen, progetto iniziato nel 2001 da un gruppo di ragazzi italiani che ha deciso di organizzare diverse attività e iniziative nell'ambito sociale e artistico partendo dalla cucina. Per Enotica 2017, questa realtà ha deciso di realizzare una pizza etica, utilizzando ingredienti di produzione propria e naturali. E la lista dei produttori continua, con nomi dal Nord al Sud Italia. Tutti pronti a raccontare la storia del territorio di provenienza e di chi li produce.

Enotica 2017 | Roma | via Federico Delpino | 17-19 marzo 2017 | tel. 06 21807855 | www.enotica.net

a cura di Michela Becchi

Salumi da Re all'Antica Corte Pallavicina. Dalla conservazione ai salumi da pentola: i temi caldi

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Dal 1 al 3 aprile la corte di Polesine Zibello torna a ospitare il raduno di norcini e salumieri italiani patrocinato dal Gambero Rosso. Tanti gli assaggi e gli appuntamenti in programma. Ecco di cosa si parlerà sul Gran Palco del maiale con gli esperti del settore. 

La quarta edizione di Salumi da Re

Il contesto è quello giusto, ospiti dei fratelli Spigaroli e della loro corte rinascimentale, nella campagna parmense che regala alla salumeria nazionale specialità apprezzate in tutto il mondo. E la primavera alle porte aiuta a immaginare che aria si respirerà a Polesine Zibello durante i tre giorni di festa che animeranno il raduno di norcini e salumieri in arrivo da tutta la Penisola, per celebrare un'antica tradizione artigianale italiana.Salumi da Re arriva alla quarta edizione, e l'Antica Corte Pallavicina si prepara ad accogliere un campionario pressoché sconfinato (ma selezionato con rigore per valorizzare solo l'eccellenza) di prodotti di nicchia e grandi specialità norcine regionali. Quando mancano poco più di due settimane all'appuntamento – in programma dal 1 al 3 aprile – ecco qualche anticipazione sugli approfondimenti che coinvolgeranno la platea di addetti ai lavori e il pubblico invitato a partecipare. Perché oltre agli stand che popoleranno la fiera e alla grande festa di sabato sera – la Pork Fest all'insegna di musica, buon cibo, vino, birra artigianale e una golosa amatriciana collettiva – sono molti gli spunti di dibattito che troveranno spazio sul Gran Palco del Maiale. A moderare gli interventi Mara Nocilla, giornalista del Gambero Rosso e curatrice della guida Grandi Salumi d'Italia, accompagnata di volta in volta dagli esperti interpellati per chiarire gli aspetti più insoliti e meno dibattuti in materia di salumeria e produzione norcina.

 

I conservanti in salumeria. Come difendersi?

Si parlerà, per esempio, di additivi e conservanti, quali, quando, quanto, come, perché (domenica alle 12.30) in compagnia del professor Giovanni Ballarini, grande esperto di salumi dal punto di vista storico-letterario e tecnico-scientifico, e di Pietro Baldini, per anni all'Istituto Sperimentale delle conserve  alimentari. Un tema sempre attuale, che Salumi da Re affronta per il terzo anno consecutivo, con la consapevolezza che non solo di salute e piacevolezza del gusto si tratta, ma pure di ritornare sui propri passi, riscoprendo una tradizione artigianale vincolata da tempi di produzione precisi e stagionalità di consumo, quando il salame si consumava a Pasqua, e a seguire in tavola arrivavano pancette, lonze, poi il prosciutto e i salumi stagionati. Oggi le necessità produttive impongono tempi più rapidi, e un ricorso in alcuni casi massivo a conservanti e additivi, molti dei quali – i nitriti soprattutto – nocivi per la salute. Come difendersi? Si parlerà di soglie di tolleranza e compromessi, come il ricorso alla vitamina C (E 300) per bilanciare l'utilizzo dell'E 250, il nitrato di potassio, di cui la vitamina neutralizza la pericolosità.

 

Salami. È possibile farli più buoni?

Ma l'accoppiata Ballarini/Baldini sarà protagonista anche nel pomeriggio di domenica 2 aprile, alle 15, quando sul palco si passerà in rassegna la filiera produttiva del salame al giorno d'oggi. È possibile farli più buoni? Di fronte a una produzione vastissima, tra dop, igp, varianti di campanile e qualche faciloneria di troppo, oggi il salame ha bisogno di essere riscoperto e tutelato, specie perché spesso si utilizzano tagli sbagliati (la lavorazione corretta richiederebbe suini adulti e carni che contengono una ridotta percentuale d'acqua) e troppi conservanti per sopperire alla qualità del prodotto. Insomma, una sfida che il palco di Salumi da Re vuole lanciare a tutti i gli addetti ai lavori presenti.

 

I salumi da pentola. Una tradizione antica

Ma ci sarà spazio anche per riscoprire la storia più antica e popolare della tradizione salumiera, con i salumi da pentola nello spazio i Tradizionali ritrovati. Protagonisti sul palco cotechini e zamponi, salama da sugo e cappello del prete, specialità con cui si è persa la consuetudine fatta eccezione per qualche realtà regionale al Nord. Interverrà Valentino Bega, esperto di turismo enogastronomico dell'Emilia Romagna.

E poi ancora, una grande novità come la Gara di taglio del prosciutto, a mano e a macchina, nella mattinata di domenica; un grande momento di spettacolo che premierà i tagliatori più abili, con la giuria presieduta da Guido Porrati della gastronomia Parlacomemangi di Rapallo.

Ma si berrà anche bene, grazie alla selezione curata da Giorgio Melandri, per gli abbinamenti con i vini del territorio, e Mauro Pellegrini, per l'abbinamento con le birre artigianali.

Ospite d'onore anche Max Mariola, volto di Gambero Rosso Channel, presidente della giuria per il concorso Teen Ager Panino, durante la prima giornata di manifestazione: in sfida i ragazzi degli istituti alberghieri che si cimenteranno con l'ideazione di un panino farcito con le specialità della salumeria italiana.

 

 

Salumi da Re | Polesine Zibello (PR) | dal 1 al 3 aprile | www.salumidare.it

Milano, via libera dal Comune ai nuovi food truck ecologici

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Favorire lo street food di qualità, permettendo a milanesi e turisti di riscoprire una tradizione antica, legata alle abitudini alimentari regionali e locali. Annunciato alla fine del 2016, è stato appena pubblicato il nuovo bando che permetterà di distribuire 50 nuove licenze per food truck ecologici nel capoluogo meneghino. Ecco i dettagli.

I nuovi food truck ecologici di Milano

50 nuove licenze per furgoncini, ape car e camioncini rigorosamente ecologici, che potranno circolare all’interno dei confini cittadini vendendo le proprie specialità per 5 anni. Non è una mossa una tantum, ma un’iniziativa che fa parte di una precisa strategia dell’amministrazione meneghina, iniziata con Expo e proseguita con un anno di sperimentazione sul suolo di Milano. Adesso arriva la “chiamata alle armi” definitiva: la modifica del regolamento per la somministrazione di cibi e bevande in area pubblica è stata appena approvata dal consiglio comunale con 36 voti favorevoli e un solo astenuto, prima che il nuovo bando di assegnazione delle licenze sia pubblico. “Oggi lo street food rappresenta una modalità di commercio ampiamente diffusa nelle capitali europee e mondiali che a Milano vogliamo si caratterizzi per offerta di qualità con mezzi ecologici” ha spiegato Cristina Tajani, assessore al Commercio di Milano.“Come amministrazione vogliamo incentivare quella che non è solo una scoperta dei gusti e dei sapori della nostra tradizione ma anche, e soprattutto, una occasione di lavoro per molti giovani che nello street food hanno trovato la propria opportunità commerciale e occupazionale"

 

Le regole del bando

Sono diversi i criteri a cui i nuovi trucker dovranno adeguarsi per far parte della futura squadra di furgoncini milanesi. La prima è evidente: i mezzi di locomozione dovranno essere eco friendly, con trazione a pedali o assistita e a motore elettrico. Che siano tricicli o quadricicli, dovranno avere una veste grafica univoca, riconducibile esclusivamente all'assegnatario e una dimensione massima di 3,60 metri di lunghezza per 1,70 metri di larghezza. I mezzi potranno operare in tutta la città, fatta eccezione per alcune strade e piazze che rimangono escluse dalla mappa per il loro contesto urbano o per il valore artistico-monumentale. Rimarrà escluso l'asse commerciale Piazza San Babila/Castello: via Beltrami, largo Cairoli, via Dante Alighieri, piazza Cordusio, via Mercanti, piazza del Duomo, corso Vittorio Emanuele II e piazza San Carlo. I trucker potranno lavorare anche in caso di mercati o fiere, ma con una distanza minima di 500 metri.

 

Il menu e le modalità di partecipazione

E il cibo? Sono poche (ma buone) le regole date a coloro che presenteranno domanda per ottenere la licenza da trucker. Viene favorito il cibo di alta qualità e caratteristico della cultura italiana e lombarda in particolare: ciò non toglie che l’offerta gastronomica di strada sarà tarata su proposte provenienti da tutto il mondo. Anche le materie prime utilizzate e i prodotti dovranno rispettare elevati standard e saranno naturalmente ben accetti Dop, Igp, Stg, Pat.

Per quanto riguarda la partecipazione nello specifico, il Comune di Milano ha annunciato che nei prossimi mesi arriverà anche il bando pubblico per assegnare le nuove 50 autorizzazioni. Per i 28 operatori che invece hanno partecipato alla fase di sperimentazione, le attuali autorizzazioni saranno prorogate fino all'approvazione delle nuove graduatorie.

www.comune.milano.it

 

 

a cura di Francesca Fiore


I corsi di cucina naturale di Walce Onlus alla Città del gusto di Torino

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Il corso di cucina naturale, promosso da Walce Onlus, è dedicato a chi si trova ad affrontare la malattia tumorale come malato o come familiare. I prossimi appuntamenti sono il 21 e il 28 marzo alla Città del gusto di Torino.

Walce Onlus

Nata nel 2006, Walce - acronimo di Women Against Lung Cancer in Europe (Donne Contro il Tumore del Polmone in Europa) - è un'associazione per la lotta contro le neoplasie toraciche, con l’obiettivo di sensibilizzare la popolazione femminile rispetto all’aumento di incidenza e mortalità del tumore del polmone anche tra le donne. Concretamente Walce informa, educa e supporta i pazienti affetti da questa patologia durante il percorso di malattia e realizza campagne nazionali di prevenzione primaria e di sensibilizzazione rispetto ai danni arrecati dall’abitudine tabagica. “L’idea di fondare questa associazione per i pazienti nasce da un’iniziativa italo-spagnola” spiega la dottoressa Silvia Novello, Presidente dell’Associazione. “La dottoressa Enriqueta Felip e io facciamo parte del Comitato Scientifico di una ben consolidata associazione americana creata alcuni anni fa da un gruppo di oncologhe statunitensi. La National Lung Cancer Partnership conta ormai molti soci e sostiene programmi di ricerca ad alto valore scientifico. L’esigenza di una associazione europea nasce dalla necessità di creare un gruppo europeo che meglio rispecchi le caratteristiche della popolazione e si avvicini al fabbisogno dei pazienti”. Seguendo queste premesse ogni anno organizzano una serie di corsi dedicati alla cucina: “Oggi più che mai sappiamo che la nostra salute è anche e soprattutto una questione di alimentazione ed è noto come possa influenzare l’insorgenza dei tumori attraverso numerosi meccanismi. Ricordiamo, fra i principali: la presenza di sostanze cancerogene nei cibi, la formazione di sostanze cancerogene nella cottura, sostanze pro-ossidanti che favoriscono la formazione di N-nitroso composti nell'intestino e in generale la produzione di radicali liberi”.

La nutraceutica

Di contro il mondo scientifico ha dimostrato con certezza non solo gli effetti nocivi dell’alimentazione moderna ma anche quelli preventivi e talvolta terapeutici dei cibi. In alcuni alimenti, per esempio, sono presenti sostanze antiossidanti, che proteggono il DNA dai radicali liberi e prevengono l’attivazione metabolica di vari cancerogeni. O addirittura sostanze che intervengono nella riparazione del DNA stesso. E ancora, vi possono essere dei promotori della differenziazione cellulare e della proliferazione cellulare; degli inibitori dell’angiogenesi (formazione di vasi sanguigni: le masse tumorali sono in genere più ricche di vasi di un tessuto normale) o dei fitoestrogeni in grado di legarsi ai recettori degli estrogeni ed espletare così attività biologiche di tipo estrogenico o antiestrogenico: grazie alla loro struttura chimica simile agli ormoni femminili, nella donna sono in grado per esempio di legarsi ai recettori per gli estrogeni. Il loro impiego viene perciò proposto nei disturbi legati all'arrivo della menopausa, come alternativa naturale alla terapia ormonale sostitutiva. In questi casi si può tranquillamente parlare di nutraceutica, un neologismo (da “nutrizione” e “farmaceutica”) coniato dal dottor Stephen L. DeFelice nel 1989. Che traslata nella vita di tutti i giorni si trasforma in cucina naturale.

La cucina naturale

I risultati ottenuti dagli studi di questi ultimi decenni giustificano la raccomandazione condivisa da varie agenzie nazionali e internazionali di promuovere la modifica dell’alimentazione moderna tenendo conto di ciò che scaturisce da tutta questa evidenza scientifica. È dalla consapevolezza di questo semplice fatto che nasce la cucina naturale”. Una cucina consapevole, alla quale oggi viene riconosciuto un ruolo fondamentale nella prevenzione primaria delle patologie moderne. “L’alimentazione è importante per tutti, ma con obiettivi diversi e se per la persona sana gioca un ruolo preventivo, e quindi sul lungo termine, per chi è in trattamento oncologico la dieta è primariamente finalizzata a mantenere un buono stato nutrizionale, che consenta di effettuare le terapie oncologiche riducendo gli effetti collaterali e migliorando la qualità di vita”. Partendo da queste premesse, l’Associazione Walce è impegnata in diverse attività educative e di supporto per pazienti affetti da tumore polmonare e loro familiari. E dal 2012 organizza corsi di cucina naturale. Le lezioni, nate dai desiderata più volte manifestati dai pazienti (poiché una nutrizione adeguata può essere minacciata da alcuni sintomi del tumore e dagli effetti collaterali del trattamento che possono interferire rendendoli spesso inappetenti) e dai familiari (che si trovano in difficoltà nel cucinare cibi adeguati alla persona in cura) quest'anno si tengono alla Città del gusto di Torino il 21 e il 28 marzo.

I corsi alla Città del gusto di Torino

I corsi, pratici e rivolti a 20 persone, sono tenuti da Giovanni Allegro, chef specializzato in cucina naturale che insegna anche presso la Cascina Rosa, la scuola di cucina preventiva della Fondazione IRCCS Istituto Nazionale dei Tumori di Milano. “Il suo compito è insegnare a coloro che partecipano alle lezioni come preparare un menu completo che aiuti il paziente ad affrontare al meglio le cure chemio – radioterapiche e soprattutto i giorni successivi a quello del trattamento, quando si avvertono più forti gli effetti secondari”. Lo chef propone quindi tecniche, regole, indicazioni e accorgimenti utili e aiuta a conoscere le proprietà nutrizionali dei diversi alimenti. Gli incontri prevedono a fine serata una degustazione collettiva di quanto cucinato.

 

Corsi di cucina naturale | Città del gusto | Torino | Corso Stati Uniti, 18 a

Per maggiori info: www.womenagainstlungcancer.eu

 

a cura di Annalisa Zordan

 

 

Apre a Roma All'Oro e The H'All Tailor Suite. Riccardo Di Giacinto e Ramona Anello presentano il progetto

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Riccardo Di Giacinto e Ramona Anello hanno aperto il loro hotel con annesso ristorante a Roma, a pochi passi da Piazza del Popolo. Vi mostriamo il The H'All Tailor Suite – All'Oro.

Raccontiamo con un video l'impresa di Riccardo Di Giacinto e Ramona Anello, di cui vi abbiamo già parlato qui. Ramona, responsabile di sala, mostra tutte le accortezze pensate appositamente per i clienti del ristorante e gli ospiti dell'hotel. Dall'innovativa tovaglia pensata per non rinunciare alla classicità del tessuto, che ricopre la tavola e al tempo stesso evita l'effetto pesante delle tovaglie lunghe, al porta borse incassato direttamente nelle poltrone presenti in sala. Dalla carta dei cuscini a quella dei sigari per chi avrà la fortuna di risiedere nella suite con terrazzo. Riccardo, lo chef, mostra i piatti nuovi del menu. A cominciare dal colorato aperitivo. In questi giorni il ristorante ha riaperto a Roma dopo anni di lavori in corso.

 

The H'All Tailor Suite – All'Oro | Roma | via Giuseppe Pisanelli, 25 

a cura di Annalisa Zordan

videomaker Francesca Naccarato

ph di Andrea Di Lorenzo

 

Cantina Argiano di Montalcino. Quando la nuova proprietà rispetta la tradizione

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Argiano a 4 anni dal cambio di proprietà (oggi in mano a un magnate brasiliano) è in piena forma. Nessuna trasformazione, nessun tradimento della sua storia. Perché esistono anche proprietà illuminate che, pur acquisendo con la forza economica antiche realtà, ne rispettano e valorizzano le caratteristiche.

"Vorrà dire che sarà sempre carnevale...". Così si sarebbe potuto sintetizzare lo scetticismo e la diffidenza che pervasero Montalcino all'indomani dell'ufficializzazione del cambio di proprietà di Argiano, da Noemi Marone Cinzano al Leblon Investment Fund Ltd capitanato da AndrèSantos Esteves, finanziere brasiliano nella "rich list" di Forbes. Era la primavera del 2013 e si sospettava l'arrivo del miliardario di turno pronto a sfruttare l'unicità del Brunello e il suo prestigio: uno squalo in piscina. Ma in questi quattro anni le cose non sono andate così.

Esteves ha misurato le sue presenze ad Argiano, ha scelto di entrare con discrezione, si è mosso “sotto traccia” e col passo del lungo termine. Due le parole chiave della nuova strategia: rispetto, per la storia plurisecolare di Argiano, per quella terra così speciale; e valorizzazione, delle proprietà, del suolo e delle persone. Un approccio intelligente, affatto scontato, tutt'altro che predatorio e che dimostra anche di aver capito due cose essenziali di Montalcino che sfuggono ai più, ovvero che "contailmodo",e che capitali e conoscenze tecniche sono importanti ma nella terra del Brunello non bastano per riuscire.

Montalcino

Montalcino

Quella diffidenza Montalcino è come se la conservasse da quasi cinque secoli. I colli che oggi sono Patrimonio dell'Umanità a metà del sedicesimo secolo furono l'ultimo riparo della Repubblica di Siena alleata dei francesi contro l'assedio dei Medici alleati degli spagnoli, che poi prevalsero.

"Gloria a te, Montalcino ultima e forte rocca di Siena ed ultima minaccia, ribelle eroica che chiudesti in faccia al mediceo ladron l'ultime porte": questo è inciso nella lapide dentro la Fortezza al centro del paese. È come se la terra avesse memoria del tradimento delle speranze subìto da parte della Francia: solo un intervento di soccorso di Enrico II avrebbe potuto proteggere Siena, Montalcino e le guarnigioni francesi dal giogo degli spagnoli e dei fiorentini; intervento che non arrivò. Un dolore stemperato con le generazioni ma è come se nel tempo si fosse trasformato in diffidenza per chi non è indigeno.

E poi c'è la questione dello stile. Montalcino è sensibile ai modi, apprezza misura e discrezione, eleganza di comportamento; è prudente, non si concede con facilità. Montalcino non apre se suoni il clacson di una macchina rumorosa come una discoteca; ti accoglie se scendi, vai a bussare e chiedi permesso.

 

Argiano e le scelte in fatto di agricoltura

La potenza finanziaria della nuova proprietà sottolinea anche un'altra cosa. Un'azienda vinicola a Montalcino, magari anche con un agriturismo è certamente un'opportunità di profitto; ma se chi compra è solito a ben altri numeri rispetto a quelli del vino e gli investimenti e i profitti delle altre sue attività hanno dai tre ai sei zeri in più, si comprende la vera ragione, il vero movente dell'operazione Argiano, ovvero il prestigio che si riceve nel possederlo. Qui si parla di origini etrusche prima e romane poi; il nome deriva da Ara Jani, il leggendario tempio in onore del dio Giano, la divinità bifronte con le due teste in direzione diametralmente opposta a simboleggiare il passato e il futuro, lo sguardo indietro per mantenere il contatto con storia e radici e quello in avanti, quello della visione. A questo dio è anche dedicato il primo mese dell'anno, Gennaio, che rappresenta l'inizio di un nuovo ciclo, del futuro.

Per il nuovo ciclo la proprietà sembra volersi rifare al dio Giano: il segreto di un grande futuro in un grande passato. Due sono le dorsali principali del suo piano: il vino e il turismo, ma prima di tutto il vino.

Quando c'è stato da scegliere come arrivare a fare un Brunello da podio, Esteves ha puntato su una squadra di giovani dell'ultima generazione con idee chiare e nuove, grande competenza tecnica e soprattutto affidandosi alla loro visione del Brunello futuro, ovvero niente chimica e niente mode: solo la buona agricoltura naturale. Già, ma che vuol dire? E perché l'azienda non rientra nella certificazione bio? Francesco Monari, responsabile coltivazioni: "Per noi non è così centrale la certificazione bio; noi facciamo buona agricoltura. Certo, non siamo fuori dal mondo e lo usiamo l'aiuto della tecnologia ma il salto è mentale, ed il cambio di approccio, di mentalità è merito del nostro enologo Alberto Antonini. Consideri che per noi che ci siamo formati negli anni '90 è una rivoluzione a tutti gli effetti, perché siamo cresciuti con la fiducia nella chimica".

 

Quindi la certificazione bio cosa rappresenta per voi, una formalità superata? Poco credibile? Voi siete oltre?

Purtroppo c'è stata e c'è ancora la moda del biologico: certe aziende ci hanno puntato per motivi di etichetta, perché il bio vende, perché i buyers lo chiedono; ma alcune aziende l'hanno fatto più per non restare fuori da un mercato in continua evoluzione, ma senza credere davvero nella filosofia di un nuovo rapporto con la terra. Biologico è uno stato d'animo, un approccio alla vita prima ancora che all'agricoltura; bisogna crederci. Bio vuol dire partire dal suolo, dalla terra. La biodiversità crea equilibrio e l'equilibrio è la culla della qualità.

 

Quali sono i limiti della certificazione bio?

A volte i panel del bio diventano gabbie. Ma non parlo delle dosi massime, parlo di dosi minime. Prenda il rame: più che il quanto conta il quante volte. Ci sono casi, anche frequenti, nei quali basta un terzo della dose minima prescritta per coprire. Anche perché quando piove, che tu abbia dato tre o dieci chili per ettaro, in ogni caso si lava tutto e si deve ridare da capo. Ma il panel non ti autorizza a passaggi più frequenti, magari settimanali, pur rispettando le quantità autorizzate. Alla fine ti trovi a dover fare più passaggi, sempre rispettando i parametri quantitativi; il punto è che li devi registrare come trattamento singolo, quando invece hai dosato in altra maniera, quella giusta però.

 

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Approccio naturale, niente chimica, rivitalizzazione dei terreni, nuove colture come orzo e avena. Ma cerchiamo di capire meglio: il nuovo proprietario, a dir poco esperto di finanza e profitti, che è venuto dall'altra parte del mondo ad investire 50mln di euro solo per rilevare la proprietà, ha scommesso sul naturale sia per alzare la qualità sia per aumentare i profitti? BernardinoSani (CEO): "Sicuramente la nostra strategia commerciale fin dal primo momento ha mirato ad alzare gradualmente il prezzo medio dei nostri vini e quindi anche i profitti. Per far questo era necessario non scendere a compromessi con la qualità e proporre qualcosa di unico con un legame forte con il nostro territorio. In questo il bio ha aiutato molto".

 

Come si concilia l'approccio naturale in vigne di confine con chi non lo fa, come ad esempio per voi che confinate con Sesti e Banfi?

ValoreItalia ci ha dato dei confini precisi dove non possiamo raccogliere come bio perché i vicini non lo sono.

 

Quali sono gli obbiettivi qualitativi e quantitativi che deve raggiungere il capo esecutivo di Argiano?

Nel breve e medio termine stabilizzare i nostri vini e in particolare il Brunello nella short list dei migliori e far crescere il fatturato; nel lungo fare storia. Già oggi Argiano è sempre sopra i 95 punti e col nuovo corso il fatturato è passato da 2,5 a 3,5 mln.

 

Cosa c'è nella sua lista delle priorità?

Stiamo lavorando sempre molto sulla mappatura dettagliata dei vigneti, facciamo "precision farm": i nostri trattori lavorano col GPS di precisione cosicché si possa trattare in ogni momento secondo le effettive e specifiche esigenze di ogni filare. Come ha visto la villa è fase di ristrutturazione, ci sono restauri delicati; un lavoro impegnativo che richiederà ancora mesi. C'è il controllo in cantina, sia quella storica sia quella nuova. I rapporti con l'estero e tutto ciò che comporta un'azienda come questa. Una lista lunga e larga.

 

C'è un lombrico sulla sua scarpa.

Ha visto...? (sorride sornione e soddisfatto)

 

Argiano | Montalcino (SI)| S. Angelo in Colle | tel..  0577 844037| http://www.argiano.net/

 

a cura di Dario Pettinelli

I migliori mieli d’Italia. Delizie dell’alveare di Tornareccio

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Si definiscono “apicoltori nomadi”, perché spostano le api da una zona all’altra dell’Italia alla ricerca di diversi tipi di fiori: i fratelli Carmine e Vincenzo Finocchio hanno preso in mano le redini delle azienda di famiglia quando avevano solo 25 anni e oggi producono mieli pregiati di diverso tipo.

Le origini

Tutto ha inizio nel 1967, quando papà Romualdo Finocchio ritorna dalla Germania e decide di lanciarsi nel settore dell’apicoltura. “La storia della mia famiglia è insolita”, racconta oggi il figlio Carmine,responsabile dell’azienda insieme al fratello Vincenzo, “mio padre aveva messo da parte un po’ di soldi mentre viveva in Germania e al suo ritorno chiese consiglio a degli apicoltori del luogo: era indeciso se comprare del bestiame o delle api”. Alla fine scelse le api, su consiglio dei vicini e dei suoi cugini, gli Iacovanelli, noti produttori di miele in Abruzzo, parenti della madre di Romualdo. “Dopo i primi tempi si è appassionato, ha iniziato a studiare e informarsi sempre di più, migliorando la produzione di anno in anno”. Negli anni ’80 i due fratelli iniziano a lavorare in azienda: “Era un periodo difficile, quello dell’industrializzazione. Abbiamo deciso di continuare sulla nostra strada e puntare tutto sull’artigianato”. Avevano poco più di 20 anni quando da quella piccola produzione iniziale sono passati a gestire circa 800 alveari: “oggi Delizie dell’alveare è ancora un’azienda a conduzione familiare, ma la fetta di clientela si è molto allargata. Vendiamo principalmente in Abruzzo e tanti clienti vengono anche da fuori per acquistare i nostri mieli”.

L’apicoltura “nomade”

Sono Carmine e Vincenzo a tenere in mano le redini dell’azienda, che conta loro due con le rispettive mogli e figli. “Io e mio fratello lavoriamo soprattutto nel campo, mentre per la smielatura, il confezionamento e il resto ci sono le nostre famiglie”. E quando parla di lavoro sul campo, l’apicoltore si riferisce a più terreni: “Siamo degli apicoltori nomadi, prendiamo le nostre api e ci spostiamo per varie zone d’Italia a raccogliere nettare”. Affidandosi al lavoro di alcuni agricoltori di fiducia, che in cambio possono usufruire dell’azione di impollinazione da parte delle api, in uno scambio reciproco e continuo: “A noi servono i fiori, mentre a loro serve la riproduzione delle piante, che avviene tramite il trasporto del polline”.

I mieli prodotti

In questo modo, i due fratelli possono realizzare più tipologie di miele, prendendo il meglio dalle varie zone della Penisola: “in Basilicata facciamo il miele di arancio, in Puglia quello di ciliegio – molto raro – e in Molise quello di coriandolo. Poi facciamo l’acacia, la sulla e il millefiori di montagna qui da noi in Abruzzo”. Ma ci sono anche i mieli di castagno ed eucalipto prodotti con le piante del Molise, “e altri che variano di anno in anno a seconda dell’annata e della disponibilità di fiori e alberi”.

Quello che va per la maggiore? “Da sempre l’acacia, il più classico e semplice di tutti”. Ma perché è così apprezzato? “Probabilmente perché cristallizza molto lentamente e solitamente i mieli liquidi sono più versatili e facili da utilizzare, anche in cucina e in pasticceria”. Il nettare, dunque, viene raccolto in vari terreni, ma tutte le operazioni di smielatura e confezionamento avvengono in azienda a Tornareccio, in provincia di Chieti.

La natura che detta legge

Un’annata disastrosa”: lo abbiamo visto già varie volte con diversi addetti ai lavori e ce lo conferma anche Carmine. Quella del 2016 è una produzione da dimenticare, mentre quella del 2017 sembra promettere bene, “ma è impossibile stabilire con certezza come andrà”. Perché non bisogna mai dimenticare che il mestiere dell’apicoltore – come anche quello del contadino, allevatore e chiunque abbia a che fare con la natura – “è determinato dall’ambiente circostante, dal clima, dal tempo e dal terreno”. E poi dalla tecnica e dalla preparazione. “Ci sono danni e ostacoli che purtroppo non possono essere arginati, non sempre almeno e non del tutto. Alle volte essere bravi non è sufficiente: è la natura a dettare legge”.

Ed è questo il consiglio che Carmine si sente di dare a un giovane aspirante apicoltore: “Ci vuole tanta passione e non bisogna mai dare nulla per scontato. Il fatto di possedere degli alveari non significa automaticamente che si produrrà del miele. Alle volte può non accadere, bisogna essere pronti a fare un investimento significativo”.

Quest’anno, comunque, sembra procedere al meglio: “al momento stiamo raccogliendo il nettare dal mandorlo – che è una produzione davvero limitata – e le altre piante sembrano promettere bene. L’inverno è stato piuttosto nevoso e piovoso e la primavera dovrebbe arrivare al tempo giusto”. Perché è questo il segreto per una buona annata: “le stagioni dovrebbero seguire il loro corso e il clima caldo dovrebbe arrivare gradualmente, come accadeva in passato. Il ciclo originario della natura è quello che permette a tutto l’ecosistema di mantenere il giusto equilibrio”.

Vendita, comunicazione e formazione

Nessun sito internet, solo una pagina Facebook e un indirizzo mail: “Non siamo molto attivi sui social e sul web in generale, ma abbiamo tanti clienti affezionati che si recano in azienda da diverse parti dell’Abruzzo e non solo”. La vendita principale è all’ingrosso, “che resta il nostro punto di forza”, mentre quella in vasetto rappresenta solo il 15% circa. “Si può acquistare esclusivamente nel nostro punto vendita aziendale, non siamo presenti in alcun negozio o bottega specializzata”.

Poca, o meglio, inesistente l’azione di comunicazione, ma questo non ferma il successo dell’azienda: “Siamo un realtà piccola ma siamo riusciti a farci conoscere soprattutto nel nostro territorio tramite il passaparola”. Niente eventi, “tranne la fiera gastronomica principale del nostro paese” e nessun progetto particolarmente ambizioso per il futuro: “Siamo apicoltori, ci piace il contatto con la terra. L’unica cosa che possiamo augurarci è che i nostri figli continuino sulla strada della qualità”. E come loro, anche tanti altri giovani, che i due fratelli si impegnano a formare in prima linea: “Teniamo periodicamente dei corsi di apicoltura insieme ad altri colleghi dell’Associazione Apicoltori Professionisti d’Abruzzo, sperando di poter creare un interesse sempre maggiore in questo settore”. L’azienda è aperta inoltre per gite scolastiche e visite guidate, “siamo una sorta di fattoria didattica, ovviamente incentrata solo sulle api. Non abbiamo altri prodotti, ma i bambini sembrano apprezzare molto il nostro lavoro e sono incuriositi ancora di più da quello delle api”.

Delizie dell'Alveare | Tornareccio (CH) | v.le Santo Stefano, 18 | tel. 0872 868668 | www.facebook.com/Apicoltura-Delizie-dellAlveare

a cura di Michela Becchi

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Le Isole Borromee. Una storia di turismo, sviluppo, imprenditorialità, cultura e paesaggio

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Vicino Stresa, nel Lago Maggiore, le Isole Borromee custodiscono un patrimonio storico-artistico e botanico incredibile. Oggi oggetto di un'operazione turistica capace di rinnovare l'indotto turistico di tutta l'area.

Ci sono isole di quiete e di bellezza, dove l'eleganza è sinonimo di discrezione e atmosfera rarefatta, permeata di storia e di cultura. Sono talvolta isole private, in senso letterale: terre circondate da acqua e di proprietà privata. Non si tratta solo di irraggiungibili paradisi esotici, ne esistono anche vicino a noi, in Italia: piccoli lembi di terra in mare aperto o in acqua dolce. Al Lago Maggiore, per esempio, ci sono le Borromee. E il nome dice già tutto: sono di proprietà del Principe Vitaliano Borromeo erede di una dinastia che oggi sta lavorando per trasformarle in una meta turistica di primo rilievo, sintesi di cultura, turismo, gastronomia, moda. Le isole sono un tesoro paesaggistico e artistico che, da solo, muove l'indotto di tutta la zona di Verbania e Stresa, storico punto di snodo del jet set internazionale che qui transitava richiamato dalla fisionomia tutta villette Liberty e paesaggi lacustri sotto l'ombra del Mottarone. Ma questo ormai non basta. Servono spirito imprenditoriale e sguardo aperto per trasformare queste terre e il loro patrimonio in una realtà produttiva, passaggio necessario per continuare l'incredibile progetto artistico e botanico iniziato nel '600 e completato nel corso dei secoli, che oggi la famiglia si impegna a restaurare, conservare e promuovere con un enorme sforzo economico, in parte sostenuto dai biglietti d'ingresso e le visite guidate alle diverse aree: giardini, palazzi storici, musei.

 

isole borromeeIsola Bella, giardino con lo stemma dei Borromeo

Le isole, i giardini, le montagne

Isola Madre, la più estesa e distante dalla terraferma delle tre, completamente privata, ospita il palazzo (aperto al pubblico dalla fine degli anni '70 del secolo scorso) e un giardino all'inglese con uno dei più antichi giardini botanici italiani, che in ogni stagione regala scenografie mozzafiato con piante esotiche e rare. Isola Bella (mezzo chilometro quadrato) è privata per tre quarti e ospita un palazzo con un magnifico giardino all'italiana di gusto barocco - in armonia con lo stile dell'edificio - composto da 10 terrazze sovrapposte; qui – da 5 secoli - c'è la residenza privata del principe e della sua famiglia, nell'edificio in gran parte aperto ai visitatori. La più piccola delle Borromee è l'Isola dei Pescatori, o Isola Superiore, completamente pubblica, l'unica abitata durante tutto l'anno da una manciata di persone.

 

La Rocca di Angera

Ma non finisce qui, sempre di proprietà dei Borromeo ci sono la Rocca di Angera, monumento di epoca medievale che domina il paese e il lago e ospita il Museo della Bambola e del Giocattolo, e il suo giardino anch'esso di ì stile medievale. A questo si aggiunge l'area del Mottarone, meta di appassionati di sport invernali ed escursioni in bici o a piedi, che gode di un panorama a 360gradi sul Lago Maggiore e il Lago d'Orta e che si raggiunge in funivia da Stresa o con la strada privata Borromea. Qui c'è un progetto di recupero di casolari e strutture per integrare l'offerta legata agli impianti sciistici di proprietà dei Borromeo.

 

Isola BellaIsola Bella. Il Palazzo

Il concetto di museo diffuso e l'evoluzione dell'ospitalità

L'idea di fondo di Vitaliano Borromeo è incrementare il turismo, la permanenza e la spesa media di ogni visitatore creando un ventaglio di offerte, tutte qualitativamente valide, che permettano di trasformare questi luoghi in esempi di imprenditoria meritoria. “Stiamo spingendo per una evoluzione del concetto di museo in Italia” racconta“cercando di trasformarlo in qualcosa di più ampio rispetto alla parte strettamente museale rappresentata dal castello e le isole” dice, spiegando quale è l'obiettivo: “offrire un'esperienza emozionale, capace di spostare le persone”. E molta parte di questo programma passa attraverso lo shopping, l'enogastronomia e la valorizzazione del made in Italy. Ma parte con la ricezione: c'è in cantiere un albergo diffuso che si sta sviluppando passo passo “è un progetto in divenire. Stiamo preparando appartamentini nel vecchio villaggio dei pescatori su Isola Bella”. Un'iniziativa che in più permette di salvaguardare gli edifici, altrimenti destinati all'abbandono. “Bisogna dare loro una ragione economica” con un ritorno che renda possibile la necessaria manutenzione di tutte le strutture. “Oggi ci sono 2 appartamenti e 5 o 6 casette” spiega “ed esistono anche altre possibilità per pernottare, per esempio sull'Isola dei Pescatori ci sono due alberghi e delle casette”. Ma il progetto è ancora più ambizioso, con l'obiettivo di prendere in gestione un albergo con un ristorante gourmet che sia di richiamo per il turismo enogastronomico. “Non abbiamo ancora individuato i partner” continua “mi piacerebbe trovare un giovane chef che abbia voglia di mettersi in gioco con noi”.

Isola BellaIsola Bella. Il Giardino

 

La cucina

E proprio la ristorazione è uno degli elementi chiave per alimentare un turismo di qualità, con l'idea di creare un'offerta varia per rispondere a esigenze diverse. Ci si muove su diversi fronti: c'è il bistrot Il Fornello, 25-30 coperti con una proposta raffinata curata da Riccardo Russo, “aperto a tutti, anche al di fuori delle visite guidate” perché le Isole hanno un'anima multiforme: proprietà privata, spazio museale, area pubblica. E come tali accolgono diversi tipi di visitatori, tutti “liberi di gustare cibo di qualità”, senza dimenticare l'apertura di caffetterie che possano completare la vista museale di tutti i siti con “eccellenze italiane, ma in forma più semplice rispetto al bistrot: una proposta fredda, anche perché non possiamo fare cucina. Inoltre pensiamo che il visitatore interessato all'aspetto artistico abbia meno tempo a disposizione, incastrato tra gli spostamenti, il battellino e le visite al museo”.

Nel frattempo, però, a questi spazi ristorativi si aggiunge anche un rifugio in cima al Mattarone con una cucina di montagna: cacciagione, polenta, formaggi e una proposta più ricca adatta alle temperature più rigide. L'opposto di quanto accade sulle isole, dove si punta a una scelta più leggera e sofisticata, con molte verdure e un lavoro attento sulle cotture.

Il ristorantino ospita anche una bottega alimentare:“Ci sono prodotti di eccellenza italiani, a marchio nostro o del produttore” spiega Vitaliano Borromeo“dalla pasta alle marmellate ai condimenti”. Soprattutto prodotti che rappresentano il made in Italy, per ora ancora pochi quelli locali: “soprattutto formaggi e salumi, la maggior parte utilizzata anche dal ristorante”. Per permettere ai visitatori di portare a casa anche un po' di quell'esperienza fatta sulle isole.

Isola BellaIsola Bella. Il Giardino

I visitatori

Circa 600mila: sono tante le persone che ogni anno visitano le Borromee, soprattutto Isola Bella (400mila), Isola Madre (200mila), per chiudere con i 50mila che visitano la Rocca di Angera, sulla costa opposta. Ma questi sono solo i visitatori paganti. “A cui si aggiunge un 20% di persone che, arrivate sulle isole, decidono poi di non entrare negli spazi a pagamento”. Il pubblico è trasversale, con una fetta consistente – più di metà - proveniente dall'estero, principalmente nord Europa. “negli ultimi anni, però, registriamo un ritorno degli americani, come in tutta Italia. E l'aumento dei visitatori dall'estremo oriente”. Quel tipo di turismo che cerca, insieme alle bellezze paesaggistiche e allo svago, anche una proposta che sappia condensare buona tavola, life style ed eleganza tipicamente italiani. Se aggiungiamo che si tratta di visitatori con un'età media abbastanza avanzata (“ma è anche pieno di ragazzini” aggiunge). Non è difficile immaginare come lo shopping giochi un ruolo chiave per alzare il valore del ticket medio del visitatore.

 

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Per incrementare l'attrattiva di questi luoghi i Borromeo stanno portando avanti un'interessante operazione di recupero commerciale di tutta una parte del villaggio, acquisendo botteghe, case e attività commerciali man mano che si liberano. “Appena possibile abbiamo iniziato ad aprire una serie di negozietti con grandi prodotti italiani: gioielli fatti a mano, camicie Bagutta, piumini Herno, oggetti Alessi” a creare una cittadella del design e dello stile italiano. Cercando, ovviamente, anche di fare una scelta studiata appositamente per una clientela in transito e in viaggio: “alcuni oggetti, pur se molto belli, sono troppo pesanti per essere portati in giro”. Ma l'idea è anche di partire con un e-commerce, dove ordinare i prodotti visti sulle Borromee: tessili, alimentari o profumi realizzati su misura “che usano le essenze che si trovano sull'isola” spiega ancora “stiamo lavorando con una società locale che fa proprio questo e segue il progetto dal profumo al packaging, che riveste sempre un ruolo determinante per la vendita”.

 

 

Isola Madre. Il Giardino

 

Turismo ed eventi

Sulle isole il turismo è variegato, “cerchiamo di coprire il più ampio spettro di possibilità di spesa dei visitatori” spiega Vitaliano Borromeo, “cercando soprattutto un rapporto qualità-prezzo corretto”. Dunque giusta qualità e giusto prezzo, questa la formula per evitare il turismo mordi e fuggi. Ma perché far pagare un biglietto di ingresso? “Paghiamo le tasse l'Imu e tutto quel che dobbiamo, abbiamo 100 dipendenti in stagione, e un investimento di circa 2 milioni di euro, ma” conclude “per assicurare una manutenzione di un certo livello, serve anche il pagamento del biglietto”.

Isola MadreIsola Madre

Anche perché non è certo facile gestire un posto del genere: “ci sono vincoli enormi della sovrintendenza” spiega, e aggiunge “qualsiasi cosa facciamo deve essere approvata. Ma” riflette “la maggior parte dei vincoli sono quelli che mi do da solo: Isola Bella è dove abito. Oltre ai visitatori, solo in una parte del palazzo e dei giardini, non voglio affittarla per eventi, come invece accade per Angera” dove ogni anni ci sono 30-40 tra congressi, matrimoni e altri eventi privati, “mentre” spiega“a Isola Bella ospitiamo solo cose di famiglia”.

Tra le iniziative messe in campo anche eventi d'arte e un noto festival musicale e altri appuntamenti culturali, sulle isole e a Stresa. Proprio per destinarla a spazio espositivo è stato recentemente ristrutturata un'ala del castello ad Angera con interventi che assicurano un ambiente adeguato per ospitare senza danni opere d'arte.

 

Isole Borromee | Stresa (VB) | Aperto 7 giorni su 7 dal 24 marzo al 22 ottobre 2017 | http://www.isoleborromee.it/home.html

 

a cura di Antonella De Santis

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